DONI, Anton Francesco.

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Scrittore italiano (Firenze 1513-Monselice 1574).

Frate servita e prete senza vocazione, condusse vita irrequieta a Venezia, a Piacenza, a Firenze e di nuovo a Venezia. Amico dapprima e poi ferocissimo nemico di P. Aretino e di L. Domenichi, è un tipico letterato del tardo Rinascimento, non privo di acutezza anche scientifica se, ancor prima di Galileo, difese le tesi copernicane. Suoi maestri di bizzarria e di inventiva verbale sono il Burchiello e i poeti giocosi. Nel corso della sua opera è spesso felice quando la materia si dispone al suo forte risentimento umoristico, alla sua vivacità intuitiva e alla rapidità di un giudizio tagliente.

Molti gli scritti: Le lettere, su impressioni e umori dei personaggi e degli ambienti del tempo; i Pistolotti amorosi, violentemente antifemministi; le Librarie (in due parti, 1550-51), saggi di bibliografia in cui si dà conto delle pubblicazioni contemporanee; La zucca (1551-52), zibaldone di proverbi, lettere, capricci, ecc. di notevole interesse linguistico; Le pitture, I dialoghi sulla musica (1554), la commedia Lo stufaiolo o l'avaro (1559).

Le due opere di maggior rilievo sono i Mondi celesti terrestri ed infernali (1552-53), che è un quadro idillico di una società anarchico-comunista ordinata secondo l'Utopia di T. Moro e con reminiscenze platoniche, e i Marmi (1553), i marmorei gradini del duomo di Firenze, dove l'autore, fingendo di riferire i dialoghi dei suoi concittadini, va esponendo e commentando casi morali, letterari e sociali del tempo, con una schietta e spigliata lingua toscana.

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DBI

di Giovanna Romei

Nacque il 16 maggio 1513da Bernardo di Antonio, forbiciaio, a Firenze, nel quartiere di S. Lorenzo.

In una lettera del 3genn. 1549, da Firenze, rispondendo a B. Volpe che lo dice discendente dal poeta Salvino, sodale di Dante, il D. traccia un'ironica genealogia, in parte fantasiosa, in cui annovera un ghibellino, due papi (Dono I e Dono II), i rami della famiglia radicatisi a Pistoia, in Ungheria e a Napoli, e la discendenza fiorentino-plebea (in Zucca, 1565).

Ospite di Baccio Bandinelli, che nel suo Memoriale lo ricorda come "grande amico", venne da questo inviato a Siena il 10 genn. 1530per consegnare alcune importanti lettere: episodio che conferma la consuetudine dei D., fin dalla giovane età, con il più qualificato ambiente artistico fiorentino. Nonostante il presunto avo ghibellino e il millantato dissenso politico del padre, con conseguente dissesto finanziario, il D. si sarebbe trovato in campo imperiale, durante l'assedio di Firenze, presso il mediceo Giovanni Bandini e, più tardi, ad Arezzo presso Luigi Guicciardini, vicario della città nel 1534-35. D'altronde, il D. mostrò sempre simpatia per i Medici e Cosimo I, pur attribuendo loro genealogie irrispettose ("Mendici" nei Marmi) e mantenendo rapporti con esuli fiorentini repubblicani come Pietro Strozzi.

In seguito entrò nell'Ordine dei serviti presso il convento dell'Annunziata, con il nome di fra' Valerio, e lo abbandonò, trasferendosi a Genova, nel 1540, insieme con lo scultore Giovanni Angelo Montorsoli: il D. sarà a lungo perseguitato dall'ossessione del suo status religioso, che spesso si sfoga in acri e mordaci termini antipreteschi ("l'esser con la chierica puzza a tutti", lettera all'Aretino del 28 apr. 1543) e gli fa preferire la confessione di un'irregolarità ("se voi mi fiutaste, non so nulla di sere, ma puzzo piuttosto di pazzo", lettera a B. Stampa del 13 nov. 1543). Da Genova passò ad Alessandria, presso il Trotti, poi nel carnevale del 1542 era a Pavia, presso Giovan Stefano da Crema, e infine a Milano, da Massimiliano Stampa marchese di Soncino, fino agli inizi del 1543. Incerta la causa del suo allontanamento da Milano, forse una lite col frate Giovan Maria Giglino (lettera a L. Bosso da Piacenza del 1º marzo 1543): nel gennaio, comunque, il D. era già a Piacenza, centro che l'influsso dell'Aretino connotava in senso anticortigiano e antiromano.

G. Betussi, nel Raverta (Vinetia 1544), testimonia della brillante società dei Landi e degli Anguissola e dell'attività, tra seria e giocosa, dell'Accademia Ortolana, in cui il D. presto raggiunse una posizione di favore, tanto da sostituire temporaneamente B. Gottifredi nella carica di segretario.

