Emilio De Marchi
Demetrio Pianelli
www.liberliber.it
PARTE PRIMA
LORD COSMETICO
I
Verso mezzodí Cesarino
Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell'ufficio il cassiere
Martini piú pallido del solito, col viso stravolto, con un
telegramma in mano.
"Ebbene?" gli domandò,
"che notizie mi dà?"
"Bisogna che io parta
immediatamente. È moribonda!" rispose il Martini, con un
groppo alla gola che gli mozzò le parole.
Povero diavolo! L'aveva sposata
da poco piú di un anno e dopo un anno di tribolazioni, e
quasi di agonia continua la poverina moriva consunta a Nervi, dove
il medico l'aveva mandata a passare l'inverno.
"Vada, vada, Martini, resto io.
Si faccia coraggio, vedrà. La gioventú si aiuta
sempre."
"Dovrei avvertire il
commendatore, ma la corsa parte alle dodici e quarantacinque e non
ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli,
chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave
di quest'altra cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno
dieci o dodici mila lire in tutto."
"Se lei si fida di me, per
conto mio non ho bisogno di consegna" soggiunse il cassiere
aggiunto, tutto commosso e premuroso.
"Mi fa una carità. Tenga
conto del movimento di cassa e basta."
"Si fidi di me: vada, non perda
tempo" disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo
orologio con quello elettrico del cortile.
"Se c'è bisogno, mi
telegrafi."
"Si faccia animo; fin che
c'è vita, c'è speranza."
"Grazie" balbettò il
Martini.
Strinse la mano al Pianelli,
sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò.
"Povero diavolo!"
mormorò l'altro, tornando al suo posto. "Se c'è un
galantuomo, gli càpitano tutte."
Era il giovedí grasso.
Cesarino Pianelli, detto anche
lord Cosmetico, cassiere aggiunto alla Posta, si ricordò che
per le due e mezzo aveva dato convegno al Pardi, al Caffè
Carini, e cercò di sbrigare in fretta le quattro faccende
della giornata. Era un giorno di mezza vacanza anche per lui, che
per parte sua conosceva magnificamente l'arte di prendersela.
Quel giorno aveva promesso a
sua moglie, Beatrice, di condurla sul balcone del Gran Mercurio a
vedere le maschere.
"Ci vediamo stasera?"
domandò il Buffoletti, cacciando la testa nel finestrino dei
pagamenti.
"Sí, ma non prima delle
undici."
"Meni tua moglie?"
"Sí."
"Mi ha promesso l'Argo della
Ragione che verrà a fare una lunga descrizione della festa
sul giornale. Dammi il nome della tua signora."
"Beatrice. Se questo signor
Argo ci onora, avrò piacere di presentargliela."
"Guarda che i giornalisti sono
pericolosi."
Il Pianelli, che scriveva,
fumava e parlava tutto in una volta, mandò in aria un soffio
lungo di fumo con una smorfietta della bocca, come se volesse dire:
"Bah, soffio in viso ai giornalisti, io."
"Viene anche il commendatore?"
"Sono stato a invitarlo;
è raffreddato, ma cercherà di non mancare."
"A rivederci."
"Addio, bambino."
Il circolo Monsù Travet
era stato promosso e messo in piedi da questo Cesarino Pianelli nei
primi giorni di carnevale, per offrire agli impiegati di diverse
amministrazioni e alle loro egregie famiglie il mezzo di divertirsi
e di far quattro salti in economia.
La proposta ed il piccolo
programma avevano trovato appoggio non solo tra gli impiegati della
Posta - eccettuati, naturalmente, i pezzi piú grossi - ma
anche tra molti impiegati del Municipio e di Banche private, che
avevano versato in mano al Pianelli le venti lire di primo ingresso
e via via le cinque lire mensili per tutti i mesi dell'inverno.
Era un modesto principio: ma si
sperava che il circolo non dovesse morire cosí, e potesse col
tempo trasformarsi in un club di riunioni serali, o in un casino di
lettura, o in un sodalizio di mutuo soccorso, in una cooperativa, o
in qualche diavolo di questo genere.
Non erano le grandi idee che
mancavano a Cesarino Pianelli, che se avesse avuto centomila lire
alla mano...
Ma il primo suo torto era di
non averle. Se però gli mancavano i denari gli stava a
pennello il titolo che gli avevano regalato di lord Cosmetico,
appunto per le sue arie di grandezza e di sufficienza, per la
eleganza del suo modo di vestire, per i colletti in piedi, colle
cravatte costose haute nouveauté, per i polsini che parevano
di porcellana, e piú ancora per la lucentezza della chioma,
tirata a furia di cosmetico in due pezze profumate sopra le tempie e
aperta in due ventagli meravigliosi dietro le orecchie.
Non piú giovanissimo,
anzi, se si deve dire, piú vicino ai quaranta che ai
trentacinque, sapeva ancora colla carnagione bianca e fine e colla
sua aristocratica magrezza resistere agli urti del tempo e aspirare
al titolo di eterno bel giovine. La barba nera e crespa, morbida,
divisa in due piccole punte sul mento, finiva col dargli quel
carattere contegnoso e diplomatico che in questi tempi di
americanismo insorgente non si trova piú che nei grandi
camerieri del Cova, ultimi custodi delle tradizioni dei Palmerston,
degli Ubner, dei Visconti-Venosta.
Era un magro giovedí
grasso. Piovigginava. Tuttavia le strade formicolavano lo stesso
della solita gente che ha sempre voglia di veder qualche cosa anche
quando non c'è niente da vedere e che, in mancanza di meglio,
si contenta di vedere sé stessa. Qualche balcone addobbato,
qualche strillo di mascherotto, qualche carrozza coi campanelli,
davano di tempo in tempo delle illusioni di giovedí grasso,
ma intanto piovigginava malinconicamente.
Il Pianelli trovò il
Pardi, com'erano d'accordo, seduto davanti a un tavolino del
Caffè Carini, sotto i portici meridionali.
Melchisedecco Pardi,
fabbricatore di nastri di seta con ditta al ponte dei Fabbri, uomo
già sulla cinquantina, grasso d'una grassezza floscia e
linfatica, buono d'animo, non ingenuo negli affari, che soffiava
forte dalle canne del naso nel grosso bavero del suo paltò
color nocciuola, era detto anche Pardone per la sua leale
bonarietà e per la sua pancia.
Oltre il merito di saper fare
molto bene il suo mestiere, aveva quello d'essere il marito della
bella Pardina, una vespa tutt'ossi e spirito, con occhi tremendi,
che da ragazza lavorava in fabbrica per dieci soldi al giorno, che
aveva saputo farsi sposare dal padrone e che, a credere alle ciarle,
fabbricava ancora molto bene i suoi nastri a parte.
Palmira Pardi e Beatrice
Pianelli s'erano trovate a passare una vacanza insieme a Tremezzo
sul lago di Como, all'albergo Bazzoni, dove piú d'una volta
capitarono i rispettivi mariti colla solita corsa del sabato.
In campagna le amicizie sono
presto fatte tra gente simpatica. Chi non avrebbe voluto bene a quel
buon uomo grasso, cosí fino conoscitore del vino di Piemonte?
Sempre d'un umore, piene le tasche di biglietti di banca, avrebbe
sempre voluto pagar lui, tanto da obbligare lord Cosmetico, per non
restare mortificato, a far portare il marsala o il bordò o a
improvvisare un trattamento di dolci alle signore sulla terrazza.
"È un pezzo che mi
aspetti?"
"Un momento. Ho ricevuto
stamattina il tuo biglietto."
"Dunque? Me le puoi dare queste
duemila lire?"
"Signore Iddio!" rispose il
Pardi, grattandosi l'orlo di un orecchio. "Come puoi avere bisogno
di duemila lire?"
"M'è capitata una
disgrazia in un pagamento."
La voce del Pianelli si
affievolí un poco. Si vedeva l'uomo non abituato a dire
bugie.
"Di' che hai giuocato, invece,
e che hai perduto e amen!"
"Chi ti ha detto che ho
perduto?"
"Palmira."
L'occhio di Cesarino
s'incantò un momento nell'aria.
"E mi ha detto che hai giuocato
col tenore..."
"Bene, sí, ho giuocato e
ho perduto. È una disgrazia anche questa che capita a
chicchessia."
"Se tu mi avessi detto che in
questo vostro Circolo si giuoca, non avrei dato le mie venti lire di
buon ingresso."
"Non è che si giuochi,
anzi è proibito; ma quando passa una cert'ora, se c'è
chi tenta, non si è obbligati a essere sant'Antonio."
"Io non so che gusto da bestia
ci trovate in queste maledette carte."
"Ognuno ha i suoi gusti, Secco.
Tu, per esempio, preferisci andare a dormire all'ora delle galline e
c'è chi ama provare delle emozioni."
"Tua moglie lo sa?"
"Che c'entrano le donne?" disse
lord Cosmetico affettando un sublime disprezzo per le donne.
Il Pardi, che pareva un uomo
sulle spine, dopo aver cercato il cameriere cogli occhi,
comandò una birra.
Cesarino volle un assenzio.
"Ebbene, che cosa mi rispondi?"
chiese dopo un lungo e penoso silenzio il Pianelli, mentre lasciava
cadere a goccia a goccia l'acqua chiara nel suo bicchiere d'assenzio
verdognolo.
Il Pardi tentennò il
testone, gonfiò le ganasce e, col tremito di una ragazza che
resiste a care tenerezze, rispose:
"Mi rincresce ve', ma questa
volta non posso proprio davvero."
Cesarino, che non si aspettava
un rifiuto, indovinò subito da chi il buon ambrosiano aveva
ricevuta l'imbeccata. Con uno di quei risolini sardonici con cui
lord Cosmetico soleva soffiare la sua grande superiorità di
spirito, domandò:
"Te l'ha detto anche questo tua
moglie?"
"Uff!" fece il buon Pardone,
voltandosi per due terzi sui gomiti a guardare nella piazza dove la
folla andava agglomerandosi e crescendo. Il Pianelli era stato buon
indovino. Palmira aveva proibito assolutamente di dare piú un
soldo a questa gente bislacca e bisognava ubbidire.
"Senti, ti faccio anche una
cambiale, se vuoi."
"Che cambiale! Non posso,
perché non ne ho."
"Sai, son debiti d'onore!"
"Che onore d'Egitto! l'onore
è quando si lavora e si paga il lavoro degli altri."
"C'è onore e onore,
Pardi, e spiace sempre di fare una cattiva figura."
Cesarino pregò ancora
una volta cogli occhi piccini e addolorati in cui si agitava una
grande paura. Ma il Pardi si voltò a guardare le maschere.
Un piccolo raggio di sole,
allargandosi attraverso all'aria bagnata, entrò in una luce
biancastra e diluita a rallegrare un poco il Caffè, mentre
nell'altro lato della piazza, al comparire della prima mascherata
colla banda, si rianimava un po' di rumore.
Seguí un altro
bell'istante di silenzio, duro e arcigno da una parte, tedioso e
incomodo dall'altra, durante il quale il Pianelli pensò se
doveva inghiottire l'orgoglio e commuovere l'amico col racconto di
tutta la verità.
E la verità era questa:
le due mila lire perdute al giuoco col celebre tenore Altamura non
erano che il fondo di cassa raccolto per le feste del Circolo. Per
una boria da lord Cosmetico il Pianelli aveva pagato in pronti
contanti il suo debito d'onore, ma, non avendone di suoi, s'era
servito del denaro degli amici. Ora cominciavano i guai, i sospetti,
le diffidenze e aveva ragione di dire: "Spiace sempre di fare una
cattiva figura...."
Ora si trattava non piú
d'un debito di giuoco, ma di stima, di fiducia, di delicatezza, e a
Cesarino bruciava piú che se avesse ricevuta una coltellata
nella carne.
"Ti pago gli interessi"
provò a soggiungere.
"Non ne ho, e quando non ne ho
è come spremere l'acqua da un sasso" rispose con una certa
furia di uomo seccato il buon Melchisedecco Pardi, detto anche Secco
o Pardone.
"Scusa..." si affrettò a
dire coi denti stretti lord Cosmetico, che credeva d'aver pregato
fin troppo. "Ti chiedo un prestito, non ti chiedo mica l'elemosina,
per tua regola."
"Non...."
"Scusa, ho creduto di
rivolgermi a un amico prima che a un usuraio."
"Ma se...."
"Scusa, ti dico. Tu hai
ricevuto gli ordini e fai bene a eseguirli." E qui lord Cosmetico
tracciò in mezzo al suo discorso funebre un risolino ancora
piú sardonico e tagliente del primo. Poi soggiunse,
alzandosi: "Scusa il disturbo e procura di dormire i tuoi sonni
tranquilli."
Pardone lo guardò con un
occhio piccolo e cruccioso. Che cosa voleva dire il signore?
Coll'aria alta e principesca
che sapeva assumere nei grandi momenti, lord Cosmetico gettò
i sei soldi dell'assenzio sul vassoio e uscí dritto dritto in
un pezzo come se avesse ingoiata una canna di fucile.
Stette un momento sulla soglia
a contemplare l'unghia lunga del dito mignolo, che era il suo modo
di riflettere nei momenti piú gravi e pensò di passare
di là, al Caffè Campari, in cerca di un certo
Guerrini, detto anche il Bòtola, che prestava volentieri al
trenta per cento. Ma la piazza era cosí piena di gente in
quel momento...
Pardone, appoggiato colle
gomita grasse al tavolino e alla sedia, seguitò a guardare le
maschere cogli occhi gonfi e imbambolati.
Una grande commozione saliva e
scendeva dentro di lui, facendo quasi le onde nella carne floscia
del suo corpo di buon ambrosiano.
Egli aveva obbedito a Palmira,
col dar nulla, e Palmira non ragionava male. Casa Pardi non era il
pozzo di san Patrizio. Né questa era la prima volta che
Cesarino parlava di prestiti e di cambiali.
Prima trecento lire, poi
cinquecento, poi ottocento, adesso duemila... eh! eh! ce ne vogliono
dei nastri per far tanti denari...
Se il signor Pianelli voleva
fare il lord e mandare in lusso la moglie, non era bello niente
affatto che i conti li facesse pagare agli amici. Son giusto i tempi
di mungere un povero industriale, coi prezzi che si fanno della
seta!...
"Cambiali!" tornava a pensare
il povero Pardone, tutto arruffato ancora della violenza fatta al
suo buon cuore. "Quando non si ha che lo stipendio di un travetto,
una moglie bella, giovine, ambiziosa e tre figliuoli da mantenere,
le cambiali si possono dare alla lavandaia insieme alla... alla...
dei marmocchi."
Pardone, gonfio ancora come un
boa, ripeté tre o quattro volte questo monologo, guardando
senza veder nulla le maschere e la gente che si agitava verso l'arco
della Galleria Vittorio Emanuele.
Finalmente ordinò al
piccolo un'altra birra.
"Che cosa aveva voluto dire il
signore colla frase: cerca di dormire i tuoi sonni tranquilli?
Voleva alludere a Palmira e al tenore?"
Egli era buono come un angelo,
buono due volte, ma non tre volte; e il signor Cesarino aveva torto
di vendicarsi di un rifiuto col lanciare là delle frasi in
aria senza senso. Stupidello!
Si voltò ancora una
volta verso i portici nella speranza di vedere ancora il Pianelli.
Aveva bisogno di farsi spiegare quella frase. Era stato una bestia a
non chiedere subito una spiegazione...
Girò gli occhi in su e
in giú, ma il Pianelli se ne era già andato. Pardone
avrebbe dato ora non due, ma quattro mila lire e una tazza di sangue
per avere la chiave di quelle maledette parole.
Sentendosi morir di sete,
tracannò d'un fiato il suo shop di Vienna, e si nettò
i baffi bagnati di spuma col dosso della mano bianca e grassoccia.
Il Pianelli, col suo risolino
sarcastico raffreddato sulle labbra, risalí i portici
meridionali fino all'altro capo dove era la sede del Circolo, in
alcune sale di angolo tra la piazza del Duomo e la via Carlo
Alberto.
"Imbecille!" diceva
mentalmente, pensando al povero Pardi. "Invece di obbedire alla
moglie, dovresti proibirle di cantare dei duetti troppo teneri col
tenore."
Trovò le sale del
Circolo aperte e ancora in quel disordine affaccendato che precede
una festa. C'erano in mezzo agli operai il Miglioretti e Adone
Bianchi, che in maniche di camicia aiutavano i tappezzieri a
collocare alcune grosse ghirlande di edera e di fiori di carta
intorno alle pareti del salone da ballo.
Il Bianchi, che allora faceva
le parti di brillante nelle farse del Filodrammatico, quando vide il
Pianelli, gli andò incontro, lo tirò in disparte e gli
disse colle sue solite declamate freddure:
"Odi, fellone. C'è stato
il maestro Cappelletti a dire che, se non gli paghi gli arretrati,
egli non canta nei cori, cioè emigra col piano e
coll'orchestrina a Porta Genova. Aspetta la risposta fino alle
cinque: dopo si ritiene sciolto da ogni obbligo con noi. Questa
è bella, Palamede! che si dovesse ballare senza suonatori?
Vola, metti le ali ai piedi e il cimiero in testa e ferma il
fellone, o si va tutti quanti sull'Uomo di Pietra. Questa è
una. C'è stato poi anche il padrone del Caffè Carini a
dire che ha sete."
"Cioè?" chiese il
Pianelli, che ascoltava col viso duro, rosicchiando lentamente la
sua bellissima unghia lunga.
"Ha contato cento storie.
Vorrebbe almeno qualche acconto per il servizio dei mesi scorsi.
Pare insomma che stasera voglia far sciopero anche lui. Io gli ho
detto che non sono cassiere, né figlio di cassiere, ma che ti
avrei parlato. Pazienza i suonatori! ma se mancano anche i sorbetti,
numi del cielo, che fia di noi?"
Le declamazioni del Bianchi non
riuscirono a far ridere il Pianelli, che disse con un accento freddo
e monotono: "Vorrei sapere chi è quell'imbecille che si
diverte a organizzare queste stupide commedie. Si son dati la parola
d'ordine..."
Il Pianelli, in apparenza
tranquillo, faceva ogni sforzo per soffocare lo spavento che tutte
queste notizie suscitavano nel suo cuore. Di conti e conterelli e
proteste ne aveva ricevuti anche durante la giornata e si vedeva una
mano che si divertiva a seminare il sospetto e lo scredito.
Si sapeva ch'egli aveva
giuocato e perduto: si sapeva forse che egli aveva pagato coi denari
del fondo sociale, e forse gli stessi soci mandavano avanti i
creditori per metterlo con le spalle al muro.
Se non pagava prima di sera il
Cappelletti, il Carini e gli altri; se la festa per colpa sua non
aveva luogo, egli avrebbe dovuto confessare agli amici e ai nemici
che non c'erano piú denari. Era una brutta figura che non
voleva fare, Dio santo!
Qualunque altro anche meno
superbo di lui avrebbe inorridito all'idea di dover confessare ai
propri colleghi un cosí indelicato abuso di fiducia. Ecco
perché aveva pregato e supplicato tanto il Pardi... ma aveva
fatto i conti senza... le donne. Credeva d'indovinare da chi partiva
la mossa. Oh, le donne!
Beatrice aveva il torto
d'essere stata la piú bella e la piú elegante in tutte
le feste di quel carnevale e non si offende senza pericolo una donna
magra e galante collo spettacolo della propria felicità. La
Pardi, oltre a essere per sua natura invidiosa e vespa, abituata a
vincere e a trionfare, avendo trovato forse della freddezza e del
sarcasmo nel bel Cesarino, faceva vedere che le magre non perdonano.
Cosí almeno egli andava argomentando: ma tutte queste
considerazioni finirono coll'irritare un carattere già per
sé stesso sanguigno e sospettoso, inclinato già
naturalmente ad esagerare il valore e la portata delle cose. Gli
pareva di scorgere una vasta e misteriosa congiura di tutto Milano
contro lui, contro sua moglie, contro i suoi figliuoli...
Non potendo piú stare
alle mosse, discese a volo le scale del Circolo, ritraversò i
portici nel momento che ferveva il corso mascherato, e invece di
piegare verso il Carrobio, cioè verso casa, dove lo aspettava
Beatrice, svoltò nel piazzale deserto del Palazzo di Corte e
per il passaggio dei Rastrelli arrivò in cinque minuti alla
Posta.
Ve lo aveva portato, piú
che un pensiero, l'istinto, ossia quella forza di gravitazione che
tira un corpo che cade verso il luogo del suo equilibrio.
Anche qui il portiere gli
consegnò una busta gialla. Era un conto della Società
del gas con una noterella del direttore, che minacciava le tenebre,
se non si dava corso alle vecchie quietanze.
Cesarino sentí proprio
venire addosso il buio come un uomo che sprofonda nell'acqua. Era la
congiura. Era la parola d'ordine. Era qualcuno che si divertiva
bestialmente a tormentarlo per il gusto di vederlo soffrire.
Se avesse avuto tempo di
scrivere a suo suocero... Ma il buon uomo stava fino a Melegnano e i
denari occorrevano subito. Poiché c'erano dei maligni
interessati a comprometterlo, a questi egli voleva rispondere col
denaro in mano. Sonavano le quattro, quando entrò nel locale
della cassa. Non c'era nessuno, gli sportelli erano chiusi. Il
portiere aveva chiuso anche le gelosie della stanza che stava
immersa in una mezza luce grigia, dentro la quale dominavano, nella
loro massiccia riquadratura, le due casse di ferro, d'un colore
verdastro lucido, a grosse borchie ribadite sulla lamiera. Quelle
due casse erano piene di denari.
Il Pianelli, che nella sua
paurosa disperazione sentiva quasi attraverso alla grossezza del
metallo la presenza del demonio che lo tentava, cominciò a
soffrire d'inquietudine, mosse qualche passo per la stanza, si
asciugò la fronte madida di sudore, andò a vedere se
il portiere era ancora di là, nella corsía, oltre
l'assito: non vide nessuno, accostò l'uscio, girò
lentamente la chiave, e si trovò solo in compagnia di quei
due mostri di ferro, che lo chiamavano colla voce potente del loro
ventre.
Non voleva commettere, come si
dice, una porcheria.
Piú d'una volta aveva
assistito allo spettacolo miserevole delle altrui prevaricazioni, e
troppo bene conosceva le conseguenze d'una cattiva azione per
giocare alla cieca una carta cosí pericolosa.
Il Martini s'era fidato di lui,
come un uomo si può fidare di un fratello, e per quanto
l'occasione lo tentasse, per quanto la responsabilità
ufficiale non fosse sua, per quanto un'irregolarità si
potesse sempre giustificare colla scusa che non v'era stata regolare
consegna, per quanto insomma un uomo che affoga non abbia rimorso di
attaccarsi a un altro uomo, anche per affogare con lui, con tutto
ciò egli sentiva troppo altamente di sé per scendere
fino al punto di coprire un abuso con una malvagia azione.
La sua idea non era di tradire
un povero diavolo, né di toccare i conti di cassa: ma
solamente di approfittare dell'assenza del Martini per provvedere
provvisoriamente a una dura necessità. Con un migliaio di
lire alla mano egli poteva far tacere sul momento i piú
feroci creditori, smorzare i sospetti, rifare per un giorno il suo
credito in faccia agli amici, dare degli acconti al Carini, al
Cappelletti, alla Società del gas, sventare, scombuiare la
trama invisibile di tanti invidiosi, che odiavano in lui l'uomo di
spirito, l'uomo sarcastico, il talento superiore e perfino il marito
d'una delle piú belle donne di Milano. Colla fantasia
suscettibile degli orgogliosi egli credeva veramente a una segreta
persecuzione di tutti quanti contro di lui, e poiché non
c'era per il momento altro rimedio...
Appoggiò la fronte
ardente alla parete d'una delle casse, e stette un momento a godere
il senso di freschezza che usciva dal metallo e a respirare l'acre
odore della vernice. Poi, come se due mani non sue operassero per
lui, aprí uno sportello e riempí il vano colla
persona. Allineate in doppia fila erano le ciotolette di ferro con
dentro i biglietti di vario colore: alcune erano piene d'oro, altre
piene d'argento. Qui lo assalí un forte sentimento
d'onestà, e ricuperando la padronanza di sé,
crollò il capo come se dicesse: "Che diavolo! Non sei qui per
rubare." Prese il portafogli, levò un biglietto di visita,
col suo nome stampato, vi scrisse colla matita: "Prelevate lire
mille", mise il biglietto in una ciotola al posto di due altri
biglietti di cinquecento, che collocò nel portafogli. Chiuse
senza furia, colla regolare precisione delle altre volte, fece
un'altra giravolta per la stanza, per sgranchire le gambe, e
canterellando un'arietta, uscí dalla corsia, chiamando
apposta: "Gerolamo..."
Il portiere si fece chiamare
due volte, finalmente comparve dalla parte della scala con un
inaffiatoio in mano. Pianelli si fermò a dargli qualche
ordine, in tono alquanto ruvido: ma poi si rabboní d'un
tratto e soggiunse: "Non devo pagarti dei sigari?"
"Sí, i cinque virginia
di stamattina."
Il Pianelli mise una lira nella
mano del portiere e se ne andò senza aspettare il resto.
Superbo sí, ma generoso! Uscí che già
cominciava ad imbrunire. La giornata era tornata bigia e noiosa.
Molta gente veniva dal centro con aria poco contenta, e qua e
là luccicava qualche ombrello aperto sotto la luce che
mandavano fuori le vetrine illuminate. Il signor Pianelli
saltò in una vettura e in men di mezz'ora pagò il
Carini, il Cappelletti, la Società del gas, mostrandosi
né corrucciato, né allegro, ma colla naturalezza
dell'uomo che sa fare una giusta economia del suo tempo. Gli
avanzarono ancora trecento lire, colle quali avrebbe potuto offrire
qualche altra soddisfazione agli increduli; ma pensò di farsi
vedere anche al Circolo, dove gli operai finivano di dare l'ultima
mano ai preparativi.
Mentre Cesarino correva col
cuore in bocca a questo modo per la città, sua moglie
Beatrice, a casa, non finiva mai di specchiarsi nel suo bel vestito
lucido di surah color perla e s'immerse tanto nei preparativi della
sua toeletta che dimenticò il corso, le maschere, e perfino
l'ora del pranzo.
Madame Josephine aveva
preparato questo gran vestito per una contessa Castiglioni: ma aveva
dovuto ripigliarlo per un improvviso lutto di famiglia. Stava per
mandarlo a Roma a un'attrice che doveva recitare al Valle nella
stagione di quaresima, quando capitò a Beatrice di vederlo
nelle mani dell'Elisa, la giovine maggiore della sarta, e se ne
innamorò. Non era un capo alla portata della sua borsa, ma
affascinata, commossa, ne parlò a Cesarino con tanta
eloquenza che costui, con un pensiero dei suoi, meditò e
combinò segretamente una bella improvvisata; cioè si
fece cedere per le due sere del giovedí e del sabato grasso
il vestito mediante un compenso serale e, senza dir nulla prima, lo
fece trovare bell'e disteso sul letto di sua moglie.
Quando Beatrice si trovò
davanti quello splendore, gettò un gran grido di gioia,
buttò le braccia al collo del suo Cesarino, e fu a un pelo di
perdere i sensi per la contentezza. Quasi piangeva anche lui, il
grand'uomo, per la consolazione. La Elisa con quattro tagli
adattò il giro della vita e orlò il corpo e la sottana
d'un pizzo doré, d'un bellissimo effetto provinciale, come
allora usavano.
Beatrice non avrebbe mai voluto
uscire di camera per il piacere che provava nel mettersi e nel
togliersi quel vestito. Per quanto fu lungo il giovedí in
casa Pianelli si mangiò poco e con disordine. Per levarseli
dai piedi, i ragazzi furono mandati dai signori Grissini, i vicini
di casa. Tutto il dí fu un andare e venire di gente e di
roba. In cucina non si accese il fuoco; Beatrice si contentò
d'inghiottire in fretta qualche uovo sbattuto nel vino con qualche
biscotto bagnato dentro, e di rosicchiare in piedi dei pezzi di
cioccolata col pane. Cesarino, tutto occupato nei preparativi della
festa nelle sale del Circolo pranzò al caffè.
Tornò verso le nove di
sera per vestirsi. Non trovando piú posto nella stanza da
letto, tutta seminata e ingombra di pizzi, di fiori, di blonde, di
guanti, di stivaletti e di scatole aperte sul letto, sulle sedie,
sul pavimento, il signor Pianelli dovette prendere le sue robe e far
toeletta in uno stanzino a cui dava il nome di studio.
Intanto cercava di calmare i
nervi scossi dalle emozioni della giornata e di farsi una
persuasione ch'egli né aveva rubato, né era sua
intenzione di rubare. Scongiurata una brutta tempesta, egli avrebbe
domani o dopo riparato al disordine e stoppata la bocca a tutti i
malevoli che avevano creduto di rovinarlo. Il suo caro suocero di
Melegnano lo avrebbe aiutato in quest'opera di riparazione, o egli
l'avrebbe fatto saltare, come si dice, finché non avesse
pagato il resto della dote di Beatrice.
Cesarino stava accarezzando un
magnifico nodo di cravatta, che gli era uscito fresco dalle mani
come se fosse modellato dalle mani di un artista, quando Beatrice,
preceduta dal fruscío strisciante dello strascico,
accompagnata dall'Elisa, entrò, splendida come una
principessa, nel bellissimo vestito nuovo, che le fasciava la vita,
la radice delle braccia solide e il petto ampio colla morbida e tesa
precisione di un guanto. Le spalle nude d'un candore molle di latte
spiccavano sulla lasagnetta di pizzo doré che orlava le
sinuosità e le ondulazioni profonde del suo busto di surah,
aperto fin dove la decenza si accorda colla bellezza (un punto
metafisico in cui le donne non sono tutte d'accordo). Al collo non
aveva che un semplice vezzo di perle, vecchio tesoro di casa, che
morivano nel loro pallore nella candida morbidezza della carne; le
braccia erano nude dalle spalle al gomito, dove arrivavano gli
altissimi guanti di Svezia su cui brillavano i braccialetti... Ma la
gran bellezza della donna erano i capelli, quei molti capelli folti,
d'un biondo carico, che s'intrecciavano in nodi contorti a guisa
d'un turbante sul candore di porcellana della carnagione, per cui
Beatrice Pianelli aveva veramente una grande rassomiglianza colle
belle bambole grandi che vengono dalla Germania, come se ne vedono
nelle vetrine del Pino e del Caprotti, belle e lucide di fuori,
vuote o piene di stoppa di dentro. Questa somiglianza aveva fatto
trovare per lei il soprannome di bella pigotta con cui solevano,
colla chiara ed espressiva concisione morale del dialetto lombardo,
indicarla i buoni amici e le meno buone amiche di lord Cosmetico.
Cesarino, che in materia di
buon gusto era un giudice incontentabile, fece girare due volte
Beatrice sopra sé stessa, aggiustò qua,
accarezzò là, mosse una treccia nei capelli, stese le
mani alla vita che non gli pareva ancora troppo bene attillata.
"Caro te, stento quasi a
respirare" disse Beatrice tirando un gran fiato.
Arabella, la figliuoletta di
quella gente felice, girando col lume in mano si specchiava nella
sua bella mamma. Da bambina giudiziosa promise di stare in casa
colla Cherubina a curare i suoi fratellini e per contentarli avrebbe
fatto il zabaglione. Naldo, un marmottino di quattro anni, era
già tutto felice nella speranza di poter leccare il frullo.
Bellissima riuscí la
festa del giovedí grasso al Circolo Monsù Travet per
concorso, per calore e per allegria. Beatrice Pianelli, che l'Argo
della Ragione paragonò a una Giunone di diciott'anni uscente
da una nuvola, gustò il suo quarto d'ora di gloria.
Le signore, la Pardi per la
prima, riconobbero nel taglio e nella guarnizione del vestito una
mano straordinaria, si guardarono negli occhi con quella fredda
meraviglia che è piú vicina alla compassione che
all'invidia. Ciò non impedí che si facessero passare
di mano in mano la bella pigotta colle piú tenere
esclamazioni di ammirazione e di benevolenza.
Cesarino si dimenticava mentre
seguiva cogli occhi estasiati il trionfo di Beatrice: e volendo
sputar miele per il fiele che aveva inghiottito, cercò di
mostrarsi affabile, gentile, arrendevole con tutti, specialmente con
coloro dell'amicizia dei quali egli dubitava di piú.
Pardone non si lasciò
vedere. O s'era già seccato abbastanza di quel Circolo o non
voleva incontrarsi con Cesarino Pianelli. Ma anche senza di lui la
festa non fu meno chiassosa e brillante. Il vino di Barolo e qualche
bottiglia di Sciampagna aiutarono a far dimenticare i pensieri
cattivi che ciascuno non aveva potuto lasciar fuori dell'uscio: ma
Cesarino se li trovò sul cuscino del letto al suo primo
svegliarsi il giorno dopo. Si ricordò del Martini, del
suocero, dei denari che non aveva piú e saltò dal
letto coll'intenzione di correre subito a Melegnano: ma
rifletté che per l'assenza del cassiere egli non avrebbe
potuto per quel giorno allontanarsi dall'ufficio. Non volendo
perdere un tempo che andava facendosi sempre piú prezioso,
col capo ancor pieno di sonno, uscí di casa e mandò al
signor Isidoro Chiesa di Melegnano questo telegramma:
"Mi occorrono subito mille
lire. Portale tu. Grave disgrazia.
BEATRICE."
Poi si recò all'ufficio
e vi stette fin verso le dieci. Ma parendogli d'essere sulle spine,
pregò il Miglioretti di prendere un momento il suo posto,
corse a casa a vedere se il suocero era arrivato o se aveva mandato
un telegramma. Non trovò nulla. Restò a casa a
mangiare un boccone, mentre Beatrice cominciava a sciogliersi dal
suo sonno profondo di donna stanca. Poi tornò di nuovo alla
Posta verso mezzodí.
Non era ancora in fondo della
via del Pesce, quando vide sul portone della Posta il Martini.
Vederlo e trasalire fu una cosa sola. I polsi del capo picchiarono
cosí forte, che vollero rompere il cranio.
Ebbe appena il tempo di
ricomporsi, e di prendere un'aria di premurosa compassione.
"Come mai? Non è
partito?" mormorò.
Il Martini stese la mano
all'amico, diede una languida stretta, voltò via la faccia e
si portò due volte il fazzoletto agli occhi, mormorando, o,
per dir giusto, movendo le labbra a una parola senza suono che
voleva dire: È morta!
"È morta?"
domandò con vivo rincrescimento il Pianelli, abbassando la
testa.
"Stamattina alle quattro..."
balbettò colle labbra tremanti il Martini. "Son tornato per
chiedere al commendatore tre giorni di licenza e aspettavo anche lei
per regolare la consegna. Voglio portarla a Milano...."
L'emozione soffocò le
parole in gola al pover'uomo, che faceva di tutto per non farsi
vedere a piangere dalla gente.
Il Pianelli sentí alla
sua volta farsi il cuore piccino. In quel momento avrebbe dato mezzo
del suo sangue per evitare una consegna, da cui doveva risultare un
ammanco di mille lire. Gli faceva orrore non meno il suo pericolo
che l'idea di dare a un povero diavolo già cosí
tribolato un colpo di quella sorte.
"La trovo in ufficio verso le
tre?"
"Sí, ci sono..." rispose
il Pianelli. "Ecco il commendatore."
Vedendo venire il direttore, il
Martini gli andò incontro, mentre il Pianelli, correndo via,
cercò di sfuggire a quel penoso dialogo. Entrò in
ufficio con passo confuso e legato. Gettò il cappello su una
sedia, il bastone sul tavolo, e si fregò la fronte colle
mani, tre o quattro volte, come se togliesse delle ragnatele dagli
occhi.
Era mezzodí. Il Martini
sarebbe venuto alle tre. In tre ore egli non poteva inventarle le
mille lire, a meno di credere che il suocero si lasciasse commuovere
all'ultimo momento: a meno di credere che Gesú gliele
mandasse per compassione de' suoi figli. Per Dio! (queste
imprecazioni scattavano come tante scintille dall'anima sua
spaventata). Per Dio! se gli avessero lasciato ventiquattro ore di
tempo! Pensò di tornare ancora in cerca del Pardi; ma dove
trovarlo? e poi, no, da quell'asino che si lasciava guidare dalla
moglie... Degli altri suoi amici o non si fidava, o non voleva
inchinarsi a nessuno, o erano povera gente, che stentavano a
sbarcare essi stessi il lunario col misero stipendio.
Nella cassa in cui egli
cominciò a rovistare, c'erano molti conti correnti e molti
mandati di pagamento già firmati dal Martini col visto del
commendatore, tra i quali uno a favore del capomastro Inganni, in
conto di alcune riparazioni per ingrandimento e adattamento dei
locali d'ufficio, per la somma complessiva di duemila lire precisa.
La formola del mandato era
stata scritta dal Pianelli alcuni giorni prima colla cifra in tutte
lettere "due mila" e nel margine i quattro numeri "2000" d'una linea
magra e lunga com'era la scritturina nervosa del cassiere aggiunto.
Non si trattava di voler falsificare un documento, né di
rubare un quattrino a nessuno; ma solamente di evitare a sé
una miserabile figura, e al Martini un colpo mortale, di guadagnare
tempo, di non precipitare in due in un abisso senza luce e senza
fondo. Eravamo al quindici del mese. Prima della fine non si sarebbe
fatta la verifica dei mandati e lo scandaglio di cassa. Bastava per
il momento che il Martini credesse in buona fede a un mandato di
lire tremila già pagato al capomastro Inganni e partisse
coll'animo quieto, lasciando a lui Pianelli il tempo necessario per
rimettere il denaro e per rifare il mandato... Con una goccia di
acqua clorata sulla punta d'una penna nuova si potevano sostituire
facilmente due piccolissimi tratti e cambiare colla stessa mano il
due in tre, il 2 in 3...
Non l'avrebbe mai fatto,
nemmeno per salvare la vita dei suoi figliuoli, se si fosse trattato
di mettersi del denaro non suo in tasca: non voleva che guadagnare
ventiquattro ore di tempo, e salvare con un ripiego momentaneo la
vita e l'onore di due famiglie. Il mandato era lí, che gli
occhi lo divoravano. La penna vi passò sopra asciutta una
volta, due volte, quasi per provare. Due zampe di mosca potevano
evitare un terribile scandalo, forse risparmiare un delitto. Il non
farlo era quasi una crudeltà verso quei poveri innocenti. Il
mandato Inganni l'aveva pagato lui, e il Martini certo non aveva
né tempo, né voglia di stare a riscontrare ad una ad
una tutte le parcelle parziali e di verificare la somma. Egli non
voleva fare per ora che uno stato di cassa per poter ripartire e
star via tre o quattro giorni coll'animo piú sollevato.
Quando avesse ritrovato e rimesso il denaro in cassa, il Pianelli
era uomo capace di confessare tutto all'amico e d'implorarne il
perdono. Ogni piú onesto uomo può trovarsi per dodici
ore in una suprema necessità, e l'onestà di
quarant'anni di vita non la si distrugge mica in ventiquattro ore,
con due sgorbietti di penna. Ciò che salva l'uomo è
l'intenzione.
Uno ha il senso
dell'onestà, un altro non l'ha. Il primo verrà sempre
a galla per quanti sforzi tu faccia per affondarlo: il secondo
precipiterà sempre come un sasso nell'acqua.
Cesarino si sentiva uomo
integro nella sua coscienza, e, se un caso maledetto l'aveva tratto
a sporcarsi le mani di fango, bisognava dargli il tempo di
lavarsele. Quel fango ripugnava anche a lui, in nome di Dio santo!..
Non c'è nessun gusto a fare il ladro.
Queste considerazioni andavano
assediandolo, stringendolo in mezzo, pungendolo con mille punte,
alle quali sentiva di non saper piú resistere. Si
asciugò ancora una volta la testa bagnata di un sudore
freddo. Poi, intinta la penna nella boccetta del cloro, passò
leggermente colla punta di metallo sulla coda del numero fatale,
aggiustò coll'inchiostro il numero e la lettera... e vi
gettò subito molta sabbia sopra, colla furia spaventata
dell'omicida, che cerca di nascondere le tracce del sangue...
"Dio, Dio..." balbettò,
alzandosi, colle membra rotte e indolenzite, come se avesse voltata
la grossa pietra di un sepolcro. Anche il far male è una
grossa fatica per chi non c'è avvezzo.
Tornò presso la cassa,
rimise tutti i mandati a posto, stracciò il suo biglietto di
visita in cento pezzetti, che buttò nel cestino, ma poi si
abbassò a raccoglierli tutti, se li cacciò in tasca,
chiuse bene... e uscí sulla ringhiera a respirare dell'aria.
Il Martini aveva detto alle
tre, ma entrò in ufficio alle due, con passo rotto e
frettoloso.
Il Pianelli, che aveva
già preparato un prospetto di cassa, gli andò incontro
di nuovo con aria di compassione dicendo:
"O bravo...."
L'amico, pallido come un morto,
non seppe nascondere una forte agitazione che imbarazzava il suo
contegno e i suoi movimenti. Aveva lasciato all'alba il letto della
sua povera morta, dopo una notte passata in ginocchio ad assistere
agli strazi di una lunga e dolorosa agonia. La sua povera Emilia non
voleva morire a venticinque anni!
Si era attaccata colle braccia
lunghe e stecchite al collo del suo Arturo e non finiva mai di
chiamare fra i singhiozzi della morte la sua piccola Teresa. Sono
notti spaventose che ti portano via la vita: un pezzo di noi se ne
va con chi muore.
Era partito subito la mattina,
lasciando la sua morta in mano ad alcuni parenti e si preparava ora
a tornare per riportarne a Milano il corpo.
Il commendatore, uomo di cuore
e discreto, non fece difficoltà, anzi gli diede licenza per
una settimana, ma, tiratolo un momento in disparte, gli disse
sottovoce:
"Però ha fatto regolare
consegna al Pianelli?"
"Ieri non ho avuto tempo. Son
tornato anche per questo."
"Male! Non vorrei che avesse
dei dispiaceri. Ho sentito delle voci... Basta, non perda tempo, e
non si esponga a certi pericoli... Se vuole che mandi il
Miglioretti...."
"Grazie, vedrò...."
Il Martini uscí
dall'ufficio del commendatore col cuore un po' inquieto. Carattere
delicato e scrupoloso, quel semplice rimprovero gli bruciava sul
cuore come un carbone acceso, e, se un gran dolore piú
crudele non avesse occupata e riempita di sé tutta la sua
esistenza, sarebbe bastato questo dubbio per amareggiargli la vita.
Il Pianelli, fingendo che
alcuno lo chiamasse allo sportello, andò a sedersi al suo
posto, prese la penna e si pose a copiare una tabella. Copiò,
copiò forse dieci minuti una lunga fila di numeri,
materialmente, in forza di quell'abilità automatica che
acquista la mano di chi scrive molto, che sa andare da sé e
quasi ragionare da sé anche quando il cervello è
assente.
Il Martini aprí la cassa
grande, di cui aveva lasciato la chiave, e chiuso in un freddo
silenzio, che si poteva interpretare come lo stato d'animo d'un uomo
che ha il cuore irrigidito, mosse e rimosse molte carte e molti
valori.
Poi passò alla cassa
piccola, che aveva lasciato nelle mani dell'aggiunto.
Il Pianelli si mosse, quasi per
uno scatto interno, e disse:
"Veda se tutto è in
ordine."
"Non c'è dubbio..."
balbettò freddamente il Martini.
Il Pianelli tornò al suo
posto e riprese a scrivere, a scrivere. Ma gli occhi vedevano rosso.
Il Martini seguitava a
rovistare, a muovere carte, a riscontrare, sempre chiuso nel suo
cupo, insopportabile silenzio. Pareva un uomo incontentabile, o non
mai abbastanza soddisfatto.
L'altro scriveva sempre i suoi
numeri infiniti color sangue, col cuore duro come un sassolino,
sempre in attesa d'un giro di chiave che chiudesse per sempre al
buio il documento della sua miseria.
Quell'insistenza eccezionale,
in un uomo che aveva mostrato il giorno prima di fidarsi cosí
pienamente di un amico, gli diceva già che anche la buona
fede del compagno era stata preventivamente scossa da una voce
misteriosa, insidiosa, da quella stessa voce, che da due giorni
andava seminando il discredito e la diffidenza.
Passò ancora un quarto
d'ora, che al Pianelli parve un secolo. Finalmente il Martini, con
una voce velata che si sentiva preparata con suprema fatica,
domandò:
"Si ricorda, Pianelli, quanto
abbiamo pagato al capomastro Inganni?"
"Io credo tremila..."
esclamò il Pianelli, saltando in piedi e correndo con una
premurosa sollecitudine verso il compagno.
"Mi risulterebbero meno...."
"C'è il mandato,
veda...."
"Lo vedo..." disse il Martini
con un filo di voce, abbassando gli occhi e cercando di frenare il
tremito da cui furono prese le sue mani.
"Perché?" chiese il
Pianelli con voce stridula, quasi di sfida.
"Nulla, scusi..., avrò
sbagliato io."
Il Pianelli voltò
dall'altra parte la faccia. Poi disse:
"Vedremo alla fine del
mese...."
"Scusi..." tornò a dire
il Martini, mentre andava facendo dei piccoli conti sull'angolo di
un cartone disteso sul banco.
"Non le pare?" tornò a
chiedere il Pianelli, nascondendo in parte la faccia colle mani
nell'atto che egli fece per accendere un sigaro.
Il Martini gettò la
penna con un movimento disperato. Riprese il mandato, lo
agitò tra le dita, e fatta una mezza girata per la stanza,
curvo nelle spalle sotto il peso della disgrazia e del tradimento,
si fermò al tavolo del Pianelli, lasciò cadere il
mandato, vi pose un dito, vi picchiò sopra tre volte
coll'unghia, senza poter parlare, collo spavento dipinto nel suo
viso d'uomo morente.
Cesarino finse di non capire.
Voltò e scosse due volte il capo, coll'aria di chi domanda
una spiegazione, ma le orecchie parevano due pezze rosse e la pelle
fina e lucida del viso si stirò sugli zigomi irritati. La
bocca gli si riempí di saliva amara.
Il Martini, con uno sforzo
estremo, appoggiandosi colla mano a una sedia, poté soltanto
soggiungere:
"Pianelli, per carità,
anche lei è padre di famiglia...."
"Che cosa?" osò ancora
una volta chiedere col suo cipiglio di ragazzetto insolente lord
Cosmetico.
"Abbia pietà, Pianelli.
Sono un povero uomo anch'io...."
"Che cosa?"
"Perdoni..." balbettò
ancora una volta il Martini. "So bene che io sono il solo
mallevadore della cassa: ma speravo di avere in lei un amico...."
"Martini, per carità..."
scoppiò tutto a un tratto a dire Cesarino, che non
poté piú resistere al doloroso invito dell'amicizia.
"Per carità..., per i miei figliuoli..., per la sua
bambina..., per la sua povera Emilia, non mi tradisca. È
vero, fu il bisogno, l'insidia de' miei nemici. Fra due ore
avrà il denaro..."
"Aspetto fino a stasera. Il
commendatore mi ha già rimproverato d'aver abbandonato la
cassa senza una regolare consegna. Ho promesso per questa sera di
rendergli i conti."
"Fino a stasera almeno."
"Se il commendatore non
vorrà, non insisterò...."
"Stasera prima delle otto..."
"A casa mia?"
"Dove crede..., vado subito a
Melegnano in cerca di mio suocero. Non mi comprometta."
"Non sono io che la
comprometto, per amor di Dio...."
"Ho dei nemici che mi vogliono
male. Abbia pazienza..., non mi faccia fare una cattiva figura."
"Vede che io soffro non meno di
lei. Vengo da un letto di morte e mi fa trovare un tradimento...."
"Lei ha ragione; sono un
miserabile... Ma non mi tradisca. Se non trovo il denaro per questa
sera, le rilascerò una dichiarazione... e mi
ammazzerò."
"Cerchi di salvare il suo
onore..." disse ancora il Martini, mentre il Pianelli, preso in
furia il soprabito e il cappello, usciva rapidamente dall'ufficio.
II
Io non conoscevo il signor
Cesarino Pianelli che per averlo incontrato qualche volta sulle
scale, e i nostri rapporti non andavano piú in là del
buon giorno e della buona sera, come avviene tra casigliani, che,
tranne le scale, non hanno piú nulla di comune.
Mi fece quindi molta meraviglia
di vedermelo la sera del sabato grasso, verso le sette, comparire
sull'uscio, vestito in grande abito nero da ballo, col suo
paltò sul braccio, il gibus in mano, pallido pallido...
"Lei? In che posso servirla?
Venga avanti" gli dissi, invitandolo a entrare.
"Due parole, grazie. Sento da
mia moglie che questa sera va anche la signora Lucia alla festa...."
"Sí, mia sorella mi ha
tanto pregato...."
"Volevo pregarla di
accompagnare anche mia moglie. Un affare pressante non mi
permetterà di tornare prima delle undici."
"S'immagini, volentieri:
sarò lieto di essere il suo cavaliere."
Il Pianelli stette un momento
sopra pensiero, come se agitasse in testa un'altra questione
spinosa, poi soggiunse:
"Scusi tanto... ci rivedremo"
e, strettami la mano, se ne andò via come se fuggisse davanti
a un pericolo.
Il Comitato ordinatore del
Circolo non aveva guardato a spendere, o per dir meglio, a
comandare, perché la festina del sabato grasso riuscisse
ancor piú splendida e piú allegra delle altre volte.
Tra i festoni d'edera che
giravano lungo le pareti, sostenuti da borchie e da mascheroni di
carta pesta dorata, pendevano dei piccoli lampadari di
Venezia, illuminati da candele di cera.
Tra un lampadario e l'altro
brillavano degli specchi in vecchie cornici rococò circondati
da ghirigori di mussolina gialla. Sulla scala, sui pianerottoli e
per la gran sala da ballo era stato disteso un tappeto nuovo che
ammorbidiva i suoni e dava ai piedi un senso voluttuoso di
benessere: e nei vani, nei rientri delle finestre non mancavano
giardiniere di fiori freschi, con qualche statuetta di gesso o di
terra cotta che ricordavano alla lontana qualche divinità
dell'antico Olimpo, il tutto preso a nolo da un addobbatore di
teatri. Ogni signora (le ragazze eran poche e non brillavano troppo
per freschezza) riceveva all'entrare una bellissima camelia e un
cartoncino bristol coll'elenco delle danze stampate in oro; e tra le
signore ve n'erano di giovani, di fresche e di quelle che
combattevano l'ultima battaglia, la Waterloo della loro giovinezza.
Nella sala il formicolío
della gente già verso le undici era grande. Nel
rimescolamento dei colori vivi, tra i luccicori delle gemme,
dell'oro, degli occhi, nell'agitarsi di tante spalle e di tanti
ventagli, cresceva il cicalío fitto e caldo, misto a scoppi
di risa, a piccoli applausi e alle declamazioni aleardiane del
Bianchi, che faceva la parte del brillante della compagnia.
Per quanto la folla fosse
tenuta in soggezione da qualche illustre personaggio (tra cui
spiccava la pancia del commendatore Malvano, capo-divisione al
Ministero delle Finanze, colla rotonda metà, una baronessa
napoletana), si sentiva d'essere a una festa di famiglia in cui gli
elementi omogenei si fondevano volentieri e si aiutavano nell'unico
sforzo di stare allegri.
C'era, per quel che mi ricordo,
il Porti del Municipio colle sue eterne due ragazze, che da dodici
anni trascina su tutte le feste e che hanno fatto un collo lungo,
dicono i maligni, a furia di cercarsi un marito.
C'era il cavaliere Balzalotti,
del Demanio, uomo già sulla cinquantina, ma ancora fresco e
morbido come il burro, sempre amabile e cerimonioso colle signore,
alle quali pagava volentieri qualche sorbetto. Gli era toccata la
disgrazia e la fortuna di sposare una moglie brutta, sempre malata,
ricca, che passava due terzi dell'anno in campagna; ed era naturale
che cercasse qualche compenso nel vedere a ballare e nel pagare
qualche sorbetto alle altre.
C'era la Pardina col suo
Pardone, che questa volta s'era lasciato trascinare, che usciva per
tre quarti dalle falde del frac. Stava in piedi per combattere il
sonno tremendo che gli offuscava gli occhi, ma non vedeva l'ora
d'esser sotto le coltri. C'era il ragioniere Quintina, un gobbetto
elegante, terribile freddurista, che girava in mezzo alle gonne a
far della maldicenza. Né mancavano i giovinotti di spirito,
tra cui il Casati, il Pensotti e molti altri del Club Alpino.
Tranne le poche
commendatoresse, che soffiavano la prosopopea, le altre signore,
quasi tutte milanesi, appartenevano al ceto medio degli stipendiati
a mille e otto, a due mila, alcune delle quali avevano lasciato a
casa una nidiata di ragazzi e il popò in letto colla nonna.
Non c'era da meravigliarsi che vi fossero dei guanti lavati in mezzo
a molti guanti freschi.
Quasi tutti gli uomini erano in
frac, in guanti bianchi e cravatta bianca. Solamente qualche modesto
commesso, che non aveva osato fare la spesa, cercava di stare colla
schiena al muro in atto contrito e vergognoso, come a un merlo a cui
abbiano strappata la coda.
"Anca lú a Milan?" mi
chiese la Pardina, passando via e battendomi il suo ventaglio di
piume sul naso. Era a braccetto del celebre tenore Altamura, un
romano di Roma, che aveva cantato al Dal Verme, nella stagione, il
Trovatore con grande successo.
Il Miglioretti, dopo aver fatto
un giro di valzer colla Pianelli, la condusse a posto, e infilato il
mio bracci o mi tirò verso la sala del buffet, asciugandosi
il collo, le guance e la testa con due fazzoletti.
"Bella sí, ma di ghisa,
e per di piú balla fuori di tempo."
"E dire che si sta tanto bene
seduti."
"È suo marito che vuole
che balli, è lui che le insegna. Hai visto i leoni marini di
mister Pike? Suo marito le insegna anche a parlare milanese, e ci
riesce, povera foca. Ma di tanto in tanto le scappa di bocca ancora
qualche "propri de bôn" di Melegnano, che guasta il meccanismo
della bambola."
"Jesus, che lingua! bevi, avrai
sete..." dissi, versandogli dell'acqua in una tazza.
Mentre io e il Miglioretti si
rideva in fondo alla sala del Caffè, vedemmo venire colla sua
testa lucida e rasa e cogli occhi fuori della fronte il Bianchi, che
ci domandò se avevamo trovato Cesarino Pianelli.
"Io l'ho visto" dissi.
"Quando?"
"In prima sera."
"Che cosa ha detto?"
"Niente."
"C'è in aria un guaio
serio...."
Il Bianchi abbassò un
poco la voce e, appoggiata la punta del mento a tre dita della mano,
socchiudendo gli occhi in atto di pia aspirazione, ripeté:
"Molto serio."
Fatto quindi un piccolo segno
colla mano, ci trasse nel vano di una finestra presso una terrazza,
che dava sulla piazza del Duomo.
"Un guaio serio?"
"Ho trovato il Martini tutto
disperato."
"Gli è morta la
moglie...."
"Pazienza la moglie! mi ha
detto che contro il Pianelli è spiccato un mandato di
arresto."
"Via, via!" esclamammo a una
voce io e il Miglioretti.
Il Bianchi, che col marmo della
sua bella fronte rispecchiava i lumi della sala, allungò il
collo, nascose le mani sotto la coda della falda, girò la
testa nell'aria come un bruco che va al bosco e disse cogli occhi
chiusi:
"Io l'ho detto che quel
figliuolo doveva finire cosí... Si tratta di sottrazione con
falso in scrittura."
"Diavolo!" esclamammo a una
voce.
"Io non credo il Pianelli un
ragazzo capace di una cattiva azione, ma sono le necessità
che spingono l'uomo ad approfittare delle circostanze. Il Pianelli
ha perduto questi denari al giuoco e, siccome è già
pieno di debiti fin sopra i capelli, pagò il debito di giuoco
coi nostri denari. Visto che si cominciava a dubitare di lui,
comprò la nostra fiducia coi denari dell'ufficio, e tutto
ciò sempre nella speranza di guadagnar tempo e di trovare un
santo protettore. Ma buco via buco fa buco - dice l'abbaco - e a
furia di scavare la terra per turarli i buchi, la terra ti manca
sotto i piedi... Povero diavolo, ha moglie e figliuoli...."
"E non c'è nessun mezzo
d'aiutarlo?"
"Aveva promesso di portare il
denaro per stasera, ma ormai è la mezzanotte e non si vede
comparire. Il Martini a buon conto ha riferito tutto al capo
d'ufficio e il documento è adesso in mano al procuratore del
re."
"Ma come ha fatto?"
"Eh, come ha fatto..." disse il
Bianchi, ritirando nelle spalle la testa. "Si fa presto a dirlo...
Quando si vuol fare il lord senza averne, mandare in lusso la
moglie, pigliarsi tutti i capricci, darsi le arie di principe, non
ascoltar pareri da nessuno, fare il passo piú lungo della
gamba...."
"Zitto...."
Toccammo il predicatore in
fretta col gomito per farlo tacere. Cesarino Pianelli, pallido come
uno spettro, nel suo elegante vestito nero entrava in quel momento
col passo legato del sonnambulo.
L'orchestrina cominciò
il gioioso valzer di Strauss: "Vino, donna e canto".
Cesarino, uscito dall'ufficio,
dopo il vivo colloquio col Martini, non aveva perduto tempo in tutto
il venerdí. Saltò nel tram di Porta Romana e di
là arrivò a prendere quello di Melegnano per correre
in cerca del signor Isidoro Chiesa, suo suocero, che gli doveva
ancora, dopo dieci anni, gli interessi della dote di Beatrice.
Il signor Isidoro era una volta
uno dei piú clamorosi affittaiuoli del Lodigiano, ma da molti
anni non viveva che di reminiscenze.
Grande e solenne declamatore
delle sue abilità tecniche, chiacchierone terribile, persuaso
che al mondo non c'era uomo piú furbo di lui, colla testa
sempre piena e calda di progetti e di riforme, aveva trovato in
Cesarino Pianelli il genero del suo cuore.
Una certa somiglianza di
carattere e di tendenze impediva a ciascuno di loro di conoscere i
difetti dell'altro, come capiterebbe a due trombettieri sulla fiera,
che, suonando l'uno troppo vicino all'altro, l'uno non sente le
stonature dell'altro.
Questi due uomini avevano una
stima illimitata dei loro ingegni e nel conseguimento dello scopo
comune si aiutavano in una maniera mirabile a rovinarsi. Da un pezzo
in qua vivevano prestandosi a vicenda una grande opinione, con cui
cercavano di fare ancora una certa figura nel mondo, come due
spiantati che hanno in due un solo vestito di gala, che si prestano
nelle grandi circostanze.
Il signor Isidoro, quando vide
Cesarino scendere dal tram, gli andò incontro coll'allegria
del cane che rivede il padrone. L'avvocato Ferriani gli aveva
scritto che per continuare una certa causa di cui Cesarino era
informato, occorrevano almeno settecento lire: e Cesarino le aveva
promesse qualche mese prima. Il buon suocero credette in coscienza
che venisse a portarle... Del telegramma non parlò neppure.
Si può immaginare se il
loro colloquio fu consolante. Cesarino, irritato, nervoso,
uscí in parole, che volevano quasi dire che il signor Isidoro
Chiesa l'aveva imbrogliato. E il signor Isidoro rimproverava alla
sua volta il genero d'aver mancato di parola e quasi voleva essere
rimborsato delle spese fatte sulla sua promessa.
Si lasciarono col veleno negli
occhi.
Tornato in città, il
Pianelli saltò nella prima vettura che gli capitò
davanti e si fece condurre a casa del Martini. Non lo trovò
né a casa né alla Posta. Allora, temendo che Beatrice
cominciasse a pensar male, rientrò a casa sua a pranzo, un
po' tardi, e inventò delle scuse. Mangiò poco e sempre
sopra pensieri. Dormí poco e agitato tutta la notte, ma
sicuro in cuor suo che un migliaio di lire si trovano subito in
Milano, basta a cercarle. Venne il mezzodí, vennero le due
del sabato. Aveva pregato tre o quattro amici, inutilmente. Tutti
erano dolentissimi, ma si sa gl'impegni..., le spese, gli anni
cattivi...Una volta si spinse fino al Ponte de' Fabbri nella
speranza di trovare il Pardi per via e toccargli il cuore, ma, non
sentendosi il coraggio di salire su in fabbrica, andò a
riflettere nella solitudine dei bastioni.
Solo, col capo basso, col passo
molle dell'uomo che va a spasso, piú irritato che triste,
sotto i nudi ippocastani ancora rattrappiti dal freddo, Cesarino
lanciava di tempo in tempo un'occhiata sdegnosa sulla città,
sua grande creditrice, che si distendeva col suo anfiteatro di case,
di cupole, di campanili raccolta intorno al gran fantasma del Duomo,
al di là degli orti, nel chiaro sfondo d'un bellissimo cielo
di marzo.
Aveva scritto al Martini, per
invocare altre ventiquattro ore, ma il tempo passava senza profitto.
Per un migliaio di lire un
uomo, che in un anno ne contava a milioni, un Cesarino Pianelli,
conosciuto come la bettonica, era costretto a stendere la mano come
se cercasse la carità. Vergogna!
Provava in fondo al cuore un
amaro corruccio e, sto per dire, un senso d'odio contro il Pardi, il
Martini, il suocero, gli amici del Circolo che, senza accorgersi,
egli accusava come gli autori principali della sua rovina.
Era quasi giunto presso
l'Ospedale dei Cronici, in un luogo del bastione umido e malinconico
come la febbre, quando fu scosso dai suoi pensieri da un disperato
gridare e vide passare un carro di contadini addobbato d'un lurido
lenzuolo, con una bandiera trecolori in alto, pieno di villani in
maschera, che col viso tinto e con delle scope in mano strillavano
la loro goffa allegria. Allora si ricordò ch'era il sabato
grasso.
Quei poveri gonzi, passando e
traballando sul loro carro rustico, lo salutarono col segno di chi
invita a mangiar i gnocchi, e lo invitarono ad andare con loro al
corso di gala.
Lord Cosmetico avrebbe per un
giorno cambiata volentieri la sua sorte con loro. Sentí
suonare le due e mezzo all'orologio dell'Ospedale. In quella triste
Rotonda c'era forse qualche malato che non avrebbe nella sua miseria
cambiata la sua sorte con lui. Nel suo pensiero il signor Cesarino
si paragonava a questo e a quello con un senso d'invidia, che aveva
qualche cosa di nuovo e di cruccioso nel suo cuore.
Eppure, perseverando
nell'opinione che un Cesarino Pianelli non sarebbe affogato in un
bicchier d'acqua, gli pareva di sentirsi ancora della forza in
riserva. Egli poteva transigere una volta coi puntigli personali e
andare in cerca di suo fratello Demetrio, col quale era in discordia
da dieci o dodici anni per vecchie ragioni d'interesse. Poteva anche
cercare di un suo zio canonico del Duomo.
Seguendo il filo invisibile dei
suoi pensieri, venne per le strade spopolate di San Barnaba e
dell'ospedale, passò il Naviglio al ponte di legno e si
lasciò condurre fino a San Clemente, dove da molti anni il
suo fratello Demetrio, un orso della Bassa, abitava tre stanzette
sopra le tegole nella casa dei Mazzoleni.
La portinaia gli disse che il
signor Demetrio era ancora alle Cascine Boazze per fuggire i rumori
del sabato grasso. Combinazioni! Le Cascine Boazze sono quasi sulla
strada tra Milano e Melegnano, e Cesarino v'era passato davanti il
giorno prima.
Si fermò sulla porta a
pensare se doveva riprendere il tram e tornare indietro.
In faccia sorgeva il bigio e
grave palazzo arcivescovile dove abitava lo zio canonico, uomo
rigoroso e papista, il quale non aveva mai voluto riconoscere un
nipote mezzo repubblicano, mezzo framassone, che leggeva il Secolo,
non andava a messa e faceva battezzare i figliuoli piú per
rispetto umano che per convinzione. Cesarino si fece coraggio.
Entrò nel silenzioso
cortile dell'Arcivescovado, che nel suo profondo e squallido
raccoglimento faceva uno strano contrasto colla colorita baldoria
che rumoreggiava sul corso, di cui arrivavano le voci come onde
morte che morivano contro le livide pareti. Chiese al portinaio del
canonico Pianelli e gli fu indicato un uscio in fondo al portico a
destra, dietro le due gigantesche statue di Aronne e di Mosè,
bianchi e solitari abitatori di quel morto recinto.
Sonò un campanello
davanti all'uscio che gli fu indicato e venne ad aprire una donna di
servizio.
"Monsignore?"
"È malato..." rispose
sottovoce la donna, riempiendo il vano dell'uscio colla sua persona
per paura che il seccatore si facesse avanti.
"Non si potrebbe parlargli?"
"Impossibile, gli hanno messo
un senapismo."
"Si tratta... Son suo nipote
Cesarino..."
"Proverò."
La donna richiuse l'uscio in
faccia al signor nipote, che rimasto solo sentí quasi entrare
nell'anima quello sgomento fuggevole e quella compunzione fredda che
lo assaliva da ragazzo le prime volte che la mamma l'aveva condotto
a confessarsi.
Al di là di quei muri
umidi e massicci, che conservano quasi un senso corrucciato
dell'antico splendore, sentiva il frastuono del carnevale e in mezzo
agli strilli il dolore acuto, spaventevole, dei conti da rendere.
"Ha detto che oggi non
può ricevere..." venne a dire la Ludovica, che camminava
senza far rumore.
"I preti son sempre preti!"
mormorò fra i denti Cesarino avviandosi verso la piazza. A
chi poteva ricorrere? Non al Bianchi, non al Miglioretti, poveri
diavoli, che stentavano a finire il loro mese. Pensò un
momento al cavaliere Balzalotti, un vecchio e assiduo adoratore
platonico di Beatrice. Se Cesarino fosse stato un marito come se ne
dànno... oh, non avrebbe stentato a trovare un migliaio di
lire!
Col cuore schiacciato si
lasciò attirare dal baccanale, che rumoreggiava sul Corso al
di là del Duomo e di cui vedeva il flusso e riflusso, i carri
e i colori al di sopra della calca nera agglomerata, pigiata sotto i
balconi pieni di ragazze, di mascherine.
Sentí il bisogno di
cacciarsi anche lui nella folla per riposare un istante dal suo
pensiero tormentoso, pungente, e giunse nel fitto della gente nel
momento che una mascherata di cuochi versava da un'immensa
cazzeruola grossi mestoloni di una polvere gialla, che voleva essere
risotto.
La mascherata era bella, ricca,
brillante e suscitò un cà del diavolo nel crocevia tra
il Campo Santo, il Corso e Santa Radegonda.
Dalle finestre, dai balconi
decorati di tappeti e di fiori, le mascherine, le damine avvolte nei
bigi cappucci strillavano come spiritelli dannati, lottando
furiosamente a colpi di coriandoli, di gettoni, di confetti.
La folla si agitava come
l'acqua del mare in tempesta in mezzo agli scogli.
Cesarino, alzando gli occhi a
un balcone d'angolo sopra la pasticceria Baj, riconobbe anche al di
sotto della mezza mascherina la Pardi, la piú magra delle
donne, che strillava dentro un cappuccio colla furia di un folletto,
agitando le braccia come due bastoni di scherma.
Si fermò a guardarla.
Egli aveva troppo offesa quella donna ambiziosa, di cui avrebbe
potuto essere un fortunato adoratore, come pretendeva d'esserlo ogni
buon corrispondente della ditta Pardi e C.
Egli l'aveva offesa col
panegirico non richiesto della sua felicità domestica e con
una satira non dimenticata sulle donne magre. Il buon Cesarino
soffriva oggi le conseguenze d'essere stato troppo onesto amico del
signor Melchisedecco... Cosí va il mondo.
Risalendo la corrente, gli
riuscí di portarsi fin verso i portici della Galleria, e di
salvare le costole nella bottega del Campari. Si rifugiò in
un angolo del Caffè, accese una sigaretta e ingoiato in
fretta un assenzio, rimase a osservare tranquillamente la folla dei
pazzi che farneticavano negli ultimi palpiti del carnevale,
tranquillo e freddo in apparenza, come soleva fare qualche volta al
bigliardo quando la fortuna gli era nemica. Egli lasciava vincere la
fortuna, ma si riservava di rifarsene in fine con un colpo maestro.
Seduto davanti a lui, quasi nel
mezzo del Caffè, solitario e raccolto come un filosofo, il
signor Guerrini, detto il Bòtola, leggeva l'articolo di fondo
della Perseveranza, sillabando colle labbra le parole e movendo la
testa ad ogni principio di riga.
Era un omaccio di mezza
età, corto di gambe, rotondo, paffuto, con due liste di barba
nera che gli cascavano in bocca. Vestiva come un modesto padre di
famiglia, che per economia porti i calzoni non troppo lunghi e un
cilindro vecchio e lavato per risparmiare il pane dei suoi
figliuoli.
Cesarino tirò uno
sgabello vicino al noto usuraio e cominciò un discorso
sottovoce, che il buon uomo aveva poca voglia di ascoltare.
"Ma lei vuole il pegno in mano
e l'uomo in prigione" disse con dispetto una volta Cesarino.
"Io non voglio niente, caro
lei. È lei che vuole. Cerchi una garanzia."
"Quando voglio impiccarmi
spendo meno."
"Questo è vero"
soggiunse il Bòtola senza cessare di leggere il suo giornale.
Il corso era sul finire.
All'imbrunire uscirono i primi lumi dalle botteghe e nella
profondità della via Torino verso il Carrobio, si vedevano
discendere a poco a poco le fiammelle dei lampioni. Seguendo la
fiumana della gente che rincasava, Cesarino si lasciò
trascinare anche lui verso casa in mezzo al frastuono dei matti, dei
carri, delle trombette, tra banchetti e botteghe e bazar illuminati,
pieni di maschere ridenti e costumi di pagliacci. Milano, che
gridava, strillava, che si preparava all'orgia delle cene e dei
veglioni, non aveva un migliaio di lire per salvare dalla vergogna
un povero padre di famiglia.
Con tutto questo Cesarino non
si arrendeva. Sperava di trovare al Circolo in principio di sera
un'anima meno avara: o di commuovere il Pardi, o sua moglie, o
almeno il Martini, ottenendo un altro giorno di respiro.
A casa figurarsi se Beatrice
ebbe il tempo di badare a lui! L'Elisa, la signora Grissini,
Arabella se l'erano pigliata in mezzo e aiutavano a vestirla, come
si veste la madonna. I maschietti erano andati col Ferruccio della
portinaia al teatrino d'un oratorio.
Cesarino si vestí in
gala, uscí subito, con un pretesto, raccomandò di
nuovo a noi sua moglie, portò un biglietto a casa di
Buffoletti, che stava laggiú alle Grazie: tornò
indietro in cerca del Martini, che era già partito da Milano,
venne una volta verso le nove al Circolo, tornò una seconda
volta a mezzanotte...
Il servitore d'anticamera gli
consegnò un bigliettino del Martini che diceva:
"Ho aspettato fino alle nove.
Consegno tutto al commendatore. Si giustifichi con lui."
Lord Cosmetico era spacciato.
III
Stavo in estasi a contemplare
dall'uscio una quadriglia, in cui la signora Pianelli girava come un
arcolaio ingarbugliato, quando sentii una mano leggera sulla spalla.
"Scusi, ho ancora bisogno d'un
favore."
"In ciò che posso..."
balbettai, spaventato dal terrore che vidi in fondo agli occhi del
povero Cesarino, mentre mi seguiva in un angolo del salotto.
"Ricevo adesso una lettera, in
cui mi si dice che un mio commilitone è in fin di vita alla
Casa di Salute. Il poveretto è solo, senza parenti, e siccome
mia moglie desidera rimanere, cosí se non le rincresce di
accompagnarla ancora a casa dopo la festa...."
"Si figuri" risposi, "fin che
resta mia sorella sono a sua disposizione."
"Vai proprio, Cesarino?"
domandò la signora Beatrice, sopraggiungendo in quel punto
tutta lieta e scalmanata.
"Il signore è tanto
gentile... Può essere ch'io rimanga alla Casa di Salute tutto
il giorno di domani. A buon conto tu non aspettarmi."
Pianelli pronunciò
queste parole con una freddezza spaventosa. E, come se avesse ancora
da aggiungere qualche cosa, restò un momento a guardarsi la
punta delle dita cogli occhi stretti e addolorati.
Io guardai in viso alla bella
bambola per vedere se al di sotto della fredda vernice di biscuit
passava un'ombra di un sospetto, di apprensione. Ma il volto sodo e
grande, gli occhi aperti e ripieni di una gioia infantile non
diedero alcun segno. Essa non si accorse nemmeno del pallore
giallognolo e funebre che scese ad un tratto sul volto del marito.
Cesarino alzò ancora un
momento gli occhi, e, indurito, irrigidito nel tremito che gli
scoteva i nervi, soggiunse:
"Tornerò forse a
mezzodí."
"Addio, non strapazzarti
troppo."
Queste furono le ultime parole
che Beatrice disse a suo marito.
L'avvenente tenore Altamura,
col suo sonoro accento romano, venne a invitarla per il cotillon e
la ricondusse in sala.
Cesarino uscí correndo
dall'altra parte, verso la scala.
Alte grida chiesero il galoppo
finale e l'orchestrina, aizzata da un marsala di seconda
qualità, attaccò subito Fra tuoni e lampi...
Fu una scintilla in una
polveriera.
Alle prime battute dieci coppie
si urtarono nel mezzo della sala, come barchette sbattute da un
improvviso uragano nelle strette dighe del porto.
Quando fu possibile di mettere
un poco d'ordine, le coppie a cinque per volta cominciarono a
discendere nel campo coll'elasticità e colla calorosa foga
dei cavallini ammaestrati di un circo, chi con in testa un
cappelluccio di arlecchino, chi con una mascherina sul viso o con un
naso di carta o con qualche altro segno della follía in capo.
Allo squillo di un campanello,
che era stato affidato all'autorità morale del cavaliere
Balzalotti, le cinque coppie danzanti si agglomeravano, facevano
ingorgo alla porta d'uscita per rubare un posto: e intanto era un
tiepido intreccio di corpi, che avevano nel sangue i tuoni e i
lampi. Il cavaliere Balzalotti, conficcato sullo stipite, riceveva
sulla pancia quelle morbide ondate di belle donnine e godeva, vispo
come il pesce nell'acqua fresca e chiara.
Uscivano da un'altra porta
altre cinque coppie, precipitando, come trottole sotto i colpi di
una frusta invisibile, forse la frusta del diavolo.
Le care donnine, trascinate,
rapite, portate di peso, coi capelli o scomposti o sciolti, aspirate
dai gorghi vorticosi dell'ultima danza, palliduccie di gioia,
alleggerite ancor piú del solito dalle spume del vino d'Asti,
che gonfiava i cervelli, scendevano nella danza e vorticavano come
pagliuzze in balía di una dolce bufera.
Che sa mai del suo destino una
pagliuzza?
E che ne sa la donna?
"Se si squarciassero i muri"
disse la Quintina, la moglie del gobbetto elegante, al Bianchi, che
le faceva una corte per ridere. "Se si continuasse a volare
cosí nello spazio del cielo?"
"O gaudio!" gridò il
Bianchi con un guaiolo di gatto innamorato.
Fu una risata generale. Ordine
e soggezione e serietà non era piú il caso di
pretendere in quelle ore bruciate.
"Ip! ip! ip!" gridavano i
piú pazzi, battendo coi piedi le note del terribile galoppo.
"Ip! ip! ip!" gridava il
Garofoletti, tirando con tutta la forza de' suoi robusti trent'anni
la Pianelli, che rotolava fuori di tempo come una valanga.
Aveva anch'essa in testa un
cappellino aguzzo pieno di campanelli, che le faceva comparire la
testa quasi colossale.
Sotto i trabalzi del suo passo
pesante, il corpo di Giunone fremeva nelle strette fasciature
dell'abito di raso, che mandava le fosforescenze della madreperla.
Essa irradiava un calore di fornace, ansimava, sgocciolava sudore da
tutti i capelli, ma voleva gridare anche lei ip, ip, ip, per
mostrarsi briosa e pazzerella come le altre, come piaceva al suo
Cesarino, senza che l'ombra d'un pensiero cattivo passasse a
ottenebrare il candore latteo della sua bontà.
Al cessare della musica fece
uno strano effetto il battere della pioggia furiosa contro i vetri.
Cesarino era disceso in furia
dalle scale, in furia traversò i portici e la piazza semibuia
della Corte, verso piazza Fontana, senza quasi sentire la pioggia
che veniva giú fitta e gelata.
Era l'ultima corsa.
Aveva pregato e supplicato fin
troppo. La gente voleva la sua morte.
Non si uccide un uomo soltanto
col ficcargli un coltello nel cuore, ma anche col metterlo nella
necessità di perdere l'onor suo. Questo aveva fatto il
Martini. Una volta che il commendatore aveva nelle mani la prova
della sua colpa era come mandare un uomo in galera. Un Pianelli in
galera per la miseria di un migliaio di lire? Questo poi no, perdio!
Questo "no" risuonò
nell'oscurità del suo pensiero proprio nel momento ch'egli
usciva dalla via Alciato e rasentava il palazzo di Giustizia. In un
baleno gli passarono per la mente tutti i processi celebri che aveva
letto sul Secolo e che soleva discutere cogli amici sempre con
grande animazione. Una volta o due la sorte l'aveva chiamato a far
parte della giuría e aveva potuto vedere da vicino tutto
l'apparato di un processo col reo in gabbia su una panca di legno,
cogli angeli custodi ai fianchi e il pubblico in faccia, il grosso,
l'avido mostro dalle cento teste, che succhia cogli occhi l'anima e
i pensieri d'un poveretto, ne conta con ferina voluttà tutti
i tremiti, i sudori, i moti inconsulti, ridendo degli sforzi che fa
per aggrapparsi nell'agonia dell'onor suo a ogni sterpo, a ogni fil
d'erba che il destino gli manda sottomano.
"È cattiva la gente!"
pensava torbidamente, mentre correva per le viuzze bistorte del
Zenzuino e del Pasquirolo, due strade di catacomba.
Finalmente sbucò sul
gran corso Vittorio Emanuele.
Si arrestò un momento
per far tacere l'affanno e gli acuti dolori di milza. Soltanto
allora si accorse che l'acqua l'aveva tutto inzuppato.
Se la sentiva scorrere come una
biscia fredda lungo il filo della schiena.
Qua e là, rasente ai
muri, si vedevano dei gruppi di gente, che tornavano dalle feste
sotto gli ombrelli lucidi e grondanti. Qualche pierrot ubbriaco
proclamava in mezzo alla strada la révolution, sorreggendosi
a fatica nell'aria coi larghi gesti.
Venivano, dai crocicchi bui,
risa e strilli di mascherine che scivolavano innanzi, tuffando le
belle scarpette di seta nelle pozze e nei ruscelli.
