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Glottologo italiano (Genova 1897 - Firenze 1974), figlio di Luigi;
prof. univ. dal 1927, ha insegnato glottologia nelle univ. di
Cagliari, Padova, poi in quella di Firenze di cui è stato
anche rettore (1968); condirettore delle riviste Lingua nostra e
Archivio glottologico italiano, è stato socio e, dal 1964,
presidente dell'Accademia della Crusca. Socio nazionale dei Lincei
(1956). Si è interessato particolarmente dei rapporti fra
lingua e cultura nella fase delle origini indoeuropee (Origini
indoeuropee, 1962), nell'Italia antica (Gli antichi italici, 1931;
Storia della lingua di Roma, 1940), dell'interpretazione delle
Tabulae Iguvinae (1937), di linguistica generale e stilistica
(Introduzione alla grammatica, 1941; Dizionari di ieri e di domani,
1946; Studi di stilistica, 1950; I fondamenti della storia
linguistica, 1951; Nuovi studi di stilistica, 1962; Lezioni di
sintassi prestrutturale, 1974; Itinerario stilistico, post., 1975),
di storia linguistica italiana (Profilo di storia linguistica
italiana, 4a ed., 1964; Avviamento alla etimologia italiana, 1966;
Il linguaggio d'Italia, 1974). In Scritti minori (3 voll., 1958-72)
e in Civiltà di parole (2 voll., 1965-69) aveva raccolto
articoli e saggi precedenti. È autore, insieme a G. C. Oli,
di un Vocabolario illustrato della lingua italiana in 2 voll., 1967.
*
DBI
di Aldo L. Prosdocimi
Nacque il 19 luglio 1897 a Genova da Luigi, clinico e patologo prima
a Genova poi trasferitosi a Pavia e quindi a Milano, e da Luigia
Cortese. Conseguita la maturità al liceo "Giuseppe Parini" di
Milano, si iscrisse nel 1915 alla facoltà di lettere di
Pavia, dove insegnavano Carlo Pascal, Giuseppe Fraccaroli, Plinio
Fraccaro, Ettore Romagnoli, Luigi Patroni, Luigi Suali. Interrotti
gli studi per la guerra mondiale, alla quale partecipò come
ufficiale degli alpini (Scritti minori, I, p. 6), si laureò
nel 1920con una tesi basata sul confronto tra lo svolgimento
fonetico dell'India e della Romània. Dalla tesi, decurtata e
rielaborata, derivò poi il volume Adattamento e distinzione
nella fonetica latina (Firenze 1923). Passò quindi a Berlino
nel 1920, dove seguì i corsi di Wilhelm Schulze, Julius
Pokorny, Heinrich Luders, rispettivamente dedicati al lituano,
all'irlandese, al sanscrito. Nel 1923 a Basilea fu particolarmente
vicino a Jakob Wackernagel e poi a Max Niedermann, Gunther Jachmann,
Peter von der Mühll, seguendo corsi di iranico, lituano, greco
e latino arcaico. Nel 1923-24 fu a Parigi, dove strinse legami con
Antoine Meillet, Joseph Vendryes, Jules Bloch, seguendo corsi di
lessicologia indeuropea, di irlandese, di oscoumbro.
Nel 1922 Giorgio Pasquali era fautore della chiamata del D. per
incarico alla cattedra già di E. G. Parodi, su uno
sdoppiamento dell'indirizzo indeuropeo dall'indirizzo romanzo
(affidato questo a Carlo Battisti); nel 1924conseguiva la libera
docenza. Nell'ambiente fiorentino fu tosto spinto allo studio
dell'etrusco dal Battisti e da Antonio Minto, direttore del Museo
archeologico di Firenze, animatore dell'etruscologia dell'epoca,
fondatore e organizzatore dell'Istituto di studi etruschi e della
rivista Studi etruschi. Il D. vinceva il concorso a cattedra nel
novembre del 1926; contro le proprie aspettative (Scritti minori, I,
pp. 11-12) non fu chiamato a Firenze bensì a Cagliari (dal
gennaio al giugno 1928), passando quindi a Firenze (1929-1930), poi
per ragioni personali a Padova (1930-1935), e di qui definitivamente
a Firenze (1935-1967). Negli anni Cinquanta affiancò per
incarico all'insegnamento di glottologia quello di sanscrito, che
divenne una specie di Privatissimum da cui sono usciti tutti gli
allievi delle più giovani generazioni.
Sotto gli auspici dell'Istituto per l'Europa orientale, cui si era
avvicinato grazie a Paolo Emilio Pavolini, professore di sanscrito
all'università di Firenze, aveva fondato la rivista Studi
baltici (1931), che apriva un nuovo ambito nell'indeuropeistica
italiana; grazie alle conoscenze personali del D. intervennero i
nomi della allora giovane linguistica europea (J. Kurylowicz, L.
Hjelmslev, E. Benveniste, G. Bonfante, ecc.). Nell'autunno del 1933,
fino a dicembre, il D. aveva insegnato all'università di
Kaunas.