Forse giuntovi per studiare diritto su invito del padre, il D. frequentò invece a Piacenza l'ambiente letterario e mondano, si legò a Ludovico Domenichi, al Parabosco e al Betussi appunto, e tentò di allogarsi presso qualche signore, anzi di "barattarmi per bestia a qualche svogliato signore", come afferma nella lettera riportata nel Raverta, individuando questa volta nella corte una via di sopravvivenza. Ma inutili furono i tentativi e le pressioni presso i cardinali Farnese, Santafiora, Gambara e lo stesso Giovio, dei cui museo il D. offre in due lettere del luglio una descrizione "per baia" al Domenichi (in seguito il destinatario sarà il Tintoretto) e una seria al Landi. Inoltre, l'ambiente piacentino non era in esatta corrispondenza con l'élite liberale dell'Accademia, avversata in particolare dal cancelliere del cardinale Gambara, quel Vincenzo Dini oggetto della feroce "diceria" IlPelatoio in una lettera a lui indirizzata del 25 novembre. In questo anno il D. prese a convivere con Lena Gabbia, da cui avrà più tardi, nel 1549 circa, il figlio Silvio e forse anche una figlia, e pubblicò una Lettera con Sonetti d'alcuni gentiluomini piacentini per i tipi del Simoneta, presso la cui stamperia, secondo il Bongi, avrebbe lavorato.

Falliti anche i tentativi presso il vescovo di Piacenza, Catelano Trivulzio, cui dedicò la prima parte del Dialogo della musica, ilD. raggiunse l'amico Domenichi a Venezia, dove ebbe i primi contatti con l'Aretino: vi si trattenne fino al gennaio del 1544, tranne una breve parentesi a Padova nel febbraio dell'anno precedente. A Venezia uscirono presso lo Scotto con la data del 1544 un volume di Lettere e i Dialoghi della musica, divisi in Canto, Alto, Tenore e Basso.

Da Piacenza il D. si mosse per un viaggio a Roma, probabilmente presso il Giovio; il suo epistolario tace dal novembre 1544 al settembre dell'anno successivo, mese in cui rientrò a Piacenza. Nel 1545 uscì ancora per lo Scotto l'edizione delle Lettere, Libro I, riedita nel 1546 dal D. stesso (l'edizione del Libro II èdel 1547, e l'edizione Marcolini in tre libri èdel 1552). Non riuscendo ad ottenere la protezione di Pier Luigi Farnese, duca di Piacenza, il D. rientrò a Firenze e ricevette una buona accoglienza da parte degli ambienti letterari: fece parte dell'Accademia degli Umidi e nel febbraio del 1546 divenne segretario di quella Fiorentina, sotto il consolato di Lorenzo Ridolfi. Nella primavera aprì una tipografia nel "popolo di San Pier Maggiore, presso l'angolo di via Nuova", in un momento di crisi per la monopolistica industria editoriale dei Giunta. Dopo la Chiesa e la corte, il D. cercava, come molti intellettuali del tempo, una possibilità di emancipazione nella stampa: via illusoria, poiché nessun letterato ottenne mai dagli editori sufficiente indipendenza culturale ed economica. Senza una posizione di privilegio politico, sociale e finanziario, né appoggi sufficienti, il D. tentava un'impresa impossibile, la creazione di una stamperia in proprio nel momento in cui la politica di Cosimo I, per affermarsi come assoluta, applicava la strategia di un progressivo, totale controllo sugli strumenti del potere. Incerto dunque il contributo che il D. avrebbe ricevuto dal duca, anche se a lui si rivolse nel settembre, lagnandosi della concorrenza dei Giunta e della propria disperata condizione: egli poteva contare quasi esclusivamente sui colleghi in Accademia che a proprie spese gli facevano stampare le loro lezioni, e per lo più con reciproco scontento: gli uni, come G. B. Gelli e N. Martelli, lamentandosi delle scorrettezze, l'altro del valore dei testi.

In effetti, le edizioni del D. sono di bassissima qualità e il loro pregio oggi consiste nella rarità e nella singolarità di documento storico: icaratterì pessìmì, e solo italici, glì furono forse prestati dallo Scotto e nella Diceria del vecchio, in Lettere (1547), la responsabilità del fallimento viene addossata all'incompetenza del tìpografo Bartolomeo Zanetti, "vergogna della stampa". Le difficoltà economiche sono aggravate dal personale numeroso: un proto, un aiuto, quattro specialisti, un "gittatore di lettere" (Di Filippo Bareggi), a cui si aggiunge nel marzo il Domenichi. La produzione dei D. stampatore, compresa tra il 1546 e il 1547, non è chiaramente stabilita a causa dell'infedeltà al programma editoriale esposto al Ravesla in una lettera del 10 marzo 1547e dell'inattendibilità di alcune indicazioni contenute nei cataloghi delle Librarie: ilD. pubblica le Lettere e un'Oratione del Martelli, i Dialogi e i Capricci del Gelli, il Gello di P. F. Giambullari, lo Specchio d'amore. diB. Gottifredi, le Lettioni d'academici fiorentini sopra Dante e altrì testi. Oltre alle edizioni delle Lettere, il D. stampa di suo Gli spiriti folletti nel 1546 e le Prose antiche di Dante, Petrarcha e Boccaccio nel 1547.

