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Scrittore italiano (Firenze 1513-Monselice 1574).
Frate servita e prete senza vocazione, condusse vita irrequieta a Venezia, a Piacenza, a Firenze e di nuovo a Venezia. Amico dapprima e poi ferocissimo nemico di P. Aretino e di L. Domenichi, è un tipico letterato del tardo Rinascimento, non privo di acutezza anche scientifica se, ancor prima di Galileo, difese le tesi copernicane. Suoi maestri di bizzarria e di inventiva verbale sono il Burchiello e i poeti giocosi. Nel corso della sua opera è spesso felice quando la materia si dispone al suo forte risentimento umoristico, alla sua vivacità intuitiva e alla rapidità di un giudizio tagliente.
Molti gli scritti: Le lettere, su impressioni e umori dei personaggi e degli ambienti del tempo; i Pistolotti amorosi, violentemente antifemministi; le Librarie (in due parti, 1550-51), saggi di bibliografia in cui si dà conto delle pubblicazioni contemporanee; La zucca (1551-52), zibaldone di proverbi, lettere, capricci, ecc. di notevole interesse linguistico; Le pitture, I dialoghi sulla musica (1554), la commedia Lo stufaiolo o l'avaro (1559).
Le due opere di maggior rilievo sono i Mondi celesti terrestri ed infernali (1552-53), che è un quadro idillico di una società anarchico-comunista ordinata secondo l'Utopia di T. Moro e con reminiscenze platoniche, e i Marmi (1553), i marmorei gradini del duomo di Firenze, dove l'autore, fingendo di riferire i dialoghi dei suoi concittadini, va esponendo e commentando casi morali, letterari e sociali del tempo, con una schietta e spigliata lingua toscana.
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DBI
di Giovanna Romei
Nacque il 16 maggio 1513da Bernardo di Antonio, forbiciaio, a
Firenze, nel quartiere di S. Lorenzo.
In una lettera del 3genn. 1549, da Firenze, rispondendo a B. Volpe
che lo dice discendente dal poeta Salvino, sodale di Dante, il D.
traccia un'ironica genealogia, in parte fantasiosa, in cui annovera
un ghibellino, due papi (Dono I e Dono II), i rami della famiglia
radicatisi a Pistoia, in Ungheria e a Napoli, e la discendenza
fiorentino-plebea (in Zucca, 1565).
Ospite di Baccio Bandinelli, che nel suo Memoriale lo ricorda come
"grande amico", venne da questo inviato a Siena il 10 genn. 1530per
consegnare alcune importanti lettere: episodio che conferma la
consuetudine dei D., fin dalla giovane età, con il più
qualificato ambiente artistico fiorentino. Nonostante il presunto
avo ghibellino e il millantato dissenso politico del padre, con
conseguente dissesto finanziario, il D. si sarebbe trovato in campo
imperiale, durante l'assedio di Firenze, presso il mediceo Giovanni
Bandini e, più tardi, ad Arezzo presso Luigi Guicciardini,
vicario della città nel 1534-35. D'altronde, il D.
mostrò sempre simpatia per i Medici e Cosimo I, pur
attribuendo loro genealogie irrispettose ("Mendici" nei Marmi) e
mantenendo rapporti con esuli fiorentini repubblicani come Pietro
Strozzi.
In seguito entrò nell'Ordine dei serviti presso il convento
dell'Annunziata, con il nome di fra' Valerio, e lo abbandonò,
trasferendosi a Genova, nel 1540, insieme con lo scultore Giovanni
Angelo Montorsoli: il D. sarà a lungo perseguitato
dall'ossessione del suo status religioso, che spesso si sfoga in
acri e mordaci termini antipreteschi ("l'esser con la chierica puzza
a tutti", lettera all'Aretino del 28 apr. 1543) e gli fa preferire
la confessione di un'irregolarità ("se voi mi fiutaste, non
so nulla di sere, ma puzzo piuttosto di pazzo", lettera a B. Stampa
del 13 nov. 1543). Da Genova passò ad Alessandria, presso il
Trotti, poi nel carnevale del 1542 era a Pavia, presso Giovan
Stefano da Crema, e infine a Milano, da Massimiliano Stampa marchese
di Soncino, fino agli inizi del 1543. Incerta la causa del suo
allontanamento da Milano, forse una lite col frate Giovan Maria
Giglino (lettera a L. Bosso da Piacenza del 1º marzo 1543): nel
gennaio, comunque, il D. era già a Piacenza, centro che
l'influsso dell'Aretino connotava in senso anticortigiano e
antiromano.
G. Betussi, nel Raverta (Vinetia 1544), testimonia della brillante
società dei Landi e degli Anguissola e dell'attività,
tra seria e giocosa, dell'Accademia Ortolana, in cui il D. presto
raggiunse una posizione di favore, tanto da sostituire
temporaneamente B. Gottifredi nella carica di segretario.