Il Caffè dell'Europa,
sull'angolo della via Passarella, non aveva ancora chiusi i suoi
battenti. Molti vagabondi vi si erano rintanati contro il maltempo,
tra i quali qualche vecchio impenitente in cerca di belle avventure,
qualche trasognato celibatario che non trovava piú la maniera
di divertirsi e qualche operaio vestito cogli abiti di lavoro, che
stentava a digerire l'unto di una cena straordinaria, guastata da un
vinaccio cattivo.
Cesarino entrò nel
Caffè e ordinò un punch molto forte.
Intanto si guardò
indosso. Pareva appena pescato nelle acque di un fosso. Gli
portarono il punch acceso d'una fantastica fiamma azzurrognola, che
egli trangugiò quasi col fuoco vivo sulle labbra,
arroventando il cielo della bocca e tutti gli spiriti: poi ne
comandò subito un altro insieme all'occorrente per scrivere.
Quando si trovò in mano
la penna, appoggiò la testa all'altra mano e cominciò
a fregare la fronte per diradare una gran nebbia.
Sul punto di scrivere al
Martini la dichiarazione che gli aveva promessa, sentiva la penna
diventare pesante e rovente tra le dita.
Come può un uomo
dichiarare di suo pugno sopra un bianco e lucido biglietto di
lettera che egli è un ladro e un falsario?
Se invece si fosse rivolto
direttamente al commendatore, invocandone la misericordia? ma si
ricordò che un giorno questa brava persona gli aveva detto:
"Pianelli, lei spende molto."
Che cosa aveva risposto il
signor Pianelli al signor commendatore?
"commendatore, spendo del mio."
Ora gli ripugnava di mettersi
in ginocchio a recitare il confiteor.
Intanto le idee si
aggrovigliavano e la volontà si smarriva in fumo. L'uomo di
talento si smarriva nella crescente nebbia de' suoi pensieri, come
l'alpigiano colto dalle nebbie improvvise del suo monte. I fumi del
punch che fermentavano nello stomaco, irradiando vampe di calore,
circondavano la testa d'una fantastica tenebría, in cui
balenavano delle fiamme e delle punte azzurrognole.
Guardò l'orologio. Erano
le tre e mezzo dopo la mezzanotte.
Prese un giornale che
trovò sul tavolino, ne scorse in fretta le pagine illustrate
senza capire nulla di quelle grandi figure, senza quasi veder nulla;
lo buttò via, girò uno sguardo scemo, aggrondato per
la sala, appoggiandosi colle due mani sul divano, si sbottonò
il soprabito, l'abito, il panciotto anche, e stette un minuto in un
atteggiamento tra l'estatico, il tragico e l'ubbriaco, provando
nella reazione alcoolica del doppio beverone ingoiato un'acuta e
dolce vertigine, un senso di chi cade dall'alto nel vuoto, come
prova chi si lascia dondolare cogli occhi chiusi sopra un'altalena.
Improvvisamente, parendogli che
il tempo gli mancasse davanti, buttò i denari contati sul
vassoio, saltò in piedi. Sulla porta si racconciò un
poco i vestiti, guardò in su e in giú per la lunghezza
del Corso, accese un mozzicone di sigaro, che trovò nel fondo
di una tasca, e invece di piegare a mancina verso il Duomo, che era
la strada piú naturale per andare a casa, piegò a
dritta verso il ponte del Naviglio.
Le goccie cadevano ancora a
vento, fitte, rabbiose. Quantunque i vestiti leggeri della festa e
le scarpe basse di pelle inverniciata fossero un costume poco
opportuno per affrontare uno scroscio di quella forza, pure il
signor Pianelli, detto lord Cosmetico, quasi per il gusto di fare un
dispetto a sé e a qualcuno fuori di sé,
cominciò a discendere, passo passo, verso il ponte,
masticando il suo sigaro amaro e insieme una risoluzione piú
acre ancora, coll'aria indifferente del giovinotto che va a spasso a
pigliare il fresco.
I ciottoli battuti e slavati
uscivano dal terriccio coi vari colori, come un rozzo mosaico,
mentre i lastricati, tirati lucidi come specchi, scendendo in linee
parallele per tutta la lunghezza del Corso, riflettevano la doppia
fila delle fiamme a gas, fino alla barriera di Porta Venezia.
Anche in questa parte non
un'anima viva in quell'ora. Buie tutte le finestre e anche al
disotto del bollichío dell'acqua cadente si sentiva, sto per
dire, quel silenzio gravido di sonno che è proprio delle
ultime ore della notte, in cui sogliono riposare anche i malati e si
assopiscono i moribondi.
Il Pianelli invece andava a
spasso.
Scherzi a parte, quando fu sul
ponte si domandò se aveva il coraggio di annegarsi nel
Naviglio.
Aveva sofferto già
abbastanza la mortificazione del pitoccare l'elemosina per sentirsi
ancora la forza di affrontare lo scandalo di un processo per truffa
e falso. Era già stracco, annoiato, nauseato della vita e
della gente.
Si accostò al parapetto,
fissò l'occhio nel biancheggiamento turbolento dell'acqua,
che rimbalza e scaturisce dalla chiavica e manda tra le due
portaccie del sostegno l'ululato d'una bestia feroce. A questo
rumore si mescolava il friggío dell'acqua, che traboccava
dalle grondaie e ribolliva sul lastrico.
Tutt'insieme quell'acqua faceva
uno scroscio ampio, assordante, che toglieva i sensi e la ragione.
Egli e l'acqua erano già una cosa sola. Non aveva piú
un filo asciutto indosso. I panni gli si raggrinzivano sulle carni,
le scarpette macerate zampillavano fontanelle, il cappello era una
spugna. Si sentiva gonfia d'acqua la testa e l'anima.
Tratto da un impeto cieco di
disperazione, discese a corsa la stradetta alzaia, che passa sotto
il ponte e rasenta il pelo dell'acqua. Qui non c'è che un
passo, chi voglia farla finita colla vita.
La gente voleva la sua morte:
la voleva anche lui. Ma quando fu sotto, al buio, un pensiero, che
fin qui aveva cercato di non lasciarsi vedere, e che se ne stava
rintanato nella parte piú oscura del cuore, ributtato le
cento volte da una passione piú avara e piú
dispettosa, come se a un tratto ricuperasse una giovanile energia,
urtò, rovesciò ogni altra considerazione e uscí
con tutto il suo disperato entusiasmo a fermare un pover'uomo
dall'ultimo passo.
E quei poveri figliuoli?
E la sua cara Arabella?
Questa veniva quasi piú
avanti degli altri bambini nella sua chiara biondezza, nella sua
bellezza alta e sottile.
Egli era uscito per andare a
una festa da ballo senza quasi guardarli in faccia quei figliuoli e
non poteva morire senza vederli ancora una volta.
Non poteva morire cosí
come un gatto senza provvedere in qualche maniera, non al proprio
onore (questo era perduto per sempre), ma all'onore, alla protezione
di quei poveri figliuoli. La sua morte doveva almeno esser utile a
qualcuno.
Quattro ore sonarono nel fitto
dell'oscurità, ore gravi, cupe, solenni come quattro parole
piene di minaccia, che fecero sul capo dell'infelice l'effetto di
spietate martellate.
Il Pianelli capí che era
l'ora di tornare a casa e, tra il chiaro e il fosco de' suoi
pensieri in disordine, ritornò sul ponte, e, col passo
frettoloso di chi ha paura di perdere un treno, risalí di
nuovo tutto il Corso, ritraversò piazza del Duomo,
alzò gli occhi alle finestre illuminate del Club, dove si
ballava ancora: scese per via Torino, passò davanti San
Giorgio, senza vedere, senza udire i pochi matti che strillavano e
barcollavano vestiti da maschera: passò imperterrito quasi
sui piedi di due questurini accovacciati nel rientro di una porta, e
venne fino in Carrobio, non so se cacciato o se tirato da un ultimo
pensiero, soltanto in questo vivo, morto indurito nel resto della
sensazione, fatta ancora piú rigida dai sudori dell'ebbrezza
alcoolica, che gli si congelavano indosso.
Trasse dal taschino la
chiavetta inglese, aprí il portello, entrò nell'andito
della casa sua, rintracciò nel buio la solita strada, la
solita scala, che prese a salire energicamente col corpo piú
sveglio, ritrovando nelle svolte dei pianerottoli le idee abituali
di tutte le sere.
Abitava al terzo piano un
quartierino quasi nuovo, che aveva due balconi verso strada.
Per una scaletta di legno si
saliva, oltre il suo pianerottolo, a un terrazzino aperto sul tetto
per il medesimo uscio del solaio. Su quel terrazzino Cesarino
Pianelli aveva un poco di botanica. L'uscio del solaio, di legno
massiccio, come al solito era rimasto aperto e Cesarino se la prese
ancora mentalmente contro il guattero dell'osteria, un animale che
non aveva le mani per chiudere, quando andava lassú a
prendere il carbone. L'uscione, sbatacchiato dalla forza del vento
che entrava per l'abbaino, mandava di tratto in tratto dei cupi
rimbombi nella torre della scala. Cesarino alzò gli occhi e
vide in mezzo a due nere travi una pezza piú chiara di cielo.
Introdusse dolcemente la chiave
nella toppa e sospinse il battente.
Giovedí, un brutto cane
volpino, che egli aveva raccolto per via la notte d'un
giovedí santo, si mosse nel suo giaciglio, posto in un angolo
dell'anticamera, mandò un guaiolo; ma, riconosciuto il
padrone, si accoccolò di nuovo a dormire.
Camminando sulla punta dei
piedi, si avvicinò all'uscio della stanza da letto: e
ascoltò.
Beatrice era tornata e dormiva
da una mezz'ora, profondamente, cullata dall'eco delle danze.
Tornò indietro, sempre
sulla punta dei piedi, entrò nello stanzino che serviva da
studio, che aveva la finestra sopra un cortiletto di passaggio tra
la bottega del lattivendolo e l'osteria.
Accese una candela,
buttò in terra il gibus pesante d'acqua e si strappò
di dosso il soprabito e l'abito nero a falde.
Con una salvietta si
asciugò un poco i calzoni, le mani, il collo e indossò
un gabbano che trovò sul letto.
Stracco e mezzo malato si
abbandonò sopra una poltrona e stette lí tutto
intormentito, tutto d'un pezzo.
La casa e la città
tacevano ancora in quell'ora cieca che precede il giorno: e l'unico
rumore era lo sbattacchiare villano dell'uscione del solaio, che
agitava un suo arpione di ferro pendente.
Fissò gli occhi nella
fiamma bianca della candela posta sulla sponda della scrivania,
dalla quale si irradiava un cerchietto di luminose stelluccie.
Portò le mani agli occhi. Erano lagrime.
Tristo, maledetto destino che
per qualche migliaio di lire un uomo dovesse perdere la vita! E
quest'uomo aveva esposto tre volte il petto alle fucilate, ed era
stato a Roma nel settanta. Cesare Pianelli aveva due medaglie
commemorative e un congedo militare onorevolissimo.
Ebbene, a quest'uomo non si
davano nemmeno tre giorni per ordinare le idee, per accomodare un
debito.
Sonarono le quattro e tre
quarti a una graziosa pendolina di nichel posta sul caminetto.
Nella stanza vicina, non divisa
dallo studietto che da un semplice assito aperto in alto, dormivano
i suoi figliuoletti minori, Mario di circa sei anni e Naldo di
quattro anni e mezzo, due bei bambini, che avevano gli occhi del
babbo e la carnagione bianca della mamma.
Arabella, di dodici anni e
mezzo, dormiva in una cameretta piú lontana.
Cesarino amava immensamente i
suoi figliuoli, e sebbene li vedesse attraverso lo specchio falso
delle sue grandi idee e della sua ambizione, l'affetto suo non era
per questo meno vivo e sincero. Arabella specialmente era il suo
cuore, perché ragazza, perché la prima, perché
bellissima. Questa bambina d'un biondo chiaro, con magnifici occhi
neri pieni di riflessi, cresceva a precipizio con una personcina
aristocratica, mobile, nervosa come la natura del babbo, ma d'animo
dolcissimo come la mamma. Che cosa sarebbe stato di questi ragazzi
fra ventiquattro ore? Come avrebbe potuto un povero padre sopportare
lo sguardo pieno di lacrime di quella bambina intelligente? E che
cosa avrebbe dato loro da mangiare il povero padre? E chi avrebbe
sposata la figlia di un uomo processato per falso e uscito di
prigione?
E chi avrebbe dato pane ed
educazione a' suoi maschietti?
Il mondo è cattivo. Il
mondo è cane, peggio dei cani.
L'uscione del solaio agitato
dal vento seguitava a sbattacchiare innanzi, indietro. Parevano
insulti quei colpi!
Cesarino si profondò
ancora un poco nelle sue meditazioni, e trovò che proprio uno
solo era il rimedio ai suoi mali.
Andò alla scrivania e
scrisse di seguito:
"Illustrissimo signor
commendatore,
"Il sottoscritto, dopo quasi
venti anni di onorati servigi resi alla patria, si trova nella
dolorosa circostanza di non poter restituire entro ventiquattro ore
la somma di lire mille. Poiché non si è creduto
necessario di concedergli un lasso maggiore di tempo, provvede egli
stesso al suo castigo.
"Valga questa mia dichiarazione
quale giustificazione pel signor ragionier Martini e valga il mio
sacrificio a espiare un delitto che non era nelle mie intenzioni di
commettere. Spero che non si farà processo ad un morto e si
vorrà almeno salvare l'onore de' miei figli.
"In quanto ai danni ho
incaricato mio fratello Demetrio di regolare la partita collo stesso
signor ragionier Martini.
"Con osservanza
CESARE PIANELLI."
Prese quindi un altro foglio e
scrisse in alto:
"A mio fratello Demetrio."
E piú sotto:
"Prego mio fratello a voler
regolare col signor ragionier Martini un conto di lire 1000 (mille),
di cui mi dichiaro suo debitore, e nello stesso tempo di voler
provvedere perché siano protetti i diritti dei miei
figliuoli, tanto per riguardo alla mia pensione, quanto per la
intera esazione della dote di mia moglie, di cui è qui
allegata una promessa scritta di mio suocero, il signor Isidoro
Chiesa di Melegnano. Si procuri che i miei figli non sappiano mai
come morí il padre loro."
E senz'altro firmò,
suggellò le lettere, scrisse gli indirizzi e sollevò
la testa come se si svegliasse da un gran sogno.
Naldo mormorava in sogno delle
parole ridenti.
Il cuore irritato e superbo del
padre fu scosso da quella voce tenera e balbettante, che si svolgeva
dalla vaga delizia d'un bel sogno. Il povero uomo strinse la testa
fra i pugni. Bagnò ancora una volta la penna e
cominciò a scrivere:
"Cara Beatrice..."
Ma un fiume di lagrime gli
tolse la vista della carta. Soltanto a scrivere il nome di questa
donna, tutte le forze dell'anima si risvegliarono in un impeto
sdegnoso di coraggio, in una quasi feroce esigenza di vita.
Egli non osava dire a sé
stesso che forse soltanto per questa donna era venuto
insensibilmente all'orlo del precipizio: non osava accusare sua
moglie, renderla complice delle sue disgrazie. Ciò che egli
aveva fatto per lei, i regali, il lusso, lo splendore della vita,
non era stato chiesto dalla povera donna: ma Cesarino l'aveva dato
spontaneamente, come tributo dovuto alla bellezza e alla
bontà di sua moglie, di cui egli era ciecamente innamorato e
ciecamente geloso...
All'idea che i morti non
possono vedere le cose di qua, e che Beatrice, vivendo, poteva
essere il tesoro di un altro uomo, Cesarino rabbrividí,
buttò via la penna, si picchiò la fronte con pugni
duri e stretti.
Quali tentazioni gli passavano
nel sangue? Non aveva mai creduto a certi delitti se non come
conseguenza di delirii frenetici e di pazze allucinazioni: ma ora si
sentiva pigliato egli stesso da una forza invisibile che tentava di
trascinarlo di là, nella stanza vicina, accanto al letto
della bella donna addormentata, ancora sua, tutta sua...
Capiva già come si possa
afferrare un coltello e uccidere, uccidersi...
Balzò in piedi
inorridito. Tremava in tutto il corpo di febbre fredda, mentre la
fronte pareva una fornace. Non piangeva piú. Si guardò
una volta nello specchio ed ebbe paura di sé. La testa pareva
già calcinata, le labbra indurite, gli zigomi tesi, la
fisionomia coperta dei lineamenti della morte, i capelli irti, tesi,
irritati, l'occhio vitreo di uomo pazzo...
Era già pazzo forse?
questa poteva essere ancora una mezza salute. A un pazzo si
perdonano molte cose, che non si perdonano ad un morto, e un pazzo
può ancora risuscitare. Ma ragionava ancora troppo per essere
matto. La macchina logica del suo cervello funzionava ancora troppo
regolarmente e gli dimostrava che pel ladro e pel falsario non
c'è che il codice penale...
Un impeto di nausea urtò
a questa ripetuta idea lo stomaco, la vertigine lo colse,
trasudò copiosamente per tutto il corpo, e sentí quasi
un rovesciamento di tutti i visceri. Anche questo male passò
presto: non poteva né impazzire, né morire, mio Dio!
Bisognava ch'egli si
distruggesse proprio colle sue mani.
Soffiò sul lume e rimase
al buio, raccolto, colla testa tra le mani, quasi a pregustare il
gran buio eterno in cui stava per gettarsi.
Quando si scosse da quella
profonda contemplazione, vide che un primo albore del giorno
biancheggiava già sui vetri. Si alzò, aprí la
finestra che dava sul cortiletto, guardò giú nella
fonda oscurità delle pareti ancora umide e sgocciolanti di
pioggia. Il vento fresco e leggero dell'alba rompeva qua e là
la nuvolaglia del cielo e cominciava ad asciugare i tegoli. La luna
usciva ancora a tempo per spargere sui tetti bagnati un raggio della
sua luce tremula e falsa, una luce che faceva male al capo.
Cesarino sentí la nausea
della vita e misurò ancora una volta coll'occhio la terribile
profondità in cui stava per gettarsi capofitto. Ma in quel
punto uscí e si mosse nel cortile un lume. Alcune voci si
mescolavano al tonfo sonoro del secchio del lattivendolo. Non era
piú a tempo a gettarsi dalla finestra. Sentí che
sonavano la diana alla caserma di San Francesco, a cui rispose
piú lontana, forse dal castello, la diana della cavalleria.
Queste due squille vive nel
gran silenzio dell'ora sollevarono un nuvolo di idee e di memorie
del tempo felice ch'egli aveva servito nei lancieri, quando, per
esempio, cacciando la testa fuori della tenda si vedeva
all'orizzonte dietro i pioppi del Ticino la striscia argentea
dell'alba.
Al di sopra dei tetti per la
vastità dell'aria si moveva e arrivava anche il rumore sordo
dei carri, che, sul fare dell'alba, portano alla città le
verzure, la legna, il fieno; e veniva insieme anche qualche tocco
d'Avemaria di una parrocchia rurale, lontana lontana, insieme ai
fischi della stazione di Porta Genova.
Cesarino fu quasi respinto
indietro da quei suoni di vita: chiuse in fretta la finestra.
Dopo aver cacciata la testa nel
bugigattolo dove dormivano i figliuoli, dopo aver respirato l'odore
caldo della loro vita di cui lo stanzino era pieno, volle dare un
bacio alla sua Arabella.
Passò nell'altra
stanzetta, leggermente, per non svegliare la bambina. Non piangeva,
non pensava, non soffriva nemmeno piú: ma erano lampi e
bagliori di idee in mezzo alla nera oscurità di una ragione
che un senso indomato di orgoglio trascinava alla disperazione. La
stessa disperazione però pigliava già forma di
sacrificio. Non è santo olocausto la morte di un padre che si
uccide per salvare l'onore dei figli?
Arabella dormiva soavemente nel
suo letto composto e bianco. I capelli di lino scendevano sopra le
piccole spalle che brillavano nella poca luce dell'alba. Il seno
piccolo e commosso forse da un sogno palpitava della vita che si
sogna a dodici anni. Le labbra semiaperte mandavano fuori un alito
puro, misto al profumo delle carni intiepidite nelle coltri.
Quel mondo cattivo e senza
carità, che voleva oggi cacciare in prigione il padre,
avrebbe fra non molti anni sospinto colle stesse mani la figliuola
al vizio e alla vergogna, giovandosi della sua fragilità
morale. O che cosa può essere (pensa il mondo) la figlia di
un ladro e di un falsario morto in prigione?
L'uscione del solaio
sbatacchiò due colpi che fecero tremare la casa.
"Vengo."
Si chinò sulla testolina
della figliuola, lasciò che cadessero le ultime lagrime sopra
i suoi capelli, l'adorò un ultimo istante, e risoluto, sempre
con passo leggero, andò in cucina, presso la cassa della
legna.
C'era un cassetto,
frugò, rimestò un pezzo colle mani, scelse qualche
cosa, che osservò attraverso alla luce nascente della
finestra, e passò davanti all'uscio di Beatrice.
Ascoltò.
Essa dormiva col fiato pesante.
Davanti a quell'uscio, mentre
stava col pugno stretto, sentí come un coltello in mezzo al
cuore.
Non c'era piú tempo da
perdere. In anticamera Giovedí si mosse un poco e si
lamentò.
"Dormi, povera bestia!"
L'uscio che dava sul
pianerottolo era rimasto aperto. Lo riaccostò senza far
rumore e corse a precipizio su per la scaletta del solaio.
Arabella sognava d'essere nella
chiesuola delle monache, occupata a ornare di fiori una statuetta
della madonna. Da qualche tempo essa si preparava alla prima
Comunione e il suo cuore era pieno di visioni: quando fu svegliata
bruscamente da un forte abbaiare. Alzò un poco la testa, in
preda ad uno strano spavento; portò la mano al cuore, dove
sentiva uno schiacciamento come un chiodo premuto, girò gli
occhi intorno.
I vetri cominciavano ad
imbianchire nella luce mattutina. Le campane di San Sisto sonavano
l'Avemaria. Lasciò cadere ancora la testa, stanca del bel
sonno della fanciullezza, e si addormentò un'altra volta.
Il cane, colle quattro gambe
tese rigidamente sugli scalini e col corpo quasi indurito
dall'emozione seguitò un pezzo a urlare nell'ombra contro
l'uscione aperto del solaio. Ficcava gli occhi nel buio della
soffitta, ma non osava fare un passo né avanti, né
indietro, come se, tranne la voce, la povera bestia fosse istecchita
nelle sue costole.
IV
Demetrio Pianelli, la mattina
della prima domenica di quaresima, verso le sette, andava a sentire
la sua messa alla vicina chiesa di Sant'Antonio, quando, giunto
all'angolo di San Clemente, si incontrò in Ferruccio, che
correndo e ansando gli domandò con lo spavento negli occhi e
nella voce: "È lei il fratello del sor Cesarino?"
"Eh?" esclamò Demetrio,
accartocciando la pelle della faccia, in una smorfia d'uomo che
stenta a capire.
"Venga, il sor Cesarino
s'è ammazzato."
"Chi, chi? chi sei?"
balbettò Demetrio agitando le mani.
"Mi manda mio padre."
"Chi, chi? chi è tuo
padre?"
"Il portinaio del Carrobio, il
Berretta. L'hanno trovato morto stamattina sul solaio."
Ferruccio tremava come una
foglia nel dire queste parole.
Demetrio vide dapprima innanzi
a sé un gran buio, poi gli parve di perdere l'equilibrio. Al
buio successe un bagliore fosforescente come quando uno ti lascia
andare una terribile frustata attraverso la faccia. Poi si mosse per
una forza istintiva e prese a galoppare dietro al ragazzo che,
voltandosi di tempo in tempo, cercava di raccontare la storia. "Come
ammazzato? da quando si è ammazzato? perché si
è ammazzato? Chi? Cesarino? Oh, povero me..., o Signore, o
Madonna Santissima." E quanta fu lunga la strada da San Clemente al
Carrobio, il povero Demetrio non seppe dir altro.
La voce era corsa in Carrobio e
già cominciava a radunarsi un po' di gente.
"Che cosa c'è?"
"Si è impiccato!"
"Chi?"
"El Poncin del Carrobi!" disse
un parrucchiere a una bella sartina che andava a scuola.
"Ehi reverissi!"
La bella biondina cercò
di farsi largo tra la gente raccolta davanti alla porta. Dalla
bottega del fornaio vicino erano usciti i lavoranti. Uno, il
piú magro, vestito soltanto di una camicia e di un paio di
calzoni di tela, con le maniche rimboccate fino alle spalle (con
quel freschino) cercò d'infarinare un poco la bella bionda.
"Per te sí, mi
truciderei, bellezza" disse il magruzzo in pianelle, a cui la brezza
gonfiava la camicia sulla schiena.
"S'è impiccato il
padrone di casa, perché non sapeva dove mettere i denari."
Uno nominò lord
Cosmetico e subito corse la voce che s'era ammazzato un inglese.
"Dove?"
"All'albergo della Gran
Brettagna."
Dalle finestre molte donne in
cuffia e in casacchino bianco domandavano, rispondevano, facevano
esclamazioni: "Cara Madonna! Signor, che scènna! Ehi, sora
Rachèlla!..."
Arrivò Ferruccio, che
precedeva Demetrio. Si fece largo nella folla e gridò:
"È qui."
Intanto giungeva anche un
delegato della polizia con alcune guardie.
Svegliato al bisbiglio e al
rumore dei passi su e giú per la scala, mi vestii in fretta e
scesi anch'io in corte a vedere. Il Berretta, smorto come una rapa,
mi raccontò il caso. Il guattero dell'osteria, salito tra le
cinque e le sei a prendere un cesto di carbone, aveva dato del capo
in due gambe. Corse giú senza anima, senza una goccia di
sangue, contò la cosa al Berretta che mandò a chiamare
le guardie. In silenzio andarono su, passando in punta di piedi
davanti all'uscio dei Pianelli che dormivano ancora. Il macellaio,
un giovinotto tarchiato e forte come un toro, prese in braccio
Giovedí, che seguitava ad abbaiare contro l'uscio, con una
mano gli strinse il muso per farlo tacere e se lo portò via.
La povera bestia si dibatteva nelle strette come un'anguilla.
Il Berretta stava facendomi
vedere la mano con cui aveva aiutato a distaccare il morto, che
teneva aperta in aria, lontana dal corpo, come se non fosse
piú sua, quando sopraggiunse il signor Demetrio.
Era la prima volta che vedevo
questo bravo signore, che non somigliava per nulla a suo fratello,
non tanto per esser egli piú vecchio, quanto per la
espressione, per il colorito del viso e per il modo di vestire.
Mentre Cesarino era ciò che dicesi a Milano una cartina, di
pelle fina e bianca, sempre elegante, pulito e aristocratico, questo
signor Demetrio aveva all'incontro l'aria di un vecchio fabbro
vestito coi panni della festa. La pelle era cotta dal sole, rugosa:
la fronte bassa coperta dai capelli, che uscivano quasi a foggia di
un tettuccio, di un colore rossiccio e duri come lesine, com'erano i
baffi duri e rasati, che coprivano un poco il labbro.
Nelle orecchie arricciate come
frasche di cavoli, qua e là rosicchiate dal gelo, portava
anellini d'oro secondo il costume dei contadini della Bassa
Lombardia, che credono con ciò di evitare il mal d'occhi.
Scarso di parole, dalle poche sillabe che ci scambiammo a' piedi
della scala, mi accorsi che stentava a metter fuori certe
consonanti.
"Dov'è?" chiese con gli
occhi gonfi, perduti nel vuoto.
"Importa che in casa non
sappiano nulla, se si può. Povera gente!" gli dissi.
Facemmo i quattro passi che
conducevano alla scuderia. Lungo il muro, tra le ruote di una
carrozza c'era una stuoia stesa sul selciato, dalla quale uscivano
due scarpette lucide da ballo. Non osammo varcare la soglia. Col
capo basso e col cuore pieno dei mille pensieri, che ispira sempre
la vista d'un cadavere, si stava lí come impauriti, quando un
rumoroso battere di pantofolette chiamò la mia attenzione e
mi fece guardare in su.
Arabella, coi capelli sciolti,
uscita sul terrazzino verso corte, batteva nell'aria le scarpette da
ballo della mamma, canticchiando nella chiara allegria di una fresca
mattina di marzo. E rientrò canticchiando.
"Che cosa si può fare
per ingannare la famiglia?" chiesi commosso al signor Demetrio.
Egli guardò a destra, a
sinistra, in terra, nei cantucci della corte, come se cercasse quel
che si doveva fare. Siccome Cesarino aveva detto che non sarebbe
tornato per tutto il giorno, cosí c'era tempo di preparare
una pietosa bugia. Poi si sarebbe fatto credere a' suoi che un male
improvviso, una congestione, un gran freddo, l'avevano portato via.
Il signor Demetrio a questa mia
idea disse di sí col capo. Di suo soggiunse:
"Si potrebbero mandare alle
Cascine."
Entrarono i portantini
dell'Ospedale che i casigliani avevano fatto venire, posero il morto
nella barella, calarono le tendine e, preceduti dalle guardie, con
dietro una processione di gente, presero la via Torino verso
l'Ospedale.
Il giorno dopo, un'ora prima di
sera, una carrozza funebre fatta come una scatola, tirata da un
cavallo nero, usciva dalla porta dell'Ospedale Maggiore, quella che
dà sul Naviglio, e, disceso il ponte, si avviava lentamente
per la strada deserta di San Barnaba verso il bastione, e verso il
vecchio cimitero di Porta Vittoria, detto il Foppone.
Piovigginava.
Dietro la carrozza, che
lagrimava nero, coperto, quasi sepolto da un grande ombrello, cinque
o sei passi lontano, come se avesse vergogna di farsi vedere, veniva
Demetrio. Non un prete davanti; non un amico intorno.
S'era fatto di tutto per portar
via il suicida in segretezza, nell'ora che gli amici vanno a pranzo.
I giornali, tranne uno, avevan taciuto la cosa e non era stato
nemmeno impossibile di far credere a Beatrice e ad Arabella che la
morte fosse conseguenza di una sincope, di una congestione. Cesarino
andava soggetto a forti mali di capo: gli strapazzi del carnevale,
il correre, l'affannarsi, l'agonia di un vecchio amico... Insomma un
po' per uno, coll'eloquenza che in queste circostanze la
carità spontaneamente suggerisce, si diede alla povera donna
la tremenda notizia, vestita alla meglio di una santa bugia; e fatta
venire una carrozza, Demetrio, colle belle e colle buone
riuscí a condurre la vedova e i ragazzi, piú storditi
che persuasi, alle Cascine Boazze, in casa di un parente. Egli
tornò subito a Milano.
Ora cogli occhi fissi al
cerchio della ruota che girava innanzi a lui, dopo due giorni di
corsa, di affanno, di stordimento, cominciava a riordinare un poco
la matassa arruffata de' suoi pensieri. Era un sogno doloroso da cui
non poteva svegliarsi. Colle tristezze nuove si mescolavano le
reminiscenze vecchie della sua vita passata, i dissidî
domestici, i lunghi guai che lo avevano diviso da suo fratello.
Demetrio era nato dalla prima
moglie di Vincenzo Pianelli, un buon affittaiuolo per il tempo suo,
finché durò la fortuna, ma un uomo assolutamente
incapace di resistere ai tempi difficili che vennero poi.
Finché visse la mamma di
Demetrio, tanto tanto il buon senso naturale di questa donna e il
suo grande spirito di economia avevano aiutato a tenere insieme la
barca; ma quando, morta lei, pà Vincenzo fece la sciocchezza
di sposare un'altra donna, piú giovane di lui una ventina
d'anni, addio buon senso, addio economia! La sposina, colla testa
piena di farfalle, aveva sposato il vecchio Vincenzo colla speranza
di fare un gran partito e portò in casa il lusso, la voglia
di spendere, il gusto dei cappellini, dei vestiti di seta, mentre la
prima moglie, povera donna, s'era sempre contentata di vestire di
lana e di cotone e non aveva messe le scarpe di pezza che due o tre
volte in tutta la sua vita.
Vincenzo, che aveva allora in
affitto un grosso fondo su quel di San Donato, si accorse subito che
la barca cominciava a far acqua da tutte le parti; ma era tanto
innamorato della sua Angiolina, che non sapeva dir di no, le andava
dietro ogni passo, come un cagnolino, e si istupidiva a poco a poco
in estasi a contemplarla, quasi che la vecchia Teresa, che ora
dormiva in un cantuccio del camposanto e che aveva lavorato tanti
anni per lui, non fosse mai esistita.
Dopo nove mesi di quel nuovo
matrimonio, nacque Cesarino, e il figlio della povera Teresa cadde,
come si dice, dallo scanno.
Cesarino divenne l'idolo di
pà Vincenzo. Per lui ci volle una balia fatta venire apposta
da Varallo Pombia, che son cosí belle e famose, e cosí
furono risparmiate le fresche bellezze della mammina.
Padrino al battesimo fu il
cavaliere Menorini, ragioniere e amministratore dei Luoghi Pii, che
aveva sempre mostrato per l'Angiolina una speciale tenerezza.
Per Cesarino furono tutte le
carezze, tutte le speranze. Demetrio, che aveva già dieci o
dodici anni, abbandonato all'educazione dei bifolchi e dei famigli,
crebbe come si può crescere tra le vacche e i cavalli. Fu un
miracolo se imparò a leggere e a scrivere.
Man mano che Cesarino diventava
grande, crescevano ancora le differenze. A sentire il pà,
egli solo aveva ereditato tutto il talento di casa Pianelli; egli
doveva fare il dottore o l'avvocato.
Appena ebbe raggiunta
l'età, fu collocato a Milano, nel collegio Calchi-Taeggi;
mentre Demetrio, dopo essere stato qualche anno a Lodi presso un
ragioniere a imparare quattro conti, fu presto richiamato a casa a
sopraintendere alla stalla delle vacche e alla "casera" del
formaggio.
Solamente nelle vacanze
Cesarino passava qualche dí a casa.
Tutto lindo e ripicchiato nella
sua divisa di panno nero coi bottoni d'argento e coi ricami d'oro,
coi ricciolini pettinati e scompartiti sulla fronte, s'imbatteva in
Demetrio che usciva dallo stallone, colle gambe nude fino al
ginocchio, i piedi in grossi zoccoli di legno, con in mano una
forcona, col corpo sordido e pregno di quel grasso odore che stilla
dai letti marci.
Era un miracolo se questi due
fratelli, incontrandosi, si dicevano un "ciao" a mezza bocca.
Stavano a guardarsi un istante, sorpresi, quasi meravigliati l'uno
dell'altro, e si voltavano le spalle. Per fortuna alla cascina
Cesarino si fermava poco, perché il resto delle vacanze
andava a passarlo colla mammina sul lago di Como.
La bella Angiolina dopo otto
anni di matrimonio, presa dalla malaria, curata male, morí in
preda a una terribile febbre d'infezione.
Pà Vincenzo rimase
indietro piú stupido e piú rovinato di prima.
Cominciarono i sequestri: l'Ospedale diede la disdetta d'affitto, e
da padroni i Pianelli divennero servitori.
Quando sarebbe toccato anche a
Cesarino di dare una mano a salvare la casa che barcollava, sempre
per consiglio del cavalier Menorini, fu collocato in un battaglione
d'istruzione, da dove uscí col grado di caporale maggiore.
Poi scoppiò la guerra del '66 e addio casa! Il peso dei
debiti, dei protesti, dei sequestri, del padre vecchio, malato,
rimbambito, cadde di nuovo sulle spalle del povero bifolco, che non
per nulla era nato prima. Mentre la casa si sfasciava da tutte le
parti, era bello (bello, per modo di dire) vedere il vecchio
pà Vincenzo seduto fuori dell'uscio, al sole, colla bocca
aperta, con una berretta di maglia a righe rosse in capo, col
fiocchino ritto come si dipinge la fiamma dello spirito santo, le
mani sulle ginocchia, gli occhi perduti nell'aria e nel verde
pacifico dei prati, in mezzo a un milione di mosche che se lo
mangiavano vivo.
Demetrio vendette il canterano
di maggiolino della sua mamma e coi quattro stracci si ridusse a
Milano, dove un suo zio prete, don Giosuè Pianelli, canonico
in Duomo, gli procurò un posto provvisorio di scrivano nella
cancelleria della Curia arcivescovile.
C'era appena di non morir di
fame, anche dopo aver venduto tutto ciò che s'era potuto
sottrarre alle mani del fisco. A Milano il vecchio Pianelli
trovò, se non altro, meno mosche. Tirarono innanzi tre anni,
campando colla misericordia di Dio, su qualche ultimo boccone della
dote di mamma Teresa, finché non piacque al Dio delle
misericordie di chiamare pà Vincenzo in paradiso a trovare la
sua bella Angiolina.
Quando si trattò di
farlo portar via, Demetrio, non sapendo a che santo ricorrere,
andò a trovare lo zio prete, un brontolone sempre in collera,
che gli prestò cinquantasette lire dietro regolare ricevuta.
Demetrio non aveva voluto ascoltare il consiglio di don
Giosuè e mandare il vecchio all'Ospedale: cosí gli
toccarono in corpo anche le spese del funerale.
Eran cose passate da un pezzo:
ma queste memorie ripassavano ora davanti agli occhi di Demetrio,
come se la ruota della carrozza, girando, ne svolgesse il filo.
Né i guai finiron lí.
Cesarino, che si trovava in
quel tempo a Palermo, scrisse subito a Demetrio per chiedergli i
conti ed i residui della sua parte patrimoniale. E a lui di rimando
il fratello rispose che il padre era stato sepolto con le
cinquantasette lire prestate dallo zio prete; che di roba non c'era
piú l'ombra; che le spese di malattia le aveva pagate lui;
che era ridicolo parlar di conti e di residui.
Cesarino tornò a
scrivere che sua madre Angiolina aveva portato cinquemila lire di
dote e che, se egli era stato tanto buono e rassegnato finora a non
domandare i conti, ora, sul punto di lasciare il servizio militare
per farsi una carriera, non poteva piú trascurare i suoi
diritti.
Demetrio tornò a
rispondere al signor sergente-furiere ch'egli non sapeva nulla di
dote; che se anche c'erano state le cinquemila lire, il fallimento
se l'era mangiate. Venisse e vedesse che cosa era rimasto di casa
Pianelli.
Il contrasto si fece ancora
piú vivo, allorché Cesarino, lasciato il servizio,
venne a Milano in cerca d'un impiego. La sua grande aria di
superiorità, resa ancor piú altera e imponente da un
certo piglio soldatesco, cominciò ad irritare fin dal
principio il fratello bifolco, che aveva sul libro vecchio della
memoria tutti gli arretrati delle passate mortificazioni.
Poiché non c'era
piú né babbo né mamma, disse al sor sergente
piú d'una verità che gli stava da un pezzo in gola,
senza troppo condirla. Cesarino, già fin d'allora molto lord
Cosmetico rispose con un risolino ironico di schifo e con un
proverbio del paese, che tradotto in lingua povera veniva quasi a
dire: da una zucca non può nascere che una zucca.
A questa ingiuria, che andava a
colpire la santa memoria di sua madre, Demetrio chiuse l'uscio sul
muso all'ex-sergente, e da quel dí - cioè da dieci o
dodici anni in qua - non si eran parlati, non si eran guardati
piú in viso.
Demetrio sollevò un
momento gli occhi alla cassa e si sforzò di perdonare
sinceramente a quel poverino. La morte paga tutti i debiti:
cioè non tutti... pur troppo...
Pur troppo eran passati gli
anni, durante i quali Demetrio, lasciato l'impiego provvisorio della
Curia, era entrato col grado di terzo bollatore all'ufficio del
Bollo straordinario, collo stipendio di mille e trecento lire: poi,
per speciale protezione del cavalier Balzalotti, era stato assunto
al grado di commesso gerente in uno dei tanti uffici del registro
con cento lire di aumento.
Cesarino, sempre coll'aiuto e
colle raccomandazioni del vecchio cavalier Menorini, col suo bel
congedo in regola e colle sue medaglie commemorative, non
stentò a trovare un impiego. Entrò dapprima nel
personale viaggiante delle Poste sui battelli a vapore del lago di
Como; poi ottenne un posto di ufficiale a Melegnano, dove fece
conoscenza coi Chiesa, e dopo qualche anno venne traslocato a una
Sezione dei vaglia a Milano, con lo stipendio di duemilacinquecento
lire.
Cosí egli
dimostrò a suo fratello bifolco che un uomo di spirito non ha
bisogno della carità di nessuno.
Con duemilacinquecento lire, un
bell'uomo, di talento, elegante, un regio impiegato, educato in un
collegio, poteva aspirare a un bel matrimonio...
Non passò molto che una
bella domenica Milano poté contemplare sul Corso lord
Cosmetico che dava il braccio alla sposa vestita in gran lusso d'un
abito di seta color tortorella e in testa un cappellino bianco a
piume che si poteva vedere da Monza.
Beatrice Chiesa doveva portare
nel grembiale quarantamila lire di dote, oltre alle prerogative di
una solida salute e di una bellezza senza risparmio. Ma al momento
di sborsare i soldi il sor Isidoro non mise fuori che tre o
quattromila lire, riservandosi con un'obbligazione di pagare
gl'interessi sul resto. Di queste tre o quattromila lire la maggior
parte era in corredo di biancheria, il vecchio fondo delle
guardarobe di casa Chiesa, cioè piú distintamente
ottantaquattro camicie da donna di tela nostrale fabbricata in casa
fin dai tempi dei bisnonni (roba che adesso non si fabbrica
piú cosí buona); centoventi paia di calze di filo,
tutta roba anche questa nata e preparata in casa; venticinque
tovaglie grandi, quasi nuove, per trenta persone, che avevano
servito qualche volta ai grandi pranzi di casa Chiesa, e piú
di duecento tovagliolini di tela eguale, ben grandi da imbacuccare
un uomo; quattro dozzine di lenzuola di tela nostrale del 1840 e una
grande quantità di foderette e di asciugamani.
I coniugi Pianelli menarono
subito una vita in grande.
Non si nasce lord Cosmetico
senza avere il gusto delle belle cose e non si sposa una bella donna
senza il desiderio di comparire e di farla comparire.
Già il primo anno si
cominciò a spendere senza giudizio, dando fondo a quel
migliaio di lire che il babbo aveva anticipato sulla dote.
In casa Pianelli non si
conoscevano le famose grettezze di mamma Teresa, che metteva in
disparte i gusci e i mezzi solfanelli!
A desinare erano sempre due
piatti con frutta e dolci: a colazione si beveva fior di vin di
Marsala: la sera si passava al Caffè Biffi, in Galleria, o ai
giardini pubblici, o a teatro. D'autunno o era un viaggio sui laghi
o un mese di campagna a Erba o a Besana Brianza... E per questa
strada il povero Cesarino aveva finito coll'andare in carrozza.
"Eccola qui la carrozza!"
mormorò Demetrio, alzando di nuovo gli occhi sul carro
funebre, che, passata la chiesetta di San Barnaba, infilava l'altra
via quasi deserta della Pace.
Ma di tutto questo che colpa
avevano quei poveri figliuoli?
È vero ch'egli avrebbe
potuto stringersi nelle spalle, lavarsene le mani e fingere di non
conoscere nessuno; ma son cose che si dicono.
C'era di mezzo il nome della
famiglia, c'erano di mezzo gli innocenti e non è religione
solamente il sentire la messa la festa e il confessarsi a Pasqua.
E, come se questi pensieri gli
cadessero addosso insieme all'acqua che veniva dal cielo, Demetrio
andava rannicchiandosi sotto l'ombrello, mentre la carrozza, passata
la Rotonda dei Cronici, entrava nel terreno molle e fangoso del
bastione.
Sí, una grande
responsabilità gli cadeva sul capo!
Era proprio necessario ch'egli
accettasse questa dolorosa eredità senza qualche beneficio
d'inventario? Come poteva colle sue millequattrocento lire all'anno
pensare alla vedova e a tre figliuoli? La lettera di Cesarino, che
egli andava rotolando in fondo alla tasca del suo paltò,
parlava di un grosso debito di mille lire verso il signor Martini...
Grazie! Eppure se c'era un debito sacro era questo, nel quale era
compromesso l'onore di tutta la famiglia e la memoria di un povero
padre. Nella sua lettera arida, scritta sul tamburo della
disperazione, Cesarino parlava di diritti a pensione, e della dote
di sua moglie; ma alla Posta non riconoscevano questi diritti, e in
quanto alla dote di Beatrice, chi conosceva il signor Isidoro
Chiesa, sapeva che il buon uomo non aveva di grande che la blatera e
la presunzione...
Ecco come uno va fuori dei
fastidi e vi lascia dentro chi resta.
Come se di impicci e di
strozzamenti non ne avesse avuti abbastanza in tutta la sua vita!
Come se, per non averne piú, egli non avesse giurato di morir
solo e vivere intanto nel suo guscio, in una soffitta sopra le
tegole, lontano dagli uomini e dalle donne.
La carrozza funebre
svoltò un'altra volta e uscí da Porta Vittoria. Dopo
le ultime case del sobborgo, laggiú, presso il vecchio forte
militare, la strada si fece piú molle e fangosa. Da lontano,
dietro gli alberi umidi e grondanti di pioggia, venivano sopra gli
umidi sbuffi d'un vento gelato i tocchi d'una campana, forse da
Calvairate.
Il luogo non è mai bello
per sé con quelle siepi mozze, con quella lunga cinta di
camposanto che si accompagna alla strada, con quell'acqua morta che
inverdisce nei fossi. C'era di piú l'ora bigia e triste e la
giornataccia che andava oscurandosi nella nebbia della bassa
pianura. Di tristezza traboccò anche il cuore di Demetrio,
che, dopo due giorni di scosse e di irritazione, nel punto che
tiravano Cesarino dal carro, sentí al disotto dei vecchi
rancori irrugginiti agitarsi un sentimento molle e fraterno di
carità e di compassione.
Povero figliuolo, povero
martire..., cosí giovane..., andava ripetendo una voce in
fondo al cuore, al disotto di quel gran mucchio di reminiscenze
dolorose e cattive che pesavano sulla coscienza come un sacco di
chiodi pungenti.
Due lagrime dure spuntarono
nell'angolo degli occhi, stagnarono nella pupilla e gonfiarono la
testa di vapori.
I becchini, toltasi la bianca
cassa di larice sulle spalle, si avviarono attraverso ai cumuli di
terra per un campo melmoso sotto la pioggerella. Demetrio li
seguí. Stette a vedere la cassa scomparire nella buca,
sentí la terra molle cadere sul legno. Data una robusta
scossa ai pensieri che gli tiravano il capo sul petto, disse con un
sospiro: Amen.
Ritornò in città
ch'era già buio, senza mai accorgersi che dietro di lui, col
muso basso, camminava un cane. Traversò strade, stradette,
piazze e vicoletti col suo passo pesante di bifolco, crollando di
tanto in tanto la testa come un cavallo stanco di portare il basto.
Giunse in San Clemente, e, nell'androne buio della porta,
sentí una voce che lo chiamava per nome.
"Che cosa c'è ancora?"
esclamò con un fare di uomo seccato.
"Sono dell'Ospedale. Ho portato
i vestiti e le scarpe del defunto. Se il signore volesse favorire la
sua buona grazia..."
Demetrio masticò tre o
quattro parole senza senso, si tirò verso la porta, e, al
lume del lampione a gas, guardò nel borsellino.
"L'hoo propi miss in la cassa
come on bombon" continuò la voce dell'uomo che parlava nel
buio.
Bisognò dare una lira
anche a costui.
PARTE SECONDA
LE TRIBOLAZIONI DI UN
POVER'UOMO
I
Beatrice rimase una settimana
alle Cascine e tutto quel tempo non fece che piangere e disperarsi.
Trovava crudele che non le avessero lasciato vedere almeno una volta
il suo Cesarino, e ne incolpava la ruvida ostinazione di Demetrio. A
poco a poco però le cure e le parole della buona gente che
l'avevano ospitata, la vista della campagna, le ciarle spensierate
dei bambini dissiparono il primo spavento, e richiamarono il suo
cuore ad altri pensieri. Demetrio le scrisse una volta che aveva
bisogno di parlarle e che l'aspettava a Milano.
Quando si trovò di nuovo
in casa sua e che girò gli occhi intorno, provò ancora
la vertigine del sentirsi come isolata in cima a una pianta: non
sapeva che cosa fare, che cosa dire, dove mettere le mani.
Cesarino, nella sua adorazione,
soleva risparmiarle fin la fatica di pensare. Previdente, preciso,
minuzioso, e in molte cose fin troppo donnicciuola, oltre
all'andamento della casa, si incaricava lui delle scarpette, dei
vestitini dei ragazzi, della loro istruzione, e dava il suo parere
sul taglio, sul colore dei vestiti della moglie. La sua morte
improvvisa fu quindi per la povera donna come se le tagliassero via
le due braccia.
Non sapendo a che santo
raccomandarsi, appena arrivata, mandò a chiamare il cognato.
Demetrio dal canto suo si
grattò in testa con tutte e due le mani, e si
raccomandò al suo angelo custode. Sentiva bene di non essere
troppo desiderato, per quanto mandassero a cercarlo.
Cesarino, parlando di lui, ne
aveva sempre fatta una pittura come di uomo avaro e bigotto, capace
di mangiare le mila lire altrui sotto l'apparenza della religione: e
sua moglie non pensava diversamente.
In quanto ai ragazzi o non lo
conoscevano, o non potevano volergli bene.
E con questi bei precedenti
egli doveva andar fin laggiú in Carrobio a predicare
l'economia, l'ordine, a mettere forse la bambina a far la sarta, i
bimbi a bottega... e tutto ciò con qualche migliaio di lire
di debiti sacrosanti da pagare, e coll'obbligo di tenere nascosto a
quei meschini i motivi che avevano spinto un padre di famiglia alla
disperazione, e la morte rabbiosa che aveva fatto. Egli avrebbe
potuto rispondere:
"Non vi conosco..."
Oppure:
"Non ho tempo!"
Ma bisognerebbe in certi casi
avere un sasso al posto del cuore, o credere che al disopra delle
tegole non ci sia che aria, fumo, e nient'altro.
In questi pensieri fece tutta
la strada, sforzandosi inutilmente di preparare un esordio alla sua
predica.
Stava per andar su, quando il
Berretta, il portinaio:
"Ehi! ehi!" lo chiamò
indietro.
Si voltò e vide in
compagnia del sarto un uomo di mezz'età, scuro di pelle,
torbido come il temporale, con due folti sopraccigli neri, che il
Berretta presentò come el sor ragionatt.
"L'è lui il fratello del
defunto?" domandò la degna persona, aggrottando i sopraccigli
di carbone, mentre colle mani dietro la schiena faceva girare una
bella canna colla punta d'avorio.
"Perché?" chiese
Demetrio, con un piede su un gradino, l'altro su un altro.
"Dimando se l'è lui..."
tornò a dire con impazienza il signor Maccagni, con un viso
d'uomo nauseato.
"Sí, sono io...."
"Me ne congratulo tanto"
continuò l'altro dimenando il bastone come una coda. "Quel
caro suo fratello non poteva farmi un servizio piú bello."
Qui prese la parola il Berretta
che, piú scialbo del solito nel suo panciotto di fustagno
pieno di filacce, colla suggezione naturale di chi parla alla
presenza di un'autorità, spiegò come el sor ragionatt
non fosse altro che il padrone di casa.
"Proprio un bel servizio!"
seguitò quella brava persona, che possedeva tre o quattro
case in Milano, "proprio un bel servizio. Non bastava non pagare
l'affitto e tirare in lungo con delle scuse: no: bisognava anche
dare uno scandalo, fare parlare le gazzette e deprezzare lo stabile.
Qualcuno me li deve pagare i danni, non c'è santi, e io
guardo lui...."
Demetrio mosse due volte il
capo e guardò con un certo stupore el sor ragionatt come per
dire: Che ci entro io?..
"L'è inutile che adesso
mi faccia gli occhi... Io guardo lui. Sono tre semestri in arretrato
che devono essere pagati subito, o metto il sequestro sulla mobilia,
io. Roba da ridere! non posso farmi pagare dai morti, e guardo i
vivi. Come se a Milano mancassero i fossi per annegarsi. Bisognava
proprio impiccarsi in casa mia, far parlare la gente, deprezzare lo
stabile. Sí, con quelle poche tasse..."
"Ma capisce che io...."
"È un pezzo che mi si
mena per le belle sale, caro mio signor riverito!" tornò a
replicare quel bravo signore, ingrossando la voce e gli occhi, "e
io, se non pago le tasse, l'esattore non s'impicca, no, lui! Sono
tre semestri che si tira avanti, ora con una scusa, ora con un'altra
e titup e titep..." qui el sor ragionatt imitò benissimo la
voce d'un bambino viziato. "Roba da ridere! Son cinquecento lire per
semestre, e di parole ne ho piene le... i... Ci vuol altro che
rompere la testa tutti i momenti colle riparazioni, e non essere mai
contenti, e il suolo, e la tappezzeria, e la stufa, e il caminetto,
e l'inglese e la francese. L'è finita adesso. Son mille e
cinquecento lire che mi vengono e, se per Pasqua non vedo i
rispettivi, metto il sequestro e chiamo lui responsabile."
Il Berretta, spaurito di questa
grossa voce che minacciava il sequestro, che per un portinaio timido
e bisognoso è come dire una baionetta nel ventre, alzò
un poco le mani verso il signor Pianelli, come se volesse dire:
"Paghi un po', fuori dei
piedi...."
"Anch'io devo vedere come
stanno le cose..." osò dire Demetrio.
"Le cose stanno come dico io.
Pasqua è qui, corpo di un cane! e quando non si ha da fare il
signore si lascia stare, si paga prima, e soprattutto non si
deprezzano gli stabili... Uomo avvisato."
"Io vedrò."
"Uomo avvisato!" replicò
il padrone, voltando le spalle. Fece quattro passi fino in fondo al
portico, si voltò e gridò ancora a Demetrio: "Uomo
avvisato!"
Quando Demetrio non fu
piú a tiro, la tempesta si scatenò sul Berretta, che
non aveva chiuso coll'arpione l'uscio del solaio.
"C'è la mamma?" chiese
lo zio ad Arabella che venne ad aprire l'uscio.
"È ancora a letto."
"Quando siete tornati?"
"Ieri."
"Chi vi ha accompagnati?"
"Il sor Paolino."
"Va a dire alla mamma che son
qui."
"Resti servita in sala."
Arabella condusse lo zio in un
gabinetto celeste pallido, e corse a svegliare la mamma, che, stanca
del viaggio e dell'emozione, dormiva ancora.
A Demetrio tremavano un poco le
gambe. Tre semestri in arretrato, oltre il resto!
"Mamma!" disse sottovoce la
bambina, mettendo una manina leggiera sulla fronte di lei.
"C'è qui lo zio Demetrio."
"È qui?" esclamò
Beatrice, balzando via, come se le avesse detto: c'è una
biscia nel letto. "È venuta la Cherubina?"
"Non ancora."
"E i ragazzi? Sei buona di
vestirli? E il lattivendolo è venuto?"
"Nemmeno lui."
"Manda Ferruccio a chiamarlo e
a prendere il pane."
"È già andato
alla stamperia, questa mattina."
"Bene, vengo io."
Arabella entrò nello
stanzino, dove Mario e Naldo cicalavano in letto sotto le coltri,
facendo padiglione con le gambe. Non sapevano capire perché
papà fosse morto e che roba fosse la morte. Per Naldo, il
minore, la morte era qualche cosa di somigliante ad un cavastivali,
che si vedeva dietro l'uscio, appoggiato al muro, terminato in due
corna di legno.
Demetrio ebbe ad aspettare un
bel pezzo prima che sua cognata fosse visibile. Non perdette
però il suo tempo. Era una settimana che andava raccogliendo
conti e conterelli, senza quelli che gli portavano a casa
spontaneamente i creditori nella speranza che egli potesse pagare.
Oltre al grosso debito verso il Martini - che bisognava pagare per
il primo, - oltre ad una nuvola di debitucci, venivano ad
aggiungersi ora questi tre semestri della pigione. Un abisso,
insomma!
Guardandosi intorno,
restò meravigliato del lusso del gabinetto. Tanto di tappeto
in terra, candelabri di bronzo dorato sul camino, poltrone di
velluto, specchiere, stipetti di vetro... Sopra un tavolino posto in
mezzo alla sala erano schierati i ritratti di famiglia in piccole
cornici di legno traforato. Cesarino era rappresentato in quattro o
cinque guise: - in divisa militare, in borghese, colla barba, senza
la barba, sempre elegante. Il piú grande di questi ritratti
lo riproduceva in abito nero, col largo sparato bianco sul petto,
con i piccoli favoriti alla lord, e la sigaretta nella punta delle
dita. I ragazzi facevano diversi gruppetti - fra cui uno di
Naldo che usciva da una cesta di vimini con su scritto: "Pacchi
postali."
Un pianoforte verticale era
posto di sbieco nel cantuccio tra la finestra e il caminetto. -
Arabella da un anno prendeva qualche lezione dal maestro Bonfanti,
l'organista di San Sisto, e faceva già qualche progresso. Ma
di tanto in tanto anche la mamma metteva le mani sul cembalo, per
quanto intendesse la musica come una testuggine.
Di contro alla specchiera, in
una cornice d'oro ovale spiccava un grande ritratto ad olio di
Beatrice, opera d'uno scolaro del Cremona, amico intimo di Cesarino.
L'artista della scuola nuova
s'era sbizzarrito nei gialli, e la bella lodigiana impettita, colle
braccia nude, e con curve enfatiche, in mezzo a una nuvola
cenerognola, guardava dall'alto con un'aria di regina che non era
nell'indole dell'originale.
Demetrio andava mentalmente
facendo i conti di quel che si sarebbe potuto ricavare a vendere
tutta quella roba a un onesto rigattiere, dato e concesso che fosse
già pagata.
Arabella venne a dirgli che la
mamma stava vestendosi.
Dietro di lei, coi piedi nudi,
quasi nascosto tra le pieghe della gonnella, Naldo fissò gli
occhi in faccia allo zio, con espressione di paura, mentre Mario
spiava dallo spiraglio dell'uscio.
Rimasto solo tornò a
riflettere dolorosamente.
Purtroppo aveva avuto ragione
nel giudicare Cesarino una testa leggiera, troppa ragione; ah
sí! ci sono dei torti che non si darebbero via per tutte le
ragioni della giurisprudenza rilegata in oro e marocchino.
Mentre egli stava seduto sullo
scrimolo d'una sedia, come se temesse di schiacciare della roba non
pagata, sentí un non so che di morbido che gli spazzolava le
gambe.
Era Giovedí, la brutta
bestiaccia, che egli aveva già cacciata a colpi di piedi
nella coda, il giorno che i Pianelli erano andati alle Cascine, e
che, dopo una settimana di vita vagabonda, viste dalla strada le
finestre aperte, veniva anche lui a cercare qualche cosa per far
colazione.
Questo intese dire la povera
bestia col suo mugolío pietoso e col trepido dimenare del suo
soldo di coda; ma lo zio gli disse chiaramente:
"Puoi fare il tuo testamento,
animale del presepio, se non hai altri santi. Non ne ho del pane per
i tuoi denti."
Giovedí, interpretando
secondo il proprio cuore le parole brontolate dallo zio, si pose ad
abbaiare. Era l'unico mezzo datogli dalla natura per commuovere
l'animo della gente.
"Crepa!" disse Demetrio.
"Beb!" abbaiò di nuovo
il cagnetto, ponendo le zampe sporche sui pochi calzoni dello zio e
mostrando in una doppia fila tutti i suoi denti bianchissimi.
"Scoppia in mezzo, cane del
diavolo!" brontolò di nuovo Demetrio, schiaffeggiandogli il
muso col fazzoletto di cotone turchino, che adoperò per
ripulirsi le ginocchia.
In quel momento l'uscio si
aprí e comparve madama, in una grande vestaglia bianca di
flanella.
Demetrio si agitò, si
alzò un poco, tornò a sedere, chinò gli occhi
sul tappeto e balbettò un "riverisco" quasi inintelligibile.
Anche Beatrice si sentiva confusa e imbarazzata di trovarsi a tu per
tu con quel famoso cognato, che Cesarino aveva sempre dipinto come
un orsacchiotto, un intollerante bigotto, molto abile nel far
scomparire le mila lire.
Nei pochi giorni ch'era stata
alle Cascine, aveva ricevuto una visita del papà, il sor
Isidoro di Melegnano, che la mise in guardia e le comandò di
non fidarsi troppo dei raggiri di suo cognato.
Si può pensare se con
questi precedenti ella potesse fargli una grande accoglienza.
Demetrio, dal canto suo, persuaso per esperienza che la bellissima
donna era una testa d'oca, che aveva aiutato a spingere Cesarino
sull'orlo del precipizio, impacciato per indole e per abitudine a
trattare colle donne, non sapendo da che parte cominciare,
passò due o tre volte il fazzoletto sugli occhi e sotto il
naso e finalmente domandò:
"Come sta Paolino?"
"Sta bene e mi ha detto di
salutarvi."
"Sta bene anche la Carolina?"
"Sí, sta bene anche
lei."
"Mi avete fatto chiamare?"
"Son tornata ieri e non ho
nessuno a Milano, in questo momento. Non è nemmeno venuta la
Cherubina, stamattina. Volevo far avvisare l'Elisa sarta che siamo
tornate e ordinare i vestiti di lutto. Nella confusione non ho avuto
tempo di pensare a nulla, e ho dovuto farmi prestare qualche
fazzoletto nero dalla Carolina."
"I vestiti di lutto li avete
già ordinati?"
"Non ancora, sicuro. Non potrei
mettere il piede fuori dell'uscio."
"Scu... scusate" riprese con un
tremito nervoso Demetrio, "e questi vestiti sono proprio ne...ne...
nec...essari?"
Beatrice lo guardò con
aria stupefatta, come se avesse domandato se è proprio
necessaria l'aria per vivere.
"Dico questo perché
è una spesa... e se si potesse risparmiare qualche spesa."
"Come, risparmiare? che cosa
direbbe la gente?"
"Certo fu una disgrazia, e voi
avete il dovere di piangere quel povero uomo; ma di spese ce ne son
già troppe...."
"Prendete un caffè,
Demetrio?" interruppe Beatrice.
"Grazie, non ne piglio mai!"
rispose bruscamente il cognato, che, continuando il discorso di
prima, soggiunse: "Mi sono spaventato, cara voi."
"Di che cosa?"
"Dello stato delle cose. Non
c'è piú stipendio, non c'è diritto a pensione,
e ci saranno a quest'ora quasi seimila lire di debiti."
"Non è possibile..."
disse freddamente e con un leggiero sorriso ironico Beatrice, per
fargli capire che non era disposta a lasciarsi abbindolare.
Demetrio, a questa risposta
cosí fredda e categorica, alzò gli occhi e li
fissò un istante in viso alla sua cara cognata, contraendo le
labbra a un tremito nervoso, che pareva un sorriso sardonico.
"Non è possibile"
tornò a dire Beatrice nella sua matronale
tranquillità.
"Voi non siete obbligata forse
a sa... sapere e siete da compatire. Ma qui c'è un fascio di
conti... Cesarino aveva le idee troppo grandi."
"Bel capitale! Bisognava vivere
con decoro, si sa."
"Lasciamo il decoro, per
carità!"
"Si sa, un regio impiegato...
Non tutti possono rassegnarsi a vivere di pane di segale o di
polenta...."
"No, no... che segale e che
polenta! Adesso è morto e noi dobbiamo pregare per l'anima
sua, ma vi confesso che sono spaventato. Ci sono tre semestri
dell'affitto che bisogna pagare per la Pasqua, o il padrone mette il
sequestro. C'è un vecchio conto dell'orefice Boffi, che mi ha
portato lui stesso all'ufficio... Aspettate; perché non
diciate che invento tutto per il gusto d'inventare, ho portato con
me tutte le pezze giustificative. Quando hanno saputo che Cesarino
era morto e che io, suo fratello, m'incarico un poco delle faccende,
i creditori si son mossi tutti come le mosche, se la pigliano con
me, pretendono che io abbia a pagare... Io? con che cosa pagare? e
che c'entro io?"
Demetrio, tratto il suo fascio
di cartacce, sciolse lo spago che le legava insieme, e
cominciò a spiegarle sulle ginocchia.
"Arabella!" chiamò la
voce chiara e argentina di Beatrice.
"Che cosa vuoi, mamma?"
dimandò la bambina, che stava fuori in sentinella.
"Portami il caffè."
Demetrio frugò un pezzo
nella tasca di sotto e trasse l'astuccio degli occhiali. Ne
uscí un paio con grosso cerchio d'osso ch'egli
appoggiò alla punta del suo naso color patata, assicurando le
grosse spranghette tra l'orecchio e il ciuffo rossiccio dei capelli.
Inarcò le sopracciglia, e contraendo la pelle della bocca,
come se provasse della nausea, cominciò a leggere sopra una
pagina:
"Ecco, Angelo Boffi, orefice e
bigiottiere. Per braccialetto d'oro con zaffiro, lire 150...."
"È un braccialetto che
Cesarino ha voluto regalarmi fin dal Natale dell'anno passato."
"Fu pagato?"
"Io credo di sí."
"Il signor Boffi dice di
no...."
Beatrice cominciò a
guardarsi intorno, come se cercasse un testimonio. Non vide che gli
occhi amorosi di Giovedí, che la contemplavano con soave
tenerezza.
Vedere il povero cane e
sentirsi tutta rimescolare fu un punto solo. Ruppe in un singhiozzo,
stese le braccia alla bestia, che le saltò in grembo, e si
rannicchiò a piangere anche lui.
"Dove sei stato fin adesso? o
povero Jeudi, o Jeudi... dov'è il tuo padrone?"
Giovedí rispondeva alla
sua maniera, mugolando.
Demetrio chinò il capo,
lasciò cadere la mano sul ginocchio e aspettò che la
padrona e il cane finissero di piangere.
Cogli occhi fissi nel vuoto, il
pover'uomo pensava al numero dei gradini che Beatrice doveva fare
per discendere dal suo trono di cartapesta fino alla triste
realtà, che la circondava da tutte le parti.
"Non fu pagato questo, come non
furono pagati gli altri" riprese a dire con un tono uguale e freddo,
dopo un istante. "C'è qui un altro conto del signor Cena
parrucchiere per... per... saponi e profumerie... lire 56...
Diavolo, questo non è nemmeno pane di segale."
Beatrice arrossí, si
rizzò sulla sua persona, e tornò a guardare il cognato
orangoutan, con una espressione di sarcasmo e di paura.
Demetrio, sempre a capo basso,
col coraggio inesorabile e pietoso del chirurgo che opera sulla
carne viva, scorrendo uno dopo l'altro quei benedetti conti,
seguitò:
"C'è un conto anche dal
pizzicagnolo, circa duecento lire; c'è quello della sarta
Schincardi, un'ottantina di lire anche qui. C'è persino un
vecchio conto del pasticciere Dragoni, che risale nientemeno che al
battesimo di Naldo e che non fu mai pagato. Anche questa non
è polenta... Conto del calzolaio Bianchi in lire... cin...
cin... quecento settantasei... Una bagattella!.. Conto non
quietanzato De Paoli per tap... tappezzeria... dice tappezzerie?
duecento quarantacinque e settantanove c...entesimi."
Man mano che leggeva, la fronte
del bifolco si rimpiccioliva nella contrazione delle ciglia in un
gruppetto di grinze, sulle quali veniva a cadere a foggia di
tettuccio il piovente duro e diritto dei capelli.
Arabella entrò col
vassoio del caffè e col bricco in mano. Con la prontezza
della sua intelligenza essa aveva già capito che in quel suo
zio ruvido e bifolco c'era l'angelo custode travestito da ortolano.
La scomparsa improvvisa del papà, la fuga precipitosa, il
modo misterioso in cui aveva sentito parlare alle Cascine, le poche
frasi udite all'entrare in sala, avevano già detto alla
povera tosetta che una grande disgrazia stava sulla sua casa e che
forse lo zio Demetrio meritava di essere ascoltato.
Dalla cucina veniva un gran
chiasso di voci e un gran picchiamento.
"Che fanno quei matti?" chiese
Beatrice.
"Dicono che hanno fame e
picchiano sulla cassa della legna. Il lattivendolo non è
venuto, e nemmeno il fornaio."
"Hai mandato Ferruccio?"
"Ma non c'è..." rispose
Arabella con una leggera impazienza, in cui si sentiva il tremito
del pianto.
"Bene; di' loro che stiano
quieti che adesso vengo subito."
"Settimo: Conto non quietanzato
del farmacista...."
"Scusate, Demetrio," interruppe
questa volta con un atto d'impazienza Beatrice "io non so nulla di
questi conti che dite voi...."
"Non volete dire con ciò
che me li invento io...."
"Non sono in grado di dire se
questi conti siano o non siano stati pagati. Lasciateli qui che li
farò vedere a mio padre...."
"Non cerco di meglio... Ma non
vorrei che questi poveri figliuoli andassero di mezzo. Pensiamoci,
per carità. Tiriamo i remi in barca... Che cosa può
fare il signor Chiesa per voi e per la vostra famiglia?"
"C'è ancora tutta la mia
dote. Son quarantamila lire, non un quattrino. Vostro fratello non
ha sposato una contessa, ma nemmeno la figlia della serva."
"Può il signor Isidoro
mantenere oggi le sue promesse?"
"Adesso subito forse no,
perché è in causa coll'Ospedale, ma fra sei mesi, fra
un anno?"
"Da quanti anni dura questa
causa, lo sapete? quante volte fu già perduta? quante
migliaia di lire furono sprecate in questa benedetta questione?"
"Mio padre è un uomo di
buona fede e trovò sempre degli avvocati di poca coscienza."
"Lo so, non facciamoci
illusioni...."
"Che cosa volete dire? che
debbo forse mandare i miei figliuoli a fare il ciabattino?"
Beatrice aveva letto un
romanzo, Lo Sparviero e la Colomba, in cui una giovine bella e ricca
ereditiera lottava contro le insidie d'un gesuita che agognava alla
sua eredità. Ebbene, le pareva il caso suo. "Per fortuna"
pensava "so quel che vali! ma non ci riuscirai..."
E si sforzava, nella sua
semplicità di spirito di reagire e di tirarsi su impettita
con tutta la persona, come faceva nel suo palchetto quando il marito
la conduceva al teatro Dal Verme.
Demetrio sentí una gran
tentazione di buttarle in viso i conti e di andarsene. Ma gli venne
in mente il povero Cesarino disteso sotto una stuoia; gli venne in
mente l'obbligo morale che egli si era assunto verso il Martini per
salvare l'onore al nome dei Pianelli; gli risonò
nell'orecchio la voce aspra del padrone di casa; sentiva nello
stesso tempo il chiasso che facevano quei ragazzi di là,
picchiando nella cassa della legna... Pensò che il sor
Isidoro era un pazzo, fallito dieci volte per la sua cocciutaggine
nel far cause a tutto il mondo, e che sua cognata era una testa
d'oca.
Per tutte queste ragioni, dopo
aver trangugiato molto fiele in silenzio, mentre Beatrice finiva di
sorseggiare il suo caffè, rilegato collo spago il fascio dei
conti, li collocò sul tavolino, e disse con un tono di voce
in cui si sentiva lo sforzo di dominarsi:
"Se io volevo dare qualche
consiglio, prego mia cognata a credere che non lo facevo per mio
interesse. Chiamato in un momento triste, io pensavo che fosse mio
dovere di coscienza di mettervi al fatto dello stato delle cose: non
vi ho detto tutto... perché è inutile che sappiate
tutto. Amen! Io vorrei vedere qui vostro padre in luogo mio a pagare
questi conti; ma forse il signor Chiesa dirà che i vostri
figliuoli portano il nome Pianelli e che non tocca a lui di salvarli
dalla miseria e dalla fame...."
"Che cosa dite?" esclamò
Beatrice irritata.
"Lasciatemi finire e poi vi
toglierò l'incomodo per sempre. È inutile farsi delle
illusioni. Voi non avete piú un soldo della vostra dote, non
avrete un soldo di pensione e con sei o sette mila lire di debiti
dovrete provvedere a voi e ai vostri figliuoli."
Beatrice tornò a
sorridere ironicamente. Il vecchio bifolco credeva forse che ella si
lasciasse infinocchiare da queste declamazioni. Sbagliava di grosso.
"Io ero venuto per dire che
bisognava pensare seriamente, subito, radicalmente, ai casi nostri,
o tanto vale prendere i ragazzi e mandarli a suonare l'organetto."
"E che cosa bisognerebbe fare?
sentiamo" provò a dire Beatrice con aria quasi di sfida.
E intanto si paragonava nella
sua mente alla gatta che difende i suoi piccini dalle unghie d'un
brutto cagnaccio.
"Punto primo, si cominci a
vendere tutto quello che non è necessario."
"Vendere!" esclamò
Beatrice, spalancando tanto d'occhi.
"Sí, vendere, o
restituire quello che non si può pagare...."
"Ah sí?" disse con un
sorrisetto ironico la povera donna.
"Punto secondo, bisogna
restringersi nelle spese, lasciare le apparenze, non curarsi tanto
della gente e rivoltare le maniche, come si dice..."
"Ah sí?" tornò a
dire Beatrice, pallida, movendosi da una poltrona all'altra.
"Non è il caso di
mandare questi figliuoli a fare il ciabattino; ma certo saremmo
tutti matti, se pensassimo di farne fuori degli avvocati. Via via,
qui c'è della roba, voi avete portato della roba...."
"Ah chiedo scusa!" interruppe
questa volta Beatrice con un impeto straordinario di energia, "della
roba mia la padrona sono io...."
Demetrio, che nel calore e
nello zelo del suo cuore s'era abbandonato quasi all'illusione
d'essere arrivato a tempo a far del bene, a questa brusca
interruzione, al modo obliquo con cui lo guardava la donna,
capí di essere stato prevenuto. Perdette l'equilibrio, si
scoraggiò, masticò ancora un fiume di cose amare,
raccolse i suoi nervi, spianò le sue rughe irritate e con una
voce che cercava d'essere fredda per non essere velenosa, soggiunse:
"Scusate, questi debiti io non
posso pagarli...."
"Lo so, non è la prima
volta che non potete pagare i vostri debiti...."
Questa era la frase che il
signor Isidoro aveva messa in bocca a sua figlia nel caso preveduto
che Demetrio si fosse fatto avanti coi soliti raggiri, e alludeva
alla famosa dote di mamma Angiolina.
Demetrio ricevette il colpo in
pieno petto, chiuse gli occhi, impallidí sotto la scorza dura
e nera del suo viso color patata, mosse una mano quasi volesse col
gesto aiutare la parola a venire fuori; ma un groppo di pianto
stizzoso e furibondo lo strozzava alla gola... Col dito secco
segnò tre volte il fascio dei conti che lasciava sul
tavolino, si rannicchiò nelle spalle, sempre con la bocca
impiombata dall'ira e dal dolore, e uscí dalla saletta senza
dir nulla.
Un grimaldello non avrebbe
potuto aprire quella sua bocca impiombata di dolore e di sdegno.
Uscí, traversò la
cucina, smarrito, mal pratico dell'appartamento, passò in
mezzo ai due bimbi seminudi che picchiavano e strillavano di fame, e
finalmente trovò l'uscio dell'anticamera.
Fu un miracolo se si
ricordò di prendere il cappello e il bastone. Fu pure un
miracolo se non cadde dalla scala. Il Berretta lo chiamò di
nuovo: "Ehi! ehi!" dal fondo dello stanzino.
Ma egli non sentí o non
volle sentire. Uscí; prese la strada a man destra verso il
centro, non pensando nulla e non ripetendo nel fondo piú
oscuro del suo pensiero che una parola sola:
"Asino!"
In questa parola, che
rappresenta un animale sciocco e paziente, concentrava tutta l'ira,
il dispetto, il dolore, la vergogna dell'offesa ricevuta, e la
vergogna della sua incapacità morale.
Per via Torino, San Giorgio,
Zecca Vecchia, uscí al Bocchetto e andò in ufficio.
Lavorò meccanicamente,
come al solito, senza sbagliare, senza parlare; se non che, di tanto
in tanto, come al girare di un quadrante, scoccava in lui
quell'unica parola in cui era andata concentrandosi tutta la sua
dialettica:
"Asino!"
II
Il giorno dopo, come se non
fosse accaduto nulla di diverso, si alzò, si vestí e
colla solita puntualità uscí per andare all'ufficio.
La precisione e l'uguaglianza delle sue abitudini era tale, che il
signor Pianelli serviva di orologio agli studenti e alle sartine,
che affrettavano il passo quando l'incontravano al disotto del
Cordusio. La sua strada era sempre la stessa tutti i giorni: piazza
del Duomo, piazza dei Mercanti, Cordusio, Bocchetto: da una parte
delle botteghe nell'andare, dall'altra nel tornare. Sotto i portici
meridionali comprava un sigaro virginia (l'unico vizio), che era
già preparato in un astuccio di carta e ch'egli metteva in
tasca per fumarne mezzo a colazione, mezzo dopo pranzo.
Stretto nei soliti panni color
cioccolata, sempre quelli ma puliti, col bastoncino infilato in una
tasca del paltò, andava col suo passo pesante di contadino,
urtando spesso il muro colla spalla come un carro che esca tratto
tratto dalle sue rotaie.
Veniva dunque quel giorno,
tutto raccolto nelle sue grinze, quando, arrivato davanti al
mercante Simonetta, sentí qualche cosa di morbido
sdrusciargli le gambe. Era ancora quella bestiaccia di
Giovedí col pelo sporco e arruffato, cogli occhi malati, che
gli teneva dietro da cinque minuti senza che egli se ne accorgesse.
"Marcia via!" disse, alzando un
poco il piede per farlo scappare.
Il cane, tiratosi indietro un
passo, si fermò col muso in alto a guardare l'uomo, con occhi
pieni di malinconia, dimenando il suo soldo di coda lungo un dito.
Quando Demetrio si mosse per
continuare la sua strada, la bestia seguitò a pedinargli
dietro come se seguisse il suo padrone. Demetrio si fermò
un'altra volta sull'angolo degli Speronari e il cane si fermò
anche lui e tornò a dimenare il suo soldo di coda, guardando
sempre con quegli occhi...
Allora Demetrio finse di
entrare nella porta del fiorista, ma vide che il cane gli andava
dietro. Pensò se c'era vicina una chiesa con doppio ingresso
per fargli perdere la traccia, ma di chiese non ce ne sono in quel
tratto... La bestia poteva anche essere arrabbiata: arrabbiata o no,
non voleva avere a che fare con lei e con nessun altro di quella
casa...
Guardò in su e in
giú se vedeva una guardia, un sorvegliante,
un'autorità per farlo menar via, ma non vide un cane, tranne
il suo.
E questo, duro, ostinato, gli
andava dietro colla costanza di una bestia che non mangia da due
giorni.
Provò ad affrettare il
passo, a correre: e il cane dietro a correre anche lui.