Le idee religiose del D. si basavano sulla costante polemica antimonastica e soprattutto su un desiderio di rinnovamento che non disdegnava le suggestioni ereticali, senza mai però accettarle fino in fondo, orientandosi verso l'aspirazione a una religione semplificata di carità e di amore di stampo erasmiano. Il D. ebbe contatti con riformati quali Francesco Linguardo e Lelio Sozzini a Bologna, e alcuni accademici fiorentini furono essi stessi elementi sospetti, dal Panciatichi al Carnesecchi a Pietro Gelido da Samminiato; inoltre, nella lettera a B. Guerrieri, esponente della Riforma a Siena, datata 28 nov. 1546, presente nella sola edizione del 1547 e riedita dal Grendler nel 1969, il D. espose un'autentica confessione di fede non priva di elementi luterani, calvinisti e zwingleriani (Del Fante). Negli anni del suo soggiorno fiorentino si collocano dunque le simpatie riformate del D., alimentate da un viaggio a Bologna, dalla frequentazione dell'Accademia (la cui "riforma" da parte di Cosimo è forse uno dei motivi dell'allontanamento del D. da Firenze), del Domenichi stesso (che nel 1551 sarà condannato per la traduzione dell'Excuseà M.s les Nicodèmites di Calvino), del Gelli (i cui Capricci del bottaio, editi dal D., saranno posti all'Indice nel 1562). Infine, con lo pseudonimo di Celio Sanese, il D. pubblicò Glispiriti folletti - di cui nel 1976 la Del Fante ha curato l'edizione moderna - ragionamento tra due "spiriti infernali" appunto, Dathan e Abiron, seguito da una "diceria" di Abiron al "principe delle tenebre" e dalla ristampa del Pelatoio.

Lo scritto prevede l'edificazione del regno delle tenebre come "matrice onnicomprensiva della storia" e - motivo che tornerà nelle opere più socialmente risentite - luogo di assoluta uguaglianza sia pur raggiunta mediante una generale repressione (Bramanti).

L'incertezza e l'occasionalità delle posizioni in materia religiosa, tipica di molti intellettuali dell'epoca, si rintraccia anche nel D.: esempio ne è la Dichiaratione sopra il XIII capitolo dell'Apocalisse, edita da Giolito nel 1562 a Venezia ma già presente in parte nella prima edizione dei Marmi, Marcolini 1552-53, e che si può leggere in appendice all'edizione 1981 dei Numeri curata dalla Del Fante.

Dedicata ad Ippolito Capilupi, vescovo di Fano e nunzio a Venezia nel 1561, forse nel tentativo di ottenerne favori, l'operina si rivolge a coloro che "caggiono nella luterana heresia" dimostrando l'errore di "Martino Lutero, animale Mostruoso et dannoso alla Santa Sedia, et Fede in Christo", identificato in base alle tecniche cabbalistiche con la bestia del capitolo dell'Apocalisse.

L'interesse per le scienze occulte e la cabbala è costante nel D., accompagnato - con singolare atteggiamento intellettualeda un'altrettanto costante irrisione. I vari accenni sparsi nei Marmi e nei Mondi preludono ai Numeri, scritto che per i temi platonici, astrologici e cabbalistici si accosta con trasparente ironia al filone delle compilazioni sui "misteri dei numeri", di particolare fortuna nel Cinquecento. Dedicato a Giorgio Fuccari, probabilmente il banchiere tedesco Georg Fugger, il manoscritto risale al febbraio 1562 e l'unica edizione a stampa è quella moderna.

La raccolta delle Prose è spia eloquente dell'autentico culto, variamente testimoniato nelle sue opere, che il D. nutre per Dante, Petrarca e Boccaccio, e della sottostante "regionalistica" convinzione dell'uso fiorentino della lingua, esposta poi nel ragionamento V dei Marmi e nelle tre lettere "in toscano", "in lingua volgare" e "in lingua italiana", sempre nei Marmi, in sintonia con l'indirizzo prevalente in Accademia. Le Prose contengono tra l'altro la famosa epistola di Dante a Guido da Polenta datata marzo 1314, riconosciuta falsa soltanto nell'Ottocento e che il D. probabilmente costruì sulla base della Vita di Dante del Villani.

"Trovate" di questo genere, autentici pastiches, formanola sostanza stessa delle opere del D., editore mediocre ma intellettuale sensibilissimo agli umori del pubblico ("la gente, come la si sente grattare con qualche sofistico titolo l'orecchia, la s'impania la borsa subito": Marmi, ragionamento II) e alle urgenze più intime della propria scrittura ("Tutte le cose che si dicono e che si scrivono non sono vere. Ma bisogna spregnar la fantasiac lettera a G. Giolito da Padova, 15 febbr. 1544).

Fallito il tentativo editoriale (il Torrentino sarà di lì a poco nominato tipografo ducale), dopo brevi soggiorni a Bologna e Roma, il D. abbandonava Firenze e nell'autunno del 1547 era a Venezia: in, questo periodo intensificò i rapporti con l'Aretino e con i grandi editori locali, Giolito e Marcolini, con cui in breve finirà con il collaborare, mentre ruppe con il Domenichi, rinfacciandogli l'ospitalità concessagli a Firenze e denunciandolo come antimperiale a Ferrante Gonzaga e al Farnese. Nel 1548 era di nuovo a Bologna, nel marzo a Firenze e poi a Piacenza, e curava per l'editore veneziano Pincio la versione dell'Utopia di Moro condotta da Ortensio Lando. Nel 1549 uscì presso Giolito il Disegno e presso Pincio la traduzione delle Epistole diSeneca, ristampata nel 1611 a Milano dal Bidelli, raffazzonata secondo il Bongi sulla precedente versione del Manilio, ma non totalmente, come voleva l'ormai ostile Domenichi, sostenendo che il D. non conosceva "straccio di lingua latina".