Forse giuntovi per studiare diritto su invito del padre, il D.
frequentò invece a Piacenza l'ambiente letterario e mondano,
si legò a Ludovico Domenichi, al Parabosco e al Betussi
appunto, e tentò di allogarsi presso qualche signore, anzi di
"barattarmi per bestia a qualche svogliato signore", come afferma
nella lettera riportata nel Raverta, individuando questa volta nella
corte una via di sopravvivenza. Ma inutili furono i tentativi e le
pressioni presso i cardinali Farnese, Santafiora, Gambara e lo
stesso Giovio, dei cui museo il D. offre in due lettere del luglio
una descrizione "per baia" al Domenichi (in seguito il destinatario
sarà il Tintoretto) e una seria al Landi. Inoltre, l'ambiente
piacentino non era in esatta corrispondenza con l'élite
liberale dell'Accademia, avversata in particolare dal cancelliere
del cardinale Gambara, quel Vincenzo Dini oggetto della feroce
"diceria" IlPelatoio in una lettera a lui indirizzata del 25
novembre. In questo anno il D. prese a convivere con Lena Gabbia, da
cui avrà più tardi, nel 1549 circa, il figlio Silvio e
forse anche una figlia, e pubblicò una Lettera con Sonetti
d'alcuni gentiluomini piacentini per i tipi del Simoneta, presso la
cui stamperia, secondo il Bongi, avrebbe lavorato.
Falliti anche i tentativi presso il vescovo di Piacenza, Catelano
Trivulzio, cui dedicò la prima parte del Dialogo della
musica, ilD. raggiunse l'amico Domenichi a Venezia, dove ebbe i
primi contatti con l'Aretino: vi si trattenne fino al gennaio del
1544, tranne una breve parentesi a Padova nel febbraio dell'anno
precedente. A Venezia uscirono presso lo Scotto con la data del 1544
un volume di Lettere e i Dialoghi della musica, divisi in Canto,
Alto, Tenore e Basso.
Da Piacenza il D. si mosse per un viaggio a Roma, probabilmente
presso il Giovio; il suo epistolario tace dal novembre 1544 al
settembre dell'anno successivo, mese in cui rientrò a
Piacenza. Nel 1545 uscì ancora per lo Scotto l'edizione delle
Lettere, Libro I, riedita nel 1546 dal D. stesso (l'edizione del
Libro II èdel 1547, e l'edizione Marcolini in tre libri
èdel 1552). Non riuscendo ad ottenere la protezione di Pier
Luigi Farnese, duca di Piacenza, il D. rientrò a Firenze e
ricevette una buona accoglienza da parte degli ambienti letterari:
fece parte dell'Accademia degli Umidi e nel febbraio del 1546
divenne segretario di quella Fiorentina, sotto il consolato di
Lorenzo Ridolfi. Nella primavera aprì una tipografia nel
"popolo di San Pier Maggiore, presso l'angolo di via Nuova", in un
momento di crisi per la monopolistica industria editoriale dei
Giunta. Dopo la Chiesa e la corte, il D. cercava, come molti
intellettuali del tempo, una possibilità di emancipazione
nella stampa: via illusoria, poiché nessun letterato ottenne
mai dagli editori sufficiente indipendenza culturale ed economica.
Senza una posizione di privilegio politico, sociale e finanziario,
né appoggi sufficienti, il D. tentava un'impresa impossibile,
la creazione di una stamperia in proprio nel momento in cui la
politica di Cosimo I, per affermarsi come assoluta, applicava la
strategia di un progressivo, totale controllo sugli strumenti del
potere. Incerto dunque il contributo che il D. avrebbe ricevuto dal
duca, anche se a lui si rivolse nel settembre, lagnandosi della
concorrenza dei Giunta e della propria disperata condizione: egli
poteva contare quasi esclusivamente sui colleghi in Accademia che a
proprie spese gli facevano stampare le loro lezioni, e per lo
più con reciproco scontento: gli uni, come G. B. Gelli e N.
Martelli, lamentandosi delle scorrettezze, l'altro del valore dei
testi.
In effetti, le edizioni del D. sono di bassissima qualità e
il loro pregio oggi consiste nella rarità e nella
singolarità di documento storico: icaratterì
pessìmì, e solo italici, glì furono forse
prestati dallo Scotto e nella Diceria del vecchio, in Lettere
(1547), la responsabilità del fallimento viene addossata
all'incompetenza del tìpografo Bartolomeo Zanetti, "vergogna
della stampa". Le difficoltà economiche sono aggravate dal
personale numeroso: un proto, un aiuto, quattro specialisti, un
"gittatore di lettere" (Di Filippo Bareggi), a cui si aggiunge nel
marzo il Domenichi. La produzione dei D. stampatore, compresa tra il
1546 e il 1547, non è chiaramente stabilita a causa
dell'infedeltà al programma editoriale esposto al Ravesla in
una lettera del 10 marzo 1547e dell'inattendibilità di alcune
indicazioni contenute nei cataloghi delle Librarie: ilD. pubblica le
Lettere e un'Oratione del Martelli, i Dialogi e i Capricci del
Gelli, il Gello di P. F. Giambullari, lo Specchio d'amore. diB.
Gottifredi, le Lettioni d'academici fiorentini sopra Dante e
altrì testi. Oltre alle edizioni delle Lettere, il D. stampa
di suo Gli spiriti folletti nel 1546 e le Prose antiche di Dante,
Petrarcha e Boccaccio nel 1547.
Le idee religiose del D. si basavano sulla costante polemica
antimonastica e soprattutto su un desiderio di rinnovamento che non
disdegnava le suggestioni ereticali, senza mai però
accettarle fino in fondo, orientandosi verso l'aspirazione a una
religione semplificata di carità e di amore di stampo
erasmiano. Il D. ebbe contatti con riformati quali Francesco
Linguardo e Lelio Sozzini a Bologna, e alcuni accademici fiorentini
furono essi stessi elementi sospetti, dal Panciatichi al Carnesecchi
a Pietro Gelido da Samminiato; inoltre, nella lettera a B.