Lo zio si fermò la terza
volta, trasse il suo lungo fazzoletto di cotone turchino, fece un
grosso nodo a uno dei capi, lo alzò come un flagello; ma
Giovedí, facendo arco della schiena e piagnucolando, venne ad
accosciarsi ai suoi piedi.
Che doveva fare? ammazzarlo?
Giunto finalmente sotto il
portone del Demanio, picchiò nei vetri del portinaio e
avvertí il Ramella con dei segni. Il Ramella guardò
attraverso i vetri dell'antiporto, capí di che si trattava e
venne fuori. Quando il cane vide in aria l'asperges, fuggí
come il diavolo.
Demetrio giunse in ufficio con
qualche minuto di ritardo, un'ora prima del suo capo, il cavalier
Balzalotti. Arrivato al suo posto, che era un tavolo accanto a una
finestra, difeso contro i colpi d'aria da un vecchio e logoro
paravento, tolse prima di tutto il sigaro di tasca, lo guardò
alla luce se c'era tutto e lo collocò come una preziosa
reliquia sopra lo sporto della finestra.
Aprí il cassetto e
controllò i due panini nel cartoccio. Fece una rapida
ispezione al suo cappello rotondo, vi picchiò su con un
buffetto per spazzare via un filo di polvere, lo tuffò
delicatamente in una custodia di carta fatta apposta e lo
collocò nella sua vestina sull'ometto. Poi aprí un
altro cassetto e trasse fuori le due manichette di tela lucida
ch'egli metteva per scrivere. Se le infilò: diede una nervosa
e rapida fregatina alle mani, chiudendo gli occhi, accartocciando
tutte le rughe della faccia. Poi cominciò la diligente
pulizia degli occhiali.
L'egregio cavalier Balzalotti
da qualche tempo, come forse s'è già detto, aveva
fatto venire il Pianelli nel suo ufficio e se ne serviva come di
copista per una lunga relazione intorno all'esazione sulla tassa di
bollo e registro, che doveva essere presentata per Pasqua al
Ministero delle Finanze.
Il tavolone del cavaliere,
pieno pieno di carte e di allegati, era posto nel mezzo della
parete, sotto un bel ritratto del re, tra due campanelli elettrici,
poco lontano dalla bocca del calorifero.
Il Pianelli, uomo paziente,
discreto, di poche parole, era come se non ci fosse. Copiava,
ricopiava, scriveva sotto dettatura, con una calligrafia grossa e
precisa, senza fare tante questioni di lingua e di grammatica, come
pretendono certi chiacchierini saputelli, che, per essere stati
bocciati alla quarta ginnasiale, credono di saperne di piú
dei loro superiori.
Demetrio, non molto forte anche
lui nelle questioni, dirò cosí, filologiche, copiava
tutte le parole ciecamente, senza discuterle mai, senza mai cercare
se avevano un senso o se dovevano averlo. Egli non si sarebbe mai
permesso, per esempio, nemmeno una timida osservazione sui molti
laonde, che il cavaliere seminava ne' suoi periodi e nelle sue
relazioni al Ministero, e fingeva di non capire lo scherzo, quando
qualche burlone degli altri uffici gli domandava notizie del
cavalier Laonde.
Tutte queste buone
qualità d'uomo discreto e modesto gli avevano guadagnato la
stima e sarei per dire quasi l'affezione del suo capo, che una volta
gli aveva ottenuta una piccola gratificazione e prometteva di fare
qualche cosa di piú per l'avvenire.
Demetrio, dal canto suo, si era
affezionato alla sua sedia di pelle sotto la finestra, che
rappresentava dopo tante burrasche un porto sicuro e tranquillo, ove
egli poteva riparare la vecchia carcassa della sua barca.
Sul cuoio lucido di quella
sedia erano rimaste le infossature di due o tre generazioni di
impiegati, che avevano tratto di là il pane dei loro
figliuoli e le spese capricciose delle mogli; egli che non aveva
né moglie, né figli, sperava di uscirne coi calzoni
meno stracciati.
In Carrobio non si sarebbe
lasciato piú vedere nemmeno se ve lo avessero tirato con le
corde di Valenza.
Il Signore era testimonio
ch'egli non si era rifiutato di versare una goccia d'olio sopra una
piaga: ma non voleva essere né odiato, né maledetto.
Stava cosí bene nel suo guscio...
Data un'altra fregatina alle
mani, se le portò alla testa e carezzò due o tre volte
coi palmi le due gote come se si asciugasse la faccia e presa la
penna, dopo averla provata sull'unghia grossa del pollice,
ricominciò a copiare al punto dov'era rimasto il giorno
prima: avvegnaché non sembri a codesto Eccelso Ministero poco
retribuito il reddito imponibile, nonché gli altri cespiti
tassativamente indicati nella precitata Circolare del 10 ultimo
scorso, N. di protoc. 54657, Posiz. 32, N. di partenza 307, e
oltracciò avvegnaché non abbia a patire detrimento
l'organica esazione come laonde....
"Signor Pianelli" disse il
vecchio portiere Caramella, che sonnecchiava le dodici ore al giorno
in anticamera "c'è un signore, un vecchio, che vuol
parlarle."
"Chi è?"
"È un vecchio, un
uomo...."
"Gli avete detto che non ricevo
in ufficio? sta per venire il cavaliere...."
"Dice che ha bisogno... Pare un
mezzo matto...."
"Sarà uno dei soliti"
soggiunse Demetrio, che da una settimana vedeva passare la
processione dei creditori. "Questo lo mando a Melegnano dal sor
Isidoro" pensò. "Non voglio impiccarmi per... Fatelo entrare
un momento" soggiunse a voce alta.
"Per questo son già
bello ed entrato" esclamò il vecchio mezzo matto, venendo
innanzi da sé come se fosse il padron di casa.
Era un uomo sui settant'anni,
d'aspetto campagnuolo, tarchiato e vigoroso, vestito di un abito
grigio sciupato, con due grandi occhialoni sopra un viso color del
mattone e con un nodoso bastone in mano di un bel legno giallo,
contorto come una radice.
Fece tre passi avanti, cadendo
tre volte sulla gamba destra che aveva piú corta della
sinistra e, senza levarsi il cappello di testa, fissando in faccia a
Demetrio i grandi vetri dei suoi occhiali, disse con voce sguaiata:
"È lei quello che
chiamano il Demetrio?"
"Sissignore" rispose Demetrio
non senza un piccolo sorriso ironico.
"Allora mi siedo, perché
sono stanco come un asino."
"Si accomodi, ma faccia
presto."
"Son già seduto, grazie,
obbligato. Non guardi se ci ho un vetro rotto nel mezzo. È
una memoria che conservo, una grazia ricevuta dalla madonna.
È stata una cavalla che aveva mangiata della cattiva stoppia,
sprrang... mi regalò un calcio qui nell'occhio. Si è
rotto il vetro, ma la testa, oh, sí!.. testa di bronzo, corpo
del diavolo!"
"Ho l'onore? faccia presto...."
"Ecco, l'onore veramente
è una parola troppo di lusso per un uomo che non ha avuto
nemmeno il tempo stamattina di farsi lustrare gli stivali. Son
venuto a piedi da San Donato a Milano, e c'era un fango alto
cosí...."
"Senta, si sbrighi...."
"Stia comodo, caro il mio
carissimo sor Demetrio, che in un pater, ave e gloria la minestra
è cotta. So bene che i regi impiegati non hanno mai troppo
tempo da perdere coi signori contribuenti. So da un pezzo quel che
significhi un regio impiegato."
Il vecchiotto color mattone
accompagnò queste parole con un suo gesto favorito, che
consisteva nel porre il dito indice alla coda dell'occhio, sporgendo
un poco le labbra e aguzzando lo sguardo a una sopraffina
espressione di mariuoleria.
"Non mi levo il cappello
perché sono sudato e poi noi siamo americani. Sono stato a
casa sua a cercarlo, e non ho trovato che un vecchio sordo come una
campana. La portinaia mi ha detto: "È già andato
all'ufficio." Allora io ho pensato: "Poiché siamo in piazza
Fontana, approfittiamo della circostanza e facciamo colazione" e
sono andato al Biscione, dove una volta ho mangiato una eccellente
busecca alla milanese. Una volta c'era anche del vin buono - parlo
di trent'anni fa, quando il Biscione non era diventato ancora un
grand hôtel. Ci andavo tutte le settimane, fin da quando
viveva mio padre, jesus per lui, anzi ho passato al Biscione la mia
prima notte di matrimonio. C'è da farne un quadretto. La mia
povera Marianna non era mai stata al Biscione... ah! ah!
sicché, s'immagini che paura!.. Basti dire che è
scappata su per la ringhiera in camicia...."
"Scusi" interruppe aspramente
Demetrio, "chi è lei? che cosa vuole? non ho tempo di stare a
sentire le sue fanfaluche."
"Ecco un parlar chiaro, corpo
del diavolo! Se si tratta dunque di farle quell'onore che dice, io
sono il Chiesa di Melegnano."
"Il sor Isidoro?"
esclamò Demetrio un po' mortificato e confuso.
"Sí, Isidoro Chiesa,
uomo libero per la grazia di Dio e che non mangia il pane di
nessuno."
"Se avessi saputo... non ci
siamo mai incontrati."
"Non abbiamo mai avuto
quest'onore... Son venuto a Milano per discorrere di quella
faccenda; anzi per far piú presto ho portato con me tutto
l'incartamento talis et qualis come me l'ha consegnato ieri
l'avvocato Ferriani... Conosce l'avvocato Ferriani? un bravo
giovane, svelto come un uccellino, un poco storto di gambe, ma
diritto di cervello. Questi nanis quanis alle volte hanno un
talento! Anche la vite è storta, e fa buon vino. Transeat! Da
questo incartamento ella potrà farsi un'idea precisa delle
cose, come le ho raccontate al povero Cesarino. Io sono uno che ama
le cose chiare, sebbene ne abbia ricevute di quelle che non le ha
sofferte nostro Signore sulla croce. Ma un Chiesa non si umilia
né per cento, né per duecento, né per mille
marenghi. Un Chiesa non si vende."
Il mezzo matto cominciava a
gridare e ad agitare il suo bastone bistorto in aria.
"Io non so nulla..." disse
Demetrio umile e paziente.
"Si tratta di un capitale di
ottanta mila lire che l'Ospedale mi deve sacrosanto, come è
vero che ho ricevuto il battesimo. Lei saprà benissimo la
storia di quel capitaletto: c'è da farne una tragedia. Io
sono salito sul fondo di Melegnano l'anno mille e ottocento
cinquantasei, l'anno del colèra, ai tanti di novembre."
"Senta...."
"L'avvocato Ferriani, che non
è un'oca, dice e sostiene che ho tutte le ragioni. Negli
articoli del capitolato c'era una clausola che contemplava appunto
la restituzione di quel precario, per cui io ho diritto a un
risarcimento, sí o no? Si tratta di ottanta mila lire, non un
quattrino, e in queste c'è la dote di mia figlia, che vuol
dire il pane de' suoi figli, sangue del mio sangue. Pazienza ancora
se i denari andassero a sollievo dei poveri; ma lei sa meglio di me
che in queste pie amministrazioni è un rubamento e un
mangiamento generale. Mangia l'ingegnere, mangia il ragioniere,
mangia l'economo, mangia l'avvocato che fa le cause, mangia il
giudice che fa le sentenze, mangia la Corte d'Appello che le rivede
e su su, ladro via ladro fa ladro, è tutta una consorteria
birbona."
"Scusi...."
"E io, bestia, mi son sempre
fidato. Ma dice bene quel nanis quanis del mio avvocato: la pazienza
dei popoli è la mangiatoia dei tiranni, e sento anch'io che
un po' di catastrofe universale di tanto in tanto ci vuole...."
"Ma senta...."
Il vecchio infervorato non
lasciava il tempo di aprire la bocca.
"Se io esagero,"
continuò, inarcando le sopracciglia e movendo quei due grandi
specchi ustori che aveva sugli occhi, "se io esagero, mi possa
cadere un fulmine sul collo, e restar qui, in nomine patris, filii
et spiritus. È tutta una lega di moderati birboni...."
Proprio in questo momento
entrò il cavalier Balzalotti, che si fermò un istante
a dare un'occhiata al predicatore.
"Tutta gente che vende la
pancia al Governo. Rubano i ministri, rubano i segretari generali,
rubano i capi divisione, e giú giú fino all'ultimo
guattero del regno d'Italia, con Depretis alla testa, è una
ladreria di mutuo soccorso...."
A queste parole pronunciate in
presenza di un superiore, Demetrio scattò come un razzo e
alzando la voce anche lui con una furia caina (perché ogni
pazienza ha il suo limite) dimostrò al signor Isidoro Chiesa
di Melegnano che non è alle persone di buon senso che si
fanno certi discorsi, e che un pubblico ufficio non è
un'osteria. Il suo tempo era prezioso, e se non aveva nulla di
piú bello di queste fanfaluche, andasse a contarle al suo
avvocato. - Nell'eccitazione dell'ira il volto di Demetrio si fece
rosso come la cresta del gallo, e i duri muscoli guizzarono sotto la
pelle infiammata come un gruppo di biscie. Il cavalier Balzalotti,
che finiva di dare l'ultima occhiata alla Perseveranza, gli fe'
segno d'aver pazienza e di lasciarlo dire.
"Lei" soggiunse il Chiesa col
suo bel risolino sardonico "lei parla cosí, perché
anche lei mangia alla greppia. Ma lasciamola lí. Non sono
venuto per cercare la carità a nessuno, ma soltanto per far
valere dei diritti."
"Che diritti?"
"Suo fratello prima di morire
mi aveva promesso settecento lire per vedere di finire questa
causa."
"E cosí?"
"Ci ho qui ancora la lettera,
nella quale Cesarino mi diceva di andare avanti, di fare i primi
passi coll'avvocato, di battere il ferro mentr'era caldo; che in
quanto ai denari li avrebbe trovati lui, anzi mandò lui
stesso un acconto di duecento lire all'avvocato Ferriani. Io sono
andato avanti, ho battuto il ferro, e per Dio, non si lascia neanche
un malfattore impiccato a mezzo sulla forca. L'avvocato ha sulla
garanzia di Cesarino e nell'interesse dei minorenni smosso della
polvere, versato dell'inchiostro, ha unto le mani a qualche
cancelliere per far correre la cosa, ha fatto spese in
scritturazioni e carta bollata; ma se non ha le settecento lire
promesse, è come aver messo le pezze e l'unguento su una
gamba di legno."
"E viene a contarle a me queste
cose?" gridò Demetrio in preda a una convulsione nervosa, che
non seppe piú dominare alla presenza del suo capo ufficio.
"Non è lei il fratello
di suo fratello?"
"Io non ho promesso niente a
nessuno."
"Lei è il tutore dei
minorenni."
"Io sono il tutore di
nessuno...."
"C'è un'obbligazione,
corpo del diavolo! e a un Chiesa di Melegnano non si dànno ad
intendere delle ciarle."
Il vecchio strillava come
un'oca: e a lui di ripicco l'altro:
"A un Chiesa di Melegnano io
dico che non lo conosco."
"Dunque il signor Demetrio non
crede alle mie parole..." strillò di nuovo il vecchio,
alzandosi e picchiando in terra il suo bastone bistorto.
"Io credo che lei è un
gran buon uomo."
Queste parole furono come un
secchio d'acqua sopra un gran fuoco che divampa; che non lo smorza,
ma lo umilia per un momento, facendolo stridere quasi irritato in
mezzo a un nugolone di cenere.
Cambiando il tono chiassoso in
un tono sibilante e canzonatorio, il Chiesa cominciò a dire
con un sorrisetto di acerba ironia:
"Ah! io sono un gran buon
uomo?!"
"Vada da mio fratello a farsele
dare le sett...tecento lire. Io non vivo di grassazione per sua
regola!" gridava l'uno: e l'altro sempre sorridente:
"Ah! io sono un gran buon uomo"
e appoggiato al bastone diritto come le sue idee, cominciò a
dondolare il capo a destra e a sinistra. "Ah! io sono...."
"E se l'avvocato ha speso
duecento lire in bolli, si faccia bollare anche lui per
quattrocento... e vada fuori dei piedi che ho già la testa
come un cavagno."
Lo zoppo, quasi sospinto dalle
mani lunghe e ossute di quello che dicevano il Demetrio, stordito
forse di quella accoglienza, cominciò a ritirarsi a poco a
poco verso l'uscio, girando sopra sé stesso come una vite di
torchio che infili il pavimento, mandando terribili lampi e
fosforescenze dalle due grandi invetriate.
"Ah! io sono...."
Giunto sulla soglia si
drizzò tutto, brandí il pomo del bastone colle due
mani e picchiando forte in terra gridò compiendo la frase con
un gesto di sfida:
"Ci rivedremo, Filippo!"
III
Demetrio, appena il vecchio
matto se ne fu andato, si volse tutto mortificato verso il cavalier
Balzalotti e, con voce tremante un po' per dispetto e un po' per
soggezione, balbettò qualche scusa.
"È troppo buono,
Pianelli, glielo dico sempre: e sa che cosa significa a Milano
essere troppo buono?"
Cosí prese a dire il
cavalier Balzalotti, che a quella scena s'era divertito mezzo mondo
e che non era troppo in vena di lavorare quella mattina.
"È troppo ingenuo lei,
troppo poco pratico del mondo. Non tocca a me dare dei pareri,
perché il proverbio dice: metà pareri e metà
denari; ma se mi avesse dimandato in principio, gli avrei detto: Se
ne lavi le mani. Che diavolo! non conosceva anche prima come stavano
le cose?"
"Sa, ci si trova implicati...
Una povera famiglia...."
"Segno di buon cuore, ma il
buon cuore in certi casi non basta. Ci vuole il bastone in certi
casi. A me non me ne viene in tasca niente, figuriamoci, ma mi
rincresce vedere un galantuomo nell'acqua fino alla gola. Lei si
mangerà il fegato, butterà via quei pochi risparmi
messi in disparte per la febbre e infine si farà odiare e
maledire. È il solito, creda a me."
"Comincio bene ad accorgermi"
mormorò Demetrio.
"Altro che! La gente riceve
piú volentieri una bastonata che un beneficio, e poi che
gente! È un pezzo che conosco i coniugi Pianelli e saprei
dire cento storie di lord Cosmetico e della bella pigotta."
"Di, di?"
"Come? non sa che mezza Milano
li chiama cosí? bisogna proprio cader da un abbaino, caro
Pianelli, per pigliare a occhi chiusi certe matasse da dipanare. Non
dico che suo fratello non fosse un giovinotto allegro e simpatico:
tutt'altro. Non per nulla uno si fa chiamare lord Cosmetico. Non
dico nemmeno che sua cognata non sia una bella donna; posso anche
giurare che poche contesse hanno due spalle e due braccia piú
ben fatte. Suo fratello, da buon farfallone, si abbruciò le
ali a questa candela. Lei lo sa meglio di me. Il lusso non era mai
abbastanza: casa Litta addirittura. E quando un impiegato non ha che
il suo magro ventisette del mese, creda a me, cioè, lo sa
benissimo che è, dirò cosí, come la botte delle
Danaidi. Feste, teatri, scampagnate, perle, vestito di raso,
diamanti. Ohè! Ci si rovinano i principi, specialmente quando
si vuole star sull'orgoglio e non far parlare la gente. Con tutto
ciò la gente non ci crede lo stesso, e quando non trova la
somma in una maniera, rifà i conti in un'altra, in partita
doppia d'entrata ed uscita...."
Il cavaliere, che durante
questa predichetta aveva continuato a spazzolare colla manica la sua
bella calotta di velluto, giunto al malizioso epilogo, socchiuse gli
occhi piccini e mise in vista i magnifici avorî della sua
dentiera Winderling.
Demetrio, che udiva per la
prima volta e da una persona cotanto autorevole, amica del suo bene,
ciò che formava probabilmente da cinque o sei anni la cronaca
del Carrobio, rimase incantato, a bocca aperta, come il villano
innanzi a quei quadri detti dissolventi, che sfumano l'uno
nell'altro.
"Il buon cuore è una
bella cosa, ma alle volte il cuore è buono per i merli.
È una settimana che io vedo venire innanzi e indietro gente
d'ogni colore e d'ogni faccia. Che cosa ha speso a quest'ora? e
quanto gli resta ancora da pagare? e quando avrà pagato tutti
i debiti vecchi, chi pagherà i nuovi? perché, non si
lusinghi che sua cognata possa rassegnarsi a una vita di sacrifizio
e di lavoro. Non so nemmeno se sappia cucire insieme un paio di
calze... Dietro di lei c'è questo vecchio gufo, come credo
aver capito, che è capace di minacciare un processo, lo
spoglieranno della camicia, diranno che ha tradita la vedova e gli
orfani derelitti e in fine si farà canzonare dalla gente."
Demetrio, come imparasse per la
prima volta i principî d'una scienza nuova e meravigliosa,
stava a sentire, con tanto d'occhi aperti, come impiombato coi piedi
sul pavimento.
"Canzonare è una parola,
per non dir peggio. Perché," qui il cavaliere abbassò
un tantino la voce e fece un passetto verso il subalterno
"perché, se non si offende, mi capisce, la gente è
cattiva, si sa, e potrebbe supporre che lei pensa alle spese chi sa
con quali intenzioni, o che - che so io? - che lei ci abbia quasi il
suo interesse...."
Le orecchie di Demetrio, a
queste parole, diventarono rosse come il fuoco; e la fiamma, che
scese tra pelle e pelle fin sulle guance giallognole, andò a
spegnersi sulla linea del naso. Un piccolo tremito invase tutta la
persona, e le mani si apersero nell'aria quasi automaticamente,
senza che il povero ignorante sapesse lí per lí
rispondere una parola, nemmeno un grazie, per degli avvertimenti che
lo arrestavano sull'orlo di un abisso.
Tutto aveva pensato, tranne a
questo caso, che la gente potesse supporre quello che forse
supponeva già e che era nei suoi diritti di supporre.
Sicuro che era cosí! il
lusso, la tranquillità, l'ironia con cui l'aveva accolto sua
cognata dovevano avergli aperto gli occhi, se egli non fosse stato
una vecchia talpa cieca, ignorante di tutte le cabale del mondo, un
bestione, sciocco e paziente come un cammello, e come un cammello
sempre rassegnato di portare la casa degli altri sulla gobba.
Tanto per giustificarsi un poco
davanti al suo superiore e benefattore, dopo aver masticato un pezzo
le parole, provò a dire:
"E quei poveri figliuoli?"
"Ecco," soggiunse il morbido
consigliere "ai figliuoli forse è il caso di pensarci un
poco; ma è inutile ingannare con false carità dei
poveretti, a cui non si ha da poter lasciare che gli occhi per
piangere. I figliuoletti vorrei metterli in qualche orfanotrofio, in
qualche istituto di beneficenza. Non è questo che manca a
Milano, e io stesso per quanto posso esser utile, se crede...
conosco il presidente degli orfanotrofi e luoghi pii annessi."
"Lei, lei è troppo..."
balbettò Demetrio, agitando la mano stesa nell'aria.
"In quanto poi alla bella
vedovina - scusi, Pianelli, se mi permetto di parlarle col cuore in
mano, da padre - in quanto a lei, vorrei lavarmene a tempo le mani,
in due acque, se non basta una, e lasciarla, dirò
cosí, al suo angelo custode..., le parlo da amico, da padre,
e, se crede, anche da suo superiore...."
Gli occhi di Demetrio si
trovarono pieni di lagrime prima ancora ch'egli sapesse
perché piangesse. La voce paterna del suo capo, la
ragionevolezza de' suoi consigli, lo stato d'irritazione in cui
l'aveva lasciato quell'altro vecchio pazzo e, in mezzo a tutto
ciò, piú forte di tutto ciò, un improvviso
sentimento della sua materiale e rustica ignoranza, finirono
coll'avvilirlo.
In che modo aveva sempre
vissuto fino adesso, per non accorgersi di ciò che era
scritto sulle cantonate di Milano?
Un sentimento di pietosa
confidenza lo condusse a fare innanzi al cavaliere tutta la
confessione de' suoi imbarazzi. Tenne gelosamente nascosto il motivo
che aveva spinto Cesarino a finirla colla vita; ma fece capire
ch'egli non poteva rifiutarsi di pagare qualche grosso debito
d'onore, per salvare, se non altro, il nome di quei poveri
figliuoli, che infine si chiamavano Pianelli... Avrebbe fatto tesoro
dei preziosi consigli: e, se gli permetteva di approfittare qualche
volta della generosa protezione, sarebbe venuto forse ad
importunarlo...
"Ma venga quando vuole: se
posso levare una spina da un piede, non sto a farmi pregare... per
bacco!"
Beatrice, costretta di nuovo a
provvedere a tante incombenze, alle quali prima soleva pensare suo
marito o la Cherubina, si sentiva imbarazzata nella sua
incapacità e nella sua gran vestaglia a nastri azzurri. Non
sapeva dove mettere le mani, né come muoverle, e, dato fondo
alle ultime venti lire rimaste, per disordine, in un cassettino dei
pettini, si trovò improvvisamente senza un soldo.
Il sor Isidoro, passando da
Milano, andò a trovarla; consumò i resti del pranzo
del giorno prima, vuotò l'ultima bottiglia di barolo rimasta
in dispensa, e se ne andò dopo aver fatto giurare a sua
figlia che non avrebbe piú ricevuto in casa quel mascalzone
che rispondeva al nome di Demetrio, un asino calzato e ritto in
piedi, che aveva osato dire che un Isidoro Chiesa era un gran buon
uomo.
Demetrio non c'era bisogno di
cacciarlo via. Ci pensò lui a non lasciarsi vedere. Dopo il
suo colloquio con Beatrice, dopo la scenata col Chiesa, dopo la
predica amorosa del capo ufficio, bisognava essere un gran babbuino
per lasciarsi tirare ancora in Carrobio.
Dopo tre o quattro giorni i
ragazzi, non abituati a far senza di certe formalità,
cominciarono a gridare, a picchiare, a piangere.
Arabella, smorta come un lino,
taceva, si muoveva per la casa, comprimeva un certo che sulla bocca
dello stomaco, e, di tanto in tanto, andava sul balcone a dare
un'occhiata per il lungo di tutta via Torino, se mai vedesse, in
mezzo al viavai immenso di tanta gente e di tante carrozze, un uomo
che somigliasse un poco allo zio Demetrio.
Beatrice fece chiamare
Ferruccio un paio di volte, un bel ragazzo svelto, che faceva il
tipografo nella stamperia dell'Osservatore Cattolico. Arabella gli
aveva promesso una grammatica francese e il bel ricciolone correva
come una freccia, quando sentiva la sua voce in cima alle scale.
Ma dal momento che non c'erano
piú quattrini in mano, il fornaio, il lattivendolo, il
pizzicagnolo non davano piú nulla ai signori Pianelli.
Demetrio aveva dato delle belle
parole a tutti; ma i signori bottegai non ne volevano piú di
belle parole. Ferruccio tornò con la cesta vuota.
Beatrice si fece restituire da
Arabella un piccolo cinque franchi d'oro, che il babbo le aveva
regalato per il suo compleanno: e, bene o male, si tirò
innanzi un altro paio di giorni. Ma la povera donna si sentí
abbandonata, e le venne da piangere.
Uscí, vestita come
poté, con l'idea di andare a parlare al Direttore delle
Poste, e lasciò in casa Arabella sola a custodire i ragazzi.
Il commendatore era andato a
Roma. Sulla scala s'incontrò col signor Martini, che finse di
non conoscerla.
Timida ed imbarazzata, non
osò cercare del Buffoletti o di qualche altro amico di suo
marito. Passò invece dalla via del Mangano, dove abitava
l'Elisa sarta, e salí fino al terzo piano per ordinarle i
vestiti di lutto. Poi, un pensiero le suggerí di andare in
cerca della Pardi e di chiederle un prestito di qualche centinaio di
lire; ma l'Elisa sarta aveva riferite le ultime parole dette dalla
Pardina sul conto della sora Pianelli, e tra le due vecchie amiche
di Cernobbio c'era oggi dell'aria cattiva.
Passò il giovedí
e tutto il venerdí senza che venisse anima viva.
Pioveva. L'aria e le case
avevano di lassú un aspetto grigio e triste sotto
l'acquerugiola silenziosa, che stillava senza forza sui muri,
impregnando il cielo di vapori stagnanti.
Arabella contava le ore sui
battiti del suo cuore e correva per la ventesima volta a guardare
dal balcone nella strada.
Passavano carri, tram,
carrozze, carriole a mano, con quel frastuono pieno e grosso di una
città che vive bene, mangia bene, digerisce bene.
Passò un fiume di gente,
uomini, donne, soldati, preti, ragazzi, in tutti i sensi:
passò un funerale colla musica in testa..., passò un
carro pieno di masserizie... Un cavallo spinto a corsa
scivolò e cadde sulle zampe davanti. Accorse molta gente, fu
tirato in piedi, partí zoppicando, la gente si diradò,
la grossa fiumana riprese il suo corso solito, ma lo zio Demetrio
non si lasciava vedere.
Una volta sola il cuore della
bambina si risvegliò a un battito di speranza e fu nel vedere
Giovann dell'Orghen, un poveraccio, che lo zio Demetrio aveva
mandato una volta a casa con un biglietto. Sperò che venisse
ancora da parte sua: ma Giovann dell'Orghen voltò e scomparve
dietro San Giorgio.
Si ritrasse dal balcone tutta
fredda e stillante acqua e stava per chiamare ancora Ferruccio,
quando una forte scampanellata ridestò improvvisamente un
grido di speranza e di gioia nei poveri bambini, che stavano per
addormentarsi nella gelida malinconia di quella giornata piovosa e
senza minestra.
Era il maestro di pianoforte.
Il Bonfanti dalla strada aveva
veduto Arabella sul balcone ed era venuto su, prima per fare una
visita di condoglianza e poi per sapere quando la scolara avrebbe
ripigliate le lezioni. Egli era in credito d'una ventina di
biglietti e non osava dire: pagatemi; ma sperava che, lasciandosi
vedere, fosse un mezzo per non essere dimenticato del tutto.
Le altre volte il povero
Cesarino, che era un fanatico di Verdi, pregava il maestro dopo la
lezione di rimanere a mangiare la minestra. Il Bonfanti non credeva
d'avvilirsi restando, e pagava poi generosamente col sonare e col
cantare a memoria mezzo il Trovatore e mezza la Traviata. Era anche
questa un'occasione di mettere le mani sul piano, perché, dal
giorno che il povero maestro era andato all'ospedale col vaiuolo,
aveva dovuto vendere anche quel poco cembalo e le tirava verdi, il
pover'uomo, verdi come il sambuco. Da tre mesi l'organo di San Sisto
era in riparazione: e si può dire che egli vivesse sulle
Benedizioni di San Lorenzo.
"Se la signorina non si sente
di prender lezione, vado io di là, se permettono...."
E colla confidenza del vecchio
amico di casa, il maestro passò nel salottino e
cominciò ad arpeggiare sulla tastiera tanto per far venire
l'ora solita che il riso andava in tavola. Egli sperava,
coll'ingenuità dell'artista, che la signora Beatrice avrebbe
continuato le buone tradizioni del suo povero marito, anche in
considerazione di quella ventina di biglietti che non erano mai
stati pagati. Solo che, nelle battute d'aspetto e nei brevi
intervalli tra un arpeggio e l'altro, gli pareva d'intendere un gran
silenzio, non solo in cucina, ma in tutta la casa, mentre le altre
volte c'era quel dolce tintinnío di posate.
Non sapendo come spiegare
questo insolito ritardo, il maestro provò a cantare, colla
sua voce stanca di vecchio baritono, l'a-solo del re Filippo.
Dormirò sol nel manto
mio regal...
"Scusi, maestro, c'è la
mamma che si sente male..." venne a dire Arabella.
"Oh, se avessi saputo... Che
cosa ha?"
"Un po' d'emicrania."
"È il tempo. Allora ci
rivediamo martedí?"
"Glielo saprò dire, non
so..." balbettò Arabella arrossendo.
"Ad ogni modo, non esca per ora
dagli arpeggi. Adagio, conti a voce alta, e giú bene i
polpastrelli."
Arabella cogli occhi gonfi di
pianto disse di sí col capo.
"Me la saluti, la signora
mammina."
Il Bonfanti, discepolo della
classica scuola del Pollini, era ancora di quei vecchi maestri che
sanno distinguere l'arte dalla ginnastica e dall'acrobatismo, e
rideva di chi vanta la forza e la precisione come il non plus ultra
d'un bravo pianista.
"Che mi fa la forza e la
precisione?" diceva. "Anche una locomotiva ha della forza e della
precisione; ma una locomotiva non sarà mai una grande
pianista."
L'interpretare una pagina di
musica, il saperla colorire è questione di sentimento, e il
sentimento non si esprime se non colla delicatezza del tocco; e il
tocco non si acquista che col metodo e colla pazienza. Tutta l'arte
è nei polpastrelli! In virtú di questo metodo, teneva
i suoi allievi sei mesi e anche un anno sulle cinque note, che il
Thalberg (il celebre Thalberg ch'egli aveva conosciuto a Monza nella
villa del viceré Raineri) aveva definito discorrendo con lui
le senk vertú teolegal de la musik.
Dopo le cinque note bisognava
aver pazienza e diligenza sulle scale. Dopo tre anni di studi, il
Bonfanti, si vantava che i suoi allievi non sapevano ancora suonare
niente, nemmeno una mazurchetta, mentre i maestri guastamestieri,
per secondare l'ambizione delle scolare e delle mammine, fanno
suonare il pezzo concertato quando l'allievo non sa ancora mettere
giú i polpastrelli.
In questa maniera egli
procurava di tenere alta la bandiera della buona scuola e delle
tradizioni classiche, anche a dispetto dei tempi, che adagio adagio
lo lasciavano morire di fame.
Discese le scale, si
fermò un momento sulla porta a strologare il tempo, e
mormorò:
"Potevo almeno farmi dare un
ombrello."
E andò a fare quattro
passi.
IV
Demetrio abitava tre stanzucce
poste all'ultimo piano d'una vecchia casa di via San Clemente, alle
quali si accedeva per una scaletta semibuia a giravolte, come quella
di un campanile.
Una volta giunti lassú
si aveva il compenso dell'aria e d'una grande occhiata sopra i
tetti. Una piccola ringhiera menava a un terrazzino esterno, sul
quale dal giorno che il nuovo padrone era venuto ad abitare in
quella casa si distingueva una giovine vite del Canadà, che
teneva il piede in un barile.
Nella bella stagione
verdeggiavano e serpeggiavano avviluppati ai ferri alcuni rami di
fagiolo, che aprono i bei campanelli bianchi, rossi, violetti, e
mandano i filamenti a carezzare il muro; da alcuni trespoli
piovevano sul tettuccio sottostante dei ciuffi spessi di garofano.
Ma piú che i fiori,
Demetrio amava le erbe, le erbe semplici, vestite soltanto di verde,
le tredescansie, che sembrano capelli sciolti d'una bella donna, le
felci magre e lunghe, i muschi morbidi come il velluto, l'edera coi
suoi capricci, ed anche il rosmarino, anche l'insalata dalle coste
dure..., il verde, insomma, in tutte le sue modeste e ricche
varietà, quel benedetto verde, che par fatto per il riposo
del corpo e dell'anima.
Nato anche lui nel bel mezzo
dei prati lombardi e da una gente abituata chi sa da quanti anni a
rovistare nell'erba, aveva nel sangue l'istinto fantastico della
natura verde e silenziosa, della quale sapeva intendere le voci
piú misteriose; era un vero appetito d'erba, che gli faceva
costruire in tre o quattro cassette di legno sopra le tegole
bruciate un campionario di quella natura, ch'egli sognava quasi
tutte le notti.
Quando voleva poi pigliarsi una
boccata d'aria, andava a passare la domenica alle Cascine Boazze,
poche miglia fuori di porta Romana, quasi sotto il campanile di
Chiaravalle, la terra classica del verde, delle marcite, delle
praterie color smeraldo, lunghe, larghe, distese a perdita d'occhio,
sprofondate tra i filari dei salici grigi e dei pioppi tremolanti.
Suo cugino Paolino Botta,
presso il quale si era ricoverata la famiglia di Cesarino dopo la
disgrazia, era figlio d'una sorella di sua madre. Si volevano un
gran bene, fin dal tempo che i Pianelli abitavano a San Donato, un
fondo limitrofo: e ora si rivedevano sempre volentieri senza bisogno
di dirselo.
Nei lunghi pomeriggi
domenicali, i due cugini, colle spalle appoggiate al muro di un
pollaio e coi prati distesi davanti fin che l'occhio poteva correre,
stavano a discorrere un gran pezzo di coltivi, di concimi, di
piante, di riforme agrarie, che non c'era nessun obbligo di
eseguire.
Oppure pigliavano la canna e
andavano a pescare nei canali o nello stagno presso la chiesa,
finché, fatto quasi buio, il regio impiegato pigliava il
treno a Rogoredo e rientrava in città stracco e colla testa
piena di erba come una cascina. Al taglio dei fieni il delicato
profumo dell'erba secca lo accompagnava fin sotto le lenzuola, e
svegliandosi la mattina, ne trovava ancora dei fascetti nelle
scarpe.
La prima stanza dietro l'uscio,
che serviva d'anticamera e da salotto, conteneva un canterale, un
tavolino, alcune sedie e una vecchia poltrona di vacchetta, a
schienale diritto, a grosse borchie d'ottone, ridotta magra
anch'essa dall'età e dall'astinenza. Nell'altra stanza c'era
un inginocchiatoio di vecchio stile con su un crocifisso vecchio
vecchio anche lui. Erano i pochi avanzi salvati dal naufragio della
sua casa. La tetra stanzuccia serviva di ripostiglio e a un caso di
cucina; ma di solito Demetrio usciva a mangiare, d'inverno a una
trattoria in via degli Spadari, e d'estate, col bel tempo, ora qui,
ora là fuori di porta, o alla Samaritana, o all'Orcello, o al
Ginepro, e qualche volta fino a Sesto o alla Cagnola.
Dalle tre finestre e dalla
ringhiera si guardava in un cortile stretto e profondo come una
torre, di cui non vedevi la fine; ma davanti l'occhio spaziava sopra
una moltitudine di tetti e di tettucci, sovrapposti, accavallati
l'uno all'altro, d'un uniforme colore bruciaticcio, con una
moltitudine di abbaini e di soffitte sporgenti, di altane aperte, di
comignoli di tutte le fogge, di tutti i colori, colle bocche nere,
spalancate, sbadiglianti, con cappelletti in capo, di ferro, a guisa
d'elmi, di visiere, di cuffie, di ombrelle: una folla insomma di
figure che nella luce del crepuscolo e nelle notti chiare di luna
parevano assumere un atteggiamento, un sentimento di vita.
Eravamo già alla seconda
domenica di quaresima e la stagione favorita da un marzo galantuomo
si avviava allegramente a braccio della primavera.
Il sole entrava vivo e festante
per le tre finestrelle. Su per le tegole scorreva l'aria fresca
mattutina e, qua e là, da qualche balcone alto o da qualche
terrazza usciva un ramettino verde di sambuco.
Demetrio, infilato l'ago, stava
rattoppando una delle tasche de' suoi calzoni della festa,
ingegnandosi da sé come deve fare chi ama la roba e non
può spendere, canticchiando sottovoce e sollevando di tratto
in tratto gli occhi al magnifico campanile delle Ore, che gli stava
davanti, di un bel colore rossiccio, colle sue leggiere e vaghe
ornamentazioni di terra cotta, che usciva da un mucchio di tetti
disordinati come un bel soldato diritto. Oppure si arrestava
incantato a contemplare la magnificenza del Duomo, di cui vedeva una
membratura, un ricamo di marmo sul fondo celeste, che sfumava
tremolante, per cosí dire, nella nebbiolina rosea del
mattino. Sonarono le sei, quando entrò Giovann dell'Orghen
col solito pentolino del latte e col pane fresco della colazione.
Era detto Giovann dell'Orghen,
perché tirava i mantici a Sant'Antonio e in altre chiese.
D'origine era svizzero tedesco. Venuto a Milano dietro la carriola
del padre arrotino nel quarantotto, era rimasto qui come un
ciottolone delle sue montagne che l'acqua abbia menato in
giú. Al disotto del linguaggio milanese viveva ancora qualche
reminiscenza del suo vecchio terteufel, che Demetrio fingeva di
capire tanto per fargli piacere. Il nostro galantuomo aveva fatto
nella sua vita il giardiniere, l'arrotino, il guattero, il
sacrestano, e, divenuto vecchio, sordo, debole di gambe, s'era
ridotto a tirare i mantici e a trasportare i contrabassi e i
violoncelli degli allievi che vanno al Conservatorio... Era insomma
una specie di artista anche lui, ridotto dalla miseria dei tempi a
vivere in una soffitta sotto il colmo del tetto, due scalette
piú in alto di Demetrio.
"A che ora c'è la messa
a Sant'Antonio?" gridò costui.
"Alle dieci e mezzo" rispose il
sordo, che sapeva pigliare le parole al volo. "Viene a dirla un
vescovo missionario chinese colla coda, che è a Milano per la
liberazione dei moretti." Giovann dell'Orghen rise all'idea di quel
vescovo colla coda. "Oggi non tiro i mantici, perché sto sul
campanile a suonare le campane a festa. Sentirà tra poco che
concerto. Altro che Verdi!"
E il buon diavolo tornò
a ridere, alzando la faccia pulita colla barba appena fatta e colla
pelle quasi lucente, sotto un magnifico cappellino di paglia, o
magiostrina, come dicono, preludio di primavera.
"Gli ho portato il latte bianco
e il pane cotto nel forno" disse ancora collocando la roba sulla
tavola "e vado subito perché il prete m'ha promesso anche la
cioccolata."
"Addio, uomo felice!"
gridò Demetrio e pensò, quando l'altro fu uscito: "Che
gli manca per essere felice? Se avesse una camicia di piú,
forse gli nascerebbero in cuore dei pensieri d'ambizione. Se anche
gli manca un paio di scarpe, non ha rispetti umani lui: va in
ciabatte... Chi si contenta è beato, ricco, è tutto
quello che vuole. In fondo è il mio sistema: e non c'è
mestiere piú stupido che il pretendere di raddrizzare le
gambe ai cani."
Dopo la gran predica del
cavalier Balzalotti si era persuaso anche di piú che a lavar
la testa agli asini si butta via ranno e sapone. In Carrobio non
s'era piú lasciato vedere. Venne qualche creditore in ritardo
ed egli lo mandò difilato a Melegnano, dal sor Isidoro
Chiesa, da quel talentone. "Che! che! voleva giusto mangiarsi il
fegato, perderci salute e denari, compromettere la sua
dignità e il suo onore per gli occhi di uno... di una bella
pigotta! Bel nome se si vuole; bisogna proprio dire che c'è
della gente che ha nulla da fare a questo mondo, se passa il tempo a
inventare questi titoli! No, no, non voleva saperne egli di partita
doppia... Grazie tante, sor Demetrio riverito, una bella figura!" E
arrossiva ancora a pensarci. A casa sua egli aveva i suoi vasi, tre
gabbie di canarini e faceva conto di adottare anche una tortorella.
Le bestie almeno capiscono la ragione, e, fin che possono, ti si
mostrano riconoscenti. Ma le donne..., queste donne... Alla larga!
Non aveva tempo di giuocar alla bambola lui!
Accese un fornellino a spirito,
vi collocò un ramino con un'oncia di burro, levò da un
armadietto un paio d'uova portate dalle Cascine, e quando furono
spumanti le tolse, pose sul fornello il pentolino del latte.
Invitò Amoretto, il piú giudizioso dei suoi canarini,
a tenergli compagnia. Aprí lo sportello d'una gabbia,
l'uccellino saltò sulla tavola e cominciò a beccare.
Intanto, per non perdere tempo
e per mandare innanzi un po' di bene per l'anima, aprí il suo
vecchio Kempis e cominciò a scorrerlo cogli occhi al disopra
del piattello. Era un volumetto molto sciupato e gonfio, tenuto
insieme a stento da una vecchia rilegatura di pelle con qualche
avanzo dei fregi d'oro che le mani di molti ladri del Paradiso
avevano slavato o graffiato nei duecent'anni o quasi dalla stampa
del vecchio libro. Demetrio l'aveva caro, perché era stato
della sua mamma, che lo aveva ereditato dalla sua, e tutti vi
avevano pescato, come in un gran mare, qualche consolazione. Nella
sua vecchia stampa il libro, dove Demetrio lo aperse, diceva:
Confesserò contro di me
la mia injustitia: confesserò avanti a Te, o Signore, la mia
debolezza.
Giovann dell'Orghen
cominciò a scampanare a Sant'Antonio colla pazza fiducia di
un sordo.
E il libro:
Sovente è picciol cosa
quella che mi abbatte et contrista.
"Questo è vero,"
pensò Demetrio, "noi ci lasciamo spesso deviare ed affliggere
da un'ala di mosca."
I canarini, eccitati dalla
musica delle campane, cinguettavano e gorgheggiavano per cinquanta.
"Mi propongo di fortemente
operare et invece basta una mediocre tentatione perché io
pruovi massima angustia...."
Demetrio credette di leggere un
rimprovero nelle parole del vecchio libro, e socchiuse un poco gli
occhi, come se volesse discendere collo sguardo fino in fondo alla
coscienza. Quando li riaprí, ne vide innanzi due altri, che
stavano osservandolo in un modo strano e indiscreto.
"Chi ti ha insegnata la strada,
brutta bestiaccia?"
"Beb" rispose Giovedí,
che credette di sentire nella voce dello zio un sentimento
piú umano a suo riguardo. E indovinò giusto. Questo
nuovo sentimento di maggior tolleranza verso la piú brutta
bestia del mondo era nato nel cuore di Demetrio una mattina che,
essendo egli andato a far mettere un piccolo segno sulla fossa del
povero Cesarino, vi aveva trovato Giovedí, umido di guazza,
colle zampe nel terriccio ed il muso sulle zampe, in atto di fare
compagnia a qualcuno.
Alzando il viso al disopra
della tavola, Demetrio credette di vedere di nuovo le quattro zampe
del cane brutte di terra. Non ebbe piú cuore di dir delle
insolenze ad una bestia, che veniva ad implorare un boccone di pane.
Giovedí non aveva nulla da vendere, quasi nemmeno la coda, ed
era da compatire se abbaiava per fame.
Gli buttò dunque un
boccone di pane fresco, che il cane lasciò cadere in terra e
non toccò come se fosse veleno. Invece non cessò dal
guardare, co' suoi due occhi di bestia affettuosa e intelligente,
ora lo zio, ora l'uscio, col corpo in preda ad una viva
inquietudine.
Subito dopo Demetrio
sentí un passetto sulla scala, quindi l'uscio si aprí
e comparve Arabella.
"Sei tu?" esclamò lo
zio, lasciando cadere la forchetta nel ramino.
La povera tosetta, vestita d'un
modesto abito bigio, col velo in testa e un fazzolettino di lutto al
collo, pallida in mezzo a tanto nero, venne avanti colle mani
raccolte sul libretto da messa e fece un cenno del capo, come se
volesse dire: "Sono io".
Ma la voce non uscí.
Essa tremava di vergogna e di soggezione.
"Che cosa vuoi? chi ti ha
accompagnata?"
"Ferruccio."
"Siedi."
"Zio!" soggiunse la fanciulla,
aprendo i suoi larghi occhi di velluto, "è proprio in collera
con noi?"
"Sono in collera con nessuno,
ma sto a casa mia" si affrettò a dire lo zio senza tante
cerimonie.
"Non ci abbandoni per
carità, zio, per carità!..."
La voce di Arabella
s'intenerí e rasentò il pianto, contro il quale ella
faceva di tutto per resistere.
Lo zio rispose con una ruvida
alzata di spalle e brontolò:
"Non sono...."
"Se abbiamo sbagliato, zio,"
continuò quella voce piena di lagrime "ci perdoni per questa
volta. La mamma non fa che piangere."
"È lei che ti manda
qui?" gridò lo zio con una esagerata ruvidezza.
"No, non sa che sono venuta. Ho
detto che andavo a messa con Ferruccio, che aspetta qui sulla scala.
È venuto anche Giovedí."
"Beb!" soggiunse il cane a
sentire il suo nome, guardando ora la ragazza, ora lo zio.
"Povera mamma, ha quasi la
febbre. Va compatita se non è pratica. È il nonno che
le ha detto di far cosí, ma adesso si accorge anche lei che
aveva ragione...."
"Chi aveva ragione?" chiese con
un sogghignetto sarcastico Demetrio, mostrando i denti.
"Lei, zio...."
"Ah! lo so bene. Grazie tante."
"Non abbiamo piú nulla
da mangiare. I bottegai non ci dànno piú nulla. Ieri e
ieri l'altro ho provveduto alla meglio, facendo vendere da Ferruccio
la medaglia de' miei esami, ma non si può andare avanti
cosí, zio, non si può. I ragazzi fanno compassione."
La voce di Arabella andò
morendo in un singhiozzo, contro il quale ebbe ancora la forza di
reagire, forse per la paura che il pianto non le lasciasse il tempo
di dire tutto quello che era venuta per dire.
"Per amore del nostro povero
papà, zio, non ci tolga la sua benevolenza...."
Il cane venne anche lui a
posare le due zampe sulle ginocchia di Demetrio.
Capiva anche lui che la
fanciulla cercava di intenerire lo zio: la voce piagnucolosa della
bimba faceva tremare la povera bestia.
Demetrio si contrasse nella sua
scontrosità come una foglia secca. I nervi del viso
guizzarono sotto la dura corteccia. Non era piú il
credenzone, l'allocco d'una volta, e non per nulla il cavalier
Balzalotti avevagli insegnata l'arte di stare al mondo. Le donne
quali piú quali meno, sono tutte commedianti, specialmente
certe donne...
"Già, sono io che vi
faccio patire la fame!" brontolò agitandosi sulla sedia. "Si
dirà anche questa. Io sono il ladro, il pedante, il tiranno,
e se vi dò un buon parere è per fare il mio interesse,
si sa. Io ho le olle in cantina piene di marenghi... Vieni avanti,
mangia!"
Demetrio aveva versato, colla
mano convulsa, il latte nella scodella, che spinse colla mano fino
all'orlo del tavolo, mettendo vicino un pane.
"E lei?" balbettò la
fanciulla.
"Mangia, non far smorfie.
Già... gli altri hanno grandi chiacchiere, ma, quando si
tratta di tirar fuori un quattrino, stanno a Melegnano, gli altri.
Ed io sono il ladro, il tradi...ditore... Mangia dunque, non farmi
scappar la santa pazienza."
Arabella si avvicinò al
tavolo e cominciò a mangiare, come se lo facesse soltanto per
obbedienza e per non irritare di piú lo zio.
Ma alle prime cucchiaiate di
latte caldo le sue guancie si fecero rosee e gli occhi brillarono di
una gioia intensa nel fissare il fondo della scodella.
Demetrio cercava di tirarsi in
mente tutte le raccomandazioni fattegli dal suo superiore; ma in
quel momento non poteva vedere che tre poveri fanciulli quasi morti
di fame.
Si è o non si è
cristiani, e, per quante fossero le colpe di quella donna, si deve
lasciar morire su una strada tre poveri innocenti?
Arabella lasciava cadere nella
scodellina anche le sue lagrime e se le mangiava poi col pane.
Demetrio, fatte due o tre
giravolte per la stanzetta, seguitò come se parlasse a
sé stesso:
"Perché non dovrei aver
volontà di aiutarvi? Ah! dunque, io ho men cuore del vostro
cane... L'ho provata anch'io la miseria e so che sapore ha: ma
contro la miseria non c'è che un rimedio: volontà di
lavorare e risparmio, risparmio e volontà di lavorare. Tu hai
nominato tuo padre... Se sapeste tutto... Se fosse qui lui a
vedere...."
"Ah, zio, zio!.." proruppe la
bambina, portandosi a un tratto il fazzoletto agli occhi, e
lasciando traboccare quel gran fiume di pianto che aveva trattenuto
fin qui.
"Cosa?"
"So tutto...."
"Cosa sai?"
"Mi dica che non è
vero."
"Che cosa ti hanno detto?..."
"Che il povero papà
s'è ammazzato...."
"Chi?"
Demetrio strinse i due pugni in
aria, con un rapido movimento d'ira, come se volesse scagliarsi
contro l'assassino che aveva parlato. Gli occhi cominciarono a veder
male, e il cuore... sentí che il cuore andava in pezzi sotto
i colpi di quei singhiozzoni, che minacciavano di soffocare la
povera tosetta.
Colla gola stretta, strozzata
da un'adirata passione, si appoggiò colle mani alla sponda
della sedia, dove stava la fanciulla e aspettò che finisse di
piangere. Ma vedendo che non poteva smettere, alzò lentamente
una mano, che pareva inchiodata sul legno della sedia, e la
posò dolcemente sulla testa di Arabella.
Questa sentí tutto il
significato di quella tenera carezza e il cuore volle scoppiare.
Nemmeno lo zio seppe trovare una parola da dire in quel momento,
tanto il dolore gli stringeva lo stomaco. Gli occhi si riempirono di
lagrime dure e cristalline, che egli tolse, passandovi sopra con
forza il grosso fazzoletto di cotone.
Arabella, quando poté
parlare, raccontò che, stando una sera sul pianerottolo a
prender acqua alla pompa, sentí sulla scala di sopra
Ferruccio, che indicando l'uscione del solaio, raccontava a un altro
ragazzo che il sor Cesarino si era impiccato lassú. Aveva
creduto di morir di spavento; ma capí subito che la mamma non
ne sapeva nulla e che la gente cercava di nascondere la
verità. Non era morta ancora, perché la Madonna
Addolorata l'aiutava..., ma non ne poteva piú.
"No, zio Demetrio, non ne posso
piú" esclamò aggrappandosi colle braccia al collo
dello zio, accostando la sua faccia pallida e lagrimosa a quella
accigliata e ruvida dell'uomo. "Non ne posso piú... e il
cuore mi si spezzerà davvero se non ci aiuta. Lei mi
dirà tutto, com'è stato... Ah Signore! il mio povero
papà! mi dica che non è vero... Che cosa abbiamo fatto
di male noi al Signore? O Madonna, Madonna!"
Arabella pronunciò il
nome della Madonna con due gridi pieni di una disperata protesta, e
subito dopo Demetrio se la sentí venir meno nelle sue
braccia, come se morisse lí lí.
"Arabella, povera figliuola
mia" uscí a dire una voce, che Demetrio stentò a
riconoscere per sua, tanto veniva dal profondo dell'animo.
E, come se veramente si
snodasse in lui uno spirito nuovo, forte, operativo, fece sedere la
fanciulla, ne asciugò il viso grondante, l'appoggiò
alla tavola, corse a un armadio a prendere dell'aceto, ne
bagnò la fronte e i polsi, la rincorò con paroline
d'amore sussurrate all'orecchio, volle infine che prendesse un
granello di zucchero tuffato nel rhum; e, quando vide che il sangue
rifluiva alle guancie, corse di là, finí di vestirsi,
prese alcuni denari, il cappello, il bastone, una cesta di vimini, e
rincorata di nuovo la tosetta:
"Andiamo," disse "ne parleremo
con comodo. Non dir nulla per ora. Fu una disgrazia per tutti...
L'aria ti farà bene... Vuoi appoggiarti? Asciuga gli occhi."
E uscirono.
Giovedí correva innanzi,
ma ad ogni svolto di scala si voltava indietro a guardare lo zio e
la nipote, e gridava: beb!
Sulla porta trovarono
Ferruccio, al quale Demetrio consegnò la cesta e i denari e
diede alcuni ordini per la spesa. Per strade secondarie si avviarono
finalmente verso il Carrobio. Demetrio però si guardava
sempre intorno con sospetto, per paura d'imbattersi per caso nel
cavalier Balzalotti, che gli aveva dato quei tali consigli.
V
La prima battaglia era vinta:
ma il giorno stesso che Demetrio ripose il piede in casa di sua
cognata volle assolutamente patti chiari, rimedi pronti, e
cominciò a operare colla terribile inesorabilità del
chirurgo che taglia fin che c'è male, senza badare agli
strilli dell'ammalato. Beatrice dovette mordere il freno e
rassegnarsi. A Demetrio importava poco di lei. Era venuto non per
lei, ma per i figliuoli. I conti erano presto fatti. Cesarino non
aveva lasciato dietro di sé che una piccola pensione
militare, un'ottantina di lire all'anno. La dote di Beatrice era
ancora in aria, mentre il buon babbo non aveva piú credito
per un quattrino. Tra debiti grossi e minuti c'erano cinque mila
lire da pagare al momento, oltre quello verso il Martini, e non
c'erano tutti; poi bisognava vivere e vestirsi in cinque persone. A
questi bisogni Demetrio non poteva far fronte che con qualche suo
piccolo risparmio messo in disparte e col suo stipendio...
Cominciò subito a
vendere, a vendere, senza misericordia tutto ciò che non era
strettamente necessario; placò l'ira del padrone di casa con
una prima anticipazione, e rilasciò qualche cambialetta ai
bottegai. Ma erano goccie nel mare. Per far fronte al grosso dei
debiti e specialmente a quello segreto verso il signor Martini,
scrisse a suo cugino delle Cascine Boazze, uomo di gran cuore e ben
provveduto, che mise a disposizione del parente un libretto della
Banca Popolare.
Paolino, come s'è visto,
amava Demetrio come un fratello e se ne serviva spesso negli affari
suoi, specialmente per il buon collocamento dei capitali o per
l'esazione delle cedole di rendita o per altre operazioni di questo
genere, in cui Demetrio aveva una certa praticaccia. Nel mandargli
il libretto della Banca, Paolino gli scrisse anche una lettera piena
di maiuscole:
"Caro cugino,
L'opera che fai per i
Figli di tuo fratello è santa e sarà Benedetta in
cielo. Io ricordo sempre i benefici che ho ricevuti dalla Tua buona
mamma, dunque metti che in questa circostanza i miei denari siano
Tuoi e me li restituirai quando Potrai e non stare a Ringraziarmi.
Salutami la signora tua cognata anche a nome di Carolina.
Tuo aff.mo cugino
BOTTA PAOLINO."
La quale signora cognata, dopo
il breve soggiorno dei Pianelli alle Cascine, era rimasta impressa
nella mente del lungo Paolino, che da qualche tempo, oltre al
mangiare di poca voglia, si sentiva addosso un certo lasciatemi
stare, che la Carolina attribuiva ai soliti effetti della primavera.
La buona sorella, un donnone tutta affezione e tenerezza, sempre
malata di gambe, avrebbe voluto che il figliuolo pigliasse della
magnesia; ma Paolino capiva che i suoi mali non si potevano guarire
colle medicine. Con la testa piena di progetti e col cuore ancora
pieno di speranze e di paure, colse al volo l'occasione di fare un
po' di bene alla famiglia di quella donna, che, come si disse, gli
era rimasta impressa negli occhi...
Demetrio seguitò a
vendere. Il pianoforte prese la via della scala e produsse un
trecento lire, colle quali si poté ristabilire il credito del
fornaio. La musica è una bella cosa, ma dopo pranzo. Altre
cinquanta lire furono raccolte, vendendo ad un orefice la pendolina
e qualche candelabro di bronzo. Un minutiere offrí
venticinque lire di una gran pipa di schiuma di mare, nuova, con
delle donne nude, che, oltre allo scandalo, non serviva a niente.
Demetrio pigliava i denari con
una mano e li spendeva coll'altra coll'idea di riempire dei buchi.
Beatrice assisteva come una sonnambula a quel mercato che
trasformava la sua casa in una bottega di rigattiere. Venivan su
certi figuri, stavano a contrattare un poco, e poi quadri, tavolini,
cornici, masserizie, pigliavano la strada della scala... Era un
sogno per la misera donna, un sogno dal quale non riusciva mai a
svegliarsi. Se faceva tanto di lamentarsi, di opporsi un poco, di
difendere una cosetta sua, il cognato era lí, ostinato, duro,
inesorabile come un aguzzino:
"Ricordatevi che mi avete
chiamato voi" diceva. "O comando io, o comandate voi. Se non vi
piace, piglio il mio cappello e me ne vado...."
E poiché non c'era da
sperare salute in altri santi, bisognava mordere il freno, tacere,
inghiottire e procurare di nascondere qualche cosa al furore morboso
da cui pareva invasato quel terribile uomo.
E cosí fece coll'aiuto
della Pardi, alla quale scrisse una lettera pietosa, raccontandole
tutte le sue miserie, e invocandone l'alleanza. A lei mandò
di nascosto qualche gioiello, qualche preziosa memoria e si
raccomandò come si prega la Madonna.
La Pardina, che in fondo era
una donna di cuore, sentí una gran compassione della
poveretta.
Forse parlava in lei anche un
piccolo rimorso per il male che aveva fatto a Cesarino. Promise
insomma di far tutto ciò che era nelle sue mani per aiutare
la vedova disperata. Mandò subito qualche denaro di nascosto,
perché la tribolata creatura potesse comperarsi almeno una
spilla di lutto.
Ma la piú gran scena
scoppiò una mattina, un venti giorni dopo la morte di
Cesarino, quando l'Elisa sarta portò a Beatrice e alla
figliuola i vestiti di lutto.
Per caso c'era anche Demetrio,
che accolse la bella biondina con una faccia di spauracchio.
"Che roba è? chi l'ha
comandata?" dimandò bruscamente, mentre cercava di guardare
nella scatola.
L'Elisa, la bionda Elisa, a cui
stava bene la lingua di porta Ticinese in bocca:
"Cosa gh'è?"
esclamò. "Semm al dazi?"
"Son ciarle inutili"
gridò subito Demetrio per farla finita. "Io non ho ordinato
nulla: dunque porti indietro questa roba."
"Come porti indietro?"
"Sí, indietro... Non ho
comandato nulla...."
"Ma io non so nemmeno chi sia
lei."
"Se non lo sa, se lo faccia
dire. Io non pago se non ciò che ordino."
Beatrice accorse al battibecco
e cercò di dimostrare che si trattava di un modesto vestito
di lutto, che aveva ordinato lei: ma Demetrio non volle sentire
ragioni.
"O pago io, o pagate voi: o
comando io, o comandate voi. Questa roba io non la ricevo: la porti
indietro e faccia presto."
Beatrice portò il
fazzoletto agli occhi e scappò via, esclamando:
"È troppo! non ne posso
piú."
Il dialogo continuò
sulla porta tra la bella biondina dagli occhi di falco e l'orso
della Bassa. Quella cercava di farsi avanti: e questi faceva di
tutto per chiuderle l'uscio sul naso. Dopo un mezzo minuto di
ginnastica, l'Elisa, che aveva tutte le ragioni per perdere la
pazienza e che dalle lagrime della sora Beatrice aveva capito
all'ingrosso con chi aveva a che fare, aprí le valvole a una
eloquenza che non ha niente a che fare con quella di Demostene, ma
che macina piú di dieci molini a vapore.
Demetrio, irritato, ostinato in
quella grande impresa di riordinamento e di economia, non ripeteva
che due frasi:
"Non pago niente..., non ho
ordinato niente..."
Seguitava ad alzare la voce,
cercando di aiutarsi sempre piú colle mani per cacciar via
quella vespa, che, tolta la scatolona dalle mani della piccina,
continuava invece a farsi avanti urtando Demetrio nella pancia.
Seguí un duetto in due chiavi, che tirò l'attenzione
di tutto il vicinato.
Per un poco furono monosillabi:
chi? io? lei? sí? via? (e intanto le finestre si popolavano
di gente). E il dialogo durò cosí un pezzetto. Ma
quando Demetrio uscí fuori col titolo di sora pettegola,
addio, fu il diluvio universale! L'Elisa salí sugli acuti e
cantò una litania in cui entravano tutte le bestie dell'arca
di Noè, dallo scorpione ai pipistrelli. Il povero uomo fu
paragonato a un moccolo, a un cero pasquale, a una cartapecora di
messale stracciato, a un cavastivali, a una sedia sgangherata, a
cento cose, l'una piú metaforica dell'altra, che nella
fantasia della giovane e nella furia del momento servivano bene,
come serve bene qualunque cosa venga alle mani in un momento di
rivoluzione. Non era una donna, ma una trombetta.
Demetrio perdette subito la
voce sotto quel diluvio. Vedendo che le scale e i pianerottoli si
riempivano di gente e dalle finestre del cortile uscivano teste e
cuffie, non volendo prolungare lo scandalo, con uno spintone
piú forte degli altri cacciò fuori la ragazza, chiuse
l'uscio, girò la chiave, e, mentre l'Elisa faceva su per le
scale la casa del diavolo, suscitando la curiosità e i
commenti dei vicini egli tornò in cerca di Beatrice, e,
agitando nell'aria le due dita del suo eterno dilemma, gridò
ancora una volta con voce racusa e scassinata:
"O comando io, o comandate voi:
o pago io, o pagate voi: o mi volete, o non mi volete..., o resto, o
vado via...."
Beatrice, soffocata dalle
lagrime e dalla passione corse a vestirsi e uscí di furia,
sbattendo gli usci dietro di sé.
VI
"Mostri di donne!" non cessava
dal ripetere Demetrio, dopo questa scenaccia, stringendosi il capo
nelle mani.
Di queste scene, piú o
meno rumorose, ne scoppiava una o una e mezzo quasi ogni settimana,
e non ci volle che la testarderia del chirurgo per resistere agli
strilli, alle lagrime, all'odio, che la cura suscitava nella
vittima.
Quando non ne poteva
piú, stava a casa e si faceva desiderare per tre o quattro
giorni. Subito arrivava un bigliettino, o veniva Arabella in persona
a rabbonirlo, a chiamarlo indietro sul campo di battaglia, dove,
quando non si moriva di disperazione, si moriva di fame.
E questa vita durò tutta
la quaresima, una vera quaresima di Galeazzo!
Da una parte era un continuo
studio per risolvere il problema dei bisogni quotidiani - quelli del
pane e della minestra, - e per avviare la famiglia sopra un sistema
razionale e possibile.
Dall'altra invece era uno
sforzo segreto e continuo di distruggere, di contraddire, di
nascondere, di trafugare roba.
La conseguenza era un odio
crescente tra questi due partiti, che sarebbe stato pur tanto
pietoso se avessero potuto intendersi, compatirsi, aiutarsi.
Beatrice dovette ad ogni modo
cedere, cedere sempre, e ricevere le bastonate da quella mano di
ferro, che ogni mattina portava in casa il pane per i suoi
figliuoli.
Quando si sentiva soffocare,
correva a sfogarsi da Palmira, che era sempre pronta a compatirla, a
darle ragione, a suggerirle nuovi espedienti.
"Oltre a non volere che io
porti il lutto per mio marito, pretende che mangi quello che non mi
va giú. Se c'è un pesce marcio o del formaggio che
cammina da sé, pur di risparmiare un quattrino, lui ce lo
porta a casa. Non vuole nemmeno che tenga una donna di servizio.
Devo fare da Marta e da Maria e guai se non avessi Arabella! ma
vedessi com'è ridotta a quest'ora la povera ragazza! una
candela."
"Tuo padre permette? non dice
niente?" chiedeva Palmira, che s'interessava con una certa furia
sdegnosa a queste miserie.
"Mio padre scrive continuamente
di trovargli un capitale per finire una lunga causa contro
l'Ospedale. Demetrio, non è vero?, potrebbe aiutarlo, ma non
vuole. Quando fosse finita questa causa, io potrei ritirare la mia
dote che è di quarantamila lire e ricuperare la mia
indipendenza...."
"E ci vuole una somma grossa?"
"Ma no, trecento o quattrocento
lire."
"Vuoi che ne parli a mio
marito?"
"Ma guai se Demetrio lo
sapesse!"
"Non gli faremo saper nulla.
Vorrei esser io ne' tuoi panni, guarda! tu sei troppo buona. Io non
ho figli, ma se ne avessi, sento che sarei una iena, una tigre...."
La magra e nervosa Pardina fece
tintinnare co' suoi fremiti tutti i braccialetti e tutte le
catenelle d'argento e di ferro, di cui aveva cariche le braccia. Non
aveva cattivo cuore, e messa sul puntiglio di farla dire ai signori
uomini, non ebbe requie, finché non trovò la persona
caritatevole e prudente disposta ad offrire le tre o quattro
centinaia di lire che occorrevano per rimettere in moto la causa.
Questa persona non fu Melchisedecco, che era troppo facile a
ciarlare, ma un signore molto rispettabile.
La Pardi andò un giorno
a trovare apposta questa brava persona in casa sua e fece presente
il caso della povera Beatrice...
"Lo conosco: so di che cosa si
tratta... Guarda un po', povera signora..." disse il buon
benefattore, raccogliendo il pensiero in una delicata riflessione,
che gli faceva stringere le labbra e tentennare il capo.
E dopo avere riflesso ben bene,
soggiunse:
"Sicuro che è il caso di
continuare, di fare qualche sacrificio, molto piú che non si
tratta di una gran somma. Se non ci fosse di mezzo quest'altro,
potrei trovare anch'io il mezzo... Se si potessero fare le cose in
gran segretezza. Capisce, mia cara, io sono il capo, egli un
subalterno, e le convenienze d'ufficio...."
"Beatrice ha tutto l'interesse
a tener segreta questa congiura."
"Bene, m'informerò
prima, parlerò coll'avvocato: e vedrò se è
possibile far del bene a quella poverina... Spiace sempre di vedere
una bella donna a piangere."
Si combinò cosí
bene il pasticcio, che qualche giorno dopo Palmira portava in una
busta in gran segretezza le prime lire cento da parte di una persona
influente, una vera capacità amministrativa, della quale
disse il nome in un orecchio. Beatrice fu contenta di sentire che un
uomo di tanta autorità trovasse che suo padre aveva ragione,
e lo incoraggiasse a continuare nella sua causa per rivendicare i
suoi vecchi diritti: anzi dava i primi denari, che essa mandò
subito a Melegnano. Demetrio non si accorse di nulla. Giorno e notte
il suo pensiero era in caccia di nuove economie, o d'un nuovo
ripiego per far argine alla vita.
Un giorno il cavalier
Balzalotti lo prese in disparte e gli disse:
"Senta, Pianelli: c'è un
mio amico di Novara che deve passare a Milano tre o quattro mesi pei
lavori del Censo e mi scrive di trovargli una stanzetta o due, in
una posizione centrale, dove ci sia un letto, un cassettone, un
tavolo, quattro sedie; non ama dormire negli alberghi, e sarebbe
disposto a pagare venticinque o trenta lire al mese. M'è
venuto in mente che forse si può combinare in casa di sua
cognata."
"Altro che!" esclamò
Demetrio, a cui sorrise subito l'idea delle venticinque o trenta
lire al mese. Era un mezzo anche questo per alleggerire la barca,
per otturare dei piccoli buchi. "Altro che! anzi la ringrazio
infinitamente, signor cavaliere, d'aver pensato a noi. C'è
modo di fare un ingresso separato, e le stanzette non potrebbero
essere piú allegre."
"Benissimo, io scriverò
subito al mio buon amico di Novara. Se devo anticipare qualche
cosa...."
"Che, che, che... mi
canzona...."
"Va bene" disse il cavaliere,
che pareva un poco sopra pensiero. E dopo un momento soggiunse:
"È lei che mi aveva raccomandato un ragazzo per
l'Orfanotrofio?..."
"Cioè, sarei ben
contento se ci fosse un posto."
"Faccia la dimanda. Diavolo, se
c'è un caso degno di considerazione è il suo. Faccia
la dimanda e l'appoggeremo. Sono anch'io del Consiglio."
"Davvero? questa è una
carità."
Demetrio accolse tutti questi
avvenimenti come altrettanti segni della Provvidenza. Il buon uomo,
abituato a vivere in una soffitta, era lontano le mille miglia
dall'immaginare quel che sa fare l'arte di stare al mondo.
A questa combinazione,
cioè che si potevano appigionare due stanze e trarne qualche
profitto non ci aveva ancora pensato. Se gli riusciva poi di mettere
un ragazzo nell'Orfanotrofio, era un altro peso di meno. Certo che
per riuscire nelle cose bisogna muoversi e non aspettare che il bene
venga a trovarti a casa. E un'altra buona massima è di tener
da conto la gente, specialmente i superiori, che hanno il mestolo di
tante minestre in mano. La superbia è il cavallo dei ricchi:
la povera gente è fin troppo onore quando va a piedi.
VII
Anche Arabella in mezzo alle
scosse della sua casa usciva quasi trasfigurata. Non piú
bambina oramai, perché aveva già troppo sofferto, e
non abbastanza donna perché non aveva ancora sofferto
abbastanza, la sua figura pareva diventata piú grande nella
malinconia, gli occhi chiari si riempivano ogni momento di pensieri,
una piccola ruga guizzava spesso nell'infossatura dei sopraccigli e
la meschina era sempre in sospensione, in attesa, in paura o di
qualche nuova disgrazia, o di una baruffa, o di un brutto incontro.
Il piangere, senza lasciarsi
scorgere, il mangiare poco e male fingendo d'averne abbastanza, il
dormire affannoso, e quando non dormiva, quel continuo rotolare nel
letto, quel sobbalzare improvviso a un improvviso abbaiamento...
Quante volte le pareva di udire la voce di Giovedí lamentarsi
sulla scala! e insieme un'altra voce d'uomo che cerca la
carità, che si raccomanda!
Per quanto lo zio Demetrio
avesse cercato di attenuare la triste impressione del fatto, velando
e negando molti particolari, pure essa non aveva piú dubbio
che il suo babbo si era ucciso lassú in quell'orrido solaio,
tra quelle travi nere sotto il tetto, dietro quell'uscio massiccio
che il vento scoteva spesso la notte, riempiendo la casa di terrore.
Nel buio essa non vedeva che quell'apertura nera spalancata davanti
come una tetra voragine, piena di ragnatele e di sordidezze nefande:
e guai se sfinita di forze si addormentava nella lugubre immagine di
quelle travi incrocicchiate! Un grido la faceva trasalire; balzava
sul letto al suo stesso grido, colla fronte in sudore, col cuore in
frantumi, stava a sentire, le pareva che qualcuno passeggiasse
leggermente per la stanza, girando intorno al letto, rimestando nei
cantucci, inquieto, bisognoso di qualche cosa, finché una
voce sommessa, o, per dir meglio, un fiato d'anima errabonda le
traversava il corpicciuolo, lasciandovi i brividi della morte.
Se ella avesse potuto dare
tutto il suo sangue per arrestare quell'anima in pena, per far
tacere quella voce che, sibilando, le parlava di cose
incomprensibili nel buco delle orecchie, non avrebbe esitato un
minuto.
Aspettava con ansietà il
giorno della sua prima comunione. Forse Dio in quel dí
avrebbe avuto pietà di lei, avrebbe ascoltato i suoi voti. Se
fosse stata piú grande, avrebbe voluto rinunciare subito alle
cose del mondo, farsi tagliare i capelli - quella bellezza di
capelli -, vestirsi di nero, andare negli ospedali, nelle missioni,
dovunque insomma si può fare del bene, non per sé, ma
per dare un sollievo a quell'anima vagabonda, che non trovava
requie. A furia di pensarci, fu essa che persuase zio Demetrio a
pagare il debito verso il Martini e a rivolgersi per questo al
signor Paolino delle Cascine. Col tempo avrebbe pagato col suo
lavoro quel debito. E quasi subito le parve che la povera anima
fosse piú sollevata. Forse ella aveva indovinato ciò
che andava da lungo tempo sussurrando e se ne consolò; a poco
a poco imparò ad ascoltarla e le parve di capire un'altra
volta che aveva bisogno di una messa. Cosí si abituò
ad averne meno paura. Un prete le aveva detto che un atto di
pentimento sincero in extremis può salvare l'anima del
piú feroce assassino, e che le buone opere dei vivi sono
tante leve per i poveri morti. Dunque c'era speranza che l'anima del
suo papà potesse salvarsi: per lui essa offriva a Dio il
bene, che avrebbe potuto fare e godere quaggiú.
Una domenica, coi denari
prestati dal signor Paolino, si presentò insieme allo zio
all'uscio del Martini, che abitava una modesta casa in via Larga.
Strada facendo, mentre si attaccava al braccio dello zio, non si
scompagnò mai da quello spirito che l'immaginazione eccitata
e quasi ossessa trascinava con sé dappertutto, anche in mezzo
alla folla e in piena luce di mezzodí. Piú d'una volta
dovette fare un gran sforzo di volontà e di raziocinio per
non voltarsi a guardarlo.
Demetrio, tutto chiuso e
conturbato ne' suoi pensieri per il difficile passo che stava per
compiere, non sentí due o tre volte il braccio di Arabella
guizzare sul suo e tutta la sua personcina vibrare come un filo
preso dalla corrente. Quasi non vedeva due passi innanzi, come se la
soggezione e la vergogna d'incontrarsi col Martini facessero una
nuvola davanti agli occhi. Pensava a quel che egli avrebbe potuto
dire, senza riuscir mai a mettere insieme due mezze parole in
un'idea. Solamente la coscienza in fondo pareva dire brontolando:
"Si fa presto ad ammazzarsi: la vergogna e la penitenza toccano a
chi resta."
"C'è il signor Martini?"
chiese Demetrio a una vecchietta, che venne ad aprire con in braccio
una bambina di pochi mesi. Erano la madre e la figliuola del
disgraziato.
"Che cosa desidera?" chiese la
vecchina con un fare cerimonioso, invitandoli a entrare.
"Avrei del denaro da
consegnargli" balbettò Demetrio.
"Vengano avanti. Vado ad
avvertirlo."
Rimasti un momento soli in
anticamera, Demetrio disse ad Arabella:
"Lasciami andar innanzi solo.
Aspettami qui...."
E a quell'uomo coraggioso
tremavano le gambe.
Quando tornò la vecchia,
Arabella stese le mani alla piccina, e con quel diritto, che ogni
donna ha sui deboli, la tolse in braccio nel suo guancialetto e
andò a sedersi presso la finestra per contemplarla bene negli
occhi. Essa aveva molte cose a dire a quella piccina.
Appoggiò il viso al visino e nascose cosí le lagrime.
Demetrio intanto era passato di là. La vecchia Martini,
contenta delle carezze che la ragazza dava alla sua piccina, venne a
fare delle confidenze. La sua Mimi era nata sotto cattiva stella: la
mamma morí nel metterla al mondo, e ora il governo mandava
via il papà lontano, fino in Sardegna. Era un trasloco senza
promozione, senza miglioramento di stipendio, per colpa d'un birbone
che l'aveva tradito, sotto la maschera dell'amicizia...
"Ne ha passate quel povero
martire in questi quattro mesi!" continuò la vecchietta
intenerendosi "ne ha patite piú che Gesú in croce. Il
governo ha riconosciuto la sua buona fede, la sua innocenza, sta
bene; ma ci vuole un esempio, e il meno che possono fare è di
mandarlo via per qualche tempo collo stesso soldo. Ma i denari
perduti ha dovuto rimetterli: e ora non può condurre una
vecchia e una bambina fino in alto mare. Dovrà fare due case;
lasciar me colla piccina e colla balia, e andarsene solo colle sue
malinconie... Questo si guadagna a fare il galantuomo."
