Francesco De Sanctis
Storia della letteratura italiana
www.liberliber.it
I
I SICILIANI
Il più antico documento della nostra
letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di
Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di
Folcacchiero da Siena.
Quale delle due canzoni sia anteriore, è
cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di
tutta un'epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo
splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome.
Federico secondo, imperatore d'Alemagna e re di
Sicilia, chiamato da Dante "cherico grande", cioè uomo
dottissimo, fu, come leggesi nel novelissimo signore, nella cui
corte a Palermo venia "la gente che avea bontade, sonatori,
trovatori e belli favellatori". E perciò i rimatori di quel
tempo, ancorchè parecchi sieno d'altra parte d'Italia,
furono detti siciliani.
Che cosa è la cantilena di Ciullo?
È una tenzone, o dialogo tra Amante e
Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo
concede, tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutt'i
tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra
il Frustino e la Crestaia.
Ciascuna domanda e risposta è in una
strofa di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre
rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è
ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze,
mescolata di voci siciliane, napolitane provenzali, francesi,
latine. Diamo ad esempio due strofe:
AMANTE
Molte sono le femine
c'hanno dura la testa,
e l'uomo con parabole
le dimina e ammonesta:
tanto intorno percacciale
sinchè l'ha in sua podesta.
Femina d'uomo non si può tenere.
Guàrdati, bella, pur di ripentere.
MADONNA
Che eo me ne pentesse?
Davanti foss'io auccisa,
ca nulla buona femina
per me fosse riprisa.
Er sera ci passasti
correnno alla distisa.
Acquistiti riposo, canzoneri:
le tue paraole a me non piaccion gueri.
La canzone è tirata giù tutta d'un fiato, piena di
naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta
cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una
finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia,
ineducata. E perciò il documento è più
prezioso, perchè se l'ingegno del poeta apparisce ne'
concetti e ne' sentimenti e nell'andamento vivo e rapido del
dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto immediato e
genuino di quel tempo.
E studiando in quella forma, è facile
indurre che c'era allora già la nuova lingua, non ancora
formata e fissata, ma tale che non solo si parlava, ma si
scriveva; e c'era pure una scuola poetica col suo repertorio di
frasi e di concetti, e con le sue forme tecniche e metriche
già fissate.
Chi sa quanto tempo si richiede perchè
una lingua nuova acquisti una certa forma, che la renda atta ad
essere scritta e cantata, può farsi capace che la lingua di
Ciullo, ancorachè in uno stato ancora di formazione, dovea
già essere usata da parecchi secoli indietro.
E ci volle anche almeno un secolo,
perchè fosse possibile una scuola poetica, giunta allora
all'ultimo grado della sua storia, quando i concetti, i sentimenti
e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in tutti i
medesimi.
Come e quando la lingua latina sia ita in
decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi,
come e quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine,
quando e come siesi formato il nostro volgare, si può
congetturare con più o meno di verisimiglianza, ma non si
può affermare per la insufficienza de' documenti.
Oltrechè, non è questo il luogo di esaminare e
chiarire quistioni filologiche di così alto interesse,
materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.
Si possono affermare alcuni fatti.
La lingua latina fu sempre in uso presso la
parte colta della nazione, parlata e scritta da' chierici, da'
dottori, da' professori e da' discepoli. Ricordano Malespini dice
che Federico secondo seppe "la lingua nostra latina e il nostro
volgare".
Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il
latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare,
parlato nell'uso comune della vita, si vede pure da' contratti e
istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal
volgare, e dove spesso accanto alla voce latina trovi la voce in
uso con un "vulgo dicitur", o "dicto."
Questo volgare non era in fondo che lo stesso
latino, come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto
il "romano rustico". Nell'812 il concilio di Torsi raccomanda ai
preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in "lingua romana
rustica". Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli
spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era
così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano
chi la parlasse, "solo che l'oratore si fosse accostato alla guisa
del volgo". Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al
romano, e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare,
anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali,
vario ne' diversi dialetti, quanto alle sue parti accidentali,
come desinenze, accenti, affissi, ecc. C'era dunque un tipo unico,
presente in tutte le lingue neolatine, e più prossimo, come
nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun'altra.
Con lo scemare della coltura prevalsero i
dialetti. Per le chiese per le scuole, negli atti pubblici era
usato un latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo.
Nell'uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma
era dappertutto, come il tipo unico a cui s'informavano i dialetti
e che li certificava di una sola famiglia.
Questo tipo o carattere de' nostri dialetti
appare e nella somiglianza de' vocaboli e delle forme
grammaticali, e ne' mezzi musicali e analitici sostituiti alla
prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome
generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino,
era il "volgare". Così Malespini dicea: "la nostra lingua
latina e il nostro volgare", cioè la nuova lingua parlata
in tutta Italia dal volgo ne' suoi dialetti.
Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi
dialetti rimasero rozzi e barbari, come le genti che li parlavano,
altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli
elementi locali e plebei, e prendere un colore e una fisonomia
civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante
variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era come
criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno
conformi a quello stampo, e che si diceva il "volgare",
così prossimo al romano rustico.
Proprio della coltura è suscitare nuove
idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini
più educata e civile, metterla in comunicazione con la
coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando
in esse non quello che è locale, ma quello che è
comune.
La coltura italiana produsse questo doppio
fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare.
Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere
in un latino meno guasto e scorretto, dall'altra, ad esprimere i
sentimenti più intimi e familiari della nuova vita,
lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme
di dire più gentili, un linguaggio comune, dove appare
ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente già uno
sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi
più in uso fra la gente educata e che meglio la distinguano
dalla plebe.
Questo linguaggio comune si forma più
facilmente dove sia un gran centro di coltura, che avvicini le
classi colte e sia come il convegno degli uomini più
illustri. Questo fu a Palermo, nella corte di Federico secondo,
dove convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli, o per
dirla col Novellino, "dove la gente che avea bontade venìa
a lui da tutte le parti".
Il dialetto siciliano era già sopra agli
altri, come confessa Dante. E in Sicilia troviamo appunto un
volgare cantato e scritto, che non è più dialetto
siciliano e non è ancora lingua italiana, ma è
già, malgrado gli elementi locali, un parlare comune a
tutt'i rimatori italiani, e che tende più e più a
scostarsi dal particolare del dialetto, e divenire il linguaggio
delle persone civili.
La Sicilia avea avuto già due grandi
epoche di coltura, l'araba e la normanna. Il mondo fantastico e
voluttuoso orientale vi era penetrato con gli arabi, e il mondo
cavalleresco germanico vi era penetrato co' normanni, che ebbero
parte così splendida nelle Crociate. Ivi più che in
altre parti d'Italia erano vive le impressioni, le rimembranze e i
sentimenti di quella grande epoca da Goffredo a Saladino; i canti
de' trovatori, le novelle orientali, la Tavola rotonda, un
contatto immediato con popoli così diversi di vita e di
coltura, avea colpito le immaginazioni e svegliata la vita
intellettuale e morale. La Sicilia divenne il centro della coltura
italiana. Fin dal 1166 nella corte del normanno Guglielmo II
convenivano i trovatori italiani. Sotto Federico secondo l'Italia
colta avea la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si
chiamavano "siciliani". Cronache, trattati scrivevano in un latino
già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede
nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro
espressione in quel romano rustico, fondo comune di tutt'i
dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il "volgare", di
tutt'i volgari moderni il più simile al latino.
La lingua di Ciullo non è dialetto
siciliano, ma già il volgare, com'era usato in tutt'i
trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di
elementi locali, materia ancora greggia.
Vi si trova una forma poetica molto artificiosa
e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande
ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per
giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo di
elaborazione. Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita
nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che avea
avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna
Sicilia. Di quella vita un'espressione ancor semplice e immediata,
ma più nobile, più diretta e meno locale, è
nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento
dell'amante del crociato, di Rinaldo d'Aquino. Sentimenti gentili
e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto
stampo italiano, con semplicità e verità di stile,
con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali,
questo "sonetto", come lo chiama l'innamorata, dovea fare la
più grande impressione. Comincia così:
Giammai non mi conforto
nè mi voglio allegrare.
Le navi sono al porto
e vogliono collare.
Vassene la più gente
in terre d'oltremare.
Ed io, oimè lassa dolente!
Come degg'io fare?
Vassene in altea contrata,
e nol mi manda a dire:
ed io rimango ingannata.
Tanti son li sospire
che mi fanno gran guerra
la notte con la dia;
nè in cielo nè in terra
non mi pare ch'io sia.
Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza
di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a Dio l'amato, ora
dolendosi con la croce:
La croce mi fa dolente,
e non mi val Deo pregare.
Oimè, croce pellegrina,
perchè m'hai così distrutta?
Oinzè lassa tapina!
ch'io ardo e incendo tutta.
Finisce così
Però ti prego, Dolcetto,
che sai la pena mia,
che me ne facci un sonetto
e mandilo in Soria:
ch'io non posso abentare
notte, nè dia:
in terra d'oltremare
ita è la vita mia.
La lezione è scorretta; pure, questa è già
lingua italiana, e molto sviluppata ne' suoi elementi musicali e
ne' suoi lineamenti essenziali.
L'amante che prega e chiede amore, l'innamorata
che lamenta la lontananza dell'amato, o che teme di essere
abbandonata, le punture e le gioie dell'amore, sono i temi
semplici de' canti popolari, la prima effusione del cuore messo in
agitazione dall'amore. E queste poesie, come le più
semplici e spontanee, sono anche le più affettuose e le
più sincere. Sono le prime impressioni, sentimenti giovani
e nuovi, poetici per sè stessi, non ancora analizzati e
raffinati.
Di tal natura è il Lamento
dell'innamorato per la partenza in Storia della sua amata, di
Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo delle Colonne, da Messina,
dove l'innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la sua
gelosia. Eccone il principio:
Oi lassa innamorata,
contar vo' la mia vita,
e dire ogni fiata,
come l'amor m'invita,
ch'io son, senza peccata,
d 'assai pene guernita
per uno che amo e voglio,
e non aggio in mia baglia,
siccome avere io soglio;
però pato travaglia.
Ed or mi mena orgoglio,
lo cor mi fende e taglia.
Oi lassa tapinella,
come l'amor m'ha prisa!
Come lo cor m'infella
quello che m'ha conquisa!
La sua persona bella
tolto m'ha gioco e risa,
ed hammi messa in pene
ed in tormento forte:
mai non credo aver bene,
se non m'accorre morte,
e spero, là che vene,
traggami d'esta sorte.
Lassa che mi dicia,
quando m'avìa in celato:
- Di te, o vita mia,
mi tegno più pagato,
che s'io avessi in balìa
lo mondo a signorato.
Sono sentimenti elementari e irriflessi, che
sbuccian fuori nella loro natia integrità senza immagini e
senza concetti. Non ci è poeta di quel tempo, anche tra i
meno naturali, dove non trovi qualche esempio di questa forma
primitiva, elementare, a suon di natura, come dice un poeta
popolare, e com'è una prima e subita impressione colta
nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua esce
così viva e propria e musicale che serba una immortale
freschezza, e la diresti "pur mo' nata", e fa contrasto con altre
parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è una canzone
di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla, vi trova questa gemma:
Giorno non ho di posa,
come nel mare l'onda:
core, chè non ti smembri?
Esci di pene e dal corpo ti parte:
ch'assai val meglio un'ora
morir, che ognor penare.
Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai
antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma
certo lontana da questa perfezione, pur semplice e sincera:
Perzò meglio varria
morir in tutto in tutto,
ch'usar la vita mia
in pena ed in corrutto,
come uomo languente.
Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda e
stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella
nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro
crudità elementare. Udite questi versi:
E par ch'eo viva in noia della gente:
ogni uono m' è selvaggio:
non paiono li fiori
per me, com' già soleano,
e gli augei per amori
dolci versi faceano - agli albori.
Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo empiono di
maraviglia e lo commuovono e lo interessano, senza ch'ei senta
bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta, e
non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca
del suo cuore.
Però niente è in questi che per
ingenuità e spontaneità di forma e di sentimento
uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono
due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.
Ma la coltura siciliana avea un peccato
originale. Venuta dal di fuori, quella vita cavalleresca,
mescolata di colori e rimembranze orientali, non avea riscontro
nella vita nazionale. La gaia scienza, il codice d'amore, i
romanzi della Tavola rotonda, i Reali di Francia, le novelle
arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il soldano, tutto
questo era penetrato in Italia, e se colpiva l'immaginazione,
rimaneva estraneo all'anima e alla vita reale. Nelle corti ce ne
fu l'imitazione. Avemmo anche noi i trovatori, i giullari e i
novellatori. Vennero in voga traduzioni, imitazioni,
contraffazioni di poemi, romanzi, rime cavalleresche.
L'Intelligenzia, poema in nona rima ultimamente scoperto, è
una imitazione di simil genere. L'amore divenne un'arte, col suo
codice di leggi e costumi. Non ci fu più questa o quella
donna, ma la donna con forme e lineamenti fissati, così
come era concepita ne' libri di cavalleria. Tutte le donne sono
simili. E così gli uomini: tutti sono il cavaliere con
sentimenti fattizii e attinti da' libri. Ma il movimento si
fermò negli strati superiori della società, e non
penetrò molto addentro nel popolo, e non durò.
Forse, se la Casa sveva avesse avuto il di sopra, questa vita
cavalleresca e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di
Casa sveva e la vittoria de' comuni nell'Italia centrale fecero
della cavalleria un mondo fantastico, simile a quel favoleggiare
di Roma, di Fiesole e di Troia.
Essendo idee, sentimenti e immagini una merce
bella e fatta, non trovate e non lavorate da noi, si trovano messe
lì, come tolte di peso, con manifesto contrasto tra la
forma ancor rozza e i concetti peregrini e raffinati. Sono
concetti scompagnati dal sentimento che li produsse, e che non
generano alcuna impressione. Quando vengono sotto la penna, il
cervello e il cuore sono tranquilli. Il poeta dice che amore lo fa
"trovare" lo rende un trovatore; ma è un amore come lo
trova scritto nel codice e ne' testi, nè ti è dato
sentire ne' suoi versi una tragedia sua, le sue agitazioni. Le
reminiscenze, le idee in voga gli tengono luogo d'ispirazione.
Sono migliaia di poesie, tutte di un contenuto e di un colore,
così somiglianti che spesso sei impacciato a dire il tempo
e l'autore del canto, ove ne' codici sia discordanza o silenzio:
ciò che non di rado accade. La poesia non è una
prepotente effusione dell'anima, ma una distrazione, un sollazzo,
un diporto, una moda, una galanteria. È un passatempo, come
erano le corti d'amore, è la gaia scienza un modo di
passarsela allegramente, e acquistarsi facile riputazione di
spirito e di coltura, facendo sfoggio della dottrina d'amore; e
chi più mostrava saperne, era più ammirato. Invano
cerchi ne' canti di Federico, di Enzo, di Manfredi, di Pier delle
Vigne le preoccupazioni o le agitazioni della loro vita: vi trovi
il solito codice d'amore, con le stesse generalità. L'arte
diviene un mestiere, il poeta diviene un dilettante; tutto
è convenzionale, concetti, frasi, forme, metri: un
meccanismo che dovea destare grande ammirazione nel volgo,
specialmente usato dalle donne; la Nina Siciliana e la Compiuta
Donzella fiorentina dovettero parere un miracolo.
Quello che avvenne si può indovinare.
Migliori poeti son quelli che scrivono senza guardare all'effetto
e senza pretensione, a diletto e a sfogo, e come viene. Anche
nelle poesie più rozze trovi bei movimenti di affetto e
d'immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di forma, che
viene dal di dentro. Sono più vicini al sentimento popolare
e alla natura. Ma quando vai su, quando ti accosti a quella poesia
che Dante chiama aulica e cortigiana, ti trovi già lontano
dal vero e dalla natura, ed hai tutt'i difetti di una scuola
poetica, nata e formata fuori d'Italia, e già meccanizzata
e raffinata. Hai tutt'i difetti della decadenza, un seicentismo
che infetta l'arte ancora in culla. Ci è già un
repertorio. Il poeta dotto non prende quei concetti, così
crudi e nudi, come fanno i rozzi nella loro semplicità, ma
per fare effetto li assottiglia e li esagera. Nei rozzi non ci
è alcun lavoro: in questi un lavoro c'è, ma freddo e
meccanico. Concetti, immagini, sentimenti, frasi, metri, rime,
tutto è sforzato, tormentato, oltrepassato, sì che
il lettore ammiri la dottrina, lo spirito e le difficoltà
superate. Trovi insieme rozzezza e affettazione. La lingua ancor
giovane non è raffinata, come il concetto, e scopre
l'artificio di un lavoro, a cui rimane estranea. E fosse almeno
originale questo lavoro, sì che rivelasse nei poeta una
vera svegliatezza e attività dello spirito! Ma è un
seicentismo venuto anch'esso dal di fuori. Eccone un esempio:
Umile sono ed orgoglioso,
prode e vile e coraggioso,
franco e sicuro e pauroso,
e sono folle e saggio.
Facciome prode e dannaggio,
e diraggio
- Vi' como
mal e bene aggio
più che null'omo. -
Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese, tutta su
questo andare, dove la rozzezza e la negligenza della forma
esclude ogni serietà di lavoro: è una litania di
antitesi racimolate qua e là e messe insieme a casaccio.
I poeti siciliani di questo genere più
ammirati a quei tempi sono Guido delle Colonne e il notaio Iacopo
da Lentino.
Guido, dottore o, come allora dicevasi,
giudice, fu uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino,
e voltò di greco in latino la Storia della caduta di Troia,
di Darete, una versione che fu poi recata parecchie volte in
volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare, e
tende ad alzarsi, ad accostarsi alla maestà e
gravità del latino: sì che meritò che Dante
le sue canzoni chiamasse tragiche, cioè del genere nobile e
illustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta, e la sua dottrina
e il lungo uso di scrivere non valse che a fargli conseguire una
perfezione tecnica, della quale non era esempio avanti. Hai un
periodo ben formato, molta arte di nessi e di passaggi, uno studio
di armonia e di gravità: artificio puramente letterario e a
freddo. Manca il sentimento; supplisce l'acutezza e la dottrina,
studiandosi di fare effetto con la peregrinità d'immagini e
concetti esagerati e raffinati, che parrebbero ridicoli, se non
fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa apparenza.
Ecco un esempio:
Ancor che l'aigua per lo foco lasse
la sua grande freddura,
non cangerea natura,
se alcun vasello in mezzo non vi stasse:
anzi avverrea senza alcuna dimura
che lo foco stutasse,
o che l'aigua seccasse;
ma per lo mezzo l'uno e l'alto dura.
Così, gentil criatura,
in me ha mostrato amore
l'ardente suo valore,
che senz'amore - era aigua fredda e ghiaccia.
Ma el m'ha sì allumato
di foco, che m'abbraccia,
ch'eo fòra consumato,
se voi, donna sovrana,
non foste voi mezzana
infra l'amore e meve,
che fa lo foco nascere di neve.
E non si ferma qui, e continua con l'acqua e il foco e la neve, e
poi dice che il suo spirito è ito via, e lo "spirito ch'io
aggio, credo lo vostro sia che nel mio petto stia", e conchiude
ch'ella lo tira a sè, ed ella sola può, come di
tutte le pietre la sola calamita ha balìa di trarre:
paragone in cui spende tutta la strofa, spiegando come la calamita
abbia questa virtù. Questi son concetti e freddure
dissimulate nell'artificio della forma; perchè se guardi
alla condotta del periodo, all'arte de' passaggi, alla stretta
concatenazione delle idee, alla felicità dell'espressione
in dir cose così sottili e difficili, hai poco a
desiderare.
In Iacopo da Lentino questa maniera è condotta sino alla
stravaganza, massime ne' sonetti. Non mancano movimenti
d'immaginazione ed una certa energia d'espressione, come:
Ben vorria che avvenisse
che lo meo core uscisse
come incarnato tutto,
e non dicesse mutto - a voi sdegnosa:
ch'Amore a tal n 'addusse,
che se vipera fusse,
naturia perderea:
ella mi vederea: - fòra pietosa.
Ma sono affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure, che nella
rozza trascurata forma spiccano più, e sono reminiscenze,
sfoggio di sapere. Non sente amore, ma sottilizza d'amore, come:
Fino amor di fin cor vien di valenza,
e scende in alto core somigliante,
e fa di due voleri una voglienza,
la qual è forte più che lo
diamante,
legandoli con amorosa lenza,
che non si rompe, nè scioglie l'amante.
Su questa via giunge sino alla più goffa espressione di una
maniera falsa e affettata, come è un sonetto, che comincia:
Lo viso, e son diviso dallo viso,
e per avviso credo ben visare,
però diviso viso dallo viso,
ch'altro è lo viso che lo divisare, ecc.
Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero estranei alla
serietà e intimità della vita, ebbero non piccola
influenza nella formazione del volgare, sviluppando le forme
grammaticali e la sintassi e il periodo e gli elementi musicali:
come si vede principalmente in Guido delle Colonne. Ne' più
rozzi trovi de' brani di un colore e di una melodia che ti fa
presentire il Petrarca. Valgano a prova alcuni versi nella canzone
attribuita a re Manfredi:
E vero certamente credo dire,
che fra le donne voi siete sovrana,
e d'ogni grazia e di virtù compita,
per cui morir d'amor mi saria vita.
L'Intelligenzia, poema allegorico, pieno d'imitazioni e di
contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che mostra
nell'ignoto autore un'anima delicata, innamorata, aperta alle
bellezze della natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma
era giunto il volgare. C'è una descrizione della primavera,
non nuova di concetti, ma piena di espressione e di
soavità, come di chi ne ha il sentimento. E continua
così:
Ed io stando presso a una fiumana
in un verziere all'ombra di un bel pino,
d'acqua viva aveavi una fontana
intorneata di fior gelsomino.
Sentìa l'àire soave a tramontana:
udìa cantar gli augei in lor latino;
allor sentìo venir dal fino amore
un raggio che passò dentro dal core,
come la luce che appare al mattino.
E descrive così la sua donna:
Guardai le sue fattezze dilicate,
che nella fronte par la stella Diana,
tant' è d'oltremirabile biltate,
e nell'aspetto sì dolce ed umana!
Bianca e vermiglia di maggior clartate
che color di cristallo o fior di grana:
la bocca picciolella ed aulorosa,
la gola fresca e bianca più che rosa,
la parlatura sua soave e piana.
Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,
che stanno in sì salutevole loco,
quando li volge, son sì dilettosi,
che il cor mi strugge come cera foco.
Quando spande li sguardi gaudiosi
par che 'l mondo si allegri e faccia gioco.
Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento della
natura e della bellezza: ond'è nata una mollezza e dolcezza
di forma, che con poche correzioni potresti dir di oggi;
così è giovine e fresca.
E se il sonetto dello "sparviere" è
della Nina, se è lavoro di quel tempo, come non pare
inverisimile, è un altro esempio della eccellenza a cui era
venuto il volgare, maneggiato da un'anima piena di tenerezza e
d'immaginazione:
Tapina me che amava uno sparviero,
amaval tanto ch'io me ne moria;
a lo richiamo ben m'era maniero,
ed unque troppo pascer nol dovia.
Or è montato e salito
sì altero,
assai più altero che far non solia;
ed è assiso dentro a un verziero,
e un'altra donna l'averà in
balìa.
Isparvier mio, ch'io t'avea
nodrito;
sonaglio d'oro ti facea portare,
perchè nell'uccellar fossi più
ardito.
Or sei salito siccome lo
mare,
ed hai rotto li geti e sei fuggito,
quando eri fermo nel tuo uccellare.
Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura
siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza
più chiara di sè e venisse a maturità. La
rovina fu tale, che quasi ogni memoria se ne spense, ed anche
oggi, dopo tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da
grandi lacune.
Nata feudale e cortigiana, questa coltura
diffondevasi già nelle classi inferiori, ed acquistava una
impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la
forza, nè l'elevatezza, ma una tenerezza raddolcita
dall'immaginazione e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso
di natura. Anche nella lingua penetra questa mollezza, e le
dà una fisonomia abbandonata e musicale, come d'uomo che
canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualità
spiccata de' dialetti meridionali.
La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non
si rilevò più. Lo nobile signore Federico e il
bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli Angioini, loro
fidi. La parte popolana ebbe il disopra in Toscana, e la
libertà de' comuni fu assicurata. La vita italiana, mancata
nell'Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca e
feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta
toscana, e toscani furon detti i poeti italiani. De' siciliani non
rimase che questa epigrafe:
Che fur già primi: e
quivi eran da sezzo.
II
I TOSCANI
Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore e
lusso d'immaginazione, e attirava a sè i più chiari
ingegni d'Italia, ne' comuni dell'Italia centrale oscuramente, ma
con assiduo lavoro, si formava e puliva il volgare. Centri
principali erano Bologna e Firenze, intorno a' quali trovi Lucca,
Pistoia, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza, Ravenna, Todi, Sarzana,
Pavia, Reggio.
Gittando uno sguardo su quelle antichissime
rime, non vi trovi la vivacità e la tenerezza meridionale;
ma uno stile sano e semplice, lontano da ogni gonfiezza e
pretensione, e un volgare già assai più fino, per la
proprietà de' vocaboli ed una grazia non scevra di
eleganza.
Trovo una tenzone di Ciacco dall'Anguillara,
fiorentino, sullo stesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena
di costui hai più varietà e più impeto, e
concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco tutto
è su uno stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e
in una lingua così propria e sicura, che non ne hai esempio
ne' più tersi e puliti siciliani. Comincia così:
AMANTE
O gemma leziosa,
adorna villanella,
che sei più virtudiosa
che non se ne favella;
per la virtude ch'hai,
per grazia del Signore,
aiutami, chè sai,
ch'io son tuo servo, Amore.
DONNA
Assai son gemme in terra
ed in fiume ed in mare,
ch'anno virtude in guerra,
e fanno altrui allegrare:
amico, io non son dessa
di quelle tre nessuna:
altrove va per essa,
e cerca altra persona.
Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase, che ti
annunzia un volgare già formato e parlato, si accompagna
una misura e una grazia ignota alla nudità molle e
voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per prova la fine di
questa tenzone, di una decenza amabile, così lontana dal
plebeo "allo letto ne gimo" di Ciullo:
DONNA
Tanto m'hai predicata,
e sì saputo dire,
ch'io mi sono accordata:
dimmi: che t' è in piacere?
AMANTE
Madonna, a me non piace
castella, nè monete:
fatemi far la pace
con l'amor che sapete.
Questo addimando a vui,
e facciovi finita.
Donna, siete di lui,
ed egli è la mia vita.
Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua parlata, e
sono i più acconci a mostrare a qual grado di finezza e di
grazia era giunto il volgare in Toscana, massime in Firenze. Ecco
alcuni brani di un altro dialogo di Ciacco:
Mentr'io mi cavalcava,
audivi una donzella;
forte si lamentava,
e diceva: - Oi madre bella,
lungo tempo è passato
che deggio aver marito,
e tu non lo m'hai dato.
La vita d'esto mondo nulla cosa mi pare...
- Figlia mia benedetta,
se l'amor ti confonde
de la dolce saetta,
ben te ne puoi sofferere...
- Per parole mi teni,
tuttor così dicendo;
questo patto non fina,
ed io tutta ardo e incendo;.
La voglia mi domanda
cosa che non suole,
una luce più chiara che il sole;
per ella vo languendo.
In queste rappresentazioni schiette dell'animo, e non astratte e
pensate, ma in casi ben determinati e circoscritti il poeta
è sincero, vede con chiarezza istintiva quello s'ha a fare
e dire, come fa il popolo, e non esprime i suoi sentimenti,
perchè non ne ha coscienza, tutto dietro alle cose che gli
si presentano, dette però in modo che ti suscitano anche le
impressioni provate dal poeta. A lui basta dire il fatto e la sua
immediata impressione, senza dimorarvi sopra, parendogli che la
cosa in se stessa dica tutto: semplicità rara ne'
meridionali, dov'è maggiore espansione, ma che è
qualità principale del parlare fiorentino. Uno stupendo
esempio trovi in questo sonetto della Compiuta Donzella
fiorentina, la divina Sibilla, come la chiama maestro Torrigiano:
Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
accresce gioia a tutt'i fini amanti:
vanno insieme alli giardini allora
che gli augelletti fanno nuovi canti.