Il 1943-44 lo trovò impegnato nella lotta di liberazione, in
cui maturò riflessioni poi pubblicate (Pensieri sul mio
tempo, Firenze 1945; riedito, ibid. 1955, col titolo Civiltà
del dopoguerra). Nel 1944, dopo la liberazione di Firenze. il
Comitato di liberazione nazionale lo designò alla carica di
assessore nella giunta municipale; vi rimase fino alla nomina
(giugno 1945) a presidente del Consiglio provinciale dell'economia,
in seguito ridenominato Camera di commercio, carica tenuta fino al
1959.
Nel 1945 fondò il Circolo linguistico fiorentino, che
sentì sempre più come sua creatura e che pose come
centro del suo magistero (Scritti minori, I-III, passim). Nel 1949
fu nominato presidente della Colombaria, restandovi fino alla morte,
e agendo per uno svecchiamento della antica istituzione. Nel 1954
venne nominato presidente dell'Istituto di studi etruschi. In
quest'ufficio rimase fino al 1964 quando, per i nuovi impegni
datigli dall'Accademia della Crusca di cui era stato eletto
presidente (1963), e per difficoltà interne all'istituto
stesso, fu costretto a dare le dimissioni. Dal 1963 l'impegno del D.
fu volto a riorganizzare la Crusca in vista della ripresa del
Vocabolario. In questo periodo si intensificò l'opera di
revisione e sistemazione di scritti precedenti; sempre più
frequente fu la collaborazione di allievi (G. Giacomelli, M. L.
Altieri Biagi, G. Buti, A. L. Prosdocimi, A. Nocentini).
Nel 1967, anno di abbandono dell'insegnamento per raggiunti limiti
di età, fu eletto rettore dell'università di Firenze.
Si trovò così ad affrontare la contestazione del 1968,
a Firenze precocemente scoppiata nell'autunno del 1967, con lo
spirito del liberale illuminato, e con una fattiva volontà di
intervento politico presso gli organi centrali (Scritti minori, III,
pp. 3-5, e Nencioni, in Per G. D.). Il 31 ott. 1968 rassegnava le
dimissioni da rettore, ma per l'impossibilità di trovare un
successore dovette restare in carica, come dimissionario, ancora per
un anno.
La perdita di amici carissimi come V. Santoli e, più ancora,
un ictus che lo colse in viaggio il 25 febbr. 1971 ("la grande
svolta": Scritti minori, III, p. 6) lo portarono, una volta
ristabilito, a due atteggiamenti complementari: da una parte a un
pensoso ripiegamento volto alla meditazione, dall'altra a un
rinnovato impegno esterno: nel 1972 organizzava il X Congresso
internazionale dei linguisti (Bologna 28 agosto - Firenze 5 sett.
1972). Il declino fisico, mai mentale, si accentuò verso la
fine del 1974: in condizioni di salute pessime volle partecipare ad
una seduta della Crusca (18 dicembre), passando di lì
all'ospedale, sempre a Firenze dove moriva il 25 dic. 1974. Per sua
volontà fu sepolto a Borzonasca (prov. di Genova) nella tomba
di famiglia, dove lo raggiunse poco dopo la moglie, Olga Rossi, la
cui presenza era stata essenziale nella sua vita, privata e
pubblica.
Era socio dell'Accademia dei Lincei, dell'Accademia della Crusca,
dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria",
dell'Istituto di studi etruschi ed italici, del Cercle linguistique
de Paris, dell'Institut de France, dell'Istituto archeologico
germanico di Roma; era socio corrispondente dell'Istituto veneto di
scienze, lettere ed arti, dell'Accademia delle scienze di Torino,
dell'Istituto lombardo di scienze e lettere, ed era socio straniero
delle Accademie delle scienze di Argentina, Austria, Baviera,
Belgio, Danimarca, Finlandia, Iugoslavia, Norvegia e Svezia. Gli
erano state conferite, inoltre, sette lauree honoris causa: dalla
Sorbona e dalle università di Basilea, Berlino (Humboldt),
Cracovia, Lima (San Marco), Strasburgo, Zagabria. (Mastrelli, in Per
G. D.).
Il D. non è inscrivibile nell'ambito di una sola scienza, la
linguistica; come scienziato gli è pertinente piuttosto la
qualifica di storico. Ciò oltre, e in modo più
pregnante, l'etichetta del "neo-storicismo linguistico" che lo
stesso D. aveva coniata per la propria posizione teoretica (Scritti
minori, I, p. 27).