Nell'edizione Doni 1547 delle Lettere compare la "diceria" Ildisegno, indirizzata al Montorsoli, che rivela l'attenzione dei D. per la discussione in corso sul primato delle arti e l'amore per questa forma espressiva, testimoniata anche dagli schizzi nei manoscritti e dalle ricorrenti metafore (come il "capo traboccante di disegnar con la penna" nella lettera al cardinale Santafiora). Il disegno viene ancora esaltato nei termini della diffusa valutazione fiorentina, cenniniano-ghibertiana, ma poi il discorso accentua l'andamento "ghiribizzoso", come nota la Barocchi, e si avvicina alle tesi più intransigenti del trattato del 1549. Il primato del disegno viene sostenuto in nome di Michelangelo per poi concludere con la "bizzarra" affermazione di un disegno universale ("E tutti gli uomini disegnano"). All'esaltazione retorica del Buonarroti il D. contribuisce in notevole misura, definendolo "uno Iddio", nella lettera del 12 genn. 1543 da Piacenza a lui diretta, e, in una "diceria" detta della "plastica del marmo", ed. in Piacevole raccolta..., a cura di Laurenti-Gasparoni, Roma 1844, I, p. 125, è fedele divulgatore della risposta dell'artista al Varchi, in cui l'arte della scultura viene definita "per forza di levare".

Il trattato del 1549 - riedito in facsimile nel 1970 da M. Pepe - inaugura la collaborazione del D. con il Giolito, riprendendo appunto i termini della questione sul primato delle arti proposta dal Varchi nel 1547 in irridente polemica con le tesi più accreditate. Ad animare le sei parti del dialogo sono chiamati la Natura e l'Arte, poi la Pittura e la Scultura - concettualisticamente personificata dalla Melanconia di Dürer (di cui il D. in una lettera all'incisore Enea Vico sostiene di possedere un'incisione in rame) -, il Pittore (Paolo Pino) e lo Scultore (Silvio Cosini) e, a dirimere la disputa, il "Cavaliere" Baccio Bandinelli. Al di là della difesa della scultura, condotta su basi medievalistiche e neoplatoniche, che fondano un'idea di disegno come "speculation divina", e da posizioni antiveneziane e promichelangiolesche, vale il gusto sottile e innovativo per tecniche considerate "minori", quali il mosaico e l'oreficeria, per materiali "diversi", come l'avorio, e l'orientamento verso una considerazione più sociale e "spettacolare" di alcune categorie come gli "abiti". L'introduzione delle preziose metamorfosi e del "ghiribizzoso naturalismo" (Barocchi) dell'oreficeria nel sistema delle arti ben si accorda con gli interessi "antimanieristici" del D. variamente testimoniati: dall'ambizioso progetto di raccogliere in quattro libri le "medaglie" moderne, esposto in una lettera al Giovio e concretizzatosi solo parzialmente nelle edizioni giolitine del 1550 (La prima parte de Le medaglie, Le medaglie e Le medaglie ... d'oro, d'argento, di rame et false, s.d.); dall'abbozzo, nelle lettere a Cipriano Morosini, ad Alberto Lollio, ad Hermes Bentivoglio, di una "Firenze illustrata" in sei libri - che secondo Pepe doveva essere invece opera pressoché completa -; dalle "visite" guidate a Roma, Napoli, Pavia, Venezia, Parma, Mantova, Genova, Padova, in altre lettere contenute in appendice al Disegno; dal ricorrente interesse per l'architettura "di interni" (come la descrizione di usi e funzioni delle "camere" nel dialogo tra Betto Arrighi, Nanni Unghero e Dattero Giudeo dei Marmi) e in genere "privata" (si vedano Le ville, Bologna, Benacci, 1566, ricordate già nella Libraria [1557] e ottimamente riedite nel 1969 dal Bellocchi, in cui le cinque tipologie architettoniche coincidono con altrettante "topologie" sociologiche, ideologiche ed esistenziali: "Villa civile, da signore. Podere di spasso, da cittadino. Possessione di ricriazione, da mercatante. Casa di risparmio, da artigiano. Capanna dell'utile, da contadino"); dall'assunzione delle "grottesche" come "genere" di libera raffigurazione letteraria e pittorica (Ossola) nelle Pitture, Padova, Perchacino, 1564 (ristampate con il titolo Ilseme di chimere e castegli in aria, quinto libro della Zucca nell'edizione definitiva, Venezia, Rampazetto-Sessa, 1565, le cui inquietanti proposte iconografiche furono utilizzate da Federico Zuccari e dalla sua bottega nella villa d'Este a Tivoli).