La franca gente tutta s'innamora
ed in servir ciascun traggesi innanti,
ed ogni damigella in gioi' dimora,
e a me ne abbondan smarrimenti e pianti.
Chè lo mio padre m'ha messa in errore,
e tienemi sovente in forte doglia:
donar mi vuole a mia forza signore.
Ed io di ciò non ho disio, nè
voglia,
e in gran tormento vivo a tutte l'ore:
però non mi rallegra fior, nè
foglia.
Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo di
concetto e di condotta, con minor movimento e grazia e freschezza,
ma superiore d'assai per arte e perfezione di forma:
Quando l'aria rischiara e rinserena,
il mondo torna in grande dilettanza,
e l'acqua surge chiara dalla vena,
e l'erba vien fiorita per sembianza,
e gli augelletti riprendon lor lena,
e fanno dolci versi in loro usanza,
ciascun amante gran gioi' ne mena
per lo soave tempo che s'avanza.
Ed io languisco ed ho vita dogliosa:
come altro amante non posso gioire,
chè la mia donna m' è tanto
orgogliosa.
E non mi vale amar, nè ben servire:
però l'altrui allegrezza m'è
noiosa,
e dogliomi ch'io veggio rinverdire.
In questi due sonetti è grande semplicità di
pensiero e di andamento, e una perfetta misura. Si ha aria di
narrare quello si vede o si sente, senza riflessioni ed emozioni,
ma con una vivacità ed un colorito, che suscita le
più vive impressioni. Il secondo sonetto è cosa
perfetta, se guardi alla parte tecnica, ed accenna a maggior
coltura; non solo la nuova lingua è pienamente formata, ma
è già elegante, già la frase surroga i
vocaboli propri: a me piace più la perfetta
semplicità del sonetto femminile, con movenza più
vivace, più immediata e più naturale.
La proprietà, la grazia e la
semplicità sono le tre veneri che si mostrano nel volgare,
come si era ito formando in Toscana; qualità che trovi
ancora dove è più difficile a serbarle, quando per
una impazienza interna si rompe il freno e si dicono i secreti
più delicati dell'animo, con tanta più audacia,
quanto maggiore è stata la compressione, e con la sicurezza
di chi sente che non ha torto, ma ragione: è una violenza
raddolcita da una grazia ineffabile, e che per una naturale misura
rimane ipotetica nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:
In pena vivo qui sola soletta
giovin rinchiusa dalla madre mia,
la qual mi guarda con gran gelosia.
Ma io le giuro, alla croce di Dio,
s'ella mi terrà più sola serrata,
ch'i' dirò: - Fa' con Dio, vecchia
arrabbiata. -
E gitterò la rocca, il fuso e l'ago,
amor, fuggendo a te, di cui m'appago.
Questa bella forma, in tanto spirito e vivacità così
castigata, propria e semplice e piena di grazia, si andò
sviluppando non perchè il suo contenuto voleva così,
ma in opposizione ad esso contenuto, vuoto ed astratto. Anzi che
qualità del contenuto, o di questo e quel poeta, sembra il
progresso naturale dello spirito toscano, dotato di un certo senso
artistico, che lo tirava alla forma, nella piena indifferenza del
contenuto. Perciò queste qualità spiccano
più, dove il poeta non è impedito da un contenuto
convenzionale, ma si abbandona a rappresentare i fatti e i moti
dell'animo, come gli si affacciano in situazioni ben determinate,
e come sono nella realtà della vita. Allora contenuto e
forma sono una cosa stessa, ed hai ciò che di più
perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito toscano: come
è in parecchie poesie già citate. Potremmo
desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita
formando per un movimento ingenito, naturale e popolare,
com'è stato presso altri popoli. Ma sono desidèri
sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava, il
contenuto era già formato e meccanizzato e convenzionale:
la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario, lo stesso
ne' più puliti scrittori, tutti del pari dimenticati,
perchè quello solo sopravvive, che ha una forma prodotta da
un contenuto attivo e reale, vivente della vita comune.
Tale non è il contenuto in tanta
moltitudine di rimatori a quei tempi. In Toscana, come in Sicilia,
ci era già tutto un mondo poetico, non formato a poco a
poco insieme col volgare, ma già fissato con lineamenti
precisi e costanti. C'era già una poetica, e c'era anche un
vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt'i trovatori gli
stessi. Come più tardi avemmo le maschere, cioè
caratteri comici con lineamenti tradizionali, che nessuno si
attentava di alterare, così ci era allora Madonna e
Messere.
Madonna, l'"amanza" o la cosa amata, era un
ideale di tutta perfezione, non la tale e tale donna, ma la donna
in genere, amata con un sentimento che teneva di adorazione e di
culto. Messere era l'amante, il "meo sere", che avea qualche
valore solo amando. Uomo senz'amore è uomo senza valore.
Amare è indizio di cor gentile. Chi ama è cavaliere,
ubbidiente alle leggi dell'onore, difensore della giustizia,
protettore de' deboli, umile servo o servente d'amore, e soffre
volentieri ove a sua Madonna piaccia, e amato sta allegro, ma
"senza vanitate", senza menar vanto, e spregia le ricchezze,
perchè chi è amato è ricco. Amore è
"di due voleri una voglienza", ed è senza "fallimento" o
"villania", senza peccato, e sta contento al solo sguardo; nello
stesso paradiso la gioia dell'amante è contemplare Madonna,
e senza Madonna "non vi vorria gire". Il codice d'amore descrive i
concetti e i sentimenti degli amanti "fini" e "cortesi". Il codice
della cavalleria descrive le leggi dell'onore, i doveri di
cavaliere "leale" e "franco". Come si vede, amore era tutta la
vita ne' suoi vari aspetti, era Dio, patria e legge; la donna era
la divinità di quei rozzi petti. Chi cerca nelle memorie
della prima età, troverà questo ideale della donna
nella sua purezza e nella sua onnipotenza: l'universo è la
Donna. E tale fu negl'inizi della società moderna in
Germania, in Francia, in Provenza, in Spagna, in Italia. La storia
fu fatta a quella immagine. Troiani e romani erano concepiti come
cavalieri erranti, e così arabi, saraceni, turchi, lo
soldano e Saladino. Paris e Elena, Piramo e Tisbe sono eroi da
romanzo, come Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isaotta la bionda.
In questa fraternità universale si trovano gli angioli, i
santi, i miracoli, il paradiso in istrana mescolanza col
fantastico e il voluttuoso del mondo orientale, tutto battezzato
sotto nome di cavalleria. Le idee generali non sono ancora potenti
di uscire nella loro forma, e sono ancora allegorie. Le idee
morali sono motti e proverbi. La letteratura di questa età
infantile sono romanzi e novelle e favole e motti, poemi
allegorici e sonetti nel loro primo significato, cioè rime
con suoni, canti e balli, onde la canzone e la ballata.
La cavalleria poco attecchì in Italia.
Castella e castellane col loro corteggio di giullari, trovatori,
novellatori e bei favellatori doveano aver poco prestigio presso
un popolo che avea disfatte le castella, e s'era ordinato a
comune. Vinto Federico Barbarossa, e abbattuta poi Casa sveva,
quella vita di popolo fu assicurata, e le tradizioni feudali e
monarchiche perdettero ogni efficacia nella realtà.
Rimasero nella memoria, non come regola della vita, ma come un
puro gioco d'immaginazione. Nessuno credeva a quel mondo
cavalleresco, nessuno gli dava serietà e valore pratico:
era un passatempo dello spirito, non tutta la vita, ma un
incidente, una distrazione. Ora quando un contenuto non penetra
nelle intime latebre della società e rimane nel campo
dell'immaginazione, diviene subito frivolo e convenzionale, come
la moda, e perde ogni sincerità e ogni serietà. Ma
la stessa immaginazione era inaridita innanzi a un contenuto dato
e fissato, come si trovava in una letteratura non nata e formata
con la vita nazionale, ma venuta dal di fuori per via di
traduzioni. Perciò niente di nazionale e di originale,
nessun moto di fantasia o di sentimento; nessuna varietà di
contenuto; una così noiosa uniformità, che mal sai
distinguere un poeta dall'altro.
Questo contenuto non può aver vita, se
non si move, trasformato e lavorato dal genio nazionale. Quello
stesso senso artistico, che avea condotta già a tanta
perfezione la lingua, dovea altresì risuscitare quel
contenuto e dargli moto e spirito.
L'Italia avea già una coltura propria e
nazionale molto progredita: l'Europa andava già ad imparare
nella dotta Bologna. Teologia, filosofia, giurisprudenza, scienze
naturali, studi classici aveano già con vario indirizzo
dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto
cavalleresco dovea parer frivolo e superficiale ad uomini educati
con Virgilio ed Ovidio, che leggevan san Tommaso e Aristotile,
nutriti di Pandette e di dritto canonico, ed aperti a tutte le
maraviglie dell'astronomia e delle scienze naturali. Le tenzoni
d'amore doveano parer cosa puerile a quegli atleti delle scuole,
così pronti e così sottili nelle lotte
universitarie. Quella forma di poetare dovea parer troppo rozza e
povera a gente già iniziata in tutti gli artifici della
rettorica. Nacque l'entusiasmo della scienza, una specie di nuova
cavalleria che detronizzava l'antica. Lo stesso impeto che portava
l'Europa a Gerusalemme, la portava ora a Bologna. Gli storici
descrivono co' più vivi colori questo grande movimento di
curiosità scientifica, il cui principal centro era in
Italia.
E la scienza fu madre della poesia italiana, e
la prima ispirazione venne dalla scuola. Il primo poeta è
chiamato il Saggio, e fu il padre della nostra letteratura, fu il
bolognese Guido Guinicelli, il nobile, il massimo, dice Dante, il
padre
mio e degli altri miei miglior, che mai
rime d'amor usàr dolci e leggiadre.
Guido nel 1270 insegnava lettere nell'università di
Bologna. Il volgare era già formato, e si chiamava "lingua
materna": l'uso moderno, in opposizione al latino. Egli vi
gittò dentro tutto l'entusiasmo di una mente educata dalla
filosofia alle più alte speculazioni, e commossa da'
miracoli dell'astronomia e dalle scienze naturali. È il
mondo nuovo della scienza, che si rivela con le sue fresche
impressioni nella sua canzone sulla natura dell'amore. In
generale, le poesie de' trovatori sono una filza di concetti
addossati gli uni agli altri, senza sviluppo. Qui non ci è
che un solo concetto, ed è il luogo comune de' trovatori,
espresso nel celebre verso:
Amore e cor gentil sono una cosa.
Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a Guido, e si
mostra ne' più nuovi aspetti. Risorge l'immaginazione, e
attinge le sue immagini non da' romanzi di cavalleria, ma dalla
fisica, dall'astronomia, da' più bei fenomeni della natura,
con la compiacenza, con la voluttà e l'abbondanza di chi
addita e spiega le sue scoperte. I paragoni si accavallano,
s'incalzano, ti par di essere in un mondo incantato, e passi di
maraviglia in maraviglia. Citerò alcuni brani:
Al cor gentil ripara sempre amore,
siccome augello in selva alla verdura;
nè fe, amore anti che gentil core
nè gentil core anti che amor, Natura.
Che adesso com' fu il Sole
sì tosto fue lo splendor lucente
nè fu davanti al Sole.
E prende Amore in gentilezza loco
così propiamente,
come il calore in chiarità di foco.
Foco d'Amore in gentil cor s'apprende
come virtute in pietra preziosa;
chè dalla stella valor non discende,
anzi che il Sol la faccia gentil cosa...
Amor per tal ragion sta in cor gentile,
per qual lo foco in cima del doppiero...
Amore in gentil cor prende rivera
com' diamante dal ferro in la miniera.
èere lo Sol lo fango tutto il giorno:
vile riman: nè il Sol perde calore.
Dice uom altier: - Gentil per schiatta torno: -
lui sembra il fango; e il Sol gentil valore.
Chè non dee dare uom fè
che gentilezza sia fuor di coraggio
in dignità di re,
se da virtute non ha gentil core:
com'acqua ei porta raggio
e il ciel ritien la stella e lo splendore.
C'è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo
stento, come di un pensiero in travaglio, e n'escono vivi guizzi
di luce che rivelano le profondità di una mente sdegnosa di
luoghi comuni e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non
è ancora trasformato internamente, non è ancora
poesia, cioè vita e realtà; ma è già
un fatto scientifico, scrutato, analizzato da una mente avida di
sapere, con la serietà e la profondità di chi si
addentra ne' problemi della scienza, e illuminato da una
immaginazione, eccitata non dall'ardore del sentimento, ma dalla
stessa profondità del pensiero. Guido non sente amore, non
riceve e non esprime impressioni amorose, ma contempla l'amore e
la bellezza con uno sguardo filosofico; quello che gli si affaccia
non è persona idealizzata, ma è pura idea, della
quale è innamorato con quello stesso amore che il filosofo
porta alla verità intuita e contemplata dalla sua mente,
quasi fosse persona viva. Così Platone amava le sue idee;
l'amore platonico non era altro che amore d'intuizione e di
contemplazione, una specie di parentela tra il contemplante e il
contemplato: io ti contemplo e ti fo mia. Guido ama la creatura
della sua meditazione, e l'amore gli move l'immaginazione e gli fa
trovare i più ricchi colori, sì ch'ella par fuori
pomposamente abbigliata. L'artista è un filosofo, non
è ancora un poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo e
convenzionale, così fecondo presso i popoli dove nacque,
così sterile presso noi dove fu importato, succede Platone,
la contemplazione filosofica. Non ci è ancora il poeta, ma
ci è l'artista. Il pensiero si move, l'immaginazione
lavora. La scienza genera l'arte.
La coltura cavalleresca, se giovò a
formare il volgare, impedì la libertà e
spontaneità del sentimento popolare, e creò un mondo
artificiale e superficiale, fuori della vita, che rese insipidi
gl'inizi della nostra letteratura, così interessanti presso
altri popoli. Quel contenuto stazionario comincia a moversi presso
Guido, di un moto impresso non da sentimento di amore, ma da
contemplazione scientifica dell'amore e della bellezza, che se non
riscalda il core, sveglia l'immaginazione. Questo dunque si
ricordi bene, che la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo
germe da un mondo poetico cavalleresco, non potuto penetrare nella
vita nazionale, e rimaso frivolo e insignificante; e fu poi sviata
dalla scienza, che l'allontanò sempre più dalla
freschezza e ingenuità del sentimento popolare, e
creò una nuova poetica, che non fu senza grande influenza
sul suo avvenire. L'arte italiana nasceva non in mezzo al popolo,
ma nelle scuole, fra san Tommaso e Aristotele, tra san Bonaventura
e Platone.
La poesia di Guido ha il difetto della sua
qualità: la profondità diviene sottigliezza, e
l'immaginazione diviene rettorica, quando vuole esprimere
sentimenti che non prova. Vuol esprimere il suo stato quando fu
colpito dal dardo di amore, e dice che quel dardo
per gli occhi passa, come fa lo trono,
che fèr per la finestra della torre
e ciò che dentro trova, spezza e fende.
Rimagno come statua d'ottono,
ove spirto, nè vita non ricorre,
se non che la figura d 'uomo rende.
Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Iacopo da
Lentino. Ci si vede l'uomo d'ingegno e la mente che pensa. Ma non
è linguaggio d'innamorato questo sottilizzare e
fantasticare sul suo amore e sul suo stato.
Immensa fu l'impressione che produsse questa
poesia di Guido se vogliamo giudicarla da quella che n'ebbe Dante,
che lo imitò tante volte, che lo chiamò padre suo,
che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua canzone
sulla nobiltà, che ebbe la stessa scuola poetica, che nota
la celebrità a cui venne l'uno e l'altro Guido e aggiunge:
e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà di nido.
Guido oscurò tutt'i trovatori e salì a gran fama
presso un pubblico avido di scienza e pieno d'immaginazione, di
cui Guido era il ritratto; un pubblico uscito dalle scuole, per il
quale poesia era sapienza e filosofia, verità adorna, e che
non pregiava i versi, se non come velame della dottrina:
Mirate la dottrina che s'asconde
sotto il velame de li versi strani.
Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando una
scuola poetica, il cui codice è il Convito di Dante.
Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo
avea il suo Guittone, Todi il suo Iacopone e Firenze il suo
Brunetto Latini.
Dante mette Guittone tra quelli che "sogliono
sempre ne' vocaboli e nelle locuzioni somigliare la plebe". Alla
qual sentenza contraddicono alcuni sonetti attribuiti a lui, e che
per l'andamento e la maniera sembrano di fattura molto posteriore.
Se guardiamo alle sue canzoni e alle sue prose, non sarà
alcuno che non stimerà giusta la sentenza di Dante. In
Guittone è notabile questo, che nel poeta senti l'uomo:
quella forma aspra e rozza ha pure una fisonomia originale e
caratteristica, una elevatezza morale, una certa energia
d'espressione. L'uomo ci è, non l'innamorato, ma l'uomo
morale e credente, e dalla sincerità della coscienza gli
viene quella forza. E c'è anche l'uomo colto, una mente
esercitata alla meditazione e al ragionamento. I suoi versi sono
non rappresentazione immediata della vita, ma sottili e ingegnosi
discorsi, che doveano parer maraviglia a quel pubblico scolastico.
Venne perciò a tale celebrità che fu tenuto per
qualche tempo il primo de' poeti; ma nella sua vecchia età
si vide oscurato da' nuovi astri, onde dice il Petrarca:
Guitton d'Arezzo,
che di non esser primo par ch'ira aggia.
Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci, con grande ira di
Dante, che esclama: "Cessino i seguaci dell'ignoranza, che
estollono Guittone d'Arezzo".
Guittone non è poeta, ma un sottile
ragionatore in versi, senza quelle grazie e leggiadrie che con
sì ricca vena d'immaginazione ornano i ragionamenti di
Guinicelli. Non è poeta, e non è neppure artista:
gli manca quella interna misura e melodia, che condusse poeti
inferiori a lui di coltura e d'ingegno a polire il volgare.
È privo di gusto e di grazia.
Degne di maggiore attenzione sono le poesie di
Iacopone, come quelle che segnano un nuovo indirizzo nella nostra
letteratura. Sono le poesie di un santo, animato dal divino amore.
Non sa di provenzali, o di trovatori, o di codici d'amore: questo
mondo gli è ignoto. E non cura arte, e non cerca pregio di
lingua e di stile, anzi affetta parlare di plebe con quello stesso
piacere con che i santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole,
dare sfogo ad un'anima traboccante di affetto, esaltata dal
sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofia, e non ha
niente di scolastico. Si capisce che un poeta così fuori di
moda dovea in breve esser dimenticato dal colto pubblico,
sì che le sue poesie ci furono conservate come un libro di
divozione, anzi che come lavoro letterario. E nondimeno c'è
in Iacopone una vena di schietta e popolare e spontanea
ispirazione, che non trovi ne' poeti colti finora discorsi. Se i
mille trovatori italiani avessero sentito amore con la caldezza e
l'efficacia, che desta tanto incendio nell'anima religiosa di
Iacopone, avremmo avuta una poesia meno dotta e meno artistica, ma
più popolare e sincera.
Iacopone riflette la vita italiana sotto uno
de' suoi aspetti con assai più di sincerità e di
verità che non trovi in nessun trovatore. È il
sentimento religioso nella sua prima e natia espressione, come si
rivela nelle classi inculte, senza nube di teologia e di
scolasticismo, e portato sino al misticismo ed all'estasi. In
comunione di spirito con Dio, la Vergine, i santi e gli angeli,
parla loro con tutta dimestichezza, e li dipinge con perfetta
libertà d'immaginazione, co' particolari più pietosi
e più affettuosi che sa trovare una fantasia commossa
dall'amore. Maria è soprattutto il suo idolo, e le parla
con la familiarità e l'insistenza di chi è sicuro
della sua fede e sa di amarla:
Di', Maria dolce, con quanto disio
miravi 'l tuo figliuol Cristo mio Dio.
Quando tu il partoristi senza pena,
la prima cosa, credo, che facesti,
sì l'adorasti, o di grazia piena,
poi sopra il fien nel presepio il ponesti;
con pochi e pover' panni l'involgesti,
maravigliando e godendo, cred'io.
O quanto gaudio avevi e quanto bene,
quando tu lo tenevi fra le braccia!
Dillo, Maria, chè forse si conviene
che un poco per pietà mi satisfaccia.
Baciavi tu allora nella faccia,
se ben credo, e dicevi: - O figliuol mio! -
Quando "figliuol", quando "padre" e "signore",
quando "Dio", e quando "Gesù" lo
chiamavi;
o quanto dolce amor sentivi al core,
quando in grembo il tenevi ed allattavi!
Quanti dolci atti e d'amore soavi
vedevi, essendo col tuo figliuol pio!
Quando un poco talora il dì dormiva,
e tu destar volendo il paradiso,
pian piano andavi che non ti sentiva,
e la tua bocca ponevi al suo viso,
e poi dicevi con materno riso:
- Non dormir più che ti sarebbe
rio. -
Sotto l'impressione del sentimento religioso Iacopone indovina
tutte le gioie e le dolcezze dell'amor materno. Iacopone non
concepisce il divino nella sua purezza, come un teologo o un
filosofo, ma vestito di tutte le apparenze e gli affetti umani.
Questa è una scena di famiglia, colta dal vero, con una
franchezza di colorito e con una grazia di movenze, tutta
intuitiva. Preghiere, sdegni, follie d'amore, fantasie, estasi,
visioni, tutto trovi in Iacopone al naturale e come gli viene di
dentro; ciò che ci è più semplice e
commovente, e ciò che ci è più strano e
volgare. La forma è il sentimento esso medesimo; ed ora
è soave, efficace, quasi elegante, ora stravagante e
plebea. Ha una facilità che gli nuoce, ed un impeto di
espressione che non dà luogo alla lima. Ma ne' suoi impeti
gli escono forme di dire così fresche e felici, che non
disdegnarono d'imitarle Dante e il Tasso. Nè è meno
terribile che soave; e vagliano a prova alcuni tratti:
Andiam tutti a vedere
Iesù quando dormia.
La terra, l'aria e il cielo
fiorir, rider facia:
tanta dolcezza e grazia
dalla sua faccia uscia.
La faccia di Gesù bambino, il Natale, la Vergine, il volo
dell'anima al paradiso, gli angioli sono visioni piene di grazia e
di efficacia. Nascendo Gesù:
le gerarchie superne
eran dal ciel discese:
lucean come lucerne
d'ardente foco accese
le loro ale distese.
Gesù ha un corteggio di donne, che gli danzano intorno,
Verginità, Umiltà, Carità, Speranza,
Povertà, Astinenza: è qualche cosa di simile alle
tre sorelle di Dante nella sua celebre canzone. Ecco in che modo
Iacopone descrive l'Umiltà:
E questa era gioconda
onesta e mansueta,
e con la treccia bionda
e a cantar la più lieta;
d'ogni virtù repleta,
a me il capo chinava:
tanto m'assecurava
ch'io presi a favellare.
Quella stessa immaginazione, che dipinge con tanta grazia,
rappresenta con evidenza terribile i terrori dell'anima peccatrice
nel giudizio universale:
Chi è questo gran Sire,
rege di grande altura?
Sotterra i' vorrei gire,
tal mi mette paura.
Ove potria fuggire
dalla sua faccia dura?
Terra, fa' copritura,
ch'io nol veggia adirato.
... ... ... .
Non trovo loco dove mi nasconda,
monte, nè piano, nè grotta o
foresta:
chè la veduta di Dio mi circonda,
e in ogni loco paura mi desta...
Tutti li monti saranno abbassati,
e l'aire stretto e i venti conturbati,
e il mare muggirà da tutt'i lati.
Con l'acque lor stara fermi adunati
i fiumi ad aspettare.
Allor udrai dal ciel tromba sonare,
e tutti i morti vedrai suscitare,
avanti al tribunal di Cristo andare,
e il foco ardente per l'aria volare
con gran velocitate.
Iacopone non è un'apparizione isolata; ma si collega a
tutta una letteratura latina popolare, animata dal sentimento
religioso. Là trovi il Salve regina, e l'Ave maria stella,
e il Dies irae, e drammi e vite di santi scritte da uomini
eloquenti e appassionati. Anche in volgare comparivano già
cantici e laudi: di Bonifazio papa c'è rimasto un breve e
rozzo cantico alla Vergine. I fatti della Bibbia, la passione e
morte di Cristo, le visioni e i miracoli de' santi, i lamenti e le
preghiere delle anime purganti, le mistiche gioie del paradiso, i
terrori dell'inferno, erano il tema comune de' predicatori e
rappresentazioni nelle chiese e su per le piazze, sotto il nome di
"misteri", "feste", "moralità". È rimasta memoria di
una visione dell'inferno, con la quale Gregorio settimo quando era
predicatore atterriva l'immaginazione de' suoi uditori: ed
è visione di un fantastico e di una crudezza di colori che
mette il brivido. In Morra, mio paese nativo, ricordo che nella
festa della Madonna, quando la processione è giunta sulla
piazza, comparisce l'angiolo, che fa l'annunzio. Ed è
ancora la vecchia tradizione dell'angiolo, che allora apriva la
rappresentazione, annunziando l'argomento. È nota la grande
rappresentazione dell'altro mondo in Firenze, che, rottosi il
ponte di legno sull'Arno, costò la vita a molte persone.
Questa materia religiosa, che ispirò
tanti capilavori di pittura e di scultura e di architettura, era
efficacissima fonte di poesia, congiungendo in sè il
fantastico e l'affetto, il divino e l'umano, e nelle sue
gradazioni dall'inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde
dello spirito. La sua tendenza troppo ascetica e spirituale era
vinta dal grosso senso popolare, che paganizzava e umanizzava
tutto. In questa storia religiosa, il cui proprio teatro è
l'altra vita, a cui questa è preparazione, l'uomo mescolava
le sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le sue
opinioni, i suoi amori. Maria era l'anello che giungeva la terra
al cielo, e il devoto le parla con tutta familiarità, e le
ricorda che la è stata pur donna. Iacopone dice:
Ricevi, donna, nel tuo grembo bello
le mie lacrime amare.
Tu sai che ti son prossimo e fratello,
e tu nol puoi negare.
Lei implora il trovatore nel suo colpevole amore, a lei si
raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scellerate spedizioni.
Maria, Gesù, i santi, gli angioli, Lucifero non bastano:
l'immaginazione popolare personifica le virtù, e ne fa un
corteggio di figure allegoriche alla divinità,
rappresentandole con ogni libertà, come fa Iacopone, e come
si vede ne' bassirilievi e in tante opere di scultura e di
pittura. E come il paganesimo ne' suoi ultimi tempi era
interpretato allegoricamente, anche le figure pagane entrano in
questo mondo, torte dal senso letterale e volte a significato
generale, come Giove, Plutone, Amore, Apollo, le Muse, Caronte.
Come il papa aspirava a far sua tutta la terra, la storia
religiosa assorbiva in sè tutt'i tempi e tutte le storie.
In questa mescolanza universale, opera di una immaginazione
primitiva e ancor rozza, non hai luce uguale e non fusione di
tinte: domina un fondo oscuro, il sentimento di un di là
della vita, di un infinito non rappresentabile, superiore alla
forma, che riempie lo spazio di grandi ombre; e quelle mescolanze
di divino e di terreno, di antico e di moderno, di serio e di
comico non sono ben fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in
luogo di armonizzare producono un'impressione irresistibile di
contrasto, di cose che cozzano. Quel difetto di luce è il
gotico, e quel difetto di armonia è il grottesco: e
però il gotico e il grottesco sono le prime forme
artistiche di quel mondo, com'è nella sua prima
ingenuità, non ancora vinto e domato dall'arte. Il sublime
del gotico si sente nel Giudizio universale di Iacopone. Dove la
veduta di Dio ti circonda, senza che tu lo veda, chiarissimo al
sentimento, inaccessibile all'immaginazione. Il peccatore vede
sonar le trombe, turbati i venti, l'aria immobile, e i fiumi
fermarsi, e il mare muggire, e il fuoco volare per l'aria;
dappertutto si sente inseguito dalla veduta di Dio, ma non lo
guarda, non gli dà forma: non è un'immagine,
è un sentimento senza forma, che riempie della sua ombra
tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto di due versi
stupendi, che sono veri decasillabi sotto apparenza di
endecasillabo, pieni di movimento e di armonia:
chè la veduta di Dio mi circonda
e in ogni loco paura mi desta.