Mentre la buona donna sfogava
il suo corruccio, contando per la centesima volta una storia che non
poteva levarsi dal cuore, Arabella tuffava sempre piú il viso
nel guancialetto, a cui si stringeva colle braccia come se cercasse
un appoggio per non cadere.
Demetrio passò in un
salottino, sparso di roba in disordine, dove trovò il Martini
tutto occupato a riempire delle casse. I due uomini s'incontravano
per la prima volta.
"Ho il piacere...?"
mormorò il padrone di casa per avviare una presentazione.
Aveva ragione la sua mamma: i
colpi della vita avevano dimezzato il disgraziato.
Demetrio, dopo aver fissato gli
occhi in un angolo in terra, come se cercasse la parola, disse
parlando al muro:
"Io sono..., io sono il
fratello di Cesarino Pianelli, vengo a pagarle un debito che...."
E per finire la frase trasse il
portafogli, ne levò due biglietti da cinquecento, che
collocò sopra alcuni libri della scrivania, agitando la testa
sotto la violenza di piccoli scatti nervosi.
Il Martini, che non si
aspettava quella visita, còlto all'improvviso, assalito in
mezzo alle sue dolorose preoccupazioni da una folla di piú
dolorose rimembranze, non seppe sul momento che cosa dire.
"La cosa... veramente... Io non
so se devo..." balbettò.
"Non possiamo pagare il danno
morale, questo no: ma se lei può perdonare a quel poveretto,
anche per la pace de' suoi figliuoli, fa un'opera di carità."
Un urto di passione
soffocò le sue parole, che finirono in un gesto lento e
supplichevole.
Il Martini chinò il capo
e socchiuse gli occhi. Stese la mano e strinse fortemente quella di
Demetrio, parlandogli vivacemente cogli occhi negli occhi. Sapeva
che anche Cesarino aveva lasciata la famiglia in gravi imbarazzi ed
esitava ad accettare; ma Demetrio lo persuase a non dir di no, non
tanto per la cosa in sé, quanto per la pace dei vivi e dei
morti. Poi soggiunse:
"C'è qui una sua
figliuola che vuol essere quasi perdonata per il riposo di una
pover'anima. Se permette...."
Andò all'uscio, fe' un
segno ad Arabella, che sulle prime non ebbe la forza di muoversi.
Alzò il viso inondato dal guancialetto, e, sentendosi
chiamare, si alzò, consegnò la bimba alla vecchietta,
che la guardava con un senso di meraviglia, e dopo tre o quattro
passi involti e legati, sul punto di varcare la soglia, si
sentí come presa alla vita e vivamente trasportata dalla
forza invisibile che l'accompagnava. Corse, quasi volò
incontro a quel signore pallido vestito di nero, gli gettò le
braccia al collo con affettuoso abbandono, si attaccò a lui
con tutta la forza, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli
occhi, sospirando: "Ci perdoni...."
La vecchierella sull'uscio
crollava il capo nella sua cuffietta bianca, col guancialetto
dimenticato sulle braccia.
Lo zio e la nipote, senz'altre
spiegazioni, uscirono da quella casa piú consolati, e strada
facendo l'una si attaccava al braccio dell'altro con un senso di
piú domestica intimità. Non si dissero una parola fino
a casa: ma due persone non avevano mai parlato e non s'erano mai
capite tanto.
Prima di andare a letto, quella
stessa notte, Arabella si chiuse nella sua stanza e scrisse una
lunga lettera a Paolino delle Cascine, suo benefattore. Finiva col
dirgli: "Non cesserò mai di pregare il buon Dio e il mio
Angelo custode, perché possano essere esauditi tutti i voti
del suo cuore. Ella ha fatto una grande carità a me, a' miei
fratellini, alla mia disgraziata mamma, al mio povero papà".
E mentre scriveva il nome del
suo povero papà, le parve di udire un fruscío nella
stanza e vide la fiamma della candela piegarsi da una parte quasi
mossa da un sottile alito di vento.
PARTE TERZA
PAOLINO DELLE CASCINE
I
Paolino delle Cascine da
qualche tempo pensava di mettere il capo a partito e di prendere
moglie una volta per sempre.
Già, è un passo
che bisogna fare, e piú ci si pensa, meno ci si riesce. Gli
anni passavano anche per lui e ad aspettar troppo si arrischia poi
di mettere i buoi dietro al carro.
Era in questi riflessi, quando
capitò, come s'è visto, improvvisamente la vedova
Pianelli. Sulle prime non fu nulla; ma passata la sorpresa, e
specialmente quando ella fu partita, egli cominciò a sentire
il cuore in disordine, a vedere l'immagine di quella donna
dappertutto, come un luminello bianco dopo che si è guardato
nel sole, che ti resta nella pupilla, che vedi sempre anche nel
buio, anche a chiudere gli occhi, anche a cacciare la testa sotto un
cuscino.
Quest'apparizione
imbrogliò i suoi progetti. Tutte le altre ragazze dei
dintorni, sulle quali da un pezzo in qua andava raccogliendo il
pensiero, divennero, al confronto della bellissima vedova di Milano,
figure scialbe di camposanto.
Quella donna l'aveva commosso,
gli aveva rotto il cuore con quel suo piangere sfrenato, con quelle
scene di tenerezza e di dolore. Quando essa si tirava vicini i
ragazzi, e se li stringeva al cuore, Paolino scappava sempre nei
prati a piangere anche lui come un ragazzo.
Ora che Beatrice non c'era
piú, sentiva una specie di caverna di dentro. Prova a
ragionare, se puoi, in queste faccende!
Capiva anche lui che una cosa
è prendere moglie secondo le regole di natura e un'altra
è sposare una vedova con tre figliuoli. Per quanto un uomo
sia ben provveduto del suo, per quante ragioni il cuore metta
all'ordine del giorno, tre figliuoli son sempre tre figliuoli. La
gente vuol parlare, e Paolino, animo già non troppo
coraggioso, si sentiva impaurito dal pensiero delle ciarle che si
sarebbero fatte.
Ma ormai non sapeva pensare ad
altro. Non mangiava piú, usciva la mattina col cappello
tirato sugli occhi, prendeva una strada qualunque attraverso i
prati, andava un gran pezzo, coi piedi nell'erba, col capo nelle
nuvole, finché, sentendosi isolato nella silenziosa
solitudine, si metteva a sedere sul margine di una riva o d'una
gora, all'ombra d'un salice, cogli occhi fissi al bigio orizzonte,
dove tra due fusti esili di pioppo si disegnava nello sfondo
nebbioso di Milano la guglia sottile del Duomo.
La sua esistenza era là,
tra quei due tronchi, su quella guglia sottile.
Non si può dire il bene
che gli aveva fatto la letterina di Arabella. Se la teneva sempre
con sé, nel portafogli, sul cuore, e nei momenti d'estasi la
leggeva dieci volte di fila, a voce alta, provando quasi un senso di
freschezza, un refrigerio ai suoi tormenti nelle parole
dell'innocenza. Dio parla spesso per la bocca dei fanciulli. Anche
Sant'Ambrogio, dice la storia, fu nominato arcivescovo per la bocca
di un bambino.
Ma a momenti di gioia
succedevano altri momenti di sfinimento, di tristezza, di
disperazione. Egli era un matto a credere che Beatrice volesse
rimaritarsi, o anche, dato il caso, che volesse sposare un villano
delle Cascine, prendere sul serio un Paolino qualunque, una donna
come lei, abituata alla vita di Milano, una donna molto elegante,
una donna ancor giovane e fresca, una donna, insomma, che poteva ben
sposare un conte, un banchiere, un consigliere di prefettura.
La nessuna voglia di mangiare
in un uomo, che di solito divorava il suo pane di quattro soldi per
antipasto, rese pensierosa la buona sorella Carolina, che una sera,
coltolo solo nell'orto, lo tirò sotto un capanno di zucche e
cominciò a dirgli colla sua flemmatica bontà:
"Tu hai qualche dispiacere,
Paolino."
"Io no."
"Sí, tu hai qualche
dispiacere che non vuoi dire."
"Ti dico di no."
"C'è qualcuno che ha
detto male di te o che ti invidia?"
"Chi vuoi, cara te?"
"Hai venduto male le bestie?"
"Tutt'altro."
"Ti fan male le scarpe?"
"Mi vanno benissimo" disse
Paolino, mettendo innanzi un piede grande come un basamento.
"Allora è segno,"
soggiunse la sorella, posando le mani giunte sul grembiale "è
segno che vuoi prender moglie."
Paolino, appoggiate le due
braccia ai ginocchi e il volto ai due pugni stretti, disse con un
piglio sgarbato:
"Nel caso, non sarei io il
primo."
"Avresti dovuto già
farlo. Hai fissato l'occhio su qualcheduna?"
Paolino tentennò il capo
e fissò gli occhi in fondo in fondo sopra una siepe di
sambuco, che cominciava allora a vestirsi di verde.
"È la Teresina dei
Bareggi?"
Paolino disse di no col capo.
"Allora è la figlia del
fattore di casa Prinetti."
"Perché dev'esser
quella?"
"Perché viene tutte le
domeniche a messa alla Colorina."
"La voglio bella o niente."
"Che cosa vuol dire bella? Non
è il manico d'oro o d'argento che fa bella una scopa."
"Ah brava!" gridò
Paolino ridendo "tu paragoni una moglie a una scopa."
"No, faccio per dire che non
bisogna guardare agli accessori, quando ci sia il principale,
cioè salute, religione e voglia di lavorare. Queste signore
della giornata, che escono dalle monache, che mettono le mani sotto
il grembiale tutte le volte che hanno bisogno di traversare la
corte, che svengono se vedono uccidere un cappone, che non sanno
spennacchiare una gallina, sono buone per i signori milanesi, per i
signori impiegati. Tu hai bisogno di legno forte e stagionato."
Paolino, stringendo tra i due
indici la canna del naso, lanciò di sottecchi un'occhiata
alla sorella, per indovinare se parlava a caso o di proposito.
"È di Lodi questa tua
bellezza?"
"No."
"Di Melegnano?"
"No, cioè no e
sí."
"Di San Donato?"
"Oibò."
"Di Milano?"
"Sí, cioè...."
Paolino tirò un sospirone.
"La conosco io?"
"Diavolo!..."
"Uhm!"
La Carolina, che, sotto alla
sua pacifica bontà era avveduta e furba, finse di non sapere
orientarsi, per rendere la sua meraviglia ancora piú
meravigliosa, quando Paolino mettesse fuori il nome di Beatrice. Per
la buona donna questo matrimonio sarebbe stato naturalmente una
disgrazia.
Paolino capí il
significato della reticenza e tagliò corto:
"Se non indovini, è
segno ch'io son matto da legare. Non parliamone piú."
Lí in terra c'era un
pezzo di mattone. Paolino lo raccolse, lo palleggiò un
momento nelle mani e con un'energia vera da matto disperato lo
tirò in una siepe di mortella, facendo correre e cantare
tutte le galline che pascolavano nell'insalata nuova. Capiva
benissimo che una donna saggia e prudente non poteva consigliare a
un buon figliuolo di sposare una vedova con tre ragazzi. Capiva
benissimo che il matto era lui e perciò si sarebbe lapidato
colle sue mani.
Voltò via e non si
lasciò piú vedere per ventiquattro ore.
Finalmente pensò di
parlarne a Demetrio, il solo che poteva dargli un consiglio sincero
e disinteressato. Demetrio gli voleva bene, si conoscevano da un
pezzo, erano due fave dello stesso guscio. A parlare non si fa
peccato, e le passioni bisogna tirarle fuori e metterle all'aria, se
si vuole che perdano le pieghe. Senza dir nulla alla Carolina, il
giorno preciso di Pasqua di Risurrezione, scappò a Milano.
O sarebbe risuscitato anche
lui: o se doveva essere sepolto, meglio morto e sepolto, che vivere
infilato sopra uno spillo.
II
Lo stesso giorno di Pasqua,
Demetrio, dopo aver scritte e riassunte le spese della sua azienda
domestica, usciva di casa con animo scoraggiato. La sera prima aveva
dovuto ancora alzare la voce con sua cognata, che non voleva
permettere che Mario entrasse nell'Orfanotrofio, dove, diceva, non
vanno che i figli dei ciabattini. Era stata una nuova scena
dolorosa, disgustosa, in cui Demetrio aveva dovuto ingrossare la
voce e quasi bestemmiare il nome di Gesú Cristo. La pazienza
ha i suoi limiti. Anche a lui piangeva il cuore di dover mostrarsi
duro e inesorabile, e magari avesse potuto mantenerli tutti a
biscotti e gelatine! ma, davanti alla necessità, davanti al
pericolo di morir di fame, benedetto l'Orfanotrofio, benedette le
raccomandazioni dei benefattori!
Scorrendo la lista delle spese
fatte durante quella triste quaresima, sentiva scorrere l'acqua
fredda nella schiena.
Oltre al debito grosso verso il
cugino, che un giorno o l'altro bisognava pur pagare, Demetrio nella
sua miseria aveva dato fondo ad altre tre mila lire sue, messe in
disparte per l'avvenire, frutto di pazienti e lunghe economie, vere
gocce di sangue stillato da una vita povera, senza piaceri, senza
passioni, senza capricci, economizzando il quattrino giorno per
giorno, sul caffè, sul tabacco, sul companatico, sul filo e
sui bottoni dei suoi vestiti.
Pasqua era qui. Domani egli
doveva trovarsi col padrone di casa e regolare un'altra scadenza, o
il padrone avrebbe sequestrato il letto e la pentola della minestra.
Dove trovarle cinquecento lire lí sulla mano?
E s'adirava di piú,
perché, mentre egli si struggeva il cuore in questa maniera
per salvare un pagliericcio agli orfanelli, quella stupida donna,
quella maledetta donna, continuava a congiurare sotto mano contro di
lui, non capiva bene in che modo, ma era una congiura in cui entrava
la Pardi, l'Elisa sarta, il sor Isidoro, il diavolo... E pazienza
gl'intrighi! Essa faceva di tutto per rivoltargli contro l'animo dei
figliuoli.
Mario aveva già
dichiarato con una strana insolenza che egli non voleva entrare in
gabbia coi ciabattini. Essa metteva odio e antipatia dapertutto
contro di lui, fin presso i bottegai e presso i vicini di casa che,
incontrandolo sulle scale, si tiravano un passo indietro e lo
guardavano in cagnesco come si guarda l'aiutante del boia.
"Ah, Signore Iddio!" pensava
col capo basso "ci vuol proprio una gran fede per resistere! Aveva
ragione il cavaliere: io mi mangerò il fegato, mi
ridurrò in camicia e mi farò maledire. Se non fosse
per quei poveri ragazzi, che non hanno colpa, a quest'ora sarei
già scappato in America."
Veniva su verso la piazza
Beccaria, urtando sotto le scosse del suo pensiero il muro, quando
si sentí a un tratto arrestare da due braccia, che caddero
dure e rigide sulle sue spalle come due timoni di carrozza.
"Sei tu, a Milano, oggi?"
"Sono venuto a confessarmi in
Duomo" rispose Paolino ridendo.
"Segno che hai dei peccati
grossi."
"Hai fatto colazione?"
"Non ancora."
"Allora vieni con me al Numero
Cinque in piazza Fontana e la faremo insieme."
Paolino delle Cascine era
vestito come un signore, con uno stiffelio di panno nero, aperto
sopra un panciotto di velluto rossigno a fraschette, una cravatta
bianca a bolle rosse, i suoi guanti neri, il suo cappello rotondo di
feltro inglese, e una magnifica catena d'oro a grossi anelli che
attraversava la bottoniera.
"Ti sei già messo in
abito d'estate e ti sei fatto radere come uno sposino" disse
Demetrio.
"Primavera innanzi viene..."
cantarellò il buon Paolino, cacciando il suo lungo braccio
nel braccio del cugino per tirarlo verso piazza Fontana. "Sono stato
a casa tua e mi hanno detto che eri appena uscito... Che cosa
mangiamo? s'intende, paga Paolino."
Entrarono nella trattoria. Un
cameriere, che non aveva ancora finito di preparare le tavole, li
fece passare in una salettina appartata, stese in fretta una
tovaglia, e, mentre andava collocando i piatti e le posate, prese a
recitare la litania, che comincia di solito dall'osso buco e va a
finire agli scaloppini coi funghi.
Paolino non era di quegli
uomini che si contentano di ciò che viene offerto. Un uomo
non fa un viaggio apposta sul fresco la mattina di Pasqua, non
invita un caro parente per mangiare un osso buco qualunque.
"Tu comincerai" disse al
cameriere, "a portare un bel piatto di salame misto scelto; intanto
dirai al cuoco che faccia andare un risottino coi funghi, ma..." e
finí con una scrollatina delle dita in aria, che diceva
tutto. "Poi potremo discorrere di scaloppini, se piacciono a questo
signore..." e rivolgendosi a Demetrio dimandò: "Che te ne
pare?"
"Me ne intendo cosí
poco" rispose Demetrio con un atto raccolto di umiltà.
"Scaloppini dunque e una
frittatina rognosa doré? E vino?" chiese di nuovo,
rivolgendosi a Demetrio che si schermí.
"Mi garantisci il
Valpolicella?"
"Valpolicella vecchio, Barolo,
Caneto..." esclamò il cameriere con una serietà
superficiale, che nascondeva la voglia di scherzare.
"Ma forse è meglio il
bianco la mattina... C'è del Montevecchia? porta quello...."
Il cameriere uscí.
"Caro il mio caro Demetrio!"
esclamò Paolino, quando furono seduti l'un contro l'altro,
mettendo ancora le braccia sulle spalle al di sopra del tavolo.
"Avevo paura di non trovarti."
"Ti ringrazio ancora di quel
libretto della Banca che hai messo a mia disposizione."
"Senti, Demetrio, se fai di
questi discorsi a tavola, me ne vado."
"Se non vuoi essere
ringraziato, amen. La carità resta...."
"Io sono in collera con te. Tu
navighi in un mare di difficoltà, e non hai confidenza
nell'unico nipote di tua madre."
"Vedi se non ho avuto
confidenza...."
"Io ti ho portato un altro
libretto della Banca Popolare e mi devi giurare che lo adoprerai
come se fosse tuo...."
"Caro te, non posso
accettare...."
"Stia quieto, signor Pianelli,
che non intendo di regalare il mio denaro a nessuno. Servizio per
servizio, aspetta un poco, che metterò fuori il mio conto.
Intanto farai piacere a trovarmi un buon impiego per una ventina di
mille lire, che riceverò dopo la riscossa del frumento. Sento
parlar bene delle Azioni zuccheri... Fai tu; mi contento anche di
poco, quando sia un impiego sicuro. In secondo luogo verrai una
festa alle Cascine e mi aiuterai a fare il bilancio... Quei numeri a
me fanno venire il balordone... In terzo luogo... ma di questo
discorreremo dopo il salame."
Paolino riempí il
bicchiere del cugino e il suo d'un vinetto trasparente color
dell'ambra.
"Alla tua salute, Demetrio...."
"Alla tua."
Paolino vuotò tutto il
bicchiere d'un fiato come uomo che ha bisogno o di smorzare la
polvere o di riscaldare il coraggio. Sul punto di fare un gran
discorso al suo confidente, sentiva che il cuore gli sfuggiva da
tutte le parti. Tuttavia fece un bell'onore al piatto di salame,
versò un altro bicchiere, stendendo ancora una volta le
braccia al di sopra del risotto fumante, e quando giunti a mezzo
degli scaloppini gli parve di essere sicuro in sella, uscí
fuori di punto in bianco con questa bomba:
"Che cosa direbbe mio cugino
Demetrio se gli dicessi che ho voglia di prender moglie?"
"Bravo!" esclamò
Demetrio con una vivacità, alla quale non era estranea
l'allegria del vin bianco. "Ben fatto! e perché hai aspettato
tanto? ne' tuoi panni, co' tuoi denari...."
"Colla mia bellezza..."
esclamò Paolino con uno scoppio d'ilarità,
abbandonandosi con tutta la persona sul dosso della sedia e alzando
le lunghe braccia in aria.
"Lasciamo stare la bellezza,
che per gli uomini non conta: ma tu sei nato per essere
papà."
"Assassino di strada!"
soggiunse l'altro guardandolo nel bianco dell'occhio.
"Chi è? chi è?"
si affrettò a chiedere Demetrio. "La conosco anch'io?..."
"Io non ho detto che ho trovata
la sposa, ma che voglio trovarla."
"È una parabola, si sa."
"No, no, Demetrio, non è
una parabola; e devi aiutarmi tu a cercarla."
"Io?"
Demetrio lasciò cadere
la forchetta sul tondo e guardò fisso in viso il suo
compagno.
"Sissignore, lei, signor
Demetrio Pianelli..." confermò Paolino, movendo a guisa
d'ariete un dito lungo a grossi nodi, come se volesse conficcare il
cugino sulla sedia.
"Io, volentieri: tu sei un
galantuomo, un ricco signore, non vecchio... Sei piú giovane
di me."
"Son del quarantotto? io non mi
ricordo nemmeno."
"Sei anche un bell'uomo."
Paolino tornò a
sghignazzare, mostrando tutti i suoi trentadue denti bellissimi e
sani.
"Non dico con ciò che tu
sia un astro..." aggiunse Demetrio ridendo.
Da quanto tempo non rideva
piú il meschino! Quel poco focherello di gioia, che
l'educazione, il mestiere, i casi e l'invidia degli uomini avevano
quasi soffocato sotto la cenere, si rianimava oggi al soffio
dell'amicizia. Nella gioia semplice e calda di Paolino, Demetrio
sgranchiva l'anima intirizzita; dimenticava i suoi guai, i suoi
debiti, il padrone di casa, sua cognata..., tutto, per un momento, e
sollevando il bicchiere sopra la tavola, esclamò:
"Allora, bevo alla salute della
sposa!"
"Piano, bisogna prima sapere se
lei è contenta."
"Dunque c'è una lei."
"C'è e non c'è.
Per fare gli gnocchi ci vuole la farina, si sa; ma bisognerebbe
sapere prima se lei è contenta di sposare uno scarafaggio
simile."
"È una contessa?"
"Cosa mi vai contessando...."
"Perché non devi essere
sicuro?"
"È ciò che vado
dicendo anch'io; ma ho paura...."
"Segno dunque che sei in...
innamorato."
"Corpo del diavolo!"
esclamò Paolino, picchiando un gran pugno sul tavolo, "ho fin
vergogna a dirlo. È vero. E dire che non ho mai creduto che
si potesse perdere la testa per una sottana. Va là,
farfallone, brucia anche tu le ali dorate, birbonaccio!"
La faccia di Paolino delle
Cascine, illuminata anche dai riverberi del vino bianco, s'era fatta
lucida e rubiconda.
Demetrio, lontano le cento
miglia dall'immagine dove sarebbe andato a finire quel gran
discorso, soggiunse:
"Difatti sei diventato magro."
"Quando ti dico che è
una birbonata. Io scherzavo gli altri, mi parevano cose impossibili,
cose che si scrivono sui romanzi, o che si mettono sul teatro tanto
per fare il duetto:
di quell'amor, di quell'amor,
ch'è palpito...
Riverisco, grazie del palpito.
Provassi, è una scottatura che non si guarisce col chiaro
d'uovo sbattuto. Tu perdi la fame, perdi il sonno, ti muoiono le
gambe, sudi sotto il cappello, vai di qua, di là, come un
matto, parli senza pensare, senza capire, e ti viene fino in nausea
il vino. Chi me l'avrebbe detto in principio di quaresima quando tu
me l'hai condotta alle Cascine? E veramente fin che restò a
casa mia, io non so, non mi accorsi. Quando ricevi una fucilata non
la senti cosí subito: il dolore, la botta venne fuori dopo la
sua partenza. Io la vedo in tutti i cantoni quella donna! Pare che
Dio mi abbia levata l'aria respirabile. Mi dò del matto, del
cento volte matto; ma non c'è verso che io possa togliermi
dagli occhi la sua figura. Cominciai a sentire un dolore, qui, sotto
le costole, e una mancanza, come se mi avessero tagliato un braccio,
poi una voglia di nulla, un affanno di respiro, una palpitazione di
cuore, una voglia di piangere...."
A questo punto gli occhi di
Paolino si velarono di lagrime, inghiottí un singhiozzo,
picchiò un gran pugno sulla tavola e voltò la faccia
dall'altra parte.
Demetrio, non sicuro d'aver ben
udite le parole del cugino, aprí la bocca a un oh! che non
venne, e restò come incantato.
"Lo so che sono uno scarafaggio
in suo confronto," continuò Paolino guardando in aria "e
voglio che tu glielo dica. Se è no, addio! mi sarò
strappato il dente. Ma se le buone intenzioni di un galantuomo
valgono ancora qualche cosa, tu potrai dimostrarle che Paolino Botta
non ha mai ingannato nessuno, e che se promette di dare un padre ai
poveri figli di Cesarino, è come se giurasse sul calice della
messa. Dille pure che venendo alle Cascine non dovrà fare la
massaia: grazie a Dio ho di che far fare la signora a mia moglie e
mandarla in carrozza. In quanto ai suoi figliuoli saranno miei e hai
una prova in questa lettera di Arabella che tengo sempre nel
portafogli e che avrò baciato cento volte a quest'ora. Se
anche stentasse a rassegnarsi a vivere in una cascina, l'anno
venturo scade il mio affitto e io posso andare a vivere dove
voglio... Io non so che cosa non son pronto a fare per quella... per
quella celeste."
Un altro singhiozzo
troncò a mezzo la frase che Paolino finí con un gesto
della mano in aria, simile a una benedizione.
"Tu vuoi parlare di Be...
Beatrice..." chiese trepidando Demetrio per paura d'ingannarsi
ancora.
"Eh!..." gridò Paolino,
alzando le due mani.
"O santa pace! tè,
tè...."
"Son matto?"
"No, no, tutt'altro, anzi... ma
guarda, tè, tè...."
"Non è possibile?"
"Io non avrei mai pensato; oh,
giusto! Una vedova con tre figliuoli...."
"Ma se ti dico...."
"Sí, sí, magari,
e sia lodato Dio! non sai che farei cantare una messa a San Celso
coi rivestiti?"
"Ah tu trovi?"
"Che c'è una
Provvidenza... tè, tè. Ma tu conosci bene Beatrice?
Capisco che nelle tue condizioni scompariscono certi difetti.
Magari, Jesus!"
"Tu mi dài qualche
speranza?"
"Dammi la mano, Paolino."
"Tutte e due, Demetrio."
"Se tu non sei l'angelo mandato
dal cielo, io non so che cosa sono gli angeli...."
Demetrio colla voce piena di
lagrime strinse al disopra della tavola le due mani di Paolino, che
dopo riempí i bicchieri e fece rinnovare il liquido.
I discorsi divennero subito
piú fitti, piú caldi, piú intimi.
Demetrio, man mano che vedeva
la possibilità e l'opportunità del progetto, si
sentiva alleggerire lo stomaco da un gran peso, da quel gran peso
che minacciava di schiacciarlo. Sí, sí, vedeva proprio
nella mano lunga di Paolino la mano di quella Provvidenza, di cui
non aveva mai disperato. Non era un matrimonio che si potesse fare
dall'oggi al dimani: bisognava preparare il terreno, e concedere
tempo al dolore della vedovanza. Intanto però era per
Demetrio un bellissimo aiuto l'alleanza di un uomo come Paolino
delle Cascine; e questi dal canto suo nell'alleanza di Demetrio si
sentiva tolto dal cuore quel sasso anche lui, che non lo lasciava
piú vivere.
I due cugini se la intesero.
Demetrio avrebbe scritto alla prima occasione propizia; ma prima
dovette promettere d'accettare un altro migliaio di lire come
anticipazione delle future spese. Non accettò veramente che
cinquecento lire per far tacere il padrone di casa.
Intanto era venuto
mezzodí. Paolino pagò il conto, salutò
Demetrio, che rimase solo a prendere il caffè.
Il signore delle Cascine,
coll'anima gonfia di contentezza, traversò svelto come un
uccello piazza Fontana, lasciando svolazzare le falde del suo abito
di panno, piegò verso porta Romana fino alle Due Spade dove
aveva lasciato il cavallo.
Era felice d'aver parlato e si
godeva quella felicità come un'anticipazione del resto.
Demetrio, rimasto seduto
davanti alla chicchera del caffè, seguitò un pezzo a
rimestare nella bevanda cogli occhi fissi ai vetri, assorto in un
pensiero senza contorni - tè, tè - nel quale si moveva
un'altra idea piú piccina e piú lucente, da cui
prendeva lume tutta la riflessione.
"Tè, tè."
In mezzo alle sue tribolazioni
egli non aveva mai disperato; però non se l'aspettava
cosí presto.
Ma che diavolo aveva in
sé quella benedetta donna, perché gli uomini dovessero
diventar matti per lei?
E senza cessare dal girare il
cucchiaino nella chicchera, seguitò, cogli occhi fissi ai
vetri:
"Che diavolo?"
Cesarino, una testa fantastica,
un romantico, si capiva! ma Paolino delle Cascine bastava guardarlo
in faccia per vedere che non era un poeta, tutt'altro, anzi era un
uomo positivo, quadrato nella base: eppure anche lui, a sentirlo,
aveva perduto l'appetito, il vino gli pareva cattivo, gli si
velavano gli occhi, gli dolevano le costole, gli tremavano le gambe,
e quella donna gli toglieva l'aria. Anche lui, tè,
tè...
Collo sguardo quasi cieco,
sperduto nei fumi della bella colazione, col pensiero inchiodato a
quel punto interrogativo che gli era spuntato per la prima volta in
cuore, tornò a chiedere:
"Che diavolo ha questa donna?"
In mezzo alle sue tribolazioni,
in mezzo ai suoi parenti, con un morto da portar via, con tanti
debiti da pagare, con tante amarezze da inghiottire, in una lotta
d'ogni minuto colla miseria, col pane, coi creditori, colle
prevenzioni, coi pregiudizi, colle antipatie, egli non aveva avuto
tempo di cercare in sua cognata la donna. Per lui essa non era che
un debito, il piú grosso, il piú pesante, quello che
non si poteva pagare in nessuna maniera e che tirava con sé
tutti gli altri: ma al disotto del debito c'era la donna. Che
diavolo aveva dunque mai questa donna...?
Il tocco profondo e vibrato
d'un orologio che gli stava sul capo lo svegliò dalle sue
meditazioni e gli richiamò alla mente che non aveva ancora
sentita la messa.
Uscí in fretta,
traversò in quattro passi la piazza Fontana, e presa la via
dell'Arcivescovado, per la porticina secondaria, dalla gran luce
esterna si rifugiò nell'ombra alta e solenne del Duomo, in
fondo alla quale uscivano i colori sanguigni e violetti di una
vetriata, tocchi e animati delicatamente dal sole.
Lo spirito alquanto scosso ed
esaltato di Demetrio si raccolse in quella grande cornice di ombre e
di colori profondi, e sotto quelle alte vôlte intrecciate,
nelle quali il pensiero corre senza perdersi. Là dentro anche
l'anima prende la forma di tempio: si svolge e si esalta,
giganteggia, fortificandosi nelle solide basi della fede.
Demetrio si appoggiò a
un pilastro, e si raccolse per ascoltare una messa ch'egli vedeva da
lontano tra una selva di colonne. Ma, un poco per l'eccesso del
bere, un poco per la novità delle cose udite, stentò a
formulare un atto di fede con attenzione. Se Paolino gli toglieva
questa spina dal cuore, egli avrebbe fatta cantare non una ma dieci
messe. Questo matrimonio sarebbe stato la liberazione di un povero
uomo incatenato.
In quanto a Beatrice non era
donna da pensarci troppo. Una buona vita in campagna, al di sopra
degli stenti, con buona tavola, bei vestiti, cavalli e carrozza, un
buon papà per i figliuoli, e poi la pace, la sicurezza per
sempre... altro che! non sono fortune che càpitano a tutte.
Anzi di solito càpitano a chi le merita meno. Se c'è
una povera ragazza brava, onesta, di talento, non trova un cane:
invece queste sans-souci, queste belle pigotte coll'anima di stoppa
trovano sempre chi le veste e chi le fa ballare...
"Orate, fratres" disse il
prete, voltandosi indietro colle braccia aperte.
Demetrio si accorse di essere
in chiesa e cercò di raccogliere la mente al mistero della
Santa Elevazione. Ma non era colpa sua se la testa usciva dai
finestroni. "Che diavolo hanno addosso queste benedette donne?"
Pensandoci un poco, e cercando di dare lí per lí una
risposta alla questione, gli pareva di non aver mai guardata bene
sua cognata, e di conoscerla soltanto attraverso a un velo di dolore
e di antipatia: e allora si guastano anche le piú belle cose.
Se invece avesse potuto considerarla con animo sereno, come Paolino;
se invece di torturarsi l'animo e il corpo per risolvere tutti i
giorni la questione della fame avesse potuto anche lui darsi il
lusso e il buon tempo di fare all'amore...
"Et ne nos inducas in
tentationem" recitò la voce sonora del celebrante, come se
rispondesse direttamente al soliloquio di Demetrio.
Questi tornò da capo a
rimproverarsi e cercò di ripigliare sé stesso, che
usciva troppo di chiesa per correre dietro a pensieri senza
costrutto. Ma prima che la messa fosse terminata, una strana,
irresistibile dialettica che spettegolava dentro di lui, lo condusse
un'altra volta a cercare la risoluzione d'un quesito, che s'imponeva
alla sua volontà e a tutti i suoi proponimenti: "Che diavolo
aveva dunque quella benedetta donna?"
III
Il giovedí dopo Pasqua
Arabella doveva fare la sua prima comunione.
Lo zio Demetrio si
svegliò piú presto del solito, e saltò
giú in fretta. Per la circostanza tirò fuori da un
cassettone un certo redingotto di panno nero bleu, che scosse fuori
della finestra per liberarlo da tutto il pepe che aveva dentro, e
trasse dall'astuccio anche un vecchio cilindro che non usciva da
molti anni a vedere il sole, ancora bello, se si vuole, ma
giú di moda... Mise al collo un fazzoletto bianco, si fece la
barba, e prima delle sette corse in Carrobio con un vivo desiderio
di esserci. Non si fermò che un momento in via delle Asole
dall'Albizzati, dove comperò alcune immagini col pizzo e un
angelo di biscuit colla piletta dell'acqua santa per regalarlo alla
nipotina.
Demetrio non era avaro. Anche a
lui piaceva fare dei regali, se avesse potuto spendere. Bel merito
di farsi voler bene, quando si hanno i denari del signor Paolino
delle Cascine! A lui invece era sempre toccata la maledetta sorte di
tribolare per gli altri, per farsi odiare. Ma poiché da
qualche parte questa fortuna stava per arrivare, voleva far vedere
che anche lui sapeva essere grande e generoso. Non c'è
mestiere piú bello che fare lo zio d'America.
A Beatrice non aveva detto
ancor nulla dei grandi discorsi di Paolino; ma farse era arrivato il
momento di lanciare una prima parola. In un giorno di festa e di
pace, in cui di solito si mettono in disparte i rancori e i
corrucci, non era difficile trovare il momento per avviare un
discorso di tanta importanza.
Arrivò in Carrobio
mentre i ragazzi stavano vestendosi. Trovò Mario e Naldo in
cucina che s'impegolavano le mani e la faccia col lucido, con cui
cercavano di rendere pulite le scarpe. Lo zio arrivò a tempo
a dar loro una mano.
"È vero, zio, che
Arabella oggi diventa il tabernacolo dello Spirito Santo?" disse
Mario. "L'ha detto il predicatore ieri sera."
"Sicuro."
"Naldo non voleva credere."
Il piccolo miscredente si pose
a ridere. Gli pareva una parola cosí strana questo
tabernacolo...
In quella entrò
Ferruccio. Anche il bel ricciolone doveva presentarsi per la prima
volta alla Sacra Mensa e s'era lavato il muso e le mani in un modo
straordinario. La signora Grissini gli prestò per la
circostanza, un vestito d'un suo figlio morto vent'anni innanzi, e
cosí aggiustato con certi guantini bianchi, che gli
squarciavano e gli indurivano le dieci dita delle mani, Ferruccio
venne a cercare Arabella.
Essa gli aveva promesso un bel
cravattino bianco. La fanciulla, sentendosi chiamare, venne un
momento in cucina, avvolta in una nuvoletta bianca, cioè in
un vestitino a blonde leggiere con pizzi volanti, con un velo
appuntato nei capelli. Se avesse potuto vederla il suo papà,
che era tanto ambizioso di quella sua bellezza! Che caro angiolino
con quei capelli color del lino, sciolti sulle spalle! Lo zio
Demetrio sentí una mano che gli carezzava il cuore, una mano
di velluto.
Arabella si fermò il
tempo di mettere la cravatta a Ferruccio, che lasciò fare,
stando ritto in mezzo alla stanza. Le piccole mani della fanciulla
si agitarono un poco, il nodo fu fatto, accomodato: aggiustò
anche la capigliatura cespugliosa del ragazzo coll'aria materna di
chi dà due scappellottini.
"Sta raccolto e pensa alla tua
mamma" gli disse.
Ferruccio rispose di sí
col capo. Se egli aveva capito qualche cosa della Santa Eucaristia,
lo aveva imparato in quei giorni da Arabella, che accesa di
carità non voleva che Ferruccio per ignoranza commettesse
qualche sacrilegio. Il ragazzotto era capace anche di far colazione
prima di ricevere il Signore. Ma ora aveva capito bene quel che
doveva fare.
"To', ti ho portato un
angiolino" disse lo zio, scartocciando il suo bel regalo.
Arabella lo accolse con un
piccolo grido di gioia:
"Com'è bello! Troppo
bello, zio... Grazie!"
Si alzò sulla punta dei
piedi e baciò lo zio sulla fronte.
Demetrio a quel contatto di
piuma sentí una freschezza ineffabile per tutta la vita e
insieme un profumo di... come dire? un profumo di anima.
A San Lorenzo ripigliarono a
suonare a festa.
"Presto, ragazzi, che non
c'è tempo da perdere."
Demetrio, caduto in mezzo a
quella brigatella di ragazzi, sentiva al di sotto della roccia
indurita scorrere, come un fiume, una profonda commozione che
cercava modo di uscire. Se non che la vecchia e scontrosa
volontà faceva forza e premeva giú. L'uomo selvatico
chiudeva strettamente la bocca per non dare adito all'emozione e
cercava di mutare la compunzione in un senso di corrucciata
impazienza.
"Fate presto, dunque"
tornò a ripetere. "La mamma non è pronta?"
A lui il destino non aveva mai
concesso una giornata serena, nemmeno nella fanciullezza. Arabella
era la prima ragazzina che osasse alzare le braccia a lui e baciarlo
sul viso. Nella sua povera vita, secca come una siepe d'inverno, non
era mai passata una sola farfalla.
Naldo volle che lo zio gli
allacciasse una scarpetta.
Lo zio lo fece sedere sul
tavolo e prese in mano la gambetta del bambino.
Mentre egli stava ancora tutto
intento a infilare la stringa negli occhielli, Beatrice, avvertita
da Arabella che non c'era tempo da perdere, venne tutto ad un tratto
in cucina a prendere un secchiello d'acqua.
Non aveva sentito che Demetrio
fosse lí; e venne come si trovava, cosí in sottanino,
colle braccia e colle spalle scoperte, cosí come s'era
distaccata dalla catinella.
Vedendo suo cognato, si
confuse, sorrise, balbettò qualche parola di scusa, le sue
spalle diventarono di fuoco, e tornò indietro ridendo,
lasciando sulla soglia il secchiello vuoto, che Mario portò
in stanza pieno d'acqua.
Demetrio, non sapendo se
dovesse ridere e chiedere scusa, o che cosa fare, seguitò a
infilare la stringa negli occhielli con una contrazione del viso
rigida e dura, che gli indolenziva i muscoli e gli zigomi della
faccia.
Una settimana prima,
quell'apparizione bianca e rosa non gli avrebbe fatto alcun effetto:
ma adesso, dopo che quell'asino di Paolino era venuto a contargli
cento storie d'incantesimi e di stregherie, quell'apparizione pareva
quasi una risposta a una dimanda, fatta già piú volte
a sé e alla quale non si era mai sentito obbligato di
rispondere. Un gran calore, come se fosse dall'uscio divampata una
fiammata, inviluppò il suo corpo. Sentí la fiamma al
viso, il suo corpo tremò e vibrò un pezzo come il filo
di un parafulmine dopo lo scoppio. Qualche cosa come una nebbia si
stese tra lui e la luce del sole.
"Andiamo, andiamo..." disse
cacciando avanti i due maschietti e la bambina, ai quali si aggiunse
da basso Ferruccio.
Il Berretta per la circostanza
s'era messo in abito d'estate, e andava alzando le mani come se
volesse dire qualche cosa, quantunque fosse certo di non aver nulla
da dire.
"Sor Demetrio..." disse
salutando, aggiungendo anche una risatina.
Stettero ai piedi della scala
ad aspettare la mamma ch'era sempre in ritardo. Finalmente quella
benedetta donna si sbrigò, chiuse l'uscio e venne giú
correndo, mentre infilava i guanti.
Aveva indosso un vestito non
interamente di lutto, ma il piú scuro di quanti aveva potuto
sottrarre all'avida avarizia di suo cognato. In testa non aveva che
un velo grande, accomodato colla grazia che le lombarde sanno dare
al velo, con molte pieghe che si annodavano quasi da sé sopra
una spalla, dove scintillava un grosso B di metallo bianco.
Beatrice cercò d'essere
la prima a salutare suo cognato per non portare in chiesa, in un
giorno come questo, un senso cattivo di avversione e di antipatia.
Arabella diede il braccio alla mamma e andò avanti. In mezzo
si misero i ragazzi e in fondo chiudevano la processione Demetrio e
il Berretta, che non sapeva dove collocare quelle benedette mani.
Dal Carrobio alla parrocchia di
San Lorenzo sono quattro passi, che Demetrio percorse senza pensare
letteralmente a nulla. Alzò un momento gli occhi alle famose
colonne romane, avanzo delle terme di Massimiliano Erculeo, mentre
il Berretta gli diceva che stavano bene, ma che impedivano il passo.
Due o tre volte cercò con un'occhiata rapida e fuggitiva la
madre e la figlia che camminavano innanzi... Ma non pensò
nulla di preciso. Solamente si sentiva un poco riarsa la pelle della
faccia.
Nel cortile che sta davanti
all'insigne basilica trovarono delle conoscenze: il maestro
Bonfanti, che doveva far cantare un suo mottetto, e Giovann
dell'Orghen, venuto per tirare i mantici. In tutta Milano, che
è grande, non c'era una mano piú grande di quella di
Giovann dell'Orghen, che, essendo sordo, non si lasciava menar via
il capo dalle onde della musica.
"Che figuretta! tutta la
mammina" disse il maestro all'Arabella, che nell'abito largo di
pizzi pareva ingrandita.
C'erano anche i coniugi
Grissini, i vicini di casa.
La Signora Barberina a veder
Arabella si sentí venir le lagrime agli occhi e non
poté dire che una frase:
"El mè angiolin."
Il signor Grissini, archivista
in riposo, assiduo lettore della Storia della Rivoluzione francese,
stava in un certo riserbo, come chi ha le sue idee a parte, pur
rispettando quelle degli altri.
La facciata della chiesa era
addobbata di festoni bianchi, azzurri, rosei, con orlature
d'argento, e in mezzo a queste un gran cartello invitava le anime
giovinette a pascersi del pane degli angeli.
Era una giornata proprio
d'aprile, piena di quel sole che schiude l'animo alle speranze della
stagione.
Passata la soglia della chiesa,
li accolse un tiepido profumo di rose e di gigli. Sotto la gran
tazza della cupola, che copre la rotonda, erano state preparate le
Sacre Mense, in mezzo a cespugli di sempreverdi e di fiori.
L'altar maggiore brillava nella
luce del sole che, passando attraverso a tende bianche, andava a
sbattere sopra un padiglione bianco, nel quale cozzavano i diversi
bagliori dei candelieri, dei vescovi d'argento e dei fregi d'oro del
tabernacolo.
Anche sull'altar maggiore,
negli spigoli, sulle gradinate, dappertutto, vasi, cespugli verdi,
rose, gigli.
Sopra quella festa allegra di
colori chiari giravano le brune arcate di quel massiccio tempio alla
romana, colle sue profonde tribune e coi balaustri e le forti
costolature di pietra.
Sebbene la cerimonia non fosse
ancora cominciata, già molte testine bionde e nere erano
abbassate in un pio raccoglimento, i maschi da una parte, le bambine
dall'altra. Arabella colla mamma passò a sinistra. Demetrio
coi maschietti e col Berretta a destra, in mezzo alla folla che
andava raccogliendosi.
Arabella in tutti i suoi passi
sentivasi seguita dall'ombra del suo papà. Aveva promesso di
offrire tutti i meriti e tutte le indulgenze del Sacramento in
sollievo dell'anima sua: ed ora, nel momento che il Signore stava
per discendere fino a lei, la povera orfanella avrebbe voluto
offrire il cuore in olocausto.
Venti ragazzi sulla cantoria
intonarono il Salutaris ostia Tutte le testoline raccolte intorno
alla Mensa si piegarono avvolte nell'onda mistica di quelle voci
bianche. Arabella sola guardava l'altare e pregava, fissa, cogli
occhi quasi allucinati. Diceva colla voce del cuore: "Prenditi la
mia vita, fammi morire adesso, ma salva l'anima sua" e quasi le
pareva di sentire una mano fresca e leggiera posarsi sulla spalla.
L'anima era lí dietro, come una persona che aspetta con
pazienza.
L'organo, dopo aver
accompagnato i celebranti col suono ripieno delle sue canne
maggiori, attenuò a poco a poco le voci, introdusse suoni
teneri e palpitanti di flauto e di voce umana. Globuli d'incenso si
svolsero e si colorirono nel raggio obliquo del sole, che traversava
lo spazio e andava a risplendere sui marmi colorati del pulpito.
Demetrio, intenerito,
cercò cogli occhi Arabella per associarsi a lei nei frutti
del Sacramento.
Dietro la fanciulla vide
Beatrice e accanto un'altra signora magra, che riconobbe per la
Pardi.
Beatrice, col libro delle
preghiere aperto nelle mani, colla testa e le larghe spalle diritte,
avviluppata anche lei dalla dolce commozione di quelle voci bianche,
leggeva, alzando di tanto in tanto le larghe palpebre. Il velo,
nelle sue ombre molli e oscure, attenuava un poco la
materialità della sua bellezza di provincia, ne alleggeriva
un poco la corporatura, la sollevava insomma verso quel che i poeti
chiamano l'ideale. Chiudeva il libro, tenendovi dentro l'indice,
recitava un gloria colle labbra, abbassando un poco la testa fino a
toccare col naso il velluto cremisi della sua Via al Cielo, tornava
a rialzare il capo, a riaprire gli occhi sereni e buoni verso
l'altare.
Che avesse ragione Paolino?
La Pardi non stava mai
tranquilla, e, piú di una volta, da vero diavolo tentatore,
cercò di far ridere Beatrice sul conto di quel bellissimo suo
cognato in redingotto. Dio, che bellezza!...
Beatrice una volta le fece
segno di finirla. La diavolessa s'inginocchiò in terra e si
raccolse in una fervida preghiera.
Il Signore stava per discendere
in mezzo agli innocenti.
I ragazzi del coro cominciarono
un soave: O sacrum convivium, a sole voci, che richiamò la
mente di Demetrio dalle strane divagazioni in cui cominciava a
perdersi.
Stese in terra il suo
fazzoletto di cotone, fresco di bucato, s'inginocchiò e
strinse l'anima sua a pensieri piú casti e religiosi.
"C'è una grande
Provvidenza al di sopra delle nostre tegole, delle nostre miserie e
della nostra presunzione, e soltanto chi la nega è indegno di
meritarsela.
"È questa fede nella
forza superiore che sorregge il povero zoppo nel momento che perde
il suo bastone, che trae a riva il naufrago nell'atto che la sua
barca sta per affondare, che versa la consolazione nella lampada del
cuore.
"Tu fa il bene per il bene e
lascia che Dio aggiusti il conto. Dio è un ricco cassiere che
non scappa mai.
"Non è l'arte del saper
vivere che fa, ma il viver bene, anche sbagliando.
"Il bene che tu fai nella buona
intenzione e nella carità del prossimo non si perde mai. Se
hai speso tutto il tuo denaro per isfamare gli infelici, se ti sei
spogliato quasi ignudo per vestire gli orfanelli, se hai asciugato
le lagrime della vedova...."
Demetrio alzò un momento
la testa e lanciò un'occhiata ancora a quella donna, che
spiccava sopra il fondo marmoreo del pulpito...
"Se hai fatto del bene,
ringrazia Dio che ha voluto procurarti le occasioni e t'ha preferito
al ricco e al potente.
"Non invidiare dunque la
fortuna del tuo vicino, salva il tuo credito intatto per
l'eternità, e non lasciarti deviare dalle concupiscenze."
"Zio Demetrio, è adesso
che Arabella diventa un tabernacolo?" chiese Naldo pian pianino con
una voce commossa.
Arabella aveva nel cuore il suo
Signore e se lo teneva ardente e stretto colle mani. Tutto l'essere
suo era una fiamma, una soavissima fiamma d'amore, che s'irradiava
visibilmente attraverso le rosee carni e alla nebbia del velo.
Beatrice sentí gli occhi riempirsi di lagrime, e con quegli
occhi lucenti andò a cercare gli altri figliuoli quasi per
trarli anch'essi nella dolce comunione degli spiriti. Demetrio, che
s'era tolto Naldo in braccio perché potesse vedere piú
bene, sentí a quello sguardo correre una scintilla per tutto
il corpo, e gli parve che la chiesa si riempisse di fiammelle e di
frantumi di vetro.
"Che cosa era venuto a dire
quel benedetto Paolino?"
Nell'uscire di chiesa egli
provò una dolce vertigine, come se il profumo di tutti quei
fiori lo avesse soavemente inebbriato, o fosse veramente disceso
anche in lui uno spirito santo a rischiarare le povere pareti della
sua vita interiore.
Mamma, figliuoli e amici
s'incontrarono di nuovo davanti la chiesa in mezzo al gran bisbiglio
della gente che usciva.
I bambini saltarono al collo di
Arabella, si baciarono, fecero un lieto chiasso.
Beatrice col viso ancor fresco
di lagrime venne lei per la prima a stendere la mano al cognato e
disse qualche parola per avviare la pace, parola che Demetrio non
afferrò.
"Sí, sí,
sí..." egli seguitava a ripetere, e rideva di quel riso che
non esce dalla bocca e par che indurisca le mascelle. Sentiva anche
lui una punta come quella d'un bastone schiacciato tra una costola e
l'altra. "Sí, sí, sí..." tornò a dire in
seguito a qualche cosa che Beatrice gli domandò e di cui non
arrivò ancora a prendere il senso.
Quel gran sole di fuori lo
abbagliava, lo stordiva; scosse il capo per togliersi d'addosso la
vertigine, e gli parve, fra tanti veli bianchi che lo circondavano,
di trovarsi perduto in mezzo a una nuvola.
Scambiati i saluti e i
complimenti coi Grissini, colla Pardi, col Bonfanti, la nostra
brigatella, coi ragazzi davanti in crocchio, si avviò verso
il centro. Lo zio Demetrio voleva pagare a tutti la colazione al
caffè Biffi in Galleria. I ragazzi parlarono tutti insieme
(c'era anche Ferruccio) saltando intorno all'Arabella, che col
Signore in corpo mandava la contentezza attraverso alla nuvola
bianca del suo velo.
Demetrio camminava a fianco di
Beatrice, distaccato, sui ciottoli, per lasciare tutto il
marciapiede a lei; e pareva soltanto occupato a curar le carrozze,
che sbucavano da tutte le parti.
"Che bella giornata!" disse
egli dopo un bel tratto, alzando gli occhi e facendo un mezzo giro
sulle gambe.
"Bello essere in campagna!"
osservò Beatrice.
"Proprio davvero... Guardate
alle carrozze!"
Camminarono un altro poco in
silenzio. Demetrio una volta si specchiò in una vetrina e non
si riconobbe subito. Non era abituato a portare il cilindro e a far
da cavalier servente a una bella signora. Beatrice osservò
per conto suo che la cerimonia non poteva essere piú
commovente, che pareva un giardino la chiesa.
"Proprio davvero!"
esclamò Demetrio, mentre si domandava in cuor suo se non era
il momento di buttar fuori il nome di Paolino e di tirare il
discorso sul famoso argomento; ma appunto in quel momento
uscí una carrozza da una delle vie laterali e lo zio corse a
prendere Naldo. Beatrice si trovò a fianco di Arabella, che
si attaccò al braccio della sua bella mammetta.
"Ho pregato tanto anche per te,
mamma."
"Brava."
In quel benedetto crocevia
della piazza del Duomo, da dove si irradiano gli omnibus e i tram,
lo zio prese per mano anche Mario e gridò alle donne: attente
alle carrozze! Pareva il capitano che salva la nave dagli scogli, e
gli deve esser passata questa idea nella mente.
Entrarono nella Galleria.
Non c'era molta gente in
quell'ora mattutina - lo zio osservò che l'orologio in cima
all'arco segnava le otto e mezzo. - Il bel mosaico del pavimento,
quasi sgombro, spiccava in tutta la nitidezza de' suoi marmi e de'
suoi arabeschi nel chiaro riverbero che il cupolone di vetro, tocco
dal sole, sbatteva nel vasto ambiente, sui cristalli dei negozi, sui
globi, sugli ori delle ditte, sugli stucchi delle pareti liscie come
specchi, su tutto ciò che poteva prendere e rimandare la luce
in un giuoco di luci. Una fresca arietta volava attraverso ai bracci
dell'edificio, che pulito e splendido, si preparava a una nuova
giornata della sua vita rumorosa ed elegante.
Beatrice, che da molti mesi non
poneva il piede in quel magnifico salone pubblico, sollevò
con un sospiro un monte di meste ricordanze, ma si lasciò
subito prendere dalla curiosità delle belle botteghe, dove
brillavano i gioielli, le porcellane, i ventagli, gli specchi e le
avrebbe fatte passar tutte, se i ragazzi non avessero reclamato.
Oltre la fame, Demetrio voleva esser all'ufficio per le nove.
Entrarono subito al Biffi che rimesso a fresco da poco tempo con
stucchi nuovi, specchi nuovi, velluti nuovi, pareva un pezzo di
paradiso. Sedettero a un tavolino presso uno dei grandi cristalli
che dànno sull'ottagono, da dove si può vedere il
vasto piazzale pubblico, con tutte le botteghe in giro, con sopra la
tazza immensa e trasparente della cupola, un vero barbaglio per chi
ci va una volta tanto.
Beatrice si rimirò
subito nello specchio di fronte, badò a sedersi bene, lieta
in cuor suo - senza dirlo a sé stessa - perché i
camerieri s'erano voltati tutti al suo entrare. Al Biffi era venuta
l'ultima volta col povero Cesarino la vigilia di Natale, ma s'era
angustiata per un ufficiale di cavalleria, che non aveva mai cessato
di fissarla come se avesse voluto bruciarla cogli occhi. Cesarino
finí coll'accorgersene e nel tornare a casa l'aveva fatta
piangere.
"Pren... prendete un
caffè e latte?" domandò Demetrio, guardando in terra.
"Un caffè e panna,
volentieri" rispose Beatrice.
"Allora, uno, due, tre,
quattro, cinque e sei caffè e panna," disse al cameriere,
contando col dito teso gl'invitati, "del pane e quattro paste...."
E sedette in faccia a Beatrice,
senza accorgersi che tre o quattro camerieri in fondo alla sala
sbirciavano, ridendo sotto i bei baffi, il redingotto e il cilindro
ancor nuovo fiammante.
Mentre si aspettava, lo zio,
che aveva il cuore contento, prese un'orecchia di Naldo tra le dita
e la tirò. Poi si voltò a guardar fisso in faccia
all'Arabella, come se pretendesse una risposta a una domanda che non
aveva fatto. Guardò in alto il cupolone, e una volta
l'orologio del caffè che confrontò col suo: quella
donna la vedeva in ombra davanti, la sentiva presente, la pensava,
ma non avrebbe osato guardarla per paura... Paura di che? Lo sa
Dio...
Finalmente arrivò un
gran vassoio pieno di chicchere, di panetti, di paste dolci e lo zio
ebbe a occuparsi a distribuire, a versare, a far le parti giuste. A
Beatrice offrí una bella veneziana fresca e siccome essa
esitava ad accettare: "Andiamo, andiamo," disse con una certa furia
screanzata, "che sciocchezze!" E nel dir queste parole sentí
di nuovo una vampa di fuoco pigliargli il corpo, salire al collo,
alle orecchie, alla radice dei capelli.
Per fortuna capitò che
Ferruccio lasciasse cadere un cornetto intero di pane nella
chicchera. Ciò sollevò l'ilarità di tutti,
anche di Beatrice, anche del sor Demetrio, e il tempo passò
presto. Invece di chiamare il cameriere, il signor zio andò
al banco a pagare, cosa che non si usa piú in un caffè
rispettabile, e serví anche questo a divertire quei bravi
giovinotti.
"Bisogna che io me ne vada...
finite con comodo" tornò a dire. "Ci rivedremo piú
tardi, stasera...."
I ragazzi gridarono:
"Riverisco, zio, riverisco...
grazie."
Egli uscí in fretta in
fretta, senza capire ciò che gli diceva la cognata. Aveva
bisogno d'aria... Passò davanti al cristallo, guardò
nel caffè, vide un gruppo di gente, ma vide annebbiato,
salutò colla mano, e col suo passo di bifolco che cammina nel
molle, traversò verso Santa Margherita, portato come un pezzo
di legno galleggiante dalla corrente dell'antica abitudine, non
piú chiaro a sé stesso di quel che sia un pezzo di
legno. Una sola parola con un senso umano, uscí da quel
garbuglio di sentimenti che egli portò all'ufficio, e prese
nel fondo del suo silenzio la cadenza di un bastone che picchia
addosso a un sacco di cenci. Questa parola, ch'egli ripeté
cento volte nel breve tratto di strada fino alla porta del Demanio,
era il nome del suo migliore amico: Ah, Paolino! Ah, Paolino!
IV
Per tre o quattro giorni si
sentí male e di malavoglia. Un vecchio disturbo di cuore,
ch'egli credeva di aver superato colla regola, colla
tranquillità, con una moderata cura di digitalina, sotto le
scosse di tanti avvenimenti tornò a farsi sentire. Per
qualche notte stentò a chiuder occhio. Stava in letto al
buio, incantato a contemplare le stelle che brillavano nella cornice
della finestra, senza pensare a nulla di preciso, come perduto in un
gran deserto, sorpreso di trovarvisi, non sostenuto che da una
segreta speranza di uscirne. Gli era capitato come a chi viaggia sui
monti. Va e va, su e giú per greppi e bricche, arrivava colle
scarpe e colle gambe rotte in cima a una rupe da dove
improvvisamente gli era apparso uno stupendo panorama, una stesa
senza fine di paesi, di fiumi, di laghi, di pianure verdi, ch'era
bello, incantevole di contemplare, anzi valeva la pena di sedersi un
poco a tirare il fiato davanti a quel quadro, ma non bisognava
fermarsi troppo. Il luogo era scosceso, soffiavano venti cattivi, e
stava per scendere la notte. Giú, giú in fretta, sor
Demetrio...
Paolino intanto, che non era
uomo da stare un pezzo sulle punte di un pettine, passati alcuni
giorni, lanciò a Milano questa lettera:
"Caro Demetrio,
"Poche parole. Io ti avevo
detto di scrivermi un Si o un No e dopo una settimana non mi scrivi
niente
"Ho parlato anche con Carolina
che s'è lasciata persuadere e m'incoraggia.
"I miei interessi non mi
permettono piú di aspettare. Non dico di combinare subito,
lasciamo pure tempo al tempo, ma avrei piacere che tua cognata
venisse a cognizione della qui allegata lettera che ho fatto vedere
anche alla Carolina, e dice che va bene. Per ora mi contento di una
Promessa, di una Speranza. Se invece è colpo di spada venga
colpo di spada. Ma in ogni Contiguità non posso continuare in
questo stato letale anche per la salute dell'anima e quella del
corpo."
La lettera allegata diceva:
"Stimatissima signora Beatrice!
"Non è uno sconosciuto
che osa rivolgersi a Lei per esprimere i sentimenti che da molto
tempo nutre il suo Cuore in vista e in riguardo alla Sua Persona.
Mio cugino Demetrio è incaricato di esporre per me di che si
tratta, donde non istarò a ripetere le ragioni e le speranze,
che mi conducono oggi a scriverle una lettera, la quale, se sarebbe
accolta con Indulgenza, sarà il giorno piú bello della
mia vita.
"So che io non avrei dovuto
essere tanto temerario d'innalzare gli occhi fino alla Sua Persona
circondata da tante attrattive, al confronto della quale io non sono
che un uomo indegno; ma...."
E sempre su questo tono apriva
tutte le porte del cuore. Esponeva le sue oneste intenzioni, la
gioia dei parenti, ove si fosse potuto stringere un nodo
indissolubile, e le cure, le tenerezze di cui avrebbe circondati i
poveri orfanelli.
La buona sorella Carolina, alla
quale lesse la minuta della lettera, suggerí una frase,
"porgere grato orecchio", che le era rimasta in mente fin dal tempo
del collegio.
Non contento ancora, Paolino
volle far sentire lo scritto anche a don Giovanni, curato di
Chiaravalle, un vecchietto di molto buon senso pratico, che propose
una chiusa: "voglia dunque alla stregua di queste considerazioni
perdonare la mia improntitudine".
Per quanto Paolino non entrasse
molto bene nel significato di questa "stregua" accettò e
introdusse anche la frase del buon vecchietto, per dare anche a lui
la sua parte di responsabilità.
Trascrisse la lettera su un bel
foglio quadrato coll'aiuto della falsariga, senza una macchia, senza
una cancellatura e mandò il suo letterone aperto a Demetrio,
perché vedesse e giudicasse anche lui.
Demetrio lesse una volta con
una faccia tra l'irritato e l'indifferente.
Ognuna di queste parole scritte
colla calligrafia commerciale del cugino era un chiodo che egli
doveva ribadire nel cuore di Beatrice. E non se ne sentiva
piú voglia.
Gli parve che il signor cugino
avrebbe potuto sbrigarsi da sé, senza bisogno d'ambasciatori.
Egli non faceva il portalettere per nessuno. In un atto subitaneo e
irragionevole di stizza fece volare i fogli, che andarono a finire
sotto la sedia. Capí subito però che era fuori di
casa. Si stupí egli stesso della sua impazienza. Che diavolo
aveva indosso? Raccolse i foglietti, li nettò dalla polvere
soffiandovi sopra, e nel metterli sotto un calamaio disse a mezza
voce: "vedremo" : quel tal "vedremo" con cui di solito i nostri
buoni superiori procurano di non farci veder nulla.
V
Una mattina Beatrice vide
entrare in casa Palmira tutta spaventata.
"Che cosa c'è?"
"Taci, lasciami sentire" disse
la Pardi, ansando, porgendo l'orecchio all'uscio.
Quando fu sicura che nessuno
l'inseguiva, trasse un sospiro.
"Jesus," disse, "che corsa!
quel bestione è capace di farmi una figura in istrada."
"Chi?"
"Mio marito, Secco. Mi fa la
guardia. Vengo dalla Posta dove ho ritirata una lettera. Eccola qui,
non ho avuto tempo di leggerla."
"È sempre Altamura?"
"Già, mi scrive da
Barcellona. Fa furore anche là... Stavo per aprire la
lettera, quando vidi sbucare Secco dal portone della Corte. Era
là in sentinella. Ci deve essere della gente che gli soffia
nelle orecchie. Non mi sono fermata ad aspettarlo, naturalmente: ma
giú per la via del Pesce, su per i Visconti, giú per
San Satiro, volta per l'Unione. Il pancione non può correre
tanto e io sfido un cervo. Ma è capace d'aver presa una
carrozza. Taci, senti: non si è fermata una carrozza davanti
la tua porta? Scusa, va a vedere."
Beatrice andò alla
finestra. Alla porta non c'era niente.
"Mi rincrescerebbe anche per
te, perché Secco se si monta la testa non ragiona piú.
Ma la deve pagare, lo stupidone. Oggi gli faccio una scena da far
correre le guardie."
"Scusa, Palmira," provò
a dire Beatrice "se però ti trovasse la lettera di Altamura?
non ti parte che avrebbe ragione?"
"È per questo che son
corsa. Ma non voglio scene in istrada, non ne voglio. Non mi lascio
imporre, veh! Se non dimanda scusa, faccio fagotto e me ne vado."
"Dove vuoi andare, cara te?"
"In nessun sito, si sa" rispose
con un gorgheggio di mascherina la moglie del buon Melchisedecco.
"Quando mi vede fuori dei gangheri, abbassa subito le arie, diventa
un agnello. Bisogna fare cosí cogli uomini. Non mostrare mai
d'aver paura. È perché noi donne non andiamo
d'accordo; ma, se ci mettessimo, non sai che in ventiquattro ore
cambiamo la legge del mondo?"
Beatrice stava a sentire
incantata, quasi impaurita di queste famose massime. Il coraggio e
lo spirito di Palmira l'intimidivano. Non capiva come vi potessero
essere donne cosí temerarie, da tentare la pazienza e le
furie di un povero uomo a quel modo.
"Scrive che, finita la stagione
di quaresima, tornerà in Italia... Oh, bravo!..."
Palmira agitò nell'aria
il foglio e se lo portò alla bocca.
"Sí, sí, va bene,
ma tu sei troppo..." provò di nuovo a dire con lento accento
di rimprovero la buona Beatrice, che faceva con Palmira la parte del
buon Angelo.
"Troppo che cosa?" saltò
su la Palmira, guardandola cogli occhi socchiusi. "Cara la mia
innocentina! non tutte hanno l'arte di spennacchiare la gallina viva
senza farla gridare. O che tu sei diversa dalle altre?"
"Che cosa credi?"
esclamò Beatrice, arrossendo.
"Io non voglio saper niente,
non sono il tuo confessore. Lasciami vedere se non è
giú ancora a far la guardia."
Palmira andò a spiare
dietro le gelosie socchiuse e guardò a destra e a sinistra.
Quando fu certa che Melchisedecco non c'era, stracciò in
cento pezzetti la lettera, che seminò per la stanza, e
soggiunse:
"Vado intanto che ho la furia
addosso. Son passata di qui anche per dirti una cosa che ti
riguarda. Ieri ho trovato il cavaliere, che mi ha detto di dirti che
ha visto l'avvocato, che la causa è a buon punto, che tuo
padre ha cento ragioni, che ha bisogno di parlarti."
"Davvero?" esclamò
Beatrice con un piccolo grido e con un saltino di gioia. "Questa
è una bella notizia."
"Verrebbe egli da te, ma ha
paura di trovare qui quel tuo, come si chiama?.. quel del
redingotto. Che cosa fa quella tua bellezza?"
"Dove posso trovarlo?"
"A casa sua, forse... Sai dove
sta? in via Velasca, nella porta dei bagni. Se ci vai domenica, lo
trovi certo. Ci sarà anche l'avvocato...."
Palmira era già a mezzo
della scala, ricacciata dalla furia che l'aveva condotta.
Uscí nella via nel momento che passava il tram di Porta
Genova. Fece segno colla mano al conduttore, saltò su svelta
come una gatta, sedette a sinistra, e trasse il portamonete per
pagare.
Quando alzò le palpebre
si trovò seduta in faccia al signor Melchisedecco Pardi,
fabbricante di nastri con ditta al ponte dei Fabbri, che in una posa
di Napoleone a Sant'Elena la divorava cogli occhi.
Palmira aveva ragione di dire
che suo marito le faceva la guardia.
Dal giorno che Cesarino
Pianelli, o per leggerezza o per vendetta, aveva buttata fuori la
prima parolina ironica, il buon Pardone non era stato cogli occhi
chiusi.
Conosceva le tendenze di sua
moglie e non s'illudeva.
Egli l'aveva levata da un
telaio di nastri col vestito di cotone, coi piedi negli zoccoli;
l'aveva sposata, l'aveva vestita di seta, coperta d'oro e l'amava
ancora dopo dieci anni di matrimonio, colla forza lenta, costante,
vigorosa dei temperamenti linfatici.
Palmira non negava mica che il
suo Secco fosse buono: anzi in certi momenti guai a toccarglielo!
non amava il male in sé, ma per la varietà, colpa
dell'argento vivo che aveva indosso e della sua nessuna educazione
di famiglia.
Il buon Pardone portava
pazienza, la compativa fin dove può arrivare un marito.
Lasciava che andasse in maschera, che gettasse i coriandoli dal
balcone, che ridesse, scherzasse pure cogli uomini; andava anche lui
a divertirsi, quando avrebbe preferito dormire nel suo letto.
Non rifiutava nemmeno di
infilare il frac e di dormire in piedi alle feste da ballo dove
Palmira faceva il diavolo... Ma, ohe! non voleva che la gente
dicesse che il signor Pardi dormiva troppo della grossa. Scherzare,
fare il diavolo, fin che si vuole: ma il signor Pardi era lui... Se
bisognava, c'erano anche dei buoni pugni...
Queste cose all'incirca
scattavano fuori da quel paio d'occhi, con cui cercava di divorare
sua moglie, se la signora Palmira avesse avuta la compiacenza di
lasciarsi divorare.
Egli sapeva che c'era un tenore
di mezzo. Lo aveva visto alla festa a far le smorfie del Trovatore a
Palmira, e fin qui, pazienza! è il loro mestiere di far le
smorfie. Ma egli aveva ogni ragione di credere che tra Barcellona e
la via dei Fabbri continuasse una corrispondenza segreta. Una volta
sulla scala aveva trovato per caso una fascetta di giornale con un
bollo spagnuolo... o almeno gli parve spagnuolo. Certo non era dei
nostri. Seppe poi da un impresario, a cui aveva garantita una
cambiale, che il signore "di quella pira" mandava in visibilio gli
spagnoli col suo famoso do. Niente di male, era questo il suo
mestiere; ma corrispondenze segrete, no, per Dio!, non ne voleva di
corrispondenze segrete. Anzi l'amico impresario era incaricato
d'avvertirlo nel caso che l'altro passasse da queste parti: piacere
per piacere, siamo al mondo per aiutarci. Ma il buon Pardone si
fidava ancora piú degli occhi suoi. A tempo perso pedinava la
moglie, alla lontana, senza farsi scorgere, e la colse proprio sul
punto che usciva dal portone della Posta.
Che cosa andava a fare alla
Posta la signora Pardi? e non ci sono i portalettere pagati per
questo? C'era una lettera, l'aveva vista cogli occhi suoi, c'era...
Doveva essere in una di quelle due tasche.
E ingrossava ancora di
piú gli occhi, come se volesse guardare sotto i panni.
Palmira, rigida, fredda,
indifferente, colse il momento che il tram rallentò la corsa
per ingombro, si alzò, non aspettò che la carrozza
fosse ferma, con un salto andò giú, e infilò
subito una via a sinistra, verso casa, mentre il signor
Melchisedecco andava sonando e risonando il campanello per farlo
fermare. Non era uomo da far salti; del resto non c'era bisogno di
correre. Forse era meglio che gli passasse un poco la scalmana...,
ma sentiva che questa volta erano pugni. Non ne voleva di
corrispondenze. Per la corrispondenza di fabbrica bastava lui.
Palmira capí che il
temporale era grosso: affrettò il passo, s'infuriò
piú che poté, corse su per la scala, passando in mezzo
al frastuono dei duecento telai che lavoravano al primo piano,
spinse l'uscio, entrò come una bomba, facendo trasalire la
donna di servizio, passò in camera e cominciò a
spogliarsi, strappandosi di dosso la roba come se si facesse a brani
colle mani e, quando il signor Pardi, con comodo, comparve
sull'uscio e cominciò a guardarla ancora con quegli occhioni
di bove, non gli lasciò il tempo di aprire la bocca, ma,
già quasi mezza svestita e spettinata, attraversò la
stanza, trascinandosi dietro la roba, e lo investí con tale
uragano di ignominie, che Pardone chiuse gli occhi e si
appoggiò colle grosse spalle all'uscio, quasi volesse impedir
alla voce di uscire. Il rumore dei duecento telai non riusciva a
coprire quella voce irritata di furia francese. Essa gli
buttò sul viso un guanto, lasciò cadere e
passeggiò sul vestito, lo fulminò senza pietà
con quei suoi grandi occhi di carbone, pieni di scintille e di
sangue, finché, disfatta quasi dalla sua stessa convulsione,
si aggrappò colle braccia nude al collo del suo buon Pardone,
rovesciò tutta la testa indietro col gran volume dei capelli
lisci e neri sciolti sulle spalle, e sospirò, atteggiandosi a
vittima.
"Son qui, ammazzami, ma dimmi
prima che cosa ti ho fatto. Ammazzami qui, in casa tua, ma non
voglio che tu mi faccia delle figure in istrada. Se non vuoi che io
esca di casa, legami alla gamba del letto, chiudimi dentro a chiave,
ma non rendermi ridicola in faccia alla gente. Sono stufa, stufa,
stufa; e se dura un pezzo ancora questa vita, mi butto nel Naviglio.
Non sono una stupida per non capire che tu mi vieni dietro ad ogni
passo... Ebbene, parla... chi è il mio amante?"
"Quella lettera...?" chiese il
povero uomo, soffiando la sua grossa emozione e tremando in tutto il
corpo.
"Vedi, come sei stupido?
è tutto qui? eccola la famosa lettera. To', leggila,
c'è ancora il bollo fresco. È arrivata ieri, guarda...
Modena... Leggi e guarda come sei imbecille colla tua gelosia."
Il buon Melchisedecco
voltò e rivoltò la letterina, che Palmira trasse dalla
tasca del suo vestito rimasto in terra in mezzo alla stanza. Era una
lettera di Eloisa, una cugina, maritata a un tenente di guarnigione
a Modena, una lettera di complimenti e di piccole commissioni.
Melchisedecco chinò il
capo e stette un momento pensoso. Poi, dissimulando la sua
incredulità e il suo profondo affanno, soggiunse con un tono
raddolcito di tenerezza e d'indulgenza:
"Se anche sono un poco geloso,
non ti faccio torto. Se mi volessi bene...."
"E non te ne voglio forse?
senti, adesso... cose da far piangere di rabbia. E non sono sempre
qui in casa con te come un cagnolino, a fare i conti dei rocchetti e
delle matasse? e quando mi lamento io di questa vita? e non dico
sempre che il Signore mi ha voluto bene e che sono stata fortunata?
e non conservo forse sempre per memoria l'ultimo paio di zoccoli che
ho lasciato ai piedi della scala quella notte che tu mi hai detto
che mi volevi bene? Ti ricordi? tua madre non voleva che tu mi
sposassi, e noi ci siamo sposati lo stesso... ti ricordi? quella
notte, in quella stessa stanza... Oh no! non meriti nemmeno che io
te ne parli. Allora sí mi volevi bene; ora perché sono
diventata vecchia, sono la vespa, la biscia, l'ingrata, l'infame...
Oh, è troppo! io morirò di crepacuore...."
E la povera Palmira piangeva
davvero un fiume torrenziale di lagrime, ingannando quasi sé
stessa. Le spalle, il collo, il viso s'infiammarono sotto la
violenza di quel piangere dilagato, a cui il buon Melchisedecco non
sapeva come porre un argine. Egli mormorò qualche parola,
cercò di giustificare ancora una volta piú dolcemente
la sua condotta, promise di non farlo piú, docile,
mortificato come un bambino, e tornò in fabbrica col corpo
rotto dal pentimento.
"Mi sarò ingannato"
diceva dentro di sé, "ma corrispondenze non ne voglio."
Il frastuono dei duecento telai
in mezzo ai quali egli cercava un sollievo all'affanno che gli
gonfiava il polmone, non valse a rompere nella sua testa lo stampo
di quella frase imperativa ch'egli seguitava suo malgrado a ripeter
coi denti stretti. Dovette dare degli ordini, scrivere una fattura,
ma i denti dopo quasi un'ora vibravano ancora della scossa ricevuta,
e della frase rotta e stritolata egli masticava ancora, dopo quasi
un'ora, qualche estremo monosillabo.
"Non ne voglio io delle...."
VI
Per alcuni giorni Beatrice
visse nel pensiero e nella speranza di quella causa, che doveva
rendere l'indipendenza a lei e ai suoi figliuoli. Non potendo
piú resistere al desiderio di sapere quel che l'avvocato
poteva aver detto in proposito al cavalier Balzalotti, una domenica,
mentre i ragazzi erano a spasso nei giardini pubblici con Demetrio,
uscí di casa, fece una corsa fino in via Velasca,
trovò facilmente la porta dei bagni, chiese del cavaliere, le
fu indicata una scala e suonò a un uscio del primo piano.
Dopo due minuti sentí un
passo misurato accompagnato dallo scricchiolío delle scarpe e
l'uscio si aprí.
"Oh chi vedo! la mia cara e
buona signora Beatrice. Brava, arrivata a proposito. Avevo giusto
detto alla signora Pardi di avvertirla. Venga avanti. Come sta? oh
poverina, la trovo pallidina pallidina... Ma!" e tirò un
sospirone. "Forse a venir dalla strada troverà un po' oscuro
qua dentro... Per di qua, aspetti, chiudo l'uscio con un giretto di
chiave, perché sono in casa solo e stando di là non si
sente chi entra. Sicuro, io vivo sempre solo come un giovinotto, en
garçon, con una vecchia Perpetua, che alla festa ha dieci
messe da sentire e non so quante indulgenze da acquistare."
Con tutte queste cose comuni il
bravo signore procurò di confondere un improvviso affanno, da
cui parve còlto nel trovarsi tutto a un tratto davanti
una delle piú formose bellezze di Milano.
"Scuserà, cavaliere, se
ho fatto la sfacciata" balbettò Beatrice anch'essa in
soggezione di trovarsi alla presenza di una persona di tanto
riguardo.
"Giusto, brava! si accomodi..."
soggiunse il cavaliere, battendo tre colpetti sulla mano della
signora Pianelli.
Il salotto dove l'introdusse
era arredato con molto lusso, specialmente di cornici, e immerso in
una calda e allegra penombra per via di due grandi trasparenti a
fogliami colorati che ricordavano le foreste imbalsamate del lontano
oriente. La fece sedere sopra un canapè, corse a prendere uno
sgabellino che le mise ai piedi, con un fare cerimonioso come
sempre, ma un po' piú timido e piú imbrogliato del
solito.
Forse il buon benefattore non
si aspettava cosí presto la visita. Forse non aveva ancora
formato in testa un piano, e còlto cosí all'impensata
era in paura o di far troppo, o di far troppo poco. Le donne! le
donne non si sa mai come vanno pigliate. Sono un po' come le
anguille. A dir la verità, coll'avvocato Ferriani non aveva
ancora parlato. Non sapeva nemmeno dove stesse di casa questo signor
avvocato. Se aveva anticipato una piccola somma (un centinaio di
lirette), oltre che per le insistenze della Pardi, l'aveva fatto per
un senso, diremo cosí, di carità.
