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Con il termine economicismo (o economismo) si intende
la riduzione della vita sociale, politica, culturale ai principi
economici considerati preminenti su tutti gli aspetti della vita
umana.
Il termine implica un atteggiamento critico nei confronti di coloro
che vedono nell'accrescimento economico la soluzione, o quasi, di
tutti i problemi dell'esistenza: una concezione economicistica
questa da estendere non solo a quelli che possono realmente aspirare
alla ricchezza ma anche a quelli che non hanno nessuna o poche
probabilità di arricchirsi. Per ambedue queste categorie
l'economicismo diventa la struttura indeformabile entro cui svolgere
la propria esistenza: gli uni per difendere ansiosamente ciò che si
possiede ed accrescerlo, gli altri per la frequente frustrazione dei
propri sforzi per divenire come i primi.
Uno dei primi critici dell'economicismo è Antonio Rosmini
(1797–1855) secondo il quale il principale problema dell'economia
moderna non è il fattore economico ma quello etico e culturale.
L'aver abbandonato ogni considerazione di valore morale nella
condotta economica secondo Rosmini è dipeso dall'avvento della
filosofia utilitaristica che considera il fine di ogni azione umana
nel conseguimento del vantaggio personale.
Tra gli autori che usarono polemicamente la definizione di
economicismo è da annoverare Georges Eugène Sorel (1847–1922) che
nelle opere La decomposizione del marxismo e Le illusioni del
progresso (1909), su posizioni simili a quelle espresse da Benedetto
Croce (1866–1952), si scagliava contro la classe borghese
isterilita da una visione esclusivamente utilitaristica
dell'esistenza.
Il concetto è stato usato in senso dispregiativo, da Gramsci in
particolare, nei confronti di un certo marxismo di origine
positivistica, accusato di ridursi a semplice teoria economica
escludente ogni motivazione ideale dal progetto comunista,
trasformandosi così in una sorta di evoluzionismo economicistico.