È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi ombre
di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Iacopone è
il grottesco, una mescolanza delle cose più disparate,
senza nessun senso di convenienza e di armonia: il che, se fatto
con intenzione, è comico; fatto con rozza ingenuità,
è grottesco. Trovi il plebeo, l'indecente, il disgustoso
misto coi più gentili affetti: ciò che è pure
il carattere del santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E
questo in Iacopone non è già un contrasto che celi
alte intenzioni artistiche, ma rozza natura, così discorde
e mescolata come si trova nella realtà. Ecco il principio
del cantico 48:
O Signor, per cortesia,
mandami la malsania;
a me la febbre guartana,
la continua e la terzana:
a me venga mal di dente,
mal di capo e mal di ventre,
mal de occhi e doglia di fianco
la postema al lato manco.
La poesia di Iacopone è proprio il contrario di quella de'
trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale e
uniforme, non penetrata di alcuna realtà. In Iacopone
è realtà ancora naturale, non ancora spiritualizzata
dall'arte; è materia greggia, tutta discorde, che ti
dà alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di
armonico.
Accanto a questa vita religiosa ancora
immediata e di prima impressione spunta la vita morale, un certo
modo di condursi con regola e prudenza; e anch'essa è nella
sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o filosofia,
è pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o
proverbio, che riassume la sapienza degli avi. Il motto rimato
è la più antica forma di poesia nel nostro volgare.
Ecco alcuni motti antichissimi:
Ancella donnea,
se donna follea.
In terra di lite
non poner la vite.
Uomo che ode, vede e tace
sì vuol vivere in pace.
Chi parla rado
tenuto è a grado.
Di questa fatta sono una filza di motti
ammassati da Iacopone in un suo carme, una specie di catechismo a
uso della vita, illustrati brevemente da qualche immagine o
paragone, ora goffo, ora egregio di concetto e di forma. Sulla
vanità della vita dice:
Lo fior la mane è nato,
la sera il vei seccato.
Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia
che la elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal
Poliziano, la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata:
Fresca è la rosa di mattino: e a sera
ella ha perduta sua bellezza altera.
I motti di Iacopone sono pensieri morali espressi per esempio e
per immagini, come fa l'immaginazione popolare, e nella loro
brevità e succo è il principale attrattivo.
Ove temi pericolo,
non fare spesso posa.
Sappi di polver tollere
la pietra preziosa,
e da uom senza grazia
parola graziosa;
dal folle sapienzia,
e dalla spina rosa.
Prende esempio da bestia
chi ha mente ingegnosa.
Vediamo bella immagine
fatta con vili deta;
vasello bello ed utile
tratto da sozza creta;
pigliam da laidi vermini
la preziosa seta,
vetro da laida cenere,
e da rame moneta.
Non dimandare agli uomini
che lor nega natura:...
e non pregar la scimia
di bella portatura,
nè il bue, nè l'asino
di dolce parladura...
Quel che non si conviene,
ti guarda di non fare:
nè messa ad uomo laico,
nè al prete saltare;
non dece spada a femmina,
nè ad uom lo filare...
Non piace se 'n suo loco
non ponesi la cosa:
innanzi che ti calzi,
guarda da qual piè è l'uosa.
Se leggi, non far punto
dove non è la posa;
dov'è piana la lettera,
non fare oscura glosa.
In ogni cosa al prossimo
ti mostra mansueto:...
Da nimistate guàrdati,
se vuoi viver quieto...
A quel modo conformati
che trovi nel paese:
al Genovese, in Genova,
ed in Siena, alsSanese...
Uomo che spesso volgesi,
da tuo consiglio caccia.
Se vedi volpe correre,
non dimandar la traccia:
non ti sforzare a prendere
più che non puoi con braccia:
chè nulla porta a casa
chi la montagna abbraccia.
Quando puoi esser umile,
non ti dimostrar forte:
il muro tu non rompere,
se aperte son le porte...
Con signore non prendere,
se tu puoi, quistione;
ch'ei ti ruba ed ingiuria
per piccola cagione,
e tutti gli altri gridano:
- Messere ha la ragione... -
Uomo senz'amicizia
castello è senza mura...
Quella è buona amicizia,
che d'ogni termpo dura:
povertà non la parte,
nè nulla ria ventura.
Quel che tu dici in camera
non dire in ogni loco:
a piaga metti unguento,
non vi mettere il foco...
E così hai motto a motto, spesso senz'altro legame che il
caso, qual più, qual meno felice, in quella forma
sentenziosa ed esemplata, che è propria dell'immaginazione
popolare, prima ancora che nasca la favola e il racconto. E trovi
certo più gusto in queste prime rozze formazioni
così piene della vita e del sentire comune, che ne' sonetti
e canzoni morali in forma più artificiosa, ma contorta e
scolastica di Onesto e Semprebene e altri trovatori.
Questi uomini con tanti proverbi in
bocca e con tanta divozione alla Madonna e a' santi, con
l'immaginazione piena di leggende e avventure cavalleresche,
avevano nel piccolo spazio del comune una vita politica ancora
più vivace e concentrata, che non è oggi, allargata
com'è e diffusa in quegl'immensi spazi che si chiamano
"regni". Certo, i costumi si polivano, come la lingua; ma
religione e cavalleria, misteri e romanzi, se colpivano le
immaginazioni, poco bastavano a contenere e regolare le passioni
suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali. Questa vita
era troppo reale, troppo appassionata e troppo presente,
perchè potesse esser vista con la serenità e la
misura dell'arte. Si manifesta con la forma grossolana
dell'ingiuria, appena talora rallegrata da qualche lampo di
spirito. Un esempio è il verso:
Quando l'asino raglia, un guelfo nasce.
Questa forma primitiva dell'odio politico, amara anche nel
motteggio e nell'epigramma, e così sventuratamente feconda
tra noi anche ne' tempi più civili, non esce mai dalle
quattro mura del comune, con particolari e allusioni così
personali, che manca con la chiarezza ogni interesse: prova ne
sieno i sonetti di Rustico. Certo, in questo antico esempio di
satira politica vedi il volgare condotto a tutta la sua
perfezione, e ci senti uno spirito e una vivacità propria
dell'acuto ingegno fiorentino. Ma che interesse volete voi che
prendiamo per donna Gemma e messer Fastello e messer Messerino e
ser Cerbiolino, con quel suo parlare sotto figura per allusioni,
che non ne comprendiamo un'acca? Ciò che è meramente
personale muore con la persona. Il comune sembra un castello
incantato, dove l'uomo entrando ignori tutto ciò che vive e
si muove al di fuori. Nessun vestigio de' grandi avvenimenti di
cui l'Italia era stata ed era il teatro; niente che accennasse ad
alcuna partecipazione alle grandi discussioni tra papato e impero,
tra guelfi e ghibellini, o rivelasse un sentimento politico
elevato e nazionale, al di sopra della cerchia del comune. Tutto
è piccolo, tutto va a finire là, nella piccola
maldicenza sulla piazza del comune. Di ciò che si passava
in Italia, appena un'ombra trovi in un sonetto di Orlandino Orafo,
eco delle preoccupazioni e ansietà pubbliche, quando Carlo
d'Angiò andava ad investire re Manfredi in Benevento. Ma
ciò che preoccupa Orlandino non è il risultato
politico e nazionale della lotta, ma la grande strage che ne
verrà:
Ed avverrà tra lor fera battaglia,
e fia sanfaglia - tal, che molta gente
sarà dolente - chi che ne abbia gioia.
E molti buon destrier coverti a maglia,
in quella taglia - saran per niente;
qual fia perdente - allor convien che muoia.
A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa
impressione è la lotta in se stessa co' suoi accidenti. Lo
diresti uno spettatore posto fuori de' pericoli e delle passioni
de' combattenti, che contempla avido di emozioni i vari casi della
pugna.
Questa rozzezza della vita italiana sotto i
suoi vari aspetti, religioso, morale, politico, spicca più,
perchè in evidente contrasto con la precoce coltura
scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo. La
scienza era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano
a guardare. Ma la scienza era come il Vangelo, che s'imparava e
non si discuteva. A quel modo che troiani, romani, franchi e
saraceni, santi e cavalieri erano nell'immaginazione un mondo
solo; Aristotile e Platone, Tommaso e Bonaventura erano una sola
scienza. Il maggiore studio era sapere, e chi sapeva più
era più ammirato; nessuno domandava quanta concordia e
profondità era in quel sapere. Perciò venne a
grandissima fama ser Brunetto Latini. Il suo Tesoro e il Tesoretto
furono per lungo tempo maraviglia delle genti, stupite che un uomo
potesse saper tanto, ed esporre in verso Aristotele e Tolomeo. Di
che nessuno oggi saprebbe più nulla, se Dante non avesse
eternato l'uomo e il suo libro in quei versi celebri:
sieti raccomandato il mio Tesoro nel quale io
vivo ancora.
La scienza in Brunetto è materia così rozza e
greggia, com'è la vita religiosa in Iacopone e la vita
politica in Rustico. Il suo studio è di cacciar fuori tutto
quello che sa, così crudamente come gli è venuto
dalla scuola, e senza farlo passare a traverso del suo pensiero.
Ciò che dice gli pare così importante, e pareva
così importante a' suoi contemporanei, ch'egli non chiede
altro, e nessuno chiedeva altro a lui. Quella sua enciclopedia non
è che prosa rimata.
Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di
Dante, che compirono i loro studi nell'Università di
Bologna, dalla quale uscì pure Cino da Pistoia. Si sente in
tutti e tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore si scioglie dalle
tradizioni cavalleresche, e diviene materia di teologia e di
filosofia. Si discute sulla sua origine su' suoi fenomeni e sul
suo significato. Nella sua apparenza volgare esso adombra quella
forza che move il sole e le stelle; il poeta lascia al volgo il
senso letterale e cerca un soprasenso, il senso teologico e
filosofico, di cui quello sia il velo. Il lettore con le sue
abitudini scientifiche disprezza il fenomeno amoroso, e cerca
dietro di quello la scienza. L'esistente non è per lui che
un velo del pensiero, una forma dell'essere; Cino da Pistoia
chiama Arrigo di Lussemburgo "forma del bene"; il corpo è
un velo dello spirito; la donna è la forma di ogni
perfezione morale e intellettuale: spiritualismo religioso e
idealismo platonico si fondono e fanno una sola dottrina.
L'allegoria, ch'era già prima la forma naturale di una
coltura poco avanzata, diviene una forma fissa del pensiero
teologico e filosofico, disposizione dello spirito aiutata
dall'uso invalso di cercare il senso allegorico a spiegazione
della mitologia e del senso letterale biblico. Ma il pensiero
esercitato nelle lotte scolastiche era già tanto vigoroso
che poteva anco bastare a se stesso ed avere la sua espressione
diretta. Perciò nella poesia entra non solo l'allegoria, ma
il nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragionamento e da
tutt'i procedimenti scolastici. Cino, Cavalcanti e Dante erano
tra' più dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti
dalla scuola di Bologna. La loro mente robusta era stata educata a
guardare in tutte le cose il generale e l'astratto, e a
svilupparlo col sussidio della logica e della rettorica. Prima di
esser poeti sono scienziati. Anche verseggiando, ciò che
ammirano i contemporanei è la loro scienza.
Cino, maestro di Francesco Petrarca e del sommo
Bartolo, fu dottissimo giureconsulto. Il suo comento sopra i primi
nove libri del Codice fu la maraviglia di quell'età.
Ristoratore del diritto romano, aperse nuove vie alla scienza, e
non fu uomo, come dice Bartolo, che più di lui desse luce
alla civil giurisprudenza. L'amore di Selvaggia lo fece poeta, ma
non potè mutare la sua mente. In luogo di rappresentare i
suoi sentimenti, come poeta, egli li sottopone ad analisi, come
critico, e ne ragiona sottilmente. Posto fuori della natura e nel
campo dell'astrazione, ogni limite del reale si perde, e quella
stessa sottigliezza che legava insieme i concetti più
disparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni fuori di ogni
realtà e di ogni senso comune, creava ora una scolastica
poetica, o, per dirla col suo nome, una rettorica ad uso
dell'amore, piena di figure e di esagerazioni, dove vedi comparire
gli spiritelli d'amore che vanno in giro e i sospiri che parlano.
In luogo di persone vive, abbondano le personificazioni. In un suo
sonetto de' meglio condotti e di grande perfezione tecnica vuol
dire che nella sua donna è posta la salute: mèta
sì alta, che avanza ogni sforzo d'intelletto, e però
non resta altro che morire. Questo è rettorica, non solo
per la strana esagerazione del concetto, ma per il modo
dell'esposizione scolastico e dottrinale.
Questa donna che andar mi fa pensoso,
porta nel viso la virtù d'Amore:
la qual fa disvegliare altrui nel core
lo spirito gentil che vi è nascoso.
Ella m'ha fatto tanto pauroso,
poscia ch'io vidi quel dolce signore
negli occhi suoi con tutto 'l suo valore,
che io le vo presso e riguardar non l'oso.
E s'avvien poi che quei begli occhi miri,
io veggio in quella parte la salute,
ove lo mio intelletto non può gire.
Allor si strugge sì la mia vertute,
che l'anima, che move li sospiri,
s'acconcia per voler del cor fuggire.
Una così strana esagerazione non può essere scusata
che dall'impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui non ce
n'è vestigio; ed hai invece una specie di tèma
astratto, che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di
rettorica. La prima quartina è una maggiore di sillogismo;
intelletto, animo, core, sospiri, virtù di onore e spirito
gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole.
Esule ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe
della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua
morte, scrisse una canzone. Quale materia di poesia! Dove
dovrebbero comparire le speranze, i disinganni, le illusioni e i
dolori dell'esule. Ma è invece una esposizione a modo di
scienza sulla potenza della morte e l'immortalità della
virtù. Ancora più astratta e arida è la
canzone sulla natura d'amore di Guido Cavalcanti, dottissimo di
filosofia e di rettorica: la qual canzone fu tenuta miracolo da'
contemporanei.
Adunque, la vita religiosa, morale e politica
era appena nella sua prima formazione, e la splendida vita che
raggiava da Bologna era anch'essa materia greggia, pretta vita
scientifica, messa in versi.
Siamo alla seconda metà del Dugento. La
Sicilia, malgrado la sua Nina, è già nell'ombra. I
due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze, l'una
centro del movimento scientifico, l'altra centro dell'arte.
Nell'una prevaleva il latino, la lingua de' dotti; nell'altra
prevaleva il volgare, la lingua dell'arte.
L'impulso scientifico partito da Bologna,
traendosi appresso anche la poesia, dava il bando alla
superficiale galanteria de' trovatori: il pubblico domandava cose
e non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una
scuola poetica conforme a quella. Il tempo de' poeti spontanei e
popolari finisce per sempre.
Il nuovo poeta scrive con intenzione.
Più che poeta, egli è lume di scienza; si chiama
Brunetto Latini, l'enciclopedico, Cino, il primo giureconsulto
dell'età, Cavalcanti, filosofo prestantissimo, Dante, il
primo dottore e disputatore de' tempi suoi. Scrivono versi per
bandire la verità, spiegare popolarmente i fenomeni
più astrusi dello spirito e della natura. La poesia
è per loro un ornamento, la bella veste della verità
o della filosofia, uso amoroso di sapienza, come dice Dante nel
Convito. Ci è dunque in loro una doppia intenzione. Ci
è una intenzione scientifica. Ma ci è pure una
intenzione artistica, di ornare e di abbellire. L'artista
comparisce accanto allo scienziato. Questo doppio uomo è
già visibile in Guido Guinicelli.
È in Toscana, massime in Firenze, che si
forma questa coscienza dell'arte. Il volgare, venuto già a
grande perfezione, era parlato e scritto con una proprietà
e una grazia, di cui non era esempio in nessuna parte d'Italia. Se
i poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti incolti e
rozzi non piacevano a Firenze. A lungo andare non vi poterono
essere tollerati Guittone e Brunetto, e sorgeva la nuova scuola,
la quale, se a Bologna significava scienza, a Firenze significava
"arte".
Questo primo svegliarsi di una coscienza
artistica è già notato in Cino. Egli scrive con
manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre, e cerca non
solo la proprietà, ma anche la venustà del dire.
Aveva animo gentile e affettuoso, e orecchio musicale. Se a lui
manca l'evidenza e l'efficacia, virtù della forza, non gli
fa difetto la melodia e l'eleganza, con una certa vena di
tenerezza. Fu il precursore del grande suo discepolo, Francesco
Petrarca.
Ecco un esempio della sua maniera:
Poichè saziar non posso gli occhi miei
di guardare a Madonna il suo bel viso,
mireròl tanto fiso
ch'io diverrò beato lei guardando.
A guisa di Angel che di sua natura
stando su in altura divien beato sol vedendo
Iddio;
così, essendo umana creatura,
guardando la figura
di questa donna, che tiene il cor mio,
potrei beato divenir qui io.
Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della sua donna,
che ispirò le tre sorelle del Petrarca, il quale ne
imitò anche la fine, che è piena di grazia:
Or se prendete a noia
lo mio amor, occhi d'amor rubegli,
foste per comun ben stati men begli.
Agli occhi della forte mia nemica
fa', canzon, che tu dica:
- Poi che veder voi stessi non possete,
vedete in altri almen quel che voi sète.
-
E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di filosofare e
sottilizzare si contenta di rappresentare con semplicità il
suo stato, e sono teneri ed affettuosi. Meno apparisce dotto, e
più si rivela artista.
La coscienza artistica si mostra in Cino nelle
qualità tecniche ed esteriori della forma. La sua
principale industria è di sviluppare gli elementi musicali
della lingua e del verso, nè fino a quel tempo la lingua
sonò sì dolce in nessun poeta, rendendo imagine di
un bel marmo polito, da cui sia rimossa ogni asprezza e
ineguaglianza Ma qualità più serie e più
profonde si rivelano in Guido Cavalcanti. Anche in lui la
perfezion tecnica è somma, anzi in lui è scienza.
Innamorato della lingua natia, pose ogni studio a dirozzarla, e
fissarla, e scrisse una gramatica e un'arte del dire. Egli, nota
Filippo Villani, dilettandosi degli studi rettorici, essa arte in
composizioni di rime volgari elegantemente e artificiosamente
tradusse. Di che si vede quanta impressione dovè fare su'
contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì
nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte.
Così Guido divenne il capo della nuova scuola, il creatore
del nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli:
Così ha tolto l'uno all'altro Guido
la gloria della lingua.
Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e
poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza era la
filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgilio, parendogli,
dice il Boccaccio, "la filosofia, siccome ella è, da molto
più che la poesia". Sottilissimo dialettico, come lo chiama
Lorenzo de' Medici, introduce nella poesia tutte le finezze
rettoriche e scolastiche, e mira a questo, non solo di dir bene,
ma dir cose importanti. I contemporanei studiarono la sua canzone
dell'Amore, come si fa un trattato filosofico, e ne fecero
comenti, come si soleva di Aristotele e di san Tommaso: anche
più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone.
Così Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso
ed elegante dicitore, ma come sommo filosofo.
Questo voleva Guido, e questo ottenne, questo
gli bastò ad acquistare il primo posto fra' contemporanei.
Salutavano in lui lo scienziato e l'artista.
Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu
benemerito della scienza perchè la divulgò, non
perchè vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu artefice
più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e
tecnica della forma: vanto non piccolo, ma che tocca la sola
superficie dell'arte.
La gloria di Guido fu là, dov'egli non
cercò altro che un sollievo e uno sfogo dell'animo. Fu
là, ch'egli senza volerlo e saperlo si rivelò
artista e poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed essi
medesimi sono incapaci di apprezzare. Guido era più grande
ch'egli stesso e i suoi contemporanei non sapevano.
Guido è il primo poeta italiano degno di
questo nome, perchè è il primo che abbia il senso e
l'affetto del reale. Le vuote generalità de' trovatori,
divenute poi un contenuto scientifico e rettorico, sono in lui
cosa viva, perchè, quando scrive a diletto e a sfogo,
rendono le impressioni e i sentimenti dell'anima. La poesia, che
prima pensava e descriveva, ora narra e rappresenta, non al modo
semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e
finitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata da
Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette,
egregiamente caratterizzate, che gli cavano di bocca il suo
segreto d'amore. Là è una pastorella che incontra
nel boschetto, e ti abbozza una scena d'amore colta dal vero. Sono
gli stessi concetti de' trovatori, ma realizzati, non solo ornati
e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati nella loro sostanza,
divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita
e azione. Senti là dentro l'anima dello scrittore, ora
lieta e serena che si esprime con una grazia ineffabile, come
nelle ballate delle forosette e della pastorella, ora penetrata di
una malinconia che si effonde con dolcezza negli amabili sogni
dell'immaginazione e nella tenerezza dell'affetto, come nella
ballata, che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il
presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la
rettorica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro,
naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento
e l'espressione. Il poeta non pensa a gradire, a cercare effetti,
a fare impressione con le sottigliezze della dottrina e della
rettorica: scrive se stesso, come si sente in un certo stato
dell'animo, senz'altra pretensione che di sfogarsi, di espandersi,
segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I posteri
poterono applicare a lui quello che Dante disse di sè:
Io mi son un, che quando
Amor mi spire, noto, e a quel modo
ch'ei detta dentro, vo significando.
Il che non avvenne di Lentino, di Guittone, rimasti al di qua del
"dolce stil nuovo", perchè esagerarono i sentimenti,
andarono al di là della natura, per "gradire", piacere a'
lettori.
E qual più a gradire oltre si mette,
non vede più dall'uno all'altro stilo.
Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro
fu Cino, il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che
una coscienza più chiara dell'arte. La filosofia per
sè sola fu stimata insufficiente, e si richiese la forma.
Guittone d'Arezzo non fu più apprezzato, quantunque "di
filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso", come dice Lorenzo de'
Medici, perchè gli mancava lo stile, "alquanto ruvido e
severo, nè di alcun dolce lume di eloquenza acceso". Anche
Benvenuto da Imola chiama nude le sue parole e lo commenda per le
gravi sentenze, ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo
senso, il senso della forma.
A quel tempo fra tante feroci gare politiche la
letteratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i
più diversi aspetti. Dante da Maiano era un'eco de'
trovatori, con la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto,
Orbiciani da Lucca erano poeti dotti, ma rozzi, come i bolognesi
Onesto e Semprebene. Ma già il culto della forma, l'amore
del bello stile si sente in parecchi poeti. Dino Frescobaldi,
Rustico di Filippo, Guido Novello, Lapo Gianni, Cecco d'Ascoli
sono il corteggio, nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti.
Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si
accompagnò quello di Dante Alighieri, legati insieme da
un'amicizia che non si ruppe se non per morte. Parvero le "nuove
rime", e fu tale l'impressione ch'ei salì subito accanto a
Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema di
esprimere le profondità della scienza in bella forma:
ultimo segno a cui si mirava. Perciò ebbe molta voga la sua
canzone:
Donne, che avete intelletto d'amore;
e ancora più l'altra:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di Bologna mira
poetando a divulgare la scienza, usando modi piani e aperti alla
intelligenza comune. Nella canzone, dove esorta la donna a
dispregiare uomo che "da sè virtù fatta ha lontana",
dice:
Ma perocchè il mio dire util vi sia,
discenderò del tutto
in parte ed in costrutto
più lieve, perchè men grave
s'intenda;
chè rado sotto benda
parola oscura giugne allo 'ntelletto;
par che parlar con voi si vuole aperto.
E quando pure è costretto a celare sotto benda i suoi
concetti aggiunge un comento in prosa e dichiara egli medesimo la
sua dottrina. Tale è il comento che fa alla canzone:
Voi che intendendo il terzo ciel movete;
e parendogli che senza quel comento la canzone presa in se stessa
rimanga fuori dell'intelligenza volgare, finisce così:
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragion intendan bene,
tanto lor parli faticosa e forte:
onde se per ventura egli addiviene
che tu dinanzi da persone vadi,
che non ti paian d'essa bene accorte;
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella:
- Ponete mente almen com'io son bella. -
C'era dunque nell'intenzione di Dante di bandire i veri della
scienza ora nella forma diretta del ragionamento, ora sotto il
velo dell'allegoria, ma in modo che la poesia quando anche non
fosse compresa da' più, avesse un valore in se stessa,
fosse bella e dilettasse. Era la teoria della nuova scuola nella
sua più alta espressione, una coscienza artistica
più chiara e più sviluppata. Il rispetto della
verità scientifica è tale, che Dante si domanda
come, essendo Amore non sostanza, ma accidente, possa egli farlo
ridere e parlare, come fosse persona. E adduce a sua difesa che i
rimatori, che fanno versi in volgare, hanno gli stessi privilegi
de' poeti, nome che dà a' latini, i quali, come Virgilio,
Ovidio, Lucano, Orazio, diedero moto e parole alle cose inanimate:
il che egli chiama "rimare sotto vesta di figura o di colore
rettorico", qualificando rimatori stolti quelli che domandati non
sapessero "dinudare le loro parole da cotal vesta". Onde si vede
che Dante e Cavalcanti, ch'egli qui chiama il suo primo amico,
spregiavano e questi rimatori stolti che usavano rettorica vuota
di contenuto, e quelli che ti davano un contenuto scientifico
nudo, senza rettorica. Qui è tutta la nuova scuola poetica,
rimasa per molti secoli l'ultima parola della critica italiana:
ciò che il Tasso chiamò "condire il vero in molli
versi".
Con queste teorie, con queste abitudini della
mente, parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume di
rettorica, concetti coloriti. Di tal natura è la canzone
sulla gentilezza o nobiltà:
Le dolci rime d'amor ch'i' solìa
e l'altra:
Amor, tu vedi ben che questa donna,
dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta gli effetti
che sul suo animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni
dell'amore e della natura sono spiegati scientificamente,
più che rappresentati, com'è l'inverno nella
canzone:
Io son venuto al punto della rota,
e come è l'amore nella canzone:
Amor che muovi tua virtù dal cielo,
e come è la bellezza nella canzone:
Amor ci è nella mente mi ragiona.
Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile
e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Larghezza,
Temperanza, germane d'amore, che cacciate dal mondo vanno
mendicando.
Ciascuna par dolente e sbigottita
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca,
e cui virtute e nobiltà non vale.
Tempo fu già, nel quale
secondo il lor parlar, furon dilette
Or sono a tutti in ira ed in non cale.
Qui il poeta non ragiona, ma narra e rappresenta. Il concetto
scientifico è vinto dalla vivacità della
rappresentazione e dalla elevatezza del sentimento. Il colore
rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza.
In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben
altra forza e vivacità e ricchezza di concetti e di colori
che i due Guidi. Egli fu il suo proprio comentatore, avendo nella
Vita nuova e nel Convito spiegata l'occasione, il concetto, la
forma delle sue poesie. E quanto alla parte tecnica, all'uso della
lingua, del verso e della rima, nel suo libro De vulgari eloquio
mostra che ne intendeva tutt'i più riposti artifici. I
contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto esempio della
loro scuola poetica: la maggior dottrina sotto la più
leggiadra veste rettorica.
Il mondo lirico di Dante è la stessa
materia che s'era ita finora elaborando, con maggior
varietà e con più chiara coscienza. Il dio di questo
mondo è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti e le
immaginazioni della giovanezza, poi con un misticismo ed un
entusiasmo filosofico. Amore non può operare che ne' cuori
gentili: perciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi.
Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da
virtù. E però le virtù sono suore d'Amore e
fanno star lucente il suo dardo finchè sono onorate in
terra. Ma la virtù è in pochi, e l'amore è
perciò "di pochi vivanda". L'obbietto dell'amore è
la bellezza, non il "bello di fuori", le parti nude, ma il "dolce
pomo", concesso solo a chi è amico di virtù. La
bellezza non si mostra se non a chi la intende: amore è
chiamato dagli antichi "intendanza", e Dante non dice "sentire
amore", ma "avere intelletto d'amore". Ad appagare l'amore basta
il vedere, la contemplazione. Vedere è amore, amore
è intendere.
E chi la vede e non se n'innamora
d'amor non averà mai intelletto.
Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dio move l'universo pensando:
costei pensò chi mosse l'universo.
Nè altro è amore nell'uomo che "nova intelligenza
che lo tira su", lo avvicina alla prima intelligenza. La donna
esemplare della bellezza è "nobile intelletto":
... O nobile intelletto
oggi fu l'anno che nel ciel partisti.
La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella
faccia della scienza, che invaghisce l'uomo e sveglia in lui nova
intelligenza lo fa intendere. La donna dunque è la scienza
essa medesima, è la filosofia nella sua bella apparenza: e
questo è la bellezza il dolce pomo consentito a pochi.
Intendere è amore, e amore è operare come s'intende;
perciò filosofia è "uso amoroso di sapienza",
scienza divenuta azione mediante l'amore. La virtù non
è altro che sapienza, vivere secondo i dettati della
scienza. Perciò l'amante è chiamato saggio; e la
donna è saggia prima di esser bella:
Beltade appare in saggia donna pui
che piace agli occhi...
La beltà non è altro che l'apparenza della saggezza,
sì che piaccia e innamori di sè.
Con questo misticismo filosofico si accordava
il misticismo religioso, secondo il quale il corpo è il
velo dello spirito, e la bellezza è la luce della
verità, la faccia di Dio, somma intelligenza,
contemplazione degli angioli e dei santi. Dio, gli angioli, il
paradiso rappresentano anche qui la loro parte. Teologia e
filosofia si danno la mano.
È la prima volta che questo contenuto
esce fuori nella sua integrità e con così perfetta
coscienza. È l'idealismo di quel tempo, con la sua forma
naturale, l'allegoria. Aggiungi l'opera della immaginazione, che
dà alle figure tanta vivacità di colorito ed hai
l'ultimo segno di perfezione che si poteva allora desiderare.
III
LA LIRICA DI DANTE
Fin qui giunge la coscienza di Dante. Se gli domandi più in
là, ti risponde come Raffaello: "Noto, quando Amor mi
spira", ubbidisco all'ispirazione. E appunto, se vogliamo trovar
Dante, dobbiamo cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella
spontaneità della sua ispirazione. Innanzi tutto, Dante ha
la serietà e la sincerità dell'ispirazione. Chi
legge la Vita nuova, non può mettere in dubbio la sua
sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo
di astronomia e di cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio
e di Virgilio, di poeti e di rimatori; ma tutto questo non
è la sostanza del libro, ci entra come colorito e ne forma
il lato grottesco. Sotto l'abito dello studente ci è un
cuore puro e nuovo, tutto aperto alle impressioni, facile alle
adorazioni e alle disperazioni, ed una fervida immaginazione che
lo tiene alto da terra e vagabondo nel regno de' fantasmi. L'amore
per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama
Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella
sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che
nel cuore. Beatrice è più simile a sogno, a
fantasma, a ideale celeste, che a realtà distinta e che
produca effetti propri. Uno sguardo, un saluto è tutta la
storia di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che
fosse donna, e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione,
come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un sospiro. Appunto
perchè Beatrice ha così poca realtà e
personalità, esiste più nella mente di Dante che
fuori di quella, ed ivi coesiste e si confonde con l'ideale del
trovatore, l'ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza fatta
con perfetta buona fede, e perciò grottesca certo, ma non
falsa e non convenzionale. Queste che presso gli altri sono
astrattezze scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo
del quadro, sono non il quadro, ma contorni e accessorii. Il
quadro è Beatrice, non così reale che tiri e chiuda
in sè l'amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul
suo cuore e sulla sua immaginazione. Non ci è proprio
l'amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello
incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere se
stesso in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo
è tranquillo, fa capolino il dottore, il retore e il
rimatore; ma quando il suo animo è veracemente commosso,
Dante gitta via il suo berretto di dottore e le sue regole
rettoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce a
l'ispirazione. Allora è Beatrice, solo Beatrice, che occupa
la sua mente, e le sue impressioni, appunto perchè
immediate e sincere, sono quasi pure di ogni mescolanza. Il suo
amore si rivela schietto come lo sente, più adorazione e
ammirazione che appassionato amore di donna. Tale è il
sonetto
Tanto gentile e tanto onesta pare.
E tale è la ballata, ove con la grazia e l'ingenuità
di una fanciulla scesa pur ora di cielo così parla
Beatrice:
Io mi son pergoletta bella e nova,
e son venuta per mostrarmi a vui
dalle bellezze e loco, dond'io fui.
Io fui del cielo e tornerovvi ancora,
per dar della mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora,
d'amor non averà mai intelletto...
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute:
le mie bellezze sono al mondo nuove,
perocchè di lassù mi son venute.
Questo non è allegoria, e non è concetto
scientifico; o per dir meglio, ci è l'allegoria e ci
è il concetto scientifico, ma profondato ed obbliato in
questa creatura, perfettamente realizzato, conforme a quel primo
ideale della donna che apparisce all'immaginazione giovanile.
Se nell'espressione di questa ingenua
ammirazione trovi qualche reminiscenza di repertorio e qualche
preoccupazione scientifica, senti un accento di verità puro
ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa di questa
lirica. Perchè infine questa breve storia d'amore ha rari
intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di
Beatrice, il suo dolore, il presentimento della sua morte e la sua
morte sono la sostanza del quadro, il motivo tragico della poesia.
Finchè Beatrice vive, è un secreto del cuore che il
poeta s'industria con ogni più sottile arte di custodire;
la storia è poco interessante, intessuta di artificiose e
fredde dissimulazioni: ma quando quell'ideale della giovanezza
minaccia di scomparire, quando scompare, al poeta manca con quello
il fondamento della sua vita, e si sente solo e si sente morire
insieme con quello. Ne nasce una situazione nuova nella storia
della nostra poesia: l'amore appena nato, simile ancora a' primi
fuggevoli sogni della giovanezza, che acquista la sua
realtà presso alla tomba ed oltre la tomba. L'amore si
rivela nella morte. Là perde quell'aria fattizia e
convenzionale, che gli veniva da' trovatori e dalla scienza.
Là non è più concetto, nè allegoria,
ma è sentimento e fantasia. Quell'amore che in vita della
donna non si è potuto ancora realizzare, eccolo qui nella
sua schietta e pura espressione, ora che Beatrice muore. A questa
situazione si rannoda la parte più eletta e poetica di
questa lirica. Poi vengono sentimenti più temperati: il
poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice, ita nel
cielo, diviene la Verità, la cara immagine sotto la quale
il poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia della
Sapienza. Non hai più la Vita nuova, hai il Convito.
L'amore non è più un sentimento individuale, ma
è il principio della vita divina e umana. Beatrice nella
sua gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo, il dolce nome che
il poeta dà al suo nuovo amore, alla Filosofia.
Ma la filosofia non è in Dante astratta scienza: è
Sapienza, cioè a dire pratica della vita. Con che orgoglio
si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di
virtù, che ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza
di sangue, e ti dà la vera nobiltà, che ti viene da
te e non dagli altri. Intendere è per lui il principio del
fare; e la forza che dà attività all'intelletto ed
efficacia alla volontà è l'amore. In questa triade
è l'unità della vita: l'uno non può star
senza l'altro. Or tutto questo in Dante non è mera
speculazione, nè vanità scientifica; ma è
vero amore, ma è un sentimento morale così profondo
ed efficace, come è la fede ne' credenti. La filosofia
investe tutto l'uomo, e si addentra in tutti gli aspetti della
vita. Questa serietà e sincerità di sentimento fa
penetrare fra tante sottili e scolastiche speculazioni una
elevatezza morale, tanto più poetica, quanto meno espressa,
ma che si sente nel tono, nel colorito, nello stile. Tale è
la sublime risposta di Amore alle sorelle esuli, e quel subito
ritorno del poeta in sè medesimo:
L'esilio che m'è dato onor mi tegno;
e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria, quanta
è nella canzone sulla vera gentilezza. La quale elevatezza
morale non è disgiunta in lui da un certo orgoglio direi
aristocratico del sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla
sapienza: così alto ha collocato l'ideale della scienza e
della virtù:
... elli son quasi dèi
que' ch'han tal grazia fuor di tutt'i rei;
chè solo Iddio all'anima la dona.
Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e talora in
fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini,
"bestie che somigliano uomo. E dove non è virtù, non
è amore, e non dovrebbe esser bellezza: onde esorta le
donne a partirla da loro:
Chè la beltà ch'Amore in voi
consente
a virtù solamente
formata fu dal suo decreto antico
contra lo qual fallate.
Io dico a voi che siete innamorate,
che se beltate a voi
fu data e virtù a noi,
ed a costui di due potere un fare,
voi non dovreste amare,
ma coprir quanto di beltà v'è
dato
poichè non è virtù, ch'era
suo segno.
Lasso! A che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
sarebbe in donna di ragion lodato
partir da sè beltà per suo
comiato.
Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto
dell'amore, che fa uno di due, unisce bellezza e virtù. Ma
questo concetto è per Dante cosa vivente, è l'anima
del mondo, l'unità della vita. E poichè vede
bellezza, e non trova virtù, sente nella vita una scissura,
una discordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento
d'immaginazione così nuovo e originale, quel desiderare
nella donna e sperar poco un atto di "bel disdegno", per il quale
dica: - Poichè nell'uomo non è virtù, cesso
di esser bella, cesso di amare. - Dante si crede obbligato ad
argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui
è il suo torto, qui è la forma che lo certifica di
quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione
scolastica è un accessorio; la sostanza è il
sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel
concetto e la realtà: "Lasso! a che dicer vegno?". Il poeta
sente la vanità de' suoi desidèri e che il mondo
andrà sempre a quel modo.
Come l'amore si afferma nella morte,
così la filosofia si afferma nella sua morte, cioè
nella sua contraddizione con la vita. Qui trovi un sentimento
chiaro e vivo dell'unità della vita, fondata nella
concordia dell'intendere e dell'atto o, come si direbbe oggi,
dell'ideale e del reale, e insieme il dolore della scissura, che
mette il poeta in uno stato di ribellione contro l'uomo "caduto in
servo di signore", già signore di sè, ora servo
delle sue inclinazioni animali. Ma il sentimento di questa
contraddizione non uccide l'entusiasmo e la fede, come ne' poeti
moderni: l'anima del poeta è ancora giovane, piena di una
fede robusta, che il disinganno nobilita e fortifica; e
però il dolore del disaccordo non lo conduce alla negazione
della filosofia, anzi alla sua glorificazione, ad un più
ardente amore della derelitta, fiero di possederla e amarla egli
solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio tra la
gregge degli uomini.
Adunque, il primo carattere di questo mondo
lirico è la sua verità psicologica. Se c'è
negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale, il fondo
è vero, è la sincera espressione di quello che si
passa nell'animo del poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che
considera la vita seriamente. La vita è la filosofia, la
verità realizzata; e la poesia è la voce e la faccia
della verità. Amico della filosofia, con orgoglio non
minore si chiama poeta, il banditore del vero. Filosofo e poeta,
si sente come investito di una missione, di una specie di
apostolato laicale, e parla dal tripode alla moltitudine, con
l'autorità e la sicurezza di chi possiede la verità.
Ma il sentimento che move questo mondo lirico
così serio e sincero non rimane puramente individuale o
subiettivo; anzi la parte personale e contingente appena si
mostra: esso è l'accento lirico dell'umanità a quel
tempo, la sua forma di essere, di credere, di sentire e di
esprimersi. Quell'angeletta scesa dal cielo, che non giunge ad
esser donna, breve apparizione, che ritorna al cielo in bianca
nuvoletta, seguita dagli angioli che le cantano "Osanna", ma
rimasa in terra, come luce della verità, della quale
l'amante si fa apostolo, è tutto il romanzo religioso e
filosofico di quell'età: è la vita che ha la sua
verità nell'altro mondo e che qui non è che
Beatrice, fenomeno, apparenza, velo della eterna verità. Se
la terra è un luogo di passaggio e di prova, la poesia
è al di là della terra, nel regno della
verità. Beatrice comincia a vivere quando muore.
Un mondo così mistico e spiritualista
nel concetto, così dottrinale nella forma, se può
essere allegoricamente rappresentato dalla scultura, se trova
nella pittura e nella musica le sue movenze, le sue sfumature, il
suo indefinito, è difficilissimo a rappresentare con la
parola. Perchè la parola è analisi, distinzione,
precisione, e non può rappresentare che un contenuto ben
determinato, e ne' suoi momenti successivi, più che nella
sua unità. Analizzate questo mondo, e vi svanisce dinanzi,
come realtà o vita: l'analisi vi porta irresistibilmente al
discorso, al ragionamento, alla forma dottrinale, che è la
negazione dell'arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna
di questo mondo è la scienza, come concetto e come forma,
la pura scienza, non penetrata ancora nella vita e divenuta fatto.
È vero che per Dante la scienza dee essere non astratto
pensiero, ma realtà. Se non che il male è appunto in
questo "dee essere". Perchè, prendendo a fondamento non
quello che è, ma quello che dee essere, la sua poesia
è ragionamento, esortazione, non rappresentazione, se non
in forma allegorica, che aggiunge una nuova difficoltà ad
un contenuto così in se stesso astruso e scientifico.
I contemporanei sentirono la difficoltà
e credettero vincerla con la rettorica, ornando quei concetti di
vaghi fiori. Anche Dante credeva rendere poetica la filosofia,
dandole una bella faccia. Certo, questo era un progresso; ma siamo
ancora al limitare dell'arte, nel regno dell'immaginazione.
Guinicelli, Cino, Cavalcanti non possono attirare la nostra
attenzione, e neppur Dante, ancorchè dotato di una
immaginazione così potente. Anzi egli riesce meno di questi
suoi predecessori nell'arte dell'ornare e del colorire,
perchè quelli vi pongono il massimo studio, non essendo il
mondo da essi rappresentato che un gioco d'immaginazione, dove a
Dante quel mondo è lui stesso, parte del suo essere, e che
ha la sua importanza in se stesso: ond'egli è sobrio,
severo, schivo del "gradire", e spesso nudo sino alla rozzezza. E
non corre agli ornamenti, come mezzo rettorico e a fine di ornare
e di lisciare, ma per rendere palpabile ed evidente il suo
concetto.
Ma Dante vince in gran parte la
difficoltà appunto per questo, che quel mondo è vita
della sua vita e anima della sua anima. Esso opera non pure sulla
sua mente, ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in
quel mondo non è però sufficiente a farne un poeta.
La fede è la base, il sottinteso, la condizione preliminare
e necessaria della poesia, ma non è la poesia. Il poeta dee
essere un credente, ma non ogni credente è poeta;
può essere un santo, un apostolo, un filosofo. Dante non fu
il santo, nè il filosofo del suo mondo: fu il poeta. La
fede svegliò le mirabili facoltà poetiche che avea
sortito da natura.
Dante ha in supremo grado la principale
facoltà di un poeta, la fantasia, che non si vuol
confondere con l'immaginazione, facoltà molto inferiore.
L'immaginazione ti dà l'ornato e il colore, liscia la
superficie: il suo maggiore sforzo è di offrirti un
simulacro di vita nell'allegoria e nella personificazione. La
fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea,
è la vera musa, il "deus in nobis", che possiede il secreto
della vita, e te la coglie a volo anche nelle sue più
fuggevoli apparizioni, e te ne dà l'impressione e il
sentimento. L'immaginazione è plastica; ti dà il
disegno, ti dà la faccia: "pulcra species, sed cerebrum non
habet": l'immagine è il fine ultimo in cui si adagia. La
fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non
come espressione e parola della vita interiore. L'immaginazione
è analisi, e più si sforza di ornare, di disegnare,
di colorire, più le fugge il sostanziale, quel tutto
insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi:
mira all'essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni
e i sentimenti di persona viva e te ne porge l'immagine. La
creatura dell'immaginazione è l'immagine finita in se
stessa e opaca; la creatura della fantasia è il "fantasma",
figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito.
L'immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla
poesia e alla prosa, a' sommi e a' mediocri; la fantasia è
essenzialmente organica, ed è privilegio di pochissimi che
son detti Poeti.
Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo
secolo, così mistico e spirituale, resiste a tutti gli
sforzi dell'immaginazione. In balìa di questa esso non
è che un mondo rettorico e artificiale, di bella apparenza,
ma freddo e astratto nel fondo. Tale è il mondo di
Guinicelli, di Cavalcanti e di Cino. L'organo naturale di questo
mondo è la fantasia, e la sua forma è il fantasma.
Il suo primo e solo poeta è Dante, perchè Dante ha
l'istrumento atto a generarlo, è la prima fantasia del
mondo moderno.
Dante non accarezza l'immagine, non vi
s'indugia sopra, se non quando essa è lume che come
paragone dia una faccia al suo concetto. Sia d'esempio la sua
canzone all'Amore:
Amor che movi tua virtù dal cielo
come 'l sol lo splendore,
chè là s'apprende più lo
suo valore,
dove più nobiltà suo raggio
trova...
Ed hammi in foco acceso,
come acqua per chiarezza foco accende...
È sua beltà del tuo valor
conforto,
in quanto giudicar si puote effetto
sopra degno suggetto,
in guisa che al sol raggio di foco;
lo qual non dà a lui, nè to'
virtute;
ma fallo in alto loco
nell'effetto parer di più salute.
Queste immagini non sono il
concetto esso medesimo, ma paragoni atti a lumeggiarlo. È
la maniera del Guinicelli. Costui se ne pavoneggia, e vi spiega un
lusso e una pompa che passa il segno e affoga il concetto
nell'immagine. Dante è più severo, perchè il
concetto non gli è indifferente e non te ne distrae, anzi
per troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e irsuto
com'è da natura. Ma egli penetra in questo mondo di
concetti e ne fa il suo romanzo, la sua storia intima. Il concetto
allora, non che abbia bisogno di essere illuminato da una immagine
tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo
l'immagine. In quest'opera di trasformazione si rivela la
fantasia. Pigmalione non è più una statua di marmo;
ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona. La donna
astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi alla filosofia
un'idea platonica, l'esemplare di ogni bellezza e di ogni
virtù, eccola qui persona viva: è Beatrice,
quell'angeletta scesa dal cielo, che annunzia alle genti il suo
arrivo e racconta la sua bellezza:
Ciascuna stella negli occhi mi piove
della sua luce e della sua virtute.
Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi che
il concetto sia come seppellito e dimenticato nell'immagine
(miracolo dell'arte greca), nè questo avviene per manco di
calore e di fantasia. Dante è così immedesimato con
quel suo mondo intellettuale e mistico, che la sua fantasia non
può oltrepassarlo, non può materializzarlo. In
questa dissonanza può capitare l'artista a cui il contenuto
sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello, non il
poeta che ha un culto per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la
sua regola e il suo limite. Dante non può paganizzare quel
mondo dello spirito, appunto perchè esso è il suo
spirito, il suo mondo, il suo modo di sentire e di concepire. La
sua immagine è ricordevole e trascendente, e appena
abbozzata è già scorporata, fatta impressione e
sentimento. Non descrive: non può fissare e determinare
l'immagine, come quella a cui l'intelletto non giunge. Gli sta
innanzi un non so che, luce intellettuale, superiore
all'espressione, visibile non in se stessa ma nelle sue
impressioni. Perciò esprime non quello che ella è,
ma quello che pare. Ciò che è più chiaro
innanzi alla sua immaginazione, non è il corpo, ma lo
spirito, non è l'immagine, ma il suo "parere",
l'impressione:
Quel ch'ella par, quando un poco sorride,
non si può dicer, nè tenere a
mente:
sì è novo miracolo e gentile.
... .....
Ed avea seco umiltà sì verace,
che parea che dicesse: - Io sono in pace. -
E par che dalla sua labbia si mova
... .....
uno spirto soave e pien d'amore,
che va dicendo all'anima: - Sospira. -
Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto
molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che
esprimere impressioni. Beatrice non la vedi mai. Ella è
come Dio, nel santuario. Non la vedi, ma senti la sua presenza in
quel mondo tutto pieno di lei. Ella piange la morte del padre. Lo
sguardo del poeta non è là. Tu vedi lei nella faccia
sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che gli sono intorno,
che la udirono, e non osarono di guardarla:
che qual l'avesse voluta mirare,
saria dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
... . ogni lingua divien tremando muta
e gli occhi non
l'ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non descritta,
non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun atto,
non restano che due immagini: del nascere e del morire,
l'angeletta scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta.
Dante non vede lei morire. La vede in sogno, e già morta, e
quando le donne la coprian di un velo. Ma se della morte non ci
è l'immagine, ce n'è il vivo sentimento:
... Morte, assai dolce ti tegno:
tu dèi omai esser cosa gentile,
poi che tu se' nella mia donna stata,
e dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi, ch' è sì desideroso vegno
d'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
Vieni, chè 'l cor ti chiede.
L'universo muore con Beatrice:
Ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere appoco appoco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger egli ed ella;
cader gli augelli volando per l'äre,
e la terra tremare:
e uom m'apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua ch'era sì
bella.
"Sì bella!" Questa è l'immagine. Gli basta chiamarla
bella, chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini, essi soli
indifferenti in tanto dolore:
Chè non piangete, quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente?
Se voi restate per volere udire,
certo lo core de' sospir mi dice
che lagrimando ne uscirete pui.
Ella ha perduta la sua Beatrice;
e le parole ch'uom di lei può dire,
hanno virtù di far piangere altrui.
La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli
altri, in quello che fa sentire. L'immagine è
immediatamente trasformata in sentimento. E questa immagine
spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama
il fantasma, esistente più nella immaginazione del lettore
che nella espressione del poeta. Ciascuno si fa una Beatrice a sua
maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo nel regno
musicale dell'indefinito. Beatrice è un rêve, un
sogno, una visione. La stessa sua morte è un sogno, o, come
dice Dante, una fantasia, accompagnata di particolari patetici e
drammatici, perchè il poeta è vittima de' suoi
fantasmi, e vive entro a quel mondo e ne sente e riflette tutte le
impressioni. Beatrice muore, perchè "esta vita noiosa"
non era degna di sì gentil cosa;
e tornata gloriosa nel cielo, diviene "spiritual bellezza grande"
che spande per lo cielo luce d'amore e fa la maraviglia degli
angioli. Questa bellezza spirituale, o, come dice Dante altrove,
"luce intellettual, piena d'amore", è il mondo lirico
realizzato nell'altra vita, dove il fantasma sparisce e la
verità ti si porge nel suo splendore intellettuale, pura
intelligenza, bellezza spirituale, scorporata. Il fantasma, quella
mezza realtà a contorni vaghi e indecisi, più
visibile nelle impressioni e ne' sentimenti che nelle immagini,
non era che il presentimento, il velo, la forma preparatoria di
questo regno del puro spirito; era l'ombra dello spirito. Ora la
luce intellettuale dissipa ogni ombra: non hai niente più
d'indeciso, niente più di corporeo: sei nel regno della
filosofia, dove tutto è precisione e dogmatismo, tutto
è posto con chiarezza, e discorso a modo degli scolastici.
E poichè la filosofia non è potuta divenire
virtù, poichè in terra essa è proscritta,
rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale.
L'impressione ultima è che la terra è il regno delle
ombre e de' fantasmi, la selva dell'ignoranza e del vizio, la
tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore, e
che la realtà, l'eterna e Divina Commedia, è
nell'altro mondo.
Nè prima, nè poi fu immaginato un
mondo lirico così vasto nel suo ordito, così
profondo nella sua concezione, così coerente nelle sue
parti, così armonico nelle sue forme, così personale
e a un tempo così umano. Esso è l'accento lirico del
medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle sue visioni, la voce
dell'umanità a quel tempo. Il mistero di questo mondo
religioso-filosofico è la Morte "gentile", come passaggio
dall'ombra alla luce, dal fantasma alla realtà, dalla
tragedia alla commedia, o, come dice Dante, alla pace. La morte
è il principio della vita, è la trasfigurazione.
Perciò il vero centro di questa lirica, la sua vera voce
poetica è il sogno della morte di Beatrice, là dove
sono in presenza questa vita e l'altra, e mentre il sole piange e
la terra trema, gli angioli cantano "Osanna", e Beatrice par che
dica: - Io sono in pace -. Ci è la terra co' suoi dolori e
il cielo con le sue estasi, il mondo lirico nel momento misterioso
della sua unità. Non credo che la lirica del medio evo
abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante, di una
rara perfezione per chiarezza d'intuizione, per fusione di tinte,
per profondità di sentimento, per correzione di condotta e
di disegno, per semplicità e verità di espressione.
Ma se questo mondo logicamente è uno e
concorde, esteticamente è scisso, perchè non
è insieme terra e cielo, ma è ora l'uno, ora
l'altro, imperfetti ambidue. Il fantasma è spesso simile
più ad un'allegoria che ad una realtà, ed è
stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia. La
realtà è pura scienza, in forma scolastica. Si
può dire che quando in questo mondo comincia la
realtà, allora appunto muore la poesia, s'inaridisce la
fantasia e il sentimento. È un difetto organico di questo
mondo, che resiste a tutti gli sforzi dell'arte, resiste a Dante.
D'altra parte, Dante vi si mostra più
poeta che artista. Quel mondo è per lui cosa troppo seria,
perchè possa contemplarlo col sereno istinto dell'arte.
Poco a lui importa che la superficie sia scabra, purchè ci
sia sotto qualche cosa che si mova. Perciò è sempre
evidente, spesso arido e rozzo. L'Italia ha già il suo
poeta; non ha ancora il suo artista.
IV
LA PROSA
Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione
del volgare, non minore opera vi diedero i bei favellatori, o
favoleggiatori. "Favella" viene da "fabella", favoletta, e
perciò le lingue moderne furon dette "favelle", lingue de'
favoleggiatori. Costoro nelle corti e ne' castelli raccontavano
novelle, come i rimatori poetavano d'Amore. Così gl'inizi
della nostra lingua furono
versi d'amore e prose da romanzo.
Come i versi, così le prose aveano già tutto un
repertorio venuto dal di fuori. I rimatori attingevano nel codice
d'Amore; i novellatori o favellatori attingevano ne' romanzi della
Tavola rotonda o di Carlomagno. Il cavaliere errante era il tipo
convenzionale degli uni e degli altri.
Questa letteratura non produsse altro che
traduzioni come sono i Conti di antichi cavalieri, la Tavola
rotonda e i Reali di Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il re
Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno, Orlando erano gli eroi
dell'immaginazione popolare. Oggi ancora i cantastorie napoletani
raccontano ad una plebe avida di fatti maravigliosi le geste di
Orlando e di Rinaldo. Anche la storia romana prese questa forma.
Un codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa, ed
è la versione del Giulio Cesare, romanzo in versi rimati di
Jacques de Forest. La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata
con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca. Cicerone,
"mastro di rettorica" e "buono chierico", così comincia una
sua aringa a Pompeo: "Li re e conti e baroni e l'altro popolo ti
richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio". E non
è maraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita
cavalleresca. Si leggono non senza diletto i Diurnali, o come oggi
si direbbe, giornali di Matteo Spinelli, la più antica
cronaca italiana, non solo per la semplicità e naturalezza
del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la
vaghezza de' fattarelli, che pare un favellatore e non uno
storico. Di maggior mole è la Storia di Firenze di
Ricordano Malespini, che dagli inizi della città si stende
sino al 1282. Quando narra fatti contemporanei, è
testimonio veridico ed esatto, nè la sua fede guelfa lo
induce ad alterare i fatti. Ma quando esce da' suoi tempi, ti
trovi nell'infanzia della coltura. Anacronismi ed errori
geografici sono accoppiati con la più grossolana
credulità nelle favole più assurde, improntate di
tutto il maraviglioso de' romanzi cavallereschi. Dice che la
chiesa di san Pietro fu fondata a' tempi di Ottaviano, quando san
Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di
Pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica di
Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di san Giovanni in
Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da
"pisare" o "pesare", Lucca da "luce", e Pistoia da "pistolenzia";
narra gli amori di Catilina con la regina Belisea, moglie del re
Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Belisea, e pare una
pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.