Tra le Pitture proposte dal D. notevole è quella della "Riforma" degli abiti e usi, quella della "Morte", variazione allegorica secondo i modi degli "Acabalisti" e di Marsilio Ficino: nella lettera posta in fine all'edizione 1564 a Gasparo Provana, signore di Novalesa, il D. fa riferimento ai "tre libri delle mie imprese", probabilmente il manoscritto correriano Nova opinione del Doni sopra le imprese amorose e militari, dedicato post 1560 a David Otto ed edito soltanto nel 1858, che si inserisce in quel genere letterario a sé che era divenuta la "spiegazione" delle "iniprese" e di cui si erano già occupati, tra i più vicini al D., il Giovio e il Domenichi.In questi anni venne fondata a Venezia l'Accademia Pellegrina, di cui è stata a lungo dubbia l'esistenza: il D. ne sarà segretario dal 1553 al 1563. Tra i suoi membri egli ricorda Ercole Bentivoglio, Giason Denores, il Sansovino, L. Dolce e l'editore Marcolini, che stampò alcune opere del D. e di altri in nome e per conto dell'Accademia. Gli anni veneziani registrano la massima produttività del D.: tra il 1550 e il 1554 uscirono presso Giolito e Marcolini le sue opere maggiori ed egli condusse una vita passabilmente tranquilla, frequentando a Noale la villa del Morosini, mecenate dell'Accademia. L'esordio nel 1550, presso Giolito, fu con un libro "compromettente", La libraria, che il Lando nella Sferza definisce "gran fallo" (Bramanti). Le due edizioni del 1550 contengono Aa prima parte, repertorio bibliografico dei testi in volgare a stampa; le edizioni del 1551 e del 1555, Marcolini, La seconda libraria, riguardano le opere manoscritte di nutti i cicalatori che io ho veduto a penna e che me n'è venuto cognizione" (proemio); ambedue le parti ricompaiono presso Giolito nel 1557 e nel 1558, poi nel 1577 e, presso il Salicato, nel 1580.

Come nota Bramanti, che nel 1972 ha curato l'edizione moderna dell'opera, l'asistematicità della Seconda libraria conferma l'ispirazione informale e momentanea anche della Prima, in cui il criterio di ordinamento alfabetico annulla ogni classificazione di merito e il realismo del metodo fa di questo primo tentativo di storia letteraria (Getto) un libro "aperto" ad una collaborazione ideale con i lettori fin nella sua stessa veste editoriale ("si lascia alquanto di spazio nello stampar il libro, dove, chi l'avrà, possi scrivergli sopra e, se gli piacerà, darmene notizia ancora": Ailettori). La consapevolezza della novità della materia e delle potenzialità progressive dell'oggetto-libro non salvaguarda però il D. da certa irrazionalità che gli sarà rimproverata soprattutto in sede settecentesca. Il repertorio dei manoscritti, inoltre, si pone in evidente polemica con il lavoro letterario stesso ("troppi mi paiono i libri che si veggono" si legge nel proemio significativamente dedicato "A coloro che non leggono") e più esplicitamente come opera fantastica, "sognata", con cui inutilmente si scontra chi vuol distinguere tra i riferimenti gli autentici dagli inventati. Da notare che il Foscolo riteneva la Libraria un esempio di letteratura periodica, benché definisse il D. ignorante e arrogante.

Sempre presso Giolito uscì nel 1550 La fortuna di Cesare, "libro dappoco" secondo Bongi, a fine encomiastico: la seconda dedica è indirizzata a Cosimo 1, in cui tra ironia e serietà il D. si appella alla teoria di Pitagora delle successive incarnazioni dell'anima per rintracciare quella di Cesare e Augusto in Alessandro e Cosimo de' Medici. Fu ristampato nel 1611, in Milano, presso gli eredi di Agostino Tradato, e nel 1637, in Roma ad istanza di Pompilio Totti. Oltre alle edizioni delle Medaglie, dello stesso anno è Sopra l'effigie di Cesare, "dichiaratione" sull'incisione di Enea Vico, che fu ristampata nelle Foglie della Zucca, 1552, e poi a Londra nel 1868.

Di data incerta, probabilmente dello stesso anno, sono Le stanze d'amore alla villanesca, edite a Bologna da Leonardo detto il Furlano, che ricompariranno nelle edizioni giolitine 1552 e 1558 dei Pistolotti amorosi con il titolo di Stanze dello Sparpaglia alla Silvana sua innamorata: mediocre rimatore nei versi sparsi nelle sue opere, tranne proprio in queste stanze, il D. protesta una "regionalistica" passione per la poesia dei grandi fiorentini nel ragionamento VII dei Marmi e tenta di vendersi come esperto in "scrivere ... cantare, sonare, disegnare e poetizzare" (lettera al Betussi), ma poi paradossalmente confessa "Ora io ho caro d'esser morto per non fare, non leggere, non vedere, non sentire, non udire, né scriver versi" (lettera a D. Marcello, Piacenza, 28 febbr. 1543).

Nel 1551 da Marcolini, oltre alla Seconda libraria, uscì la prima parte della Zucca, e la sua traduzione in spagnolo: la "genesi" dell'opera, illustrata nel "Ragionamento della poesia" nei Marmi, sarebbe stata occasionata dall'edizione del volume di Facezie del Domenichi.