Guerrieri, esponente della Riforma a Siena, datata 28 nov. 1546,
presente nella sola edizione del 1547 e riedita dal Grendler nel
1969, il D. espose un'autentica confessione di fede non priva di
elementi luterani, calvinisti e zwingleriani (Del Fante). Negli anni
del suo soggiorno fiorentino si collocano dunque le simpatie
riformate del D., alimentate da un viaggio a Bologna, dalla
frequentazione dell'Accademia (la cui "riforma" da parte di Cosimo
è forse uno dei motivi dell'allontanamento del D. da
Firenze), del Domenichi stesso (che nel 1551 sarà condannato
per la traduzione dell'Excuseà M.s les Nicodèmites di
Calvino), del Gelli (i cui Capricci del bottaio, editi dal D.,
saranno posti all'Indice nel 1562). Infine, con lo pseudonimo di
Celio Sanese, il D. pubblicò Glispiriti folletti - di cui nel
1976 la Del Fante ha curato l'edizione moderna - ragionamento tra
due "spiriti infernali" appunto, Dathan e Abiron, seguito da una
"diceria" di Abiron al "principe delle tenebre" e dalla ristampa del
Pelatoio.
Lo scritto prevede l'edificazione del regno delle tenebre come
"matrice onnicomprensiva della storia" e - motivo che tornerà
nelle opere più socialmente risentite - luogo di assoluta
uguaglianza sia pur raggiunta mediante una generale repressione
(Bramanti).
L'incertezza e l'occasionalità delle posizioni in materia
religiosa, tipica di molti intellettuali dell'epoca, si rintraccia
anche nel D.: esempio ne è la Dichiaratione sopra il XIII
capitolo dell'Apocalisse, edita da Giolito nel 1562 a Venezia ma
già presente in parte nella prima edizione dei Marmi,
Marcolini 1552-53, e che si può leggere in appendice
all'edizione 1981 dei Numeri curata dalla Del Fante.
Dedicata ad Ippolito Capilupi, vescovo di Fano e nunzio a Venezia
nel 1561, forse nel tentativo di ottenerne favori, l'operina si
rivolge a coloro che "caggiono nella luterana heresia" dimostrando
l'errore di "Martino Lutero, animale Mostruoso et dannoso alla Santa
Sedia, et Fede in Christo", identificato in base alle tecniche
cabbalistiche con la bestia del capitolo dell'Apocalisse.
L'interesse per le scienze occulte e la cabbala è costante
nel D., accompagnato - con singolare atteggiamento intellettualeda
un'altrettanto costante irrisione. I vari accenni sparsi nei Marmi e
nei Mondi preludono ai Numeri, scritto che per i temi platonici,
astrologici e cabbalistici si accosta con trasparente ironia al
filone delle compilazioni sui "misteri dei numeri", di particolare
fortuna nel Cinquecento. Dedicato a Giorgio Fuccari, probabilmente
il banchiere tedesco Georg Fugger, il manoscritto risale al febbraio
1562 e l'unica edizione a stampa è quella moderna.
La raccolta delle Prose è spia eloquente dell'autentico
culto, variamente testimoniato nelle sue opere, che il D. nutre per
Dante, Petrarca e Boccaccio, e della sottostante "regionalistica"
convinzione dell'uso fiorentino della lingua, esposta poi nel
ragionamento V dei Marmi e nelle tre lettere "in toscano", "in
lingua volgare" e "in lingua italiana", sempre nei Marmi, in
sintonia con l'indirizzo prevalente in Accademia. Le Prose
contengono tra l'altro la famosa epistola di Dante a Guido da
Polenta datata marzo 1314, riconosciuta falsa soltanto
nell'Ottocento e che il D. probabilmente costruì sulla base
della Vita di Dante del Villani.
"Trovate" di questo genere, autentici pastiches, formanola sostanza
stessa delle opere del D., editore mediocre ma intellettuale
sensibilissimo agli umori del pubblico ("la gente, come la si sente
grattare con qualche sofistico titolo l'orecchia, la s'impania la
borsa subito": Marmi, ragionamento II) e alle urgenze più
intime della propria scrittura ("Tutte le cose che si dicono e che
si scrivono non sono vere. Ma bisogna spregnar la fantasiac lettera
a G. Giolito da Padova, 15 febbr. 1544).
Fallito il tentativo editoriale (il Torrentino sarà di
lì a poco nominato tipografo ducale), dopo brevi soggiorni a
Bologna e Roma, il D. abbandonava Firenze e nell'autunno del 1547
era a Venezia: in, questo periodo intensificò i rapporti con
l'Aretino e con i grandi editori locali, Giolito e Marcolini, con
cui in breve finirà con il collaborare, mentre ruppe con il
Domenichi, rinfacciandogli l'ospitalità concessagli a Firenze
e denunciandolo come antimperiale a Ferrante Gonzaga e al Farnese.
Nel 1548 era di nuovo a Bologna, nel marzo a Firenze e poi a
Piacenza, e curava per l'editore veneziano Pincio la versione
dell'Utopia di Moro condotta da Ortensio Lando. Nel 1549 uscì
presso Giolito il Disegno e presso Pincio la traduzione delle
Epistole diSeneca, ristampata nel 1611 a Milano dal Bidelli,
raffazzonata secondo il Bongi sulla precedente versione del Manilio,
ma non totalmente, come voleva l'ormai ostile Domenichi, sostenendo
che il D. non conosceva "straccio di lingua latina".