In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e
incerta, desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun
indizio di periodo, nessun colorito: non ci è ancora
l'"io", la personalità dello scrittore.
Come la poesia, così la prosa
cavalleresca poco attecchì in Italia. Non solo non ci fu
nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione. Tutto quel
maraviglioso è riprodotto con quella stessa aridità
e indifferenza, che senti nel Malespini, anche quando narra fatti
commoventissimi, come la morte di Manfredi, o di Bondelmonte. Come
l'uomo inculto parla assai meglio che non scrive, è a
presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con
una vivacità d'immaginazione e di affetto, che non trovi
ne' racconti e nelle cronache. Ci è una raccolta di
novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi e appunti, anzi
che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si danno a'
giovinetti per esercizio di scrivere. Il libro fu detto "fiore del
parlar gentile"; e veramente vi è tanta grazia e
proprietà di dettato che stenti a crederlo di quel secolo,
e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti
più tardi. Ma se la lingua è assai più
schietta e moderna che non è ne' Conti di antichi cavalieri
e ne' romanzi di quel tempo, è in tutti la stessa
aridità. Ci è il fatto ne' suoi punti essenziali,
spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli danno
colore, e senza le impressioni e i sentimenti che gli danno
interesse. Pure, quando il fatto è semplice e breve, e non
richiede arte, basta a conseguire l'effetto quella naturalezza e
quel candore pieno di verità che è nel racconto.
Eccone un esempio:
"Leggesi del re Currado, padre di Corradino,
che quando era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua
etade. Quando lo re Currado fallava, li maestri che gli eran dati
a guardia, non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi
compagni per lui. E quei dicea: - Perchè non battete me,
chè mia è la colpa? - Diceano li maestri: -
Perchè tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per
te: onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, che altri
porti pena delle tue colpe. - E perciò si dice che lo re
Currado si guardava molto di fallire per la pietà di
coloro."
Se il romanzo e la novella non giunse ad esser
popolare tra noi, e non divenne un lavoro d'arte, la ragione
è che una materia tanto poetica si mostrò quando
lingua e arte erano ancora nell'infanzia, e rimasa fuori della
vita e dei costumi riuscì un frivolo passatempo, come fu
della poesia cavalleresca. Trattata da illetterati, questa materia
non potè svilupparsi e formarsi, sopravvenuto in breve
tempo il risorgimento de' classici e il rifiorire delle scienze,
che trasse a sè l'animo delle classi colte. Quantunque
"chierico" significasse ancora uomo dotto, e da' pergami e dalle
cattedre si parlasse ancora latino, ed in latino si scrivessero le
opere scientifiche, già il laicato usciva dalle
università vigoroso ed istrutto, con la giovanile
confidenza nella sua dottrina e nella sua forza. Se il chierico
tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio
della sua milizia, lo spirito laicale tendeva a diffonderla, a
volgarizzarla, a farla patrimonio comune. La libertà
municipale, aprendo la vita pubblica a tutte le classi, costituiva
in modo stabile un laicato colto e operoso, a cui non bastava
più il latino, e che, formato nelle scuole, superbo della
sua scienza, in quotidiana comunione con le altre classi, aveva
già un complesso d'idee comuni, che costituivano la base
della coltura. Erano nuove forze che entravano in azione e davano
un indirizzo proprio alla vita italiana. A quella gente quei
romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di oziosi,
spasso di plebe. Le idee religiose, così come venivano
bandite dal pergamo, non doveano aver molta grazia a' loro occhi;
quella semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco
gradire a quegli uomini, che tutto codificavano e sillogizzavano.
Certo non fu perciò estinta la razza de' novellatori e de'
predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne
allontanò, e i Conti de' cavalieri e le Vite de' santi
rimasero occupazione di uomini semplici e inculti, senza eco e
senza sviluppo. La società mirava a divulgare la scienza, a
diffondere le utili cognizioni, a far sua tutta la cultura
passata, profana e sacra. I suoi eroi furono Virgilio, Ovidio,
Livio, Cicerone, Aristotile, Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio,
santo Agostino e san Tommaso. Il volgare divenne l'istrumento
naturale di questa coltura. I poeti bandivano la scienza in verso;
i prosatori traslatavano dal latino gli scrittori classici, i
moralisti e i filosofi. Era un movimento di erudizione e di
assimilazione dell'antichità, che durò parecchi
secoli, e che ebbe una grande azione sulla nostra letteratura. La
materia, a cui più volentieri si volgevano i traduttori,
era l'etica e la rettorica, l'arte del ben fare e l'arte del ben
dire. Una delle più antiche versioni è il Libro di
Cato o Volgarizzamento del Libro de' costumi, opera scritta in
distici latini e divisa in quattro libri. L'opera ebbe tanta voga,
che se ne fecero tre versioni, ed è spesso citata dagli
scrittori. Nè è maraviglia, perchè ivi la
morale è nella sua forma più popolana, essendo
ciascuna regola del ben vivere chiusa in un distico, a guisa di
motto o proverbio o sentenza, facile a tenere in memoria. Ecco un
esempio:
Virtutem primam esse puto, compescere linguam:
proximus ille Deo est Qui scit ratione tacere.
Ed è tradotto egregiamente così:
Costringere la lingua credo che sia la prima
vertude:
quelli è prossimo di Dio, che sa tacere
a ragione.
Esercizio utilissimo a' giovani sarebbe il raffronto delle tre
versioni, che ti mostra la lingua ne' diversi stati della sua
formazione. La terza versione, pubblicata dal Manni, ha per
compagna l'Etica di Aristotile e la Rettorica di Tullio. Questa
Rettorica di Tullio è il Fiore di rettorica, attribuito a
frate Guidotto da Bologna, e da altri con più
verisimiglianza a Bono Giamboni, e che comincia così: "Qui
comincia la Rettorica nuova di Tullio, traslatata da grammatica in
volgare per frate Guidotto da Bologna". Che importanza avesse la
rettorica, e quali miracoli potea produrre, si vede da queste
parole del traduttore:
"Fu uno nobile e vertudioso uomo, cittadino
nato di Capova del regno di Puglia, il quale era fatto abitante
della nobile città di Roma, che avea nome Marco Tullio
Cicerone, lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia di
rettorica, la quale avanza tutte le altre scienzie per la bisogna
di tutto giorno parlare nelle valenti cose, siccome in far leggi e
piati civili e cherminali, e nelle cose cittadine, siccome in fare
battaglie, ed ordinare schiere, e confortare cavalieri nelle
vicende degl'imperii, regni e principati, e governare popoli e
regni e cittadi e ville, e strane e diverse genti, come conversano
nel gran cerchio del mappamondo della terra."
Il libro è dedicato a re Manfredi, il
quale vi potrà avere "sufficiente e adorno ammaestramento a
dire in piuvico e in privato". Accanto a Cicerone comparisce il
grande poeta Virgilio, "il quale Virgilio si trasse tutto il
costrutto dello intendimento della rettorica, e ne fece chiara
dimostranza". Il frate, cercando le "magne virtudi" di Cicerone,
aggiunge: "Sì mi mosse talento di volere alquanti membri
del Fiore di rettorica volgarizzare di latino in nostra lingua,
siccome appartiene allo mestiere de' laici, volgarmente". Onde
pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei
laici, scrivendo i chierici in latino. Queste citazioni sono il
ritratto del tempo. Ci si vede la grande impressione che facea su
quelle menti Virgilio e Cicerone, "d'arme maraviglioso cavaliere,
franco di coraggio, armato di grande senno, fornito di scienzia e
di discrezione, ritrovatore di tutte le cose". E ci si vede pure
la gran fede nei miracoli della scienza, come se a vivere con
buoni costumi e a ben dire in pubblico e in privato bastasse
imparare le regole dell'etica e della rettorica. Nè si
recavano in volgare le opere solo dell'antichità, ma anche
le contemporanee scritte in latino. Cito fra gli altri il
volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia, notaio pistoiese,
de' Trattati di morale, dottissima opera di Albertano da Brescia,
scritta in prigione. Il primo trattato, Della dilezione di Dio e
del prossimo e della forma della vita onesta, è composto
l'anno 1238. L'opera levò tal grido, che fu tradotta in
francese e in inglese, e veramente ci è lì dentro
raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all'onesto vivere,
sacra e profana. L'impulso fu tale che gli uomini più
chiari si volsero a tradurre o compendiare grammatiche,
rettoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina. Ristoro di
Arezzo scrivea sulla Composizione della terra; Cavalcanti scrivea
una grammatica e una rettorica; ser Brunetto traduceva il trattato
De inventione di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di
Livio, e sotto nome di Fiore di filosofi e di molti savi
raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora,
Democrito, Socrate, Epicuro, Teofrasto, e di uomini illustri, come
Papirio, Catone. Ecco i "fiori" di Plato:
"Plato fue grandissimo savio e cortese, in
parole, e disse queste sentenzie:
In amistade, nè in fede non ricevere
uomo folle: più leggermente si passa l'odio de' folli e de'
malvagi, che la loro compagnia.
A neuno uomo ti fare troppo compagno. L'uomo
è cosa troppo singolare: non puote sofferire suo pare, de'
suoi maggiori hae invidia, de' suoi minori hae disdegno, a' suoi
iguali non leggeremente s'accorda.
Quelli sono pessimi e maliziosi nimici, che
sono nella fronte allegri e nel cuore tristi."
Secondo la rettorica di quel tempo si diceva "fiore" quel
raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un
bel mazzetto. E si diceva anche "giardino", come spiegava Bono
Giamboni nel suo Giardino di consolazione, versione del latino: "e
chiamasi questo Giardino di consolazione, imperò che
siccome nel giardino altri si consola e trova molti fiori e
frutti, così in questa opera si trovano molti e begli
detti, li quali l'anima del divoto leggitore indolcirà e
consolerà". In effetti questo bel libro, dov'è molta
semplicità e grazia di dettato, è una descrizione
de' vizi e delle virtù, con sopra ciascuna materia i detti
de' savi e de' santi Padri, tanto che si può veramente dire
dell'autore: "il più bel fior ne colse". Ecco il capitolo
Dell'Ebrietade:
"Ebrietade, secondo che dice santo Agostino,
è vile sepoltura della ragione e furore della mente". Anche
dice: "La ebrietà è lusinghiere demonio, dolce
veleno, soave peccato. Anche dice: la ebrietà molti ne ha
guasti, toglie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo
ingegno, accende alla lussuria, mai non tiene segreto, induce a
male parole." Santo Basilio dice: "l'ebro, quando pensa bere,
sì è beuto: come lo pesce che con grande desiderio
inghiottisce l'esca nella sua gola e non sente l'amo; così
l'ebro, bevendo il vino, riceve in sè nemico senza
ragione." E santo Paolo dice: "non t'inebriare di vino,
imperò che di vino esce lussuria."
Nè solo "fiore" o "giardino", ma si
diceva pure "tesoro" o "convito", quasi mostra di ricche pietre
preziose, o di elettissime vivande. Brunetto, che scrisse il
Fiore, avea già scritto il Tesoro, "in romanzo o lingua
francesca", come "più dilettevole e più comune che
tutti gli altri linguaggi", e voltato poi in volgare da Bono
Giamboni. Il Tesoro è il Cosmos di quel tempo,
l'universalità della scienza come s'insegnava nelle scuole,
la somma o il compendio del sapere, e per dirla con le parole di
Brunetto, "un'arnia di mèle tratta di diversi fiori", un
"estratto di tutt'i membri di filosofia in una somma brevemente".
Prende capo dalla filosofia, siccome "radice di cui crescono tutte
le scienze", ed è descrizione di Dio, dell'uomo, della
natura. Segue l'etica, o filosofia pratica, e poi la rettorica,
che ha come appendice la politica, o l'arte di ben governare gli
stati. È il disegno di una prima facoltà
universitaria, che prepara con questi studi i giovani alle scienze
speciali. Questa vasta compilazione, di cui non era esempio, parve
una maraviglia. Ma più importanti erano i trattati
speciali, dove gli scrittori mostravano qualche
originalità, come furono i tre trattati di Albertano e il
famoso trattato De regimine principum di Egidio Colonna,
dottissimo patrizio napolitano, volgarizzato da un toscano.
Il luogo che teneva la fede, venne occupato
dalla filosofia. Non che la filosofia negasse la fede, anzi era
proprio di quel tempo aver fede in tutto quello che era scritto;
ma sotto quella forma s'affermava la società colta, e si
distingueva da' semplici e dagl'ignoranti. Il luogo comune di
tutte le invenzioni era l'eterno Giobbe l'uomo colpito
dall'avversità, che maledice prima alla vita e trova poi
rimedio e consolazione nella filosofia, ovvero nello studio della
scienza, nella visione delle opere divine e umane. Questo spiega
la grande popolarità del libro di Boezio Della
consolazione, fondato appunto su questa base, dove la filosofia
è rappresentata "in sembianza di donna, in tale abito e in
sì maravigliosa potenzia, che cresceva quando le piaceva,
tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al
cielo, e poggiava a monte e a valle". Tale è pure la
visione di ser Brunetto Latini nel Tesoretto, ch'è visione
delle cose umane "secondo il corso stabilito a ciascheduna":
Io le vidi ubbidire,
finire e incominciare,
morire e 'ngenerare.
La stessa base ha il libro, Introduzione alle virtù, di
Bono Giamboni. È un giovine, "caduto di buono luogo in
malvagio stato", che narra di sè in questo modo:
"Seguitando il lamento che fece Giobbe,
cominciai a maledire l'ora e il die che io nacqui e venn'in questa
misera vita, e il cibo che in questo mondo m'avea nutricato e
governato. E pienamente luttando con guai e gran sospiri, i quali
venieno della profondità del mio petto, fra me medesimo
dissi: - Dio onnipotente, perchè mi facesti tu vivere in
questo misero mondo, acciocch'io patissi cotanti dolori e portassi
cotante fatiche e sostenessi cotante pene? Perchè non mi
uccidesti nel ventre della madre mia, o incontanente che nacqui
non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempio alle
genti, che neuna miseria d'uomo potesse nel mondo più
montare? - Lamentandomi duramente nella profondità di
un'oscura notte nel modo che avete udito di sopra, e dirottamente
piangendo m'apparve di sopra al capo una figura, che disse: -
Figliuolo mio, forte mi maraviglio, che essendo tu uomo, fai
reggimenti bestiali, perciocchè stai sempre col capo
chinato, e guardi le oscure cose della terra, laonde sei infermato
e caduto in pericolosa malattia. Ma se tu dirizzassi il capo e
guardassi il cielo e le dilettevoli cose del cielo considerassi,
come dee fare uomo naturalmente, e di ogni tua malattia saresti
purgato, e vedresti la malizia de' tuoi reggimenti, e sarestine
dolente. Or non ti ricorda di quello che disse Boezio: che,
conciossiacosachè tutti gli altri animali guardino la
terra, e seguitino le cose terrene per natura, solo all'uomo
è dato a guardare il cielo, e le celestiali cose
contemplare e vedere? - Quando la boce ebbe parlato... , si
riposò una pezza, aspettando se alcuna cosa rispondessi o
dicessi; e vedendo che stava mutolo, e di favellare neuno
sembiante facea, si rappressò verso me, e prese i ghironi
del suo vestimento, e forbimmi gli occhi, i quali erano di molte
lacrime gravati per duri pianti ch'io avea fatto... Allora apersi
gli occhi e guardaimi dintorno, e vidi appresso di me una figura
bellissima e piacente, quanto più innanzi fue possibile
alla natura di fare. E della detta figura nascea una luce tanto
grande e profonda, che abbagliava gli occhi di coloro che guardare
la volieno: sicchè poche persone la poteano fermamente
mirare. E della detta luce nasceano sette grandi e maravigliosi
splendori che alluminavano tutto il mondo. E io vedendo la detta
figura così bella e lucente, avvegna che avessi dallo
incominciamento paura, m'assicurai tostamente, pensando che cosa
rea non potea così chiara luce generare. Cominciai a
guardar la figura tanto fermamente, quanto la debolezza del mio
viso poteva sofferire. E quando l'ebbi assai mirata, conobbi
certamente ch'era la Filosofia, nelle cui magioni avea lungamente
dimorato. Allora incominciai a favellare e dissi: - Maestra delle
virtudi, che vai tu facendo in tanta profondità di notte
per le magioni de' servi tuoi? - "
Seguono discorsi tra questo servo della
Filosofia e la Filosofia, il cui costrutto è questo: che la
vita terrestre è vita di prova; e la vera vita è in
cielo, se però "porti in pace le pene e le tribulazioni di
questo mondo, chi vuole essere verace figliuolo di Dio, e non
bastardo, pensando, che s'egli sarà compagno di Dio nelle
passioni, sarà suo compagno nelle consolazioni". La
Filosofia finisce con questo lamento:
"O umana generazione, quanto se' piena di
vanagloria, e hai gli occhi della mente, e non vedi! Tu ti
rallegri delle ricchezze e della gloria del mondo, e di compiere i
desidèri della carne, che possono bastare quasi per uno
momento di tempo, perchè poco basta la vita dell'uomo: e
queste sono veracemente la morte tua, perchè meritano
nell'altro mondo molte pene eternali. E della povertà e
delle tribulazioni del mondo ti turbi e lamenti, che poco tempo
possono durare: e queste sono veracemente la tua vita,
perchè se si comportano in pace, meritano nell'altro mondo
molta gloria perpetuale... Disse uno savio: - Quello che ne
diletta nel mondo è cosa di momento, e quello che ne
tormenta nell'altro, durerae mai sempre."
E segue, citando i detti dell'Apostolo, di san
Pietro e di Salomone.
Questo era il tèma comune
delle prediche, salvo che qui il predicatore è la
Filosofia, che si fa interprete di Dio, e cita Salomone e san
Pietro e i santi Padri. Questo concetto è l'idea
fondamentale della "leggenda", una storia fantastica, la cui base
è il peccatore condannato o redento. In queste leggende Dio
e il demonio sono gli attori principali: Dio che co' suoi angioli
e le sue virtù tira l'anima alla rinunzia de' beni
terrestri e alla contemplazione delle cose celesti, e il demonio
che la tiene stretta e affezionata alla terra. L'uomo, mosso dalle
naturali inclinazioni, vende l'anima al demonio pur d'essere
felice in terra, e lo spettacolo finisce nelle tenebre e nel fuoco
dell'inferno. Ma spesso la tragedia si solve nella commedia,
cioè nel trionfo e nel gaudio dell'anima, quando, aiutata
dalla divina grazia, sa riscattarsi dal demonio e acquistare il
paradiso. Questa lotta tra Dio e il demonio è la battaglia
dei vizi e delle virtudi, che nella Introduzione alle virtù
del Giamboni la Filosofia mostra al suo servo, perchè in
quella immagine fortifichi la sua fede. Questa è pure la
base della leggenda del dottore Fausto che vendè l'anima al
diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa
immortale da Goethe. E questo è anche il concetto del mondo
lirico dantesco, dove Beatrice diviene la Filosofia, e le gioie e
i dolori dell'amore terrestre svaniscono nella contemplazione
intellettuale della Scienza.
Così il secolo decimoterzo si chiude con
uno stesso concetto, esposto in prosa e in poesia. Brunetto,
Giamboni e Dante s'incontrano nella stessa idea, o per dir meglio,
era questa l'idea comune, elaborata in tutto il medio evo, e che
sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta,
consapevole di sè. Ma in prosa non trovò
quell'adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo
lirico. Mancò la leggenda, com'era mancata la novella, e
mancò il romanzo religioso o spirituale, com'era mancato il
romanzo cavalleresco. Lo scrittore è più intento a
raccogliere che a produrre. Fra tanti "Fiori" e "Giardini" e
"Tesori" manca l'albero della vita, l'anima impressionata e fatta
attiva che produca. Ci è un lavoro di traduzione e di
compilazione, non ci è ancora un lavoro di assimilazione, e
tanto meno di produzione. Le ricchezze son tante, che tutta
l'attività dello spirito è consumata a raccoglierle,
anzi che a crearne di nuove. Senti una stanchezza a leggere queste
traduzioni o compilazioni, dove niente è affermato senza un
"ipse dixit", o piuttosto "ipsi dixerunt", tante e così
accumulate sono le citazioni. E non ci è tregua, non
digressioni, non varietà in questi "giardini", dove hai
innanzi un cicerone insopportabile, sempre con la stessa voce e lo
stesso tuono. Nessun movimento d'immaginazione o di affetto;
nessun vestigio di narrazione o descrizione; l'esposizione
didattica, il trattato, riempie l'intelletto, e t'uccide l'anima.
L'espressione più chiara del secolo furono i dottissimi
Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e compilatori
infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le opere avanti
accennate, ha tradotto pure le Storie di Paolo Orosio, l'Arte
della guerra di Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di
Martino Dumense.
La gloria di questo secolo, cominciatore di
civiltà, è di aver preparato il secolo appresso,
lasciandogli in eredità una ricca messe di cognizioni fatte
volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica.
Quel tradurre fu un esercizio utilissimo, che diede forma e
stabilità alla nuova lingua, e quella pieghevolezza ed
evidenza che viene dalla necessità di rendere con esattezza
il pensiero altrui. Principe de' traduttori fu Bono Giamboni,
così terso e fresco che molte pagine con lievi correzioni
si direbbero scritte oggi, soprattutto dove sono descrizioni di
animali o di virtù e di vizi.
In queste prose didattiche non ci è di
arte neppure intenzione. Ai contemporanei di Cino, di Cavalcanti,
di Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai povera
cosa. E si venne confermando l'opinione che il volgare non fosse
buono che a dire di amore, e che le materie gravi si dovessero
trattare in latino, come costumavano gli scrittori di polso.
V
I MISTERI E LE VISIONI
Al punto a cui siamo giunti, ci si porge chiara l'immagine
delsecolo decimoterzo. Due sono le fonti di quella letteratura
primitiva: la cavalleria e le sacre scritture. L'eroe della
cavalleria, il cavaliere, è l'uomo che si sforza di
realizzare in terra la verità e la giustizia, di cui
è immagine la donna, suo culto e amore. La sua vita
è attiva, piena di avventure e di fatti maravigliosi. Senti
la sua presenza nella più antica lirica, nelle novelle, ne'
romanzi e nelle cronache. Ma la cavalleria, venutaci di fuori, con
gli stranieri che occupavano il nostro suolo, non prese radice,
non si sviluppò, non produsse alcuna opera originale,
rimase stazionaria. Perdette il suo carattere serio e quasi
religioso e restò un puro gioco d'immaginazione, che si
mescola come colorito e accessorio in tutte le storie, sacre e
profane. Di ben altra efficacia era l'idea religiosa, penetrata
ne' sentimenti e ne' costumi e nelle istituzioni, compagna
dell'uomo in tutti gli stati della vita. L'eroe cristiano è
chiamato pure "cavaliere", il "cavaliere di Cristo"; ma è
un eroe contemplativo, il cui tipo è il frate, il romito,
il santo. Come il cavaliere errante, anche lui rinunzia ed ha a
vile i beni terrestri, ma la vita dell'uno è militante,
quella dell'altro è contemplante: ci è in fondo la
stessa idea, di cui l'uno è il soldato, l'altro è il
sacerdote. Certo, questi due tipi entrano spesso l'uno nell'altro,
e il frate diviene il templario o il cavaliere di Malta, soldato
della fede, e il cavaliere errante finisce romito e penitente. Ma
il cavaliere, gittandosi nelle più strane avventure,
dimentica e fa dimenticare il cielo, attirata l'attenzione dal
maraviglioso delle opere, sì che destano uguale
curiosità e interesse le geste de' cristiani e de'
saracini, e la rappresentazione rimane terrena. L'altro al
contrario passando la vita ne' digiuni, nella povertà,
nella castità e nell'orazione, ci tien sempre viva innanzi
l'immagine dell'altro mondo; e perciò questa vita
contemplativa è schiettamente religiosa; anzi è ivi
la perfezione, ivi il più alto ideale. La passione
dell'anima è l'esser legata al corpo, alla carne, e la sua
beatitudine o santificazione è sciogliersi da quella e star
con Cristo: al che è via la contemplazione e la preghiera.
Nelle tre allegorie sull'anima pubblicate dal Palermo è
detto: "Ogni bene e virtù, qualunque vogli, e buono in
sè medesimo, ma la preghiera solamente trae a sè
tutte le altre virtù". In queste allegorie compariscono tre
esseri, che sono i tre gradi della santificazione: "Umano",
"Spoglia" e "Rinnova". Dapprima l'anima, impacciata dal terrestre,
dall'"Umano", non può scorgere il vero che sotto figura,
nel sensibile. Il secondo essere, "Spoglia", è la
virtù che monda e purga l'anima dagli affetti terrestri,
insino a che viene "Rinnova", luce mentale, che "rinnova l'anima
in tutto e mostra la verità senz'ombra e senza figura".
Questi tre gradi di santificazione comprendono tutta la vita del
cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e nella carne, non vede
che un barlume del vero, e non giunge all'ultima luce mentale,
all'ultimo grado, se non purificandosi e mondandosi della parte
terrestre. Anch'egli ha le sue battaglie, ma col demonio e con la
carne, ch'egli macera e mortifica d'ogni maniera, e le sue armi
sono la contemplazione e la preghiera. Il maraviglioso di questa
vita non è solo ne' miracoli, ma in quella forza di
volontà che trae l'uomo a vincere tutti gli affetti e le
inclinazioni naturali, com'è in santo Alessio, il tipo
più commovente di questi cavalieri di Cristo. La creazione
del mondo, il peccato originale, le profezie, la venuta di Cristo,
la sua passione, morte e trasfigurazione, l'anticristo e il
giudizio universale sono l'epopea, il fondo storico a cui si
annodano tante vite di santi. E questa storia dell'umanità
era tutt'i giorni innanzi al popolo, nella predica, nella
confessione, nella messa, nelle feste. La messa non è altro
che una rappresentazione simbolica di questa storia, un vero
dramma senza che ce ne sia l'intenzione, rappresentato dal prete e
da' fedeli. Ogni atto che fa il prete, è pieno di
significato, è rappresentazione mimica. La prima parte
della messa è epica o narrativa; è il Verbum Dei,
l'esposizione che comprende le profezie e il Vangelo, e finisce
con la predica. La seconda parte è drammatica, è
l'azione, il Sacrificium, l'adempimento delle profezie. La terza
parte è lirica, come nelle risposte de' fedeli (il coro) al
prete, o quando due cori si alternano nel canto, e negl'inni e
nelle preghiere: ciò che ha luogo principalmente nella
messa cantata. Aggiungi le immagini de' santi e i fatti
dell'antico e del nuovo Testamento in quelle cappelle, in quelle
finestre variopinte, in quelle cupole, e quelle grandi ombre, e
quelle moli restringentisi sempre più e terminate da croci
slanciate verso il cielo, ed avrai l'immagine e l'effetto musicale
di questo stacco dalla terra, di questo volo dell'anima a Dio.
Dopo l'evangelo, il predicatore talora, per fare più
effetto sull'immaginazione, esponeva la sua storia sotto forma di
rappresentazione, come si fa in parte anche oggi ne' quaresimali.
I monaci e i preti rappresentavano il fatto, e il predicatore
aggiungeva le sue spiegazioni e considerazioni. Era una
rappresentazione liturgica, cioè legata al culto, parte del
culto, detta "divozione" o "mistero". Di tal natura sono due
divozioni, che si rappresentavano il giovedì e il
venerdì santo, e sono piuttosto due atti di una sola
rappresentazione che due rappresentazioni distinte. La prima
comincia col banchetto che Cristo ebbe in casa di Lazzaro sei
giorni avanti Pasqua, e che qui è il giovedì santo.