Dall'autobiografia (1957) si hanno indicazioni per la formazione
scientifica a partire dagli anni del ginnasio, ma specifiche solo a
partire dalla tesi di laurea (1919-20), che giudicava con
severità: "...racconto romanzato, indizio di un certo livello
di estrosità; ma anche ... intrinsecamente pericolosa e
fuorviatrice nel tema, inaccettabile nella esecuzione". Già
"devotiana" negli stili e nei contenuti è la prolusione del
1924 Glottologia indeuropea e glottologia classica (Scritti minori,
I, pp. 29-30;inedita fino al 1958 ss.; tutti gli scritti segnalati
solo da titolo e data della prima apparizione sono riuniti negli
Scritti minori I-III). Il richiamo ai maestri, specialmente
Wackernagel e Meillet, offre il destro per focalizzare compiti da
assegnare alla glottologia indeuropea "oggi" (cioè negli anni
Venti): "a) nella determinazione dei contrasti dialettali
indeuropei; b) nella progressiva coordinazione dei caratteri antichi
attestati nelle singole lingue"; in altre parole nella risposta alla
domanda: "in che cosa consiste la differenza che ha condotto il
greco ad essere greco, il latino ad essere latino?". Sono già
posti il tema della dialettologia indeuropea che maturerà in
Italo-greco e italo-celtico (1929), negli Antichi Italici (Firenze
1931; altre ediz. profondamente rimaneggiate: ibid. 1951 e 1967), e
poi nelle Origini indeuropee (Firenze 1962), e il tema della
storicità delle singole lingue che maturerà nella
Storia della lingua di Roma (1ediz., Bologna 1939, che corrisponde
ad un volume della Storia di Roma promossa dall'Istituto di studi
romani: 2ediz. con lievi modifiche, 1943-44, e successive ristampe;
trad. tedesca Geschichte der Sprache Roms, Heidelberg 1968, con
aggiornamenti; ristampa anastatica, con "Premessa" di A. L.
Prosdocimi e "Appendice bibliografica" di A. Franchi De Bellis,
Bologna 1983), e poi nel Profilo di storia linguistica italiana
(Firenze 1953) e nel Linguaggio d'Italia. Storia e strutture
linguistiche italiane dalla preistoria ai nostri giorni (Milano
1974).
Dopo l'esordio-programma della prolusione del 1924 l'attività
scientifica del D. si può infatti ripartire in filoni ideali,
in parte cronologicamente sovrapposti ma ben distinguibili nei loro
nuclei genetici e nelle fasi dell'elaborazione originaria.
L'attenzione alle lingue classiche si sposta tosto dal latino della
tesi (e di Adattamento e distinzione) al greco con la descrizione
del dialetto greco di Cirene (1928). A una frequentazione che
continuerà fino alla morte sia in lavori scientifici sia,
anche più profondamente, nei risvolti didattici: una parte
del corso annuale del D. era sempre dedicata ad almeno una lingua
classica. Espressione di questa didattica, ma anche portatori di
idee originali, furono La lingua omerica (Firenze 1936; nuova ediz.
rielaborata, ibid. 1963;ultima ediz. aggiornata da A. Nocentini, col
titolo La lingua omerica e il dialetto miceneo, ibid. 1973) ed i
Problemi ed orientamenti di grammatica e di storia delle lingue
classiche, in Introduzione alla filologia classica (Milano 1951;
nuova ediz. aggiornata a cura di A. L. Prosdocimi, ibid. 1973).
Qualche anno prima, anche per l'incoraggiamento di colleghi
fiorentini, affrontava temi di linguistica etrusca e, a fianco,
partecipava attivamente ai due convegni di studi etruschi (nazionale
del 1926e internazionale del 1928) e alla costituzione del Comitato
permanente per l'Etruria che si trasformerà poi nell'Istituto
di studi etruschi. La consuetudine con l'etrusco lo
accompagnerà fino alla fine della vita (Ilvalore di un
colloquio [di Studi etruschi], 1974). In una prima fase l'etrusco
è visto essenzialmente nell'aspetto formale (fonetica e
morfologia) e lo strumento euristico è il contatto-contrasto
con altre lingue. Nelle Tendenze fonetiche etrusche attraverso gli
imprestiti dal greco (relazione al I Convegno nazionale etrusco del
1926, comparsa in Studi etruschi, I, 1927) il D. affronta un tema
già trattato (W. Deecke e E. Fiesel), ma la novità e
la bontà dei risultati apparvero ai contemporanei come una
svolta (e come una tappa fondamentale, anche se datata, resta
tutt'oggi). Restano pure validi (storicizzati, ma non datati) i
lavori immediatamente successivi: L'etrusco come intermediario di
parole greche in latino (1928), Rapporti etrusco-italici (1929),
Contatti etrusco-iguvini (1930). In seguito il D. si rivolge
all'ermeneutica: Il cippo di Perugia, 1934; L'iscrizione di Pulena,
1936; Le lamine di Pyrgi, 1966. E vi si rivolge secondo una rigorosa
applicazione del metodo combinatorio, che in D. è più
che in altri chiaro delle sue matrici di approccio strutturale al
testo, come risulta nell'enunciazione esplicita: "rinunciare a
fissare dei particolari e pensare invece punti di partenza certi. I
particolari possono essere circoscritti in modo approssimato,
ovviamente una volta definiti i punti generali, cioè le basi
di partenza" (Studi etruschi, 1936, p. 277). La base metodologica
era stata tratta da un libro (recensito nel 1927) di E. Goldmann,
Die Duenos-Inschrift (Heidelberg 1926) e si condensa nel principio
che l'interpretazione - ogni interpretazione - va dal generale al
particolare. Erano gli stessi principî ermeneutici che il D.