Nell'edizione Doni 1547 delle Lettere compare la "diceria"
Ildisegno, indirizzata al Montorsoli, che rivela l'attenzione dei D.
per la discussione in corso sul primato delle arti e l'amore per
questa forma espressiva, testimoniata anche dagli schizzi nei
manoscritti e dalle ricorrenti metafore (come il "capo traboccante
di disegnar con la penna" nella lettera al cardinale Santafiora). Il
disegno viene ancora esaltato nei termini della diffusa valutazione
fiorentina, cenniniano-ghibertiana, ma poi il discorso accentua
l'andamento "ghiribizzoso", come nota la Barocchi, e si avvicina
alle tesi più intransigenti del trattato del 1549. Il primato
del disegno viene sostenuto in nome di Michelangelo per poi
concludere con la "bizzarra" affermazione di un disegno universale
("E tutti gli uomini disegnano"). All'esaltazione retorica del
Buonarroti il D. contribuisce in notevole misura, definendolo "uno
Iddio", nella lettera del 12 genn. 1543 da Piacenza a lui diretta,
e, in una "diceria" detta della "plastica del marmo", ed. in
Piacevole raccolta..., a cura di Laurenti-Gasparoni, Roma 1844, I,
p. 125, è fedele divulgatore della risposta dell'artista al
Varchi, in cui l'arte della scultura viene definita "per forza di
levare".
Il trattato del 1549 - riedito in facsimile nel 1970 da M. Pepe -
inaugura la collaborazione del D. con il Giolito, riprendendo
appunto i termini della questione sul primato delle arti proposta
dal Varchi nel 1547 in irridente polemica con le tesi più
accreditate. Ad animare le sei parti del dialogo sono chiamati la
Natura e l'Arte, poi la Pittura e la Scultura -
concettualisticamente personificata dalla Melanconia di Dürer
(di cui il D. in una lettera all'incisore Enea Vico sostiene di
possedere un'incisione in rame) -, il Pittore (Paolo Pino) e lo
Scultore (Silvio Cosini) e, a dirimere la disputa, il "Cavaliere"
Baccio Bandinelli. Al di là della difesa della scultura,
condotta su basi medievalistiche e neoplatoniche, che fondano
un'idea di disegno come "speculation divina", e da posizioni
antiveneziane e promichelangiolesche, vale il gusto sottile e
innovativo per tecniche considerate "minori", quali il mosaico e
l'oreficeria, per materiali "diversi", come l'avorio, e
l'orientamento verso una considerazione più sociale e
"spettacolare" di alcune categorie come gli "abiti". L'introduzione
delle preziose metamorfosi e del "ghiribizzoso naturalismo"
(Barocchi) dell'oreficeria nel sistema delle arti ben si accorda con
gli interessi "antimanieristici" del D. variamente testimoniati:
dall'ambizioso progetto di raccogliere in quattro libri le
"medaglie" moderne, esposto in una lettera al Giovio e
concretizzatosi solo parzialmente nelle edizioni giolitine del 1550
(La prima parte de Le medaglie, Le medaglie e Le medaglie ... d'oro,
d'argento, di rame et false, s.d.); dall'abbozzo, nelle lettere a
Cipriano Morosini, ad Alberto Lollio, ad Hermes Bentivoglio, di una
"Firenze illustrata" in sei libri - che secondo Pepe doveva essere
invece opera pressoché completa -; dalle "visite" guidate a
Roma, Napoli, Pavia, Venezia, Parma, Mantova, Genova, Padova, in
altre lettere contenute in appendice al Disegno; dal ricorrente
interesse per l'architettura "di interni" (come la descrizione di
usi e funzioni delle "camere" nel dialogo tra Betto Arrighi, Nanni
Unghero e Dattero Giudeo dei Marmi) e in genere "privata" (si vedano
Le ville, Bologna, Benacci, 1566, ricordate già nella
Libraria [1557] e ottimamente riedite nel 1969 dal Bellocchi, in cui
le cinque tipologie architettoniche coincidono con altrettante
"topologie" sociologiche, ideologiche ed esistenziali: "Villa
civile, da signore. Podere di spasso, da cittadino. Possessione di
ricriazione, da mercatante. Casa di risparmio, da artigiano. Capanna
dell'utile, da contadino"); dall'assunzione delle "grottesche" come
"genere" di libera raffigurazione letteraria e pittorica (Ossola)
nelle Pitture, Padova, Perchacino, 1564 (ristampate con il titolo
Ilseme di chimere e castegli in aria, quinto libro della Zucca
nell'edizione definitiva, Venezia, Rampazetto-Sessa, 1565, le cui
inquietanti proposte iconografiche furono utilizzate da Federico
Zuccari e dalla sua bottega nella villa d'Este a Tivoli).