Tra il 1551 e il 1552 uscì l'edizione in quattro volumi (Cicalamenti, Fiori, Foglie e Frutti): nel 1565 l'edizione definitiva comprendente le Pitture come V libro. il Seme, compare a Venezia da Rampazetto-Sessa e contò numerose ristampe "espurgate" (ed. Polo, 1589; Farri, 1591 e 1592 con l'Anatomia della Zucca, prima biografia del D. curata dal Gioannini; Zanetti e Presegni, 1595; Bissuccio, 1607, e ancora Farri, 1607). Autentico monumento di parole, la Zucca raccoglie lettere, novellette, "dicerie", discorsi, "facezie", descrizioni, in gran parte edite altrove, oscillando tra l'occasionalità e le necessità della stampa, e quindi senza una precisa struttura compositiva, e una più personale urgenza del D. a "dirsi", a consumare se stesso nella scrittura ("io scrivo del continuo, per non passar la vita malinconica più tosto che cercar fama". lettera al Montorsoli da Venezia, 7 febbr. 1553). Questa motivazione fonda gran parte dei suoi scritti, non tanto nei contenuti bizzarri, "ghiribizzosi" (le "baie" del "guastaleggende" che il D. si picca d'essere nel prologo della Zucca a Rocco Granza). Piuttosto, è nell'ingegneria stessa di queste "macchine" di segni, costruite con coscienza d'artificio in autonomia di significanti, che si rivela lo spostamento, la superfluità forse, del senso ("tutt'è una minestra, il saper scrivere è uno zafferano che gli va su", lettera a F. Sansovino, 21 ott. 1543). L'evidente "ricerca di sufficienza descrittiva" non va soltanto nella direzione del preziosismo antiquario, del collezionismo documentario della parola (Chiappelli), dell'epicureismo del "gusto" e del "divertimento" stilistico (Segre). È esigenza che nasce da una consapevolezza, a volte critica, a volte "mercantile", della ripetizione, del "doppio" ("Quel che accade oggi è accaduto dell'altre volte, quel che si dice è detto e dirassi ancora, e quel che ha da essere è stato", proemio al trattatp II, Libraria, 1557), e insieme da un'ossessiva coazione a "ri-dire" ("Noi altri ci mettiamo inanzi una soma di libri, nei quali ci son dentro un diluvio di parole; e di quelle mescolanze ne faccian dell'altre": proemio).

Nel 1552 il D. si recò per un breve soggiorno a Ferrara; continuò a Venezia un'attività frenetica: uscirono presso Giolito i Pistolotti amorosi, presso Marcolini La moral filosophia e i Trelibri di lettere e tra il 1552 e il 1553 i Marmi e i Mondi.

I Pistolotti ebbero un'edizione accresciuta nel 1554 curata per l'Accademia Pellegrina da Marcolini e una definitiva, giolitina, nel 1558, con il titolo di Tre libri di pistolotti. "Inventario delle masserizie d'amore", l'opera raccoglie lettere, capitoli, madrigali, sonetti, epigrammi, canzoni, anche questi non tutti inediti, nonostante l'affermazione che si tratta di un "nuovo trovato" nel dialogo VI del ragionamento VII dei Marmi. La trattazione della materia amorosa non si discosta dai collaudati moduli berneschi e antipetrarchisti ("Ho poetato per burlarmi del mondo, e per farmi beffe d'alcuni scattolini d'amore, i quali non sanno uscire di - Madonna, io v'amo e taccio - e - S'io avessi pensato - e simili altre ciabattarie", lettera a T. Pandola) né si libera, se non episodicamente, ad una confessione di incapacità ("per non sapere ... per non esser mai stato tanto inamorato", lettera a D. Nalisio).

Alla prima edizione marcoliniana della Moral filosophia, con i Trattati diversi di Sendebarindiano filosofo morale, seguono diverse ristampe (nel 1567, Venezia, Sessa; nel 1588, Trento, G. B. e G. Gelmini di Sabbio; nel 1590, Ferrara, B. Mammarello; nel 1594, ancora Gelmini; nel 1597, Vicenza, G. Greco; nel 1606, Venezia, Bertoni) ed un'importante traduzione in inglese, Londra 1570, a cura di Thomas North, ristampata nel 1601 e nel 1888. Il D. entra in concorrenza con A. Firenzuola che nel 1548 aveva liberamente tradotto nella Primaveste dei discorsidegli animali la seconda parte dell'Exemplario contra los engaños y peligros del mundo, traduzione spagnola del 1493 del Directoriumhumanae vitae di Giovanni da Capua, a sua volta versione del Panciatantra indiano. Il D. ne dà la traduzione completa condotta sull'Exemplario esul Firenzuola stesso, nonostante protesti di aver tratto le venticinque novelle dalle lingue "Indiana, Persica, Arabica, Hebrea, Latina, Spagnola, et altre diverse". Soprattutto in confronto alla raffinata versione del Firenzuola, il D. conferma le sue doti espressionistiche e il gusto per il "popolare" (Di Francia).

L'edizione in tre libri delle Lettere consacra l'appartenenza dell'epistolario del D. ad un vero e proprio "genere", ormai affermatosi con l'Aretino: accanto a lettere già apparse nelle precedenti stampe e in appendice al Disegno, ne compaiono altre "costruite" per l'occasione: dall'Indice tridentino in poi, fino al 1930, vengono sempre indicate tra i libri proibiti.