andava applicando nello stesso tempo (1928-1937) alle tavole
iguvine. In occasione di questo testo princeps dell'Italia antica e,
quale testo rituale, di tutto il mondo classico, egli affina e
matura una concezione ermeneutica globale; l'esito a stampa, le
monumentali Tabulae iguvinae (Roma 1937;riediz., ibid. 1940, 1952, e
1962con supplemento), sono la testimonianza di un rigore
metodologico esemplare (si può dissentire sul metodo, o parte
di esso, ma non sulla coerenza: Prosdocimi, in Onoranze a G. D.): vi
è qui il principio della "riprova interna", l'esaltazione del
metodo combinatorio, magistralmente da lui applicato: Per la
"riprova interna" è necessario un "esterno" cognito,
importato nello "interno" incognito; il limite del D. è di
non importare nuovo "esterno", il merito grandissimo è di
portare alle estreme conseguenze tutto lo "esterno" precedentemente
importato in una costruzione in cui tout se tient e che chiude (e
apre) un'era. L'interpretazione, intesa e praticata come "edificio
interpretativo", è stata esplicitata metodologicamente
più volte (per tutte si veda l'articolo-recensione del 1962
al Dialect ombrien di A. Ernout del 1961, in Scritti minori, II, pp.
305-306).
Sulle tavole iguvine, come su altri testi italici, il D.
tornerà in seguito con interventi volti a ribadire le proprie
interpretazioni o i propri principî metodologici nei confronti
di altri studiosi (oltre al citato Emout, V. Pisani, E. Vetter, G.
Bottiglioni) ma pure per rivederle, anche in punti essenziali, ove
il punto di vista altrui o proprio, nel frattempo maturato, portasse
a soluzioni più convincenti: qui, come sarà sua
caratteristica, il D. arrivava presto a maturare una tematica nella
forma che poi avrebbe seguito per tutta la vita, ma ciò non
impediva di rivederne aspetti anche fondamentali, come è, per
esempio, il caso degli Antichi italici del 1931 nelle due successive
edizioni (1951, 1967). Quest'opera, insieme con Italo-greco e
italo-celtico, pone da una parte il risvolto linguistico e storico
dell'attività ermeneutica delle tavole iguvine; dall'altra
pone al D. l'occasione di focalizzare quella concezione storicizzata
dell'indeuropeo che nella prolusione del 1924 era solo
programmatica: tutte le sue opere posteriori di ambito indeuropeo
hanno qui le radici, come, più in generale, quasi tutte le
tematiche successive.
Il decennio che va dal 1929 (Italo-greco...) al 1939 (Storia della
lingua di Roma) è il decennio che vede nascere la maggior
parte delle opere più significative; lo stesso Profilo di
storia linguistica italiana (1953), da alcuni ritenuto il capolavoro
del D., prosegue storiograficamente la parte finale della Storia
della lingua di Roma. Queste datazioni di "nascita" sono essenziali
per capire un certo D., specialmente quello della ricostruzione
preistorica culminata nelle Origini indeuropee (1962) e, per altro
versante, per qualificare l'idealismo e il crocianesimo come
referente della storiografia (di storia linguistica e di storia
totale) delle teorie del D.; quello che è apparso
inessenziale teoricamente (Ramat, G. D.) trova le giustificazioni
nella biografia per cui tutta la tematica successiva si delinea e
riceve forma, anche psicologica, nel clima e coi referenti
dell'anteguerra; in questo decennio, Italo-greco e italo-celtico e
Gli antichi Italici sono, oltre che una chiave della biografia
scientifica, un punto di riferimento oggettivo della scienza. Nel
primo, contemporaneamente a C. Marstrander, portando alle estreme
conseguenze certa dialettologia indeuropea di A. Meillet e di J.
Vendryes e la revisione di dialettologia celtica (e italica) di A.
Walde, il D. conclude: "II concetto di italo-greco è
perciò definitivamente superato; ma quello di italo-celtico,
più che erroneo, è inutile; la sua eredità va
divisa fra la teoria, puramente linguistica, dei dialetti
indeuropei, e la preistoria dei Celti e dei popoli dell'Italia
antica, delle loro condizioni sociali, conservatesi per lungo tempo
affini. Ma dev'essere aggiunta subito l'affermazione che il distacco
dei Latini dagli Osco-umbri non è un fatto italico, ma un
fatto dialettale indeuropeo, che in Italia gli indeuropei sono
venuti in strati diversi: che l'unità storica che si
può essere costituita in Italia è un fatto
indipendente dalla loro più antica parentela linguistica. La
comparazione linguistica non si limita così a una conclusione
puramente teorica, ma offre un contributo di capitale importanza
agli studiosi della preistoria italiana".