Tra le Pitture proposte dal D. notevole è quella della
"Riforma" degli abiti e usi, quella della "Morte", variazione
allegorica secondo i modi degli "Acabalisti" e di Marsilio Ficino:
nella lettera posta in fine all'edizione 1564 a Gasparo Provana,
signore di Novalesa, il D. fa riferimento ai "tre libri delle mie
imprese", probabilmente il manoscritto correriano Nova opinione del
Doni sopra le imprese amorose e militari, dedicato post 1560 a David
Otto ed edito soltanto nel 1858, che si inserisce in quel genere
letterario a sé che era divenuta la "spiegazione" delle
"iniprese" e di cui si erano già occupati, tra i più
vicini al D., il Giovio e il Domenichi.In questi anni venne fondata
a Venezia l'Accademia Pellegrina, di cui è stata a lungo
dubbia l'esistenza: il D. ne sarà segretario dal 1553 al
1563. Tra i suoi membri egli ricorda Ercole Bentivoglio, Giason
Denores, il Sansovino, L. Dolce e l'editore Marcolini, che
stampò alcune opere del D. e di altri in nome e per conto
dell'Accademia. Gli anni veneziani registrano la massima
produttività del D.: tra il 1550 e il 1554 uscirono presso
Giolito e Marcolini le sue opere maggiori ed egli condusse una vita
passabilmente tranquilla, frequentando a Noale la villa del
Morosini, mecenate dell'Accademia. L'esordio nel 1550, presso
Giolito, fu con un libro "compromettente", La libraria, che il Lando
nella Sferza definisce "gran fallo" (Bramanti). Le due edizioni del
1550 contengono Aa prima parte, repertorio bibliografico dei testi
in volgare a stampa; le edizioni del 1551 e del 1555, Marcolini, La
seconda libraria, riguardano le opere manoscritte di nutti i
cicalatori che io ho veduto a penna e che me n'è venuto
cognizione" (proemio); ambedue le parti ricompaiono presso Giolito
nel 1557 e nel 1558, poi nel 1577 e, presso il Salicato, nel 1580.
Come nota Bramanti, che nel 1972 ha curato l'edizione moderna
dell'opera, l'asistematicità della Seconda libraria conferma
l'ispirazione informale e momentanea anche della Prima, in cui il
criterio di ordinamento alfabetico annulla ogni classificazione di
merito e il realismo del metodo fa di questo primo tentativo di
storia letteraria (Getto) un libro "aperto" ad una collaborazione
ideale con i lettori fin nella sua stessa veste editoriale ("si
lascia alquanto di spazio nello stampar il libro, dove, chi
l'avrà, possi scrivergli sopra e, se gli piacerà,
darmene notizia ancora": Ailettori). La consapevolezza della
novità della materia e delle potenzialità progressive
dell'oggetto-libro non salvaguarda però il D. da certa
irrazionalità che gli sarà rimproverata soprattutto in
sede settecentesca. Il repertorio dei manoscritti, inoltre, si pone
in evidente polemica con il lavoro letterario stesso ("troppi mi
paiono i libri che si veggono" si legge nel proemio
significativamente dedicato "A coloro che non leggono") e più
esplicitamente come opera fantastica, "sognata", con cui inutilmente
si scontra chi vuol distinguere tra i riferimenti gli autentici
dagli inventati. Da notare che il Foscolo riteneva la Libraria un
esempio di letteratura periodica, benché definisse il D.
ignorante e arrogante.
Sempre presso Giolito uscì nel 1550 La fortuna di Cesare,
"libro dappoco" secondo Bongi, a fine encomiastico: la seconda
dedica è indirizzata a Cosimo 1, in cui tra ironia e
serietà il D. si appella alla teoria di Pitagora delle
successive incarnazioni dell'anima per rintracciare quella di Cesare
e Augusto in Alessandro e Cosimo de' Medici. Fu ristampato nel 1611,
in Milano, presso gli eredi di Agostino Tradato, e nel 1637, in Roma
ad istanza di Pompilio Totti. Oltre alle edizioni delle Medaglie,
dello stesso anno è Sopra l'effigie di Cesare,
"dichiaratione" sull'incisione di Enea Vico, che fu ristampata nelle
Foglie della Zucca, 1552, e poi a Londra nel 1868.
Di data incerta, probabilmente dello stesso anno, sono Le stanze
d'amore alla villanesca, edite a Bologna da Leonardo detto il
Furlano, che ricompariranno nelle edizioni giolitine 1552 e 1558 dei
Pistolotti amorosi con il titolo di Stanze dello Sparpaglia alla
Silvana sua innamorata: mediocre rimatore nei versi sparsi nelle sue
opere, tranne proprio in queste stanze, il D. protesta una
"regionalistica" passione per la poesia dei grandi fiorentini nel
ragionamento VII dei Marmi e tenta di vendersi come esperto in
"scrivere ... cantare, sonare, disegnare e poetizzare" (lettera al
Betussi), ma poi paradossalmente confessa "Ora io ho caro d'esser
morto per non fare, non leggere, non vedere, non sentire, non udire,
né scriver versi" (lettera a D. Marcello, Piacenza, 28 febbr.
1543).
Nel 1551 da Marcolini, oltre alla Seconda libraria, uscì la
prima parte della Zucca, e la sua traduzione in spagnolo: la
"genesi" dell'opera, illustrata nel "Ragionamento della poesia" nei
Marmi, sarebbe stata occasionata dall'edizione del volume di Facezie
del Domenichi.