"Io devo ringraziarla,
cavaliere, di molte cose."
"Di nulla mi deve ringraziare.
Sarei venuto io stesso a casa sua, cara la mia signora, se non
sapessi che Demetrio è contrario a questa causa. La Palmira -
un bel tomo se ce n'è - mi ha contate le prodezze di questo
signor Demetrio. Povera Beatrice! è stata una gran
disgrazia."
Il cavaliere si passò la
punta delle dita sugli occhi per dissipare una certa nebbiolina.
"Ella ha avuta la bontà
di parlare col signor avvocato."
"Dovevo trovarmi ieri, ma
c'è stato un contrattempo. Però prima di partire lo
vedrò senza fallo. Sono chiamato a Roma dal Ministro per
affari di ufficio e può essere che di là possa aiutare
ancor meglio la faccenda. Conosco dei deputati...."
"Lei fa una grande opera di
carità, cavaliere, ai miei figliuoli e al mio povero
papà..."
"E non a lei? oh guarda che
cattiva!.. e io che ci tenevo tanto alla sua riconoscenza...."
Il cavaliere rise di gusto e
sedette su un tombolo di velluto colle ginocchia contro le ginocchia
di Beatrice, voltando le spalle alle finestre.
Dallo sfondo rosso-bruno della
tappezzeria la figura della vedova Pianelli avvolta nel suo gran
velo a larghe pieghe usciva con un non so che di maestoso e di
regale, che poteva intimidire anche un vecchio marinaio molto
navigato nelle acque dolci delle avventure. Ma il cavaliere sapeva
che, al disotto di quella prospettiva, c'era una donna molto buona,
molto fatua, molto bambola, molto bisognosa, timida forse per
esperienza, ma non piú fortificata delle altre.
Questa donna aveva cominciato
coll'accettare delle anticipazioni.
Ora non c'era piú il
marito geloso a far la guardia, e quell'altro guardiano dell'abbaino
era un povero balordo, furbo come una giraffa, già sfiduciato
e stracco di portare la croce.
Queste riflessioni, uscendo da
diverse parti, confluivano in un momento come allo sbocco di un
usciolino, facendo tutt'insieme un ingombro che non ne lasciava
uscire nessuna. Il cavaliere le pensò in blocco e tanto per
tastare terreno, soggiunse:
"Demetrio le avrà
parlato di quel mio buon amico di Novara."
"Difatti."
"Gli scriverò domani che
l'ho servito da principe. Cospettina, non càpita a tutti di
poter dormire uscio a uscio con una bella padrona, come la mia cara
signora Beatrice."
"Lei vuol scherzare" interruppe
Beatrice con un sorriso di compiacenza.
Non era la prima volta che il
cavaliere si permetteva queste galanterie, e non era nemmeno la
prima lei a riderne e a pigliarle per quel che valevano.
"Mi farò pagare
profumatamente la mediazione."
Qui, posando una manina
delicata sul ginocchio di lei, continuò pesando sulle parole:
"Per me... confesso... che non
potrei chiudere occhio."
Beatrice, che non vedeva
piú in là dello scherzo, sorrise abbassando gli occhi
e mormorò:
"Caro lei...."
"Non crede che ne perderei il
sonno? sarei costretto a dir rosari tutta la notte... Non è
la prima volta che la mia cara signora Beatrice non mi lascia
dormire."
"Oh... no" fece Beatrice,
protestando per celia.
"Davvero, sa..." tirò
dritto il cavaliere che mentre si avanzava per tastare terreno, non
si accorgeva di sprofondare nel molle. "Naturalmente ho sempre
saputo rispettare le convenienze. Una donna maritata, si sa, impone
dei doveri, specialmente quando ha un marito vivo, geloso, che non
dorme. Ma se avessi potuto parlare, come possiamo parlare adesso,
qui, in camera caritatis senza far torto ai morti, ho avuto anch'io
il mio poema. Si ricorda questo carnevale? Tornavo a casa qualche
volta da quelle benedette feste che parevo un uomo matto. Lei
ride... capisco che son ridicolo: ma di chi è la colpa? di
chi sono certi occhioni, eh? Pensi l'effetto che mi ha fatto l'altro
giorno a sentire dalla Pardi che la povera mia signora Beatrice era
caduta in tante angustie, che non aveva quasi piú pane per i
suoi figliuoli e che si disperava sotto la sferza di un
villanzone...: tanto, non è qui a sentire e possiamo
chiamarlo col suo nome. Povera martire, povera pecorella! io non so
di che cosa sarei capace per toglierla da questo letto di spine. Oh,
non mi crede niente?"
"Che cosa?" domandò
quasi stupidamente Beatrice, come se non avesse ascoltato nulla.
"O crede che tutti gli uomini
siano egoisti a un modo? cosí giovane, cosí bella..."
sospirò il cavaliere.
Un singhiozzo breve e rotto,
mescolandosi alle parole, tradí piú che non fosse
nelle intenzioni, i sottintesi e l'agitazione dell'oratore.
Beatrice, che quasi rideva
ancora, alzò le palpebre e credette di scorgere delle vere
lagrime negli occhi lustri del suo benefattore, che sprofondando
sempre piú nel molle, cercò di trarre a sé la
bella manina, la imprigionò nelle sue colla tenerezza con cui
si prende e si carezza una cosa viva.
Beatrice s'irrigidí un
poco e si ritrasse con un movimento scontroso.
"Io vorrei essere un re per
dare a questa bellezza il trono che merita."
Sorpreso anche lui, assalito,
trascinato come una pecora dalla potenza cieca della sua passione,
il povero signore non ponderava piú, non connetteva
piú. I consigli della vecchia prudenza, che aveva sempre
predicato di prendere le lepri col carro, questa volta non
arrivavano piú fino a due orecchie intontite dal sangue e
dalla vertigine.
Beatrice impallidí e
cercò di alzarsi. Ma, trattenuta delicatamente, ficcò
i grandi occhi stupiti in quegli occhietti lucidi che la
affrontavano con violenza, con sete, guardò paurosamente
intorno a sé, si sentí sola, chiusa dentro, in casa
altrui, in balía altrui, si smarrí, supplicò
con un gemito...
"Senti... Non sei tu libera e
padrona di te? non posso io fare del gran bene a te ed a' tuoi
figliuoli?..."
Beatrice si coprí il
volto colle mani. Le pareva di scendere in una gola tenebrosa e
senza fondo.
"No, forse?" ripeteva la vocina
rasente al suo orecchio.
Nell'impeto del ribrezzo essa
ritrovò l'energia: si alzò, con un gesto duro del
braccio respinse l'insistenza di quel bravo signore. Gli occhi le si
riempirono di un'insolita vita, la bocca si contrasse a un tremito
di sdegno e di sarcasmo. Poi, come vinta alla sua volta dall'eccesso
nervoso della sua energia, cadde di nuovo a sedere e, con la faccia
dentro il fazzoletto, si pose a piangere dirottamente come una
bambina battuta.
Il cavaliere, squilibrato,
pentito, vergognoso, ma non istupidito del tutto, capí
d'esser fuori di strada. Il cavallo gli aveva tolto la mano e prima
di ribaltare del tutto cercò di mettere avanti le mani. Aveva
voluto fare della poesia, alla sua età: male. Beatrice non
era certamente venuta per sentire a recitare dei sonetti. Bisognava
pigliarla lunga, girare la posizione. L'amore non si accende come un
pagliaio e non c'è nulla che mandi piú fumo di un
fuoco mal fatto. Non volendo perdere tutti i frutti della sua
carità e delle sue intenzioni, si mise a sedere a fianco
della povera disperata e con un tono tra l'offeso e il sostenuto
cominciò a dire:
"Ma che bambina! ho detto
cosí per... Che diamine! capisco che ho torto. Metta che
abbia voluto confessarle un peccato, ecco. Andiamo, asciughi questi
occhioni, mi dia la manina e mi assolva. Che cosa c'è da
piangere? lei è in casa di un gentiluomo e conosco troppo
bene gli obblighi di ospitalità per... Che diavolo!
Là, via, non mi dia questo rimorso d'averla fatta piangere
cosí. E che lagrimoni! Discorriamo dei nostri affari. Che
cosa si diceva? ah, della causa e dell'avvocato. L'ho visto e mi ha
detto che oramai non c'è piú nulla a sperare. È
una barca scassinata che fa acqua da tutte le parti...."
Per spiegare come un uomo
avveduto cadesse cosí subito in contraddizione con ciò
che aveva detto cinque minuti prima, bisognava immaginare che il
cavaliere parlava, sí, colla bocca, ma il pensiero correva
dietro a un altro ordine di idee, di meraviglia in meraviglia. Quel
piangere sfrenato, quell'atto di ribellione quasi matronale in una
donna abbastanza sciocchina, nota lippis et tonsoribus (anche la
frase latina veniva a cacciarsi in mezzo), in una donna che nella
bella Pardina - una vespa, in lega col diavolo - aveva una
cosí grande confidenza: che accettava con tanta
semplicità delle elemosine e veniva in persona a pagare i
debiti della sua gratitudine, tutto ciò era un fatto
cosí strano e inesplicabile anche per una testa lucida e
pratica, che il povero signore cadde di confusione in confusione.
Non restava che di toccare un altro tasto, quello della prosa, e non
perdette tempo. Lí accanto c'era uno stipetto con qualche
inezia elegante, e vi mise subito la mano.
Beatrice, passato il primo
impeto, capí di essere caduta in un tranello, e credette di
vedere in questo gioco la mano di Palmira.
Le parole del cavaliere,
togliendole l'ultima illusione, l'irritarono e le diedero la forza
di reagire.
Ma nell'alzarsi, nel ritrarre
il braccio a sé vide risplendere un non so che, un oggetto
d'oro, un braccialetto...
Un gran buio invase gli occhi
suoi, un gran tremito in tutto il corpo le fece temere di venir
meno, di stramazzare in terra. Si appoggiò colla mano alla
sponda di una poltrona, abbassò il capo avvilita, incapace
fin di piangere, fin di muovere le labbra a un suono di protesta.
Una volta fece il tentativo di togliersi dal polso quel segno,
quell'anello massiccio; non poté. Non ci vide abbastanza, non
ebbe la forza di far scattare la molla.
Il suo protettore pregò,
supplicò, perché non gli facesse il torto di rifiutare
un segno innocente della sua amicizia. Non si sarebbe parlato
piú di queste cose. Non gli rifiutasse questa consolazione:
non gli volesse male: gli concedesse il piacere di esserle utile.
Per lui era un bisogno del cuore.
Nominò ancora
l'avvocato, il deputato, il suo buon amico di Novara, mentre
l'accompagnava docilmente verso l'uscio: cercò di ridere e di
farla ridere...
Beatrice disse una volta di
sí, senza capir bene a che cosa diceva di sí.
Di tutte le belle parole del
suo benefattore non afferrò che un rumore sordo, e non vedeva
l'ora che l'uscio si aprisse.
Aveva bisogno d'aria, si
sentiva soffocare...
Il cavaliere la tenne ancora un
momentino prigioniera sulla scala, picchiò ancora una volta
sulla bella manina...
Finalmente la povera donna si
trovò in istrada nella piena luce del sole, come se fosse
volata dalle scale. L'istinto piú che la volontà la
condusse sulla via di casa sua; ma fece forse cento passi senza
vedere innanzi a sé che un bagliore, senza sentire che un
gran frastuono di un grosso fiume che passa. Era possibile? e il suo
povero Cesarino non veniva a difenderla? Che tradimento, che bassa
insidia, che vergogna!.. Come tornare davanti a' suoi figliuoli,
davanti alla sua Arabella? per chi l'avevano presa? che opinione
aveva la gente di lei? quando aveva lei autorizzato la gente a
giudicarla cosí? O era una vendetta, una stupida congiura di
Palmira che voleva abbassarla al suo livello? E i denari presi per
amor di suo padre come poteva ora restituirli? a chi ricorrere
adesso? in chi fidarsi? Come raccontare queste cose a Demetrio?
E, inseguita da questi
fantasmi, andò di via in via senza veder nessuno,
finché, sentendosi venir meno, si rifugiò nella chiesa
di Sant'Alessandro, cercò un angolo oscuro presso una
cappella, vi s'inginocchiò, quasi cadde sul marmo freddo dei
gradini, e raggomitolandosi in sé stessa, nascose la sua
vergogna e il suo cocente dolore.
VII
Oltre alle novità che
Demetrio osservava in sé stesso (vale a dire una continua
distrazione e quasi sospensione di volontà), c'era qualche
cosa anche fuori di lui, che non cessava di risvegliare la sua
meraviglia. Lasciamo stare che l'aria gli pareva diventata
piú lucida e trasparente: ma anche la gente mostravasi come
per miracolo piú affabile, piú ossequiosa verso di
lui.
Il Ramella, il portinaio
dell'ufficio, che non si scomodava mai se non presso le feste di
Natale, ora aveva cento cose da raccontare al signor Pianelli, e
correva anche a tener l'uscio, quando lo vedeva passare. Sapendo che
il cavalier Balzalotti doveva andare a Roma per la discussione del
nuovo organico, il galantuomo si raccomandava al bravo signor
Pianelli, perché vedesse, cercasse di mettere una buona
parola. Quando si hanno cinque figliuoli da mantenere e la donna che
allatta, va compatito anche un povero padre di famiglia se si
raccomanda. Il sor Pianelli era quel tal uomo, che aveva col
cavaliere, diremo cosí una entratura per la quale...
"Che entratura?" esclamava
Demetrio ridendo.
Capiva i bisogni: ma che
entratura? Il suo mestiere era di copiare e basta.
Un altro giorno
s'incontrò nel Quintina, il gobbetto noto per la sua lingua
lunga, che non era nemmeno della sua sezione.
"Oh, caro Pianelli, come sta?"
prese a cantare colla sua voce chiara quel simpaticone, andandogli
incontro e fermandolo a metà della scala. "Lei è bene
il fratello del povero Cesarino?! Oh, guarda! eravamo tanto amici!
Oh dica: è vero che il cavaliere va a Roma?"
"Sí."
"Vorrebbe farmi la gentilezza
di ricordargli una certa istanza che gli ho presentata? sa, senza
farsi scorgere, dica cosí: Il ragionier Quintina chiede se
ella ha ricevuto quella tal carta... Mi fa un gran favore. E in
quello che posso anch'io, comandi: son qui alla terza sezione."
"Bella anche questa!"
ruminò Demetrio nell'andar su. "Si accorge ora ch'io sono al
mondo, e pare che m'abbia tenuto a battesimo. Vuol diventare
cavaliere, lo so; e incarica me di toccare il tempo al meccanismo."
Quel giorno stesso, o il giorno
dopo, ricevette la visita del Bianconi, durante le ore in cui il
cavaliere era a far colazione al Caffè Sanquirico.
"Come va, Bianconi? Non ci
vediamo mai. Che miracolo?"
Era costui un buon diavolo
sulla cinquantina, tutto bianco di capelli, col viso ancora colorito
e fresco, lavoratore instancabile, ma pieno di una grande soggezione
per tutto ciò che riguardava un po' da vicino i superiori, il
ministero, quelli che comandano. Non aveva osato presentarsi al
cavaliere, e anche adesso, sebbene l'avesse veduto uscire dalla
porta, temeva sempre di averlo alle spalle.
Avanzandosi in punta dei piedi,
con un dito sulla bocca posto come un uncino, disse con un fiato
spento di voce:
"Va a Roma il...?"
E segnò coll'indice
mezzo nascosto dall'altra mano la poltrona vuota del cavaliere,
verso la quale non osava quasi volgere il capo.
"Sí, perché?"
chiese Demetrio, la voce del quale impaurí il pover'uomo, che
si volse a dare un'occhiata all'uscio.
"È perché,"
continuò, senza distaccare il dito dalla bocca "vorrei che
gli dicessi una parolina...."
"O bravo, poiché ci sei,
spiegami un po' questo bel giuoco. A sentirvi, io ho l'organico in
saccoccia...."
"No, no, non si sa mai... Una
parolina..." e, colle due mani congiunte come due ali, pareva che il
Bianconi volesse covarla quella parolina cosí miracolosa.
"Per me, se mi capita, la
dirò: ma non capisco...."
A toglierlo d'imbarazzo il
cavaliere non si lasciò vedere per qualche giorno, o comparve
un momento in gran furia, tutto occupato del suo fascio di carte da
portare a Roma, e in continui colloqui con questo e quest'altro
pezzo grosso dell'amministrazione. Del Pianelli non si curò
piú che della gamba del tavolo. Ciò avvenne il
lunedí dopo il tenero colloquio con Beatrice. La sera il
bravo signore partí col diretto e buon viaggio!
Demetrio rimasto solo e con
poco da fare si preparò a godere una mezza vacanza. Egli
aveva sempre davanti un bel panorama e nessuno poteva proibirgli ora
di stare seduto coi ginocchi nelle mani o coi pollici tuffati nei
taschini del panciotto, in estasi dietro la processione de' suoi
pensieri.
L'intensità di questa
contemplazione era tale, che qualche volta dimenticava l'ufficio, il
tavolino, la sedia, e zufolando, senza accorgersi, un'arietta,
facendo saltare una gamba sull'altra, non si svegliava da quei sogni
che alle acute trafitte che gli dava il cuoio duro della sedia, o a
un certo dolore duro delle mascelle.
Intanto la lettera di Paolino
continuava a rimanere schiacciata da un calamaio e da un "vedremo".
Egli non intendeva di rubare a nessuno, ma credeva lecito di
aggiornare la pratica, come si dice, nello stile del mestiere.
In mezzo alle gioie delle dolci
visioni e tra gli indugi della volontà, respinta ma non
strozzata parlava però sempre la voce della coscienza onesta
e ragionevole. "Che diavolo aveva indosso? e che gli saltava in
mente? che nuova bestia ruggiva in lui? che cosa intendeva di fare?
tagliare le gambe a Paolino? opporsi alla bontà della
provvidenza? tradire una povera donna, rovinare lei, sé, gli
innocenti? rendersi stupido, ridicolo? far ridere i polli colle sue
contraddizioni? e che cosa erano queste scalmane? ohè, signor
Demetrio, dove si va? si diventa matti? mancherebbe anche questa;
oltre al tradimento farsi dei carichi di coscienza...." E il
piú bello era questo, che si accorgeva soltanto adesso che
sua cognata era una donna e una bella donna per giunta. Che talento!
aveva avuto bisogno che venissero dalle Cascine per dirglielo. Una
commedia da burattini addirittura...
E nella evidenza del contrasto
si metteva a rider forte, come se si trattasse di un babbeo fuori di
lui. Il suono della sua voce lo richiamava alle cose e alle idee di
questo mondo. Si alzava, aggiustava colle due mani la testa e le
gambe ingranchite, dava una giravolta per la stanza, e via, pigliava
il cappello, via a sciorinare la malinconia all'aria e al sole di
piazza Castello, a cercare una salutare distrazione alle baracche
del Tivoli, dove si mostrano le piú grandi meraviglie
dell'universo. Le piante vestivano il primo verde. Sull'orlo dei
viali, ancora umidi e freschi, cresceva un'erba tenera che faceva
piacere al cuore, come se quel poco verde, serpeggiante nell'arido
anfiteatro di una grande città tutta polvere e sassi, fosse
un ricordo della buona madre natura, che comincia fuori dei
bastioni. Nello sfondo nitido di piazza d'Armi spiccava l'arco della
pace, co' suoi cavalli neri sul marmo bianco, e dietro l'arco
uscivano le cime nevose delle prealpi lontane e del Monte Rosa, che
nei giorni asciutti si rivela ai milanesi come l'idea un po' confusa
d'un mondo migliore.
Demetrio si distraeva
volentieri dietro le evoluzioni dei cavalli, che manovravano davanti
il castello, e stava a sentire le leggende dei saltimbanchi, delle
sonnambule che vendono la fortuna che non hanno, degli spacciatori
di mastici e di quanti concorrono e cooperano alla grande fabbrica
del buon appetito. Quante miserie ha il mondo! che pietà gli
facevano quei poveri bambini dei saltimbanchi, scialbi di fame, e
tremanti sotto il sole di maggio! E c'è della gente che
prende gusto a popolare il mondo di morti di fame, di tisici, di
ladroncelli, di pidocchiosi... Anche lui aspirava a questa gloria
della propagazione degli stracci! che amore? egoismo, niente altro
che egoismo! "Con questa logica si può giustificare il ladro
e l'assassino che ti pianta il coltello nel cuore. Approfittare
della confidenza di un amico per tradirlo, per tagliargli le
gambe... beh! azione infame, azione da ragazza che dice: dammi
indietro la mia pigotta, che non gioco piú. Egoismo,
passionaccia sporca, desiderio bestiale. L'amore è grande,
l'amore è bello, l'amore è poetico, è generoso
l'amore...".
E via sempre di questo passo a
voltare e a rivoltare la questione. Ed ebbe la pazienza di
continuare due o tre giorni in questa strana, maledetta battaglia.
Ma il buon senso c'è per qualche cosa: passata la terzana, un
dopopranzo, prese la lettera di Paolino, la mise in una bella busta
di carta, e con passo risoluto, di prussiano ch'entra in Parigi,
andò in Carrobio a perorare la causa del piú onesto,
del piú buono, del piú generoso degli uomini.
Le tentazioni non bisogna
allattarle, ma cercare di strozzarle in cuna. Dente strappato non
duole piú.
VIII
"La mamma è in letto"
disse Arabella.
"Si sente male?"
"Son già tre giorni."
"Perché non mi avete
avvisato?"
"Non ha voluto. Credo che abbia
la febbre. Ieri e ieri l'altro s'è tenuta in piedi, ma oggi
l'ha presa un tal mal di capo, che non può quasi tener gli
occhi aperti."
"Oh diavolo!"
Demetrio fece un mezzo giro per
l'anticamera per lasciare il tempo all'idea di venire avanti e di
stendersi.
"È venuto il dottore?"
"Non l'ha voluto."
"Chi c'è di là?"
"C'è la signora
Grissini."
L'uscio della stanza si
aprí e venne fuori col suo passino senza rumore la buona
signora, tutta grazia e tutta ossi, che, agitando i due bei
trucioletti di capelli infilzati nella lattuga della cuffia, disse:
"Sicuro, è malata: pare
una piccola reumatichettina...."
"Guarda!" esclamò
Demetrio.
"Ma non credo che sia cosa
seria. Le ho fatto prendere un mezzo citratino... Signore! io credo
che la poveretta abbia bisogno di un vitto piú nutriente e
specialmente di avere il cuore in pace. Ne ha patite tante
quest'anno, caro Iddio!"
"Se... se potessi...."
Demetrio stette un momento a
riflettere che cosa doveva dire; ma che cosa poteva fare egli,
perché Beatrice avesse un vitto piú sostanzioso e il
cuore in pace?
"In confidenza," soggiunse la
signora Grissini, tirando Demetrio verso la finestra, "in questi
giorni sono andata avanti io... Spese ce ne furono, e quella
poverina era senza denari. Non volle ad ogni costo che io mandassi a
chiamar lei. Io lo faccio volentieri, ma devo naturalmente dir
niente a mio marito, che dice sempre che non ragiono."
Demetrio non fiatò.
Trasse il portafogli, vi pescò dentro, e tirò fuori un
biglietto di cinquanta lire che consegnò alla signora
Grissini. Erano sempre i denari del buon cugino che facevano la
spesa.
"Le dica che stia di buon
animo. Ero venuto per parlarle di un progetto che forse le
farà piacere. Tornerò dimani."
"Io credo che la poverina sia
malata di patema d'animo."
"Crede?"
"Non fa che piangere...."
"Lei intanto si paghi delle sue
spese. Verrò dimani."
"Oh giusto, non ho detto per
questo."
"No, no, che diamine! ho caro
che sia curata da una brava persona. Se Naldo volesse venire con me,
ho posto di metterlo a dormire."
"È una buona idea, per
alleggerire la barca."
Demetrio rimase lí con
un'orecchia tra le dita, sopra pensiero, mentre la signora Grissini
entrava nella stanza della malata. Quando tornò le chiese:
"Ebbene?"
"Ha detto di condurre pure
Naldo e di farsi vedere dimani."
Naldo andò volentieri
collo "zio Demetrio" che aveva tre gabbie di canarini, e senza
essere invitato andò dietro volentieri anche Giovedí
che si vedeva un po' troppo trascurato.
"Anche questa va a capitare..."
andava ripetendo Demetrio, mentre il bambino seguitava a tempestarlo
di dimande sulle cose che vedeva nelle botteghe e nella strada.
Pensò di scrivere a
Paolino che per il momento non era il caso di parlare a Beatrice del
noto progetto per non agitarla troppo. Tornò a collocare la
lettera del cugino sotto il calamaio e disse un altro "vedremo" meno
aspro e meno pesante del primo. Quel dí pranzò in casa
colla compagnia del nipotino e del cane, aiutandosi con qualche
frusto di carne e con una fetta calda di polenta che mandò a
prendere da Giovann dell'Orghen dal fruttaiuolo della piazza. Alle
uova fritte pensò il cuoco di casa.
Naldo sedé in capo alla
tavola, tra lo zio e Giovedí.
Demetrio tuffava la forchetta
nel piatto e faceva un boccone per uno. Già cominciavano i
lunghi tramonti di maggio. Il sole scendeva a poco a poco dietro la
punta del campanile delle Ore, che col suo cono di rame faceva quasi
da spegnitoio a un grosso fuoco rossiccio, che andava languendo a
poco a poco nelle linee lunghe dei tetti. Incontro agli ultimi
bagliori del crepuscolo uscivano, si disegnavano i corpi bruni dei
fumaioli, delle torrette, dei terrazzi fioriti, da dove venivano
voci chiare di donne e di ragazzi.
Demetrio, toltosi sulle gambe
il bambino, stette a contemplare un pezzo lo spegnersi dei vari
colori, il fuggire della luce dai piú alti colmi, il vagare
delle nuvole, lo spuntare delle prime stelle, rispondendo
superficialmente alle cento dimande di Naldo, ma col pensiero
lontano, lontano, piú lontano delle stelle. Pensava che tutto
avrebbe potuto essere conchiuso e finito, e invece aveva ancora una
notte da dormire sul suo dente guasto. Peccato! era una notte di
inutile patimento. Perché, tanto fa essere sinceri con noi
stessi, egli pativa troppo in quella sospensione d'animo, in quella
lotta tra il dovere e... che cosa?
Aveva un nome questa nuova e
stravagante malinconia, che gli era saltata addosso come una febbre,
come la pellagra?
Naldo, vedendo che lo zio
Demetrio non rispondeva piú, si addormentò a poco a
poco nelle sue braccia. Lo zio, muovendosi tutto d'un pezzo e
camminando quasi seduto per non risvegliarlo, lo collocò
adagino sul letto. Chiuse le finestre, accese una candela, e
cominciò a preparare un lettuccio a' piedi del suo, con due
scranne accostate, un guanciale e una coperta ripiegata in due.
Quando gli parve che la nanna ci fosse (e gli veniva quasi da ridere
nel pensare in quel momento a sé), si preparò alla
difficile e complicata impresa di svestire il bambino che pareva un
sacco di stracci. Gli tolse le scarpe, le calzette, lo voltò,
lo rivoltò sul letto, in cerca degli occhielli e dei bottoni,
e, dopo molta pazienza, gli riuscí di pigliarlo sulle braccia
non vestito che di una camiciuola, che non vestiva quasi niente.
Quel fagottello pesante di
carni tiepide e bianche in cui si sentiva correre il sangue: quel
respiro dolce che usciva attraverso a un sonno di bronzo, che aveva
la forza di tirar giú la testa del ragazzo, mettendo in luce
la bella attaccatura del collo - la bellezza della mamma: - quei
piccoli piedi rosei, lisci, senza una ruga, che visti contro la
fiamma della candela parevano due garofani sfogliati: quelle molli
infossature nel bianco delle carni in cui pareva di scorgere
l'impronta delle dita del Creatore: quel profumo di bontà che
hanno i bimbi, tutto suscitò nel sasso sterile dell'uomo
selvatico un sussulto di tenerezza.
"Vuoi bene alla mamma?"
sussurrò all'orecchio del bimbo addormentato. "Naldo, vuoi
bene alla mamma?"
Naldo rispose con una leggera
increspatura delle labbra, con un sorriso che stentava a
sprigionarsi dal sonno:
"Ci."
"Anch'io!" pronunciò una
voce forte di uomo che soffre.
Che gioia s'egli fosse stato il
padre di quel bambino!
Oggi capiva ancor meno come il
povero Cesarino avesse potuto desiderare le fatue vanità
della vita, quando il Creatore l'aveva fatto padrone di queste
preziose realtà.
"Quale ricchezza, quale gioia,
quale gloria piú superba per un uomo che il sentire la sua
stessa vita palpitare al di fuori di sé in un altro essere
uscito da sé, che non morirà in noi, ma
consegnerà ad altri esseri che verranno la parte nostra
immortale, in una catena che forse va a finire nelle mani di Dio?
"Piú avrai mortificato
in te le forze generose e feconde della vita, piú avrai
vissuto di te e piú sentirai al volgere dell'età la
ribellione di tutti i sensi a questa cupa condanna della solitudine
e della morte. Non è soltanto un grido d'amore che ti
risveglia, ma un desiderio, un bisogno di paternità,
piú grande ancora dell'amore, un bisogno e un desiderio che
non si estinguono nelle onde della voluttà, ma insorgono in
nome della natura, ti comandano di vivere, o almeno di non morire
tutto in una volta e non fare di te stesso il tuo lugubre
cataletto...."
Erano questi, piú che i
pensieri, i gridi che uscivano dal profondo del suo cuore, mentre
stava accomodando il bambino nel lettuccio. Si allontanò in
punta di piedi, nascose un poco la fiamma della candela e stette un
momento ad ascoltare il molle respiro dell'addormentato.
Provò a scrivere, e mise
sulla carta quattro parole per dire a Paolino che Beatrice era molto
malata.
Ma rifletté che non
conveniva per il momento e che era meglio scrivere dimani, dopo aver
parlato con lei.
Soffiò sul lume e,
seduto nel suo gran seggiolone di vacchetta, stette a contemplare la
luna che versava una poetica luce nella stanzuccia, mentre egli
cercava di reagire a quei terribili ragionamenti interni, che da
qualche tempo non gli lasciavano piú pace. Si ricordò
che in mezzo alle tribolazioni non aveva ancora fatta la sua santa
Pasqua!
Demetrio era uomo pio,
sinceramente convinto di tutto ciò che gli aveva insegnato la
sua povera mamma fin da ragazzo e sapeva che il diavolo va in giro
la notte come la volpe: e se trova un pollaio aperto, cioè
una coscienza sprovvista di grazie e di sussidi spirituali, fa il
diavolo, cioè il suo mestiere. Glielo diceva anche fra'
Gioachino, l'ultimo frate converso che egli aveva conosciuto da
ragazzo nell'abbazia di Chiaravalle, sopravvissuto vecchio e solo
nel convento come un'ombra dopo la soppressione dell'ordine.
Era un bel vecchio con una
barba lunga, bianca, la testa rasa e lucida, che sapeva cento storie
di miracoli e contava volentieri le burle che il diavolo soleva fare
ai santi eremiti del deserto.
Anche fra' Gioachino soleva
dire:
"Chi tiene i catenacci
irrugginiti non faccia conto neppure della porta."
Forse per questo egli pativa da
qualche tempo in qua le piú stravaganti suggestioni, e
sentiva gridi e schiamazzi nella coscienza, proprio come quando la
volpe entra nel pollaio. Dimani mattina avrebbe lasciato Naldo in
custodia di Giovann de l'Orghen, e prima dell'alba sarebbe andato a
Sant'Antonio, in cerca di don Giuseppe Biassonni, un vecchio prete
un po' rustico che raspava la coscienza come un paiolo, ma dava una
salutare energia allo spirito. E fece cosí. Disse tutto al
prete lo stato dell'animo suo, contò le tentazioni, provando
il piacere di chi si toglie d'addosso una camicia sporca e se ne
mette una di bucato.
Don Giuseppe non fece
complimenti:
"Sicuro che saresti un bel
birbone," gli disse "se per una tua golosità mettessi tutta
una famiglia nel caso di morir di fame. Se si lascia parlare la
passione, ne sa sempre piú di un avvocato. Ti dirà che
tu hai dei meriti, che puoi fare meglio degli altri, che il bene
è di chi se lo piglia, ti tirerà a vedere la terra
promessa, ti metterà tutto il mondo ai piedi, precisamente
come fece Satana a nostro Signore. Io non ti dico altro: o si serve
alla giustizia o si serve agli appetiti nostri; o si vuole il regno
di Dio o si vuole quello delle tenebre. In due scarpe non si
può tenere il piede. E il bene cessa di essere bene, quando
lo si adopera per foderare il tabarello del diavolo."
Demetrio avrebbe voluto che il
vecchio rustico seguitasse un pezzo a sgridarlo, a strapazzarlo
cosí.
Sotto i colpi dei rimproveri
sentiva le ossa slogate andare a posto.
Una vera pace venne dietro
all'assoluzione e quando egli uscí dalla chiesa, si
sentí un altro uomo. Non tornò a casa, ma corse
difilato in Carrobio per conoscere come la malata aveva passata la
notte e per consegnare la famosa lettera di Paolino, nel caso che
Beatrice volesse cominciare a pensarci.
Dopo molte giornate di bello,
il tempo era scuro, con densi nuvoloni di temporale in aria, con
spessi e forti colpi di vento che facevano sbattere le gelosie. Non
tardò molto che si mise a piovere allegramente, tanto che
Demetrio arrivò in Carrobio coll'ombrello grondante.
"Come sta la mamma? ha
dormito?"
"Meglio, sí. Mi ha detto
quando veniva lo zio Demetrio di avvertirla."
"Non ho molto tempo."
"Vado subito."
Demetrio collocò
l'ombrello grondante in un cantuccio, lasciò il cappello
sulla sedia e stette ad aspettare in piedi, in mezzo alla stanza,
colle mani nelle maniche, gli occhi incantati sui mattoni.
"Venga, zio..." disse Arabella
con un cenno della mano, facendo spiraglio dall'uscio.
Demetrio si mosse e chiese:
"Si può?"
Beatrice non rispose subito e
lasciò a Demetrio il tempo di accorgersi ancora una volta di
un gran martellamento di cuore.
"Avanti pure."
La stanza da letto dava sulla
corte e risentiva la tristezza della giornata piovosa tra i muri
bigi e i tetti neri e lucenti. Le tendine di mussolina, ingiallite
di polvere, rendevano ancora piú spenta la luce.
Beatrice stava nella parte a
sinistra del suo letto matrimoniale, verso la parete piú
lontana dalla finestra. La destra era libera, intatta, come l'aveva
lasciata il povero Cesarino.
"Come va?"
"Sto meglio, è un po' di
febbre."
"Guarda, forse il tem... forse
il tempo."
Demetrio fissò gli occhi
sulla finestra. Pioveva fitto, di gusto, battendo sui vetri; e
tratto tratto passava nella furia del vento un lampo.
"Piove come se non fosse mai
pio... piovuto" tornò a dire Demetrio, dritto verso la
finestra, senza voltar la testa verso Beatrice, come se fosse venuto
a strologare il tempo e non per altro.
Seguí un istante di
silenzio, dopo il quale Beatrice prese a dire:
"Avete avuta la pazienza di
condurre Naldo con voi...."
"Pover patanèll!..."
disse lo zio con un movimento, quasi uno scatto del capo. E
soggiunse: "Pensavo che si potrebbe mandare Mario alle Cascine. La
Carolina è meglio di una mamma... Anzi ci ho qui una lettera
di Paolino."
E slacciati i bottoni
dell'abito, Demetrio cacciò la mano nella tasca di sotto,
chinandosi giú giú, come se pescasse in un pozzo.
"Sedetevi."
"Comodissimo."
"Devo parlarvi di una cosa..."
tornò a dire con voce tremolante Beatrice, facendo violenza
alla sua timidezza.
"Se sapeste Demetrio che cosa
mi è capitato!"
"Che cosa?..."
"Ah Signore, che spavento! sono
ben malata per questo."
"O di... diavolo!..."
Demetrio, che aveva già
la lettera di Paolino in mano, si voltò verso il letto e
appoggiò le mani sulla sponda. Beatrice, sul punto di
confessare al cognato il suo gran sproposito, provò un senso
di ribrezzo e si raccolse nelle coltri, come se volesse sprofondare
e scomparire nel letto. L'occhio di Demetrio passò
rapidamente sulla persona di lei e andò a figgersi nella
testa di un Cristo coronato di spine che pendeva a capo del letto.
"Diavolo!" ripeté con un
filo di voce. "Che cosa vi è capitato?"
"Come posso dirlo?... Mi pare
che andrei piú volentieri incontro alla morte."
"Alla... alla morte?"
Demetrio crollò una
volta il capo a destra, una volta a sinistra, come se cercasse una
spiegazione alle due pareti e tornò a figgere gli occhi sul
quadro, evitando di guardare addosso alla malata.
Beatrice cominciò a
singhiozzare e a bagnare il cuscino di lagrime.
"Ma io non capisco, cara
voi...."
"Se non promettete prima di
perdonarmi...."
"Io perdonarvi?"
"Vi giuro che non l'ho fatto
con cattiva intenzione."
"Che cosa non avete...."
"Fu per compassione di mio
padre che insisteva tanto. Ho fatto male a non parlarvene prima, ma
sapevo che eravate contrario a dar denaro a quel povero uomo. Mi
sono fidata della Pardi... oh povera me!"
"Cioè... volete dire che
avete dato del denaro a vostro padre...."
"Sí."
"E che l'avete tolto a prestito
da qualcuno...."
"No, no."
"Avete forse firmata qualche
carta?"
"No, no, è un
tradimento, un infame tradimento..." proruppe con un grido soffocato
la povera donna.
"Un...?"
Demetrio abbassò lo
sguardo dalla cornice e cercò nel volto della donna una
spiegazione a questo enigma.
"Quando penso alla figura che
m'hanno fatto fare, non so come sia ancora viva."
Per quanto andasse a
immaginare, Demetrio non poteva capire. Era cosí ingenuo ed
ignorante delle cose del mondo, che fuori del suo libro non sapeva
né leggere né indovinare.
Beatrice, quando ebbe asciugate
una o due volte le lagrime, in mezzo ad un gran garbuglio di cose
uscí a dire:
"Mi hanno mancato di
rispetto...."
"Vi hanno...."
E Demetrio alzò un dito
e con questo in aria tornò a chiedere:
"Chi... chi vi ha mancato di
rispetto?"
"Ah, sapeste! mi hanno creduta
una donna di quelle... Ah, povera me! poveri i miei figli!"
"Chi?!"
Demetrio ripeté questo
"chi?!" con un accento aspro e fiero, e andò avanti due passi
nella stretta del letto fin quasi addosso alla malata. Credeva bene
di aver capito questa volta. Sapeva che c'è della gente, che
ci sono dei bricconi a questo mondo, i quali non hanno nessun
rispetto per una povera donna. Sapeva quello che il mondo infame
andava dicendo sul conto di questa donna, senza un motivo. Non aveva
creduto anche lui a mille ciarle prive di fondamento? Chi le aveva
mancato di rispetto?
Tutte queste domande cozzarono
come tante palline di ferro scosse in un bicchiere, sotto un
cipiglio di sfida. Non strepitava, non si agitava mica. Voleva
soltanto sapere chi aveva osato mancare di rispetto, chi aveva
creduto che sua cognata fosse una donna di quelle...
"Demetrio," continuò
ella, alzandosi un poco sul cuscino e sostenendosi sulle braccia "se
vi conto tutto, è perché sento che soltanto voi potete
aiutarmi in questo momento: ma non voglio che per colpa mia voi
dobbiate avere poi dei dispiaceri. Il danno materiale è poca
cosa: lo compenserò, lavorerò, guadagnerò,
dovessi vendere anche il letto...."
"Sí, sí, ma voi
dovete..." insisteva Demetrio stringendo un pugno tutto pieno di
spigoli.
"Abbiate pazienza, lo sbaglio
fu tutto mio. Capisco che avrei dovuto essere piú prudente,
credere meno alla gente. Ma ci sono andata in casa come si va nella
casa di un benefattore; voi stesso mi avete parlato sempre di lui
con una grande opinione. Chi doveva immaginare che quel signore,
alla sua età... Insomma fui ingannata, ma la colpa è
mia. Avrei dovuto credere ai vostri consigli. Quando sono uscita da
quella casa mi pareva che la gente dovesse leggermi in viso la mia
vergogna e mi pareva di sentire la voce di Cesarino che diceva:
"Brava, begli esempi che dài alla tua figliuola!" Ah che
notti ho passato mai ieri e ieri l'altro! Che cosa non ho pensato
anche di voi, Demetrio! Dicevo: egli mi ha sempre parlato del
cavaliere come di una persona molto rispettabile; gli ha
raccomandato Mario per l'Orfanotrofio: gli ha subaffittato due
stanze... Ma, Signore! che anche Demetrio aiuti a tradirmi? dove
sono? in mano di chi sono? Capisco, forse sono una donna viziata
dalla buona fortuna, una donna poco pratica, poco avveduta, ma
quando ho dato prova, Gesú mio, di non essere una donna
onesta? Se venisse qui il mio povero Cesarino, guardate, Demetrio,"
e nel dir cosí si pose quasi a sedere sul letto, "se egli
potesse uscire dalla sua fossa, vi giurerebbe sul capo de' miei
figliuoli che io non ho mai tradito, nemmeno col pensiero, i miei
doveri di buona moglie, e dal dí che egli è morto voi
sapete che non ho fatto che piangere e pregare."
E tornando a rompere in un gran
pianto, soggiunse:
"Ditelo, ditelo a quel
signore... ditelo alla gente... non aiutate anche voi a tradire una
povera donna... Fatelo almeno per compassione de' miei
figliuoli...."
Beatrice, dopo questo sfogo,
lasciò cadere la testa di nuovo sul guanciale colla
pesantezza di persona sfinita. I suoi capelli in disordine, nel
bianco delle coltri, spiccavano come una massa d'oro. Ora che aveva
parlato e detto il suo peccato, le pareva di sentirsi quasi guarita.
Nessuno l'aveva mai veduta cosí bella.
Demetrio, irrigidito nei
muscoli, ritto in piedi come un pilastro, colle mani schiuse ad un
gesto che pareva indurito nell'aria, dopo aver capito tutto, anzi
troppo, finí col non capir piú nulla.
Aveva davanti a sé un
bianco fantasma confuso dentro una nuvola, sentiva nelle orecchie il
rumore d'una voce compassionevole; ma fatto stupido e farnetico
dalla sofferenza, col cuore soffocato da uno sdegno tremendo, cogli
occhi offuscati, stava lí che non sentiva nemmeno la terra
sotto i piedi.
È lungo dire tutto
ciò che precipitò nel suo cuore in quell'istante,
tutto ciò che il pianto e il rimprovero di quella donna
eccitò in lui di terribile e di spaventoso tutto ciò
che l'ira persuase di fare.
Ma piú che dall'ira fu
vinto dalla sua debolezza.
La sua faccia somigliava a una
maschera che piange.
Era questa l'arte del saper
vivere: questo il sugo dei pareri disinteressati: questo lo zelo per
la pace di un uomo ingenuo caduto dalle tegole... O scempiaggine! o
cattiveria umana!
Egli per il primo, colla sua
presunzione di far meglio degli altri e di aver ereditato tutto il
buon senso di casa Pianelli aveva accolte le voci della
malignità, aveva sospinta una povera donna nelle fauci del
lupo. Però con questi bei servigi s'era procacciata una
speciale benemerenza, forse una promozione nell'organico... to'
to'... anche questo spiegava le riverenze del Ramella, gli amplessi
del Quintina, le umili raccomandazioni del Bianconi.
Dio, che vergogna, che
abbiezione, che mortificazione alla nostra superbia! che
avvilimento, che castigo!
Sentiva quasi la vita rompersi
e scassinarsi, come un vecchio orologio a cui la mano di un pazzo
strappi la catena e faccia sonare tutte insieme le ore. Corse colla
mano in cerca del fazzoletto, perché la testa gli si gonfiava
e gli occhi s'imbambolavano. Crollando il capo, si mosse,
andò fin sotto la finestra, appoggiò la fronte riarsa
ai vetri, contro i quali batteva la pioggia fredda e sottile, e
pianse col singhiozzo addolorato e rauco dell'uomo che non piange da
un pezzo.
"Perché piangete, voi?..
Non ne avete colpa, lo so. Anche voi avrete agito in buona fede...
Io non vi accuso di questo, Demetrio. Abbiate pazienza." Cosí
sorse a dire con tono compassionevole la cognata.
Quando fu dissipato quel gran
fumo che gli velava il lume degli occhi, quando finalmente
poté parlare, egli si voltò con un moto pronto e
risoluto:
"Sentite," esclamò con
una voce diversa di prima "è detto che io sono un povero
imbecille" e siccome Beatrice voleva contraddire, egli gridò:
"no, no, no: è vero, lo sono, lo sono. Se non lo dice
nessuno, lo dico io: io sono un imbecille, un bestione,"
insisté, portando i due pugni stretti alla fronte "un
mammalucco, sono."
Beatrice voleva di nuovo
protestare.
"No, abbiate pazienza,
lasciatemi dire. Io sono anche un imbecille presuntuoso, che
dò pareri agli altri e non ne tengo per me. È giusto
che porti la pena della mia asinità; ma sentite, Beatrice,
com'è vero che stamattina ho fatto la santa Pasqua,"
soggiunse alzando le due mani giunte "io sarei il piú
vergognoso degli uomini, se questa ingiuria che vi hanno fatta non
la ricacciassi in gola...."
"Sentite...."
"In gola, in gola..."
tornò a ripetere quasi fuori di sé, mostrando i pugni
alla terra "in gola a quell'impostore...."
"Per carità, caro
Demetrio" supplicava la malata, sollevandosi ancora un poco a sedere
sul letto.
"Ad uno ad uno gli farò
ringoiare i buoni consigli che mi ha dato. Ah io sono un uomo
ingenuo, io mi mangerò il fegato, mi farò maledire!?..
Glielo farò mangiar io il fegato a quel...."
Ed aizzato dalla sua passione
continuò a passeggiare su e giú per la camera come
forsennato.
Arabella, chiamata da quella
voce stridula, corse e stette a sentire all'uscio col cuore in
tempesta. Eravamo alle solite? Lo zio Demetrio non aveva mai gridato
a quel modo.
"Sentite una volta, Demetrio.
Ora mi fate pentire d'aver avuto confidenza in voi. Abbiate
pazienza, venite qua, sedetevi un momento, per l'amor di Dio. Non
voglio che voi crediate il male piú grande che non sia."
Demetrio, quasi condotto da
quella voce molle e insinuante, andò a sedersi su una scranna
appoggiata al muro, e si raccolse in sé, con aria sdegnosa e
spossata, curvò il corpo sulle gambe, appoggiando la faccia
ai due pugni stretti.
Beatrice, con un candore pieno
di umile contrizione, prese a raccontare distesamente la sua visita
al cavaliere, e perché vi era andata, e come avesse risposto
alle sue insistenze, e come, tornata a casa, si togliesse d'addosso
quel braccialetto che le bruciava le carni, e come finalmente
ricorresse a lui, Demetrio, non per essere vendicata, ma soltanto
per restituire al suo adoratore i denari ed il regalo, perché
di questa roba non ne voleva piú sapere. E rigirando
l'avventura un poco allo scherzo, mettendo nella voce un filo
sottile d'ironia, finí col dire:
"Io per me, me ne rido di quel
vecchio sciocco e galante, del quale non ho mai cercata la
protezione: ma voi potreste avere dei dispiaceri grossi. Egli
è potente, è vostro superiore, e, non potendo
vendicarsi su di me, avrebbe gusto di vendicarsi su di voi."
"Si vendichi..."
sentenziò Demetrio, alzandosi sulla persona. E voleva dire:
"Se vuole anche il mio sangue, se lo pigli..." ma la vista quasi
improvvisa di quella donna che lo guardava cogli occhi grandi,
l'abbagliò: tornò ad abbassare il capo, si restrinse,
si contorse nella sua scontrosa debolezza, e sentendosi quasi
morire, mandò col cuore un'ardente invocazione a quel Signore
che aveva ricevuto nel petto la mattina.
Il colloquio fu interrotto da
Arabella che entrò leggermente con una medicina. La fanciulla
era pallida, sconvolta, e le sue mani tremavano come se avesse
indosso la febbre.
Dietro di lei entrò
anche la signora Grissini; cosí, dopo qualche sconnessa
parola di complimento, Demetrio prese congedo e uscí,
graffiando l'uscio, promettendo che si sarebbe lasciato rivedere
presto. Aveva bisogno di respirare l'aria libera.
Fece le scale, trovò la
solita strada di casa sua quasi per miracolo, come se camminasse in
sogno, sollevato una spanna dal suolo. La testa girava come un
arcolaio che gira al sole, proiettando ombre strane e sgangherate
sul fondo della sua coscienza.
"Che talento, sor Pianelli!"
andava declamando una voce in fondo a quel testone enorme che gli
pesava sulle spalle, "che bel talento! e che furberia, Meneghino!
valeva la pena di scendere dall'abbaino a predicare la morale agli
altri e di credersi quasi l'incarnazione del buon senso, per fare in
fondo queste belle figure!"
E i bei consigli del suo
benamato superiore? qui il bello toccava il sublime. "Povero
Pianelli, lei è troppo ingenuo" la voce carezzevole e
insinuante del cavaliere gli rinasceva nelle orecchie e gli dava la
baia; "lei ha troppo buon cuore e il cuore è buono per i
merli. Io le parlo come padre, come superiore: non sta nemmeno della
sua dignità...."
"Ah, sí, proprio?"
esclamava, fermandosi sui due piedi in mezzo alla gente. Per fortuna
e per grazia di Dio il cavalier Balzalotti non era a Milano e forse
in quel momento lí dava a sua eccellenza il Ministro i suoi
preziosi consigli: altrimenti egli sentiva che avrebbe fatto uno
scempio, e poi finis mundi. Che gli importava adesso della sua vita?
si poteva cadere piú basso di cosí, anche andando in
prigione?
"Non sta della mia
dignità il patire la fame e la miseria coi disgraziati, ma
è della dignità tua, o birbone, tendere la trappola a
una povera donna, tirarla in casa colle belle, chiudere la chiave
dell'uscio, far le moine del gattone, tentarla un po' colle dolci,
un po' colle brusche, provarne la virtú coi regalucci? Ah
birbonaccio!"
Durante le ore che rimase
all'ufficio, nei primi due giorni che tennero dietro al colloquio
con Beatrice, non fece che ripetere quest'orazione, sogghignando dal
suo posto alla poltrona vuota del cavaliere, la quale nella sua
matronale tranquillità pareva rispondere: Io non c'entro.
Lavorò poco,
confusamente, evitò d'incontrarsi coi colleghi - birbonacci
anche loro!
"Vengano adesso a implorare la
parolina! Venga il signor Bianconi, caro anche lui con quel fare di
gattamorta! Non c'è piú da fidarsi in questo mondo,
nemmeno dei piú vecchi amici."
Una volta il Ramella, vedendolo
passare, corse ad aprire la porta e a far le riverenze.
"Stia comodo," gli disse
Demetrio con un sorriso amaro e gonfio "adesso è finita
l'entratura."
"Cosa?" domandò il
portinaio, che non aveva capito.
"Uuh!" rispose con voce nasale
Demetrio, rincagnando la faccia.
"Non c'è piú da
fidarsi di nessuno... Cara anche quella signora Palmira co' suoi
buoni consigli, co' suoi segreti protettori. Bel regalo che ha fatto
all'amica del suo cuore! e adesso bisogna trovare subito cento lire
da restituire al buon benefattore, e bisogna farlo subito, per
telegrafo se occorre, perché certi denari bruciano le mani.
Dove trovarle cento lire? non le avrebbe chieste certamente a
Paolino questa volta... A proposito. Non doveva egli consegnare una
lettera di costui a Beatrice? L'aveva collocata sotto il calamaio...
anzi l'aveva presa una volta con sé, ma la lettera non c'era
piú, né qui, né là, né in fondo
alle tasche. Che l'avesse perduta? La sua testa aveva ora ben altro
da pensare che alle scalmane del signor Paolino. E perché non
veniva lui a proteggere l'onore della sua fiamma, ma stava
comodamente alle Cascine ad aspettare la manna dal cielo? oltre al
resto doveva toccare anche a lui la parte del mediatore, per farsi
odiare forse anche dal cugino? perché questa è la
regola: piú un uomo si strugge per fare del bene e piú
diventa antipatico e odioso. È meglio nascere con un
ramolaccio al posto del cuore, guardare a sé, pensare a
sé, fare il proprio interesse, pigliarsi i propri comodi,
soddisfare i propri appetiti. Egoisti, egoisti, viva la vostra
faccia!"
Per due o tre giorni non fece
che predicare a sé stesso, dentro di sé a questo modo
con una violenza morbosa, fuggendo la faccia degli uomini,
finché una volta si domandò, stringendo la testa nelle
mani, se aveva il cervello a posto.
Naldo aveva voluto tornare
dalla sua mamma. Rimasto ancor solo in cima alle scalette, nella
morta solitudine dei tegoli, Demetrio aveva tutto il tempo di
torturarsi da sé, vittima di una forza alla quale non sapeva
resistere.
Ma il dispetto furioso, a poco
a poco vinto dalla stanchezza stessa dei nervi, cominciò a
cedere il posto a un'altra riflessione se pure meritava questo nome
un lembo di sereno, che usciva or sí or no in mezzo alla
nuvolaglia di tante brutte cose.
Quel lembo di sereno era
Beatrice.
In fondo all'aspra battaglia,
nell'abisso della sua vergogna, il pover'uomo si sentiva avvicinato
non uno ma cento passi a quella donna.
Qualche cosa che non si sa
definire, qualche cosa che ti piglia e ti stringe i sensi del cuore,
dandoti in mezzo alle sofferenze dell'agonia una goccia di dolcezza,
seguitava a invadere l'anima.
Egli viveva di quella goccia.
Capiva come si possa accettare anche di morire per inebriarsi una
volta di quella dolcezza e come si possa morire volentieri una volta
gustata.
Essa lo aveva chiamato una
volta caro Demetrio; aveva steso verso di lui le braccia,
supplicando ancora la sua protezione. Aveva con due parole perdonate
tutte le amarezze sofferte da lui e le offese a cui l'aveva esposta
la sua grossolana ignoranza.
Beatrice nella sua bontà
semplice e mite era passata in mezzo alle calunnie, come uno spirito
che le cose del mondo non possono toccare.
Non era una donna sublime,
né per ingegno, né per arte di stare al mondo,
né per tante altre cose che dànno poi il frutto che
s'è visto: era una buona creatura, onesta per indole,
affezionata alla sua gente, che chiedeva soltanto un po' di pace e
un sorriso; ed egli aveva visto questa donna, coi capelli scomposti,
cogli occhi lucenti verso di lui, nel suo gran letto bianco, mentre
cercava di intenerirlo, con una voce supplichevole da rompere in due
pezzi un ciottolo del selciato... Ah no! non si potevan covar idee
d'odio e di vendetta con quella voce nel cuore...
Questa voce lo svegliava nel
pieno della notte. Si metteva a sedere sul letto, nel buio, cogli
occhi fissi alle stelle e procurava di ricrearsi davanti il bianco e
stupendo fantasma. Finí col non poter dormire piú. Il
mattino lo sorprese piú d'una volta pallido, intirizzito
sulla sponda del letto. O se la eccessiva prostrazione gli faceva
posare un momento il capo sul cuscino e gli velava la pupilla,
quanti fantasmi lividi e lucenti assalivano il suo spirito! Visioni
morbide e morbose avviluppavano il suo pensiero, gli toglievano la
forza di raccapezzarsi.
"O Signore Iddio, abbiate
misericordia di un povero uomo!..." esclamava in mezzo ai sogni
nell'ombra.
Da quelle visioni cadde in un
letargo febbrile, che divenne ben presto una febbre bella e buona,
poi un febbrone bruciante, che gl'impiombò le palpebre e lo
tenne inchiodato in letto quasi una settimana.
PARTE QUARTA
DALLA SONNAMBULA
I
Da quindici giorni Paolino non
aveva ricevuto che un'asciutta cartolina di Demetrio, nella quale
gli diceva che Beatrice era malata, che anche lui era malato, che
quindi non era il momento di parlare dei noti progetti, e niente
altro.
Che significava tutto
ciò? e non poteva il cugino scrivere una riga di piú,
rinfrancare la speranza di un poveretto, malato anche lui di un male
che i medici non sanno guarire? Qui sotto ci doveva essere del
mistero: e probabilmente quella cartolina non era che una staffetta
di battaglia perduta. Non mai come ora gli pareva di essere stato
temerario e illuso. Sarebbe stato piú strano che Beatrice
avesse risposto subito: "sí, sí, volentieri". Se
Demetrio non fosse stato anch'egli un illuso per necessità,
avrebbe potuto aprirgli gli occhi alla bella prima.
Chi sa quante risate avevano
fatte a quest'ora a Milano sul conto di Paolino delle Cascine!
Provava a rileggere la sua
famosa lettera e ad ogni frase sentiva anche lui la voglia di
ridere. E Milano, una città che non manca di burloni, non si
lasciano scappare le occasioni di ridere.
"So che io non avrei dovuto
essere tanto temerario d'innalzare gli occhi sino alla Sua Persona",
diceva la lettera, e gli pareva di veder Beatrice a ridere. Altro
che porgere grato orecchio!... - Piú sotto c'era un'altra
frase che diceva: "voglia dunque alla stregua di queste
considerazioni...", e qui gli pareva veder Beatrice intenta a
cercare sul vocabolario il significato di quella strana parola, che
egli aveva voluto introdurre per contentare don Giovanni.
Erano già sonate le
dieci e Paolino non si lasciava vedere quella mattina.
La buona Carolina, che aveva il
figliuolo sul cuore, andò su, picchiò all'uscio,
aprí, e trovò suo fratello ancora a letto, nella
stanza quasi buia, avvoltolato nelle coperte come un eroe trafitto
nelle pieghe del mantello.
"Ti senti male, Paolino?"
chiese, aprendo un poco le imposte.
"Lasciatemi stare; sí,
mi sento male."
"Devo far venire il dottor
Fiore?"
"Fa venire il diavolo. Che non
si possa star quieti una mezz'ora?"
"Son già le dieci, caro
mio: e se ti senti male...."
"Allora sto benissimo."
Paolino, che riempiva colla
persona tutta quanta la lunghezza del letto, si rotolò sul
fianco, facendo stridere le foglie secche del pagliericcio e
scricchiolare la lettiera; e voltò la faccia al muro.
La Carolina, che era la madre
della pazienza e che conosceva l'arte di medicare le piaghe
coll'olio d'ulivo, prese una sedia, vi si appoggiò piú
che non si sedette sopra, congiunse le mani sul grembialone e
cominciò a dire:
"Non far cosí, non sta
proprio bene. È quasi un tentare la provvidenza."
"Bella provvidenza!"
"Non ti ha scritto Demetrio che
essa era malata e che si sentiva poco bene anche lui?"
"Tre righe in quindici giorni."
"Roma non fu fatta in un giorno
e non si può dire ad una donna: Son qui, la mi pigli, come se
si trattasse di un bicchierino di rosolio. Si sa, anche lei deve
fare i suoi conti."
"Doveva dirmi almeno se ha
consegnata la mia lettera."
"Gliel'avrà data, cari
angeli custodi!.. Stanotte ho fatto un sogno...."
"Brava, contami i tuoi sogni
adesso!"
"Tu sei padrone di non credere
a' miei sogni, quantunque io pensi che, se Dio li manda, avrà
il suo scopo. Anche Giacobbe...."
"Oh cara, anche la storia
sacra!"
"Ti ricordi la povera Marietta
dell'Acquabella? una notte sognò che il suo figliuolo soldato
in Sicilia era malato di vaiolo: la mattina non giunse il telegramma
ch'era morto?"
"Storie del medio evo!"
ribatté sgarbatamente Paolino, che cominciava a non credere
piú a niente.
"Saranno idee vecchie, ma alle
volte le idee vecchie fanno correre le nuove."
"Ebbene, che cosa ti sei
sognata? Sentiamo anche questa" disse Paolino, sollevandosi un poco
sul letto e guardando la sorella con un fare tra il disgustato ed il
burlesco.
"Mi pareva dunque che Beatrice
fosse ancora qui alle Cascine coi suoi figliuoli, nella stanza qui
sotto, che era la sua, va bene? La pettinavo come solevo far tutte
le mattine, pigliando in mano quella bella massa di capelli, che
pare un bandolo di lino, un profluvio, che vanno fino in terra
quando è seduta. La stavo pettinando, quando mi rimase in
mano una ciocchetta di quei capelli. E proprio in quella mi
svegliai."
"O che bel sogno! o che bel
sogno!" cantarellò Paolino, lasciandosi cadere sul cuscino e
ridendo di mala voglia.
"Aspetta un poco, che sentirai.
Mi sveglio, va bene? e mi viene in mente di entrare nella stanza qui
sotto, dove non sono mai entrata dopo la partenza di Beatrice e di
Arabella. Apro per caso il cassettino della tavoletta, e guarda che
cosa trovo...."
La Carolina cacciò la
mano in una delle grandi tasche del suo grembialone, svolse un
cartoccio e tirò fuori un filzolino di capelli biondi,
proprio di quel biondo come non ce n'è un altro al mondo.
Paolino si rizzò sul
gomito e aprí gli occhi e la bocca davanti a quel filzolino,
che la sorella teneva sollevato in aria.
"Ti paiono i suoi?"
Paolino li prese tra le dita,
li palpò, crollò il capo forse per asciugare nell'aria
una sciocca commozione che gli penetrava il cuore, e tornò a
piombare sul cuscino.
"Ai sogni si può credere
e non credere, perché non sono articoli di fede. Ma io dico
che il Signore ha tante strade per andare a Roma e che alle volte
bisogna lasciarsi guidare dai piccoli segnali. A furia di piccoli
grani i frati di Chiaravalle facevano seicento moggia di frumento.
Un parere te l'ho dato ieri mattina."
"Quale?"
"Che tu andassi a Milano in
cerca di Demetrio."
"No, mai: per farmi dire la
brutta verità sulla faccia?"
"E allora non resta che tentare
un'altra strada. Tu dirai che sono anche queste cose del medio evo:
ma pazienza, parlo con buona intenzione. Sta per cominciare la
stagione dei grossi lavori, e se ti ammali, io non posso arrivare
dappertutto. Sento già le mie gambe che gridano vendetta in
cielo. Tu hai tutti i diritti d'avere la tua famiglia: è
naturale, non sei un uomo per niente. Il mio ideale - te l'ho detto
- sarebbe stato che tu sposassi una buona e brava ragazza delle
nostre, anche un pochino piú alla mano: ma, al cuore, tu
dici, non si comanda, e non so che cosa dire."
La Carolina aggiunse qui un
sospiro che forse sollevò in lei delle vecchie reminiscenze,
e continuò:
"Il peggio che tu possa fare
adesso è di rimanere in questo stato d'incertezza...."
"E dunque? Vuoi che faccia una
divozione alla Madonna di Caravaggio?" domandò Paolino con un
sorrisetto quasi da miscredente.
"Anche una divozione non
sarebbe fuori di luogo, perché la Madonna ha patito anche lei
e sa compatire. Ma non è di questo che parlo adesso. Ti
ricordi quella volta che ho perduto il mio anello di diamante? Chi
diceva che me l'avevano rubato; chi diceva che lo avevo perduto per
via; chi questo, chi quello; e per una settimana ho voluto impazzire
inutilmente. Allora mi venne in mente di far interrogare madama
Anita, che sta a Milano in contrada di San Raffaello, quasi sotto il
Duomo; e come se la cara creatura lo vedesse in uno specchio, mi
fece rispondere: "Cerchi l'anello e l'hai nella mano! Guarda nel
guanto". Sono andata a vedere e c'era proprio come essa aveva
detto."
"Mi ricordo. E cosí?"
"Io dico: come madama Anita ha
potuto indovinare allora, potrebbe, coll'aiuto di questi capelli,
trovati per miracolo, indovinare ancora. Molte mie compagne di
scuola hanno saputo con questo sistema quando dovevano maritarsi e
chi dovevano sposare. Sarà, non sarà magnetismo, io
non voglio decidere, ma tentare non nocet e se ne sentono di quelle
che fanno restare incantati. Anche il dottor Fiore, che non è
una donnetta - anzi stenta a credere anche le cose necessarie - dice
che la scienza non sa definire, ma che qualche cosa c'è. Se
fossero proprio cose del medio evo, non si vedrebbero annunciate fin
sulla quarta pagina della Perseveranza, che tu dici un giornale
serio. Va bene? Madama Anita è una buona creatura, bella come
una madonna, che soffre come un'anima del purgatorio quando la fanno
parlare; ma se può far del bene non si rifiuta. Sento che fa
anche un monte di carità. È discreta e una volta
sveglia non si ricorda piú. Tu potresti andare a Milano
sabato per la piazza, e quando hai sbrigate le tue faccende, se non
hai proprio il coraggio di vedere Demetrio, provi a sentire madama
Anita. Bòtte non te ne dà. Le metti questi capelli in
mano e stai a sentire ciò che ella ti dirà - va bene?"
Paolino rimasto a sentire con
quel magico filzolino di capelli tra le dita, s'era lasciato
trascinare a poco a poco dal discorso di sua sorella in una specie
di incantesimo dal quale non avrebbe voluto piú uscire.
Non disse né sí,
né no, per il momento, per non compromettersi, e la Carolina
gli lasciò tutto il tempo di riflettere. Rimasto solo, dopo
aver gustate in silenzio le parole amorose e incoraggianti della
sorella, portò i capelli di Beatrice alla bocca e
mormorò con un raggio di speranza in faccia:
"Dite un po' di chi siete...."
II
Al sabato, Bassano, il
cavallantino, ebbe ordine di preparare la carrozza grande coi due
puledri castagni, e fu pronto per le sette e mezzo.
Cogli alti stivaloni, da cui
uscivano fascetti di paglia, coi baffi rossi rasati come il pelo di
una spazzola, col suo bel cilindro di pelle scura e la nappina di
cuoio alla postigliona, Bassano aspettò una mezz'ora il
padrone seduto sul cassero dopo aver infilato le grosse dita di
bifolco in un paio di guanti di refe, grandi come due sacchi di
meliga.
Nella vasta corte, cinta
all'intorno dai fienili e dalle stalle, era un vivo movimento
dì donne, di ragazzi, di oche e di galline. Di là
cantava un gallo, di qua muggiva una manzetta, in fondo strideva un
secchio luccicante al sole; era anche una magnifica giornata di
maggio
Intorno al carrozzone padronale
cominciarono a raccogliersi i bambini, che s'incantavano a guardare
come se non avessero mai vista una carrozza, coi nasi mocciosi, coi
piedi nudi nella melma. Tratto tratto uscivano a dare un'occhiata
anche le donne, che facevano il bucato sotto il portico della
legnaia.
Il signor padrone non finiva
mai di farsi la barba.
La Carolina collocò tra
i piedi del cavallantino un cesto di vimini, da cui uscivano da una
parte il collo di una bottiglia piena di panna tappata con erba
fresca, e dall'altra il collo di un'anitra viva.
La povera bestia, legata sul
fondo del cesto con ramettini di salice, salutava da lontano le sue
dolci compagne che piú fortunate di lei, per il momento,
diguazzavano fuggendo per l'acqua verdognola della gora sotto
l'ombra deliziosa dei pioppi.
"Sapete dove sta: in Carrobio."
"Sí, lo so."
"Le dite di scusare, e che la
saluto tanto tanto, e che se mi sentirò bene andrò
presto a trovarla."
In quella comparve Paolino
vestito bene, colla sua grande catena d'oro grossa come un dito.
Siccome s'era fatto tagliare anche i capelli, il cappello di feltro,
diventato un po' largo, cadeva ed andava ad appoggiarsi sulle
orecchie come sopra due mensole. Aveva nelle mani un fascio di
carte, un portafogli pieno di biglietti di banca, qualche libretto
della Banca Popolare e pareva confuso, distratto, sbalordito.
Carolina lo aiutò a
mettere le carte a posto e gli disse sottovoce:
"Tieni a mente, contrada di San
Raffaello, numero 13."
Egli salí in carrozza,
si rannicchiò in un angolo, i cavalli si mossero, i ragazzi
corsero dietro alla carrozza fino alla strada provinciale e tutto
rientrò nell'ordine solito alle Cascine. Ma alla povera
Carolina il cuore batteva come il martello di un magnano.
Chi sa come finirebbe questa
storia! e se madama Anita non poteva dargli una consolazione? Che
cosa era saltato in mente a Demetrio di condurre quella benedetta
donna alle Cascine! Al tempo delle streghe si sarebbe detto che
l'avevano stregato quel ragazzo.
Strada facendo, Paolino
finí di mettere a posto i conti, i denari, i libretti: ma il
suo pensiero era fisso, inchiodato a un piccolo involto di carta, di
cui sentiva il gruppo nel taschino del panciotto. Sempre in paura di
averlo dimenticato o perso, vi portò la mano dieci o dodici
volte in una mezz'ora. Da quel gruppo, come da un bottone di fuoco,
sentiva un raggio di calore scendere per le costole fino alla sede
del cuore. Era un calore che bruciava, ma senza dolore.
Man mano che si avvicinava alla
grande città, lo assaliva lo sgomento come se egli venisse a
darle il fuoco; cercava di non pensare a madama, e, di pensare
invece alla sua Beatrice. A volte non sapeva piú distinguere
tra queste due donne, che s'incarnavano in una sola cosa di genere
femminile, posta in mezzo alle case di Milano, per la quale egli si
era mosso, e della quale aveva una gran paura, ma non sarebbe per
questo tornato indietro. La grande città l'attirava come una
voragine. Quel non so che di sacro e di pauroso, che hanno per un
bambino le storie degli spiriti e delle fate, investí il
nostro innamorato al comparire delle prime case del sobborgo.
Passato il dazio di porta Romana, quando la carrozza cominciò
a correre solennemente e a sonare sul selciato della città,
gli parve che Milano gli cadesse sul capo, crepitando, come un
castello di carte.
Giunti presso il teatro
Carcano, Bassano fermò i cavalli davanti alla porta del
Vismara, grosso negoziante di riso, col quale Paolino era in
continui affari. Il padrone discese e passò nello studio a
stringere un contratto per qualche centinaia di sacchi. Nel trattare
esagerò a posta i prezzi dei generi per dar luogo a una viva
discussione, per mettere molte parole, molte cose estranee, molti
sacchi di riso tra lui e quella donna, a cui tra poco doveva parlare
di Beatrice.
Nell'uscire da quella casa si
sentí meglio: anzi gli parve di essere tornato un essere
ragionevole, un uomo di questo mondo, e procurò di
conservarsi tale, sforzandosi di osservare le costruzioni del Milano
nuovo che sorgevano come per incanto, e i grandi rettifili, e le
botteghe di lusso, e il movimento dei tram e il via vai della gente
affacendata, che pensa a far quattrini, che lavora, che produce, che
non bada tanto alle ciarle, che se la gode senza tante fisime.
"Gran cittadone, non c'è
che dire. Milano è sempre Milano," andava ripetendo tra
sé di man in mano che si avvicinava al centro. "Mi piacerebbe
che venisse qui Federico Barbarossa a vedere che cosa è
diventato Milano. Non pèrdono il tempo questi birboni: non
hanno ancora il gas che già vogliono la luce elettrica: non
hanno finita una casa, che la buttano giú per farne una
piú grande e piú bella. E i marenghi corrono in un
Milano, dove c'è anche della gente che sa farli saltare."
"Dove andiamo?" domandò
Bassano, arrestando i cavalli quasi davanti alle porte del Duomo.
"Tu vai per le tue faccende e
mi aspetti per le quattro alle Due Spade."
Paolino scese di carrozza e
infilò diritto l'arco della Galleria, mentre Bassano voltava
i cavalli verso il Carrobio.
Dopo aver gironzolato un quarto
d'ora, fermandosi davanti alle belle botteghe senza veder nulla al
di là dei vetri, uscí con un fare di indifferente dal
braccio destro che mette verso San Raffaello, sempre agitato dal suo
segreto spasimo: cercò cogli occhi la casa che sorgeva ove
adesso sorge un palazzo, e quasi acciecato da una passione
vergognosa, infilò una porticina, vide a piedi di una
scaluccia un cartello con sotto una mano, segui quella mano
coll'indice teso per tre o quattro pianerottoli, tra due pareti
giallastre scrostate dall'umido e dal nitro, si fermò sopra
un pianetto semibuio, pregno d'un acre odore di minestra, davanti a
un uscio mezzo di legno e mezzo di vetro riparato da una tenda di
cotone, che il venticello fresco delle camere interne sollevava di
tempo in tempo.
Qui posò leggermente la
mano sul cordone e dietro il morto tintinnío d'un campanello
di latta, sentí una voce maschia e profonda che diceva:
"I miei coturni, smorfia."
Di lí a un poco l'uscio
si aprí e comparve un uomo di mezza statura, tarchiato, con
un barbone nero, colla zucca rasa e lucida nel mezzo come un
mappamondo, che s'inchinò gravemente e disse con voce di
basso profondo:
"Servitor suo."
Aveva sui piedi un paio di
pantofole di corda che smorzavano ogni rumore dei passi. Costui
aprí un altro uscio e introdusse con un gesto largo e
ossequioso il cliente in un gabinetto vicino, avendo prima la
precauzione di chiudere bene le porte dietro di sé. Paolino
si levò il cappello e passò la mano sulla testa
sudata.
"È per malattie, per
cose perdute, per sintomi o segreti di cuore? "
"Vorrei sapere,"
biascicò Paolino con una voce che tradiva la grande
apprensione "vorrei sapere di una malata, sí, cioè,
d'una donna."
Gli mancava il coraggio di
metter fuori subito il nome di Beatrice, ma sperava di trovarlo in
seguito, alla presenza della buona signora.
"Sua moglie?" tornò a
chiedere il signore delle pantofole, che era forse il medico o il
segretario di madama.
"Nossignore."
"Una parente?"
"No, o almeno un poco."
"Un'intima relazione .Lei non
ha bisogno di tradire i segreti del cuore. La chiaroveggenza degli
spiriti immaterializzati basta a sé stessa. Si accomodi."
Il mago (per chiamarlo col nome
che si presentò alla mente di Paolino in mezzo al
guazzabuglio dei pensieri), senza far rumore, come se camminasse
sull'aria, scomparve per un usciolino segreto che cigolò
dolorosamente dietro di lui.
Paolino sentí di nuovo
la sua voce, divenuta piú cavernosa, che parlava ancora di
coturni e un'altra intrecciata alla sua, che pareva quella di una
donna piangente.
Guardò un momento
intorno, senza ardire di movere un piede dal posto dove il bravo
signore l'aveva lasciato.
Era un gabinetto di poca
ampiezza e poco bene rischiarato da una finestra che dava sopra un
tettuccio sconnesso, seminato di erbaggi e di cocci bianchi. Per
passare non c'era che un piccolo spazio tra una sedia e una grossa
tavola di noce posta sotto la finestra e tutta piena di libroni
legati in cartapecora con su un orologio a polvere, tra due
colossali corni di bufalo imperniati su piedestalli di legno neri.
Sopra una mensola attaccata all'imposta, una civetta imbalsamata
stava a guardare cogli occhi gialli.
Paolino andava osservando tutte
queste minuzie per distrarsi, per tornare un uomo ragionevole. Che
cosa voleva dire, per esempio, quel pugnale lungo, acutissimo, posto
su una tazza di bronzo tra due zampini di lepre come quelli che si
usano per spolverare le scrivanie? E quella testa da morto in faccia
all'usciolino, bianca e lustra come l'avorio, come una specie di
sorriso sui denti?
La finestra a piccoli quadretti
di un vetro verdognolo e affumicato sbatteva una luce languida e
scialba sulla tappezzeria raggrinzata, coperta in gran parte da
lunghe filze di vecchie carte, forse lettere, ricette, consulti,
memoriali infilzati nei rametti di ferro, di cui erano pieni anche
gli usci e gli stipiti.
Mentre Paolino, per
fortificarsi nella realtà delle cose, andava osservando di
qua e di là, vide di sotto al tappeto che copriva la tavola
uscire un bel gatto d'Angora, stender le zampe, allungarsi, far arco
della schiena, sbadigliare come chi si alza allora dal letto.
"Se il signore vuol passare..."
disse improvvisamente la voce grave del cerimoniere, comparso da un
altro usciolino, che Paolino aveva creduto un armadio.
Scosso da quella voce,
andò dietro alla guida. Passarono sotto una tenda, salirono
due gradini di legno posti di sbieco nello spessore di due muri
maestri e si trovarono nella sala dei consulti, molto piú
grande, ma immersa come il gabinetto in quella luce d'aria sporca,
che dava alle cose un aspetto stanco e addormentato.
Stavano nel mezzo due
canapè, l'uno di fronte all'altro, a capo dei quali era una
poltrona grande, rovesciata come un lettuccio. In terra, nel mezzo,
c'era un tappeto colla figura di una bestia feroce, che Paolino non
seppe capire se fosse un leone o un pantera. Anche qui molte filze
di corrispondenze con sopra un dito di polvere e molte tabelle piene
di numeri e di ghirigori.
Sulla pietra del cammino, in
compagnia di alcune scimmie e di alcune cicogne imbalsamate,
spiccava il gesso d'una Venere vestita anch'essa di polvere.
L'uomo delle pantofole di corda
tornò a dire:
"Si accomodi" e sparí
ancora sotto la tenda.
Paolino, afferrato colle mani
nervose alla tesa del suo cappello, come se si attaccasse a una
sponda per non cadere, sedette sull'orlo di un canapè,
provando una durezza dolorosa in tutte le giunture e un improvviso
rammollimento di cuore e di cervello.
Sopra un tavolino, dentro un
piatto, vide molti cartellini stampati, che dicevano:
Anita d'Arazzo, impareggiabile
sonnambula, assistita dal celebre professor Fagiano di Sinigallia:
dà infallibilmente consulti tutti i giorni dalle dieci alle
tre, e ogni venerdí in letto, per malattia, ansietà,
cose smarrite, deviazioni, affanni di cuore, passioni, patemi morali
e simili. Medium approvato dalle principali società
spiritiche d'Europa, nonché munita di speciale diploma di S.
M. la Regina Isabella e di altri governi. Esercitazioni magnetiche,
psicografiche, chiromantiche e chirografiche. - Per curiosità
L. 3. Per malattie prezzi da convenirsi. Con una ciocca di capelli
si fa qualunque consulto. Deposito di ètere delle fate per
rigenerare i capelli, dar loro il primitivo colore senza macchiare
la lingeria.
Paolino lesse tre o quattro di
questi avvisi stampati senza accorgersi ch'erano tutti eguali.