La proposizione finale (ora in Scritti minori, I, pp. 153-54)
è storicizzata negli Antichi Italici (opera che ai fini
storiografici va letta innanzitutto nella prima edizione); la
storicizzazione della fase preistorica è operata grazie ad un
connubio "linguistica-archeologia", nel fissare strati linguistici
allo spazio, al tempo, a una determinata cultura tramite
l'archeologia. Più che le singole operazioni è da
focalizzare il principio operativo che il D. non abbandonerà
più e che avrà spesso occasione di rivendicare
(Linguistica e archeologia, 1938; Il problema indeuropeo come
problema storico, 1941; ecc.) e che troverà una grandiosa
applicazione nelle Origini indeuropee (1962).
La prima sezione degli Antichi Italici, preistorica e protostorica,
pur basata su precedenti, per chiarezza di formulazione fonda di
fatto la successiva dottrina della "scuola italiana"
sull'indeuropeizzazione d'Italia in due aspetti caratterizzanti; uno
fattuale: latino e italico (osco-umbro) sono due dialetti indeuropei
distinti, dove i tratti diversificanti sono antichi, quelli
unificanti sono recenti e dovuti a convergenza in Italia; uno
teorico: la dialettologia indeuropea è (deve essere) calata
in un ipotesi storica per cui - traendo un'implicazione che il D.
non ha esplicitato - non si dovrebbe più parlare di latino (o
protolatino), italico (o protoitalico), ma di latini (o
protolatini), italici (o protoitalici) ancorati nello spazio e nel
tempo (nel caso con arrivo in Italia a distanza di millenni).
Questa simbiosi tra classificazione linguistica e ipotesi
storiografica è ciò che distingue il D. da altri
ricostruttori e classificatori; la distinzione è essenziale
perché (trasposto in termini non devotiani) il D. pone una
ipotesi "forte", e precisamente la reificazione storica del fenomeno
della lingua: l'accaduto avvenimentale è necessario supporto
di qualsiasi ipotesi linguistica (e genealogica), che pertanto non
può essere solo linguistica. Ciò si collega, si
inserisce nel fatto che della lingua il D. ha sempre sentito la
storicità, non come il buio in cui tutto è nero e si
confonde, ma come la dimensione in cui si deve trovare il limite
esplicativo, non senza il tecnicismo o lo specifico linguistico, ma
"dopo" e "oltre" il tecnicismo e lo specifico. Per il dato
linguistico come "fonte di storia" il D. si è sempre battuto:
per la storia, perché non si privasse di fonti alternative a
quelle tradizionali; per la linguistica, perché non fosse
relegata nel tecnicismo fine a se stesso.
Questa prima sezione, preistorica e protostorica, degli Antichi
Italici subirà grosse modificazioni - fattuali, non
metodologiche - nella seconda edizione (1951): questi cambiamenti
sono il portato dei progressi scientifici negli studi sull'Italia
antica e del formarsi di una nuova disciplina, l'etruscologia, che
era stata formulata esplicitamente da M. Pallottino (anni Quaranta),
ma per la quale il D. può essere considerato uno dei padri.
La formulazione nell'edizione del 1951 contempla una tripartizione
degli indeuropei in Italia (protolatini, "protoveneti", italici),
che resiste, anche se modificata, nell'edizione del 1967; nella fase
finale anche questa si dissolve in una nuova storicizzazione secondo
il modello elaborato nel Profilo di storia linguistica italiana del
1953 ("tanti italiani quante le pievi"). Ad una critica a questa
evoluzione il D. precisa (1972, Quanti Italici): "Ionon mi sono
battuto perché i rami fossero due o tre invece di uno unico.
Mi sono battuto contro la nozione dei rami. Dicendo "italico" in
questo secondo senso, dò una definizione comune a quella
massa di tradizioni indeuropee che dall'Oglio all'Adige o sulle
teste di ponte del Medio Adriatico o della Puglia si sono assestate,
di là irradiate per spazi amplissimi, indipendentemente dalla
loro compattezza originaria e dalle affinità che hanno potuto
più o meno salvare, e dai contatti che hanno potuto
progressivamente stabilire, fino a quello di Roma".
Gli Antichi Italici sono stati discussi e rivisti specialmente per
la prima parte, preistorica e protostorica, che costituisce meno di
un terzo del libro. Èrimasta in ombra la seconda parte che
rappresenta il primo tentativo di una storia italica non romana (e,
vedendo a posteriori, non etrusca) secondo un desideratum (si veda,
retrospettivamente, Storia italica, in Riv. ital. di filol.
classica, 1969).