Tra il 1551 e il 1552 uscì l'edizione in quattro volumi
(Cicalamenti, Fiori, Foglie e Frutti): nel 1565 l'edizione
definitiva comprendente le Pitture come V libro. il Seme, compare a
Venezia da Rampazetto-Sessa e contò numerose ristampe
"espurgate" (ed. Polo, 1589; Farri, 1591 e 1592 con l'Anatomia della
Zucca, prima biografia del D. curata dal Gioannini; Zanetti e
Presegni, 1595; Bissuccio, 1607, e ancora Farri, 1607). Autentico
monumento di parole, la Zucca raccoglie lettere, novellette,
"dicerie", discorsi, "facezie", descrizioni, in gran parte edite
altrove, oscillando tra l'occasionalità e le necessità
della stampa, e quindi senza una precisa struttura compositiva, e
una più personale urgenza del D. a "dirsi", a consumare se
stesso nella scrittura ("io scrivo del continuo, per non passar la
vita malinconica più tosto che cercar fama". lettera al
Montorsoli da Venezia, 7 febbr. 1553). Questa motivazione fonda gran
parte dei suoi scritti, non tanto nei contenuti bizzarri,
"ghiribizzosi" (le "baie" del "guastaleggende" che il D. si picca
d'essere nel prologo della Zucca a Rocco Granza). Piuttosto,
è nell'ingegneria stessa di queste "macchine" di segni,
costruite con coscienza d'artificio in autonomia di significanti,
che si rivela lo spostamento, la superfluità forse, del senso
("tutt'è una minestra, il saper scrivere è uno
zafferano che gli va su", lettera a F. Sansovino, 21 ott. 1543).
L'evidente "ricerca di sufficienza descrittiva" non va soltanto
nella direzione del preziosismo antiquario, del collezionismo
documentario della parola (Chiappelli), dell'epicureismo del "gusto"
e del "divertimento" stilistico (Segre). È esigenza che nasce
da una consapevolezza, a volte critica, a volte "mercantile", della
ripetizione, del "doppio" ("Quel che accade oggi è accaduto
dell'altre volte, quel che si dice è detto e dirassi ancora,
e quel che ha da essere è stato", proemio al trattatp II,
Libraria, 1557), e insieme da un'ossessiva coazione a "ri-dire"
("Noi altri ci mettiamo inanzi una soma di libri, nei quali ci son
dentro un diluvio di parole; e di quelle mescolanze ne faccian
dell'altre": proemio).
Nel 1552 il D. si recò per un breve soggiorno a Ferrara;
continuò a Venezia un'attività frenetica: uscirono
presso Giolito i Pistolotti amorosi, presso Marcolini La moral
filosophia e i Trelibri di lettere e tra il 1552 e il 1553 i Marmi e
i Mondi.
I Pistolotti ebbero un'edizione accresciuta nel 1554 curata per
l'Accademia Pellegrina da Marcolini e una definitiva, giolitina, nel
1558, con il titolo di Tre libri di pistolotti. "Inventario delle
masserizie d'amore", l'opera raccoglie lettere, capitoli, madrigali,
sonetti, epigrammi, canzoni, anche questi non tutti inediti,
nonostante l'affermazione che si tratta di un "nuovo trovato" nel
dialogo VI del ragionamento VII dei Marmi. La trattazione della
materia amorosa non si discosta dai collaudati moduli berneschi e
antipetrarchisti ("Ho poetato per burlarmi del mondo, e per farmi
beffe d'alcuni scattolini d'amore, i quali non sanno uscire di -
Madonna, io v'amo e taccio - e - S'io avessi pensato - e simili
altre ciabattarie", lettera a T. Pandola) né si libera, se
non episodicamente, ad una confessione di incapacità ("per
non sapere ... per non esser mai stato tanto inamorato", lettera a
D. Nalisio).
Alla prima edizione marcoliniana della Moral filosophia, con i
Trattati diversi di Sendebarindiano filosofo morale, seguono diverse
ristampe (nel 1567, Venezia, Sessa; nel 1588, Trento, G. B. e G.
Gelmini di Sabbio; nel 1590, Ferrara, B. Mammarello; nel 1594,
ancora Gelmini; nel 1597, Vicenza, G. Greco; nel 1606, Venezia,
Bertoni) ed un'importante traduzione in inglese, Londra 1570, a cura
di Thomas North, ristampata nel 1601 e nel 1888. Il D. entra in
concorrenza con A. Firenzuola che nel 1548 aveva liberamente
tradotto nella Primaveste dei discorsidegli animali la seconda parte
dell'Exemplario contra los engaños y peligros del mundo,
traduzione spagnola del 1493 del Directoriumhumanae vitae di
Giovanni da Capua, a sua volta versione del Panciatantra indiano. Il
D. ne dà la traduzione completa condotta sull'Exemplario esul
Firenzuola stesso, nonostante protesti di aver tratto le venticinque
novelle dalle lingue "Indiana, Persica, Arabica, Hebrea, Latina,
Spagnola, et altre diverse". Soprattutto in confronto alla raffinata
versione del Firenzuola, il D. conferma le sue doti
espressionistiche e il gusto per il "popolare" (Di Francia).
L'edizione in tre libri delle Lettere consacra l'appartenenza
dell'epistolario del D. ad un vero e proprio "genere", ormai
affermatosi con l'Aretino: accanto a lettere già apparse
nelle precedenti stampe e in appendice al Disegno, ne compaiono
altre "costruite" per l'occasione: dall'Indice tridentino in poi,
fino al 1930, vengono sempre indicate tra i libri proibiti.