Cristo viene da Gerusalemme, Maria con Maddalena e Marta gli va
incontro. Maria prega il figlio di non tornare a Gerusalemme,
perchè vogliono la sua morte. Cristo risponde dover
ubbidire al Padre: pur si conforti, che niente farà che non
lo dica a lei. Alla fine del banchetto Cristo scopre a Maddalena
che dee ire a Gerusalemme, dove patirà il supplizio della
croce, e le raccomanda la madre. Cristo esce. Sopraggiunge Maria,
che ha visto il figlio turbato, e la prega a svelarle quello che
il figlio le ha detto. Maddalena tace. E la madre va a Cristo
tutta in lacrime, e dice:
Dimilo, figlio, dimilo a mi,
perchè stai tanto afannato?
Amara mi, piena de suspiri,
perchè a mi lo hai celato?
De gran dolore se spezzano le vene,
e de doglia, figlio, me esse il fiato,
chè t'amo, o figlio, con perfecto core,
dimilo a mi, o dolce Segnore.
Cristo dice che pel riscatto del mondo dee ire a morte, e Maria
sviene. Tornata in sè e lamentandosi, raccomanda il figlio
a Giuda, che risponde in modo equivoco: - So quello che ho a fare.
- Poi si volge a Pietro, che promette difendere il figlio contro
tutto il mondo. Giunti a una porta della città, Maria non
vuol separarsi dal figlio; ma quando non lo vede più e sa
che per un'altra porta è entrato in Gerusalemme, fa pietosi
lamenti innanzi al popolo:
O figlio mio, tanto amoroso,
o figlio mio, due se' tu andato?
O figlio mio, tuto gracioso,
per quale porta se' tu entrato?
O figlio mio, assai deletoso,
tu sei partito tanto sconsolato!
Ditime, donne, per amor de Dio,
dov'è andato lo figlio mio?
Segue il racconto secondo la Bibbia. Le parole di Cristo, tolte al
Vangelo, sono dette in latino. E la "divozione" finisce con la
prigionia di Cristo.
La "divozione" del venerdì santo
racconta la passione e la morte di Cristo. Il predicatore
interrompe la rappresentazione con le sue spiegazioni, e fa cenno
quando si ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte.
Mentre Cristo prega pe' suoi nemici, ella dice alla croce:
Inclina li toi rami, o croce alta,
dona riposo a lo tuo Creatore;
lo corpo precioso ià se spianta;
lasa la tua forza e lo tuo vigore.
Cristo la raccomanda a Giovanni, che inginocchiandosi e baciandole
i piedi cerca racconsolarla. Ma essa abbraccia la croce e si
lamenta:
O figlio mio, figlio amoroso,
come mi lasi sconsolata!
O figlio mio tanto precioso,
come rimango trista, adolorata!
Lo tuo capo è tutto spinoso,
e la tua faza di sangue bagnata!
altri che ti non voglio per figlio,
o dolce fiato e amoroso giglio.
Quando Cristo muore, Maddalena gli sta a' piedi, al capo Giovanni,
Maria nel mezzo. E bacia il corpo di Cristo, gli occhi, le guance,
la bocca, i fianchi, le mani "con le quali benediva il mondo", i
piedi su' quali "Maddalena sparse tante lacrime".
Queste rappresentazioni erano antichissime, e
si scrivevano in latino, come il Ludus paschalis, rappresentazione
di Pasqua, dove è messo in azione l'anticristo. Le due
"divozioni" avanti discorse non sono probabilmente che versioni o
imitazioni di opere più antiche, rimase nella tradizione.
Tale era pure la rappresentazione del Nostro Signore Gesù
Cristo, che ebbe luogo a Padova nel 1243, e il Ludus Christi, una
trilogia rappresentata dal clero in Cividale negli ultimi due
giorni di maggio il 1298. Nella Pentecoste e ne' tre seguenti
giorni il capitolo di questa città, in presenza del vescovo
e del patriarca di Aquileia, diede questa serie di
rappresentazioni: la creazione di Adamo ed Eva, la profezia o
l'annunzio, la nascita, morte e risurrezione di Cristo, la discesa
dello Spirito santo, l'Anticristo, e la venuta di Cristo nel
giudizio universale. Era tutta l'epopea biblica, fatta evidente e
sensibile dalla musica, dal canto, dalle scene, dalla mimica e
dalla parola. Tale era pure la Passione, rappresentata a Roma nel
Coliseo il venerdì santo, dalla Compagnia del gonfalone nel
1264.
Queste rappresentazioni, di cui i preti erano
attori e attrici, aveano tutto il carattere di solennità o
feste o cerimonie religiose. Il diavolo vi ha pure la sua parte di
tentatore, ma parla in modo serio e semplice, secondo la sua
natura, e non ha niente di grottesco e di ridicolo. Chiuse nel
recinto delle chiese, de' conventi e delle curie vescovili,
rimangono tradizionali e immobili, senza sviluppo artistico, come
anche oggi si vedon in parte nelle feste del contado.
La moralità di queste rappresentazioni
era che il fine dell'uomo è nell'altra vita, o come si
diceva, è la salvazione dell'anima; che per conseguire
questo fine si ha a imitare Cristo, soffrire in questo mondo per
godere nell'altro. Perciò l'ideale, l'eroico o, come si
diceva, la "perfezione della vita" era il dispregio de' beni di
questo mondo, la resistenza a tutte le inclinazioni naturali e il
vivere in ispirito nell'altro mondo con la contemplazione e la
preghiera. Questa è la vita de' santi, della quale si dava
anche rappresentazione a' fedeli. E tra le più antiche
è una ancora inedita, che ha per titolo: D'uno monaco che
andò a servizio di Dio, probabilmente recitata a monaci da
monaci in un convento. L'eroe è questo monaco, un
giovinetto che resiste alle lacrime della madre, alle querele del
padre, alle tentazioni del compare, e si rende frate nel deserto,
dove è accolto come figlio da un romito. Ma ivi prove
più dure l'attendono. Mentre egli va a raccogliere per il
pasto radici, frutta, castagne e noci, il romito prega, e mosso da
curiosità chiede a Dio qual luogo spetti al suo novizio in
paradiso, e un angelo risponde che sarà dannato. Non
perciò della notizia si turba il giovinetto, anzi risponde
tranquillo che continuerà ad amare e servire Dio. Invano il
demonio lo tenta, dicendogli che "ha guastato l'amor naturale", e
che il meglio sarà tornare in casa del padre, chè
forse Dio gli avrà misericordia. Il giovinetto con gli
scongiuri fuga il demonio, e rimane fermo nella sua risoluzione.
Allora l'angiolo annunzia al romito ch'egli è salvo. E il
monaco e il romito intuonano il Te Deum o una lauda. Nell'epilogo
o commiato sono esortati gli spettatori a castigare la carne e a
pensare alla vita eterna. Anima della rappresentazione è l'
invitta fede del giovane monaco, che la preghiera e la
contemplazione è la più sicura guardia contro il
peccato e la tentazione della carne, e che si giunge alla
santificazione con rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in
Dio. Questo concetto è espresso in una forma scolastica nel
canto del monaco, di cui ecco alcuni brani:
L'anima sensitiva che s'inchina
nel mondo a tutto quel che la diletta,
apprezza poco la legge divina...
L'alma piena di fede e semplicetta
spesso si leva pura a contemplare
quel ben che veramente la diletta.
e quando a quel più intenta esser le
pare,
allor dal grave corpo è sì
constretta,
che giuso afflitta le convien tornare,
e umile e isdegnosa piange e dice:
- Deh! Chi mi sturba il mio esser felice?
-
Quell'anima gentile è sempre viva,
e vive Iddio in lei per unione... ,
e tutta sta nella contemplativa,
e gode tutta; e s'ella ha passione,
è per esser legata al corpo tristo,
dal qual desia disciòrsi e star con
Cristo.
Ci è una rappresentazione, intitolata Commedia dell'anima,
che è una storia ideale della vita de' santi, una specie di
logica, dove sono le idee fondamentali della santificazione,
l'ossatura e lo scheletro di tutte le vite de' santi. L'anima esce
pura dalle mani di Dio e a sua immagine. Dio la contempla con
amore, dicendo:
Quando io risguardo quella creatura,
che all'immagine mia io ho formata,
e ch'io la veggo immaculata e pura
starmi dinanzi, la m'è accetta e grata:
ma l'ha bisogno d'una buona cura,
la quale a custodirla sia parata;
e perchè ha in sè l'immagine
d'Iddio,
vo' che la guardi un angel santo e pio.
Ma il demonio, invidioso che "sì vil cosa abbia a fruire
quel regno, del qual esso è privato", si apparecchia a
darle battaglia. L'angelo custode conforta l'anima, e le presenta
la Memoria, l'Intelletto e la Volontà: le sue "potenzie".
L'Intelletto parla dopo la Memoria e dice:
Io son di te la seconda potenzia
e il nome mio è detto Intelligenzia.
La mia quiete si sta nel Verbo eterno,
e quivi sempre debb'esser saziato:
però che in questo esilio io non
discerno
com'io sarò in quel regno beato.
Allora io sarò sazio in sempiterno,
e quivi il mio obbietto arò trovato,
fermandomi in quel razzo rilucente,
che senza quello inquieta è la mia
mente.
Lièvati sopra te tutta in fervore,
e guarda un po' del ciel quell'ornamento:
vedra'lo circondato di splendore;
poi pensa, anima mia, quel che v'è
drento.
Lascia un po' star le cose esteriore,
se vuoi aver di quell'intendimento:
per questo i santi tutti innamorati
il mondo disprezzorno, pompe e stati.
E la Volontà dice:
Io son la Volontà che ho a fruire
quel ben c'ha dichiarato l'Intelletto,
e in quel fermando tutto il mio desire,
perchè creata sono a quest'effetto... ,
e perchè l'occhio corporal non vede,
credendo ho da seguir con pura fede.
L'Intelletto dice alla Volontà:
A te s'appartien sol deliberare
di far quel che ti è mostro fedelmente;
l'ufizio tuo è sempremai d'amare
ed unirti con Dio perfettamente.
E la Volontà risponde:
Nella tua spera i' m'ho sempre a guardare,
benchè la mostri un po' con pura mente;
quand'io sarò nella gloria beata,
ciascuna cosa mi fie dichiarata.
L'anima confortata alza la preghiera a Dio, e l'angelo custode
aggiunge:
Dàgli, Signore, un'ardente fiammella,
che la difenda da drago feroce:
tu sai che l'è nel corpo incarcerata,
e non può a te senza te esser grata.
Cioè a dire, non bastano le tre potenzie naturali, Memoria,
Intelligenzia, Volontà, perchè l'anima piaccia al
Signore; ci vuole anche la sua grazia, l'ardente fiammella che dee
cacciare il drago, il demonio. E Dio manda ad assisterla le
virtù teologiche, Fede vestita di colore celeste, con una
croce nella mano destra e nella sinistra un calice e suvvi la
patena; Speranza vestita di verde, con gli occhi fissi al cielo e
le mani giunte, Carità vestita di rosso, con un parvolino
per mano. Intanto il demonio chiama l'Eresia, la Disperazione, la
Sensualità e tutte le sue forze capitanate dall'Odio. Le
tre virtù intorniano l'anima. La Fede dice dell'esser suo,
e san Giovanni Crisostomo celebra la sua potenza. Ma
l'Infedeltà con acri parole la rampogna:
È vien da levità chi crede
presto.
Tu ne sei ita quasi che per terra,
e puossi dir che la fede è mancata;
uomini grandi e dotti ti fan guerra,
chi t'esaltò, or t'ha perseguitata...
Va' nel Levante e in tutto l'Occidente,
e guarda di noi dua chi ha più gente.
Allora la Speranza viene in soccorso:
Leva su gli occhi alla città superna,
ch'è fabbricata senz'ingegno umano.
Ma l'anima teme, pensando la sua debolezza:
Come io digiuno un dì, i' son sì
bianca
che par che un curandaio m'abbi imbiancato
io mi stare' a dormir sur una panca
e il corpo vuole un letto sprimacciato.
La Speranza le pone avanti l'esempio de' santi, e soprattutto di
santo Agostino:
Quando diceva orando: - Signor mio,
questo mio cor non si può consolare:
tu solo se' quel che lo puoi quietare.
Allora l'assale la Disperazione e dice:
Pensa che la giustizia arà il suo loco
e tu hai fatt'assai ben di peccati:
- O tu dirai: - io non vo' disperarmi
perchè Dio è parato a perdonarmi?
-
Ma l'anima risponde allo scherno, cacciandola da sè:
E tu va via, bestiaccia maledetta.
Segue un'altra disputa tra la Carità, della quale san Paolo
celebra le lodi, e l'Odio, in cui spunta l'ombra di un carattere,
qualche cosa di simile a un capitano millantatore:
Vòltati in qua, porgimi un po'
l'orecchio
e non guardar ch'io sie canuto e vecchio.
Guardami un po' s'i' sono un bel vecchiardo,
e per antichità tutto canuto,
nell'operar son giovane e gagliardo,
a ricordar l'ingiuria molto astuto,
nel mio discorrer non son pigro o tardo,
conosco tutte le persone al fiuto:
subito che tu pigli qualche sdegno,
in un momento io vi fo su disegno.
La Carità t'exorta a perdonare,
ed io ti dico: - Non lo voler fare. -
Il perdonar vien da poltroneria
e d'animo ch' è pien di debolezza;
e chi t'ingiuria o dice villania,
quando che tu sopporti, e' vi s'avvezza:
rendigli il cambio a ognun, sia chi si sia,
mettigli al collo una grossa cavezza,
non lasciar mai la vendetta a chi resta,
e a chi fosse, dàgli in su la testa.
Io venni qui con una spada in mano
per istar teco e messimi l'elmetto,
io son del Satanasso capitano,
attengo volentier quel ch'io prometto:
quand'io veggo per terra il sangue umano,
mi genera a vederlo un gran diletto,
e tengo sempre 'l mio caval sellato
per esser presto presto in ogni lato.
Oh quante brighe, oh quante occisioni
son per me fatte in città e in castella:
ho buon affar nelle religioni,
Vommene pe' conventi in ogni cella,
metto l'un l'altro in gran divisioni
i' facendo mormorar di chi favella,
poi mi metto in cammino e in poch'ore
mi trovo in corte di qualche signore.
L'ultima battaglia è tra il Senso o la Sensualità e
la Ragione. L'anima pregando si sente sopraffatta dal corpo:
Io ti vorrei, Signor, sempre servire,
ma questo corpo m' è molto molesto;
che s'io voglio vegliar, e' vòl dormire,
ogni po' di disagio lo fa mesto,
e comincia di fatto a impallidire.
la Sensualità che vede questo mi dice:
- Tu vorrai volar senz'ale,
e dare un buon guadagno allo spedale. -
E la Sensualità, così invocata, le dice beffando:
Tu vorresti ir al ciel così vestita:
io ti vo' dire il ver senza rispetto:
a me pare che tu ti sie smarrita,
faresti meglio a picchiarti un po' il petto:
non vorresti patir caldo, nè gielo,
e calzata e vestita andare in cielo.
Ma ecco la Ragione dire all'anima:
Deh dimmi, anima mia, ch'hai tu avuto,
io m'era appunto appunto addormentata.
E saputo il fatto, dice della sua nemica:
Ella è una bestiaccia sì
insolente,
bisogna non lasciar punto la briglia:
battila spesso senza discrezione,
e non gli mostrar mai compassione.
- Ma che dovevo fare? - dice l'anima:
Dovevi tutta aprirti nelle braccia,
a pigliare una mazza tanto grossa,
che rompessi la carne e tutte l'ossa.
La Sensualità non se ne spaventa, e dopo uno scambio di
villanie aggiunge:
Questa Ragione è sol ipocrisia,
e non sa appena dir l'ave Maria.
E m'incresce di te c'hai questo sprone,
bisognerà che tu te lo cavassi.
Deh! fa a mio modo, piglia un buon mattone,
dàgli nel capo che tu lo fracassi.
La sta 'l dì e la notte inginocchione
col collo torto e dice pissi passi... :
- Piglia qualche piacer, deh fa' a mio
modo,
che a dargli un po' di spasso gli è
dovuto.
La Ragione è vinta e l'anima cede. Ella desidera una
ghirlanda con un nodo,
come di quelle ch'io ho già veduto.
E il demonio aggiunge:
Fàtt'un bel tocco di velluto rosso
e una zimarra per tenere in dosso.
Così la Ragione è impotente senza la Grazia.
Comparisce Dio stesso:
Vòltati a me, non mi far resistenza,
ch'io t'ho aspettato e aspetto a penitenza.
L'anima pentita del mal pensiero risponde:
Non merito da te essere udita
pe' miei gravi pensieri, iniqui e stolti.
Io ho la tua bontà tanto schernita,
ch'io non son degna che tu mi ti volti,
e senza te io son come smarrita,
nessun non trovo che il mio cor conforti.
Se tu, Signor, che hai per me il sangue sparso,
non mi soccorri, ogni rimedio è scarso.
Allora Dio le manda in soccorso le virtù cardinali,
Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Misericordia,
Povertà, Pazienza, Umiltà. Ciascuna parla di
sè, citando talora questo o quel passo della Bibbia. Ecco
alcuni brani:
PRUDENZA - Io ti conforto che tu sia prudente
in tutte l'opre tue come il serpente.
TEMPERANZA - Terrai la via del mezzo in ogni cosa,
e sarà la tua mente graziosa.
FORTEZZA - Tullio dice di me questa parola:
che ognun venga a imparare alla mia scuola.
Che la Fortezza ancor rapisce il cielo,
lo dice san Matteo nell'Evangelo.
GIUSTIZIA - Dice David con la sua voce amena:
"Di Giustizia è la destra d'Iddio
piena."
MISERICORDIA - Mercè, mercè, o Giustizia divina,
abbi pietà dell'alma pellegrina... ;
perdona volentieri a chiunche erra,
chè son rinchiusi in un vaso di terra.
E questo vaso è sì pericoloso,
nel quale sta rinchiusa questa gioia.
Mentre che l'alma resta in questa vita,
di lacci trova presi tutt'i passi:
però bisogna a lei il divin aiuto,
chè senza quello ogni cosa è
perduto.
POVERTÀ - Io son la Povertà, o città mia,
che non so chi mi voglia in compagnia.
E son quella virtù che da' potenti
son rifiutata e mandata al profondo:
non è nessun che di me si contenti,
eziandio que' ch'han lasciato il mondo.
Ognun va dreto a' ricchi e bei presenti,
ma io di mendicar non mi vergogno,
perchè gli è di me scritto nel
Vangelo:
"Quel che mi segue arà il regno del
cielo."
PAZIENZA - O popul mio, io son la Pazienzia;
che più non ho chi mi dia audienzia.
O degna Povertà, virtù perfetta,
che tanto fust'accetta al Verbo eterno... ,
felice è quella che ti sta suggetta,
nel ciel sarà felice in sempiterno;
che non si può godere in questa vita,
e il paradiso avere alla partita.
POVERTÀ -... M'affliggo e doglio
che la perfezione quasi è mancata,
non è più il tempo de' padri
passati,
ch'erano pover, vili e disprezzati.
PAZIENZA - Chi pensa andare al ciel per altra via,
che per patir, si troverà ingannato.
Giesù diletto figliuol di Maria
n'ha dato esempio e a tutti ha insegnato...
Per dimostrarci che s'avea a patire,
elesse su la croce di morire.
UMILTÀ - L'Umiltade son io, fratei diletti,
oggi non c'è nessun che mi raccetti...
Vestitevi di Cristo, o genti stolte,
non vi avvedete voi che il tempo vola?
Non entra in paradiso alcun difetto,
non v'entra quel ch'a Dio non è
suggetto.
Andiam cercando, care mie sorelle,
per tutto il mondo un po' nostra ventura:
se nel gregge di Cristo una di quelle
ci ricevessi con la mente pura,
perchè noi siam vestite poverelle,
non vorrei gli facessimo paura;
ch'oggidì le virtù non son
richieste,
ma fassi onore a chi ha le belle veste.
L'anima contrita e fortificata alza un canto a
Dio:
A te mi do, Signor clemente e pio,
e voglio a te servir tutt'i miei anni,
altro che te non bramo e non desio.
Io ho fuggito il mondo pien d'affanni,
dove si trova sol doglia o mestizia,
ben è infelice chi veste suo' panni.
Ei mostra nel principio la letizia,
e di dover donar pace e riposo:
di poi non dà se non pianto e tristizia.
O mondo cieco, falso e tenebroso,
che hai tant'amator in questa vita,
e non mostri il velen che hai drento ascoso,
per dolenti poi farli alla partita.
Colpita da grave infermità, dice:
O m'è venuto tanto male addosso,
che più star ritta niente non posso.
Che vuol dir questo? È mi manca la vita.
Giesù Giesù, dolce Signore, aita.
Intorno alla morente fanno l'ultima battaglia l'angiolo e il
demonio. Gli argomenti dell'angiolo si possono ridurre in questi
tre versi:
Umana cosa è cascare in errore,
e angelica cosa è il rilevarsi... ,
sol diabolica cosa è star nel vizio.
Dio accoglie l'anima e pronunzia il suo giudizio:
E questa è la mia ultima sentenzia,
che la venghi a fruir la mia presenzia.
E l'angiolo dice
Partite tutti: la sentenza è data:
sonate per dolcezza una calata.
E il coro accompagna l'anima al cielo con questo canto:
O felice alma, che dal corpo sciolta
e per amor congiunta col tuo Dio,
la vita t'è donata e non t' è
tolta... ,
sei fatta ricca di un prezzo sì pio,
e con veste sì bella e nupziale
al convito starai celestiale.
Così finisce questa rappresentazione, detta "commedia"
perchè si conchiude con la salvazione e non con la
perdizione dell'anima. È detta anche "misterio", per la sua
natura allegorica. È uno degli antichissimi misteri
liturgici, ritoccato, ripulito, rammodernato e fatto laico a'
tempi di Lorenzo de' Medici e forse più in là, a
giudicare dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di
formazione artistica, come nelle figure del demonio, dell'Odio,
della Sensualità, della Povertà, e da un certo non
so che beffardo e grottesco, che svela poca serietà e
unzione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la trama
è moderna, la stoffa è antica, e ricorda il duello
del Senso e della Ragione, così comune negli scritti
volgari che apparvero prima, e la battaglia de' vizi e delle
virtù del Giamboni, e le tre allegorie cristiane. Anzi
questa Commedia dell'anima non è se non le tre allegorie
messe in rappresentazione. Là trovi tre gradi di
santificazione, Umano, Spoglia e Rinnova. E anche qui l'anima
è prima combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci,
perchè "umana cosa è cascare in errore", poi fa la
sua penitenza, si spoglia e si monda della scoria del peccato, e
così a Dio si rimarita, come dice Dante, o, come dice il
nostro autore, sta "al convito celestiale con veste bella e
nuziale". Questi tre gradi aveano la loro formazione liturgica
nell'inferno, purgatorio e paradiso, che erano appunto il senso,
l'Umano puro, abbandonato a se stesso, lo Spoglia o la penitenza,
che purga o monda l'anima, e il Rinnovamento o la luce mentale, la
beatitudine. Questo era il concetto delle rappresentazioni che
aveano a materia l'altro mondo, come quella di cui fa menzione
Giovanni Villani, che ebbe luogo a Firenze. L'altro mondo era la
storia, o come si diceva la "Commedia dell'anima", la quale non
potea giungere a redimersi dall'umanità, dal corpo, dalla
carne, dall'inferno, se non con la penitenza, purificandosi e
purgandosi, e così contrita e confessa diveniva leggiera,
saliva al cielo. Questa Commedia spirituale dell'anima, di cui ho
voluto dare un sunto possibilmente esatto, è il codice di
quel secolo, il contenuto astratto e generale, particolarizzato
nelle vite, nelle leggende, ne' trattati e nella lirica Spiritus
intus alit. Lo spirito che alita per entro a quelle prose e a
quelle poesie è la "Commedia dell'anima".
Ma in tante prose e in tante poesie non ci
è ancora un vero lavoro d'individuazione e di formazione.
Il contenuto rimane nella sua astratta semplicità,
innominato e impersonale, l'anima. Essendo il suo fondamento la
contemplazione e non l'azione, o un'azione negativa, la resistenza
agl'istinti e agli affetti naturali, non penetra nella vita, non
ne assume tutte le forme, non diventa la società. Certo,
quell'azione negativa è molto poetica, è il sublime
religioso, e tocca il cuore, quando è rappresentata con
semplicità e unzione. Ma in questo contrasto tra il
sentimento religioso e la natura, ciò che move più
è il grido della natura, come ne' lamenti della madre di
santo Alessio o di santa Eugenia, o nel dolore d'Isacco nel
Sacrifizio di Abraam, che all'annunzio della sua morte chiama la
madre:
O santa Sara, madre di pietade,
se fussi in questo loco, io non morrei...
Tutta è l'anima mia trista e dolente
per tal precetto, e sono in agonia.
Tu mi dicesti già che tanta gente
nascer doveva della carne mia.
Il gaudio volge in dolor sì cocente,
che di star ritto non ho più
balìa.
S'egli è possibil far contento Dio
fa ch'io non mora, o dolce padre mio.
Quantunque questo non sia che uno de' lati più angusti e
solitari della vita umana, così ricca e varia ne' suoi
aspetti, pure offre contrasti e gradazioni, che lo rendono
capacissimo di un grande sviluppo artistico. Ma in quel suo albore
la letteratura ha lo stesso carattere che mostra nella decadenza,
la naturalità o materialità del contenuto. Tante
vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la
curiosità con la varietà e novità degli
accidenti, e si attendeva più allo spettacoloso, a colpire
l'immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose, che a
lavorarle e svilupparle. Mancava la virtù di mettersi gli
oggetti a distanza e trasformarli: la realtà anche nuda era
per se stessa maravigliosa e bastava ad ottenere l'effetto,
operando in modo semplice e immediato sullo scrittore e su'
lettori.
Oltrechè, siccome il contenuto riposava
su di una dottrina liturgica, stabilita e inalterabile, poco era
accomodato ad una rappresentazione libera e artistica, anche
quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da'
laici, come fu anche de' misteri. Impadronirsi di quel contenuto,
cacciarlo dalla sua generalità, dargli corpo e persona,
sarebbe sembrata una profanazione. Lo spirito mirava a rendere
accessibile quella dottrina per via di esempli, di sentenze e di
allegorie, come si vedea nella Bibbia. Il reale, il concreto non
avea valore se non come figura della dottrina. Ecco ad esempio in
che modo è nella Commedia dell'anima figurato il paradiso:
In su quel monte dove sta il Signore,
v'è una fontana traboccante e bella,
che sempre getta un mirabil liquore.
D'oro e d'argento n'è la sua cannella,
le sponde di smeraldi e d 'oro fine,
e tutta la città circonda quella.
Salite al monte, o alme peregrine,
salite al monte, e lassù troverete
soprabbondanti le grazie divine.
Le ultime parole spiegano la figura. Quella è la fontana
della divina Grazia. Con questa tendenza lo scrittore sta contento
alla semplice personificazione e gli pare di aver fatto assai a
dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto.
Oltre a ciò, l'uomo colto, schivo delle forme semplici e
volgari dell'umile credente, mira a trasformare quella dottrina in
un contenuto scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e
di questa fede ragionata e sillogizzata fa la filosofia, figliuola
di Dio. Lo studio del secolo è di allegorizzare e
dimostrare, anzichè di rappresentare; è di chiarire
quel contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo,
anzichè coglierlo in azione e nell'atto della vita.
Perciò l'opera letteraria tiene dell'allegoria e del
trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane
nell'infanzia. Mai non ti senti ben fermo in terra, in mezzo a
uomini vivi, con tali caratteri, passioni e costumi, anzi lo
scrittore ti par quasi estraneo alla società e alle sue
lotte, e dimora nell'astratta e monotona generalità della
sua contemplazione. E quando pur scende a rappresentare la vita,
ti senti d'un tratto balzato nel regno de' misteri, delle leggende
e delle visioni, nell'altro mondo.