Così nel 1939 (ma datata 1940) esce la Storia della lingua di
Roma: opera compiuta, organica, classica, dove è un fecondo
crogiolo di realizzazioni e potenzialità. Oltre
all'identificazione del latino come fatto romano, viene identificata
nel latino una dimensione "sociolinguistica" (ante litteram): la
quadruplice simmetrica partizione (p. 378) che discende da J. A. H.
Murray (Old English Dictionary) può essere soggetta a
critiche, ma è un caposaldo, una conquista rispetto a quanto
precede, specialmente nel tentativo di offrire una spiegazione
globale di quel fenomeno complesso e pluristratificato che è
una lingua storica. Èstato criticato lo scarso peso dato alla
lingua letteraria. Ma la critica non coglie il bersaglio; nel
momento in cui era stata scritta l'opera era necessario rivendicare
funzioni non letterarie del latino come lingua storica: se
accettiamo la reductio a lingua letteraria, questo latino non
è, quale lingua storica, una lingua nella completezza delle
sue funzioni, di una lingua storica questo latino sarebbe al massimo
una faccia, importante e storicamente eccezionale, ma una faccia.
È da porre qui - tra gli Antichi Italici e la Storia della
lingua di Roma - la genesi delle Origini indeuropee del 1962; non
solo come occasione biografica (indicazione del D. stesso) ma come
clima scientifico. Le Origini hanno avuto accoglienze diverse ma, di
massima, non adeguate alle aspettative del D., che riuniva qui - in
un'opera che si presentava come summa di due filoni portanti della
sua personalità - l'esigenza di storicità in generale
e la questione indeuropea come problema storico di dati di lingua da
storicizzare, in primis ricorrendo all'archeologia preistorica. In
questa prospettiva è un libro che va considerato globalmente
oltre alle realizzazioni o tesi singole; è la proposizione
storiografica angolata dalla linguistica per fare storia dove non
c'è storia o per trovare nuove fonti dove c'è storia.
Come gli Antichi Italici erano stati l'occasione per individuare la
lingua come storia e il "dato di lingua come fonte di storia", la
Storia della lingua di Roma pone l'occasione di identificare la
posizione della storia linguistica in rapporto alla storia globale;
quanto di teorico al proposito è dato come Appendice
sarà poi sviluppato in un volumetto autonomo (Ifondamenti
della storia linguistica, Firenze 1951).
La fine del decennio in questione vede un D. che accanto ai normali
interessi romanistici di un linguista di formazione italiana si
accosta come linguista ai testi letterari: questa occasione,
congiungendosi con il tema "storia linguistica", informerà il
grosso della futura attività del D. fornendo insieme
l'impianto teorico e l'occasione di applicazione all'italiano in
tutti gli aspetti, fino a dove la lingua, tramite la coscienza della
lingua, diventa tutt'uno con la coscienza civile e la
moralità nazionale. Èlo stesso D. che descrive (in
Scritti minori, I) lo sviluppo teorico degli anni Quaranta: "I
motivi teorici, interni alla Storia della lingua di Roma, erano
stati illustrati solo nell'appendice. Essi consistevano
essenzialmente nella tesi della doppia polarità delle
manifestazioni linguistiche, che nell'ambito di una stessa lingua
sono ora letterarie e ora popolari, ora tecniche e ora usuali.
"Questi problemi furono approfonditi in un libro importante di
Giovanni Nencioni, uno studioso che da allora in poi è stato
sempre vicino a me, e così intensamente, proprio anche in
queste pagine. Per suggerimento di colleghi argentini, nacquero
alcuni anni dopo in italiano e in spagnolo i Fondamenti della storia
linguistica nei quali la fedeltà alla distinzione tra
"lingua" (collettiva) e "parola" (individuale) è corretta da
due novità importanti: la stratificazione della "parola",
rispettivamente "agrammaticale" "pre-grammaticale", "grammaticale";
la differenza soltanto quantitativa tra storicità risoluta
della osservazione diacronica e quella, rallentata ma non soppressa,
della osservazione sincronica. È una posizione non
anti-strutturalista, ma solo fino a un certo punto strutturalista
(o, almeno, strutturalista con giudizila), su cui dovrò
ritornare".
A complemento è da dire che gli studi sulla lingua di autori
italiani e stranieri (da s. Margherita a Gadda a Proust), raccolti
negli Studi di stilistica (Firenze 1950), sono introdotti da un
lungo capitolo teorico (ora anche in Scritti minori, III) che in
parte anticipa, in parte completa in senso di lingua letteraria
(nell'accezione del D., avulsa da giudizi estetici) i Fondamenti del
1951 (sulla tematica "storia linguistica - storia della lingua" si
veda Varvaro, in Romance philology, XXVI, 1972).
Il mondo romanzo e specificamente italiano è dunque
l'occasione di approfondire il senso della storicità della
lingua che per il D. si identifica con l'essere della lingua stessa.