Tra il 1552 e il 1553 escono le edizioni definitive dei Marmi e dei
Mondi, checoncludono la stagione più felice della
creatività del Doni. I Marmi non ebbero alcuna fortuna, se si
fa eccezione per la ristampa del 1609 del Bertoni e l'edizione
curata dal Fanfani nel 1863. Divisi in quattro parti, ciascuna
destinata a diversi dedicatari, comprendono dialoghi che si
immaginano intrecciati nelle sere d'estate sulle scale del duomo di
Firenze e che discorrono dei più svariati argomenti. La
"cornice" non è che esile argine alle "mille belle cose da
dire: novelle, stratagemi, favole" che il D. mette in scena tramite
gli accademici pellegrini e i Fiorentini del suo tempo; nella
risentita attualità di alcuni ragionamenti si fa più
evidente certa vena moralistica e si afferma la funzione
espressionistica di lingua e contenuti, da "terribile inventore",
"gran cervello astratto". All'accumulo paratattico della Zucca non
si oppone dunque l'immobile scenografia dei "marmi", ma un'idea di
scrittura che delle proprie motivazioni è riuscita a creare
una "matassa filata di diversi lini in più gugliate". I fili
si dipanano lungo gli argomenti tipici del D., ma organizzati in
moduli discorsivi maggiormente serrati rispetto a quelli dei momenti
più lievemente narrativi, che pure sono presenti nel testo:
ricorrono la polemica antipetrarchista, lo sdegno per l'esercizio
della cattiva stampa, il favore per un uso "regionalistico" della
lingua, l'amarezza per la vacuità della "pazzia, volsi dir
fatica" letteraria e per l'impossibilità di "vivere in alcuno
stato oggi". Gli esiti si leggono nel "Dialogo del Tempo", della IV
parte, nell'affermazione di un'inerzia circolare di quel "giuoco
delle pallottole" che è il cervello dell'uomo e il suo
discorso: "il cervel gira; nello scriver si gira sempre la penna che
la gira la mano, che la fa girare il capo, che le girelle che vi
sono dentro girando fanno girare; e così ogni cosa gira".
I Marmi non hanno incontrato neppure particolare fortuna critica:
dispute erudite ha suscitato l'attribuzione del "Ragionarnento della
Stampa", probabilmente del Domenichi che lo ristampa fra i suoi
Dialoghi nel 1562. Il pastiche, o il vero e proprio "falso", sono
però anche procedimenti creativi nel D., non solo sintomi di
approssimazione, carenza di idee o urgenze da "poligrafo" che egli
stesso, del resto, provocatoriamente esibisce parlando dei suoi
libri ("che prima si leggono che sieno scritti e si stampano inanzi
che sien composti").
I Marmi contengono anche l'annuncio di opere mai composte e degli
Inferni, con l'elenco di essi, sette in tutto, che subirà
mutazioni nel corso delle edizioni ("degli scolari e de' pedanti",
"de' mal maritati e degli amanti", "de' ricchi avari e poveri
liberali", "delle puttane e de' ruffiani", "de' dottori ignoranti,
artisti e legisti", "de' poeti e componitori", "de' soldati e
capitani poltroni"). Gli Inferni seguono la fortuna editoriale dei
Mondi, poiché vengono stampati come "Libro Secondo" di questi
nell'edizione 1552-53, e poi, sempre uniti, in quella giolitina,
molto rimaneggiata, del 1562, in quelle del 1567 (Farri), del 1568
(de' Cavalli), del 1575 (Farri), del 1583 (Moretti), in quelle
censurate del 1597 (eredi di Perin Libraro) e del 1606 (Bertoni) e
nelle traduzioni francesi curate da Chappuis, Lyon 1578, 1580, 1583
(gli Inferni ebbero anche una traduzione a sé, Paris 1634,
Les visions italiennes).
La metafora teatrale del mondo che inaugura la "Prinia Visione"
dell'"Inferno degli scolari" ben introduce, al di là del
piglio moralistico, alla dimensione "spettacolare" che serpeggia in
tutta l'opera del D., nell'uso espressionistico del linguaggio e
nell'autonomia significante dei "ghiribizzi": non a caso il D.
ricorre nel repertorio dei comici dell'arte e viene raccomandato,
insieme con il Burchiello, per gli "esempi di sproposito in prosa",
addirittura da A. Perrucci nel suo Dell'arte rappresentativa, Napoli
1699. La discesa agli inferi avviene in allegra compagnia, con
Matteo Palmieri, Menippo, la Sibilla da Norcia, la Fata fiesolana,
Orfeo, gli accademici pellegrini dannati e, con sorridente ironia,
Dante e Virgilio, e per una strada poco battuta, "per il bellico di
Lucifero nel suo corpo", in cui si annidano i tormenti infernali. La
febbricitante e visionaria ingegneria del D. si scatena nel
costruire supplizi per i propri oggetti polemici: l'imagerie doppia
con acre arguzia le "pene che vanno per l'ordinario" a questo mondo.