Tra il 1552 e il 1553 escono le edizioni definitive dei Marmi e dei Mondi, checoncludono la stagione più felice della creatività del Doni. I Marmi non ebbero alcuna fortuna, se si fa eccezione per la ristampa del 1609 del Bertoni e l'edizione curata dal Fanfani nel 1863. Divisi in quattro parti, ciascuna destinata a diversi dedicatari, comprendono dialoghi che si immaginano intrecciati nelle sere d'estate sulle scale del duomo di Firenze e che discorrono dei più svariati argomenti. La "cornice" non è che esile argine alle "mille belle cose da dire: novelle, stratagemi, favole" che il D. mette in scena tramite gli accademici pellegrini e i Fiorentini del suo tempo; nella risentita attualità di alcuni ragionamenti si fa più evidente certa vena moralistica e si afferma la funzione espressionistica di lingua e contenuti, da "terribile inventore", "gran cervello astratto". All'accumulo paratattico della Zucca non si oppone dunque l'immobile scenografia dei "marmi", ma un'idea di scrittura che delle proprie motivazioni è riuscita a creare una "matassa filata di diversi lini in più gugliate". I fili si dipanano lungo gli argomenti tipici del D., ma organizzati in moduli discorsivi maggiormente serrati rispetto a quelli dei momenti più lievemente narrativi, che pure sono presenti nel testo: ricorrono la polemica antipetrarchista, lo sdegno per l'esercizio della cattiva stampa, il favore per un uso "regionalistico" della lingua, l'amarezza per la vacuità della "pazzia, volsi dir fatica" letteraria e per l'impossibilità di "vivere in alcuno stato oggi". Gli esiti si leggono nel "Dialogo del Tempo", della IV parte, nell'affermazione di un'inerzia circolare di quel "giuoco delle pallottole" che è il cervello dell'uomo e il suo discorso: "il cervel gira; nello scriver si gira sempre la penna che la gira la mano, che la fa girare il capo, che le girelle che vi sono dentro girando fanno girare; e così ogni cosa gira".

I Marmi non hanno incontrato neppure particolare fortuna critica: dispute erudite ha suscitato l'attribuzione del "Ragionarnento della Stampa", probabilmente del Domenichi che lo ristampa fra i suoi Dialoghi nel 1562. Il pastiche, o il vero e proprio "falso", sono però anche procedimenti creativi nel D., non solo sintomi di approssimazione, carenza di idee o urgenze da "poligrafo" che egli stesso, del resto, provocatoriamente esibisce parlando dei suoi libri ("che prima si leggono che sieno scritti e si stampano inanzi che sien composti").

I Marmi contengono anche l'annuncio di opere mai composte e degli Inferni, con l'elenco di essi, sette in tutto, che subirà mutazioni nel corso delle edizioni ("degli scolari e de' pedanti", "de' mal maritati e degli amanti", "de' ricchi avari e poveri liberali", "delle puttane e de' ruffiani", "de' dottori ignoranti, artisti e legisti", "de' poeti e componitori", "de' soldati e capitani poltroni"). Gli Inferni seguono la fortuna editoriale dei Mondi, poiché vengono stampati come "Libro Secondo" di questi nell'edizione 1552-53, e poi, sempre uniti, in quella giolitina, molto rimaneggiata, del 1562, in quelle del 1567 (Farri), del 1568 (de' Cavalli), del 1575 (Farri), del 1583 (Moretti), in quelle censurate del 1597 (eredi di Perin Libraro) e del 1606 (Bertoni) e nelle traduzioni francesi curate da Chappuis, Lyon 1578, 1580, 1583 (gli Inferni ebbero anche una traduzione a sé, Paris 1634, Les visions italiennes).

La metafora teatrale del mondo che inaugura la "Prinia Visione" dell'"Inferno degli scolari" ben introduce, al di là del piglio moralistico, alla dimensione "spettacolare" che serpeggia in tutta l'opera del D., nell'uso espressionistico del linguaggio e nell'autonomia significante dei "ghiribizzi": non a caso il D. ricorre nel repertorio dei comici dell'arte e viene raccomandato, insieme con il Burchiello, per gli "esempi di sproposito in prosa", addirittura da A. Perrucci nel suo Dell'arte rappresentativa, Napoli 1699. La discesa agli inferi avviene in allegra compagnia, con Matteo Palmieri, Menippo, la Sibilla da Norcia, la Fata fiesolana, Orfeo, gli accademici pellegrini dannati e, con sorridente ironia, Dante e Virgilio, e per una strada poco battuta, "per il bellico di Lucifero nel suo corpo", in cui si annidano i tormenti infernali. La febbricitante e visionaria ingegneria del D. si scatena nel costruire supplizi per i propri oggetti polemici: l'imagerie doppia con acre arguzia le "pene che vanno per l'ordinario" a questo mondo.