La visione è in effetti la forma
naturale di questo contenuto, quando si vuol rappresentarlo. La
vita e la realtà è il senso, la carne, il peccato, e
lo scrittore o guarda e passa, o se pur vi si trattiene, è
per maledirla, rappresentandola non quale appare in terra, ma
quale è nell'altro mondo. La rappresentazione è
dunque la visione della realtà, come sarà dopo la
morte, e là si spazia e si diletta l'immaginazione. E se il
mistero è commedia, ed ha per conclusione la santificazione
e la beatitudine, la visione è spesso pittura delle pene
infernali, lasciate alla libera immaginazione de' predicatori, de'
vescovi, de' frati, de' santi Padri, che col terrore operavano
sulle rozze immaginazioni. Laghi di zolfo, valli di fuoco o di
ghiaccio, botti d'acqua bollente, rettili, vermi, dragoni da'
denti di fuoco, demòni armati di lance, di fruste, di
martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri
tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al
suolo con tanti chiodi che "non pare la carne", o sospesi per le
unghie in mezzo al zolfo, o menati e rapiti da velocissime ruote
di fuoco simili a "cerchi rosseggianti", o infissi a spiedi
giganteschi che i demòni irrugiadano di metalli fusi: ecco
la realtà delle visioni, rappresentata co' più vivi
colori. I tre monaci che si mettono in viaggio per iscoprire il
paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di cammino attraversano
l'inferno:
"E veggono un lago grandissimo pieno di
serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco, e odono voci
uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che
piagnessero e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti
altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di
cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle quali eran
confitte nell'un monte e l'altre due nell'altro; e tutto intorno a
lui era fuoco, e gridava sì fortemente che si udiva bene
quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e
orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda,
laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone
grandissimo, e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per
gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca, e mordeale
crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi
infino a terra."
Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del
dragone:
"Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile
con isvariati colori, e la barba e i capelli pareano d'oro, e '
denti suoi parevano di ferro, e gli occhi acuti e lucenti come
fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la lingua, e parea che
per le nari e per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di
zolfo."
Tra le visioni è celebre il Purgatorio
di San Patrizio di frate Alberico, e quella d'Ildebrando, poi
Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò
secondo, narra di un conte ricco, e insieme onesto, "ciò
che è proprio un miracolo in questa gente", egli dice.
Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo
ratto in ispirito, starsi al sommo d'una scala lunghissima, che
ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù
nell'inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del
conte, con quest'ordine, che quando alcuno moriva di quella
famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva
e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso, dove
tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti. E chiedendo il
santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra
buona fama di sè, si udì una voce rispondere: - Uno
degli antenati, di cui il conte è l'erede in decimo grado,
tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per
questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione.
- Questa pena, che colpisce un'intera generazione, è molto
poetica, mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano
indeterminato, messo costantemente innanzi all'immaginazione de'
condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non
vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime
sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano
l'inferno.
Da queste visioni e misteri e prose e poesie si
sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa
sostanziale, è il peccato; che la virtù è
negazione della vita terrena, e contemplazione dell'altra; che la
vita non è la realtà, ma ombra e apparenza di
quella; che la vera realtà non è quello che
è, ma quello che dee essere, ed è perciò la
scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto,
è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e il paradiso, il
mondo conforme alla verità e alla giustizia.
Appunto perchè l'individuo è
pulvis et umbra, e la realtà è pura scienza ed un di
là della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo
d'individuazione e di formazione. Lo stesso amore, così
possente, non ci può gittare un po' di calore e non ci vive
se non come figura e immagine dell'amore divino. La donna, come
donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che
lega l'uomo a Dio.
Il maggior grado di realtà, a cui questo
mondo sia pervenuto, è nella lirica di Dante. La donna di
quel secolo acquista il suo nome e la sua forma, è
Beatrice, la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l'anima
nella commedia spirituale, breve apparizione, tornata così
presto in cielo tra' canti degli angioli. La sua vita terrena
è quasi non altro che nascere e morire. La sua vera vita
comincia dopo la morte, nell'altro mondo. Ivi è luce
mentale o intellettuale, verità e scienza, filosofia. Ma
non è filosofia incarnata, mondo vivente, dove l'idea di
Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura
scienza, incapace di rappresentazione nella sua forma scolastica
di trattato e di esposizione. È scienza non ancora
realizzata, non ancora corpo; è idea, non è visione;
è didattica, non è commedia o rappresentazione. Hai
"misteri" e visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè un
mondo vivente nel suo insieme e ne' suoi aspetti, dove sia
realizzato quel concetto teologico e filosofico
dell'umanità, comune al secolo e rimasto ancora nella sua
astrazione dottrinale.
Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando
una lingua già formata, molta varietà di forme
metriche, una poetica, una rettorica, una filosofia, ed un
concetto della vita ancora didattico e allegorico, con rozzi
tentativi di formazione e individuazione. Il suo primo individuo
poetico è Beatrice, il presentimento e l'accento lirico di
un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora fuori
della vita.
VI
IL TRECENTO
Quello che il secolo precedente concepì e preparò,
fu realizzato in questo secolo detto aureo. I posteri compresero
sotto questo nome tutto un periodo letterario, dove si trovano
mescolati dugentisti e quattrocentisti. E in verità le
notizie cronologiche sono sì scarse e incerte, che non
è facile assegnare di ciascuno scrittore l'età,
seguire strettamente l'ordine del tempo. Al nostro scopo è
più utile seguire il cammino del pensiero e della forma nel
suo sviluppo, senza violare le grandi divisioni cronologiche, ma
senza cercare una precisione di date, che ci farebbe sciupare il
tempo in conietture e supposizioni di poco interesse.
Questo secolo s'apre con un grande atto, il
Giubileo, pontefice Bonifazio ottavo. Tutta la cristianità
concorse a Roma, d'ogni età, d'ogni sesso, di ogni ordine e
condizione, per ottenere il perdono de' peccati e guadagnarsi la
salute eterna. Tutti animava lo stesso concetto espresso
così variamente in tante prose e poesie: la maledizione del
mondo e della carne, la vanità de' beni e delle cure
terrestri e la vita cercata al di là della vita. Il nuovo
secolo cominciava, consacrando in modo tanto solenne il pensiero
comune nella varietà della cultura. I preti e i frati
soprastavano nella riverenza pubblica, non solo pel carattere
religioso, ma per la dottrina, tenuta loro privilegio, tanto che
il Villani loda di scienza Dante, aggiungendo: "benchè
laico", e i dotti uomini, benchè laici, erano detti
chierici. Tutta la società italiana, raccolta colà
dallo stesso fine, rendeva una viva immagine di quel pensiero
comune e di quella varia cultura. Vedevi i contemplanti, i remiti,
i solitari del deserto e della cella col corpo macero da' digiuni,
da' cilizii e dalle vigilie, ritratti viventi de' misteri e delle
leggende. C'erano gli umili di spirito, animati da schietto
sentimento religioso e che tenevano la scienza come cosa profana,
e ci erano i dotti, i predicatori e i confessori, il cui testo era
la Bibbia e i santi Padri. Vedevi gli scolastici e gli eruditi,
teologi e filosofi, che univano in una comune ammirazione i
classici e i santi Padri, disputatori sottili di tutte le cose e
anche delle cose di fede, parlanti un latino d'uso e di scuola,
vibrato, rapido, vivace, dove sentivi il volgare destinato a
succedergli, amici della filosofia con quello stesso ardore di
fede che gli altri si professavano servi del Signore, ma di una
filosofia non ripugnante alla fede, anzi sostegno, illustrazione e
ragione di quella, confortata da sillogismi e da sentenze e da
citazioni, dove trovi spesso Tullio accanto a san Paolo. Alteri
della loro scienza e del loro latino, spregiatori del volgare, da
costoro uscivano que' trattati, que' comenti, quelle "somme",
quelle storie, che empivano di maraviglia il mondo. Accanto a
questi veggenti della fede e della filosofia, a questa vita dello
spirito, trovi la vita attiva e temporale, affratellati dallo
stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali e i priori e gli
anziani delle repubbliche, il cavaliere de' romanzi e il
mercatante delle cronache. Là, appiè del Coliseo, un
ardito negoziante, Giovanni Villani, pensò che la sua
Fiorenza, figliuola di Roma, era non meno degna di avere una
storia, e la scrisse. Fra tanto splendore e potenza del
chiericato, lo spregiato laico cominciava a levare la testa e
pensava all'antica Roma e a Firenze, figliuola di Roma. Là
molte amicizie si strinsero, molte paci si fecero, come avviene in
certi grandi momenti della storia umana; sparirono guelfi e
ghibellini, ottimati e popolari, baroni e vassalli, stretti tutti
ad una sola bandiera: uno Dio, uno papa, uno imperatore. Là
il papato ebbe l'ultimo suo gran giorno, l'ultimo sogno di
monarchia universale, rotto per sempre dallo schiaffo di Anagni.
Il giubileo ci dà una immagine di quello
che dovea essere la letteratura nel secolo decimoquarto. Ebbe dal
secolo antecedente la sua materia, i suoi istrumenti e il suo
concetto, del quale il giubileo fu una così splendida
manifestazione. Ma quel concetto, rimaso nella sua astrazione
intellettuale e allegorica, con così scarsi inizi di
rappresentazione ne' misteri e nelle visioni, ancora senza nome
altro che di Beatrice, breve apparizione, svaporata subito nelle
astrattezze della scienza, ebbe nel Trecento la sua vita, e venne
a perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e
la gloria di quel secolo.
L'uomo, che dovea dare il suo nome al secolo,
avea già trentatrè anni, avea creato Beatrice e
volgea nella mente non so che più ardito, che dovesse
abbracciare tutta l'umanità. Tenzonava nel suo capo il
filosofo e il poeta: ci era il Convito e ci era la Commedia. Ma,
per apprezzare più degnamente quella vasta sintesi che ne
uscì, è bene preceda l'analisi, studiando la
fisonomia del secolo negl'ingegni più modesti che non
conobbero, di tutto quel mondo, se non questa o quella parte.
E c'incontriamo dapprima nella letteratura
claustrale, ascetica, mistica, religiosa, continuazione in prosa
di fra Iacopone, ma in una prosa piena di poesia. Domenico
Cavalca, l'autore de' Fioretti, Guido da Pisa, Bartolomeo da San
Concordio, Iacopo Passavanti, Giovanni dalle Celle non sono
scrittori astratti e impersonali, come quelli del secolo innanzi,
ma, anche volgarizzando, senti che quegli uomini prendono viva
partecipazione a quello che scrivono, e vivono là dentro, e
ci lasciano l'impronta del loro carattere e della loro fisonomia
intellettuale e morale. Usciamo dalle astrattezze de' trattati e
delle raccolte sotto nome di "fiori", "giardini" e "tesori", ed
entriamo nella realtà della vita, nel vero giardino
dell'arte. Perchè questi uomini non ragionano, non
disputano, e di rado citano: la loro dottrina va poco al di
là della Bibbia e de' santi Padri: ma narrano quel medesimo
che si rappresentava ne' misteri, vite, leggende e visioni, e sono
narrazioni più vive e schiette, che non i misteri del
Quattrocento, raffazzonamenti degli antichi, con più
liscio, ma dove desideri la purità e semplicità
delle prime ispirazioni.
Gli scrittori son tutti frati, ed hanno le
qualità degli uomini solitari, il candore, l'evidenza, e
l'affetto. Hanno l'ingenuità di un fanciullo che sta con
gli occhi aperti a sentire, e più i fatti sono straordinari
e maravigliosi, più tende l'orecchio e tutto si beve:
qualità spiccatissima ne' Fioretti di san Francesco, il
più amabile e caro di questi libri fanciulleschi.
L'immaginazione concitata dalla solitudine presenta gli oggetti
così vivi e propri, che vengon fuori di un getto, non solo
figurati, ma animati e coloriti caldi ancora dell'impressione
fatta sullo scrittore. Nel quale l'affetto è tanto
più vivace e impetuoso e lirico, quanto la sua vita
è più astinente e compressa: quasi vendetta della
natura, che grida più alto, dove ha più contrasto.
Non ci è in queste prose alcuna intenzione artistica,
nessun vestigio di studio, o di sforzo, o di esitazione, o di
scelta; manca soprattutto il nesso, la distribuzione, la
gradazione. Ma si conseguono tutti gli effetti dell'arte che
nascono da movimenti sinceri e gagliardi dell'immaginazione e
dell'affetto, e n'escon pagine animate, e potenti assai più
sul tuo spirito che non tanti romanzi moderni. Cito fra l'altro la
storia di Abraam romito, che prende veste e costume di cavaliere
mondano, e mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne per
convertire la sua nipote Maria. Il suo incontro con Maria nella
taverna, gli allettamenti lascivi di costei, la sua sorpresa e
vergogna quando nel bel cavaliere scopre il suo zio, e i
rimproveri affettuosi di lui e le grida strazianti e disperate
della bella pentita sono una vera scena drammatica, alla quale non
trovi niente comparabile nel teatro italiano. In queste Vite del
Cavalca, che sono traduzioni, ma per la freschezza e
spontaneità del dettato e per la commossa partecipazione
del frate sono cosa originale, il concetto del secolo, uscito
dalle astrattezze teologiche e scolastiche, prende carne, acquista
una esistenza morale e materiale. Il santo è esso medesimo
il concetto divenuto persona, e la sua rappresentazione ti offre
il nuovo mondo morale aperto al cristiano, fatto attivo e divenuto
storia, la storia del santo. Cardine di questo mondo morale
è la realtà della vita nell'altro mondo e la guerra
a tutti gl'istinti e affetti terreni, l'astinenza e la pazienza,
il "sustine et abstine"; e però le sue virtù non
esprimono altro che la vittoria dell'uomo sopra se stesso, sulla
sua natura: indi l'umiltà, il perdono delle offese, la
povertà, la castità, l'ubbidienza. Se la vittoria
fosse preceduta dalla lotta, lo spettacolo sarebbe sublime; ma il
più sovente il santo entra in iscena ch'è già
santo e nell'esercizio quieto delle sue cristiane virtù,
interrotto a volte dalle tentazioni del demonio cacciato via da
scongiuri e segni di croce: ciò che è grottesco
più che sublime. Il santo è troppo santo
perchè la sua vita possa offrirti una vera contraddizione e
battaglia tra il cielo e la natura, ciò che rende
così drammatica la vita di Agostino e di Paolo. Qui hai
racconti uniformi, infinite ripetizioni, rarissimi contrasti, e
spesso provi noia e stanchezza. La musa di queste cristiane
virtù non è la forza, e non è l'azione, ma
è un certo languir d'amore, una effusione di teneri e dolci
sentimenti, liriche aspirazioni ed estasi e orazioni, un impetuoso
prorompere degli affetti naturali tosto sedato e riconciliato, il
sacrificio ignorato e oscuro che ha la sua glorificazione anche
terrena dopo la morte. Una delle vite più interessanti e
popolari è quella di santo Alessio, che abbandona la nobile
casa paterna e la sposa il dì delle nozze, e va
peregrinando e limosinando, e dopo molti anni tornato in patria,
serve non conosciuto in casa del padre, e non si scopre alla madre
e alla sposa, e i servi gli danno le guanciate, e lui umile e
paziente. Questa vittoria sulla natura non fa effetto,
perchè in Alessio non ci è l'"homo sum", non ci
è lotta, non la coscienza del sacrifizio, parendo a lui
naturale e facile esercizio di virtù quello che a noi
uomini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile. L'innaturale
è in lui natura: perfezione ascetica, ma non artistica.
L'interesse comincia, quando la natura fa sentire il suo grido, e
col suo contrasto sublima il santo; quando, saputo il fatto, il
pontefice con infinita moltitudine traendo a venerare il servo
spregiato, si odono tra la folla queste grida: "Prestatemi la via,
datemi loco, fate che io vegga il figliuol mio, quello che ha
succiato le mammelle mie". E ragionando col cuore di madre, la
donna accusa il figlio e lo chiama "senza cuore", e poi nel suo
dolore lo glorifica e ricorda che i servi gli davano le guanciate.
Scene simili non sono scarse in queste Vite: ricorderò la
madre di Eugenia e Maria Maddalena, eloquentissima nelle sue
lacrime.
Una vera intenzione artistica si scorge nello
Specchio di penitenza di Iacopo Passavanti, una raccolta di
prediche ridotte in forma di trattati morali, accompagnati con
leggende e visioni dell'altro mondo. Il frate mira a fare effetto,
inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione de'
vizi e delle pene. La musa del Cavalca è l'amore, e la sua
materia è il paradiso, che tu pregusti in quello spirito di
carità e di mansuetudine, che comunica alla prosa tanta
soavità e morbidezza di colorito. La musa del Passavanti
è il terrore, e la sua materia è il vizio e
l'inferno, rappresentato meno nel suo grottesco e nella sua
mitologia, che nel suo carattere umano, come il rimorso è
il grido della coscienza. Intralciato e monotono nel discorso, il
suo stile è rapido, liquido pittoresco nel racconto.
Diresti che provi voluttà a spaventare e tormentare
l'anima: cerca immagini, accessorii, colori, come istrumenti della
tortura, e ti lascia sgomento e assediato da fantasmi. Il periodo
spesso ben congegnato, svelto e libero, la cura de' nessi e de'
passaggi, la distribuzione degli accessorii e de' colori,
l'intelligenza delle gradazioni, un sentimento di armonia cupo che
accompagna lo spettacolo, fanno del Passavanti l'artista di questo
mondo ascetico.
Ma ecco fra tante vite di santi il santo in
persona, scrittore e pittore di sè medesimo, Caterina da
Siena. Abbandonata la madre e i fratelli, resasi monaca, macerato
il corpo co' cilizii e digiuni, vive una vita di estasi e di
visioni, e scrive in astrazione anzi dètta con una
lucidità di spirito maravigliosa. Scrive a papi a principi,
a re e regine, come alla madre, a' fratelli, a frati e suore,
dall'altezza della sua santità, con lo stesso tono di
amorevole superiorità. Nelle più intricate faccende
prende il suo partito risolutamente, consigliando e quasi
comandando quella condotta che le pare conforme alla dottrina di
Cristo. Ho detto "pare", e dovrei dire "è": perchè
nessun dubbio o esitazione è nel suo spirito, e le dottrine
più astruse e mentali le sono così chiare e sicure
come le cose che vede e tocca. Ha la visione dell'astratto, e lo
rende come corpo, anzi fa del corpo la luce e la faccia di quello.
Indi un linguaggio figurato e metaforico, spesso sazievole, talora
continuato sino all'assurdo. È un po' il fare biblico; un
po' vezzo de' tempi; ma è pure forma naturale della sua
mente. Vivendo in ispirito, le cose dello spirito le si affacciano
palpabili e visibili come materia, e così come vede Cristo
e angioli, vede le idee e i pensieri. È una regione
spirituale, divenutale per lungo uso così familiare, che ne
ha fatto il suo mondo e il suo corpo. Questa chiarezza
d'intuizione, accompagnata con la squisita sensibilità e la
perfetta sincerità della fede le fanno trovare forme
delicate e peregrine, degne di un artista. Ma le spesse
ripetizioni, l'esposizione didattica, quell'incalzare di consigli,
di esortazioni e di precetti senza tregua o riposo rendono il
libro sazievole e monotono.
In queste lettere di Caterina quel mondo
morale, rappresentato nelle vite, nelle estasi, nelle visioni de'
santi, è sviluppato come dottrina in tutta la sua
rigidità ascetica. È il codice d'amore della
cristianità. La perfezione è "morire a se stesso"
secondo la sua frase energica, morire alla volontà, alle
inclinazioni, agli affetti umani, sino all'amore de' figli, e
tutto riferire a Dio, di tutto fare olocausto a Dio. Il suo amore
verso Cristo ha tutte le tenerezze di un amore di donna, che si
sfoga a quel modo, lei inconscia. L'ultima frase di ogni sua
lettera è: "Annegatevi, bagnatevi nel sangue di Cristo".
Ardente è la sua carità pel prossimo: "Amatevi,
amatevi", grida la santa, e predica pace, concordia,
umiltà, perdono, voce inascoltata. La regina Giovanna
rispondea alla santa con riverenza, e continuava la vita immonda.
Lo scisma giungeva al sangue nelle vie di Roma. Più alto e
puro era l'ideale della santa, meno era efficace sugli uomini. La
sua vita si può compendiare in due parole: amore e morte.
Celebre è la sua lettera sul condannato a morte, da lei
assistito negli ultimi momenti: "Teneva il capo suo sul petto mio.
Io allora sentivo un giubilo e un odore del sangue suo; e non era
senza l'odore del mio, il quale io desidero di spandere per lo
dolce sposo Gesù". Il sangue di Cristo la esalta, la
inebbria di voluttà. Ad una serva di Dio scrive:
"Inebriatevi del sangue, saziatevi del sangue, vestitevi del
sangue". "Sudare sangue", "trasformarsi nel sangue", "bere
l'affetto e l'amore nel sangue", sono immagini di questo lirismo.
Della cella "si fa un cielo", e vi gusta "il bene degl'immortali,
obumbrandola Dio di un gran fuoco d'amore". Nella estasi o visione
o esaltazione di mente, è gittata giù, e le pare
come se l'anima sia partita dal corpo. Il corpo pareva quasi
venuto meno. Le membra del corpo, dice Caterina, si sentivano
dissolvere e disfare come la cera nel fuoco. E altrove: "Nel corpo
a me non pareva essere, ma vedevo il corpo mio come se fosse stato
un altro". Questi ardori d'anima, queste illuminazioni di mente,
questi martìri d'amore sono espressi con una
semplicità ed evidenza, che testimoniano la sua
sincerità. L'anima "innamorata e ansietata d'amore,
affocata" dal desiderio "crociato" o della croce, "annegata la
propria volontà" nell'amore del "dolce e innamorato Verbo",
vive nel corpo come fosse fuori di quello. Posto il suo amore al
di là della vita, vive morendo, dimorando con la mente al
di là della vita. Ma questa morte spirituale non l'appaga:
"muoio e non posso morire", dice la santa. Gli ultimi giorni
furono battaglie con le dimonia e colloquii con Cristo, e a
trentatrè anni finì la vita, consumata dal
desiderio.
La "Commedia dell'anima" è ora
pienamente realizzata nel suo aspetto religioso, come espressione
letteraria. Quell'anima ora ha un nome, è una persona,
Alessio, Eugenia, Caterina. Il demonio e la carne sono un mondo
pieno di vita ne' racconti del Passavanti. Quelle virtù
allegoriche che escono in processione sulla scena sono le opere,
le volontà, le passioni e i pensieri de' santi. E la Divina
Commedia, la trasfigurazione e la glorificazione dell'anima, la
Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra i canti degli
angioli, qui sono estasi, rapimenti dell'anima, colloquii con Dio,
mistica unione con Cristo, e dopo la morte la santificazione e la
contemplazione nell'eterna luce. Quel concetto è uscito
dall'astrattezza della scienza e dell'allegoria, dalla sua vuota
generalità, e si è incarnato, è divenuto
uomo.
La prosa italiana in questa letteratura
acquista evidenza, colorito, caldezza di affetto, in un andar
semplice e naturale, specialmente quando vi si esprimono
sentimenti dolci e ingenui. È perfetto esemplare di stile
cristiano, guasto di poi. Alla sua perfezione manca un più
sicuro nesso logico, maggiore sobrietà e scelta di
accessorii, ed una formazione grammaticale e meccanica più
corretta. Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a
ciò che di più perfetto è nella prosa
moderna. L'Imitazione di Cristo è certo prosa superiore,
scritta in tempo di maggior coltura. Ci è una maggiore
virilità intellettuale, una logica più stretta, e
pura di quella pedanteria scolastica che inseguiva i frati fino
nel convento. Ma non è superiore, quanto a quelle
qualità organiche, dove è il segreto della vita, la
schiettezza dell'ispirazione e il calore dell'affetto; e spesso in
quella prosa, mirabile di precisione e di proprietà,
desideri l'energia e l'intuizione di Caterina.
Nè questa prosa era già fattura
di un solo, o di pochi, perchè la trovi anche ne' minori
che scrivevano delle cose dello spirito. Citerò una lettera
di un discepolo di Caterina, che annunzia la sua morte:
"Credo che tu sappi come la nostra
reverendissima e carissima mamma se ne andò in paradiso
domenica, addì 29 di aprile (1380); lodato ne sia il
Salvatore nostro, Gesù Cristo crocifisso benedetto. A me ne
pare essere rimaso orfano, però che di lei avevo ogni
consolazione, e non mi posso tenere di piangere. E non piango lei,
piango me, che ho perduto tanto bene. Non potevo fare maggiore
perdita, e tu 'l sai... .Della mamma si vuol fare allegrezza e
festa, quanto che è per lei; ma di quelli suoi e di quelle
che sono rimasi in questa misera vita, ène da piangere e da
avere compassione grandissima. Con veruna persona mi so dare
dolore, quanto che con teco, che mi fusti cagione di acquistare
tanto bene. Prendo alcuno conforto, perchè nel mio cuore
ène rimasa e incarnata la mamma nostra assai più che
non era in prima; e ora me la pare bene conoscere. Chè noi
miseri ne avevamo tanta copia, che non la conoscevamo e non savamo
degni della sua presenzia... . Carissimo fratello, io sono fatto
tanto smemoriato del bene che ho perduto, ch'io ti scrivo
anfanando. E però di ciò non ti scrivo più."
Lo stesso stile è in Giovanni dalle
Celle, Stefano Maconi e altri frati. Ecco in che modo commovente e
semplice sono raccontati alcuni particolari della fine di
Caterina:
"Nella domenica di sessaggesima svenne, e
perdè il vigore di sanità, mantenutole dalla forza
dello spirito, e che non pareva scemarsi per inedia. Il dì
poi, un altro svenimento la lasciò lungamente come morta:
se non che, risentitasi, stette in piede come se nulla fosse.
Cominciò la quaresima colle solite pratiche, esercizio a
lei di consolazioni angosciose. Ogni mattina, dopo la comunione le
è forza rimettersi, sfinita, a letto. Di lì a due
ore usciva a San Pietro un buon miglio di strada, e lì
stava orando infino a vespro. Così fino alla terza domenica
di quaresima, quando il male la spossò. E per otto
settimane giacque senza potere alzare il capo, tutta dolori. A
ogni nuovo spasimo alzando il capo, ne ringraziava Iddio lieta.
Alla domenica innanzi l'Ascensione, Il corpo non era omai
più che uno scheletro, nel mezzo in giù senza moto,
ma nel volto raggiante la vita. Debole; un alito di respiro;
pareva in fine; e le fu data l'estrema unzione."
Questa eccellenza di dettato trovi pure ne'
volgarizzamenti de' classici o di romanzi e storie allora in voga,
come sono i volgarizzamenti di Livio e di Sallustio, i Fatti di
Enea, gli Ammaestramenti degli antichi, voltati da Bartolomeo da
San Concordio con un nerbo ed una vigoria degna del traduttore di
Sallustio. È una prosa adulta, spedita, calda, immaginosa,
spesso colorita, con tutto l'andare di lingua viva e parlata,
già nel suo fiore.
I romanzi operavano sul popolo non meno
vivamente che la letteratura spirituale. Nella sua immaginazione
si confondea il cavaliere di Cristo e il cavaliere di Carlomagno,
e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio e i fatti
di Enea, e gli amori di Lancillotto e Ginevra. Caterina trae dalla
cavalleria molte sue immagini. Chiama Cristo un "dolce cavaliere",
"cavaliere dolcemente armato"; chiama la Redenzione un "torneo
della morte colla vita". Ma la letteratura cavalleresca rimase
stazionaria e non produsse alcun lavoro originale. Le traduzioni
sono fatte senza intenzione seria, in prosa scarna e trascurata,
posto il diletto nel maraviglioso de' fatti. Agli stessi
traduttori è materia frivola, buona per passare il tempo, e
non vi partecipano, non sentono colà dentro il loro mondo e
la loro vita.