L'approccio è tramite la "stilistica" che per il D., a
differenza di Spitzer e, per opposte ragioni, di Bailly, consiste in
una operazione differenziale tra la norma e le scelte degli autori,
senza giudizi di valore letterario ma con giudizi di valore
linguistico: quando la lingua di un autore si allontani dalla norma,
e quanto di questo scarto abbia esiti nella comunità
linguistica; la "stilistica" è un modo di storia linguistica
per personaggi, potenziali creatori di lingua. È una
concezione diacronica della lingua, che non nega la sincronia, ma
che supera quello che nella sincronia è limite e
deformazione, la staticità; la stilistica delle scelte
è necessariamente diacronica nel senso che può
esistere solo con un prima e un dopo, esattamente come l'economia
(che il D. invoca spesso, fino a un parallelo tra leggi economiche e
leggi linguistiche).
I pericoli insiti in questa concezione sono temperati dal concetto
di "lingua come istituto". La lingua come istituto, naturale
maturazione della stilistica delle scelte ad esito sociale, è
il presupposto storiografico del Profilo di storia linguistica
italiana (1953). "Dalla frantumazione della lingua latina,
conseguenza del crollo di una unità politica e di una
civiltà, il ricostituirsi di focolai culturali, di
aggregazioni sociali e politiche, e il costituirsi di koinai
linguistiche, fino al conseguimento di una nuova unità
nazionale, a carattere culturale dapprima, finalmente politico e
sociale, sono seguite con sagace contemperamento dei fattori esterni
ed interni, collettivi ed individuali. Accanto ai singoli
protagonisti del farsi della nostra lingua, accanto agli "eroi"
fondatori, promotori, regolatori della letteraria e accademica
lingua italiana, sono individuati eventi e fattori non letterari,
quali vie, commerci, esigenze amministrative, guerre, emigrazioni,
scuole, livelli sociali, il passaggio del potere a ceti diversi. Il
principio che domina la visione di Devoto è che la lingua
sia, come il diritto, institutio vitae communis, strumento di
coesione sociale. Di qui il valore socialmente costruttivo che egli
dà al rispetto della lingua comune, della norma grammaticale,
financo al conservatorismo puristico, di contro alla
"asocialità" delle ribellioni alla "forma" non già
retorica, ma propriamente linguistica" (Nencioni, in Onoranze a G.
D.).
Il Profilo, scritto di getto è forse inaspettato, ma non
è un fiore nel deserto; dalla metà degli anni Trenta
data l'interesse alla lingua nazionale; in ciò è da
porre la fondazione di Lingua nostra (1939) col neopurista Bruno
Migliorini; l'interesse alla lingua nazionale cresce col tempo fino
ad assorbire praticamente tutta l'attività dell'ultimo
Devoto. "Il Devoto italianista è quello che dà la
norma agli altri, cioè li precede e li domina, se è
vero che solo l'esperienza della lingua materna, vissuta dentro la
società che la vive, può dare alla riflessione
linguistica il senso di ciò che una lingua è nella
pienezza delle sue forme comunicative ed espressive e nella sua
identità stessa" (Nencioni, ibid.).
L'italiano gli offre il destro per la sua qualità
fondamentale di lettore-esegeta di testi; in un clima di sintassi
generativa e/o tipologica, cioè di sintassi formalizzata con
modelli di analisi precostituiti e cogentemente "oggettivi", le
Lezioni di sintassi prestrutturale (Firenze 1974, con "Bibliografia
critica" di A. Nocentini) sono reazioni individuali (ma non
impressionistiche) ad un solo libro, I promessi sposi. "Esso
rispecchia la sostanziale assenza di ambizioni propria di questa
ricerca, destinata ad illustrare tutto quello che è possibile
ottenere, rinunciando a terminologie troppo specializzate, o ad
astrazioni, o a schemi fondamentalmente precisi, ma staccati dalla
realtà. Inoltre esso documenta una volontà di
ripiegamento e ridimensionamento verso quanto è raggiungibile
attraverso l'intelletto umano, non assistito da altro che le sue
normali capacità, senza l'ausilio di strumenti o artifici,
che permettano di vedere l'infinitamente piccolo o di penetrare nel
profondo ... Neppure nel trattare temi di teoria grammaticale
(richiamo i notissimi saggi sullo "aspetto" del verbo, sulle
preposizioni, sul prefisso s in italiano) il D. si abbandona alla
tentazione del formalizzare che poteva venirgli dalla disciplina
più prossima, per tradizione secolare, alla grammatica: la
logica; ché la logica moderna, per il rigore estremo dei suoi
calcoli mentali, ha costruito propri codici simbolici, i quali con
la stessa presenza dimostrano l'insufficienza della lingua naturale
a quel genere di operazioni" (Nencioni, ibid.). Dopo lunga
gestazione, le Lezioni di sintassi prestrutturale escono poco prima
della morte, mentre postumo esce l'Itinerario stilistico (Firenze
1975, con introduzione critico-bibliografica di G. A. Papini) che
condensa i due precedenti volumi di scritti di stilistica (1952 e
1960), decurtati dalle sezioni teoriche (comparse in Scritti minori,
III).