Passata la prima impressione, cominciava a provare, nel trovarsi in
quel luogo, una non leggera compiacenza, quasi un senso d'orgoglio
del proprio coraggio misto a una dolce curiosità di cose
piacevoli e nuove. O scienza, o non scienza, egli era lí per
Beatrice, per discorrere di lei, nel cuore di quel Milano birbone
ch'era tutto pieno di lei. L'immagine di lei entrava in quell'aria
incantata quasi rivestita di un nuovo fascino, non di questo mondo.
Non si sarebbe meravigliato di vederla comparire a un cenno, a un
movimento di tenda...
"Ha con sé lettere o
anelli o capelli dell'inferma?" uscí ancora, a dimandare il
professore Fagiano.
"Ho dei capelli."
"Me li favorisca."
Paolino trasse dal taschino il
prezioso cartoccietto e glielo consegnò con una certa
esitanza, come se avesse paura di perderlo per sempre.
"È la prima volta che
interroga sulla paziente?"
"La prima, sissignore."
"Ammonisco che il medium soffre
e si adira ove si accorge di essere ingannato e condotto a spasso.
Chi non dimanda brevemente e sinceramente arrischia di buttar via i
suoi denari. Qui non ha luogo inganno o ciarlataneria come sulle
fiere, ma tutto si fa sulle basi piú rigorose secondo la
pratica del celebre Charcot della Salpétrière di
Parigi. Stia comodo."
Paolino voleva quasi
giustificarsi. Infatti è pazzia di voler tentare la scienza
col falso, e specialmente quando si paga.
Dopo un lungo agitarsi della
tenda - forse madama finiva di vestirsi - uscí col professore
madama Anita, tutta vestita di bianco e coi capelli sciolti sulla
schiena.
Fece un sorriso caro e grazioso
al signore, e senza dir altro, con una certa sollecitudine di non
far perdere tempo, andò a sedersi, anzi a distendersi sulla
poltrona, dopo aver accomodato i capelli un po' di qua e un po' di
là sulle spalle. Distese anche le gambe, appoggiò i
piedini sopra uno sgabello, lasciò cadere le braccia
allentate lungo le coscie e, socchiudendo gli occhi, disse:
"Fa pure, Marco."
Paolino nel veder quella povera
donna cosí distesa per causa sua, come se si preparasse a un
supplizio, cominciò a soffrire nel suo buon cuore e si
attaccò ancora piú stretto alla tesa del cappello.
Madama Anita, oltre. ad essere
una bellissima donna, aveva dei tratti cosí gentili, degli
sguardi cosí dolci, dei sorrisi cosí commoventi, che
guadagnava subito la simpatia dei suoi clienti. Si diceva ch'ella
fosse una contessa di Pesaro, nipote d'un cardinale, d'una famiglia
antichissima, ma decaduta da un pezzo per molte traversie.
A Milano non le volevano bene
soltanto le bottegaie e le donnette del popolo, ma c'erano delle
contesse e delle marchesine, che le scrivevano lettere piene di
affetto e di riconoscenza e che le regalavano anelli, braccialetti,
collane. Si diceva anche che la macellaia di via del Torchio, per
gratitudine d'essere stata guarita da un pericolo di flemone, le
mandava a casa per tutto il tempo che madama rimaneva a Milano, ogni
domenica, un piatto di vitello e di frittura mista della piú
scelta. Quelle poche che erano state ammesse ai consulti segreti,
contavano cose meravigliose delle sofferenze e delle chiaroveggenze
sue, quando il magnetizzatore la dominava con piú forza, la
buttava in terra con un gesto del dito, con un dito la sollevava
rigida e stecchita come un bacchetto, e come un bacchetto la poneva
a giacere sulla sponda di due sedie di legno.
Anita volle che il professore
collocasse ancora un piccolo cuscino sotto le reni e che
socchiudesse un po' le imposte. Fattosi piú oscuro, Paolino,
attaccato con gli occhi al bianco di quella bella persona distesa,
da cui pareva che emanasse un chiarore, provò un piccolo
stringimento alla gola e un sentimento di vertigine. Sospirò
come un ragazzo che piange in sogno. Quasi non distingueva
piú tra questa donna e quell'altra...
Il magnetizzatore
aggiustò un poco la testa della donna colle mani, come si
farebbe con una bambina morta che si mette nella bara, le
sussurrò qualche buona parola di incoraggiamento. Si
collocò diritto davanti, presso lo sgabello, si
concentrò nella barba, inarcò le ciglia, guardando
verso un angolo della stanza: abbassò quello sguardo severo
sulle scarpette rosse della donna, risalí con quello sguardo
lentamente su tutta la persona, lo arrestò, lo aguzzò
come una lesina, lo conficcò qua e là nella carne
viva, ed allargando d'un tratto le mani a un gesto di sacerdote che
celebra, restò lí, come stecchito, colle mani
nell'aria.
L'operazione era cominciata.
Paolino non respirava nemmeno.
Seguirono i passi magnetici: ed
allora Anita mandò un sospiro che parve un gemito. Le mani
del mago, lunghe, magre, a nodi, come quelle di uno scheletro, colle
unghie lunghe e tagliate a punta di mitra, uscivano con mezzo
braccio nudo fuori dalle maniche della camicia, agitandosi, snodate
come due proboscidi. Quindi presero a tremolare col battito leggero
e mutabile dei pipistrelli e a sonare nell'aria delle variazioni.
Quando il mago ebbe tanto in mano da poter essere sicuro del fatto
suo, distese il gesto, costruí un bellissimo arco e sull'arco
un catafalco.
Paolino non batteva occhio.
Poi l'uomo si voltò di
fianco per tirare una corda invisibile, e tirò un pezzo,
alternando una mano all'altra, come se cavasse un secchio dal pozzo.
E dalla corda il birbone seppe ancora cavar fuori un arcobaleno che
disegnò sul suo capo bello, chiaro, che gli splendeva negli
occhi, che lo faceva sorridere, che lasciò Paolino ancora
piú affascinato.
La povera madama Anita intanto
seguitava a sospirare, a contorcersi. Erano tali gli stiramenti del
suo povero corpo, e i gemiti piagnucolosi che le uscivano di bocca,
che Paolino incominciò a intenerirsi e a soffrire con lei.
"Ci vedi?" chiese il dottore
con una voce di uomo che dorme.
"Poco" rispose Anita con un
sospiro che usciva di sotterra.
"Che cosa vedi?"
"Un muro."
"Essa vede un muro" soggiunse
il dottore, volgendosi verso il signore.
Questi schiuse un poco la
bocca, come se facesse uno sforzo per parlare, e rimase così.
Con un movimento rapido e quasi
stizzoso, l'altro ripeté tre volte sulla testa della paziente
un gran nodo di Salomone, lo strinse, lo spremé nelle palme
come uno strofinaccio, e ne spruzzò il sugo nelle narici di
Anita con tre buffetti della dita.
Girando mollemente il braccio
sinistro, cinse e chiuse nel circuito magnetico anche la testa di
Paolino, si impadroní di non so qual fluido, pigliandolo
coll'atto lesto di chi piglia un pesce che scappa dalla cesta, e
disse:
"Metta pure i capelli del
soggetto tra le dita della paziente e faccia con piena confidenza
d'animo quelle domande che crede."
E sparí, lasciando solo
Paolino con quella donna addormentata.
Sulle prime a costui venne
un'idea strana, cioè d'infilar l'uscio e di scappare: ma non
si fidò; e poi bisognava pagare. Che cosa doveva dire? come
poteva muovere le mandibole che parevano scassinate? la sonnambula
lo aspettava in silenzio, senza dare nessun segno di impazienza,
senza mandare un sospiro. Pareva morta, morta davvero. Paolino
palpitando introdusse e intrecciò delicatamente alle sue dita
la ciocchetta dei capelli, che Anita strinse, e cominciò a
palpare sempre cogli occhi chiusi e colla testa rovesciata indietro,
coi piedi allungati sullo sgabello.
Dopo un bel momento di
silenzio, dimandò con un vocino tenero, amoroso, tutto
affetto e compatimento:
"Te vuoi sapere?"
"Se mi vuol bene..."
balbettò in fretta Paolino, arrossendo come un ragazzo che si
lascia cogliere sulla pianta dei fichi.
"Vedo bene che tu l'adori come
le viscere del cor."
Paolino chinò la testa.
La voce armoniosa e molle di Anita sollevò tutto quel mucchio
di cose, che da qualche mese in qua egli era andato collocando nel
cuore.
"Forse che ti pare freda?"
chiese ancora col suo bell'accento di Verona la nipote del
cardinale. "Ma non aver paura, non passerà la bela luna
d'agosto e tu sarai felice appien. Dammi la mane."
Paolino stese la mano alla
donna, che la strinse fra le sue e l'appoggiò sul suo petto
alto, tenero e caldo. Tenendolo a quel modo prigioniero,
seguitò:
"Tu sei un ragazzo timido, pien
de passion, ma in amor ce vuole pazienza, o no se fa niente.
C'è chi le fa la corte."
"Chi?" poté finalmente
con un supremo sforzo di volontà pronunciare il pover'uomo,
come se movesse un macigno.
"Uno che le sta molto vicin. Ma
la bela luna di agosto sarà favorevole a te, perché
chi piú ama de cor ha sempre rason. Procura intanto de bever
tre volte nello stesso bicchier e trova il mezzo di condurla qui che
la toccherò colla mane riscaldata dal tuo calor. Esponi
intanto tutta la fiamma del tuo ardente affetto e lascia pure cadere
le lacrime del tuo cordoglio. Io leggo nel bianco libro del vostro
destin, che sta a me davanti, la vostra bela felicità vostra
di voi, quando divenuti insieme amanti e sposi, riposerete
nell'angolo del domestico fogolar. Oh la soave gioia! Questi capeli
mi dicono una dona freda in apparenza, ma ardente carattere nella
confidenza d'amor. Beato l'uomo che poserà la testa sul suo
sen."
"Sei stanca?" dimandò
improvvisamente la voce del professore.
"Vedo ancora un muro."
"Segno che il medium non ha
piú la visione o che un invidioso spirito s'interpone a che
la signoria vostra pigli la conoscenza della verità.
C'è forse della gente che invidia la felicità di
questo bravo signore?" chiese per conto suo il professore alzando la
voce.
Anita non rispose.
"Parla!" comandò il
barbone, lanciando in viso alla donna due pugni d'aria.
"Ahi! Ahi!" esclamò
lamentandosi Anita.
"Abbiamo anche dei mezzi
coercitivi che costringono le forze superiori. Non ha che a guardare
la tariffa."
"No, può bastare" si
affrettò a dire Paolino, sbalordito, mentre la donna andava
ripetendo:
"Signor, Madonna, che affanno!"
"Parla..." ripeté quel
feroce tiranno.
"La lasci stare" osò
dire Paolino.
"Alle volte basta un
passaggio."
Il dottore tentò un
ultimo sforzo.
Si sollevò sulla punta
dei piedi e alzò le mani aperte come due ventagli.
"No, Marco, no, Marco..."
strillò la poveretta, contorcendosi come una indemoniata.
"No, Marco..." pregò
anche Paolino, che si sentiva venir voglia di piangere.
Il dottore corse sopra la
paziente, soffiò due volte sul suo viso e la svegliò.
"Grazie, poverin" disse la
donna sorridendo.
"Quanto devo?" chiese Paolino,
avviandosi verso l'uscio.
"Vedremo la clessidra. "
L'orologio a polvere, posto sul
tavolino innanzi agli occhi onesti del capo di morto, disse con
precisione molecolare che il signore non doveva che tre lire, salva
la sua buona grazia.
"Quando vossignoria
desiderasse, ci abbiamo anche la tavola psicografica" aggiunse il
dottore nell'accompagnarlo.
"Grazie."
"Marco!" chiamava Anita
nell'altra stanza.
"Sta zitta, vengo, angelo. La
tavola psicografica segna col semplice contatto della mano in cinque
minuti tutte le risposte che si desiderano. È uno dei
piú forti argomenti per dimostrare l'esistenza di Dio e
l'immortalità dell'anima. Profondi filosofi, speculatori
metafisici e benefattori dell'umanità hanno scoperto che la
terra e il cielo sono popolati di spiriti buoni e di spiriti mali -
(per di qua signore) - di spiriti superiori e di spiriti inferiori,
e quando un soggetto, previa una calda aspirazione al Creatore di
tutte le cose visibili e invisibili, invita nel raccoglimento del
suo pensiero con sommissione uno di questi spiriti o l'anima eterna
di un caro estinto, sia ombra di grande illustre o vuoi poeta o
condottiero di eserciti o anima di parente sepolto..."
Paolino andava grattando
l'uscio per aprirlo.
"...lo spirito tratto dalla
simpatia e dalla coercizione non può a meno... A rivederla,
signoria."
L'uscio si chiuse ai calcagni
di Paolino che, fermatosi un momento sul pianerottolo per ricuperare
il senso delle cose umane prima di discendere la scala, sentí
dietro di sé un tabusso indiavolato, in cui entravano ancora
i coturni.
III
Demetrio, immerso nella sua
febbre ardente, col cervello in burrasca, passava di sogno in sogno,
l'uno piú stravagante dell'altro. Una mano prepotente andava
agitando e scrollando il libro della sua vita, facendone cadere e
sparpagliandone le pagine, le memorie, fino i piccoli segni.
Una volta vide la sua povera
mamma, che pareva viva, nella sua persona mal ridotta
dall'età e dalle fatiche, vestita di una sottana poverella
poverella di cotone, coi piedi in due zoccoli alti, coi capelli duri
cascanti come lische sopra le tempie ossute e giallastre. Veniva
dall'orto con un cavolo sotto il braccio e Demetrio le disse: "Non
faticate troppo, tanto è lo stesso. Vi farete canzonare e
maledire."
La povera donna masticò
delle parole grosse che non poterono uscire dalla bocca, e
indicò il cielo col dito.
Un'altra volta era Cesarino,
colle gambe diventate sottili dentro i calzoni neri raggrinziti
dalla pioggia, che seguitava a discorrere d'una carrozza, senza che
Demetrio potesse capire che carrozza volesse dire.
Si voltava nel letto, apriva un
poco le palpebre pesanti e impastate, riconosceva la sua stanzetta
piena di sole, sentiva l'allegro cicalío dei canarini sulla
ringhiera, la realtà gli stava davanti, ma ne provava un
immenso fastidio: tornava a chiudere gli occhi, ricadendo di bel
nuovo in una lanterna magica di cose strane, remote, miste,
accavallate l'una sull'altra, che, sfasciandosi, cadevano con forti
picchi sulla sua testa.
E allora rivedeva pà
Vincenzo correr dietro la sua bella Angiolina, che si era incaponita
a non rispondergli. Il povero vecchio piangeva come un ragazzo,
finché non usciva dietro una siepe il signor Isidoro colle
sue grandi impennate fosforescenti, col suo bastone bistorto in
mano, a ridere con un fare insolente e sguaiato.
Dava una scossa al capo, e
questa volta non era piú un fantasma, ma Giovann dell'Orghen
in carne ed ossa che da alcuni giorni si era preso in cura il
malato.
Questi si alzava un poco,
trangugiava una tazza di acqua fresca che il suo infermiere teneva
in mano, gli faceva socchiudere un poco le imposte, lo ringraziava
confusamente della sua carità e ricadeva di nuovo in altre
dolorose fantasticaggini. Poi nacque con don Giosuè una
questione, perché lo zio prete voleva la restituzione delle
trentasette lire prestate pel funerale di pà Vincenzo...
La mente non distingueva
piú, per esempio, tra la bella Angiolina e Beatrice, tra lui
e pà Vincenzo.
Pareva una lunga storia sola,
la vecchia storia di ca' Pianelli, l'eterna storia degli uomini
stupidi e delle donne belle senza giudizio.
Tuttavia in fondo, quasi al di
sotto di quel letto di brace, sul quale credeva di giacere, si
faceva via un sentimento diverso dagli altri, che aveva in sé
un certo senso di bontà, quasi una punta di dolcezza, e che
dava al suo soffrire un non so che di nobile e di gentile. Era il
pensiero nascosto o sottinteso di Beatrice.
La voce chiara e buona di
questa donna parlava continuamente nell'anima sua e nel corpo
malato, come la voce di una fontana perenne tra i clamori di un
popolo in rivolta, di una fontana che non cessa mai di versare la
sua acqua limpida e chiara, anche quando la gente cattiva e
furibonda ha piú sete di sangue che di acqua. Mentre egli
faceva ogni sforzo per accostarsi a quella fontana, in cui si
concretava il suo pensiero d'amore, vedeva venire avanti Arabella
nella luce del volto pallido e degli occhi pensierosi. Non era una
luce di questo mondo che veniva a dissipare le ombre de' sogni, ma
un fuoco d'anima viva, come irraggia dalle carni degli innocenti.
Sbarrò gli occhi, e
disse:
"Sei proprio tu?"
"Sí, son io" disse
Arabella, che sedeva ai piedi del letto.
"Credevo di sognare."
"Come si sente, zio?"
"Mi pare di star meglio.
È un pezzo che sei qui?"
"Un paio d'ore. Dormiva
cosí quieto, che non ho osato farmi sentire."
"Che giorno è?"
"È sabato."
"Diggià? Mi pare di aver
fatto un gran sogno. Come stanno a casa?"
"Bene. Alla mamma pesa che lei
resti qui solo, la notte."
"C'è quel buon uomo che
mi cura."
"Se potessi star qui con
lei...."
Demetrio la ringraziò
con un sorriso.
"Adesso credo che il piú
grosso sia passato. Non fu qui anche un dottore?"
"Sí, tre volte. L'ho
fatto chiamare io."
"Tu sei una cara...."
Lo zio Demetrio allungò
la mano e strinse un poco il braccio della fanciulla. Si sentiva la
testa piú sgombra, gli occhi meno brucianti e una dolce
stanchezza nelle ossa, che cominciavano adesso a riposare nel letto.
Dopo aver ordinate le sue memorie, dimandò:
"È guarita la mamma?"
"È guarita. Mi ha detto
che verrà a trovarlo appena si sentirà piú
bene, zio. Adesso ha paura di disturbarlo."
"Dille che non s'incomodi."
"Ha bisogno, credo, di
parlarle."
"Di che cosa?" domandò
Demetrio.
"Non so...."
Arabella cercò di
nascondere il turbamento. Una istintiva prudenza le suggerí
di non far parola allo zio di ciò che il suo cuore credeva di
aver indovinato. Non disse, cioè, che la Carolina delle
Cascine era stata a Milano, dopo quindici o venti anni che non
vedeva il Duomo, e che aveva tenuto un gran discorso in segretezza
colla mamma, la quale da quel momento pareva una donna risuscitata.
Per intrattenere lo zio
raccontò invece ridendo che Ferruccio, dopo la sua prima
comunione, s'era meritata la benevolenza d'un pio benefattore, che
lo faceva studiare da prete. Non vestiva ancora l'abito, ma studiava
già il latino. Il Berretta era a un tal colmo di
felicità, che da una settimana non dava piú un punto,
come se il figliuolo fosse già diventato arcivescovo.
Raccontò ancora ch'era
stata a trovare la piccola Martini. Il signor Martini aveva scritto
che non si trovava male nella sua nuova residenza, ma vedeva l'ora e
il minuto di tornare a Milano. Mandava a salutare anche lo zio
Demetrio.
"Gli scriverò qualche
volta."
"Sarei cosí contenta se
fosse mia quella bambina!"
"Tu saresti bene una buona
mammetta."
Tra questi discorsi e con le
cure del povero sordo, Demetrio ricuperò a poco a poco il
senso delle cose ed insieme una certa pace o rassegnazione di
spirito, che gli fece sembrar buono il letto.
Una volta volle rivedere i suoi
canarini. Arabella che aveva imparato a farsi conoscere anche da
loro, portò di qua le gabbie, le collocò sul tavolino,
aprí gli sportelli e, mentre gli uccellini le volavano
addosso, sulle spalle, sulla testa, sulle mani, essa gettava piccoli
gridi di gioia.
Un altro giorno essa
portò allo zio Demetrio delle rose, rubate alla Madonna delle
monache, che celebravano il mese di Maria con molt'abbondanza di
fiori. Sedeva ai piedi del letto, con una calza o un ricamino in
mano, discorrendo di molte cose, che uscivano come per incanto dalla
sua testolina, nella quale lo zio Demetrio si specchiava come un
uomo vanitoso. Quella bambina, per esempio, conosceva tutta la
geografia come il Pater noster, e gli faceva piacere di stare a
sentir da lei la faccenda degli equinozi, che proprio egli non
capiva ancora bene come siano fatti.
Quando si sentiva Ferruccio -
non ancora vestito d'abate -zufolare sulla scala, Arabella
raccomodava, ancora una volta, le pieghe del letto, dava un bacio,
una carezza allo zio, e usciva col suo passetto d'uccellino,
lasciando un senso di lieta freschezza nell'aria.
Nella soave spossatezza della
convalescenza, Demetrio si divertiva a ripensare la graziosa
figurina della ragazza, quegli occhi di un'acqua cosí
limpida, a pronosticare l'avvenire, a immaginare quel che egli
avrebbe fatto di quella bambina, se fosse stata sua.
Come aveva promesso, Beatrice
mantenne la parola e si fece vedere anche lei una festa dopo la
messa.
Demetrio, avvertito,
l'aspettò tutta la mattina con un battito di cuore, che egli
fingeva di non ascoltare. Volle però che la camera fosse
pulita e fresca e fece collocare ai piedi del letto la vecchia
poltrona con su un cuscino. Poi stette ad aspettarla cogli occhi
chiusi, in una soave leggerezza d'animo e di corpo.
Sentí sonare tutte le
ore e tutti i quarti a tre o quattro campanili vicini, e quando
suppose ch'ella poteva essere in cammino per venire da lui, avrebbe
quasi voluto che non venisse piú.
La luce entrava mite nella
stanza attraverso alle gelosie verdi avvicinate ma non chiuse,
dietro le quali scendeva come una tela lo sfondo azzurro, netto e
denso d'un bel cielo di maggio. Il mattone della stanza innaffiato
largamente, mandava buon odore di fresco e di pulizia. Demetrio
apriva gli occhi un momento, risaliva lentamente lungo la striscia
di sole che dallo spiraglio della finestra veniva a battere sulla
coperta e sul noce rosso del letto, via luminosa popolata di
pulviscoli d'oro, e quindi tornava a chiuderli nell'assopimento
delizioso del suo pensiero, pregustando l'idealità di quel
desiderio, che ogni minuto di piú si acuiva in un senso di
spasimo.
Riconobbe subito la voce di
Beatrice in fondo alle scale, mentre chiedeva alla portinaia
un'indicazione: sentí tutti i passi ch'ella fece per venire
su, e, man mano che si avvicinava, cresceva il suo spasimo.
Due colpetti all'uscio furono,
per il debole convalescente, come due colpi di martello sul capo.
"Avanti..." disse parlando
nelle lenzuola per confondere la sua commozione.
"Dove siete venuto a
nascondervi, caro voi?" disse Beatrice entrando, "io avrei paura a
stare qui di notte." Era vestita come il dí della prima
comunione di Arabella. "Come state?" Venne avanti fino al letto e
guardò dall'alto della sua persona sul malato che sorrise.
"Mi ha detto Arabella che state meglio, è vero?" Demetrio
fece un movimento del capo per assentire e inghiottí la
parola. "Sarei venuta prima a trovarvi, ma mi sentivo fiacca
anch'io... e poi ci sono state tante cose..." Beatrice, chiamata da
un'altra idea, fece un mezzo giro nella stanza, andò a spiare
tra le gelosie e soggiunse: "Una volta su, è un bel sito e si
gode una bella vista. O i bei canarini!..." E tornando verso il
letto, riprese: "Che è stato, Demetrio? vi siete forse
angustiato troppo per quella sciocchezza? Se sapevo di farvi troppo
male, non vi avrei detto nulla. Anch'io forse mi sono esaltata
piú del bisogno e a mente fredda ho riflettuto che non valeva
proprio la pena. È un vecchio stupido che ha la mania delle
conquiste e diventa la burletta di tutti. Ma sulle prime, capite
anche voi, còlta cosí all'improvviso, come una passera
nella tagliola...."
Beatrice si pose a ridere come
una donna sollevata di cuore. Era vispa piú del solito,
piú colorita in viso, straordinariamente vivace come Demetrio
non l'aveva vista mai.
"Sedetevi..." le disse,
accennando cogli occhi la poltrona.
"Che bella poltrona! è
vostra? sembra quella dell'arcivescovo. E come ci si sta bene..."
soggiunse, mettendosi a sedere e abbandonando la persona sullo
schienale. "Dovreste regalarmela."
"Pigliatela."
"Dico per celia... No, no, son
venuta invece per parlarvi di una cosa seria, che voi sapete
già. Eravate forse già venuto apposta per parlarmene,
ma io vi ho confusa la testa colle mie storie."
"Oggi a me domani a te"
mormorò Demetrio, tanto per dire qualche cosa, senza badare
se la sentenza che gli usciva di bocca tornava piú o meno a
proposito.
"Avrete già capito di
che cosa si tratta."
"Di che cosa?" dimandò
ingenuamente Demetrio, che in quel momento non era ancora entrato
nell'idea di Beatrice.
"Non avevate una certa lettera
da consegnarmi?"
"Ah!" esclamò
rimpicciolendo gli occhi, "è vero... l'ho persa."
"E io l'ho trovata."
"Do... dove l'avete trovata?"
"Indovinate."
"Ma, non saprei...."
"Tra la sponda e la coperta del
letto."
Beatrice non seppe trattenere
un altro trasporto di ilarità.
"To'..." disse Demetrio,
socchiudendo quasi del tutto gli occhi, mentre imponeva a sé
stesso di non essere troppo imbecille.
"Trattandosi di uno sposo,
è quasi un augurio...."
"E... avete... letto?"
"Naturale."
"Meglio, già, la lettera
era per voi. E avete... avete anche pensato?"
"Non vi so dire, caro voi. Mi
pare una cosa cosí strana!"
"Che cosa?" soggiunse l'altro,
stiracchiando le parole per sostenere un dialogo, che minacciava di
cascare d'ambo le parti.
"L'idea che io possa
rimaritarmi."
"Ebbene?" continuò
Demetrio, pesando e compesando le parole, mentre si tirava la coltre
piú sopra la bocca.
"Ho voluto prender tempo a
riflettere e per questo non sono venuta a trovarvi prima,
perché temevo che me ne parlaste...."
Beatrice disse queste parole
cogli occhi bassi, seguendo colla punta del suo parasole le
screpolature dell'ammattonato. Seguí un po' di silenzio.
"E adesso avete deciso?" chiese
finalmente il malato.
"Adesso non so. Se devo
rimaritarmi non lo faccio per me, ma per i miei figliuoli. Non posso
fare un matrimonio di slancio come si dice, né di poesia, si
sa, è naturale; ma devo riflettere a molte cose, dico bene?
L'offerta del signor Paolino fa onore al suo buon cuore. È un
galantuomo, un uomo di gran cuore e penso che se il povero Cesarino
legge nelle mie intenzioni, non può che approvarmi. Anche la
sua posizione è buona. Dicono che sia molto ricco. Anche
l'idea di andare in campagna non mi dispiace. Ho patito tanto in
questo brutto Milanaccio, che mi sembrerà d'essere un uccello
fuori di gabbia. Penso anche a quel povero uomo di mio padre, che
invecchia e peggiora tutti i dí. Non c'è piú
nulla a sperare nelle sue cause e anche il sogno della dote è
sfumato. Voi non potreste continuar sempre nei vostri sacrifici, e
poi dovete pensare anche ai casi vostri. La Carolina... vi ho detto
che è stata a Milano? Sicuro, fu a trovarmi ieri l'altro dopo
forse vent'anni che non si moveva dalle Cascine, e me ne disse tante
che mi ha quasi persuasa. Povera donna! Un gran cuore anche lei...."
"Che cosa vi ha detto la
Carolina?" interruppe Demetrio con voce soffocata dall'emozione.
"Che cosa si diceva? Ah...! mi
ha detto che voi avete già dovuto ricorrere piú d'una
volta per grosse somme a Paolino per far fronte a molte spese. Il
matrimonio metterebbe un bel saldo a tutto...."
"È vero," esclamò
con improvvisa eccitazione Demetrio.
Le sue guance s'infiammarono un
momento, poi d'un tratto impallidirono.
"È vero," seguitò
"a questo non ci avevo pensato. Il matrimonio salda tutto. Va
benissimo, e poi?"
"E poi siamo rimasti intesi che
prima dell'agosto il matrimonio non si abbia a fare anche per
rispetto ai morti e per riguardo alla gente. Paolino...."
"È stato a Milano anche
lui?"
"Sí, ieri...."
"O bello... bello..."
esclamò Demetrio, con uno scoppio nervoso d'ilarità.
"Perché ridete?"
"Cosí, per nulla... So
che egli è tanto innamorato...."
"È buono... Mi ha fatto
già un mucchio di regali."
"Sí, sí... non
guarda a spendere..." soggiunse Demetrio ridendo sempre e asciugando
col lenzuolo l'umore che l'immensa soddisfazione gli spremeva dagli
occhi. "E che cosa ha detto Paolino?"
"Ha detto che il matrimonio si
può fare in campagna, e preferisco anch'io cosí. Ma
per questo bisogna che la sposa scelga il suo domicilio legale in
campagna, tre mesi prima del matrimonio, nel Comune dove vuol
maritarsi. Paolino mi ha detto di chiedere a voi che passi si
possono fare."
"Io non saprei che passi..."
fece Demetrio con un sorriso morto e penoso.
"Nel qual caso si sceglierebbe
il Comune di Chiaravalle, che è a quattro passi dalle
Cascine."
"Benissimo."
"Cosí si possono fare le
cose quiete."
"Giusto."
"Paolino ha detto anche che vi
scriverà e verrà egli stesso a trovarvi."
"Mi farà piacere."
"Dovrò poi ringraziarvi
anche voi."
"Di che cosa?"
"Di aver pensato al mio bene e
a quello de' miei figliuoli."
Demetrio questa volta non
aprí bocca, ma sollevò uno sguardo umile e quasi
pauroso.
"E ora pensate a guarire"
soggiunse Beatrice, alzandosi.
La sua persona pareva quasi
ingrandita nell'angustia della stanza. Raccolse i lembi del velo, se
lo aggiustò un poco nei capelli, alzando le braccia, e fece
qualche passo per uscire. Ma si ricordò di essere venuta
anche per un altro motivo importante.
"A Paolino, naturalmente, non
ho detto nulla di quell'altra storia."
"Quale?"
"Quella del braccialetto e del
cavaliere. È una storia noiosa e stupida che è meglio
lasciar cadere, anche per voi, non vi pare? Solamente fatemi il
piacere, con vostro comodo, quando sarete guarito, di consegnare al
portinaio di quel signore il suo regalo, che io non voglio
assolutamente tenere (Beatrice levò da una tasca del vestito
l'involtino e lo collocò sul tavolino) e se non vi disturba,
di unire anche le cento lire. Queste ve le restituirò alla
prima occasione, risparmiando qualche spesa inutile: ma a Paolino
non dite nulla, come se non fosse capitato nulla; e nemmeno a quel
signore non dite nulla: capirà da sé."
"Va bene..." disse Demetrio con
voce fredda e asciutta.
"Ve lo lascio qui il prezioso
regalo?"
"Sí, lasciatelo
lí...."
"E che ne dite voi?"
"Di che cosa?"
"Di questo matrimonio."
"Bene, benissimo, tutto
bene...."
Beatrice si fermò ancora
un poco a parlare di Arabella, dei Grissini e di cose indifferenti:
diede ancora un'occhiata alla bella vista: passò anche sulla
ringhiera, lasciando l'ammalato solo nel suo letto di spine:
rientrò, gli raccomandò di nuovo di guarir presto, e
se ne andò via quasi di furia, chiamata dall'improvviso
pensiero dei figliuoli, ch'erano rimasti in casa soli e
l'aspettavano per la colazione.
E cosí la bella storia
finiva, come doveva finire.
Chi aveva detto a lui
d'innamorarsi? che colpa aveva quella povera donna s'egli era pazzo?
di tutti i suoi tormenti e di quel gran male, che gli faceva il
cuore gonfio, Beatrice non s'era manco accorta. Quel po' di bene
ch'egli aveva fatto a lei e a' suoi figliuoli era stato saldato dai
denari di Paolino. Ecco, signor Demetrio, come vanno le cose del
mondo. Un'altra donna forse..., ma che altra donna! è il
mondo fatto cosí, è la sorte degli ingenui, era il suo
destino, il suo pianeta... Non valeva la pena di voler male per
questo a una povera creatura, che pensava al bene de' suoi
figliuoli, e nemmeno a un galantuomo che operava con
sincerità e con bontà d'intenzioni. Fossero felici
tutti quanti! A lui rimaneva il suo tormento, la sua brace nel
cuore. La ruota della fortuna non gira senza schiacciare qualcuno.
Egli ricuperava la sua vecchia
libertà, rientrava nel suo guscio, tornava alle sue erbe -
povere erbe tanto dimenticate, - a' suoi canarini, a rattoppare le
sue scarpe, a trascriver protocolli e rapporti, precisamente come
prima, forse piú sicuro di prima, come un uomo che si desta
da un sogno di tre mesi, durante i quali abbia vissuto una vita
diversa e stravagante.
Provava il senso di chi torna
al suo paese dopo un lunghissimo giro per il mondo, colle scarpe
rotte, bisognoso di riposare, di chiudere l'uscio di strada, di
rivedere i vecchi mobili ricoperti di polvere, in attesa che le mani
e la testa rientrino nelle vecchie abitudini, dalle quali forse
sarebbe stato meglio non uscire.
Ecco i pensieri che
lasciò dietro di sé, nell'uscire, quella donna, e che
vennero a sedersi sul letto del malato.
Ma al disotto di questa stanca
rassegnazione, Demetrio sentiva un gran vuoto, come se nell'uscire
quella donna avesse portato con sé qualche cosa di cui un
uomo non può far senza per vivere. Non era il cuore, no: il
cuore, a furia di colpi, si indurisce e impara a resistere.
Ciò che lo pungeva era un pensiero che non avrebbe saputo
mettere in carta, ma che egli riassumeva all'ingrosso in una parola:
la fede... Sí, egli aveva creduto per un momento di esser
buono a qualche cosa in questo mondo. Colla sua fede aveva
abbracciato i dolori di una povera famiglia, sollevata un'anima dal
purgatorio, salvato dal disonore il nome di una famiglia, creato il
sentimento di quella donna... Oh sí, quella donna l'aveva in
certa qual guisa creata lui. La gente non aveva che scherno e
disprezzo per la povera bambola; ed egli s'era illuso per un momento
che la bambola avesse sangue e lagrime e sentimento... e che gli
volesse infine un poco di bene.
E invece nulla, nulla, nemmeno
una parola di carità.
Essa era venuta piú per
sbrigarsi di una convenienza e di un braccialetto che per chiedergli
un consiglio, piú per pregarlo a fare dei passi per lei, che
non per consolare un povero malato.
Si vedeva che la
felicità era seduta come in un trono nel suo cuore: le gote,
gli occhi, la voce, i movimenti mandavano fuori la contentezza da
tutte le parti.
Essa stendeva avidamente le
mani all'occasione per paura che il momento la portasse via. Aveva
ragione, ciò forse era giusto e naturale in quella donna...
ma una parola di carità costa cosí poco! E invece
niente, niente per lui.
Demetrio si sollevò e si
pose quasi a sedere sul letto: sentendo mancare il respiro, chiuse
strettamente gli occhi, abbandonando la testa senza forza sul
cuscino, e lasciò che queste idee monche e cozzanti tra loro
finissero d'agitarsi.
Beatrice era morta per lui, era
morta e sepolta nel cuore che l'aveva creata.
Tranne la sua mamma, nessuno
gli aveva voluto bene a questo mondo. Eppure egli non aveva mai
fatto male a nessuno, anzi ogni occasione era stata buona per lui
per lavorare, per struggersi, per far mortificazioni e sacrifici.
Povero illuso, povero scemo!
Il mondo ama piú le
apparenze che la sostanza, e non c'è nulla che piú
offenda la gente incapace di bene quanto la vista del bene che fanno
gli altri.
Non potendo difendersi dal bene
che ricevono, gli uomini cercano di non accorgersene e di
dimenticarsene presto, fin che giunge opportuno il momento di
vendicarsi con un piccolo trionfo d'ingratitudine.
Oh, la sua povera fede!
sí, era questa che moriva in quel profondo abbattimento di
tutte le forze, in quella crisi nervosa di malinconia.
Ora che l'idillio della sua
vita era finito e che il lume dell'ultima illusione erasi spento
come un razzo nelle tenebre, non gli rimaneva che di morire.
Morire! - questa brutta parola
risonò come un fischio nelle sue orecchie attutite dal male.
- Gesú di misericordia! che idea gli passava ora per il capo?
anche a lui, anche a lui lo spettro della morte doveva presentarsi
come una liberazione? che avesse perduta veramente ogni fede nelle
cose di questo e dell'altro mondo? che Dio e la sua mamma lo
avessero proprio abbandonato del tutto? Ah Cesarino!
Spalancò gli occhi per
bere la luce del giorno e per liberarsi da quel tremendo incubo che
lo trascinava a rivedere suo fratello disteso sotto una stuoia fra
le ruote d'una carrozza: e gli occhi andarono a posarsi sopra la
tazza di vetro, in cui Arabella aveva collocate le belle rose di
maggio.
Fisso in quei fiori
lasciò che le lagrime colassero un gran pezzo in silenzio,
come se dentro di lui si sciogliesse veramente qualche cosa di duro
e di irrigidito.
IV
Il cavalier Balzalotti
ritornò dal suo viaggio ufficiale coll'animo pieno di nobile
soddisfazione. Era stato ben accolto dal segretario generale, col
quale ebbe l'onore di pranzare un paio di volte nella compagnia di
quattro o cinque competenze speciali, che seppero far tesoro della
pratica e dei lumi che il cavaliere aveva attinto nel lungo maneggio
degli affari.
Portò a casa un buon
organico e la certezza che il prossimo numero della Gazzetta
Ufficiale avrebbe registrato qualche cosa di dolce per il cuore d'un
vecchio funzionario, l'unica ambizione del quale era sempre stata
quella d'essere la prima vittima del dovere.
Quando Demetrio, spenti i lumi
e sceso il sipario del suo modesto idillio, tornò a uscire di
casa e a riprendere la solita strada dell'ufficio (piazza del Duomo,
piazza Mercanti, Cordusio, Bocchetto), il cavaliere era già
tornato da alcuni giorni. Avendo inteso che il Pianelli era malato,
colse l'occasione per chiamare al suo posto di segretario
particolare il Bianconi, liberandosi cosí d'un vicino che
poteva diventare troppo fastidioso, senza però farsene un
nemico.
In mezzo ai gravi affari
d'ufficio, Beatrice gli era uscita di mente: ma non disperava di
prendere la lepre col carro. Al signor Demetrio Pianelli il nuovo
organico assegnava una piccola promozione con qualche vantaggio di
stipendio, una quarantina di lire all'anno, poca cosa per un
milionario, ma che per un povero impiegatello rappresentano circa
undici centesimi al giorno, giusto il prezzo del sigaro e della
scatola dei zolfanelli.
Il Bianconi fermò
Demetrio sulla scala per dargli queste notizie. Il galantuomo era un
po' contento e un po' malcontento. Gli piaceva da una parte d'essere
stato chiamato dalla confidenza del suo superiore, ma non avrebbe
voluto dall'altra parte che Demetrio se ne offendesse o pensasse che
egli avesse brigato quel posto. Il buon uomo amava essere in pace
con tutti.
"Io non ho toccato niente delle
tue carte: anzi, bisogna che tu mi dia qualche istruzione e la
chiave dei cassetti."
A Demetrio la notizia non fece
né caldo, né freddo. Andava a poco a poco istruendosi
nell'arte di saper vivere, che consiste, pare, nel prendere le cose
come Dio le manda e nel lasciarle andare come il diavolo le porta.
In Carrobio non s'era ancora
lasciato vedere. Perché affrettarsi a correre dove non c'era
piú bisogno di lui? non era forse saldato ogni conto di dare
ed avere?
In quanto all'impiego, sedersi
qua o là per lui adesso era cosa indifferente. Il Caramella
lo trasse in un cantuccio e gli pagò la solita mesata, lire
122 e centesimi, in un biglietto da cento e in altre poche lire di
carta sudicia, ch'egli prese e cacciò in tasca come se si
trattasse di un fazzoletto da naso. Passò senza parlare, ma
neppure senza impazienza, nella stanza d'ufficio, dove aveva
fabbricato i suoi magnifici sogni e fissò un momento gli
occhi sulla poltrona lucida e vuota del cavaliere, alla quale aveva
predicato tante sciocchezze... E quasi gli venne da ridere.
Andò al suo tavolo e si preparava ad aprire i cassetti per
fare il suo piccolo San Michele, quando vide entrare il Quintina in
compagnia del Bianconi e di un certo Caravaggio, archivista, con una
lista in mano e una penna sull'orecchio.
"Oh! ecco il signor Pianelli"
disse il Quintina con la sua voce di clarinetto. "Lei non può
mancare nella nostra lista."
"Che lista?" chiese Demetrio
freddamente, mentre cercava d'infilare la chiavetta nella serratura.
"Si tratta di offrire un
modesto pranzo al nostro cavalier Balzalotti, che è stato in
questi giorni insignito d'una distinzione che si può dire
guadagnata col sudore della fronte." Il piccolo ragioniere
strizzò un occhio verso i colleghi con un sorrisetto un poco
malizioso. E continuò: "Dobbiamo a lui l'approvazione del
nuovo organico, dico poco? se adesso andremo in carrozza, è
merito suo. Ma, scherzi a parte, ho già raccolto undici belle
firme, vede? aggiunga anche la sua e faremo cosí la cena
degli apostoli. Il Giuda sarò io."
A questa facezia il Quintina
fece seguire una risata clamorosa come il suono di due pantofole
sbattute, e ripetendo un suo movimento abituale, mosse le gambe
nell'atto che tirava un poco i calzoni sui fianchi.
Demetrio rispose anche lui con
un sorriso pieno di sarcasmo, e disse tranquillamente:
"Io non firmo niente."
"Che, che..." esclamò il
Quintina, "lei non farà questo torto a un commendatore della
Corona d'Italia."
"Io non firmo niente"
ripeté Demetrio senza andare in collera, ma con accento
d'uomo persuaso di quello che fa.
"Perché non vuoi firmare
se ci stanno gli altri?" saltò su a dire il Bianconi, a cui
quel rifiuto pareva una cosa orribile. "Ho firmato anch'io..."
soggiunse con un tono di voce flebile e pietoso, in cui si sentiva
tutta la grandezza del sacrificio, che era di sette lire a testa.
"Perché... perché
io son diverso dagli altri."
"Questa sí che è
bella!" proruppe con una risata il Quintina, facendo scorrere la
cannuccia dietro l'orecchio, come se grattasse per gusto. "Vorrei
sapere che cosa ha di diverso da noi il signor Pianelli."
"Della mia coscienza sono
giudice io...."
"Che cosa c'entra la coscienza
in questa faccenda?" soggiunse il Quintina, compiendo un giro della
stanza con le mani nelle tasche dei calzoni, ch'egli tirava sui
fianchi, mandando fuori abbasso due scarpette da signorina. "Non
siamo venuti per sporcar d'inchiostro la coscienza di nessuno; che
bell'originale!"
Demetrio gettò sul
pettegolo un'occhiata di ghiaccio, mosse due dita in aria come se
stesse per dire qualche cosa e tornò ad infilare la chiavetta
nel buco.
"Non si tratta di una grande
somma!" provò a dire l'archivista, un giovanotto piccolo,
smorto, con poche setole di barba e con due occhiali fini e lucenti
sugli occhi.
"Se non puoi pagare adesso,
metti almeno la firma, tanto che si possa dire che ci siamo
tutti..." suggerí con benevolenza il buon Bianconi, che nella
sua bonarietà soffriva di vedere un amico cosí fuori
di strada.
"Non è per non pagare...
Che diavolo! io sono ricco... Guarda, Bianconi. Ho appena riscossa
la mesata... la vedi qui?"
E Demetrio stese la mano
irritata da un fremito mal compresso d'ira, con dentro le sue
centoventidue lire e centesimi, gualcite come un pezzo di fodera.
"Sappiamo che ella è
ricco..." cantarellò il gobbetto, facendo sonare le dita
nell'aria.
"Sí... caro il mio
signor..."
Demetrio finí la frase
con un'altra occhiata lunga e insolente. Poi si mosse d'un tratto
come se lo assalisse un'idea luminosa:
"A lei, che ride e che canta,
guardi: posso regalarle al signor cavaliere...."
"commendatore, commendatore..."
corresse burlescamente l'altro.
"Posso regalare al signor
commendatore cento lire... guardi!" e con un colpo di mano
andò a mettere il biglietto da cento sulla scrivania del suo
superiore. "Ed anche qualche cosa ancora gli posso regalare"
soggiunse, cavando di tasca un involtino, ripiegato in una carta e
legato con un nastrino rosso, che collocò sul biglietto. "Ma
su quella lista il mio nome non lo metto: e mo' è con...
contento, sor..." e in luogo del nome sostituí una smorfia
della faccia, che gli fece raggrinzare tutta la pelle del naso.
"Con... contentissimo..."
strillò il gobbetto, agitando le gambe.
Demetrio aveva preso con
sé il famoso braccialetto coll'intenzione di consegnarlo al
portinaio della casa dei bagni in via Velasca, come aveva
consigliato Beatrice, e come se il regaluccio lo rimandasse lei,
senz'altro, senza rinvangare il passato e far scene e scandali, di
cui oggi si sentiva ancora meno il bisogno.
Ma fuorviato dai discorsi,
stuzzicato dall'ironia punzecchiante del Quintina e dalle insistenze
banali del Bianconi, piú per un capriccio di resistenza che
non per un partito preso, fu tratto a commettere uno sproposito, che
forse non era nel suo programma e nemmeno secondo i dettami di
quell'arte di saper vivere ch'egli voleva adottare per sistema.
"So bene che al signor Pianelli
non mancano i fondi" seguitò a dire il Quintina, socchiudendo
con malizia gli occhi e mettendo fuori la voce in una cantilena
canzonatoria.
"Lei è un uomo
spiritoso," rispose Demetrio con un senso di schifo "ma io potrei
dimostrarle che pensa e che dice delle cose stupide."
"Ma che storie? ma che vuol
dimostrare? ma mi faccia il santo piacere di non fare il matto."
"Se non firmo, è
perché ho le mie ragioni."
"Ma se le tenga...."
"E le mie ragioni, caro il mio
caro signor spiritoso, son pronto anche a stamparle."
"E lei le stampi..." rimbeccava
senza perder fiato l'ometto piccino, che saltava come un uccello in
una gabbia.
"E il mio pane è
guadagnato colle mani pulite, sa..." e mostrava i due palmi "pulite
piú delle sue, che se le lava tutte le mattine col sapone
inglese."
"Adesso sei fuori di te,
Pianelli" s'arrischiò a dire il Bianconi, agitando con una
certa furia le mani, mentre il Caravaggio, preso in mezzo, moveva la
testa ora a destra ora a sinistra, come un gatto che guarda un
pendolo, o anche un uomo che non capisce niente.
"Lasciatelo cantare, è
matto; gli è andata la rugiada alla testa. Starei fresco, se
volessi perdere il mio tempo con un professore di lingua...."
Demetrio sentí la punta
della freccia a fior di pelle, si contrasse come un legno nel fuoco,
e dopo un gran garbuglio di consonanti, da cui la sua lingua
ingrossata dall'ira stentò a districarsi, disegnò col
pollice una certa curva, come se abbozzasse un gobbetto nell'aria, e
mormorò:
"Io non ho certe fortune...."
L'altro divenne livido, i suoi
occhi si velarono e si rimpiccolirono, la bocca umida di saliva si
atteggiò a un sorriso mordace, in cui l'ometto maligno
cercò di nascondere, come dentro a una maschera, il cupo
risentimento dell'animo offeso.Da quella smorfia lunga e indurita
tra le pieghe della pelle uscí una voce piú falsa del
solito, che doveva sembrar nuova anche al suo padrone:
"Senta, sor Pianelli, i miei
non si sono ancora appiccati ai travicelli dei solai, e io, firmando
qui le mie sette lire, non ho paura di far mangiare a un benefattore
i suoi denari."
"Ah! aspetta... brutto
assassino...."
Demetrio stese la mano,
afferrò un grosso calamaio di peltro e fece l'atto di
buttarlo in viso al mostro maldicente; ma il Bianconi gli
fermò con una mano il braccio, ponendogli l'altra sullo
stomaco, intanto che il Quintina rideva sugli acuti d'un riso fatuo
e insolente, facendo il verso d'una gallina che canta.
In quella entrò il
commendator Balzalotti e tutti ammutolirono, restando ciascuno al
suo posto, fermo nella sua posizione, come le statue di terra cotta
che si ammirano al sacro Monte di Varese.
"Che cosa c'è?" chiese
il commendatore Filippo Balzalotti colla sua voce flemmatica di buon
padre di famiglia, arrestandosi un poco sulla soglia, lindo nel suo
abito nero, col panciotto bianco di piqué, lucido, pulito
come uno sposino, con una espressione di bontà e di
indulgenza sparsa come una spalmata di vernice sulla superficie
della sua faccia di canonico.
"Politica, della brutta
politica, commendatore" si affrettò a dire il Quintina, che
non era uomo da perdere troppo facilmente le staffe.
Il Bianconi, a cui tremavano le
polpe delle gambe, per aiutare a porre un cerotto si fece un
coraggio da leone e disse:
"Come impiegato anziano ho
l'onore, commendatore, di far parte di un comitato d'onore
incaricato d'invitarla a un modesto banchetto in onore della...
del...."
"Della ben meritata
onorificenza di cui sua Eccellenza il Ministro volle onorare la
signoria vostra" continuò l'archivista tutto d'un fiato, come
se sonasse una trombetta.
"Oh! oh!" esclamò tutto
confuso il commendatore, "che cosa vien loro in mente? un banchetto
a me? non sono un ministro."
"A questo penseremo in seguito"
fu pronto a dire il Quintina, a cui stava bene la lingua in bocca.
"Intanto è un vivo bisogno del nostro cuore di manifestarle
la compiacenza della quale siamo compresi tutti quanti per una delle
poche distinzioni, che si possono dire veramente meritate."
"Questo sí, è
vero, proprio..." aggiunsero gli altri due.
Demetrio, dopo aver soffiato
nella chiavetta per liberarla dai fondi di carta, era tornato a
rosicchiare intorno alla serratura, curvo, quasi nascosto dietro la
scrivania.
Il commendatore che lo aveva
adocchiato subito, capí ch'egli non faceva parte della
commissione.
"Loro hanno una grande
bontà e una grande indulgenza per me. Ammettiamo dunque che
il ministro abbia voluto ricompensare non i meriti reali, ma la
buona volontà e la devozione a quelle idee liberali di ordine
e di progresso, che hanno sempre informata la mia vita."
"Benissimo..." esclamarono con
tre voci diverse i tre ambasciatori.
Tenne dietro una battuta
d'aspetto, durante la quale Demetrio, innocentemente, soffiò
nella chiavetta, traendone quasi un piccolo fischio; e tornò
a rosicchiare come un topo che fa il buco per passare.
"Li prego dunque di farsi
interpreti presso i loro egregi colleghi dei sentimenti della mia
gratitudine, e dicano pure che, poiché gli anni mi
dànno questo diritto, preferirò sempre essere il loro
padre piuttosto che il loro superiore."
"Questi sentimenti onorano
l'illustre uomo piú di qualunque commenda" concluse di nuovo
il Quintina. "Dunque se non le dispiace, commendatore, sabato alle
sei avremo l'onore di venire a prenderla colla carrozza a casa sua."
"Non si disturbino: se mi
dicono il luogo della riunione...."
"Non permetteremo mai."
"Bene, come vogliono.
Cercherò di fare onore alla bella compagnia e al cuoco."
Risero tutti e quattro
piú forte del bisogno, quasi per fare il coro finale, mentre
il bravo uomo stringeva la mano all'uno, all'altro e all'altro.
Demetrio, mentre gli altri se
ne andavano, riuscí con un energico ma...ledet...tissimo! ad
aprire il cassetto indurito dove aveva chiuse le sue manichette, la
fodera del cappello, un boccaletto di vetro, un bicchiere, qualche
altra cosuccia sua, e sí preparò a far fagotto.
Il commendatore finse di non
accorgersi di lui. Dal contegno del Pianelli non poteva capire
s'egli era informato o no della delicata faccenda e non osava
rompere il silenzio per non guastar l'aria. Demetrio, dal canto suo,
era quasi sul pentirsi d'essersi lasciato trasportare un po' troppo;
ma non poteva piú far sparire il biglietto e l'involtino
senza dare nell'occhio o senza provocare una questione, che adesso
gli era diventata indifferente. E intanto questi due uomini,
fingendo di non accorgersi l'uno dell'altro, stavano lí
sospesi, come ai due estremi di un'altalena in bilico, dove uno non
può cadere, se non fa cadere anche l'altro, e nessuno dei due
può andarsene finché la trave resta in bilico.
È da queste posizioni
incomode, piú che da istinti malvagi, che gli uomini sono
tratti qualche volta a farsi del male.
Il commendatore, attaccato il
cilindro al chiodo, stava tirando la punta ai guanti, mentre dava,
in piedi, una prima occhiata superficiale alle soprascritte delle
lettere e al fascio degli affari. L'occhio andò naturalmente
a cadere anche sul biglietto da cento e sull'involtino. Non
capí a tutta prima, prese in mano il misterioso peso,
stracciò coll'unghia un lembo della carta, vide un che di
lucido, ruppe ancora di piú l'involucro, capí,
arrossí come una ragazza còlta dalla mamma con un
libro disonesto in mano, infuriò dentro di sé, un
tremito nervoso lo prese, smosse, per far qualche cosa, della carta,
mentre una parola furibonda, attraversando tutta quella fiammata di
vergogna e di sdegno, gli venne due volte sulla punta della lingua:
"Tanghero!" avrebbe voluto
gridare contro quell'imbecille gaglioffo, che pretendeva di dargli
una lezione in ufficio. Ma la bella dentiera di Winderling non
lasciò uscire che un suono smorzato come l'onda morta di un
tamburo. Demetrio, collocato il cassetto in terra, andava voltando e
rivoltando le robe sue, come se facesse un'insalata di stracci.
Sentiva quasi al disopra della testa passare lo sdegno di una
cosí grande dignità ferita proprio nella sua poltrona,
e, per quanto rassegnato a prendere le cose come il ciel le manda,
non era ancora cosí maestro nell'arte del saper vivere,
perché un resto dell'antica soggezione non gli facesse
fastidio e balenío agli occhi. Quando gli parve di aver
finito, raccolto il suo fagottello, si avviò, come se non ci
fosse nessuno nella stanza, verso la porta d'uscita, diretto al suo
nuovo ufficio.
Il commendatore, in piedi,
dietro la scrivania, lo lasciò andare un poco, incerto anche
lui di fingere di non esserci e quindi bevere il fiasco nella sua
paglia, o se non era il caso invece di toccare il tempo a questo
tanghero dalle orecchie rosicchiate, che si permetteva di dargli una
lezione in ufficio. Tra i due estremi scelse un terzo termine,
secondo la vecchia tattica dell'uomo oculato; cioè, quando
vide che l'altro stava per uscire:
"Neh, Pianelli" disse con una
voce d'uomo sostenuto sí, ma non in furia, "senta una
parola."
Demetrio si voltò e
venne con tre passi lenti, in preda anch'esso a un tremito convulso,
verso la scrivania del suo superiore, e interrogò con una
faccia di uomo che ha il sole negli occhi.
"È lei che mi ha
raccomandato un ragazzo per l'orfanotrofio?"
"Difatti, una volta..."
balbettò.
"È figlio di un suo
fratello, eh?"
Demetrio disse di sí col
capo, e inghiotti una goccia di saliva.
"La ringrazio tanto: mi ha
fatto fare una bella figura nel Consiglio. Di che male è
morto il padre di questo ragazzo?"
Demetrio, come se gli saltasse
in corpo un razzo, fece un altro passo, quasi un salto,
collocò la roba su una sedia e domandò:
"Perché?"
"Dimando a lei di che male
è morto il padre di questo ragazzo, perché doveva
informarmi: era dover suo, e non permettere che una persona
rispettabile andasse a raccomandare a persone rispettabili il figlio
di uno che si è impiccato per debiti. Che cosa crede? che gli
orfanotrofi siano fatti pei figli dei ladri e dei falsari?"
Demetrio, non piú
cosí ingenuo come una volta, capí benissimo che il
signor commendatore esagerava di proposito un fatto inconcludente
per darsi della forza, per nascondersi in una nuvola temporalesca di
sdegno, per vendicarsi insomma del vivo, picchiando sopra un morto.
Volle giustificarsi, però senza andare in furia, e disse:
"Scusi, lei sapeva benissimo,
anzi meglio e prima di me com'erano andate queste cose, e, se si
ricorda, mi ha dato in questo preciso posto anche dei preziosi
consigli. Se c'è qualcuno che deve lamentarsi, scusi,
cavaliere, dovrei essere io, nel caso, perché...,
perché... chi ha fatta la piú brutta figura in questa
faccenda, chi è stato il piú minchione sono io...."
"Che mi sta a contare..."
interruppe con un brusco movimento delle mani il commendatore.
"No, scusi, lei si lamenta che
le ho mancato di riguardo" tornò a dire Demetrio sospinto a
poco a poco da una fiumana di cattivi umori, che non sentivano
piú la forza degli argini "e io mi permetto di chiedere a lei
e al suo buon amico di Novara chi si è fatto piú
giuoco della semplicità, della debolezza... e dei bisogni di
una povera gente che, appunto perché povera e debole, poteva
meritare del... della compassione."
Sospinto, trascinato, travolto
dalla reazione della sua virtú, Demetrio trovò d'aver
dette piú parole che non avesse in mente di dire, ma le
pronunciò senza declamazione, quasi sottovoce, con un tono e
un gesto che conservavano ancora, alla lontana, un'apparenza di
rispetto.
"Guardi come parla..."
comandò con un alto sussiego il commendatore, e indicando la
porta col dito, aggiunse: "Mi vada fuori dei piedi."
"Andavo bene: è lei che
mi ha chiamato indietro per il gusto d'insultare un povero
orfanello. Siccome non ha potuto oltraggiare l'onore di una donna
onesta, crede di vendicarsene...."
Demetrio alzò le mani
colle dieci dita aperte.
"Esca, dico..." l'altro
gridò, quanto è permesso di gridare a un superiore,
facendosi smorto e agitandosi tutto nel piccolo spazio tra il muro e
la scrivania.
Demetrio, sempre sospinto da
una violenza che non sapeva piú imbrigliare, fatto un altro
passo avanti, seguitò:
"Crede di vendicarsene col
gettare l'infamia sul capo de' suoi figliuoli."
"Per Dio..." tornò a
dire il commendatore, agitando le carte con un moto convulso: ma non
voleva d'altra parte col gridar troppo esagerare lo scandalo, far
correre gente, compromettersi in faccia ai subalterni. "Faccia il
piacere" tornò a dire con un tono piú dimesso, "se ha
delle ragioni, non è questo il luogo."
"L'offesa ch'ella ha fatto a
quella donna è cosí vile..." soggiunse Demetrio
appuntandogli in faccia un dito.
"Di che cosa mi parla?"
interruppe il commendatore agitando sotto il naso del Pianelli il
foglio della Perseveranza, stropicciato come un fazzoletto, quasi
avesse voluto pulir l'aria e far scomparire quelle brutte parole.
"Che provocazione è questa? esca, le torno a dire. Che mi
viene a contare a me, di quella sua pettegola?"
Demetrio lasciò cadere
una mano con un colpetto secco sulla spalla del commendatore e gli
disse:
"Badi a non offenderla di
piú, per il suo bene...."
"Che, che, che... è una
minaccia?" balbettò il commendatore, facendo gli occhi grossi
e spauriti, tirandosi piú che poté sul muro.
"Badi," e il Pianelli lo
fissò coll'occhio cattivo "io non ho mai date lezioni
sull'arte di saper vivere, ma posso insegnare a lei e a qualcuno
piú bravo di lei come si rispetta una povera donna."
"Ehi, di là...,
Bianconi; bravo, venga qui."
Il Bianconi, che stava dietro
l'uscio ad ascoltare con un gran dolore ai ginocchi, quando
capí che il Pianelli perdeva la testa del tutto,
entrò, lo prese sotto il braccio, lo tirò indietro:
"Andiamo, non dir piú
asinerie... Tu ti senti male...."
"C'è della gente che
dice che io faccio dei guadagni, che ho dei segreti protettori"
gridò con una voce falsa e lacerata il Pianelli, che non era
piú in grado di misurare la portata e l'estensione delle
parole. "Questi sono i miei guadagni. Ma dovessi anche mangiare i
chiodi delle scarpe, avrò sempre il diritto di insegnare a
lei, e a chiunque piú bravo di lei, il rispetto che si deve a
una donna onesta."
"Lo meni fuori a respirare
dell'aria, Bianconi. È matto; ha bevuto."
"Taci dunque... finiscila"
predicava il Bianconi.
"A lei e a chiunque piú
bravo di lei" tornò a ripetere il povero diavolo dalla soglia
dell'uscio, attirando l'attenzione dei portieri e degli impiegati
piú vicini.
Non era Demetrio Pianelli che
strillava, ma qualche cosa o qualcheduno dentro di lui, che aveva
bisogno di uscire come il diavolo dal corpo di un ossesso.
Era l'uomo morto, che
risuscitava colla corona di spine di tutti i patimenti, di tutti gli
stranguglioni inghiottiti, di tutte le amarezze, di tutte le
vergogne, di tutti i tedî sofferti in una lotta superiore alle
sue forze cogli uomini, colle donne, coi vivi, coi morti, e
(piú terribile di tutto) con sé stesso.
L'uomo morto usciva, come
evocato ancora una volta dal nome di quella donna che altri osava
insultare in sua presenza: usciva da un apparente letargo di cinismo
a protestare, e a vendicarsi un momento per ricadere forse per
sempre nel buio della sua fossa, che non si sarebbe schiusa mai
piú.
Se ne accorse egli stesso
quando, tirato dal Bianconi, attraversò l'anticamera in mezzo
a un gruppo di persone, che lo guardavano con curiosità e che
gli parvero ombre.
Si fermò un momento
sulla scala, si svegliò, sto per dire, dal suo sogno, e
cominciò soltanto allora a capire quello che il povero
Bianconi andava ripetendo:
"Che ti salta in mente? sei
matto? la ti gira? che diavoleria... A un capo d'ufficio, a chi ti
dà il pane... E che te ne importa a te delle donne? lasciale
nel loro brodo le donne... Hai torto, hai fatto male: già, si
vede che non sei guarito: dovevi stare a letto ancora qualche
giorno... Va a casa, Pianelli, lascia passare la scalmana, rifletti:
cercherò di fare le tue scuse, dirò che sei malato,
che è stato un equivoco, che hai creduto una cosa e invece
era un'altra. Anzi dovresti scrivere subito una bella lettera al
cavaliere, voglio dire al commendatore...."
Mentre il buon Bianconi cercava
di salvare un amico dal precipizio, il commendatore, vedendo che la
cosa minacciava di propalarsi nei corridoi e negli uffici (dove
c'è sempre il bell'umore che ha gusto di ridere alle spalle
dei superiori) si rivolse ad alcuni impiegati accorsi a vedere, e
ridendo come meglio poteva al disopra della sua rabbia e della sua
paura, disse loro:
"È niente, grazie,
vadano pure. Ha creduto che gli si volesse fare un torto,
perché ho chiamato il Bianconi al suo posto: è un
originale, un misantropo, ha la mania della persecuzione. Che asino!
Aveva anche bevuto. Scusi, Caravaggio, apra un poco la finestra.
C'è un puzzo d'acquavite, non sentono? Tu, Caramella, portami
una tazza d'acqua. E io piú asino di lui a dargli ascolto. Se
gli passa coll'aria fresca, bene, se no... se no..."
"Mi sono accorto anch'io poco
fa che non era compos sui" disse il Quintina che in questa commedia
godeva piú che a teatro.
Amico della Pardi, aveva saputo
da lei come e qualmente il cavalier Balzalotti non rifiutasse i suoi
consigli e i suoi benefici alla bella cognata del brutto cognato,
come Beatrice andasse a trovarlo in casa all'ora della dottrina
cristiana e come per questa via il Pianelli avesse avuta una
promozione nell'organico...
Il piccolo gaudente andava ora
a fantasticare quel che poteva essere accaduto nel retroscena, per
far nascere in pieno ufficio uno scandalo di quella sorta; non
vedeva chiaro, ma intanto godeva in prevenzione dell'affanno con cui
il vecchio gattone cercava di coprire le sue, diremo cosí,
tenere fragilità.
"Altro che compos sui!"
esclamò il commendatore "non poteva quasi stare in piedi. Se
torna, non lo si lasci entrare: non ne voglio di ubbriachi in
ufficio. Farò un buon rapporto... Tornino al lavoro: grazie,
vadano pure... Chi sa che anche questo non aiuti ad aguzzare
l'appetito per sabato..."
"Eh! eh! eh!" rise col suo
verso di gallina il furbo gobbetto, che, uscito di lí, fece
un giro per gli uffici a contare l'allegra storiella.
Ricordò i sorbetti che
il cavalier Balzalotti soleva pagare alla bella pigotta le sere di
carnevale, tra una polka e l'altra, mentre Cesarino Pianelli si
divertiva a falsificare i conti di cassa. Ma il piú comico
era l'amico di Novara, questo misterioso personaggio, che doveva
confortare di biscottini la solitudine della povera vedovella...
mentre l'orso della Bassa sarebbe stato fuori a far la guardia...,
eh! eh! - Erano discorsi a spizzico, a scatti, con molti vuoti in
mezzo, dentro i quali la fantasia di ciascuno poteva introdurre
tanto un granello di pepe, come uno spicchio d'aglio, discorsi che
il gobbetto metteva in rilievo nell'aria con tutti i segni
cabalistici della sua mano nervosa e rachitica, rannicchiandosi
nello scrigno, stirando le gambe nei calzoni, grattandosi la
barbetta sul collo, mandando dal ventre rotondo e grasso un nitrito
di cavallo... he! he! - che andava a finire in un cocodé di
gallina che fa l'uovo.
Il giorno dopo, un
venerdí, un telegramma del Ministero sospendeva il signor
Demetrio Pianelli dall'impiego fino a nuovo ordine. Al telegramma
doveva seguire una lettera ministeriale.
Ed il giorno dopo, il sabato,
ebbe luogo al Giardino d'Italia il pranzo che gli impiegati
offrivano al commendatore.
V
Non fu piccola compiacenza del
commendator Balzalotti di trovarsi una volta in mezzo ai suoi
colleghi e dipendenti, davanti ad una tavola guarnita di fiori, di
pesci in bianco, di frutta fresca, di trofei e di bombons in carta
d'oro e d'argento.
Per un matto che ti manca di
rispetto ci sono sempre cento savi che ti rendono giustizia, e guai
se l'uomo superiore perdesse l'appetito per ogni mosca che egli
trova nella minestra! Per i matti c'è il suo rimedio.
Oltre al Quintina - che per la
circostanza s'era messo il frac - e gli altri impiegati della sua
sezione, avevano voluto rendere una testimonianza di stima e di
amicizia al vecchio collega anche molti capi d'ufficio, già
commendatori o sul punto di cuocere. C'era tra gli altri, il
cavalier Tagli, dei Pesi e Misure, sempre rauco; il commendator
Ranacchi della Prefettura, per gli uffici provinciali, un bel
barbone sotto una bella testa; il "gavaliere" o "gommendadore"
Lojacomo, "naboledano", mandato quassú alle "Ibodeghe", nero,
rotondo, grave, oscuro, con forti sopracigli e profonde rughe, in
cui pareva sepolta tutta la perequazione catastale.
Non mancava, s'intende, il
bravo e noto pubblicista invitato dal Quintina ed incaricato di
grattare un po' di formaggio sui maccheroni.
Erano fra tutti, ventidue o
venticinque brave persone di solida costituzione ufficiale, tutte
rispettabili, o per titoli, o per servigi, o per barba, o per testa
pelata, oltre ai pesci piccoli. Il Bianconi tra questi, col suo
testone bianco e colla sua faccia di galantuomo sano e modesto, per
quanto gli facessero peso fin dal principio quelle benedette sette
lire anticipate (e aveva sentito all'ultimo momento che in queste
non era compreso il vino di bottiglia); per quanto gli dispiacesse
di non vedere cogli altri anche il Pianelli, - benedetto anche lui
con quella sua pettegola! - cercava però di mostrarsi
contento, entusiasmato, commosso della circostanza e per non
isbagliare seguitava a sorridere, a dir di sí, a far inchini,
ad aprire usci a tutti.
Il Caramella, il Rodella e
qualche altro usciere in divisa erano incaricati di custodire i
cappelli e i bastoni in anticamera, di indicare la strada, di
annunciare i pezzi piú grossi, di introdurli in un salotto
che dava sopra un balcone, dove a poco a poco, nella democratica
eguaglianza dell'appetito, si confondevano i gradi e si umiliavano
le prosopopee.
Il commendatore, vispo come un
pesce nell'acqua chiara, riceveva, ringraziava, stringeva mani di
qua, mani di là, dichiarandosi sempre piú mortificato
e confuso di man in mano che cresceva il numero degli invitati. Il
balcone dava sopra un giardinetto a pergolati, dov'erano preparate
altre tavole, e sul vasto piazzale della Stazione centrale, che si
perdeva in una leggiera nuvola bigia di polvere. Gl'invitati, parte
in piedi sul bancone, parte seduti su piccoli canapè, stretti
e addossati, aspettavano con una segreta curiosità di stomaco
il momento di mettere i piedi sotto la tavola; e quando il cameriere
venne ad annunciare che il risotto era in tavola, fu uno scoppio di
soddisfazione. Quindi cominciarono le cerimonie a chi doveva passare
il primo dall'uscio. Il commendatore Balzalotti voleva che passasse
prima il cavalier Tagli: questi non avrebbe mai permesso: gli onori
al santo della festa.
"Prego, prego...."
"No, prima la provincia...."
"No, prima il catasto...."
"Avanti i giovani...."
"Avanti il senno...."
Il povero Bianconi si
tirò in fondo in fondo in un cantuccio ad aspettare che la
processione finisse di passare. Non abituato a ritardare il pranzo
fino alle sei - che divennero come nulla le sei e mezzo - avrebbe
divorato volentieri anche una celebrità o una competenza
amministrativa per placare i rimorsi di coscienza.
E con tutto questo c'era ancora
della gente che, davanti a un risotto di cui andava l'odore fino
alla stazione di smistamento, stava sull'uscio a cantare: prego...
prego...
"Stiamo vicini noi due" disse
sottovoce al Caravaggio, smorto anche lui come una pergamena per la
gran fame.
Quando piacque al Signore,
sedettero tutti a tavola e tutti tuffarono il capo nel risotto.
In principio, come suole
accadere a questi pranzi, ci fu della freddezza e dello stento. La
soggezione reciproca, dei piccoli verso i grandi, dei grandi verso i
molti, quei piatti alti e pieni che nascondono la vista, quei
camerieri di dietro, impalati, che ti guardano nel collo della
camicia, questo e altro fa che ogni pranzo ufficiale abbia a
cominciare col gelato e coi pezzi duri. Anche questa volta il
piú gran rumore lo fecero i cucchiai e le forchette: tanto
che il Bianconi, abituato in famiglia in mezzo alle sue tre ragazze
burlone e a due marmocchietti indiavolati, osò pensare col
capo basso:
"Non manca che la marcia
funebre."
Il commendatore che, dal capo
della tavola, sentiva una certa responsabilità quasi di padre
di famiglia, procurò subito di rivolgere la parola ora al
commendator Ranacchi, ora all'egregio pubblicista (che mangiava come
se avesse dovuto pagare), ora al suo collega del demanio; ma anche
lui, per quanto navigato, si sentiva compreso, intimidito. A casa
aveva buttato sulla carta quattro periodi di ringraziamento, quattro
parole all'ambrosiana, per ogni eventualità; e ora se le
masticava insieme al risotto: anzi c'era una bella frase che gli
sfuggiva e che egli andava cercando cogli occhi nell'angolo in fondo
al salone, dove su un piedistallo stava un gran pellicano
imbalsamato.
Dopo il vin bianco le faccende
cominciarono a procedere meglio: e meglio ancora dopo il barolo.
Anche il Bianconi dovette
convenire che a casa sua di quel barolo non ne bevevano le sue
ragazze, e liberata un poco la coscienza dagli scrupoli e dai
pregiudizi, cominciò a sentirsi un poco parente anche di
quegli illustrissimi, che sedevano all'altro capo della tavola e che
avevano certamente studiato piú di lui. Anche l'archivista,
nella sua magrezza nervosa, sentiva gli effetti del vin bianco e
dava di quei calci sotto la tavola... Quando il Bianconi, collo
zuccone basso, mormorava una facezia sul conto di qualcuno o di
qualche cosa, il Caravaggio, che schizava l'elettricità dagli
occhiali, usciva a ridere con tali scoppiettii di pollo d'India che
piú di una volta i magnati piegarono il capo per vedere quel
che succedeva "là abbasso".
Il Bianconi diventava rosso fin
sotto alla radice de' suoi capelli infarinati, e cercava di
nascondere la faccia col cartellino del menu, ch'egli leggeva per la
quarta volta senza capir nulla di quel francese stampato in oro.
"Almeno i piatti dovrebbero
stamparli in ambrosiano!" disse al suo vicino, quando fu passata la
tempesta. "Cosí non si sa nemmeno quel che si mangia:
è come pranzare al buio. Sai tu, per esempio, che cosa sono i
cornichons...?"
"Cornicioni..." disse il
Caravaggio, scoppiettando come un legno secco sul fuoco.
"Cornicioni in insalata.
Eccellenti! Scommetto che son lumache: qualche cosa coi corni
dev'essere...."
Venne in tavola un gran piatto
di marbré con decorazione di gelatina, burro e tartufi, un
vero monumento da far risuscitare il martire che se l'avesse
meritato sulla sua tomba.
"Se invece di tante statue di
bronzo e di marmo," disse l'archivista al suo vicino "si
innalzassero sulle piazze di questi monumenti...."
"E fosse permesso al popolo di
tirarne via di tanto in tanto una bella fetta" continuò il
Bianconi. "Cristianino! faccio il martire anch'io."
Visto che a casa sua di queste
polente non ne mangiava mai, si fece coraggio e tirò sul
piatto un bel poligono, mentre il Caravaggio, sgambettando sotto la
tavola, lo raccomandava alla speciale protezione di santa Lucia, che
conserva la vista agli uomini di buona volontà, et hominibus
bonae voluntatis...
"Parla latino adesso, che mi
farai sciogliere la gelatina...."
"Peh, peh, peh..." rideva co'
suoi scoppiettii di pollo d'India il Caravaggio.
"Ci vuol dell'iniziativa a
questo mondo" disse il Bianconi, a cui il barolo dava quasi
un'aureola di bontà. "Poteva esser qui anche quel testardo di
un Pianelli" esclamò con sincero rincrescimento, quando
scoprí che in mezzo alla polenta di gelatina c'erano dei
fegatini di pollo.
"Com'è stata questa
faccenda?"
"È stata... è
stata...." Il Bianconi lanciò un'occhiata fino all'altro lato
della tavola, dove il suo capo gustava anche lui i suoi fegatini di
pollo, e soggiunse: "Non parliamo di morti a tavola."
"È vero,"
continuò l'archivista in mezzo al crescente frastuono delle
ciarle e delle posate "è vero che il... andava in casa
della...."
"Guarda, anche i pistacchi..."
disse il Bianconi, che non voleva quei discorsi.
"Che lei sia andata piú
volte da lui... in via Velasca...."
"Guarda, anche un chiodo di
garofani."
"Pare poi che non
s'intendessero sul conto... Bolletta non quitanzata... peh! peh!
peh!..."
"Ehi, là abbasso,
è uno scandalo..." gridò quel del catasto, che aveva
già votate tre bottiglie.
"Brutto maccabeo!"
grugní il buon Bianconaccio col viso in brace, dando un
pizzicotto alla coscia del compagno. "Va a stuzzicare l'eco,
animale!"
"I napolitani, i napolitani,
caro commendatore," gridava il commendator Ranacchi bel rosso in
faccia rivolto al barone delle Ipoteche, "i napolitani ebbero sempre
una posizione privilegiata nel catasto, e si può dire che non
hanno pagato mai niente."
"Niente è troppo"
obbiettò il commendatore Balzalotti che non voleva che
un'affermazione cosí recisa a tavola offendesse il
chiarissimo collega delle Ipoteche.
Costui avvolto nel tovagliolo,
come in una toga, spianò le trecento rughe che solcavano il
testone torbido e nero, e mormorò in mezzo al frastuono
qualche cosa di cui il Bianconi non poté afferrare che una
"gongrua bereguazione."
"Senza un buon catasto non
sarà mai possibile nemmeno una congrua perequazione."
"Basterebbe un'imposta
reddituale."
"Baie sonore! vediamo quel che
ci costa già l'esazione della ricchezza mobile."
"È un altro paio di
maniche. La terra non si può nascondere."
"Ci vorrebbe un sistema di
tassazione...."
"Ma che sistema!"
"Sicuro, un sistema in ragione
della presunta produttività del terreno."
"Mancherebbe anche questa,
oltre al flagello della concorrenza americana."
"Che concorrenza d'Egitto!"
"Americana e non d'Egitto."
"Ah, ah! oh, oh!"
Le parole s'incontravano,
s'intrecciavano al di sopra dei bicchieri e delle bottiglie,
scoppiando in calde risate, in cui tutte le opinioni
politico-amministrative di quei bravi signori si conciliavano in una
piena soddisfazione reciproca. Solo il barone delle Ipoteche pareva
annuvolarsi e sprofondarsi sempre piú in mezzo al baccanale,
e gonfiava certi occhi bianchi, movendo il capo ora a destra ora a
sinistra come volesse dire: "adesso vi mangio tutti..."
"Signori!" sorse
improvvisamente a dire il Quintina colla sua voce squillante.
Si fece subito un gran
silenzio.
"Signori! questa non è
una cerimonia ufficiale di adulazione, ma una lieta e viva
testimonianza di stima e di rispetto verso un uomo, il quale...,
verso un uomo, che sua eccellenza il ministro Depretis ha voluto in
questi giorni onorare di un attestato speciale, concedendogli le
insegne di commendatore della Corona d'Italia. Propongo quindi un
brindisi al commendatore Balzalotti."
"Viva, bravo, bene!"
I bicchieri si alzarono, si
toccarono, si vuotarono.
Il commendatore si alzò.
Di nuovo un gran silenzio. S'inchinò a destra, a sinistra,
passò un momento il fazzoletto sugli occhi, e dando
un'occhiata al suo pellicano imbalsamato, incominciò a dire:
"Se dovessi, amici e colleghi,
rispondere adeguatamente alle espressioni vostre, io non potrei
trovare nessuna parola che sapesse esprimere il pensier mio.