Il "Libro Primo" dei Mondi si divide in "piccolo, grande, imaginato,
misto, risibile, savio [e pazzo], massimo", scansione che varia
nelle diverse edizioni. La propensione riflessiva, affiorante nei
Marmi, si accentua in questo scritto, il più noto del D.
soprattutto per la celeberrima descrizione di "un nuovo mondo" nel
dialogo tra "Savio e Pazzo". I fermenti che percorrono i Mondi non
sono nuovi e in perfetta omologia semantico-lessicale con la chiusa
dei Marmi si pone il "Prirno niondo", quello "risibile" di Cortese e
Dolce: "la ruota si ferma del nostro cervello, l'acqua del furor ci
manca, e non c'è più roba da macinare, e così
restiamo in secco senza far cosa alcuna di buono". Su ricorrenti
basi polemiche, soprattutto contro l'"avaro", il "mercante" e circa
l'instabilità dell'ordinamento sociale, nel dialogo tra
"Savio e Pazzo" il D. costruisce un'utopia senza illusioni per un
mondo "mescolato", in cui "tutte le partite si fanno equali", in
assenza di un'intelligenza regolatrice e di un'utilizzazione
razionale e naturale dei beni prodotti dal lavoro dell'uomo
(Badaloni). La società disegnata dal D. si colloca in
un'immagine urbanistica radiale che è essa stessa un'utopia,
esemplata sullo stile delle città ideali, delle fortezze,
degli apparati delle feste e del teatro del tempo (Klein): in questa
città "fabricata in tondo perfettissimo a guisa d'una
stella", il razionalismo minimizza i "travagli" regolando le
passioni, dall'amore al denaro alla religione, in realtà
reprimendole e rendendone pari per tutti la fruizìone, in una
paradossale e contraddittoria, ma storicamente significativa, scelta
di atarassia che si rovescia in "pazzia" ("onde, levate via le
occasioni, ci sarebbe pochi pazzi, o noi saremmo tutti pazzi a un
modo"). Censurato soprattutto nei passi riguardanti l'organizzazione
del sesso e l'eliminazione dei deformi, il dialogo ha goduto di
attente letture critiche che ne hanno sottolineato l'impronta
filosofica inserendolo nel rilevante filone finascimentale degli
utopisti e riformatori, a volte forzandolo in schemi ideologici di
stampo socialistico.
Nel 1553 uscì presso Marcolini l'Asinesca gloria
dell'inasinito academico Pellegrino, ristampata nel 1558 con il
titolo Ilvalore degli asini, che viene generalmente rubricata come
opera del D., nonostante egli stesso nella Libraria l'attribuisca a
Vincenzo Cartari. Sempre Marcolini nello stesso anno pubblicò
le Rime del Burchiello commentate dal D., ristampate dal Rampazetto
nel 1566 e, censurate, dagli eredi di Perin Libraro nel 1597:
commento tanto bizzarro da suggerire ai contemporanei la divertente
inversione dei due testi (Commento del Doni rimato dal Burchiello,
nelle Lettere facete del Turchi, 1575) e al De Robertis la
riflessione sull'"esercizio di alienazione letteraria, di
letteratura della letteratura" nella scrittura del Doni.
Da questi anni in poi iniziano a scarseggiare le notizie
biografiche: per il silenzio epistolare che intercorre tra il 1553 e
il 1554 il Bongi congettura una malattia e ritiene il D. lontano da
Venezia, benché in giugno risultino lettere da lì
datate nell'edizione del 1554 dei Pistolotti. Certo è che nel
1555 abbandonò Venezia, forse non a causa della peste come
sostiene nel Terremoto, ma per un'ennesima lite con un prete:
rifugiatosi ad Urbino, inutilmente contò sull'appoggio
dell'Aretino presso il duca. Il dissenso che nacque tra i due
è all'origine del violento libello diffamatorio, il Terremoto
appunto, edito nel 1556, forse a Roma, dallo "stampatore Conomelo"
come indicato nella dedica, in cui il D. tra l'altro augurava la
morte entro l'anno al nemico: l'operina conferma l'illimitata
fantasia verbale, la ricchezza lessicale specie di gergo e la grande
capacità mimetica di scrittura.
Tra il 1557 e il 1558 era a Pesaro e ad Ancona: riuscì ad
ottenere la licenza per aprire una stamperia insieme con il
veneziano Marco Salvoni ma dovette abbandonare la città -
probabilmente per un'ingiunzione papale a tornare in convento - per
Ferrara, dove tentò vanamente di allogarsi presso il cardinal
Ippolito [II] d'Este, e infine di nuovo per Venezia.
Nel frattempo escono ristampe e nuove edizioni delle sue opere: del
1562 sono la Dichiaratione sopra il XIII capitolo..., ristampata
nello stesso anno dal Perchacino con il titolo di Espositione, e Il
cancellieri, libro dell'eloquenza e Libro della memoria, ambedue
editi da Giolito, di cui soltanto il secondo sarà ristampato
nel 1589. Il trattato di retorica si limita ad una riproposizione
scolastica ma acuta; quello sulla memoria ricalca i modelli
dell'inventario tra arguto ed erudito dei detti celebri:
quest'ultimo contiene il progetto degli accademici pellegrini per un
monumento - "quasi un teatro" - da erigersi in Arquà, cui il
D. partecipa con passione.
Nel 1563 divenne presidente dell'Accademia Pellegrina e nel 1566
uscirono a Bologna Le ville; probabilmente nel 1567 il D. si
ritirò a Monselice, dove l'anno dopo risulta essere in
compagnia del figlio Silvio e da cui si allontanava solo raramente
per Padova, Arquà e Venezia. Nel luglio del 1574 era infatti
nella città lagunare per offrire ad Enrico III di Francia il
manoscritto del poemetto in ottave sulla Guerra di Cipro, di cui
soltanto parte del canto IV sarà edita nel 1888.
Secondo alcuni, è proprio a Venezia che il D. morì nel
settembre 1574: la tradizione invece vuole Monselice come luogo del
decesso; sugli ultimi anni della sua vita, e soprattutto del suo
ritiro solitario, si sono avanzate ipotesi, se non proprio
fantastiche, comunque senza riscontri documentari.