La grammatica per le scuole (Introduzione allagrammatica, Firenze
1941) si poneva su basi sintattiche e contrastive (ante litteram,
tra latino e italiano): insieme con la grammatica di Bruno
Migliorini, la linguistica militante entrava nella scuola. Parimenti
tra militanza accademica e scolastica è la serie di saggi
raccolti poi come Dizionari di ieri e di domani (Firenze 1946). Lo
sbocco pratico doveva essere nei due volumi del Vocabolario
illustrato della lingua italiana (in collaborazione con G. C. Oli)
che, nella riduzione scolastica, ha avuto fortuna: se a monte vi
è quella miniera che è il Dizionario enciclopedico
italiano, dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana, non è
meno vero che la materia vi è rinnovata e concentrata
("personalizzata", come annota Nencioni).
Contemporaneamente, quasi sezione staccata, esce il dizionario
etimologico Avviamento all'etimologia italiana (Firenze 1967). Il
culmine dell'attività lessicografica del D. è
però la rifondazione del Vocabolario della Crusca (interrotto
d'autorità nel 1923), fino ad assumere la presidenza
dell'Accademia (1963). Ciò portava a "rifondarlo con una
concezione nuova della lingua nazionale e della tecnica
lessicografica ... Il nuovo vocabolario della Crusca sarebbe stato,
secondo lui, la presa di coscienza che la nazione intera doveva fare
dell'intera sua lingua, non di una parte di essa, come in passato; e
perciò non la sola lingua letteraria, ma anche quella delle
arti, dei mestieri, della scienza e della tecnologia doveva esservi
documentata" (Nencioni, Onoranze a G. Devoto). L'avvio del
vocabolario è anzitutto un impegno civile, lo stesso che
aveva portato alla fondazione, con B. Migliorini, di Lingua nostra e
al suo modo di intendere la normatività che si collega alla
sua stilistica, la dinamica del farsi del linguaggio (si veda Lingua
nostra del 1940): "Storicità, socialità,
razionalità sono i tre cardini del pensiero di Devoto; sempre
compresenti nel suo argomentare ... Ma la storicità diventa
storicismo (o "neo-storicismo", come egli preferiva definirlo)
laddove, osservando "il dialogo incessante fra l'individuo e le
istituzioni della comunità linguistica cui appartiene", egli
ne trae il senso della vita di un popolo per il passato e l'auspicio
del suo destino per l'avvenire; come nelle "prospettive" che
chiudono nel 1953 il Profilo di storia linguistica italiana,
allorché vede i fattori costruttivi del travaglio postbellico
nell'innesto di tradizioni locali sulla tradizione letteraria e
nella ricerca di una "radice vivente" che saldi la struttura e la
funzionalità misurata dell'istituto linguistico alle esigenze
concrete dell'espressione e del suo ambientamento (Nencioni, ibid.).
Il linguaggio d'Italia (1974) era nato anni prima come sintesi in
vista di una traduzione americana (uscita postuma) della triade
Antichi Italici, Storia della lingua di Roma, Profilo di storia
linguistica italiana. È una occasione per proporre alcune
correzioni, specialmente nella prima parte (preistoria e Italia
preromana), ma, più, di ripercorrere la millenaria storia
linguistica d'Italia con sicuro occhio di storico, pacato nel
dettato ma vibrante nel contenuto; lezione di storia della lunga
durata (Folena, prefaz. a Illinguaggio d'Italia, 1974) prima ancora
che di storia linguistica.
L'attività elzeviristica dell'ultimo D. ha dato origine - a
partire dal 1965 con Civiltà di parole (Firenze) - a raccolte
in titoli allusivi e pregnanti che confermano la presenza, l'impegno
e il diritto civico a parlare di qualsiasi argomento, il connubio
tra linguistica, storia ed etica. È una produzione varia,
bisognosa in futuro di una qualificazione storica e storiografica
oltre le recensioni e le menzioni in occasioni commemorative. Il D.
era una personalità molto complessa e insieme molto semplice.
Semplici erano le motivazioni di base: una formazione
risorgimentale, con forte senso del dovere e insieme dell'ego, che
portava ad intervenire sempre, dove era possibile, col pensiero
trasposto in parola: "la mia estraneità - così
scriveva - alla vita pubblica, e in particolare politica, è
frutto, piuttosto che di delusione, di un inconscio amore di
potenza, che mi rende straniero e non interessato a tutto quello che
nella vita politica rappresenta rapporto di forza" (Scritti minori,
I, p. 26). Questo diritto di intervento del giudizio spiega
l'impostazione fortemente autobiografica di molta produzione
devotiana, specialmente nell'ultima fase, a partire da Per una
critica di me stesso del 1957 scritta in occasione dei sessanta anni
e preposta a Scritti minori, I, e continuata nelle due postille per
i settanta (ibid., II) e settantacinque (ibid., III) e nelle
centinaia di elzeviri in questo torno di tempo.