Avvegnaché, come ben disse pur dianzi il mio buon amico
cavalier Quintina - con quella cortesia che lo distingue e della
quale sento il dovere di ringraziarlo - qui non si tratta della
solita cerimonia ufficiale che al levar delle mense non lascia
dietro di sé alcun ricordo. No: qui voi volete non tanto
onorare in me il capo d'ufficio, che fa debolmente e come può
il dover suo, quanto il vostro compagno di lavoro...."
"Benissimo!" dissero tutti
insieme con quel bisbiglio di esse, che vuol approvare senza
interrompere.
"Laonde io vi ringrazio non
come pubblico funzionario, ma, dirò cosí, come vostro
collaboratore, come vostro commilitone."
"Bene!"
"Sua eccellenza il Ministro non
ha certo voluto premiare una persona che, per quanto zelante e
volonterosa, non ha ottenuto dalla natura né doti
straordinarie d'ingegno...."
"Oh..." protestò il
pubblico.
"...né ha recato alla
pubblica amministrazione servigi straordinari: ma io sono persuaso
che ha voluto premiare in me - e con me anche voi - la
fedeltà a quei principii d'ordine e di progresso che
informano lo spirito delle nostre istituzioni liberali...."
"Bravo!" gridarono a una voce
con una salva di applausi.
"Bbenne!" soggiunse dopo gli
altri il barone delle Ipoteche, colla cupa sonorità d'un
trombone in ritardo.
Il commendatore, dolcemente
acceso e sorridente, brandí il coltellino del formaggio e
alzandolo in aria soggiunse:
"Imperciocché, o
signori, non è né la forza degli eserciti, né i
baluardi delle fortezze, né le difese alpine, né le
trincere ferrate dei nostri porti che potranno mantenere la pace,
salvare il paese, favorire il miglioramento delle classi meno
abbienti, diffondere i lumi della pubblica istruzione, ecc.; ma
bensí l'unità, la concordia, l'ordine nei principii,
l'ordine nelle amministrazioni locali, il disinteresse dei
funzionari...."
"Un po' anca mo'...."
Tutti si voltarono a questa
brusca interruzione, molti risero, e cercarono chi aveva parlato. La
frase poco rispettosa era sfuggita dalla bocca del Bianconi, che
credeva in coscienza di sussurrarla in un orecchio al Caravaggio. Ma
fosse l'allegria, fosse il vino bianco, fosse il diavolo, che ha
sempre gusto di rovinare un galantuomo, uscí una voce falsa,
a contrattempo, che tutti poterono sentire. Rosso, infocato in viso,
colle orecchie scarlatte, il povero Bianconi si rannicchiò
sulla sedia e avrebbe voluto sprofondare in cantina.
L'oratore, turbato un momento,
non si smarrí, ma alzando un po' la voce rincalzò:
"La giustizia nei superiori, il
rispetto nei subalterni, in una parola un'armonia di sentimenti in
quell'unico ideale, in cima al quale siede il benessere del
paese...."
"..issimo."
"Nel ringraziarvi, adunque,
cari amici e colleghi, permettete che unisca agli auguri per voi e
per le vostre famiglie un augurio anche a quell'illustre magistrato
che regge questa provincia, il quale si è compiaciuto di
mandare un suo rappresentante nella persona del mio buono e vecchio
amico, il commendator Ranacchi, un vecchio avanzo delle patrie
battaglie...."
Il Ranacchi si mosse sulla
sedia e fece molti gesti pieni di modestia.
"...e a quell'alta mente, a
quell'integro statista, a quel veterano delle lotte parlamentari che
regge con prudenza antica il timone degli affari interni: per
arrivare infine ove arrivano sempre i voti di tutti gli italiani,
che non sanno distinguere piú il trionfo del progresso da
quello della dinastia che ne tien alta la bandiera...."
"Viva, viva!"
"Bravissimo!"
"Molto bene! Proprio toccata la
nota giusta."
"M'è piaciuto
quell'appello ai principii."
"Mi congratulo, bravo!"
Il commendatore ricevette tutti
questi mirallegri, stringendo tutte le mani che lo assalivano,
sorridendo a tutti ringraziando; poi la conversazione
continuò animata fino ad ora tarda.
Il povero Bianconi non
aspettò il caffè per prender l'uscio. Quando mai era
venuto! il pranzo gli si cambiava in tossico. Tanta prudenza, tanta
cautela, tante umiliazioni per non contraddire, per non
compromettere quella piccola gratificazione a Natale, e ora una
frase, due parole, una sciocchezza gli faceva forse perdere il
frutto di tre anni di buoni servigi.
"Aspetta ora che ti aggiusti
nel nuovo organico" seguitava a brontolare dentro di sé,
mentre andava verso casa grondon grondoni, "non ti manderà
mica in Sardegna per questo, ma se speri di maritare le tue figlie
cogli avanzamenti, stai fresco. Non ti ha risparmiata la sassata, e
come ha sottolineata quella frase: il rispetto dei subalterni... Se
quell'asino di Pianelli fosse venuto, forse avrei avuto un altro
posto, avrei bevuto un bicchiere di meno...."
E voltando nella porta di casa,
salendo le scale, cacciandosi in letto, non cessò mai di
pigliarsela con qualcuno, che non era sempre il Bianconi; anzi
spesso confondeva sé stesso con quell'asino, che egli
considerava quasi come la causa involontaria della sua disgrazia.
Al telegramma ministeriale
tenne dietro una lettera, in cui si diceva che, "avendo avuto
riguardo ai precedenti incensurati dell'applicato Demetrio Pianelli,
accogliendo le generose insistenze della parte offesa, S.E. il
Ministro si limitava a traslocare il nominato Pianelli, senza
promozione, all'ufficio del Bollo e Registro di Grosseto (Maremma
toscana) a cominciare dal primo agosto prossimo venturo, col qual
giorno avrebbe datata pure la decorrenza dell'assegno mensile".
In parole meno solenni era un
castigo di due mesi di sospensione dall'impiego, durante i quali il
nominato Pianelli avrebbe dovuto vivere con qualche economia,
vendere qualche superfluità, preparare il baule e riflettere
sulla necessità che un regio impiegato abbia in ogni
circostanza a conservare un contegno corretto e come si deve.
Il Caramella, che gli
portò la lettera, lasciò anche il fagotto delle sue
poche robe. Non mancava nulla, né il boccaletto, né il
bicchiere, né il paio di manichette di tela; mancavano
soltanto le cento lire della sua mesata di maggio.
"Andremo a Grosseto!"
declamò Demetrio, dopo aver letto e riletto il ministeriale
documento, accompagnando la lettura con molti tentennamenti del
capo. "Grosseto, Maremma toscana: sarà aria buona...
Bisognerà mettere nel baule anche una buona dose di chinino.
Impareremo cosí anche il bel linguaggio toscano."
E crollando la testa, gli venne
voglia di ridere.
Sí, gli venne voglia di
ridere, non capiva perché. In un altro momento, in altro
stato d'animo forse avrebbe sofferto atrocemente di quella
punizione: ora, gli veniva da ridere, come di una commedia. Che
male, infine? morir qui, morir là, tanto per lui, adesso, era
la stessa cosa. Era questa anche un'occasione per vedere un po' di
mondo, al di là dei suoi prati... Che gl'importava ora di
Milano e delle sue magnificenze? Fino i suoi dintorni, fin anche
quei prati verdi che formavano la sua delizia, oggi gli erano
diventati antipatici.
"Andiamo a Grosseto!" ripeteva
tra sé, nella quieta solitudine della sua stanzetta, mentre a
Sant'Antonio ribattevano le nove, le dieci, le undici, mentre tutti
i suoi colleghi erano già in ufficio a lavorare, ciascuno al
suo posto; ed egli invece, pacifico e beato come un signore che vive
d'entrata, se ne stava a casa a fumare i piccoli mozziconi di
sigaro, che andava pescando in fondo alle tasche, a far il conto di
quel che avrebbe dovuto vendere per tirar là quei due mesi
con ventidue lire e centesimi, e poi un altro mese a Grosseto prima
della scadenza, oltre alle spese del viaggio, e a qualche debituccio
arretrato... "Andiamo a vedere Grosseto!..."
Se egli fosse stato pittore,
oh! che bei quadrettini da dipingere! Meglio ancora se avesse dovuto
scrivere un romanzetto.
I letterati vanno alle volte a
cercare argomenti inverosimili e strani nel mondo delle nuvole e non
si accorgono che hanno sottomano dei casetti curiosi da far morire
la gente dalle risa... e anche da far piangere.
Piangeva egli forse? mai
piú. Gli passava soltanto per gli occhi una nube di
malinconia. È una sciocchezza piangere perché il
signor Ministro si compiace di traslocarti a Grosseto. Poteva forse
per un giorno o due far dispiacere di romperla cosí
bruscamente colle vecchie abitudini; il vedere il cappello attaccato
al chiodo, il bastone appoggiato al muro, in un cantone, coll'aria
di roba stufa di stare in casa; ma non c'erano motivi per piangere.
Ci si fa l'osso anche al far niente.
Non dava nemmeno torto al suo
superiore. Guai se un capo d'ufficio non provvedesse energicamente a
salvaguardare - come dicono - il prestigio dell'autorità!
Come mai un Pianelli, di natura
cosí impacciato e scontroso e cosí duro di lingua,
avesse potuto cantare a quel bravo signore delle cose che non si
devono mai dire a un superiore, specialmente quando sono vere, era
un mistero anche per lui. Non sapeva ripensare neppure quello che
gli era uscito di bocca in quel momento. S'era frenato un pezzo
colle corde e colle catene: ma quando quel bravo signore osò
insultare Beatrice e chiamarla pettegola, allora il cuore
scattò come una molla.
Non era dunque morta del tutto
quella donna nel suo cuore; o non era morto del tutto il suo cuore
per lei?
Misteri, misteri.
Se un resto d'illusione si
muoveva ancora in lui, il Ministro provvedeva ora energicamente a
togliergli fin l'ultima speranza. La bella storia era finita del
tutto. T-o-tto... finito.
Ora aveva piú tempo di
far delle belle passeggiate sui bastioni e in piazza Castello, e di
stare a sentire le cicalate delle sonnambule e dei venditori di
mastice. Aveva anche il tempo di leggere un giornale e di occuparsi
di politica, come un uomo che vive di rendita, colla differenza che
per vivere e tirar là tutto il tempo stabilito dal signor
Ministro bisognava vendere qualche cosa. E cominciò
dall'orologio. Era un vecchio orologio d'argento, di quelli che
diconsi a cipolla, grande come uno scaldaletto, ma d'una
solidità e precisione che gli orologini moderni,
intisichiti anche loro come i padroni, non conoscono piú.
Pà Vincenzo l'aveva ereditato dal padre suo, che l'aveva
ricevuto in pagamento da un delegato austriaco, il quale alla sua
volta..., insomma era un magnifico orologio tedesco, che dopo aver
segnate molte ore belle e brutte ai vecchi di casa, continuava a
segnare al nuovo e ultimo padrone un tempo inutile.
Dopo aver tentato due volte di
venderlo come orologio, spaventato del poco o nulla che gli
offrivano nelle botteghe, provò a spacciarlo come oggetto
antico e fu piú fortunato. Un rigattiere che sta di casa in
San Vito al Pasquirolo, che forse era sulla traccia d'un oggetto
simile, dopo un lungo tirare si rassegnò a dare trentacinque
lire, una somma favolosa in confronto di ciò che gli
offrivano gli altri, ma lo acquistò come roba fuori d'uso,
non come orologio. Demetrio nel venir via provò un senso di
rincrescimento e di dolore, che finí, a furia di pensarci, in
un altro senso piú profondo e misterioso di mortificazione.
Si paragonò al suo vecchio orologio di Vienna e si accorse
che anche lui era un oggetto fuori d'uso, colla differenza - sempre
qualche differenza! - che per trentacinque lire nessuno l'avrebbe
voluto. La grossa cipolla riempiva di solito un taschino del
panciotto, premendo sulle costole a sinistra, facendo un grosso e un
duro che il corpo era abituato a sentire, come una parte di
sé stesso. Ora quel taschino vuoto e floscio che pendeva
giú, dava un senso di freddo e di mancante, come se
coll'orologio avesse levata una costola; e piú volte nei
movimenti di distrazione le due mani andarono a frugare sull'orlo
della tasca, irritate di non trovar subito la chiavetta di ottone,
che sporgeva attaccata a due cordicelle di seta. Piú
melanconico di notte. Nelle ore di veglia - e adesso gli capitava
spesso di non poter dormire - era solito sentire il tic tac del
vecchio amico, che vegliava con lui nell'alta e oscura solitudine
sopra i tetti e che gli teneva una cara compagnia. Non è il
caso di dire che in quel tic tac, ingrossato dalla cassa armonica
del tavolino, egli sentisse la voce dei vecchi che avevano scaldato
l'orologio col calore del loro corpo e che avevano da un pezzo
finito di battere il loro tempo: questo potrebbe essere della poesia
e del romanticismo. Ma è certo che egli vegliava volentieri
colla sua "vecchia cipolla", e nell'accordo dei palpiti tornava a
rivivere, guardando nel buio, molte pagine della sua vita passata,
risuscitando immagini lontane, che davano quasi il senso d'una vita
vissuta in un altro mondo.
Anche questo: t-o-to... finito!
Eppure in fondo a questa
catastrofe, benché si sentisse quasi schiacciato dalle sue
stesse rovine, - va a spiegare anche questi misteri... - non gli
dispiaceva d'aver cantato, almeno una volta, una bella verità
a un potente. Gli era cara, dolce, consolante l'idea d'aver osato
alzare la voce -lui solo in mezzo ad una bega di ipocriti e di
maliziosi - per difendere l'onestà di una povera donna. -
Egli solo aveva avuto il coraggio di rispondere alle perfide
malvagità del Quintina, alle offese del commendatore,
parlando chiaro, chiamando gobbo il gobbo, vile il vile, sollevando
di peso, quasi sulle sue braccia l'onestà di Beatrice al di
sopra del fango. Cesarino non era uscito dalla sua fossa ad
aiutarlo; e nemmeno il signor Paolino delle Cascine s'era fatto vivo
in quel momento.
Di quell'opera buona e di
coscienza il merito spettava a lui solo; nulla di piú giusto
quindi che ne godesse egli solo l'intima e gelosa consolazione.
A questa coscienza si
appoggiava come a un bastone, e se ne faceva quasi uno scudo. No,
non avrebbe cambiata la sua coscienza orgogliosa con quella del suo
superiore e de' suoi adulatori. Paolino, piú fortunato di lui
al di fuori, di dentro non era né capace, né degno di
certe convinzioni.
Egli sí; c'è il
suo tornaconto anche a soffrire per la giustizia.
Con questa orgogliosa sicurezza
di sé, qualche giorno dopo la burrasca, come se nulla fosse
accaduto, andò passino passino in Carrobio, montò le
note scale, suonò il campanello. Sentí un passo
piú greve del solito, la chiave girò nella toppa, e i
due cugini si trovarono in faccia l'uno all'altro.
"O Demetrio!" esclamò
Paolino, aprendo le braccia e stringendo poi la testa del cugino
nelle mani grandi come foglie di zucca.
"Beato chi ti può
vedere, Paolino!"
"Vuoi dire che merito d'essere
bastonato? Hai ragione. Tu sei stato molto malato e non mi son
lasciato mai vedere. Ma se sapessi quante cose in questa testa...."
"Sappiamo tutto."
Demetrio, mentre deponeva il
cappello e il bastone, diede ascolto al cuore e si rallegrò
di sentirlo quieto e rassegnato. Il passo piú difficile
è quello della soglia, dice il proverbio: ed egli l'aveva
fatto
"C'è Beatrice?"
"È di là.
È venuta in questo momento la sua sarta."
"E i ragazzi?"
"Son presso la signora
Grissini. Aspettano Ferruccio che oggi s'è vestito da prete."
"Son venuto a disturbarvi?"
"Birbante, tu fai delle maligne
supposizioni."
Paolino prese il buon cugino
sotto il braccio e lo trascinò nel salotto, dov'era ancora
stesa la tovaglia.
"Qui si pranza."
"Abbiamo finito. Sono scappato
a Milano per combinare la faccenda del domicilio legale. È
necessario che Beatrice, per non perder tempo, si stabilisca subito
in campagna. Abbiamo scelto Chiaravalle."
"Lei dunque ci ruba la signora
Beatrice" disse Demetrio con un tono di recitativo d'opera.
Ascoltò di nuovo il suo cuore: e gli parve di non sentirlo
piú, come l'orologio.
"Questo andare e venire
è noioso per tutti. La voce del matrimonio è corsa, e
i vicini vogliono dire ciascuno la sua. Un po' di campagna
farà bene anche ai ragazzi."
"Va bene, va bene."
Sedettero davanti alla tavola
dov'erano rimasti gli avanzi del pranzo. Non era piú il
piatto di carne bollita o di pesce stantío, o il pezzo di
vecchio formaggio che un certo Demetrio soleva portare a casa nella
cesta, lesinando sul quattrino: ma si vedevano molte bottiglie in
tavola, dei piatti non troppo puliti, dei cartocci di dolci, e un
mezzo panettone. L'abbondanza cacciata dall'uscio era tornata dalla
finestra.
"E dunque, sei proprio
contento, Paolino?"
"Se io sono contento?"
ripeté il cugino, come se tornasse indietro per prendere la
corsa. "Bevi, Demetrio."
"Non bevo, grazie."
"Un gocciolino...."
"Mi farebbe male."
"È un vino bianco dolce
che faccio io."
"Un'altra volta..."
insisté Demetrio, voltando di sotto in su il bicchiere, per
non voler assaggiare il vino dell'altrui felicità.
"Verrai un giorno alle Cascine.
Sento anch'io che sono un mostro d'ingratitudine. Tu mi dimandi se
io sono contento..., capisco: è un rimprovero."
"Che rimprovero!"
"È un rimprovero giusto
e meritato, perché io avrei dovuto darti subito questa
notizia, scriverti una parola, farmi vivo una volta. Ma se ti
dicessi che ho perduto la testa?"
"Capisco... del resto...."
"Dopo che ho sofferto tutte le
pene del purgatorio - come ti ho contato - dopo che senza Beatrice
mi pareva che sarei morto asfissiato, quel giorno che la Carolina
tornò a casa colla fausta notizia che tutto era combinato,
che essa aveva detto di sí, che era contenta, eccetera,
eccetera, crederesti che io son rimasto freddo e indifferente come
questa bottiglia?"
Paolino prese la bottiglia, la
collocò con un colpo in mezzo alla tavola, indicandola col
dito. I due cugini rimasero un momento immobili a contemplarla.
"Misteri del cuore umano!"
esclamò Demetrio, usando una frase di un suo vecchio
ragionamento.
"E cosí fu per due o tre
giorni. Uscivo di casa la mattina, andavo in campagna, per istinto,
come un cieco, che ha gli occhi aperti e non ci vede, scorgevo gli
uomini alla lontana, ma non capivo quel che mi dicevano. Tratto
tratto mi arrestavo di botto per chiedermi se ero io che dovevo
sposare Beatrice - alle Cascine la chiamavano la bella vedovina. -
Non poteva essere che un sogno anche questo come ne avevo fatti
altre volte, che poi sfumavano al cantare del gallo? Per accertarmi
che non era un sogno, toccavo colla mano i sassi, le piante, mi davo
dei pizzicotti, facevo fin dei salti al sole per vedere se con me si
moveva anche l'ombra del mio corpo...."
"Ah! ah! ah!" proruppe Demetrio
con una risata larga, aperta, esagerata apposta per spaventare
qualche cosa che si moveva in lui.
"Bevi, Demetrio...."
"No, caro..., e poi?"
"E poi cominciai a capire
qualche cosa. La Carolina anche in questa faccenda mi aiutò
come si aiuta un bambino da latte. Se avessi dovuto muovermi e fare
da me, morivo vergine e martire, caro Demetrio."
Paolino vuotò il
bicchiere del suo vin bianco dolce.
"La Carolina mi condusse a
Milano una volta per la presentazione, - tu eri malato con una gran
febbre quel giorno - mi insegnò quel che dovevo dire,
precisamente come si fa alla dottrina cristiana: "Chi vi ha creato e
messo al mondo?" scelse lei dall'orefice il primo regalo, e mi
tirò su per queste scale come si tira - scusa il paragone -
un vitello per le orecchie...."
"Ah! ah!" tornò a ridere
Demetrio. "E poi?"
"Una volta seduto vicino alla
sposa mi pareva di essere un campanile in suo confronto: io non
sentivo che sonar campane nelle orecchie. Parlò sempre la
Carolina, che ha tutte le chiavi delle guardarobe e anche quella del
mio cuore. Per me, se mi facevano un salasso, giuro che non mi
veniva una goccia di sangue. A poco a poco la lingua si
snodò. Due giorni dopo venne lei alle Cascine...."
"Ah sí?"
"A casa mia sono piú a
posto. L'ho condotta a vedere gli asparagi, i meloni novelli, il
molino, il torchio dell'olio e cosí ho potuto salvare l'onore
delle armi. Un'altra volta son venuto solo a Milano - tu cominciavi
a star meglio - e a furia di mescolare le carte il gioco s'impara.
Ah, Demetrio!.." soggiunse lasciando cadere un gran colpo di mano
sulle spalle del cugino "quando verrà quel giorno, tu vedrai
Paolino volare come una farfalla. Giugno, luglio, agosto: s'è
fissato per il matrimonio il 24, giorno di san Bartolomeo."
Paolino, colto da una
improvvisa tenerezza, alzò gli occhi al soffitto, e non li
abbassò finché fu sicuro di essere un uomo e non un
ragazzo piagnulone.
Demetrio, rannicchiato in
sé stesso, quasi rimpicciolito nelle spalle, - fatte sottili
dalla malattia - andava grattando coll'unghia dell'indice il tessuto
della tovaglia. Passò un momento di silenzio, nel quale
scoppiò come un fuoco di festa una risata di donna allegra.
L'uscio della stanza si aprí e Beatrice, con indosso un
magnifico vestito di seta color ulivo, appuntato con spilli, corse
di qua a prendere le forbici, chiedendo scusa alla bella compagnia;
entrò e scomparve come una visione nel morbido fruscío
del lungo strascico fosforescente.
Paolino abbassò gli
occhi. Demetrio sollevò i suoi. Quei quattro occhi
s'incontrarono, si fissarono, si parlarono. Quelli di Paolino
parevano dire: "Hai visto? ho ragione di perdere la testa?"
Gli occhi di Demetrio avevano
invece un'espressione acuta di invidia e di gelosia. La bocca gli si
riempí di un fiotto di saliva amara, che si sforzò di
inghiottire. Si spaventò come se gli venisse addosso il mal
caduco. Abbassò in fretta gli occhi, che sentí
asciutti e quasi bruciati nell'orbita, e gli parve di vedere una
chiazza sanguigna scorrere come una macchia di vino sul bianco della
tovaglia.
Paolino non era tal uomo da
accorgersi di questi piccoli fenomeni psicologici, e tutto pieno de'
suoi pensieri non aveva posto per i pensieri degli altri. Il caso
aiutò l'uno e l'altro a levarsi da quel silenzioso imbarazzo.
I due maschietti entrarono in furia ad annunciare che Ferruccio,
vestito da pretino, veniva su per le scale.
I voti del Berretta erano
compiuti, e il piccolo ricciolone, tosato come una pecorella e
vestito di roba larga e regalata, veniva a farsi vedere, a salutare
i vicini prima di entrare in seminario. Il Berretta, piú
felice egli del papa, andava mostrando quel suo figliuolo in nicchio
e in veste talare a tutti gli inquilini, che, a seconda degli umori,
gliene dicevano di belle e di brutte.
La signora Grissini, tutta
commossa, Arabella, Mario, Naldo, un po' mortificati, Beatrice,
l'Elisa sarta, Demetrio stesso in curiosità, e, in fondo,
mezzo nascosto dall'uscio, anche Paolino, uscirono a vedere questo
nuovo chiamato da Dio, che col ciuffo tagliato, coi capelli rasi
dietro le orecchie, veniva su coperto da un enorme e peloso cappello
a tre punte, non suo, col passo impacciato nelle pieghe della veste,
colla bocca aperta, colle mani ancor nere d'inchiostro di stampa,
che non sapeva dove collocare.
Il Berretta, nel suo solito
panciotto di fustagno sparso di filaccie, esprimeva la sua paterna
contentezza, ridendo in faccia a tutti e alzando ora una mano ora
l'altra, come una marionetta.
Arabella per un po' fu presa
anche lei dalla curiosità e non tolse gli occhi da quel gran
cappello: ma assalita a un tratto da una strana commozione, si
attaccò al braccio dello zio Demetrio. Ferruccio, il bel
ricciolone che essa aveva istruito nel catechismo, il suo piccolo
cavalier servente, quando fu in cima alla scala si levò il
cappellaccio e si atteggiò in una posizione stanca e umiliata
di brutto martire in vergogna. Pareva un uccello spennacchiato.
Quella sua testa rasa, quasi ignuda, da cui uscivano le orecchie
come due manichi d'una marmitta, quell'annientamento morale e fisico
di un bel ragazzo, trasse dal petto della fanciulla un tale scoppio
d'ilarità, che per vergogna essa nascose il volto nel
panciotto dello zio Demetrio. Questi la trasse in un cantuccio
dell'anticamera, e stava per dirle che non bisognava ridere: ma
quando le sollevò la testa, vide che invece erano singhiozzi,
e che la faccia era un torrente di lagrime.
"Ah poverina!" balbettò
lo zio Demetrio. "Cominci male anche tu...."
La curiosità della gente
fu in quel momento sviata da un altro grande personaggio, che
montava le scale, con un catafalco in testa. I ragazzi, guardando
tra i ferri del pianerottolo, non potevano discernere chi fosse e
che cosa fosse.
"Chi è?" "Che roba
è?" "È Giovann dell'Orghen." "Che cosa porta sul
capo?" "Guarda... che diavoleria...!"
Demetrio si avvicinò a
Beatrice e le disse con una voce di umiltà e di preghiera:
"L'altro giorno mi avete
manifestato il desiderio che fosse vostra: l'ho fatta aggiustare
alla meglio, e non potendo regalarvi altro per la circostanza...."
Giovann dell'Orghen veniva su
col passo pesante del sordo, portando sulle spalle e sul capo come
un'enorme cuffia la vecchia poltrona di vacchetta a grosse borchie,
l'ultima memoria della mamma, salvata dal naufragio di ca' Pianelli.
Il piú felice uomo del mondo rideva sotto quel catafalco,
come un santo nello splendore della beatitudine. L'Elisa dovette
fuggire in camera a buttarsi colla bocca sul cuscino per non farsi
sentire. E fece ridere anche la signora Pianelli sulla magnifica
idea di regalare a una sposa una poltrona di arcivescovo.
PARTE QUINTA
ALLE CASCINE
I
Son passati molti giorni dalla
partenza di Beatrice da Milano. Con lei sono andati i maschietti e
la casa è chiusa. Arabella, per non perdere il vantaggio
delle scuole, resterà a Milano, in casa dei Grissini fino ai
primi di agosto.
Alle Cascine sono in moto a
imbiancare, a raccomodare, a far belle le stanze degli sposi.
Demetrio ha desiderato che gli
lasciassero Giovedí a fargli compagnia e ora, nelle lunghe
giornate vuote, si occupa a vendere ciò che non potrebbe
portar via, a radunare quattro soldi per il viaggio, a mettere
insieme una valigia di roba, a stendere un resoconto delle spese
fatte co' suoi e coi denari degli altri.
È una vera liquidazione
in piena regola. Il suo libretto di risparmio è sfumato, e
non resta a sperare se non che gli angeli registrino il suo credito
nel libro d'oro delle buone opere, che si scontano in paradiso.
Frugando e rifrugando nella
vecchia guardaroba, gli venne tra le mani anche un involto
dimenticato pieno di polvere. Lo svolse e vide che erano gli abiti
del povero Cesarino, come glieli avevano portati a casa una sera
dall'Ospedale, con un paio di scarpette da ballo raggrinzate
dall'umido.
Sciolse la roba, la
sciorinò all'aria, facendo ballare le due gambe dei calzoni
di panno gualcito, crollandovi sopra il capo fin troppo stanco di
far riflessioni sulle cose di questo mondo birbone.
Non volendo speculare sulla
miseria umana, diede la roba a Giovann dell'Orghen, a cui ogni cosa
andava bene, cercando di spremere da tante miserie qualche sugo di
carità.
Giugno fu lungo e caldo. Lunghe
e calde tennero dietro le giornate di luglio, fatte ancora
piú lunghe dalle notti brevi e poco dormite. Il suo cuore si
faceva sentire con piccole punture, e spesso egli doveva mettersi a
sedere sul letto per respirare una boccata d'aria notturna, che
entrava dalle finestre aperte.
Paolino gli scriveva spesso per
dargli cento commissioncelle. Ora si trattava dei materassi, ora di
una Madonna da collocare in capo al letto, o di piccole altre
operazioni di ufficio, tra cui bisognò cercare subito anche
l'atto di morte di Cesarino.
Demetrio non si rifiutò
di rendere questi piccoli servigi. Egli tornava volentieri il
cammello di casa, un cammello un po' stanco, ma sempre disposto a
portare i fastidi degli altri. Veramente questa volta si trattava di
consolazioni e di felicità; ma è un peso anche il
portare la felicità degli altri.
Nelle ore disoccupate andava a
spasso, o ai giardini pubblici, a rimirare i cigni del laghetto, e i
bei fagiani in gabbia, o a studiare storia naturale in faccia alle
bestie del Museo. Oppure scendeva lungo i bastioni a contemplare le
costruzioni nuove dei sobborghi e i grandi quartieri che spuntano
come funghi in questa Milano, dove il nuovo divora l'antico.
Case nuove, miserie nuove! egli
sarebbe andato cosí volentieri in cima a una montagna!
Evitava di passare per le
strade, che potevano suscitare in lui tristi ricordanze, o dove
supponeva di poter incontrare un compagno d'ufficio. Quella parte di
Milano che sta tra il Carrobio, il Bocchetto e la piazza del Duomo
era come se non esistesse piú nella sua topografia. Si
abituava già a considerarla come lontana, perduta,
sprofondata.
Cosí il cuore stava
zitto e cosí poteva dormire la notte.
Quando Paolino gli scrisse che
faceva conto sul migliore de' cugini per avere un testimonio
all'altare, rispose che non poteva accettare. Lo sposo tornò
a insistere: egli si scusò col dire che lo spettacolo di un
matrimonio lo commoveva troppo. Mise davanti anche qualche ragione
di ufficio, magra scusa che non poteva persuadere nessuno; ma non
accettò, a nessun patto.
In quanto a Beatrice la sua
storia è ancora piú semplice. A Chiaravalle, colla
prospettiva del famoso campanile davanti agli occhi, colla vista
aperta dei prati che sembrano uno smeraldo nel vivo sole d'estate,
con un giardinetto pieno di fiori, coi frequenti inviti della buona
Carolina, ingegnosa nell'inventare nuovi regali e dolci sorprese, si
capisce che la vita della povera vedova dovesse scorrere liscia come
l'olio. I ragazzi avevano trovata l'America, e stavano tutto il
giorno nei mucchi del fieno, nei campi o sulle cascine. Qualche
volta essa faceva una scappata a Milano, dove aveva lasciata la
roba, per vedere la sarta, per comperare un capo di biancheria.
Bassano la conduceva in
carrozza e si fermava davanti alle botteghe. I commessi di negozio
correvano ad aprire la porta, e colla carrozza piena di scatole e di
cartocci essa tornava a casa qualche volta senza veder Arabella.
Aveva accettato di fare quel
passo per il vantaggio de' suoi figliuoli: tutte le condizioni erano
buone e favorevoli. Perché non avrebbe dovuto approfittarne?
Paolino non poteva essere piú gentile, piú delicato,
piú affezionato di cosí. Tra i regali che le aveva
fatto c'era una spilla col ritratto miniato del povero Cesarino,
tolto da una fotografia, ch'egli accompagnò con queste
parole: Io sarò il padre de' suoi figliuoli.
L'aria libera, la buona vita
sostenuta dalla contentezza, finirono col dare l'ultima mano a una
bellezza già sul maturare, forse non troppo agile, né
troppo delicata per un occhio cittadino, ma procedente balda e
trionfante alla conquista di un ampio possesso.
L'indole lenta e pacifica,
adattata al genere di vita che stava per offrirle il nuovo marito,
si manifestò subito in questa seconda aurora della sua
felicità, in un'aria consolata e riposata, che traspariva dal
cristallo nitido de' suoi occhi di bambola, dai movimenti, dalle
parole. Aveva trepidato all'idea di maritarsi a Milano la prima
volta; nella compagnia nervosa di Cesarino ella aveva riportati
trionfi faticosi e difficili: in Milano aveva trovato la passione,
le spine e la croce. Benedetta la mano che la riconduceva nell'aria
nativa, in una casa senza muri, in un'abbondanza senza confini, dove
i pensieri non costano niente, dove i desiderii son sempre pagati,
dove la mortificazione diventa quasi un piacere.
Le settimane passavano come un
incanto nella quieta aspettativa d'un avvenire chiaro, ma senza
noiosi splendori, nella pace silenziosa dei prati, che mandavano
già qualche profumo del fieno agostano, nel dolce e sicuro
riposo, che aggiusta le ossa e riconcilia coll'esistenza. Dalla sua
finestra, stando in letto, essa vedeva tutto quel gran verde fino
alla strada provinciale che biancheggia nel mezzo. Non era
piú il rumore assordante e faticoso della città, ma
una quiete deliziosa, immensa, non rotta che da qualche gallina
chiocciante e dal ronzare degli insetti.
Il dottor Fiore di Chiaravalle
abitava nella medesima casa. Vecchio forte, sui sessant'anni, con
una barba che pareva una spuma, s'era offerto a Paolino come
cavalier servente e guardia del corpo. Accompagnava volentieri la
sposina alle Cascine; veniva a tenerle compagnia la sera e si
permetteva con un sorriso malizioso, che si perdeva nella barba, di
darle anche qualche consiglio pratico sulla condotta che una sposa
giovane, bella e vedova deve tenere con un marito un po' troppo
nuovo.
Anche don Giovanni, il vecchio
curato, non nascondeva la sua soddisfazione morale d'aver acquistata
una nuova pecorella. Se la incontrava sulla piazza della chiesa o in
una strada, non risparmiava di congratularsi del suo bell'aspetto,
di chiedere notizia di tutta quanta la famiglia, di Paolino, di
Mario, di Naldo, della Carolina, del signor Demetrio - che non si
lasciava piú vedere.
Si fermava coi piedi nell'erba
o nel fango a strologare il tempo verso Milano, verso Lodi, verso il
Varesotto, colla presa di tabacco nelle dita, senza risolversi mai a
fiutarla, non risparmiando le notizie storiche sull'abbazia e sui
monaci di Chiaravalle, ai quali dobbiamo il bonificamento delle
terre e il primo incanalamento delle acque, con altre notizie sul
famoso campanile, da dove, narra la storia, Francesco I, re di
Francia, assistette alla celebre battaglia di Marignano, vinta dal
maresciallo Gian Giacomo Triulzi, che riposa nell'atrio di San
Nazzaro, dove è scritto: Qui numquam quievit quiescit...
Il buon pastore non avrebbe mai
finito di istruire la sua pecorella. Un giorno, tra le altre cose,
tradí anche un segreto.
"Non è un segreto di
confessione e posso dirlo. Sa che il signor Paolino è stato
anche da me a chiedere un consiglio e che una volta mi ha portato
anche una certa lettera? In quella lettera c'è una frase che
non è del signor Paolino. A lei a indovinare!" e fiutato il
grosso spolvero, scappò via ridendo verso la canonica.
Chi mandava razzi di gioia da
tutti i pori era - e lo si capisce - il sor Isidoro Chiesa di
Melegnano, il padre della sposa, uomo libero, che non si vendeva
né per trenta, né per quaranta. Fu l'ultimo a sapere
la notizia del matrimonio, perché il sor Isidoro era temuto
anche alle Cascine come lo spauracchio. Ma, appena parve necessario
metterlo a parte del segreto, fu come se egli l'avesse saputo
cent'anni prima di venire al mondo.
Nessuno avrebbe tolto dalla
testa a un Chiesa di Melegnano che quel matrimonio l'aveva pensato e
combinato lui fin dal principio, e cominciò a sonare la
tromba nelle orecchie della gente. Paolino delle Cascine era noto
nei dintorni come un uomo ben provveduto, per ciò il vecchio
fantastico poté vantarsi che un Chiesa non si perdeva nella
polvere. A lasciarlo dire, egli non era soltanto il padre di sua
figlia - la piú bella donna, sans dire, della provincia di
Milano - ma quasi anche Paolino lo aveva fatto lui.
Se Paolino aveva due bellissimi
puledri, chi glieli aveva fatti comperare? Se aveva potuto
guadagnare cinque lire e mezzo per fascio sul fieno, chi aveva dato
un consiglio a tempo? Isidoro Chiesa, uomo libero... Ora sí
che l'avrebbero sentito i signori della procura generale, i signori
della greppia!
Molti avevano dubitato di un
Chiesa, molti avevano detto ch'era uno spiantato o un mezzo matto:
molti avevano creduto che un Isidoro Chiesa si lasciasse menar via
dal Lambro. Viveva a Milano qualcuno, il quale aveva osato dire una
volta che il signor Isidoro Chiesa di Melegnano era un gran buon
uomo... Ecco venuto il giorno di vedere chi era un Chiesa di
Melegnano.
Sotto il sole cocente di
luglio, sull'ora fresca del pomeriggio, il caro suocero, mandando
lampi dalle vetriate, col suo passo zoppo ed il suo bastone bistorto
in ispalla, soleva tre o quattro volte per settimana fare una visita
al suo buon figliuolo delle Cascine.
Veniva per la via corta dei
prati col naso rivolto verso le Cascine, come un bracco che fiutava
la preda, entrava nella corte, si asciugava la fronte, il collo, il
naso, gli occhiali grondanti, tirava un fiato, tracannava una tazza
di latte e piú volentieri una bottiglia di quel vino dolce
che sappiamo, e fatto sedere Paolino, cominciava sempre da capo la
storia del suo famoso capitolato di ottantamila lire che l'Ospedale
gli doveva sacrosante, com'è vero che un Isidoro Chiesa ha
ricevuto il santo battesimo... Egli era salito sul fondo di
Melegnano l'anno 1856... ai tanti di novembre... cose vecchie: ma
Paolino doveva aiutarlo.
Lo lasciavan dire, scappando un
po' per uno: non c'era altro rimedio. Parigi vale una messa - ha
detto un celebre re di Francia -: Beatrice valeva questa messa
cantata. La buona Carolina non aveva che un rimedio per farlo tacere
e non risparmiava mai di metterlo in pratica, quando la testa stava
per iscoppiare.
Fatti saltare in un tegame
quattro ettogrammi di lombo con salsa di pomidoro, tirava il vecchio
lupo affamato a sedere, mettendogli davanti insieme al tegame un
pane di una libbra, uno stracchino intero e un fiasco di vernaccia
dolce. Sazio e gonfio come un boa, il vecchio finiva sempre
coll'addormentarsi sulla sedia, in mezzo a un nugolo di mosche, a
cui non dispiace l'unto. Quando si rivegliava, di solito si
ritrovava di nuovo a Melegnano, in casa sua, come se durante il
sonno lo avesse trasportato in aria il carro del profeta Elia.
Paolino continuava ad essere un
uomo felice, quantunque cominciasse ad accorgersi che a questo mondo
non ci sono soltanto rose sulle siepi e anche le rose piú
belle hanno le spine.
Punto primo: il sindaco mise
avanti qualche difficoltà per celebrare il matrimonio civile
in agosto, dimostrando, coll'atto mortuario di Cesarino in una mano
e coll'articolo 57 del Codice Civile nell'altra, che una vedova non
può rimaritarsi prima che siano trascorsi i dieci mesi dallo
scioglimento del primo matrimonio.
Seccato da questo contrattempo
e non troppo contento neppure delle risposte che gli scriveva
Demetrio, dubitando quasi che costui avesse un motivo per essere in
collera - la Carolina l'aveva sempre conosciuto per un ragazzo
permaloso e testardo - pensò di parlargli a voce, di fargli
presente il suo caso, di leggergli il segreto negli occhi.
Non avendo troppo tempo da
disporre, andò direttamente dove era sicuro di trovarlo,
cioè all'ufficio, e chiese di lui al vecchio Caramella, che
stava leggendo in anticamera.
"El non c'è piú"
rispose il portiere col tono rigido d'un critico che sa quel che
dice, senza togliere gli occhi dal giornale che aveva nelle mani.
"Dov'è?"
"So io dove l'è? qui non
c'è piú, dunque...."
"Perché non c'è
piú?"
"Perché l'è stato
sospeso dall'impiego."
"Sospeso? quando?"
"Ch'el me lasci passare."
Lo squillo d'un campanello
chiamava con insistenza, e il vecchio rustico scomparve dietro un
uscio.
Paolino se ne venne via
lentamente, ripetendo ad ogni gradino della scala:
"O bella, o bella, o bella."
Quando fu in fondo, capí
di non aver capito niente, e, non volendo andarsene cosí,
tornò di sopra, aspettò che il Caramella tornasse in
anticamera, lo tirò in disparte, e, facendogli scivolare
nella mano un biglietto da due lire, gli chiese sottovoce:
"Ho bisogno di sapere
com'è stata questa faccenda."
La goccia d'olio fece subito il
suo effetto.
"Caro lei," disse il vecchietto
con una voce meno arrugginita, in un italiano piú di
confidenza, "c'è stato del ciar e scur, un benedetto omm!"
"Con chi?"
Il Caramella si guardò
un momento intorno e, tirando con una insolita affabilità il
signor fittabile (lo giudicò subito per tale) in un andito
piú scuro, abbassando le palpebre sugli occhi, prese a dire
sottovoce:
"L'è sempre la storia
che el pesce grosso el mangia el piscinin. Il signor qui... il mio
capo... sa... il cavaliere... il commendatore..." e indicava un
uscio dietro di sé, movendo il pollice dietro la spalla
"l'è una brava persona, ma el g'ha il suo lato debole, ghe
piacciono un poco le donnette... Chi di voi è senza peccato
scagli la prima pietra." Il Caramella citò il testo con
grande serietà. "Pare che tra lui e il Pianelli ci fosse un
qui pro quo, mi capisce? a proposito di una sua cognata, alla quale
il qui... (e indicava l'uscio) el ghe faceva, pare, gli occhi del
gatto. Io poi non so, la contano in mille maniere, ci sarebbe stato
di mezzo anche un braccialetto, per conseguenza; ma chi le sa queste
cose?.. il... qui intendeva di pagare il conto, il Pianelli non ne
voleva sapere, e, tira molla, se ne son dette un sacco in ufficio,
che non ci sta nemmeno per la dignità del funzionario. Il
Pianelli gridava come un disperato, avrà avuto le sue
ragioni: l'altro, naturale, si è o non si è superiori,
e detto fatto el me ciappa la penna, el te me scrive al Ministero, e
in quattro e quattr'otto te me lo confezionano a Grossetto nel
napoletano. Conosco da un pezzo il Pianelli e, dininguardi! so come
la pensa: è un po' ostinato anche lui nelle sue idee, ti e
mur, ma metterei la mano nel fuoco, figurarsi! Ma intanto chi ha
avuto ha avuto. Questa l'è la favola, caro el mio signore."
Il Caramella strinse le labbra,
cacciò indietro le gomita, aprí le mani come due
ventagli e lasciò che "quel signore" tirasse lui la morale
della favola.
Paolino, a intendere queste
novità, rimase un momento a bocca aperta, coll'aria goffa del
campagnolo che vede per la prima volta il santo Duomo.
Balbettò qualche monosillabo, e, tirando la parola colle
corde, dimandò:
"Questa cognata, è
forse...."
"Dev'essere una donna del buon
tempo. Prima ha fatto ammazzare il marito, adesso fa perdere
l'impiego al cognato. Ci dicono la bella pigotta...."
"La bella...."
"L'è sempre la storia
del cherchè la fam. Questi uomini hanno passata l'età
del giudizio e devono aver cambiati anche i primi denti: ma ha
cominciato Adamo a sbagliare il primo bottone (e sí che non
era vestito) e sarà sempre cosí."
Il Caramella cominciava a
ridere del suo riso amaro di critico incontentabile, quando un altro
squillo di campanello lo chiamò nella stanza del
commendatore.
"Vado, mi chiama il qui..."
disse e sparí.
Paolino discese per la seconda
volta le scale, non vedendo davanti a sé che una nuvola
bianca, col passo vacillante del convalescente che esce per la prima
volta di casa dopo un mese di febbre. Colla testa grossa, incapace
di concepire, traversò Milano e si trovò per miracolo
o per misericordia di Dio sulla porta del cugino in San Clemente.
"Non c'è" disse la
portinaia. "Va e viene come un tramvai."
"Non va piú
all'ufficio?"
"Io non so: non ha piú
ore."
Paolino guardò la
facciata della casa, come se cercasse un consiglio alle finestre, e,
non avendo piú nulla a fare, tornò alle Cascine.
Che viaggio! Chi si
raccapezzava? Demetrio, l'impiego, il commendatore, la bella
pigotta, la scena in ufficio, erano altrettanti fantasmi che si
mescolavano e si connettevano con lo strano contegno del cugino, col
suo ostinato rifiuto, colla sua calcolata freddezza, che faceva un
vivo contrasto coll'entusiasmo del primo giorno, quando s'era
parlato per la prima volta al Numero Cinque in piazza Fontana e che
s'era vuotato il primo bicchiere alla salute della sposa.
Demetrio oggi non voleva bere
piú del suo vino, rifiutava di assistere ad un'intima
cerimonia di famiglia, non si lasciava piú vedere alle
Cascine, non apriva la bocca sulla sua disgrazia. Nemmeno Beatrice
pareva informata di questa dolorosa faccenda. E la storia di questo
braccialetto? che opinione aveva la gente di questa donna? aveva
essa ammazzato il primo marito?.. che... che... diavoleria?.. Che
Demetrio fosse innamorato anche lui? non pareva possibile, dal
momento che l'innamorato era quell'altro... Ma potevano essere
innamorati tutti e due. Niente di strano, dal momento che s'era
innamorato anche lui alla distanza di quattro miglia. O santi
Apostoli! e come la chiamavano a Milano? La bella pigotta? che
villania, che scherzo, che scempiaggine! Che tutto quello che era
accaduto fin qui fosse uno scherzo di cattivo genere? ch'egli fosse
la burletta di quella donna, la quale dopo aver ammazzato un marito
volesse sposare un altro per...
O che pensieri! diventava matto
a immaginare queste atrocità?...
"Carolina, Carolina" disse,
entrando in casa col cappello sul cucuzzolo, cogli occhi
strabuffati, col passo dell'uomo che ha perduto il centro di
gravità. "Carolina."
"Che cosa c'è? che cosa
è accaduto?" esclamò la sorella, lasciando cadere una
matassa di filo che stava dipanando dall'arcolaio.
"Vieni di sopra...."
"Vengo, santa Maria! ma che
cosa è accaduto?"
"Taci, non far scene. Chiudi
l'uscio" disse Paolino quando furono in camera.
Gettò il cappello sul
letto, sedette anche lui sul letto, si asciugò col fazzoletto
la testa.
"Ti senti male? parla, in nome
di quella benedetta Madonna" pregava la buona sorella, a cui
tremavano le gambe in prevenzione.
Paolino, dopo aver soffiato
come un mantice, cominciò a raccontare quel che aveva udito a
Milano, di Demetrio, del commendatore, di Beatrice, del
braccialetto; e, quando gli parve di aver detto tutto, si
abbandonò senza fiato sul cuscino.
"È tutto qui?"
esclamò Carolina, alzando le mani al cielo. "Credevo che ti
avessero rubato il portafogli. Si vede che sei cresciuto sempre in
mezzo alle oche. Che caso! Si sa, una bella donna dà sempre
da parlare alla gente. Potrebbe essere anche Sant Orsola e ci
sarà sempre la lingua che si diverte a mettere male. Che
importa a te se a Milano la chiamano come la chiamano? è
tutt'invidia che parla."
"E il braccialetto?"
"Il braccialetto sarà un
regaluccio di un adoratore. L'ha forse accettato? Caro mio, se non
volevi questi fastidi dovevi contentarti di sposare una donna come
le altre...."
"Sei qui colle tue sciocchezze"
saltò su a dire Paolino, con un tono aspro e dispettoso, non
volendo concedere che la sorella potesse aver ragione su questo
argomento.
"Vuoi la donna bella? e allora
non bisogna pretendere che la gente si strappi gli occhi dal capo
per farti piacere. Il mio povero parere te l'avevo dato...."
"Vuoi finire di fare la
Perpetua?"
"Ecco il pagamento d'essermi
occupata tanto di te. Non parlo piú."
"Ma se...."
"Non parlo piú, sta
sicuro, anima mia."
"Tu vuoi sempre...."
"Amen, non mi intrigherò
piú."
E coll'animo punto e addolorato
la povera donna scese in cucina a preparare il pranzo. Quando mai
qualcuno in quarant'anni l'aveva chiamata Perpetua? Alle Cascine
essa era la mamma, la provvidenza, la consigliera ascoltata da tutti
e non c'era grosso fastidio in una casa, di cui ella non sapeva
sciogliere i gruppi e trovare il capo come in una matassa di filo.
Doveva essere proprio lui, Paolino, il suo cuore, il suo cucco, a
chiamarla Perpetua! Paolino non era piú il buon ragazzo di
una volta: quella donna l'aveva stregato e cambiato di bianco in
nero. Sempre inquieto, distratto, stizzoso, rabbioso, insofferente e
svogliato negli affari, freddo fin nelle cose di religione, sarebbe
stato peggio naturalmente andando avanti. Quel giorno che la signora
Beatrice fosse diventata la padrona di casa, il posto della povera
Carolina doveva essere dopo la serva, per non dire dopo la scopa.
Questi malinconici pensieri
passavano come uno stormo di corvi nell'animo suo, mentre colla
mestola in mano davanti al camino aspettava, cogli occhi tuffati
nella pentola, che la minestra finisse di cuocere.
A tavola i due fratelli
mangiarono di poca voglia e quasi senza parlare. Né, per
quanto si voltassero nel letto, ciascuno per le ragioni sue,
riuscí la notte a togliersi di dosso le spine che la bella
rosa aveva seminato nelle lenzuola.
Demetrio intanto seguitava a
vendere.
Non restava quasi piú
che il letto per dormire, qualche sedia, i pochi vasi, le gabbie. Le
erbe, le lunghe tredescanzie, le piccole edere, i bei ciuffetti di
musco languivano di sete, s'impoverivano nella polvere, essiccavano
di malinconia come il loro padrone.
La valigia era preparata.
Non potendo portare con
sé anche i compagni della sua solitudine, pensò di
dare la libertà ai canarini, rendendo cosí felici dal
fondo della sua tristezza quelle piccole creature.
Collocò le tre gabbie
sul davanzale della finestra, cogli sportelli aperti verso lo spazio
e sedette ad aspettare che i canarini si sprigionassero da loro
stessi.
Giovedí, che in questi
ultimi giorni s'era attaccato al padrone, venne a sedersi accanto,
col muso in aria, cogli occhi vaganti ora verso lo zio, ora verso le
gabbie.
La giornata di fin di luglio si
avvicinava al suo tramonto. Lunghe e taglienti lame d'oro immobili
nell'aria immobile mandavano nel lento spegnersi del crepuscolo un
chiarore caldo come un riverbero di rame infocato, mentre dai tetti
neri e bruciati esalava la vampa di una gran giornata di sole.
Era arrivato il tempo di
andarsene. Sentendo ogni giorno, quasi ogni ora, quasi ogni minuto
diminuire le ragioni della vita, nel tedioso ozio forzato che
somigliava all'inerte agonia di un condannato a morte, Demetrio
anticipava di qualche giorno la sua partenza anche per sottrarsi
alle insistenze di Paolino, che gli scriveva continuamente delle
cartoline enigmatiche. Strada facendo, avrebbe potuto fermarsi un
paio d'ore a San Donato dov'era sepolta la sua povera mamma, per
dirle addio, o a rivederci, per attingere un po' di forza davanti
all'erba che la ricopriva. Gli sorrideva anche l'idea di una fermata
a Genova al cospetto del mare che non aveva mai veduto, nella
speranza di far morire nell'immensità dello spettacolo i suoi
piccoli pensieri e i suoi piccoli dolori.
Chi sa se avrebbe potuto vivere
lontano dal suo paese, tra gente sconosciuta, in un mestiere
ingrato, vedovo (non c'è altra parola), vedovo per sempre di
quella donna, che aveva suscitate e sconvolte tutte le forze
piú oscure e piú chiuse della sua esistenza?
Fu ridestato da un vivissimo
cinguettío.
Qualcuno dei canarini era
già uscito dalla gabbia e stava sulla soglia dello
sportellino, davanti all'aria vuota, in atto di curiosità e
di trepidazione. Altri, agitati da una voglia quasi convulsa,
saltavano di legno in legno, arruffando le piume, girando il collo,
spiando coll'occhietto piccolo e rubicondo attraverso ai ferri, come
se non si fidassero delle cose.
Il loro padrone soleva tutte le
volte che apriva gli sportelli avvicinare le imposte e piú
d'uno aveva dato della testa nel vetro, come la dànno gli
uomini di buona fede nelle piú trasparenti illusioni. Si
capisce come non si fidassero troppo.
Fu Giallino il primo, un
novello che Demetrio proteggeva piú degli altri con qualche
parzialità, che dopo aver sollevato il becco alla grande aria
del cielo, dopo aver gridato di gioia, sollevò le ali... ma
ebbe paura.
Il suo cuoricino batteva con
precipizio: due volte tentò abbandonarsi, ma la paura del
vuoto, spaventoso anche per lui, lo tenne aggrappato al legnetto.
Amoretto, colle penne miste di verde, gli diede quasi una spinta.
Demetrio sentí un frullo d'ala, guardò attraverso ai
ferruzzi e scorse Giallino ansante e spaurito nella conca di un
tegolo.
"Ingrato anche tu..."
mormorò sorridendo.
Amoretto gli tenne dietro e
andò a posarsi sul cappello di ferro di un fumaiolo.
Il Marchesino - cosí
chiamato per il suo garbo - saltò sulla gabbia e volò
di qua e di là per la stanza, seguíto dagli occhi di
Giovedí, finché venne a posarsi sulla spalla del
padrone. Demetrio lo prese delicatamente nel palmo, lo fece saltare
sul dito e presentandolo a Giovedí, cominciò a dire:
"Dunque si parte tutti quanti
dimani. Mandiamo avanti questo signore a preparare gli alloggi?..."
E dopo aver accarezzato il
canarino sulle ali, sporse la mano nel vuoto e gli diede la
libertà. L'uccellino con un volo frettoloso e sgomentato
andò a cadere sulla gronda di un tetto.
La femmina lo seguí, gli
volò d'appresso e sulla gronda si concertarono sul da fare.
Qualche altro era già partito senza dir nulla.
Le nubi d'oro cominciavano a
scolorire.
Sempre seduto in faccia alla
finestra, Demetrio contemplava le gabbie vuote, assorto, immerso nel
malinconico silenzio di quelle piccole case deserte, velando gli
occhi d'una riflessione piena di mestizia. Si sentiva malato ancora,
d'un male che non è febbre, ma che filtra come una febbre
ghiacciata nelle midolle delle ossa.
Giovedí, posata una
zampa sul ginocchio, fece sentire ch'egli era lí.
"Sí, tu ci sei, tu non
vai via senza di me, tu sei fedele fino alla morte: tu vuoi bene a
chi ti ha fatto un po' di bene!"
La bestia rispondeva
socchiudendo gli occhi, attraverso ai quali brillava un lume di
tenerezza.
Demetrio gli strinse il muso
nelle mani e seguitò anche lui a parlargli cogli occhi,
carezzandolo.
Il silenzio dei tetti spopolati
penetrava il cuore. Al chiaror sanguigno era succeduta una luce
languida di un azzurro verdognolo, in cui svanivano, come piume di
un immenso ventaglio, strisce lunghe di cirri bianchi e altissimi.
L'uscio si aprí
lentamente.
Amor di Dio! era lei...
Era proprio Beatrice, un poco
accesa per la fatica del salire. Era lei nel suo velo grande
cascante sulle spalle, nel quale spiccavano i bei colori del viso
ovale, la bianchezza del collo e la grandezza degli occhi.
Giovedí, conosciuta la
padrona, le corse incontro, spiccando salti di gioia, abbaiando,
piagnucolando e tornò verso Demetrio, soffiando nella
polvere, gonfiando le nari, leccandogli i piedi.
"Che... che miracolo?"
mormorò Demetrio, alzandosi e rimanendo immobile colla mano
appoggiata alla sedia. "Siete a Milano?"
"Sí, per questa notte...
Son venuta a prendere Arabella che fa gli esami dimani. Ma devo
prima parlarvi."
Beatrice trovò Demetrio
molto abbattuto e invecchiato, e lui s'umiliò al cospetto di
una signora che pareva cresciuta di nobiltà nell'eleganza
degli abiti nuovi e signorili.
"Che cosa è accaduto?"
chiese ella per la prima, mentre abbracciava con una rapida occhiata
la povertà della stanza in disordine e la valigia fatta e
pronta sopra la tavola.
"Che cosa?" chiese
distrattamente Demetrio fingendo di non capire il senso della
domanda.
"Sono venuta apposta anche per
questo, e non voglio partire senza conoscere la verità."
"Quale verità?
sedetevi."
Demetrio mandò avanti
una sedia, dove Beatrice si pose a sedere, mentre egli tornava ad
appoggiarsi colla vita alla tavola.
"Paolino aveva bisogno di
parlarvi, è venuto a Milano, andò a cercarvi
all'ufficio e ha sentito..."
"Che cosa?" chiese con un filo
di voce Demetrio, abbassando gli occhi.
"Ha sentito che avete avuta una
brutta scena col cavaliere in seguito alla quale siete stato
licenziato. È vero?"
"Non licenziato" mormorò
languidamente con un tenue sorriso.
"O vi hanno traslocato in un
paese lontano: è vero? Perché non avete seguíto
il mio consiglio? Avete forse voluto difendermi troppo... e
v'è capitato male."
"Troppo? non si difende mai
troppo una povera donna insidiata, calunniata" esclamò
Demetrio con un tono vibrato e caldo di voce. "Voi non ne avete
nessuna colpa."
"Povera me, come sono
disgraziata!" scoppiò a dire Beatrice, portando in fretta e
furia il fazzolettino agli occhi. "Paolino è tornato a casa
tutto fuori di sé, ha fatto una scena colla Carolina, vuole
che io gli spieghi questo mistero del braccialetto, suppone non so
quali tradimenti... Che gli devo dire, per amor di Dio? Questo
matrimonio si doveva fare in agosto e invece s'è scoperto che
non si potrà fare prima dell'inverno: anche questa
circostanza aiuta a rendere Paolino inquieto e di malumore.
Scrivetegli voi, per carità, o lasciatevi vedere una volta.
Voi solo potrete dimostrargli che io non ho avuta nessuna colpa in
tutta questa scena dolorosa, dissiperete tutti i suoi sospetti,
distruggerete le calunnie della gente cattiva."
"Io?" esclamò Demetrio
come se parlasse a sé stesso.
Appoggiato colle mani alla
tavola, fissò uno sguardo gentile e carezzevole su quella
povera donna, che aveva ancora una volta tanto bisogno di lui: e
provò in fondo al cuore ancora una volta una vanitosa
compiacenza, un soave orgoglio di sé.
Per un bizzarro ritorno
d'impressioni gli venne in mente la prima volta ch'egli s'era
incontrato in Beatrice, in casa sua, nel salotto elegante, e che la
povera donna, dall'alto del suo trono di cartapesta, aveva
disprezzato i consigli d'un galantuomo: quante cose da quel giorno
in poi! quante mortificazioni, quanta pazienza, quanta rassegnazione
c'era voluto per non perdere i frutti di una buona intenzione!
Chi aveva vinto? La gente che
giudica all'ingrosso poteva credere che avessero vinto gli altri,
cioè i potenti e i fortunati; ma il suo cuore, davanti a
quella bella creatura che piangeva e supplicava, seduta innanzi a
lui nella luce blanda d'un tramonto di estate, esultava ancora nella
coscienza di un trionfo appassionato, che Dio non concede né
ai potenti, né ai fortunati.
Beatrice non era salita per la
seconda volta alla modesta soffitta per consolare le malinconie di
un abbandonato: ma veniva come una regina a mendicare consolazione e
consigli a un vecchio e dimenticato romito. Di chi la vittoria
dunque?
Ecco quello che passò
rapidamente e senza ordine nel suo cuore, mentre Beatrice finiva di
piangere.
Il signor Paolino, nell'estasi
della sua fortuna, alla vigilia di un ineffabile godimento, non
aveva saputo resistere all'insidia del male. Una parola sinistra,
una voce in aria, raccolta nell'anticamera d'un ufficio, era bastata
come una goccia d'aceto a corrompere il latte della sua
felicità; il sospetto, la diffidenza, l'ingiuria si
mescolavano già ad un amore tutto fatto di bisogni e di
ciechi desiderii, a un amore che non resiste alle prove dure e
tiranniche della vita. Se un povero impiegatello destituito e
traslocato, che aveva dovuto vendere il letto per mettere insieme i
denari del viaggio, avesse in quel momento ritirata la mano dalla
testa di quella donna: avesse - obbedendo a una ruvida istigazione
dell'invidia e della passione - rifiutata una spiegazione a un uomo
che non la meritava piú, che cosa sarebbe stato di Beatrice e
de' suoi figliuoli? che cosa sarebbe stato di Paolino?
Questa paurosa apprensione egli
lesse bene negli occhi lagrimosi di Beatrice, quando si alzarono
verso di lui quasi in atto di invocare misericordia. Se egli fosse
stato un uomo cattivo... ma che cattivo? se egli fosse stato
soltanto una persona rispettabile come il suo superiore, o un
galantuomo dei soliti sul genere di Paolino, avrebbe ben saputo
trarre da questo gruppo di circostanze almeno l'interesse dei suoi
sacrifici.
È bene o male essere un
po' diversi dagli altri?
"Beatrice" disse, distaccandosi
dalla tavola e avvicinandosi due passi. Si fermò davanti a
lei in una attitudine tranquilla di padre indulgente e amoroso, e,
lasciando sgorgare l'onda delle parole secondo l'ispirazione del
cuore, soggiunse: "Io scriverò al signor Paolino, non solo
per difendere la vostra innocenza e per risolvere tutti gli equivoci
che possono essere nati, in mezzo a tante ciarle; ma gli dirò
anche quanto si faccia torto e quanto divenga indegno di voi con
delle diffidenze, che ingiuriano una donna onesta non meno delle
insidie di chi la tenta coi piccoli regali."
Beatrice, scossa dal suono
vibrato con cui Demetrio pronunciò queste parole, alzò
gli occhi e stette a sentire senza battere palpebra. Le fece subito
piacere l'energia con cui suo cognato prometteva di difenderla. Era
venuta apposta per avere in lui un valido avvocato difensore. Guai
se Paolino si fosse intiepidito e avesse mandato a monte ogni cosa!
che avrebbe dovuto fare co' suoi tre figliuoli? e la vergogna, e le
ciarle della gente, e la nuova miseria piú grande se non
piú spaventosa della vecchia? Ecco cosa dicevano i suoi
occhi, mentre Demetrio, fisso alla linea ancora luminosa del lontano
tramonto, colle mani giunte, quasi appoggiate alla bocca, con una
visibile tensione di tutti i nervi, seguitava:
"Gli dirò che non vi
merita, perché non ha avuto fede precisamente in ciò
che voi avete di piú prezioso e di piú nobile, la
vostra onestà. Questo sentimento, questa preziosa
eredità, voi, anche povera, la lascerete in dote alla vostra
Arabella" il nome della fanciulla fu come un gruppo che fermò
un istante il discorso "e il signor Paolino non ci ha creduto.
Anch'io, è vero, ho diffidato una volta, anch'io ho accolto
leggermente le voci della malizia, ma erano diverse circostanze, e
non vi amavo... allora... come dice di amarvi quest'uomo che vi
manca di rispetto...."
Beatrice aprí un poco la
bocca a un fiato di sorpresa.
Perché si corrucciava
tanto suo cognato?
Demetrio si accorse anche lui
d'essersi lasciato trasportare un po' troppo. Si fermò,
abbassò gli occhi verso di lei, stentando le parole, che si
sprofondavano nella gola, parlando insomma attraverso al singhiozzo:
"Gli scriverò," disse,
"gli scriverò dimani da Genova... Addio, state bene...
Aggiusterò tutto: addio!.. siate felice...."
Beatrice, quasi sollevata da
lui, s'alzò lentamente senza togliere gli occhi dal viso di
suo cognato, che, dopo averla commossa in modo straordinario, si
commoveva anche lui fino alle lagrime, e diceva parole strane,
agitando la mano nervosa e smarrita davanti alla bocca, tremando in
tutta la persona magra e rannicchiata come un uomo che cerca di
fuggire da un tremendo disastro.
Che aveva quel povero uomo? che
fosse ancora ammalato? che gli rincrescesse di partire e di lasciare
la sua gente?
Furono tre o quattro questioni,
che si presentarono insieme in quel momento all'intelletto non
sublime della povera donna, che, abituata a vivere di sé,
incapace di supporre mali lontani diversi dai suoi, e pur sentendosi
cagione delle lagrime di Demetrio, stava lí in piedi, vittima
anch'essa della sua meraviglia, lontana ancora molti passi dalla
verità, incapace di andarle incontro.
"Voi partite dimani? È
proprio vero? È per causa mia che vi tocca di partire?"
chiese con un naturale tremito di voce.
"Non per causa vostra...
È il destino cosí. È forse meglio per me...."
Rimasero un altro mezzo minuto
l'uno in faccia all'altra senza poter parlare, egli combattendo una
estrema e violenta battaglia colle sue lagrime, essa quasi stordita
dal suo stesso non capire.
Seguitava ad interrogare quel
poverino cogli occhi grandi, incantati, senza un'idea chiara di quel
che desiderasse sapere da lui, ma agitata da un senso misterioso di
pietà e di paura.
Demetrio con la faccia
piú stravolta che rallegrata da un sorriso d'uomo malato,
agitò ancora la mano nel vuoto, come se cercasse di ravvivare
un discorso rimasto spezzato.
"Che cosa avete, povero
Demetrio?"
A questa dimanda e piú
che alle parole al suono intenerito della voce, come se tutta la
vita gli rifluisse nel cuore, affascinato e tratto dalla sua stessa
debolezza e da una vertigine soave, si abbandonò verso quella
tenera compassione di donna, come un bambino impaurito, che corre a
rifugiarsi nella gonna della madre. La stanza si riempí della
luce ch'egli aveva negli occhi, in cui guizzavano le scintille del
crepuscolo; la pregò ancora una volta, sigillando la bocca
colle dita, di compatirlo, di andar via: la spinse anzi un poco
verso la porta, allungando il braccio e la mano con cui teneva
nervosamente stretta la piccola mano di lei, si attaccò, per
non andare in terra, alla sponda della sedia, vi si
rannicchiò, vi si rimpicciolí sopra, e gridando
piú che pronunciando: "Andate via... per carità..."
lasciò irrompere senza piú nessun freno quel torrente
amaro di dolori, che lo rendevano cosí debole e vile.
A uno scoppio cosí
improvviso di lagrime, dalle quali usciva una confessione non meno
impreveduta che imbarazzante, il volto di Beatrice si offuscò
forse per la prima volta in vita sua di una nuvola di cupa
tristezza. Sulle prime non osò credere; si sforzò anzi
di non capire ciò che diventava sempre piú evidente,
cioè che Demetrio l'amava. Si guardò intorno, come se
cercasse di orizzontarsi in quel mondo di affezioni e di afflizioni
nuove che il piangere di Demetrio andava suscitando vicino a lei. Si
chinò un poco verso il meschino, provò a parlare, ma
che cosa doveva dire? Avrebbe voluto che ciò non fosse,
gliene rincresceva: che poteva fare lei? quando aveva dato un motivo
a questo uomo di credere? All'urto di queste varie questioni, che
balzavano e cozzavano nella sua testa, sentí anch'essa una
gran voglia di piangere, come una fanciullina che, uscita troppo
lontana da casa sua, si trova còlta dalla sera e comincia a
temere di perdere la strada.
Si sarebbe detto che la
violenta necessità di non mostrarsi dura e cattiva coll'unico
uomo che le aveva fatto tanto bene, spremesse quanto c'era di buono,
di caritatevole, di delicato nel suo cuore. Provò un forte
soffocamento di respiro, il petto le si gonfiò, il cuore
cominciò a battere con immenso dolore, come se qualche cosa
si rompesse in lei, come se in questo primo sforzo intelligente
della sua vita, dalla bambola uscisse la donna.
Certo qualche cosa di vivo e di
caldo sgorgava da quel patimento.
"Perdonatemi, Beatrice, sono
malato, non so piú quello che mi dico e quello che mi faccio.
Sono quattro mesi che soffro cosí, senza parlare mai con
nessuno: e sarei partito cosí, senza piú vedervi, se
voi non venivate quassú a cogliermi in un momento di
malinconia."
Demetrio parlava senza alzare
la testa dalle mani.
"Per amore dei vostri
figliuoli, che ho amato come se fossero miei, non fate nessun conto
delle mie parole, non dite niente, dimenticatevi anche voi... Non
ricordate se non quel po' di bene che ho voluto ai figli di
Cesarino... Andate via...."
"Io non potrò mai
dimenticare quello che avete fatto per me..." provò a dire la
donna, con una voce che risonò anche al suo orecchio in un
tono piú caldo e diverso dal solito. "Avete detto bene:
è il destino... Abbiate pazienza, Demetrio."
"Sí, sí,
sí!" esclamò Demetrio, sollevando la testa e sporgendo
sulla sedia le due mani giunte, come se volesse rinnovare una
preghiera. "Sono uno sciocco... lo so: addio, non vogliatemi male."
E cercò di sorridere per
togliere al discorso quanto vi poteva essere di penoso e
d'imbarazzante per lei.
"Abbiate pazienza..."
ripeté meccanicamente Beatrice, avviandosi verso l'uscio,
tremando, stentando il passo, come se due forze contrarie si
disputassero la sua pigra volontà.
Sulla soglia si fermò,
chinò la testa quasi contro lo stipite, soffrendo della sua
ignoranza che non le suggeriva nulla da dire, nemmeno una parola di
cortesia e di carità verso un uomo che aveva sacrificato
tutto per lei, il suo pane, la sua pace, la sua libertà, il
suo cuore, soffrendo in silenzio, senza chiedere mai nulla per
sé. Si fece improvvisamente pallida...
Demetrio, accovacciato,
piú che seduto sulla sedia, la contemplava
coll'avidità con cui il morente segue l'ultima striscia di
lume che tremola nella sua pupilla. Poi chinò un poco la
testa. La credeva partita...
Beatrice, appoggiata colla mano
all'uscio, si volse ancora una volta e con una voce ancora
piú commossa esclamò:
"Mi perdonate, Demetrio? vi
ricorderete ancora dei miei figliuoli? volete che vi mandi Arabella?
Il Signore compenserà le vostre buone intenzioni..., fatevi
coraggio: non datemi questo rimorso di sapere che, mentre io sono
felice, voi soffrite tanto. Scrivete qualche volta e se possiamo
fare qualche cosa per voi...."
Di mano in mano che ella
parlava, lasciando che le parole uscissero naturalmente, egli
sentiva ritornare il calore della vita e il senso delle cose. Nella
luce quasi estinta del crepuscolo, Demetrio vide avanzarsi di nuovo
quella donna e sopraffarlo colla grandezza della di lei persona.
Una mano si posava sulla sua
testa, da cui scese un brivido a invadere il corpo. Sentí
ancora un bisbiglio confuso di parole, e un'onda tiepida che lo
travolgeva: e credette che fosse arrivato l'ultimo momento della
vita.
Quando si rivegliò, si
trovò steso in terra ai piedi della sedia.
Un raggio di luna, entrando
dalla finestra aperta, disegnava sull'ammattonato i graticci delle
gabbie vuote.
Quando Beatrice venne via dalla
casa di Demetrio era quasi buio, e, camminando tra la gente, si
sentí come sola e perduta in una grande città. La
scena straziante a cui aveva assistito, la miseria di quella stanza
lassú, l'abbattimento fisico e morale del cognato, l'idea del
castigo che, per cagion sua, se non proprio per colpa sua, cadeva
addosso al povero disgraziato, la paura che Paolino tirasse da tutto
ciò un pretesto per non mantenere la sua promessa e la
lasciasse sulla strada, lei e i figliuoli, questi furono gli
spaventi che l'accompagnarono a casa.
Una volta arrivata e chiusa
dentro, sentí anche lassú il doloroso silenzio d'una
casa abbandonata che si sfascia. Della poca roba salvata dalle mani
dei creditori, parte era andata alle Cascine, parte giaceva in
disordine accatastata ai muri. Di intatto non rimanevano che la
stanza da letto, dove avrebbe dormito forse per l'ultima volta in
compagnia di Arabella, che, finiti gli esami, doveva seguire la
mamma a Chiaravalle. La ragazza, che in questo matrimonio della
mamma rappresentava una parte passiva di silenziosa protesta, andava
cercando una scusa per rimanere a Milano presso i Grissini, o in
collegio presso le monache, che d'estate conducono le allieve al
mare. Ma il signor Paolino si lamentava già della mancanza
della figliuola, e non era il momento di disgustarlo anche in una
piccola cosa.
Che brutta notte passò
per l'ultima volta nel suo letto grande la vedova! Arabella,
quantunque provasse un piccolo brivido nelle ossa, quando
entrò a occupare il posto del suo povero papà,
tuttavia, vinta dal sonno facile della sua età, verso le
undici si addormentò. Ma la mamma contò tutte le ore e
tutti i quarti senza poter raccogliere un'ombra di sonno. Troppe
cose uscivano dal cuore, come il sangue cola da una fresca ferita.
Ma piú ancora che il
cuore, la testa andava mulinando e annaspando pensieri sopra
pensieri, reminiscenze, casi sopra casi, immagini scomparse da un
pezzo, risuscitando morti e vivi, avvicinando le cose piú
secondarie, con tal precipizio, che piú di una volta si
sollevò dal cuscino e si passò la mano sulla fronte.
Quella testa, cosí poco abituata a riflettere, soffriva sotto
la matassa delle cose che il destino le imponeva di dipanare. Ella
lesse e rilesse, si può dire da capo, tutto il libro della
sua vita. Si rivide fanciulla in collegio a Lodi, presso le Dame
inglesi, non fra le prime, e nemmeno fra le ultime della sua classe;
da Lodi tornò a Melegnano ancora a tempo per godere gli
ultimi raggi della fortuna di suo padre; fu per alcuni anni una
corte bandita.
Prima che venissero i giorni
tristi, eccola a Milano a braccio di Cesarino.
Il suo noviziato di sposa fu
pieno di care novità e di dolci sorprese.
Cesarino, quantunque facile a
irritarsi e di gusti difficili, non aveva mai risparmiato sacrifici,
perché sua moglie facesse una buona figura nella
società.
Agli anni felici erano seguiti
i mesi della espiazione. Ricordò il primo incontro con
Demetrio, il piangere, il soffrire ch'ella aveva fatto sotto il suo
bastone. In casa era la miseria e la fame; di fuori il fallimento di
suo padre, l'insidia dei protettori, le trappole delle false amiche.
Essa aveva vissuto piú
in quei pochi mesi che in tutti gli anni prima. Ed ora, mentre stava
per tirare il fiato e ricomporre la sua fortuna, ecco una nuova
tribolazione.
Quantunque Paolino parlasse
soltanto del braccialetto e del cavaliere, era evidente che il
contegno scontroso e freddo del cugino aveva fatto nascere in lui il
sospetto che anche Demetrio avesse del fuoco al cuore.
Forse tra lor due s'erano
già dette delle parole vive, e nulla era di piú
naturale che Paolino s'ingelosisse e mandasse a monte il matrimonio.
Ella dunque era chiamata a scegliere tra questi due uomini, ossia
non era piú nemmeno il caso di scegliere. Il suo destino non
poteva essere che uno solo, quello di salvare un pane ai suoi
figliuoli. Era dover suo di dimostrare a Paolino che mai aveva
pensato a Demetrio, che nessuno gli era stato al mondo piú
antipatico e piú odioso...
In questa lotta di due uomini,
per non dire di due ombre, si mescolava nei brevi sopori della
fantasia un'altra ombra, quella di Cesarino, che pareva quasi
contento che tutto andasse a monte senza che Beatrice, immersa nel
superficiale dormiveglia delle ore mattutine, potesse afferrarne il
motivo.
Sentí Arabella che
parlava in sogno.
Suonavano in quella tre ore a
San Lorenzo. La bambina, che si era addormentata sopra una paurosa
sensazione, e che continuava anch'essa ne' suoi sogni a leggere il
piccolo libro della sua vita, a un certo punto balzò a sedere
sul letto, esterrefatta, e gridò:
"No, papà, no,
papà... Mandate via quel cane... Mandate via quel cane...."
"Arabella, che hai? che cosa
dici?" dimandò la mamma, balzando anch'essa a sedere sul
letto, stringendo la ragazza nelle braccia.
Questa si lasciò
prendere e cercò un rifugio nel seno della mamma. I cuori di
quelle due donne battevano e balzavano insieme sotto i colpi della
paura.
Rimasero abbracciate fino alla
mattina, tremando insieme e sospirando lo spuntar del dí.
Beatrice pensò che gli spaventi d'Arabella derivassero da
qualche bisogno che la pover'anima del suo Cesarino avesse nel mondo
di là, e invitò la figliuola a togliersi subito dalle
lenzuola per andare insieme fino al cimitero a pregare e a salutare
ancora una volta il papà prima di lasciar Milano. Demetrio
aveva fatto porre un piccolo sasso sulla fossa, approfittando di
quello stesso che era servito per papà Vincenzo e che,
passato il termine decennale, egli avrebbe dovuto rimettere pagando
di nuovo il posto.
Nel bisogno di fare qualche
economia, sperò che il buon vecchio non se ne avrebbe avuto a
male, e fece collocare la pietra con le altre parole sulla fossa del
suo figliuolo prediletto, compiendo cosí quell'opera di
misericordia e di perdono, che era cominciata per lui quasi
trent'anni prima.
Le due donne stavano ancora
vestendosi, quando una forte scampanellata le fece trasalire. Chi
poteva essere a quell'ora? Beatrice si fece il segno della croce e
andò a dimandare all'uscio.
"Sono io, il Berretta..." disse
la nota voce del portinaio.
"Che cosa c'è?"
dimandò aprendo la porta. "M'avete fatto un tal spavento!"
"C'è abbasso un signore
che desidera parlare a lei, sora Beatrice."
"Un signore? non vi ha detto il
suo nome?"