Il "Libro Primo" dei Mondi si divide in "piccolo, grande, imaginato, misto, risibile, savio [e pazzo], massimo", scansione che varia nelle diverse edizioni. La propensione riflessiva, affiorante nei Marmi, si accentua in questo scritto, il più noto del D. soprattutto per la celeberrima descrizione di "un nuovo mondo" nel dialogo tra "Savio e Pazzo". I fermenti che percorrono i Mondi non sono nuovi e in perfetta omologia semantico-lessicale con la chiusa dei Marmi si pone il "Prirno niondo", quello "risibile" di Cortese e Dolce: "la ruota si ferma del nostro cervello, l'acqua del furor ci manca, e non c'è più roba da macinare, e così restiamo in secco senza far cosa alcuna di buono". Su ricorrenti basi polemiche, soprattutto contro l'"avaro", il "mercante" e circa l'instabilità dell'ordinamento sociale, nel dialogo tra "Savio e Pazzo" il D. costruisce un'utopia senza illusioni per un mondo "mescolato", in cui "tutte le partite si fanno equali", in assenza di un'intelligenza regolatrice e di un'utilizzazione razionale e naturale dei beni prodotti dal lavoro dell'uomo (Badaloni). La società disegnata dal D. si colloca in un'immagine urbanistica radiale che è essa stessa un'utopia, esemplata sullo stile delle città ideali, delle fortezze, degli apparati delle feste e del teatro del tempo (Klein): in questa città "fabricata in tondo perfettissimo a guisa d'una stella", il razionalismo minimizza i "travagli" regolando le passioni, dall'amore al denaro alla religione, in realtà reprimendole e rendendone pari per tutti la fruizìone, in una paradossale e contraddittoria, ma storicamente significativa, scelta di atarassia che si rovescia in "pazzia" ("onde, levate via le occasioni, ci sarebbe pochi pazzi, o noi saremmo tutti pazzi a un modo"). Censurato soprattutto nei passi riguardanti l'organizzazione del sesso e l'eliminazione dei deformi, il dialogo ha goduto di attente letture critiche che ne hanno sottolineato l'impronta filosofica inserendolo nel rilevante filone finascimentale degli utopisti e riformatori, a volte forzandolo in schemi ideologici di stampo socialistico.

Nel 1553 uscì presso Marcolini l'Asinesca gloria dell'inasinito academico Pellegrino, ristampata nel 1558 con il titolo Ilvalore degli asini, che viene generalmente rubricata come opera del D., nonostante egli stesso nella Libraria l'attribuisca a Vincenzo Cartari. Sempre Marcolini nello stesso anno pubblicò le Rime del Burchiello commentate dal D., ristampate dal Rampazetto nel 1566 e, censurate, dagli eredi di Perin Libraro nel 1597: commento tanto bizzarro da suggerire ai contemporanei la divertente inversione dei due testi (Commento del Doni rimato dal Burchiello, nelle Lettere facete del Turchi, 1575) e al De Robertis la riflessione sull'"esercizio di alienazione letteraria, di letteratura della letteratura" nella scrittura del Doni.

Da questi anni in poi iniziano a scarseggiare le notizie biografiche: per il silenzio epistolare che intercorre tra il 1553 e il 1554 il Bongi congettura una malattia e ritiene il D. lontano da Venezia, benché in giugno risultino lettere da lì datate nell'edizione del 1554 dei Pistolotti. Certo è che nel 1555 abbandonò Venezia, forse non a causa della peste come sostiene nel Terremoto, ma per un'ennesima lite con un prete: rifugiatosi ad Urbino, inutilmente contò sull'appoggio dell'Aretino presso il duca. Il dissenso che nacque tra i due è all'origine del violento libello diffamatorio, il Terremoto appunto, edito nel 1556, forse a Roma, dallo "stampatore Conomelo" come indicato nella dedica, in cui il D. tra l'altro augurava la morte entro l'anno al nemico: l'operina conferma l'illimitata fantasia verbale, la ricchezza lessicale specie di gergo e la grande capacità mimetica di scrittura.

Tra il 1557 e il 1558 era a Pesaro e ad Ancona: riuscì ad ottenere la licenza per aprire una stamperia insieme con il veneziano Marco Salvoni ma dovette abbandonare la città - probabilmente per un'ingiunzione papale a tornare in convento - per Ferrara, dove tentò vanamente di allogarsi presso il cardinal Ippolito [II] d'Este, e infine di nuovo per Venezia.

Nel frattempo escono ristampe e nuove edizioni delle sue opere: del 1562 sono la Dichiaratione sopra il XIII capitolo..., ristampata nello stesso anno dal Perchacino con il titolo di Espositione, e Il cancellieri, libro dell'eloquenza e Libro della memoria, ambedue editi da Giolito, di cui soltanto il secondo sarà ristampato nel 1589. Il trattato di retorica si limita ad una riproposizione scolastica ma acuta; quello sulla memoria ricalca i modelli dell'inventario tra arguto ed erudito dei detti celebri: quest'ultimo contiene il progetto degli accademici pellegrini per un monumento - "quasi un teatro" - da erigersi in Arquà, cui il D. partecipa con passione.

Nel 1563 divenne presidente dell'Accademia Pellegrina e nel 1566 uscirono a Bologna Le ville; probabilmente nel 1567 il D. si ritirò a Monselice, dove l'anno dopo risulta essere in compagnia del figlio Silvio e da cui si allontanava solo raramente per Padova, Arquà e Venezia. Nel luglio del 1574 era infatti nella città lagunare per offrire ad Enrico III di Francia il manoscritto del poemetto in ottave sulla Guerra di Cipro, di cui soltanto parte del canto IV sarà edita nel 1888.

Secondo alcuni, è proprio a Venezia che il D. morì nel settembre 1574: la tradizione invece vuole Monselice come luogo del decesso; sugli ultimi anni della sua vita, e soprattutto del suo ritiro solitario, si sono avanzate ipotesi, se non proprio fantastiche, comunque senza riscontri documentari.