"No, o forse non ho capito."
"Non lo conoscete?"
"Non mi è faccia nuova:
pare un po' esaltato. Gli deve essere accaduta una disgrazia..."
"Ditegli che veniamo subito
abbasso..." soggiunse Beatrice con un tremito nella voce.
S'era ridotta quasi ad aver
paura dell'aria e andò a immaginare che fosse qualche altra
disgrazia.
Quand'ebbero finito di
vestirsi, madre e figlia discesero quelle benedette scale, forse per
l'ultima volta. Arabella pareva una candela.
Sotto il portico, a' piedi dei
gradini, passeggiava un signore grasso, che, al veder la signora
Pianelli, le andò incontro colla furia d'un uomo disperato.
Beatrice riconobbe in lui il signor Melchisedecco Pardi, il marito
della bella Palmira, e capí dalla sua faccia smorta e
stravolta che aveva poco dormito anche lui.
Anche lui, come Demetrio
Pianelli, come Paolino delle Cascine, era un'anima in pena per
grazia di una donna, perché questi benedetti uomini, grandi e
grossi, che sembrano a vederli i padroni del mondo, basta toccarli
con un dito sul cuore e si smontano come le macchinette.
I coniugi Pardi stavano una
mattina facendo colazione, quando la donna di servizio
consegnò alla signora una lettera arrivata allora allora
dalla posta.
Le lettere, lo ricordiamo, da
qualche tempo in qua erano diventate gli spauracchi del signor
Melchisedecco, il quale, sebbene, dopo la scena che abbiamo visto,
non avesse piú motivo di lagnarsi di sua moglie, pure non
poté nascondere un certo cipiglio, intanto che Palmira dava
un'occhiata alla soprascritta.
Ma questa volta fu un cipiglio
inutile. Palmira, spinta la lettera verso di lui, cosí come
era arrivata in tavola, gli disse:
"Leggi tu."
Secco, un po' mortificato
d'essersi lasciato cogliere in diffidenza e in gelosia,
crollò il testone, alzò le spalle e mormorò,
mentre ripuliva il piatto con una mollica di pane:
"Che bisogno?"
"No, leggi. Dici sempre che io
sono la donna dei misteri...."
"Che cosa ho detto?"
"Non è necessario
parlare. Apri, guarda dunque."
"Se è per capriccio
tuo...."
Il buon Pardone confuso e quasi
commosso per questo straordinario attestato di confidenza,
aprí la lettera, che veniva da Milano, mentre cogli occhi
buoni carezzava quella sua cara traditora.
"È la signora Pianelli
che ti scrive" disse, dopo aver scorsa superficialmente la lettera.
"Oh!" fece Palmira senza alzare
gli occhi dal piatto con un tono di freddezza glaciale. "Che cosa
vuole la signora delle Cascine?"
"T'invita al suo matrimonio per
giovedí mattina."
"Che onore!" declamò
Palmira, corrugando la fronte in uno sforzo come di concentrazione,
che ella procurò di nascondere con un altro sforzo dei
muscoli, mentre cercava di schiacciare nei palmi una noce contro
un'altra.
"Se accetti, dice che
manderà la carrozza a prenderti mercoledí sera,
perché tu possa assistere alle presentazioni e a un piccolo
trattenimento...."
"Anche la carrozza! vuol
proprio farmi morire d'invidia! Conosci tu il suo Paolino?"
"Non ho questo bene."
"Una pertica con in cima un
gran pomo d'Adamo."
Palmira rise ella per la prima
d'una ilarità sfrenata ed eccessiva, sforzandosi di coprire
un altro movimento del cuore e seguitò:
"Per sposare di questi lampioni
non vale la spesa di andare fuori del dazio. Di lampioni è
pieno Milano."
Secco rise lui di gusto questa
volta alla pittura del sor Paolino, e in cuor suo si consolò
d'essere qualche cosa di piú d'un lampione. Lo spirito
mordace e pittoresco di Palmira aveva sempre avuto il merito di
piacere al buon fabbricante di nastri, sorto anche lui dal popolo, a
cui piacciono i paragoni semplici e coloriti.
Confrontando in mente la bella
e pacifica signora Pianelli, che egli aveva conosciuto a Cernobbio e
alle feste del Circolo Monsù Travet, nella sua beata e
pacifica compostezza, colla sua faccia rotonda di bambocciona, a
quest'altra donnina magra e spiritosa, che rosicchiava davanti a lui
un amaretto con una delicata nervosità, il buon Pardone non
poté a meno di fare anche lui il suo paragone.
"Non basta" pensò "che
una donna sia bella e prosperosa come una gallina. La bellezza va e
viene e, in quanto a peso, vale di piú un cannone. Ciò
che dà vita e illuminazione a una donna è lo spirito.
Una donna senza spirito" seguitò nella sua pigra fantasia di
buon ambrosiano, "è come un caffè buono, ma freddo."
Secco non sarebbe stato capace
di mettere in carta queste idee, ma le espresse cogli occhi, con cui
avvolse teneramente la sua cara traditora, soffiando il ridere dalle
ganasce gonfie, mentre ripensava al paragone della pertica con in
cima un pomo d'Adamo.
"Che ne dici, dunque? debbo
accettare?"
"Direi di sí. Se
t'invita è segno che ha gusto d'avere anche te."
"Non ne ho nessuna voglia"
soggiunse Palmira, continuando a schiacciar noci, senza far altro
che tormentare la pelle delicata delle sue manine da contessa. Ma
forse aveva bisogno di quel tormento fisico per schiacciarvi dentro
un pensiero piú duro e piú aspro.
"Se non c'è motivo, non
bisogna mai disgustare la gente" raccomandò il buon
negoziante, rompendo con un colpo solo delle sue mani grassoccie e
forti due belle noci, che mise in venti frantumi sul piatto di
Palmira.
"Non ho nemmeno un vestito
adatto" seguitò a dire Palmira, come se si compiacesse di
porre degli ostacoli ai propri passi.
"Per questo siamo in un
Milano...."
In questi discorsi la colazione
finí. Secco si alzò, accese una grossa pipa di
ciliegio e andò in fabbrica, in mezzo al movimento de' suoi
duecento telai, che mandavano un chiasso di cento pettegole. Quando
l'uscio fu chiuso sull'onda sonora che entrò a invadere il
salotto, Palmira afferrò con furia la lettera rimasta aperta
sulla tavola, la scorse in furia con uno sguardo freddo e lucente,
mordendosi le labbra sottili, avvicinò le prime e le ultime
parole di ogni riga, traendone un senso che era sfuggito al suo
segretario; si contorse quasi su se stessa come una foglia secca, e
mormorò qualche cosa, che andò a morire negli abissi
imperscrutabili della sua coscienza di donna vana e capricciosa.
Si alzò, accese una
sigaretta e, tolto dal caminetto un giornale di mode, andò a
rannicchiarsi in una poltroncina posta sotto la finestra che
dà sul Naviglio, cogli occhi apparentemente fissi alle belle
signore del figurino, ma in realtà perduti in una
contemplazione lontana molto piú bella e affascinante.
Dalla fabbrica arrivava ancora
fino a lei, per quanto smorzato, il continuo tric-trac, che
assordava, intontiva le orecchie e l'anima, e sul quale tesseva
anch'essa le sue giornate tutte d'un colore, trascinandosi dietro la
vita lunga ed uguale come un nastro ordinario, senza una emozione,
tediata, piena, gonfia della sua stessa fortuna di agiata borghese,
sempre in lotta o colla tenera bontà di suo marito, o colle
tentazioni de' suoi pensieri.
Era piú felice forse
quando lavorava di là, in fabbrica, e che poteva almeno
sfogare l'umore, tirando uno zoccolo nella schiena a qualcuno.
Per quanto non invidiasse
né il temperamento, né il "lasciatemi stare" di
Beatrice, per quanto non credesse alle sue massime di donna
pacifica, doveva però confessare, con un piccolo risentimento
d'invidia, che quella bambocciona era piú fortunata di lei.
Anche un Paolino qualunque, che
abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine
popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú
allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia
e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio
melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo
stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri.
Quel che rispondesse a Beatrice
non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il
capriccio e la curiosità, perché il mercoledí,
un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due
cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor
Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle
Cascine.
Secco arrivò appena a
tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare:
"I miei complimenti; portami i
confetti."
La sera andò a far la
solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte
belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di
seguito i tre assi.
"Caro lei, lo faccio arrestare"
saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina
Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino.
"Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie
guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte."
"Allora sí, povera
signora Palmira..." disse il compagno che vinceva col fortunato
mortale.
Secco rideva, soffiando la
contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le
carte sul tappeto verde.
"Fortunato nel giuoco,
sfortunato in amore."
"Tre assi..." accusò per
la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi
coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio.
Il delegato, che perdeva
già la terza partita, mormorò:
"Tre assassini!" e, volgendosi
al ragazzo dell'osteria, gli disse: "Guarda se c'è un agente
lí di fuori...."
Il Pardi tornò a casa
piú tardi e piú caldo del solito. Entrò
nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che
trovò nella cassetta ai piedi della scala.
La donna di servizio
uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò,
lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della
calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni, la
vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano
sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse
andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela
avessero portata via morta.
Era anche questo un effetto del
bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i
pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e
cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis.
Fece passare alcune lettere;
buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali,
e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una
scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere.
Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro
spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e
lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti
parole:
"Dimani scade la nostra
cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e
m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un
palco per tutta la stagione."
E piú sotto, conficcato
nel piccolo angolo rimasto libero:
"Per sua norma, Altamura
è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto
ieri."
Tornò a leggere da capo:
"Dimani scade la nostra cambiale, ecc.."
E piú sotto: "Per sua
norma, Altamura...."
Gli occhi del signor Pardi si
sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto
del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola,
vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla
porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto,
avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela.
Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una
trappola: ci voleva poco a capirla.
L'egregio cavalier Lanzetti -
oggi sono cavalieri anche gl'impresari e i suggeritori - avendo
bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi
dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava
a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima
partenza per Montevideo.
"Un cantante che fa la stagione
a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor
cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra
volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu
mi creda cosí gambero da bevere... da ritenere che il signor
Altamura è a Milano già da una settimana...."
Il Pardi rideva con sé
stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a
rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo
nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo
di barba; poi girava sui tacchi, dava un'altra occhiata di volo al
letto...
Palmira non era quasi mai
uscita di casa tutto quel tempo. Da qualche mese in qua si mostrava
docile, discreta, savia, tollerante. Lettere non ne riceveva
piú, e nemmeno giornali, dopo la gran burrasca di quel giorno
che l'aveva còlta sulla porta della Posta. Essa non voleva
nemmeno andare alle Cascine, al matrimonio della signora Pianelli,
per non fare la spesa di un vestito nuovo: era stato lui a cacciarla
via, perché prendesse una boccata d'aria, povera diavola...
Stava ancora concludendo il suo
ragionamento che già la mano aveva aperto, operando per conto
suo, un cassettone, in alto, dove Palmira teneva i fazzoletti, le
gioie d'uso, le lettere, il borsellino. Quando si accorse di
commettere una stupida ed inutile indiscrezione, spinse e chiuse con
violenza, intascando sbadatamente la chiave.
Non era il caso di credere che
prima di andare alle Cascine, Palmira avesse a incontrarsi con...
qualcuno.
Impossibile. Come poteva sapere
questo qualcuno che il matrimonio della signora Pianelli era fissato
pel giovedí mattina, e che il signor Paolino avrebbe mandata
la carrozza a prendere Palmira il mercoledí?
Ad ogni modo bisognava sempre
supporre che Altamura fosse a Milano, mentre la Gazzetta dei Teatri
dava per certo che egli aveva accettata una scrittura per l'America
del Sud, dove i mariti non fanno complimenti e piantano fior di
coltelli nel cuore ai Trovatori.
Che diavolo gli passava mai per
il capo? Ecco in qual maniera un uomo può esser felice per
tre assi a tresette, e cinque minuti dopo diventare il piú
disperato degli uomini per l'ombra di un'idea. Frugando nelle tasche
della giacca, per una morbosa inquietudine e quasi curiosità
delle mani, vi trovò una chiavetta. Da qual parte questa
chiave? Non si ricordava già piú.
Stette a guardarla con grossi
sopracigli, finché gli venne in mente ch'era la chiave del
cassettone. Aprí di nuovo il cassetto in alto, cercò,
frugò, trovò una lettera, corse presso la candela. Era
la lettera della signora Beatrice ch'egli aveva aperta e letta a
Palmira, un gentile invito e non altro, a meno di credere che anche
Altamura fosse stato invitato alle Cascine...
Ma se Altamura non era a
Milano, non poteva essere nemmeno alle Cascine. Se era in America,
non poteva essere in Italia. È vero che per poter dire che un
uomo canta in America bisognerebbe essere là a sentirlo, ma
d'altra parte, per credere la metà di quel che gli passava
per il capo, bisognerebbe ammettere che l'uomo è una bestia
feroce, e la donna la madre delle bestie feroci, che il mondo
è una tana di tradimenti, che non c'è piú
né legge, né fede, e che gli assassini di strada sono
i piú galantuomini, perché almeno mettono a rischio la
pelle.
In queste riflessioni
spasmodiche, colle quali il povero geloso procurava di assopire i
suoi sospetti, cominciò a svestirsi. Si levò la
giacca, che appese al solito chiodo, e caricò l'orologio.
Portò l'orologio
all'orecchio per sentirne i battiti: lanciò uno sguardo
disperato all'altra parte del letto. Era mezzanotte. Palmira doveva
essere arrivata da cinque ore almeno alle Cascine. Finite le
presentazioni e il trattamento dell'acqua dolce, a quest'ora forse
dormiva insieme alla sposa...
Coll'orologio in mano, cogli
occhi fissi al quadrante, col panciotto slacciato sul petto, il
Pardi seguiva ansiosamente il movimento quasi invisibile
dell'indice, come un dottore che conta i battiti di un moribondo. Se
fosse stato sicuro di poter trovare il Lanzetti al Biffi, dove
andava di solito, sarebbe uscito a cercarlo.
Non era ancora deciso se uscir
di casa, o se buttarsi a dormire in santa pace, che, rimessa la
giacca e col cappello sugli occhi, passava in fabbrica a far qualche
cosa per ingannare il tempo. Non si dorme con un ferro rovente che
t'infila il cuore. Entrato nel vasto camerone, dove stavano
schierati in due grossi corpi i suoi duecento telai con una stretta
corsía nel mezzo, ombre grandi e grottesche svolazzarono su
per i muri al passare della candela.
A mezzo della corsía,
che metteva al bugigattolo dello studio, si fermò, e,
premendo coll'unghia l'orlo e le croste della candela, tornò
a rifare il suo ragionamento, mescolandovi ancora la geografia, la
Gazzetta dei Teatri e la probabilità che il mondo sia una
tana di ladri e di assassini. La testa, ridiventando pesante,
piombava di nuovo sul petto, e nell'ombra della notte, nella fredda
e livida compagine de' suoi duecento telai che l'avviluppavano come
in una rete dura di ferro e di nodi scorsoi, un'accusa cupa e
solenne, sviluppandosi dal fondo piú cieco della sua vita,
saliva con un gran turbamento del sangue fino alla sede del
pensiero. Che fossero già d'accordo? Che si trovassero
già abbracciati in un sicuro nascondiglio? Si può
diventare ubbriachi pel sangue che va alla testa.
L'alba trovò il signor
Pardi curvo sui mastri e sul libro campionario, assopito, piú
che addormentato, in una dolorosa stanchezza, col corpo mezzo
intirizzito dal fresco delle ore mattutine. Alzò la testa. Se
avesse potuto guardarsi in uno specchio e vedere il colorito
scialbo, i capelli duri e arruffati, l'occhio cinericcio e spento,
avrebbe creduto d'essere molto malato.
Tuttavia la luce chiara e
onesta del sole che entrava rubicondo per le sei grandi finestre,
sbattendo sui congegni bruniti dei cilindri e dei pettini,
dissipò molti dei fantasmi che lo avevano assalito la notte.
Rilesse ancora una volta il biglietto del cavalier Lanzetti,
cercò e ritrovò nel cassetto segreto della scrivania
la raccolta della Gazzetta dei Teatri, ch'egli leggeva attentamente
dal marzo in poi, interessandosi al movimento di tutto il personale
mimico-lirico-danzante del paese, e ritrovò facilmente una
notizia, già segnata con matita rossa, che diceva:
"Il celebre Altamura
accettò per l'agosto un lauto impegno al teatro dell'Opera di
Montevideo, dove l'esimio artista ha lasciato indimenticabili
impressioni nell'intelligente colonia dei nostri connazionali.
Auguriamo al nostro illustre amico larga messe di allori e di
pesetas."
"Anch'io" mormorò il
Pardi, associandosi di cuore all'augurio. "Ecco la prova stampata
della bugia che farò scontare al cento per cento al signor
Lanzetti."
Intascò il giornale,
accese il sigaro, che gli teneva alla mattina il posto del
caffè nero, e, mentre le operaie cominciavano a entrare in
fabbrica, uscí coll'intenzione di trovare in qualche buco
l'impresario e di farsi spiegare l'intreccio di quest'opera buffa.
Non erano ancora sonate le
sette, quando, venendo per la via stretta di San Simone, nella
corrente rumorosa dei muratori e degli operai, che ogni mattina
inondano Milano, sbucò nel largo crocevia del Carrobio,
già vivo e agitato come deve essere il cuore di una
città grande piena di affari e di interessi, che non ha
troppo tempo per dormire.
Sapeva che i Pianelli abitavano
in Carrobio, anzi si ricordò d'aver veduto Palmira uscire da
una porta presso il droghiere, quel giorno che i coniugi Pardi
s'erano trovati col tempo in burrasca, seduti, l'uno in faccia
all'altra, nel medesimo tramvai.
I piedi, che non sempre
ragionano male come il cervello procura di far credere, ve lo
portarono diritto.
"Abitano qui i signori
Pianelli?" chiese al portinaio.
"Abitavano" rispose il
Berretta, tenendo sollevata una scopa in mano come un campanello.
"Però c'è la signora Beatrice. In quanto al signor
Cesarino, saprà bene che...."
"La signora è in
campagna?"
"Oggi è a Milano.
È arrivata ieri a prendere la figliuola che deve fare gli
esami."
"Ieri, va bene: ed è
partita" seguitò a dire il Pardi, sforzandosi di correggere
gli spropositi di fatto che diceva il sarto.
"No, no, è a Milano"
confermò il Berretta. "Ha qui ancora quasi tutta la roba."
"Che c'entra? deve sposarsi
stamattina."
"Ah... io non so."
"Insomma, c'è o non
c'è?"
"Chi?" domandò il
Berretta, che si lasciava stordire per poco, sollevando gli occhi in
faccia a questo signore grasso, che pareva in collera.
"Avete detto che la signora
Pianelli è a Milano" riprese a dire il signor Pardi colla
pazienza di un professore, che torna a spiegare un problema astruso.
"Sí, diavolo! le ho
portata ieri sera l'acqua per lavarsi la faccia."
"Fate il piacere di andar su e
ditele..." il Pardi pescò nel taschino del panciotto quei
cinque soldi che occorrono per far correre un uomo "ditele che
c'è un signore che desidera parlar con lei subito subito."
"Vado in un momento."
Secco si lasciò cadere
coll'abbandono pesante dell'uomo stanco su di una sedia e si
appoggiò al tavolo, in mezzo ai ritagli e alle filaccie,
nella luce miope e sonnolenta che mandano a Milano le finestre dei
portinai, senza pensar nulla di preciso, ma ripetendo solo con una
espressione sforzata e quasi di sprezzo: "fare gli esami!" frase
che, caduta come un ciottoletto negli addentellati dei suoi discorsi
interni, urtava e guastava il meccanismo del raziocinio.
Il Berretta tornò a dire
che la signora Beatrice, dovendo uscire per alcune spese, sarebbe
venuta dabbasso tra cinque minuti.
Il Pardi non rispose, e dopo
aver guardato il portinaio con un'aria di compatimento, come se il
Berretta non sapesse quel che veniva a contare, si raccolse, si
appoggiò colle braccia sui ginocchi e procurò di non
pensar piú nulla, finché non fosse uscita questa
signora Beatrice. Avesse dovuto aspettare non cinque minuti, ma
cinquanta secoli, non sarebbe uscito di lí senza aver parlato
coll'amabile sposina.
Il portinaio venne a contare
delle storie in cui entrava ancora Cesarino, il solaio, la trave, la
mano... che so io? tutte parole che non arrivavano fino alle
orecchie di quell'uomo immerso fino ai capelli in una profonda
oscurità, e che sentiva sé stesso come un sacco
imbottito di stoppa.
Di fuori il Carrobio mandava i
suoi gridi, i suoi strepiti, i suoi rombi di carri pesanti,
accalorandosi nella vita crescente della giornata. Dalla porta
entravano e uscivano uomini, donne, ragazzi. Chi consegnò una
chiave, chi ritirò una lettera, una donnicciuola in cuffia si
lamentò del gatto, che andava sempre davanti al suo uscio...
che era una sporcizia. Un fornaio lasciò tre panini sul
tavolo del sarto e se ne andò urtando nei vetri col cavagno.
Nella corte strideva a brevi
intervalli il manubrio della pompa, con un tonfo di roba pesante;
risonavano voci di donne, piagnistei di bambini... Tutti questi
particolari, occuparono, distrassero un momento la sua attenzione
durante il buon quarto d'ora che la signora Pianelli si fece
aspettare. Erano sottili ricami sopra un fondaccio senza colore. La
vita esterna arrivava onda morta fino al suo capo, ma non aveva la
forza d'entrarvi.
Se avessero gridato al fuoco,
se la casa fosse crollata alle sue spalle, il signor Pardi non si
sarebbe mosso di lí prima d'aver veduto e parlato colla
signora Pianelli. Se essa era arrivata il giorno prima a Milano,
come poteva aver invitato Palmira a prender parte alle presentazioni
di famiglia? Che il matrimonio fosse andato a monte?
"È qui" disse finalmente
il Berretta, che stava in sentinella per farsi vedere degno dei suoi
cinque soldi.
Il Pardi si alzò di
scatto e corse a incontrarla ai piedi della scala. Lo spingeva
un'ultima speranza: che non fosse lei. Beatrice Pianelli, pallida,
un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo
raccolto un lembo del vestito.
"È lei?" esclamò
colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome... Mi
rincresce di averla fatta aspettare."
Pardi salí un gradino e
le si collocò davanti col pugno stretto, come se si
preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e
pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei
della sua sofferenza.
"Scusi: Palmira...."
"Che cosa?"
"Non è qui?"
"No" rispose Beatrice con
candore.
"Non è oggi il giorno
che lei deve sposarsi?"
"No" essa tornò a dire
con semplicità, con una nota cantata.
"Ma allora...."
Si dominò. Voltò
la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro,
alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare
un'argomentazione impossibile.
"Difatti il matrimonio si
doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma
non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che
lo impedisce."
"Ah! un articolo di legge..."
ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per
dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non
lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e
non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre
parole per tirare innanzi la conversazione.
"Scusi..., lei non ha scritto
la settimana scorsa a Palmira una lettera?"
"No."
"Ma sí!" gridò il
Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda
piú."
"Che lettera?"
"L'ho vista, l'ho letta io...
una lettera...."
Beatrice raccolse il pensiero a
riflettere.
"Una lettera con cui lei
invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per
stamattina."
"Non è possibile, caro
lei."
"Ah! non è possibile?"
Secco, come se le forze lo
abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e
piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i
due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui
muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto.
Beatrice, non ancora vicina
all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo
interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella
avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira,
a una festa di famiglia.
"Però" prese a dire il
Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea,
"però ella ha mandato una carrozza a prenderla...."
"Quando?"
"Ieri, ieri sera. Oh, per Dio,
l'ho vista io...."
Il Pardi s'infuriò
contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad
osservarlo con gli occhi d'una bambola.
Beatrice s'impaurí,
entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una
delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di
labbra, e finí col dire:
"Scusi, io non so proprio
niente...."
"Mi perdoni..." disse il Pardi,
allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto,
piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che
scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni..." balbettò.
Colla mano irritata
tastò qua e là sul corpo, finché trovò
la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel
pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli
occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido,
e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice,
tornò a dire:
"Mi scusi tanto...."
Beatrice discese gli ultimi
gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo
guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe
voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la
seconda volta in poche ore si vergognò della sua
povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo
ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla
testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col
cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo
movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole
e le grandi tragedie degli uomini.
Arabella l'accompagnava in
silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte
visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della
città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e
corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare,
tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e,
oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di
gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà,
misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che
doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva
triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua
volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro
parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna
passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al
passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra
dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire
improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi
nella sua testa:
"Di', mamma, se tu sposi il
signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?"
La mamma non rispose nulla, ma
di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi.
Giunsero cosí al
cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò
subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla
terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte,
Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che
andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco
che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce
lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e
la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che
fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa
aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non
sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse
voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su
quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità
morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si
accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui
capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime
che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E
rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono
del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della
vita che soffre.
Si mossero piú consolate
e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che
traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria,
stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si
spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue,
color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle
quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da
un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti.
Un'altra malattia gli aveva
dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua,
egli non poteva piú né sonare, né cantare, e
tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai
passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre
intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue
artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta
la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del
Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura
stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba
e nella sordidezza della povertà.
Arabella si attaccò
stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio
pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore
le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di
singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata
il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono
una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in
fretta.
Tornarono in città a
braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come
prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si
lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.
II
Il Pardi si ricoverò in
un caffè vicino, dove rimase forse un'ora cogli occhi aridi,
fermi sulla vetrina, intento, in apparenza, a guardare di fuori la
gente che va e viene come le figure di una grande lanterna magica,
ma in fatto non vedeva chiaro una spanna in là.
Stava lí, come un sacco
di roba che quattro matti piglino a bastonate, aspettando che si
stancassero di battere. In meno di dieci ore si sentiva invecchiato
di dieci anni. Aveva la febbre, ovvero qualche cosa di ardente e di
mordente che lo scoteva di dentro. Tratto tratto portava alle labbra
la tazza d'acqua, trangugiava un sorso per bagnare la lingua e la
gola, per isforzarsi d'inghiottire il veleno che gli faceva amara la
bocca ed acre il sangue.
"Vergognosa, sgualdrina,
canagliaccia!" diceva una voce interna; ma di fuori non appariva
nulla, come se egli fosse al caffè ad aspettare l'ora d'una
partenza, a far passare un tempo lungo e noioso, sempre fisso cogli
occhi ai vetri, non vedendo al di là che un movimento torbido
e confuso come un fiume d'acqua sporca che passa gorgogliando. "Una
lettera falsa, una carrozza, una congiura! sgualdrina!
l'ammazzerò."
Che cosa doveva fare intanto?
Per sua volontà non si sarebbe mai mosso dal canapè e
dal tavolino, a cui si sentiva appoggiato, perché temeva,
alzandosi, di cadere in terra come uno straccio.
Aspettava quasi che gli
avvenimenti gli dessero la leva e l'aiutassero a ritornare a casa.
Se Palmira aveva intenzione di ritornare, non sarebbe venuta prima
di mezzodí, perché la commedia avesse tutta la
naturalezza che richiedeva la circostanza. Traditora! scellerata!
dopo tutto il bene ch'egli aveva fatto a quella ragazza! L'aveva, si
può dire, levata dal telaio, in zoccoli e in vestito di
cotone, a dispetto della sua povera mamma, che, dopo aver fatto ogni
sforzo per opporsi al matrimonio, era morta quasi in collera col
figliolo, senza riconoscere la nuora. Ecco ora il castigo! Glielo
diceva sempre la mamma: "mangierai il pane che ti meriti!" Mostro
d'ingratitudine! se gli avesse cercato l'anima e il cuore glieli
avrebbe dati. Non ci era capriccio ch'egli non si sforzasse
d'indovinare e di contentare prima che nascesse. Pardi stava
attaccato al quattrino, al telaio, al filo e alle matasse, alle
continue seccaggini del mestiere, lottando colla mano stanca contro
l'enorme concorrenza della novità, contro le esorbitanti
pretese della mano d'opera, contro l'invasione dell'articolo
forestiero; se Pardi si logorava l'anima e il corpo in un lavoro da
bestia, alzandosi la mattina prima del sole, strozzando il boccone
in gola come un manovale, mentre avrebbe potuto vivere modestamente
del suo in campagna, o contentarsi di un mediocre guadagno; se Pardi
faceva questi sacrifici, era per lei, per la sgualdrina, per la
canagliaccia. Ah povero uomo! ah poveri morti!
La vista della signora
Pianelli, che nel tornare dal cimitero passò davanti al
caffè, lo scosse da queste mortali angoscie, si alzò,
traversò la piazza, e come per forza di magía si
trovò a casa.
"È tornata lei?" chiese
alla donna di servizio, che stava preparando i due posti della
colazione sulla tavola.
"Non ancora."
"Non ti ha detto quando sarebbe
tornata?"
"No. Ma non l'aspetto prima di
sera. Tornerà probabilmente in compagnia degli sposi."
Pardi mandò dalla gola
un respiro rauco, che avrebbe potuto essere un ruggito umano:
lanciò uno sguardo bieco sulla fantesca, che non si accorse
di nulla, traversò il pianerottolo, passò di
là, in fabbrica, risalí la lunga corsía in
mezzo al vespaio dei rocchetti giranti, dei pettini, delle calcole
saltellanti, provando nel rumore aspro del lavoro un sollievo al
dolore dell'anima sua; uscí dall'altra parte. Per una
scaluccia di legno scese nel sotterraneo della piccola motrice,
parlò col fochista di cose inconcludenti, e per la stretta
privata del vicino magazzino di legna si trovò di nuovo in
istrada, all'aria aperta, sul ponte del Naviglio, a contemplare
l'acqua verdognola e quasi stagnante, a strologare il tempo, colle
mani nelle tasche come un vagabondo, sempre in ansietà di
veder spuntare da qualche parte una carrozza a due cavalli, con
dentro lei, o sola o accompagnata da qualcuno.
E se non fosse tornata
piú? quando si ha il cuore e la pazienza di ordire dei
tradimenti cosí sottili e cosí ben preparati, non deve
mancare nemmeno il coraggio di abbandonare la propria casa per
sempre e l'uomo che ha fatto carne del suo cuore per fare di una
brutta sgualdrina una signora degna di una buona famiglia.
"Mangerai il pane che ti
meriti!"
Era sempre la voce della sua
povera mamma, donna avveduta, di lunga esperienza, che aveva letto
negli occhi della "nera" (la chiamavano cosí in fabbrica) la
forza di dieci diavoli, al punto che, quando il matrimonio era
diventato un obbligo di coscienza, con tutti i suoi scrupoli, la
povera donna aveva offerto una grossa somma per aggiustarla e per
mandar via la strega.
"Mangerai il pane che ti
meriti!" soleva dire dopo, nei pochi mesi che campò; e non ci
volle che la santità di un vecchio prete per persuadere la
moribonda a ricevere Palmira ai piedi del letto.
Eran cose di dieci anni fa e
parevano capitate ieri.
Secco riviveva in esse, se le
sentiva ritornare in gola coi flussi del sangue sconvolto, mentre
trascinato dalla sua inquietudine, condotto per mano dalla sua
curiosità, andava di strada in strada col passo del
buontempone, nei quartieri piú solitari di Porta Genova,
fermandosi a contemplare gli avvisi, le stampe, le piccole mercanzie
delle ultime botteghe del borgo, finché, va e va, si
trovò seduto sopra una panchina del bastione davanti alla
tetra costruzione del Carcere cellulare, che usciva col suo color
bigio dal verde degli orti circostanti, asserragliato da lunghi muri
di cinta, colla lunga serie di finestre ferrate e incassate negli
stipiti massicci di granito.
Chiusi dentro, quasi stretti
nelle braccia del ferrato edificio, stanno ladri, falsificatori,
accoltellatori, assassini, in attesa della galera. Sommando tutto
questo male, gli pareva ancora poco in confronto del male che aveva
fatto a lui quella donna. E un ladro, un accoltellatore gli pareva
quasi un galantuomo al confronto del profumato seduttore, che, forte
delle sue note voluttuose e del suo accento romanesco, senza un
granello d'amore, ma per una civetteria di palcoscenico, o per
ingannare il tempo tra una scrittura e l'altra, viene e pianta un
coltello avvelenato nel cuore di un galantuomo che lavora e che del
suo lavoro fa vivere un centinaio di onesti operai. Se una povera
donna porta via quattro bottoni dalla fabbrica, o un matassino di
seta, i signori giudici trovano nel Codice che essa merita almeno
sei mesi o un anno di reclusione; ma questi assassini dell'onore,
questi ladri di donne altrui, questi scassinatori della pace delle
famiglie vanno tronfi delle loro conquiste come gli zulú e i
pellirosse si vantano delle cuticagne strappate ai nemici.
E non c'è giornalista, o
romanziere, o librettista d'opera che non trovi ciò molto
bello e naturale e romantico, come se il rubare una donna all'uomo
che l'ama non sia qualche cosa di piú che rubare una pecora
al pastore che la mantiene.
Che! che! peggio per te se hai
lasciata aperta la gabbia: peggio per te se vuoi fare il marito
geloso e amoroso: peggio per te se sei nato stupido, col groppone
grosso, a portare pesi e dolori: il mondo è degli eleganti,
degli ingegnosi, dei furbi, dei romanzieri, dei giornalisti, dei
cantanti, degli avvocati chiacchieroni, che stendono la mano d'uno
all'altro, fanno una catena, allacciano il globo, soffocano i
diritti dei poveri di spirito, creano una opinione falsa del bene e
del male, sono ladri e giudici, comandano come i domatori delle
fiere nei circhi, lusingandosi della propria forza; ma guai se la
belva un dí s'accorge che la forza è sua!
Pardi mandò ancora un
sordo gemito, adocchiando collo sguardo corrucciato a destra e a
sinistra se vedeva gente.
Il bastione era deserto. Nella
chiara luce del meriggio gli antichi ippocastani versavano un'ombra
densa e quieta sulla strada polverosa e sull'erba corrosa dello
spalto, dove passeggiava con passo svogliato e col fucile a tracolla
la guardia di finanza.
La città, colla
moltitudine delle case, dei campanili, dei camini biancheggiava
davanti a lui nel caldo bagliore del sole di luglio, mandando una
voce confusa d'immenso alveare umano, voce che veniva a finire
contro il massiccio edificio del carcere, che opponeva nella sua
tetraggine un silenzio di tomba.
Melchisedecco sognava cogli
occhi aperti e abbagliati un giorno di rivoluzione. Gli pareva che
dalle cento finestre del carcere uscissero i malviventi, armati di
coltelli e di sbarre, torma cenciosa e bruta, che andava a bruciare
e rovinare Milano.
Il buon negoziante dal
temperamento acquoso oggi capiva anche l'incendio e la rovina. Egli
che predicava tanto sugli scioperi e sulla prepotenza del signor
operaio, oggi si sarebbe messo alla testa di un esercito di
malfattori per punire i galantuomini del male che gli faceva
soffrire una donna. Egli, sí, egli, colle sue mani avrebbe
gettato petrolio e fuoco nel Teatro della Scala, per il gusto di
abbruciare un covo di ladri eleganti, che non ti rubano, no, la
borsa, ma ti rubano la pace, l'onore, la stima della gente.
Sonava mezzodí a tutti i
campanili della città, quando fu scosso dal rumore di una
carrozza che passava a corsa dietro di lui, sollevando una nuvola di
polvere.
Il legno scendeva verso Porta
Genova al trotto di due cavalli, ma, quando parve al Pardi di
riconoscerlo, era già troppo lontano. A un certo punto la
carrozza si fermò. Un signore discese, strinse una mano che
uscí dal finestrino e uomo e carrozza scomparvero nella
nuvola di polvere.
Pareva un sogno d'uomo infermo
che ha preso molto sole sul capo.
Secco si restrinse in un
gruppo, e finí di soffrire quel che è dato di poter
soffrire a un uomo. Poi si mosse come se fosse ad un tratto guarito.
La sua risoluzione era presa. Si volse ancora una volta verso il
carcere e, parlando cogli occhi, gli disse qualche cosa, forse un
arrivederci.
Palmira non rientrava a Milano
senza qualche batticuore. Strada facendo l'aveva assalita il
sospetto che suo marito, preso a un laccio cosí volgare e
teatrale, riflettendo sulla cosa, non la trovasse naturale, o
sentisse qualche notizia in contrario, o s'incontrasse per caso in
qualche persona che sbadatamente tradisse la verità.
Perciò prima di entrare in città si era fatta condurre
alle Cascine per poter dire di esserci stata, per prendere
cognizione esatta della posizione, per parlare a Beatrice e mettersi
d'accordo con lei, per avere in lei una difesa e una testimonianza
qualora ce ne fosse bisogno. Alle Cascine sentí che la
Pianelli era a Milano per gli esami di Arabella e che il matrimonio
non si sarebbe celebrato cosí presto.
Questa scoperta fu un primo
colpo di fulmine. I casi son mille e Secco poteva incontrarla per
via. Si fece portare rapidamente a Milano coll'ansia d'un capitano
che teme di aver perduta una battaglia, e che si affretta, in
mancanza d'altro, a coprire la ritirata. Le parve lieta la musica
del tric-trac che l'accolse all'entrare in casa sua. Avrebbe voluto
che Secco uscisse subito a salutarla per leggergli negli occhi. Non
era uomo che sapesse nascondere un pensiero. Ella capiva subito al
suo grosso respiro quando c'era in aria una tempesta. In quel
momento si sentiva il coraggio di mentire fino alla perdizione
dell'anima, senza battere palpebra, sicura già in cuor suo di
poter compensare il tradimento e la bugia con un entusiasmo nuovo e
straordinario di bene. La coscienza formulava già un caldo e
sincero proponimento di penitenza e di ravvedimento, appoggiato al
giuramento di non tentar piú in nessun modo la pazienza di
Dio e quella del piú buono dei mariti, di non uscire
piú col pensiero dal suo guscio, di espiare insomma con una
vita raccolta le aspre e terribili sfrenatezze della colpa.
Pensando queste cose in un
fascio, per quanto si possa pensare col cervello in fiamme,
salí a corsa le scale.
"Non c'è lui?" chiese
alla donna, entrando colla furia di una gazzella inseguita.
"L'aspettava a colazione.
Vedendo che non veniva, sarà andato alla trattoria."
"Mi aspettava stamattina?"
"Gli ho detto che probabilmente
sarebbe tornata stasera."
"Non v'è stato nessuno?"
tornò a chiedere Palmira, mentre si strappava i guanti
rovesciandone la pelle sulle dita.
"Nessuno."
"Ieri sera è uscito."
"Fino alle undici stette
fuori."
"Era di buon umore? non ti ha
parlato di... di un fallimento?"
Palmira, a cui crescevano le
astuzie in bocca, cercava ogni mezzo per scandagliare senza farsi
scorgere.
"È andato a dormire: non
ha detto nulla."
In questi discorsi Palmira
entrò nella stanza da letto. Trovò sul tavolino alcune
lettere, dei manifesti e la famosa lettera di Beatrice. Questa si
ricordò d'averla chiusa nel cassettone. Come si trovava
ancora intorno? Nel cassetto non trovò la chiave. La
cercò lí vicino, sotto il mobile, e chiamò di
nuovo la Cherubina. La donna non sentí, come al solito.
Allora colla punta delle forbici provò a movere il cassetto,
facendo leva nella serratura e trovò i fazzoletti, i pizzi,
le gioie in gran disordine. Anche il letto era rimasto intatto come
si prepara la sera, colla coltre rimboccata e il cuscino da notte.
Cherubina, che non aspettava la sua padrona prima di sera, non era
ancora entrata in camera. A ognuna di queste scoperte il suo cuore
si faceva stretto di spavento.
Pardi mandò a dire che
non lo aspettassero a pranzo, perché doveva trovarsi alla
Camera di Commercio con un suo corrispondente.
Palmira rimase in una penosa
incertezza. Mangiò poco e di mala voglia, concentrata,
inquieta, nervosa, sforzandosi di preparare un sistema di risposte
che potessero in ogni eventualità confondere, se non
persuadere, il suo giudice.
Il contegno di suo marito e le
traccie di disordine che trovò nella sua roba parlavano
già come una minaccia.
Secco non rientrò che
verso le nove, tranquillo in apparenza, ma con una faccia che non
era la sua. Passò direttamente in fabbrica, senza chiedere di
sua moglie, e si chiuse nello stanzino che serviva di studio.
Aspettò che l'uomo della fabbrica, chiusi gli usci e spento
il fuoco della motrice, passasse a consegnargli le chiavi.
"Di' alla Cherubina" soggiunse,
"che venga un momento da me."
"Buona sera, signor padrone"
disse quell'uomo nero.
"Sta bene..." rispose Secco con
voce coperta, e stava per soggiungere qualche altra cosa che
alludesse al suo destino e all'avvenire dei suoi buoni operai, ma
non gli riuscí di formulare una parola.
Prese invece a riordinare le
sue carte, ne fece molti pacchi, come se si preparasse a sloggiare
di lí. Al lume di una piccola bugia, ch'egli collocò
sullo scrittoio, sigillò alcune lettere, vi scrisse sopra il
nome di alcuni suoi vecchi amici, coi quali s'era trovato nella
giornata per regolare le varie partite dei suoi interessi, distrusse
molte carte inutili, come se obbedisse a una interna suggestione
piú forte e piú prepotente della volontà e
della ragione.
L'unica frase chiara che gli
tornava di tempo in tempo nella mente, e ch'egli leggeva piú
che non scrivesse sopra una specie di cartello, era la grande
profezia di sua madre: "Mangerai il pane che ti meriti!" Era un pane
ben duro, scottante come carbone acceso: ma le profezie dei morti
vanno diritte al loro scopo. "Mangerai il pane che ti meriti!"
La Cherubina, con un lumicino a
petrolio in mano venne per la lunga corsía, mandando fasci di
luce nelle viscere e nelle trame dei meccanismi, che, dopo aver
strillato tutto il giorno l'interesse del signor Melchisedecco
Pardi, parevano dormire in una rotta stanchezza. Chi avrebbe mosso
dimani quei duecento rocchetti e quei duecento pettini? La mano che
soleva tutte le mattine dar vita e moto alla materia sarebbe stata
lorda di sangue: e col sangue non si fabbrica il pane della gente
onesta. Erano larve, frantumi di pensiero che lo accompagnavano nel
lavoro materiale della sua liquidazione.
"Mi rincresce mandarti fuori a
quest'ora" disse alla Cherubina "ma avrei bisogno che tu recapitassi
subito questa lettera all'avvocato Piazza, che sta fino in via della
Stella. Sai dov'è?"
Era un pretesto per mandare
lontano la donna di servizio.
"Farò una passeggiata.
Si sente male, signor padrone?"
"Perché?"
"Ha una certa faccia."
"Ho mangiato male, al solito...
Dov'è la signora?"
"S'è ritirata nella sua
stanza. Aveva una forte emicrania anche lei. Avrà preso del
sole."
"Già, è la
stagione. To', va e torna."
Pardi stette ad ascoltare
finché gli parve che la Cherubina fosse partita. La casa era
tutta occupata, parte dalla fabbrica, parte dall'appartamento civile
e, una volta uscita la Cherubina, non restarono che i padroni. Il
macchinista, che dormiva in un bugigattolo lontano
dall'appartamento, fino a mezzanotte soleva smaltire la polvere del
carbone all'osteria. Quando il portello si rinchiuse dietro la
Cherubina, Secco trasse dal di sotto di un vecchio stipo una cassa
di ferri che servivano per le aggiustature. Erano lime, scalpelli,
punteruoli nuovi e frusti, in mezzo a una minutaglia di chiavi e di
chiodi rugginosi. Chiuse gli occhi, prese a caso un arnese
coll'impugnatura di legno, lo ficcò nella tasca della giacca,
soffiò sul lume e, al debole riverbero dei lampioni di
strada, discese lentamente, col corpo pesante, colle vene chiuse, il
passaggio tra i telai, che gli parve interminabile, uscí sul
pianerottolo buio, fissò gli occhi nel buio perfetto della
scala e, sospinto da una forza che non era già piú
sua, entrò in casa.
Nel salotto da pranzo non c'era
nessuno. Sul tavolo in mezzo alla stanza splendeva una lampada con
grosso globo di vetro. Buttati sul tappeto del tavolo, i guanti di
Palmira, coi diti arrovesciati in un gesto d'irritazione, attirarono
subito la sua attenzione.
Palmira era nella stanza da
letto, divisa dal salotto da due piccole portine di vetro,
attraverso alle quali egli vide chiaro.
"Sei tu, Secco?" chiese la sua
voce acuta e carezzevole.
Non rispose. Come avrebbe
potuto? Nel momento che seguí, il piú gran rumore lo
fece il pendolo dell'orologio a sveglia posto sul caminetto.
"Ah sei tu!.." esclamò
Palmira, aprendo un pochino le imposte e rinchiudendo subito dopo
aver spiato nel salotto. "Vengo subito."
Pardi vide qualche cosa di
molto bianco e voltò le spalle.
Barcollando, andò ad
appoggiarsi colle due mani al marmo del caminetto e vi si
attaccò colla paura di un sonnambulo che si accorge, dopo
lungo camminare, d'essere sopra il colmo di un tetto. Era egli
venuto proprio per ucciderla? Possibile che un uomo diventi di punto
in bianco il carnefice della donna che ama? Quella voce acuta e
carezzevole avviliva il suo coraggio. Egli la aveva già
troppo uccisa col pensiero perché avesse a insanguinarsi
anche le mani.
Essere ammazzati non è
sempre il piú crudele dei castighi.
Alzati gli occhi al muro,
s'incontrò nella faccia asciutta e severa di sua madre, che
stava a guardarlo dal mezzo d'una cornice ovale colla tinta slavata
e giallastra che pigliano le vecchie fotografie. Colle labbra
sottili e taglienti, nell'atteggiamento di chi mastica amaro, la
vecchia devota pareva ripetere la sua profezia:
"Mangerai il pane che ti
meriti...."
Anzi gli parve nella grossezza
del sangue che i due zigomi angolosi della vecchia si colorissero.
Palmira non uscí subito.
Egli sentí che si agitava nella stanza, movendo roba,
chiudendo e aprendo cassettoni, gorgheggiando sottovoce come nei
momenti allegri. Cantava? si può cantare cosí vicini
alla morte? era venuto egli proprio per uccidere?
Le discussioni ostinate, le
feroci accuse, le maledizioni, le condanne, le prove che da
ventiquattro ore era andato raccogliendo e accumulando sul capo di
quella donna, ciò che aveva visto, ciò che aveva
patito consciamente e inconsciamente, tutto ciò, in una
parola, che in ventiquattro ore era andato a precipitare nel fondo
senza luce della sua esistenza si coagulò in un nodo, e
credette d'essere lui il morente. Quel Lassú è buono e
qualche volta toglie la forza e la ragione: qualche volta nella sua
misericordia fa morire a tempo.
Palmira lo provocava col suo
insolente gorgheggio di mascherina. Qualche cosa di spaventevole
stava per accadere nella casa di suo padre. Si può cantare
cosí quando si torna dalle braccia d'un amante col tradimento
in corpo? ch'ella fosse innocente? che tutto fosse un terribile
inganno del sangue, un gioco falso della gelosa passione?
"Ebbene, come va, il mio
vecchio?" chiese Palmira entrando e accostando le portine.
Pardi si appoggiò col
gomito alla pietra e si voltò di sbieco a guardarla. Essa
indossava un abito da notte tutto bianco, fatto di pizzi leggeri con
in testa una cuffia alla brettone, pure tutta bianca e di pizzo, da
cui le trecce nere d'ebano uscivano attorcigliate sulle spalle un
po' scoperte e sul collo.
Palmira con uno sguardo buttato
là capí subito che il tempo era grosso. Venne
piú presso la tavola e ridendo, come se nulla fosse,
soggiunse:
"Ho da contarti una bella
commedia. Sai che sono andata per nulla alle Cascine? Il matrimonio
non ha potuto aver luogo stamattina, perché all'ultimo
momento s'è scoperto che si opponeva un articolo del Codice
civile. (Erano le poche notizie che aveva potuto raccogliere alle
Cascine). Sicché figurati la disperazione di Beatrice. Essa
è partita subito e dev'essere ancora a Milano. Povero signor
Paolino!..."
Palmira afferrò un
guanto e cominciò a stracciarlo colle unghie, mentre ripeteva
il suo elettrico gorgheggio di mascherina.
Il cuore di Pardone si
sollevò come una marea. Non si aspettava questa coincidenza
colla verità. Era lí invece in attesa della bugia
piú sfrontata che dovesse far traboccare il vaso
dell'ignominia e dargli il coraggio della vendetta.
Palmira, accesa dalla luce
lattea che s'irradiava dal globo, e ingentilita dalla nuvola bianca
che la circondava, ridendo sempre per sostenere colla voce l'enorme
fatica della sua parte scabrosa, seguitò:
"Sicuro, un articolo di legge
che non permette, pare, a una vedova di rimaritarsi prima che sia
trascorso un dato tempo. È naturale. Il signor Paolino non
può accettare un'eredità senza benefizio
d'inventario."
Pardone si voltò del
tutto e si appoggiò colla schiena alla pietra del camino. Le
due mani nelle tasche della giacca - con una delle quali stringeva
sempre l'impugnatura - il capo un po' curvo avanti, affascinato da
quella voce che diceva la verità, eccitato piú che dal
risentimento, da una trepida speranza che il brutto sogno si
dissipasse da sé, dopo un garbuglio di suoni, che egli trasse
a stento dalla strozza, chiese appuntando un dito verso Palmira:
"Tu hai dormito alle Cascine?"
"Sí" disse Palmira,
sollevando gli occhi, coll'estremo e freddo coraggio di chi lotta
per la vita. "Sí, perché?" ebbe forza di ripetere,
ingrandendo quei terribili occhi, con cui soleva vincere sempre.
"In compagnia della signora
Pianelli?"
"No, se ti dico che era a
Milano. Fu un pasticcio, ti dico."
"Difatti l'ho trovata in
istrada."
"Chi?"
"La Pianelli...."
"Ah, sí?"
Il povero cuore di Palmira
batteva come un maglio: ma gli occhi parevano specchi pieni di
lampi.
"Mi ha parlato di questo
articolo di legge...."
Palmira ruppe in un gorgheggio
nervoso, e finí di lacerare il suo guanto.
"Ne capitano di belle alle
Cascine, veh!"
"E mi ha detto anche che ella
non ti ha mai scritto."
"Che cosa non mi ha scritto?"
chiese affilando la punta dello sguardo.
"Che non ha mai mandato
carrozze a prenderti."
"La bugiarda!.. Non è
vero che tu l'hai trovata."
"È vero, Palmira,"
declamò con enfasi il Pardi, sollevando la mano al ritratto
"è vero com'è vero che questa è mia madre."
A sentir nominare la vecchia
suocera, Palmira ebbe un brivido quasi di ribrezzo e di paura: e
cominciò a impallidire.
"Beatrice ha voluto ingannarti
per non dirti che aveva fatto una meschina figura. E veramente
c'è da scrivere una farsetta tutta da ridere con Meneghino
sindaco senza sapere il codice."
Pardi ebbe ancora un momento di
esitazione. O egli era un pazzo o quella donna era maestra di ogni
iniquità.
"Perché, signor mio?"
saltò su ad un tratto Palmira, cambiando tono e pigliando
l'offensiva con un cipiglio di falco stuzzicato "avrebbe forse dei
dubbi che io sia andata alle Cascine? siamo alle solite?"
"Palmira, per carità, lasciami parlare. Tu sei partita
stamattina dalle Cascine?" "Sí, perché?"
"Sola?"
"Sola, in carrozza, s'intende,
col carrozziere... coi cavalli...."
"Sei entrata sola in Milano?"
"Sola...."
Palmira corrugò la
fronte e una piccola vena azzurra si gonfiò e palpitò
nell'infossatura dei sopracigli.
"Bene, sei una bugiarda!..."
Pardi si avanzò due
passi, curvo, coll'occhio gonfio.
"Secco, perché?.. ti
giuro...."
"Non giurare!.. Un uomo era con
te."
"Non è vero!"
"L'ho visto io a Porta Genova.
Tu hai passata la notte con lui...."
"No, no, Secco... Gesú e
Maria! Cherubina!"
"Grida, chiama i vivi e i
morti. È finita: pagherai in una sola volta il conto delle
tue sporche bugie."
"Pardi, Pardi..., perdonami per
questa volta. Ti dirò tutto... No, no..., ti hanno
ingannato...."
Palmira, quando ebbe capito che
quell'uomo forte e inferocito non credeva piú alle sue
parole, s'era messa in difesa, girando sempre intorno al tavolo
facendo della lucerna una specie di scudo. Essa mirava a scivolargli
e chiudersi con chiave nella camera da letto, prima ch'egli potesse
inseguirla: di là avrebbe gridato al soccorso, avrebbe
chiamato la gente e le guardie, di cui il buon Pardi aveva una
grande soggezione. Se riusciva a porre tra lei e suo marito un uscio
e qualche minuto di tempo era salva, perché le furie del toro
non duravano di piú. Ma questa volta il giuoco non
riuscí. Pardi ricevette in viso il colpo secco delle portine,
ma lo strascico delle vesti impedí che i battenti si
richiudessero. Pardi le sfondò. Nell'urto violento caddero i
vetri con gran fracasso. Palmira capí che voleva ammazzarla:
lo capí dagli occhi spiritati e rigati di sangue.
"Pardi, Pardi... che cosa fai?
per la tua mamma...."
Pardi, fuori di sé,
andava dietro come un pazzo frenetico a quella figura bianca che
scivolavagli davanti. Coi capelli sciolti, cogli occhi spaventati,
pallida come una morta, Palmira guardò se era il caso di
affrontare il nemico, di avviticchiarsi al suo collo, d'avvilirlo,
come le altre volte, colle strette, coi baci, colle lagrime.
Era tardi: non aveva piú
davanti un uomo.
"Pardi, tu vuoi ammazzarmi"
continuò a strillare. "Ohimé l'anima mia! Aiuto...
Gente! ah brutto assassino!"
Prese una seggioletta di paglia
ch'era lí e la gettò nelle gambe del suo assalitore.
Pardi scavalcò
l'ostacolo e ridusse la donna tra il letto e il muro.
Palmira non ebbe piú
né uscita né scampo. Afferrò per ultima difesa
un cuscino del letto e con questo affrontò il nemico, urlando
parole dilaniate; ma il suo giudice era troppo forte, e aizzato da
troppi demoni per ascoltare una confessione. Soffocò le
strida, buttando la donna bocconi sul letto, premendola alla nuca
colle dita e colle unghie dentro la bella massa di capelli neri,
come farebbe un leopardo pien di fame sopra un agnello, e colla
destra che trasse di tasca cominciò a menar colpi su quel
gracile corpo, al fianco, alla testa, cieco, col sangue negli occhi,
finché quel povero corpo si sfasciò quasi sotto la sua
mano, scivolò dalla sponda e con un tonfo di roba morta
andò a piombare nell'angolo della stretta.
A quel tonfo Pardi si
risvegliò come da una ossessione.
Aprí gli occhi alla
vista esteriore, si vide la mano e il braccio chiazzati di sangue,
buttò via l'arnesaccio che aveva in pugno e, rantolando
nell'affanno della respirazione, fuggí, passando per la scala
buia, attraverso l'intricato labirinto della fabbrica,
precipitò per l'angusta scaluccia nel sotterraneo della
macchina, urtando due volte la testa nei travi di ferro, e senza
cappello, colla testa ferita e sanguinolenta, col pugno stretto come
se brandisse sempre lo strumento del delitto, mormorando
meccanicamente la profezia della mamma, andò a consegnarsi
alle guardie di via Lanzone.
Chiamato in fretta il signor
delegato Broglio, che, come al solito, faceva la partita ai Tre
Scanni, Pardi, in uno stato da far pietà ai sassi, gli disse
singhiozzando:
"Mi mandi al Cellulare, ho
ammazzato mia moglie."
III
La notizia dell'atroce fatto
del Ponte dei Fabbri corse la città quel giorno stesso che
Demetrio Pianelli preparavasi a partire per la sua nuova residenza;
ma non arrivò fino al di sopra dei tetti. Quel dí
Demetrio ebbe molto da fare. Aggiustò i conti col padrone di
casa, al quale lasciò il letto e il cassettone in pagamento:
a Giovann dell'Orghen regalò le gabbie e qualche vecchio paio
di scarpe: il resto diede a uno stracciaiuolo. Per sé
riempí una cassetta e una valigia. La giornata passò
come un sogno in queste molteplici occupazioni e venne l'ora del
pranzo, che non aveva ancora inghiottito una goccia d'acqua.
Mandò Giovann
dell'Orghen a comperare del pane, del salame cotto e un fiaschetto
di vino, e sedettero tutti e tre - il terzo era Giovedí, -
l'uno sulla cassa, l'altro sulla valigia, il cane in terra nel mezzo
della stanza spoglia, a celebrare l'ultima cena. La compagnia non
guastava la malinconia de' suoi pensieri, perché il sordo non
l'obbligava a parlare e il cane non l'obbligava a stare attento. Si
trovava cosí solo senz'essere isolato.
Finito il pranzo, mandò
Giovann dell'Orghen a portare una lettera a Beatrice, da consegnare
al signor Paolino delle Cascine e rimase una mezz'ora a contemplare,
per l'ultima volta, col cuore ammalinconito, ma non triste, la stesa
dei tetti, già rosseggianti nel sole di tramonto, disseminati
in cento strutture intorno all'antico campanile delle Ore, coi
fumaioli dalle mille bocche aperte, cogli abbaini, le altane
verdeggianti, che era insomma da molti anni il mondo delle sue
solitarie escursioni, quando dalla finestra correva cogli occhi
lungo le gronde, dentro i soffitti, tra le buie armature dei
tetti...
Dunque, addio tegole, addio
abbaini, addio campanile delle Ore, addio vecchio duomo di Milano,
che piú si guarda e piú diventa bello, piú
diventa grande, come se ognuno vi aggiungesse per frangia i suoi
pensieri migliori. Addio, Milano, città piú buona che
cattiva, che dà volentieri da mangiare a chi lavora, ma dove,
come in ogni altro paese del mondo, chi non sa fingere non sa
regnare.
Mezz'ora dopo egli era alla
stazione.
In un angolo della sala
d'aspetto, seduto sulla sua valigia, attende senza impazienza che
aprano lo sportello di terza classe della linea di Genova. La
stazione va gradatamente rischiarandosi della luce bianca che
mandano i rari fanali elettrici, mentre nel cielo, dietro le piante
della circonvallazione, resiste ancora come un braciere ardente
l'ultimo raggio del crepuscolo.
Non è una partenza
allegra, ma non può dire nemmeno di sentirsi turbato e rotto
il cuore come supponeva. C'è nelle stesse sofferenze un
limite, oltre il quale non si sente o non si capisce piú
nulla, ma sottentra quasi l'abitudine al dolore, da cui si va, a
seconda dei casi, o verso l'indifferenza, o verso la rassegnazione.
Demetrio, ascoltando il suo cuore, si sentiva piú vicino a
questa che a quella.
Qualche cosa di dolce era
stillato nella sua vita, e scendeva, sottilissimo filo di
consolazione, in mezzo alle vecchie amarezze della sua esistenza. Se
si sforzava di rintracciare da qual vena misteriosa scaturisse in
lui questa goccia soavissima e fresca di ristoro, gli pareva di
ricordarsi d'averla sentita fluire dalla fronte quel momento che
Beatrice, tornando verso di lui, aveva collocato la mano sul suo
capo.
Quell'atto di pietà,
quella mano leggera, ferma un mezzo minuto sul capo di un uomo
malato, aveva guarito molti mali. Beatrice certo non immaginava il
bene che gli aveva fatto. È la forza della pietà e
della carità che provoca i miracoli, che dice al paralitico:
Prendi il tuo letticciuolo e cammina; al povero Lazzaro: Sorgi dalla
tua fossa. Ebbene, vecchio e tribolato Demetrio Pianelli dalle
scarpe rotte (notò che veramente le sue scarpe non erano in
molto buon arnese), tu non sei forse l'ultimo degli scribacchini del
regno d'Italia. Sua Eccellenza non lo saprà mai e non ti
farà cavaliere per questo, ma tu hai fatto piangere sulla tua
disgrazia gli occhi di una bella creatura; hai saputo far vibrare il
suo cuore e schiudere quanto di piú tenero e di piú
delicato v'era in lei. O Demetrio o Matteo o Carlambrogio, chi sa
che tu non sia passato inutilmente nella vita di questa donna?
Eran questi all'ingrosso i
concetti fondamentali di quella convinzione, che lo rendeva docile e
rassegnato al suo destino: e vi si sprofondò tanto col capo,
che non vide Arabella, se non quando la ragazzetta gli pose la mano
sulla spalla. Dietro di lei, trascinando un paio di scarpe non sue,
Giovann dell'Orghen si fermò a far riverenza al sor Demetrio
che andava a vedere il mare. Il piú felice degli uomini avea
indosso, non ancora ben distesi dal sole, gli abiti del povero
Cesarino.
"Come hai saputo che partivo
stasera?"
"La mamma, quando son tornata
dagli esami, mi ha detto: "Sai? lo zio Demetrio va via." "Dove va?"
chiesi naturalmente. "È stato traslocato in un altro ufficio
dal governo." "E non mi ha detto niente? Non ti credo. A me
l'avrebbe detto, in un orecchio, ma l'avrebbe detto." Se la mamma
avesse voluto accompagnarmi, venivo subito a trovarla, e non l'avrei
lasciato partire. Mi son fatta accompagnare sul tardi dal Berretta.
Non era già piú in casa. Allora ho pregato Giovann
dell'Orghen di accompagnarmi alla stazione. È proprio vero?
Lei va via, cosí senza dir nulla?..."
Arabella, un poco affannata per
la corsa fatta, parlava con un'eccitazione piú di dispetto
che di rammarico.
"Che ti può fare adesso
lo zio Demetrio? lascialo andar via" egli disse sorridendo.
"Lo so bene, lo so bene...,
basta!"
Arabella alzò gli occhi
sul quadrante dell'orologio e ve li tenne fissi come se facesse dei
conti sulle ore. Vestita dell'abitino nero che aveva indosso agli
esami, con scarpe a bottoni lucidi che le serravano delicatamente il
collo del piede, con in testa un tocco d'astrakan, da cui si
svolgevano a onde i capelli chiari, la bianchezza della sua
carnagione spiccava in mezzo a tutto quel nero; gli occhi profondi e
intelligenti guardavano molto lontano, al di là delle cose,
come fanno tutti gli occhi che pensano.
"Lo so bene" ripeté,
seguitando l'idea che le passava davanti. "Non avrei creduto che
dovesse finire cosí. Povero papà!"
"La mamma lo fa per il vostro
bene" fu presto a dire Demetrio, che nella voce quasi severa della
fanciulla credette di intendere un'altra voce che si corrucciasse in
lei.
Non mai Arabella gli era parsa
cosí somigliante al povero Cesarino come quella sera che la
rivedeva nell'abito elegante e nella luce bianca dei fanali. Il suo
profilo suscitò la memoria del giovinetto collegiale che un
altro Demetrio bifolco incontrava ai tempi della mamma Angiolina,
quando, i piedi in due zoccoli di legno e una forcona in ispalla,
usciva dalla stalla dei buoi.
Giovann dell'Orghen intanto,
vestito degli abiti di un disertore, andava ramingando davanti a
tutti gli sportelli, guardando in terra, se mai la Provvidenza
avesse lasciato cadere un mozzicone di sigaro. Demetrio stava
accostando nei suoi rapidi confronti il passato al presente, i vivi
ai morti, quando s'intese l'ululato di Giovedí, che i
guardiani chiudevano nello scompartimento riservato ai cani che
viaggiano.
Povero Giovedí!.. non
voleva distaccarsi dal suo padrone.
Arabella, che aveva sognato
nella notte il verso del cane, ebbe un brivido in tutta la persona.
Tratta dalla successione delle idee, soggiunse:
"Stamane la mamma mi ha
dimandato se io sapevo com'era morto il mio povero papà. Essa
non sa ancora tutta la verità...."
"Risparmiatele questo dolore...
E in quanto a te, Arabella, abbi pazienza. Vedrai che ti troverai
bene alle Cascine. Paolino è buono e sarà per voi un
secondo padre. Ci sono delle necessità, figliuola mia, ci
sono delle necessità, credi a me, innanzi alle quali è
religione chinare la testa."
"Lo so, povero zio!"
esclamò con pieno abbandono la ragazza, alzando il braccio
sul collo di Demetrio, che sedeva piú basso.
Colla maniera con cui
circondò il collo e con cui gli prese la mano, gli fece
capire ch'essa non aveva bisogno d'altri commenti, e che sapeva
tutto. Le anime semplici sono anche le piú trasparenti. Essa
tornò a sollevare gli occhi lucenti al quadrante
dell'orologio, mentre Demetrio abbassava i suoi sulle rughe delle
sue vecchie scarpe. Stettero cosí forse un minuto, senza
parlare, durante il quale risonarono ancora le lamentele di
Giovedí chiuso in gabbia. S'intesero cosí senza
parlare, stringendosi tratto tratto la mano con un battito di
tenerezza.
Arabella dopo un po' di tempo,
nel consegnare allo zio una busta che pareva una lettera, riprese a
dire:
"La mamma la prega d'accettarlo
per sua memoria. È il suo ritratto."
"Ringraziala" balbettò
lo zio, senza alzare gli occhi.
Arabella disse di sí con
un colpo delle palpebre. Durante il tempo che lo zio Demetrio stette
allo sportello a comperare il biglietto, essa sedette sulla valigia,
abbandonando le mani sulle ginocchia, assorta in una grande
quantità di cose, che non avevano ordine, ma che la
trascinavano colla forza di una corrente, di cui sentiva nella testa
il frastuono.
La stazione era andata di mano
in mano popolandosi di gente che si aggirava frettolosa nella luce
scialba e biancastra che pioveva dai globi, in mezzo al sordo
rotolío delle carriole che menavano i bauli e alle voci
sonore e imperiose che annunciavano le partenze. I treni in arrivo
fischianti e rumoreggianti sotto la tettoia, il picchiar dei ferri,
il suono delle catene, il bisbiglio, lo scalpiccío di tante
persone mosse e sospinte anch'esse da pensieri, da voglie, da
inquietudini proprie, o dalla forza delle cose, tutto ciò
bastò a distrarre Arabella dai pensieri indeterminati, misti
di presentimenti e di risentimenti, coi quali essa cominciava troppo
presto la storia della sua giovinezza. Guai se gli occhi avessero la
vista del futuro! A distrarla tornò indietro lo zio Demetrio,
che colla piccola ombrella sotto il braccio e il biglietto in mano
le fece capire ch'era giunta l'ora d'andarsene.
Giovann dell'Orghen prese la
valigia e si avviò verso la scala d'ingresso. Arabella si
attaccò al braccio dello zio e lo accompagnò fin sulla
soglia. Era pallidissima, ma non piangeva per non conturbare con
lagrime inutili la malinconia del viaggiatore. Questi, col corpo in
preda a piccole scosse, colle rughe del volto tese a uno sforzo
supremo, disse ancora qualche cosa colla mano, mosse le labbra a un
discorso che non volle uscire, e lí sulla soglia, sotto gli
occhi del controllore, baciò sulla fronte Arabella,
mettendole la mano sulla testa, come aveva fatto la sua mamma con
lui. E si divisero senza piangere.
Demetrio, quando si
trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso
nella poca luce d'un torbido lampadino giallognolo, poté
abbandonarsi interamente, con minor soggezione di sé stesso,
alla piena dei varii pensieri, che in quell'epilogo della sua oscura
tragedia uscivano da cento parti a invadere l'anima.
Sentendosi la testa calda come
un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella
crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al
finestrino e stette a bevere l'aria con le labbra aperte, cogli
occhi fissi a un cielo non ancora chiuso del tutto agli ultimi
respiri del crepuscolo.
Passando sul cavalcavia del
vecchio Lazzaretto, da dove la città si apre ancora alla
vista del viaggiatore in tutta l'ampiezza del corso, co' suoi
bianchi edifici, - e già splendevano di lumi case e botteghe
- la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la
corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e
fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il
correre tumultuoso dei pensieri.
Non era una campagna ignota,
anzi erano gli stessi prati suoi, dov'era nato, dov'era cresciuto
ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a
riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e
piú in là San Donato, e tra una macchia bruna di
pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una
volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi
calzoni rimboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un
muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque
anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch'essa aveva
lavorato per il bene de' suoi. "Ciao, mamma..." disse una voce, che
un Demetrio irritato e sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e
il treno avrebbe rasentato uno stagno, all'orlo del quale appare la
stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi
dall'acqua livida, a venir addosso nella sua nera e solenne
costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come
un'ombra sull'aria oscura; e piú in qua, segnato da alcuni
lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del
signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnato la
sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo!
C'erano, in quell'antico
convent o degli angoli cosí tiepidi e santi, con certe figure
lunghe e patetiche su per i muri: c'erano dei corridoi cosí
lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle
praterie: c'era insomma in quella vecchia badia del medio evo un tal
senso di riposo, che solo a pensarci il cuore se ne immalinconiva.
Peccato non esserci vissuto trecent'anni prima! peccato non esserci
due braccia sotto terra.
In quella chiesa Beatrice
avrebbe detto il suo sí un'altra volta. Ributtato da questi
pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la
testa nell'angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come
se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via
sbattacchiandolo, una canzone ancora in fondo al cuore
sussurrò in tono quasi di canzonatura "T-o-to... finito."
PARTE SESTA
GLI ALTRI
Milano non si accorse
menomamente della partenza del signor Demetrio Pianelli e, passato
qualche tempo, nessuno pensava nemmeno ch'egli fosse al mondo.
Solamente il buon Bianconi, che era successo al trono, discorrendo
qualche volta col vecchio portiere Caramella, lo nominò,
scrollandovi dietro il capo in aria di compassione, picchiando
coll'indice la fronte per indicare che in quella testa c'erano delle
idee dure come le noci. Il commendatore Balzalotti, con tante
faccende tra le mani, fece mettere la posizione del signor Pianelli
a protocollo, un librone che fa una ventina di migliaia di atti
all'anno, e passò ad un altro numero.
Milano si occupò invece
per una settimana della sanguinosa tragedia del Ponte dei Fabbri. I
giornali s'incaricarono di fornire i piú minuti particolari,
inventando naturalmente quello che non potevano sapere, descrivendo
la casa, la fabbrica, la morta, il vivo, la catastrofe, il sangue,
le voci che correvano nel quartiere intorno al carattere e ai
rapporti fra i due coniugi Pardi. Chi dava ragione al marito, chi
trovava il castigo una pazzia non necessaria. Chi diceva che il
Pardone - conosciuto dalle sue parti per un buon pastore - sarebbe
stato condannato a venti anni: chi invece assicurava che sarebbe
stato assolto e mandato a casa. Corse anche qualche scommessa tra i
soliti frequentatori dei Tre Scanni; ma in queste faccende tutto
dipende, pur troppo, dal modo col quale il processo viene ordito,
dall'umore dei giurati e fors'anche da quello delle loro mogli.
Chi sentí un gran colpo
fu Beatrice. Il pensiero che in quella tragedia era in qualche
maniera implicata anche lei; che una sua parola forse aveva deciso
della vita di Palmira: la terribile fine di una donna, che in mezzo
ai suoi difetti, in fondo cattiva non era, e non voleva male a suo
marito: tutto ciò, in mezzo a molte altre scosse morali,
rattristò tanto il suo cuore, che s'ammalò.
Dieci giorni stette in letto,
ma guarí benissimo nel riposo e nella verde quiete di
Chiaravalle. Arabella fu una dolce infermiera; il dottor Chiodo
prestò le cure piú amorose e non risparmiò le
visite alla sua bella vicina di casa. Paolino, a cui la lettera di
Demetrio aveva fatto un gran bene, mandò dalle Cascine i
brodi piú delicati e le prime alucce di pollo.
Don Giovanni, durante la
convalescenza, si lasciò vedere anche lui diverse volte e
sedette a intrattenerla colla storia della vecchia abbazia, dei
frati di Chiaravalle, di San Bernardo fondatore dell'Ordine,
dell'eretica Guglielmina, che, dopo essere stata sepolta come una
santa nel cimitero della Certosa, un bel giorno scoprono che
è un'anima dannata, la disseppelliscono e bruciano il corpo
sulla piazza di Sant'Ambrogio. Cose che capitano ai morti!
Beatrice ristoravasi in mezzo a
queste cure. Rifiorí daccapo, mentre le piante andavano
perdendo a poco a poco le foglie. Paolino, ricuperata la confidenza
di prima, andava segnando sul taccuino americano i giorni che lo
separavano dal gran giorno. Demetrio, uomo onesto e sincero, nella
prima lettera consegnata ad Arabella e poi in altre che scrisse,
dalla sua nuova residenza (dove dice di non trovarsi malaccio), ha
saputo toccare la nota giusta. Non si dubita dell'onestà di
una donna come si dubita del vino degli osti. L'uomo si uccide
nell'onore, - scriveva il buon cugino - la donna nel pudore. Se a
questo mondo non ci sforziamo di far tacere la maldicenza e
l'invidia della gente per ascoltare di tanto in tanto la voce sola e
irragionevole del cuore, finiremo col non credere piú a
nulla, nemmeno al pane che si mangia, e allora la vita diventa un
inferno e chi trionfa è sempre il piú bugiardo e il
piú sfacciato.
Andiamo avanti con confidenza e
verrà giorno che i buoni torneranno ancora buoni a qualche
cosa - cosí scriveva il cugino.
Si può immaginare che
questi consigli furono altrettante goccie d'olio refrigerante
sull'animo del buon Paolino, che un momento aveva dubitato anche lui
delle cose del mondo. Ma ogni giorno piú, cioè ogni
passo ch'egli fa verso il sospirato giorno, la realtà che lo
aspetta gli pare irraggiungibile. Tutte le volte che torna da quella
benedetta casa verso le Cascine, dubita ancora che sia un sogno. La
gioia, il desiderio, la immaginazione crescono a tal punto che il
cuore non può contenere tutta la felicità; il piacere
tocca lo spasimo, l'aspettazione si cambia in paura. Gran destino
che non si possa essere felici nemmeno in mezzo alla
felicità! qualche cosa di guasto ci deve pur essere nel
meccanismo del mondo - cosí pensava alla sua volta Paolino
delle Cascine. E pare anche a noi.
Passò anche quel mite
autunno. La terra si coprí di foglie morte, e, dietro la
siepe degli alberi nudi, la guglia sottile del duomo di Milano
riapparve nell'aria pura degli ultimi giorni di novembre. Poi
cominciarono le nebbie, che, come un mare di vapore, nascondono i
prati. Seguirono lunghi giorni piovosi. Finalmente la campagna
è tutta coperta di neve. Dal bianco strato e dall'orlo delle
fosse, che mostrano la nera crosta della terra, i mozziconi delle
piante capitozzate sporgono le braccia corte e intirizzite a un
roseo sole di gennaio. Il cielo è bianco e netto, ma tira dai
prati un'arietta sottile, fresca, che frusta le orecchie dei cavalli
e passa i coturni di Bassano, che dalle Cascine va colla carrozza a
prendere la sposa a Chiaravalle. Il gran giorno è arrivato.
Il cavallantino è in
gran tenuta: cilindro di pelle, nappina nuova fiammante, guanti di
lana, fazzoletto bianco al collo, con due cocche svolazzanti, di cui
si serve, di tanto in tanto, per asciugarsi i baffi dalla brina.
Con lui viene il sor Isidoro
Chiesa, il padre della sposa, l'uomo libero per eccellenza, vestito
di nuovo, che manda dagli occhiali nuovi tutta la gioia
fosforescente dell'uomo che trionfa. Avrebbe potuto esserci anche un
altro signore, a cui il governo ha cambiato la greppia, e allora si
sarebbe potuto dimostrare, strada facendo, che un Chiesa di
Melegnano non è soltanto un gran buon uomo.
"Ci rivedremo, Filippo!" aveva
promesso un Chiesa, e il giorno era venuto.
Le Cascine sono in festa fin
dall'alba. Cominciano ad arrivare le carrozze dei parenti e degli
amici. S'era detto di fare una cosa modesta, senza rumore, tra
parenti intimi; ma un Chiesa di Melegnano avrebbe creduto di buttare
la figlia ai cani, se non avesse trascinato alla festa mezza
provincia di Lodi. E non contento ancora, pagò il campanaro
perché rompesse i timpani alla gente. Le belle campane della
badia annunciano ai popoli il lieto avvenimento e mettono una nota
allegra nell'aria fredda ed abbagliante delle campagne coperte di
neve. Non manca un raggio di sole sul celebre campanile, che
torreggia dignitosamente coi suoi archi bruni, colle sue colonnine,
colla sua svelta piramide, sotto un pittoresco cappuccio bianco.
Arrivano tre o quattro
carrozze, in mezzo a un rumoroso tintinnare di campanelli, tra gli
evviva dei ragazzi e gli spari dei fucili da caccia. La buona
Carolina, che non sa covare risentimenti, finisce di dare l'ultimo
tocco ai capelli della sposa, mentre l'Elisa, fatta venire apposta
da Milano, aggiusta le pieghe del vestito. I maschietti Mario e
Naldo, vestiti come sposini essi pure, saltano, gridano cogli altri
ragazzi sotto il portichetto. Dalle Cascine sono accorse tutte le
ragazze curiose che hanno potuto scappar via, e fanno colle vecchie
spettinate una siepe, un muro di gente innanzi alla casa.
Beatrice sente che gli occhi le
si gonfiano di pianto. In certi momenti le par di sognare, in certi
altri le tornano in mente le circostanze che accompagnarono il suo
primo matrimonio, e a volte non sa distinguere tra adesso e allora.
Lo stesso chiasso, lo stesso tintinnare di campanelli, e sopra ogni
altro rumore la stessa voce stridente del babbo, che predica, che
ride, che comanda. Ogni momento le pare di vedere il suo Cesarino
spuntare in cima alla scala, bello, elegante, nell'abito fresco, col
cravattino bianco...
Asciugati gli occhi e
ricomposto l'animo, pallida e ancora palpitante, scende, passa tra
una doppia fila di persone, che gridano: "Viva la sposa!"
Le ragazze curiose, le vecchie
spettinate, i vecchi massai, che stanno sulla porta, fanno ressa,
sporgono il capo, e, congiungendo le mani in orazione, esclamano con
la sincera ammirazione della povera gente: "Gesus, se l'è
bèla!"
Le carrozze partono tutte
insieme verso la chiesa. Solamente Arabella, indugiando sulla scala,
s'è fermata a casa. Ritta dietro i vetri della finestra, essa
stende il suo sguardo molle e afflitto sulla pianura tutta coperta
di neve, pensa ai morti, pensa ai lontani e riempie l'avvenire colle
ombre del suo passato.