Accanto a questo mondo dello spirito e
dell'immaginazione c'era il mondo reale, il mondo della carne o
della vita terrena, come si dicea, che si potea maledire, ma non
uccidere. Era la cronaca, memoria dì per dì de'
fatti che succedevano, inanime come il dizionario, o come la lista
delle spese. Quelli che ne scrivevano con qualche intenzione
artistica, la dettavano in latino e la chiamavano storia. Latini
erano anche i trattati scientifici e i lavori propriamente d'arte.
Quella letteratura spirituale e cavalleresca rimanea circoscritta
al popolo ed era tenuta in poco conto da' dotti. Costoro
spregiavano il volgare, come buono solo a dir d'amore e di cose
frivole, e le gravi faccende della vita le trattavano in latino.
Di questi illustre per ingegno, per coltura e per patriottismo fu
Albertino Mussato, coronato poeta in Padova, sua patria. Abbiamo
di lui molte opere, alcune ancora inedite. Scrisse in quattordici
libri De gestis Henrici septimi Caesaris, e anche De gestis
italicorum post mortem Henrici septimi, in dodici libri, de' quali
alcuni sono in versi esametri. Fece epistole, egloghe, elegie e
due tragedie, l'Achilleis e l'Eccerinis. Quest'ultima rappresenta
la tirannide di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del
demonio, e la vittoria de' comuni collegati contro di lui.
È narrazione più che azione, come ne' misteri, un
narrare serrato e nervoso, le cui impressioni patetiche e morali
sono espresse dal coro. Sotto a quel latino ossuto e asciutto
palpita l'anima del medio evo. Senti una società ancor
rozza, selvaggia negli odii e nelle vendette, senza misura nelle
passioni, poco riflessiva, di proporzioni epiche anche in forma
drammatica. Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in
modo che n'esca fuori un personaggio drammatico. Egli rimane
ravvolto nel suo manto epico, come Farinata. È figlio de
demonio, e lo sa e se ne gloria, e opera come genio del male, con
piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni
colossali. Invoca il padre e dice:
Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;
annue, Satan, et filium talem proba.
E quest'uomo rimane così intero e tutto di un pezzo: manca
l'analisi, senza di cui non è dramma. Il concetto della
tragedia è più morale che politico, quantunque il
fatto sia altamente politico, rappresentando la lotta tra i comuni
liberi e i tirannetti feudali. Certo, in Mussato c'è il
guelfo e ci è il padovano, che l'ispira e l'appassiona. Ma
il motivo tragico è affatto morale. Ezzelino è
punito non perchè offende la libertà, ma
perchè opera scelleratamente, e "qui gladio ferit, gladio
perit": ciò che è in bocca al coro la conclusione
del fatto:
Consors operum
meritum sequitur quisque suorum.
È il concetto ascetico dell'inferno applicato anche alla
vita terrestre. Questa nella sua prima apparizione letteraria
è ancora nella sua generalità morale, non è
sviluppata nei suoi interessi, ne' suoi fini, nelle sue passioni e
nelle sue idee politiche: di che solo può nascere il
dramma. Il senso del reale era ancora troppo scarso, perchè
il dramma fosse possibile. Non ci è il sentimento
collettivo non il partito e non la società: ci è
l'individuo appena analizzato, rappresentato buono o cattivo e
retribuito secondo le opere, forma elementare della vita reale. Il
feroce e il grottesco delle pene infernali hanno qui un riscontro
nelle immani crudeltà di Ezzelino e nella immane punizione.
Questo concetto morale, ancorchè non
ancora penetrato e sviluppato in tutti gli aspetti della vita,
pure non è più un motto, un proverbio, un
ammaestramento, un "fabula docet", una esposizione didattica in
prosa o in verso, come nel secolo scorso, ma la vita in atto, con
tutt'i caratteri della personalità, così nella vita
contemplativa come nella vita attiva, così nel carbonaio
del Passavanti come nell'Ezzelino del Mussato.
Onori straordinari furono conferiti al Mussato,
tenuto pari a' classici, quando i classici erano ancora
così poco noti. Anche Venezia ebbe i suoi latinisti, che
scrissero la sua storia, Andrea Dandolo e Martin Sanuto.
Nell'Italia settentrionale abbondano le cronache latine. Il
volgare vi si era poco sviluppato. E dappertutto teologia,
filosofia, giurisprudenza, medicina era insegnata e trattata in
latino. Scrissero le loro opere in questa lingua Marsilio da
Padova, Cino da Pistoia, Bartolo e Baldo.
Ma in Toscana il Malespini avea già dato
l'esempio di scrivere la cronaca in volgare. E Dino Compagni
seguì l'esempio, scrivendo in volgare i fatti di Firenze
dal 1270 al 1312. Attore e spettatore, prende una viva
partecipazione a quello che narra, e schizza con mano sicura
immortali ritratti. Non è questa una cronaca, una semplice
memoria di fatti: tutto si move, tutto è rappresentato e
disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e a
tutto lo scrittore è presente, si mescola in tutto, esprime
altamente le sue impressioni e i suoi giudizi. Così
è uscita di sotto alla sua penna una storia
indimenticabile.
Questa storia è una immane catastrofe. Da lui preveduta e
non potuta impedire. E non si accorge che di quella catastrofe
cagione non ultima fu lui. O piuttosto ne ha un'oscura coscienza,
quando con quel tale "senno di poi" dice: - Oh se avessi saputo!
Ma chi poteva pensare? - Ma Dino peccò per soverchia
bontà d'animo; gli altri peccarono per malizia, e Dino li
flagella a sangue. Era Bianco; ma più che Bianco, era
onesto uomo e patriota. Gli pareva che que' Neri e que' Bianchi,
quei Donati e quei Cerchi, non fossero divisi da altro che da gara
d'uffici, e gli parea che, partendo ugualmente gli uffici, quelle
discordie avessero a cessare. Gli parea pure che tutti amassero la
città, come facea lui, e fossero pronti per la sua
libertà e il suo decoro a fare il sacrificio de' loro odii
e delle loro cupidigie. E gli parea che uomo di sangue regio non
potesse mentire nè spergiurare, e che nessuno potesse
mancare alle promesse, quando fossero messe in carta. E anche
questo gli parea, che gli amici stessero saldi intorno a lui e che
ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire. Che cosa non parea
al buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo della
repubblica. È la prima volta che si trova in presenza la
morale com'era in Albertano giudice e come fu poi in Caterina, la
morale de' libri e la morale del mondo. E la contraddizione balza
fuori con tutta l'energia di una prima impressione. Il brav'uomo
al contatto del mondo reale cade di disinganno in disinganno, e
ciascuna volta rivela la sua ingenuità con un accento di
maraviglia e d'indignazione. Immaginatevelo alle prese con
Bonifazio ottavo, Carlo di Valois e Corso Donati, ciò che
di più astuto e violento era a quel tempo. L'energia del
sentimento morale offeso è il secreto della sua eloquenza.
Qui non ci è nessuna intenzione letteraria: la narrazione
procede rapida, naturale, sino alla rozzezza. Vi è un
materiale crudo e accumulato e mescolato, senza ordine o scelta o
distribuzione; ignota è l'arte del subordinare e del
graduare; mancano i passaggi e le giunture; il fatto è
spesso strozzato; spesso il colorito è un po' risentito e
teso difetti di composizione gravi. Pure le qualità
essenziali che rendono un libro immortale stanno qui dentro, la
sincerità dell'ispirazione, l'energia e la purità
del sentimento morale, la compiuta personalità dello
scrittore e del tempo, la maraviglia, l'indignazione, il dolore,
la passione del cronista, che comunica a tutto moto e vita. In
tempi meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca di
Firenze sino al 1348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote
Filippo. Mira a dar memoria de' fatti, pigliandoli dove li trova,
e spesso copiando o compendiando i cronisti che lo precessero.
Sono nudi fatti, raccolti con scrupolosa diligenza, anche i
più minuti e familiari, della vita fiorentina, come le
derrate, i drappi, le monete, i prestiti: materiale prezioso per
la storia. Ma questa cruda realtà, scompagnata dalla vita
interiore che la produce, è priva di colorito e di
fisonomia e riesce monotona e sazievole.
La Cronaca di Dino e le tre Cronache de'
Villani comprendono il secolo. La prima narra la caduta de'
Bianchi, le altre raccontano il regno de' Neri. Tra, vinti erano
Dino e Dante. Tra, vincitori erano i Villani. Questi raccontano
con quieta indifferenza, come facessero un inventario. Quelli
scrivono la storia col pugnale. Chi si appaga della superficie,
legga i Villani. Ma chi vuol conoscere le passioni, i costumi, i
caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino.
Finora non abbiamo creduto necessario di
entrare nel vivo della storia, perchè gli scrittori, o
ascetici o cavallereschi o didattici, scrivono come segregati dal
mondo. Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che racconta
sono i fatti suoi, parte della sua vita, e la sua Cronaca è
lo specchio del tempo, non nelle regioni astratte della scienza o
nel fantastico della cavalleria e dell'ascetica, ma nella
realtà della vita pubblica.
I partiti che straziavano Firenze con nomi
venuti da Pistoia erano detti i Neri e i Bianchi, gli uni
capitanati da' Donati e gli altri da' Cerchi, famiglie
potentissime di ricchezza e di aderenze. Dante sperò di
poter pacificare la città, mandando in esilio i due
più potenti e irrequieti capi delle due fazioni, Corso
Donati e Guido Cavalcanti. Venuto malato, il Cavalcanti fu
richiamato, ma non Corso Donati: di che si menò molto
scalpore, massime che Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.
I Neri erano guelfi puri, e si appoggiavano sui
popolani e sul papa, vicino, influente, e centro di tutti
gl'intrighi e le cospirazioni guelfe. Bonifazio ottavo, venuto
dopo il giubileo in maggior superbia, avea chiamato a sè
con molte promesse Carlo di Valois, detto per dispregio "senza
terra", e mandatolo a Firenze sotto colore di pacificare la
città, ma col proposito di ristorarvi la parte nera. Qui
comincia il dramma, esposto con sì vivi colori dal nostro
Dino nel libro secondo.
Dante si lasciò persuadere di andare
legato a Roma. Si dice abbia detto: - Se io vado, chi resta? -
Restò il povero Dino. Certo, l'opera di Dante sarebbe stata
più utile a Firenze, dove lasciò il campo libero
agli avversari. A Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e
non concluse nulla.
Dino comincia il racconto con stile concitato.
Sembra un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o
Gerosolima:
"Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di
scandali, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e
distendete le vostre malizie. Non penate più: andate e
mettete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete
il sangue de' vostri fratelli, spogliatevi della fede e
dell'amore; nieghi l'uno all'altro aiuto e servigio. Credete voi
che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo
rende una per una... Non v'indugiate, o miseri: chè
più si consuma un dì nella guerra, che molti anni
non si guadagna in pace, e piccola è quella favilla che a
distruzione mena un gran regno."
Qui non ci è l'uomo politico. Ci
è la realtà vista da un aspetto puramente morale e
religioso, come gli ascetici; il concetto è lo stesso; la
materia è diversa. Considerata così, la
realtà riesce al buon Dino altra che non pensava, e in
luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la
realtà e la maledice. I suoi errori nascono dal concetto
falso che avea degli uomini e delle cose, sì che divenne il
trastullo degli uni e degli altri, perdette lo stato e fu
calunniato, come avviene a' vinti. Allora prende la penna, e li
maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale
ingenuità che se le male passioni degli altri son
manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontà.
Mentre gli ambasciatori armeggiano con
Bonifazio, largo promettitore purchè "sia ubbidita la sua
volontà", furono in Firenze eletti i nuovi signori, e Dino
fu di quelli. Piacque la scelta, perchè "uomini non
sospetti e buoni, e senza baldanza, e avevano volontà
d'accomunare gli uffici, dicendo: - Questo è l'ultimo
rimedio". Questo è il giudizio che porta Dino di sè
e de' suoi colleghi. Ma i loro avversari "n'ebbono speranza",
perchè li conosceano "uomini deboli e pacifici, i quali
sotto spezie di pace credeano leggiermente di poterli ingannare".
Che buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.
I Neri "a quattro e a sei insieme, preso
accordo fra loro", li andavano a visitare e diceano: "Voi siete
buoni uomini e di tali avea bisogno la nostra città. Voi
vedete la discordia de' cittadini vostri: a voi la conviene
pacificare, o la città perirà. Voi siete quelli che
avete la balìa, e noi a ciò fare vi profferiamo
l'avere e le persone di buono e leale animo". E benchè "di
così false profferte dubitassero, credendo che la loro
malizia coprissero con falso parlare", pure Dino per commessione
de' suoi compagni rispose: "Cari e fedeli cittadini, le vostre
profferte noi riceviamo volentieri, e cominciar vogliamo a usarle:
e richieggiamvi che voi ci consigliate, e pogniate l'animo a guisa
che la nostra città debba posare". Che scellerati! E che
buoni uomini! Non si può meglio rappresentare la malizia
degli uni e l'innocenza degli altri. Scrivendo dopo i fatti, Dino
si picchia il petto e dice il mea culpa: "E così perdemmo
il primo tempo, perchè non ardimmo a chiudere le porte,
nè a cessare l'udienza ai cittadini. Demmo loro
intendimento di trattar pace, quando si convenia arrotare i
ferri".
Poichè si trattava la pace, i Bianchi
smessero dalle offese e i Neri presero baldanza. E Dino confessa
questo primo effetto della sua bontà: "La gente, che tenea
co' Cerchi, ne prese viltà, dicendo: - Non è da
darsi fatica, chè pace sarà. - E i loro avversari
pensavano pur di compiere le loro malizie".
La voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito
contrario a' Cerchi e che Carlo di Valois veniva in Firenze, dovea
aver tanto imbaldanzito i Neri, che a costoro pareva un atto di
debolezza e di paura quello che in Dino era ispirato da sincero
amore di concordia. E quelle pratiche di pace spacciavano covare
sotto un tradimento. La forza materiale era ancora in mano di
Dino; ma la forza morale passava agli avversari, più
audaci, e confidenti in vicina vittoria. Già ci era
un'altra aria in città. Non pur gl'indifferenti, ma anche
noti seguaci de' Cerchi mutavano lingua. Sicchè l'oratore
di Carlo riferì che "la parte de' Donati era assai
innalzata e la parte de' Cerchi era assai abbassata", veggendo
come dopo le sue parole "molti dicitori si levarono in piè
affocati per dire e magnificare messer Carlo".
Dino, volendo negare l'ingresso a Carlo e non
osando prendere su di sè la cosa, "essendo la novità
grande", si rimise al suffragio de' suoi concittadini. Fu un
plebiscito fatto dal debole e che riuscì in favore de'
forti: solito costume de' popoli, e il buon Dino nol sapea. I soli
fornai si mostrarono uomini, dicendo che "nè ricevuto,
nè onorato fusse, perchè venìa per
distruggere la città".
Dino credette trovare il rimedio, chiedendo a
Carlo "lettere bollate, che non acquisterebbe ... niuna
giurisdizione, nè occuperebbe niuno onore della
città nè per titolo d'imperio, nè per altra
cagione, nè le leggi della città muterebbe,
nè l'uso". Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera, e
provvide che il passo gli fosse negato e "vietata la vivanda". Ma
la lettera venne, e "io la vidi e fecila copiare, e quando fu
venuto, io lo domandai se di sua volontà era scritta.
Rispose: - Sì, certamente -". Ora che Dino ha la lettera in
tasca, può viver sicuro.
E gli viene "un santo e onesto pensiero,
immaginando: Questo signore verrà, e tutt'i cittadini
troverà divisi, di che grande scandalo ne seguirà".
Onde li rauna nella chiesa di San Giovanni, e loro fa un
fervorino, perchè "sopra quel sacrato fonte onde trassero
il santo battesimo", giurino buona e perfetta pace. Le parole di
Dino sono di quella eloquenza semplice e commovente che viene dal
cuore. In quei tempi di lotte così accese il sentimento
della concordia era tanto più vivo negli animi buoni e
onesti, da Albertano a Caterina. E non so che in Caterina si
trovino parole nella loro semplicità così affettuose
come queste di Dino: "Signori, perchè volete voi confondere
e disfare una così buona città? Contro a chi volete
pugnare? Contro a' vostri fratelli? Che vittoria avrete? Non altro
che pianto".
Tutti giurarono; e Dino aggiunge
con amarezza: "I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano
lacrime, e baciavano il libro, ... furono i principali alla
distruzione della città". Povero Dino! E si affligge il
brav'uomo e si pente, e "di quel sacramento molte lacrime sparsi,
pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia".
Carlo quintoenne, e diètrogli, dicendo
che venìano a onorare il signore, lucchesi, perugini, e
Cante d'Agobbio e molti altri, a sei e dieci per volta, tutti
avversari de' Cerchi: e "ciascuno si mostrava amico". Dino fece il
ponte d'oro al nemico che entra, contro il proverbio. E Carlo ebbe
in Firenze milledugento cavalli.
Che fa Dino? Sceglie quaranta cittadini di
amendue le parti, perchè provveggano alla salvezza della
terra. Ciò che ci era negli animi è qui scolpito in
pochi tratti: "Quelli che avevano reo proponimento, non parlavano;
gli altri aveano perduto il vigore. Baldino Falconieri, uom vile,
dicea: - Signori, io sto bene, perchè io non dormia
sicuro". Lapo Saltarelli, per riamicarsi il papa, ingiuria la
Signoria, e tiene in casa nascosto un confinato. Albertano del
Giudice monta in ringhiera, e biasima i signori. Pare coraggio
civile, ed è viltà e diserzione. I nemici tacciono.
Gli amici ingiuriano, per farsi grazia. Cominciano i tradimenti.
"I priori scrissero al papa segretamente; ma tutto seppe la parte
nera, perocchè quelli che giurarono credenza non la
tennono".
Alfine Dino si risolve ad accomunare gli
uffici, parlando "umilmente e con gran tenerezza" dello scampo
della città. Ma era troppo tardi. I Neri non volevano
parte, ma tutto.
"E Noffo Guidi parlò e disse: - Io
dirò cosa che tu mi terrai crudele cittadino. - E io li
dissi che tacesse: e pur parlò, e fu di tanta arroganza,
che mi domandò che mi piacesse far la loro parte
nell'ufficio, maggiore che l'altra; che tanto fu a dire, quanto: -
Disfa' l'altra parte - e me porre nel luogo di Giuda. E io li
risposi che innanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei
figliuoli a mangiare a' cani."
Carlo quintoolea in mano i Signori, e li facea
spesso invitare a mangiare. E quelli si ricusavano, adducendo che
la legge li costringea che fare non lo potevano; ma era
"perchè stimavano che contro a loro volontà li
avrebbe ritenuti". Un giorno disse che in Santa Maria Novella
fuori della terra volea parlamentare, e che piacesse alla Signoria
esservi. Dino vi mandò tre soli de' compagni: "a' quali
niente disse, come colui che non volea parole, ma sì
uccidere".
"Molti cittadini si dolsono con noi
di quella andata, parendo loro che andassono al martirio. E quando
furono tornati, lodavano Dio, che da morte gli avea scampati."
Volevano, se la Signoria vi fosse ita tutta,
"ucciderli fuori della porta e correre la terra per loro". E Dino
che facea?
C'è un brano stupendo, che è una
pittura. Vedi come Dino passava i giorni; la sua incapacità
e i suoi affanni:
"I Signori erano stimolati da ogni parte. I
buoni diceano che guardassero ben loro, e la loro città. I
rei li contendeano con quistioni. E tra le domande e le risposte
il dì se ne andava. I baroni di messer Carlo gli occupavano
con lunghe parole. E così viveano con affanno."
Un rimedio gli è suggerito da frate
Benedetto: - Fate fare processione, e del pericolo cesserà
gran parte -. E Dino fece la processione, e molti lo schernirono,
dicendo che "meglio era arrotare i ferri". E Dino conchiude,
parlando di sè e de' colleghi: "Niente giovò,
perchè usarono modi pacifici, e voleano essere repenti e
forti. Niente vale l'umiltà contro alla grande malizia".
Tutto ti è messo sott'occhio, come in
una rappresentazione drammatica. Vedi i Neri in istrada,
corrompere, far gente, mostrare la loro potenza. Diceano:
"- Noi abbiamo un signore in casa; il papa
è nostro protettore; gli avversari nostri non sono guerniti
nè da guerra, nè da pace; danari non hanno; i
soldati non sono pagati. -"
E misero in ordine "tutto ciò che a
guerra bisognava, ... invitati molti villani d'attorno e tutti gli
sbanditi". I Neri si armavano; i Bianchi no, perchè era
contro la legge, e Dino minacciava di punirli. E ora che scrive, a
scolparsi nota che fu per avarizia, perchè fece dire a'
Cerchi: "- Fornitevi, e ditelo agli amici vostri -".
I Neri, "conoscendo i nemici loro vili e che
aveano perduto il vigore", vengono a' ferri. I Medici lasciano per
morto Orlandi, un valoroso popolano. Si grida a' priori: - Voi
siete traditi, armatevi -.
Ecco finalmente sventolare sulle finestre il
gonfalone di giustizia. Molti vanno nascosamente ... dal lato di
parte nera. Ma traggono alla Signoria i soldati che non erano
corrotti, e altre genti, e amici a piè e a cavallo. Era il
momento di operare con vigore. Ma "i Signori non usi a guerra
erano occupati da molti che voleano essere uditi; e in poco stante
si fe' notte". Il podestà non si fe' vivo. Il capitano non
si mosse, come "uomo più atto a riposo e a pace che a
guerra." "La raunata gente non consigliò". Il giorno
finì: e non si concluse nulla, e la gente stanca se ne
andò, e ciascuno pensò a se stesso. E Dino cosa
facea? Dava udienza.
I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con
buone parole.
Li Spini diceano alli Scali:
"- Deh! Perchè facciamo noi così?
Noi siamo pure amici e parenti e tutti guelfi; noi non abbiamo
altra intenzione che di levarci la catena di collo, che tiene il
popolo a voi e a noi. E saremo maggiori che noi non siamo.
Mercè per Dio, siamo una cosa, come noi dovemo essere. -
... Quelli che riceveano tali parole, s'ammollavano nel cuore, e i
loro seguaci invilirono".
I ghibellini, credendosi
abbandonati, si smarrirono, e gli sbanditi si avvicinavano alla
città. Come farli entrare? Carlo primonstava presso la
Signoria, perchè si desse a lui la guardia della
città e delle porte: che farebbe de' malfattori aspra
giustizia. E sotto questo nascondea la sua malizia, nota l'arguto
Dino. Ma l'arguto Dino gli dà la guardia delle porte
d'Oltrarno! Bisogna proprio sentir lui:
"Le chiavi gli furono negate, e le
porte di Oltrarno gli furono raccomandate, e levati ne furono i
fiorentini, e furonvi messi i franciosi. E il cancelliere e il
manescalco di messer Carlo giurarono nelle mani a me Dino
ricevente per lo comune.... E mai credetti che un tanto signore e
della casa reale di Francia rompesse la sua fede: perchè
passò piccola parte della seguente notte che per la porta
che noi gli demmo in guardia, die' l'entrata a ... molti ...
sbanditi."
Fatta la breccia, entrano gli altri. E i
signori, venuta meno tutta la loro speranza, "deliberarono, quando
i villani fossero venuti in loro soccorso, prendere la difesa."
Che erà quel prender tempo e non risolversi degli animi
deboli. Furono vinti senza combattere. Tutti si gettarono
là dov'era la forza:
"I malvagi villani gli abbandonarono... e i ...
famigli li tradirono.... Molti soldati si volsono a servire i loro
avversari. Il podestà ... andava procurando in aiuto di
messer Carlo."
Carlo manda i suoi a' priori, "per occupare il
giorno e il loro proponimento con lunghe parole". Giuravano che il
loro signore si tenea tradito", e che farebbe la vendetta grande.
- Tenete per fermo che se il nostro signore non ha cuore di
vendicare il misfatto a vostro modo, fateci levare la testa. - E
ora che scrive, Dino aggiunge: "E non giurò messer Carlo
primol vero, perchè [Corso Donati] di sua saputa venne".
Carlo è pronto ad armare i suoi
cavalieri e vendicare il comune, ma ad un patto, che si dieno a
lui in custodia i più potenti uomini delle due parti. E
Dino consente.
"I Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con
temenza. Messer Carlo li fece guardare; i Neri lasciò
partire, ma i Bianchi ritenne presi quella notte senza paglia e
senza materasse, come uomini micidiali."
Qui Dino non ne può più e prorompe:
"O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio,
ov'è la fede della real casa di Francia, caduta per mal
consiglio, non temendo vergogna? O malvagi consiglieri, che avete
il sangue di così alta corona fatto non soldato, ma
assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua
fede, e falsando il nome della real casa di Francia!"
L'indignazione è uguale alla maraviglia
del buon uomo. Come pensare che il sangue di san Luigi, un Reale
di Francia, fosse spergiuro e assassino?
Quando non ci era più il rimedio, si
corse al rimedio. Dino fa sonare la campana grossa, che era un
chiamare alle armi. Ma nessuno uscì: "La gente sbigottita
non trasse di casa i Cerchi. Non uscì uomo a cavallo,
nè a pie armato".
Anche il cielo vi si mescola. Apparisce una
croce vermiglia sopra il palagio de' priori:
"Onde la gente che la vide, e io che
chiaramente la vidi, potemmo comprendere che Dio era fortemente
contro alla nostra città crucciato."
La città per sei giorni fu messa a ruba.
In pochi tocchi ti sta innanzi il quadro:
"Gli uomini che temeano i loro avversari si
nascondeano per le case de' loro amici. L'uno nimico offendea
l'altro; le case si cominciavano ad ardere; le ruberie si faceano,
e fuggivansi gli arnesi alle case degl'impotenti. I Neri potenti
domandavano danaro a' Bianchi; maritavansi le fanciulle a forza;
uccideansi uomini; e quando una casa ardea forte, messer Carlo
domandava: - Che fuoco è quello? - Eragli risposto che era
una capanna, quando era un ricco palazzo."
I priori, multiplicando il mal fare, e non
avendo rimedio, lasciarono il priorato. E venne al governo la
parte nera.
Dino fu il Pier Soderini di quel tempo, e fu a
se stesso il suo Machiavelli. Nessuno può dipingerlo meglio
che non fa egli medesimo.
In questa maravigliosa cronaca non ci è
una parola di più. Tutto è azione, che corre senza
posa sino allo scioglimento. Ma è azione, dove paion fuori
caratteri e passioni. Un motto, un tratto è un carattere.
Carlo, dopo di aver tratto da' fiorentini molti danari, va a Roma
e chiede danari a Bonifazio. - Ma io ti ho mandato alla fonte
dell'oro, - risponde il papa. È una risposta, che è
un ritratto dell'uno e dell'altro. I discorsi sono sostanziosi,
incisivi, non meno pittoreschi: vedi personaggi vivi, con la loro
natura e i loro intendimenti, e fanno più effetto che non
le studiate e classiche orazioni venute poi. Uomo d'impressione
più che di pensiero, Dino intuisce uomini e cose a prima
vista, e ne rende la fisonomia che non la puoi dimenticare. Di
Bonifazio ottavo dice:
"Fu di grande ardire e alto ingegno, e guidava
la Chiesa a suo modo, e abbassava chi non li consentia."
Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto:
"Un cavaliere della somiglianza di Catilina
romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del
corpo, piacevole parlatore; adorno di belli costumi, sottile
d'ingegno, coll'animo sempre intento a mal fare (col quale molti
masnadieri si raunavano, e gran sèguito avea) molte arsioni
e molte ruberie fece fare;... molto avere guadagnò e in
grande altezza salì. Costui fu messer Corso Donati che per
sua superbia fu chiamato il barone, che, quando passava per la
terra, molti gridavano: - Viva il barone. - E parea la terra sua.
La vanagloria il guidava e molti servigi facea."
La stessa sicurezza è nella
rappresentazione delle cose. Rapido, arido, tutto fatti, che
balzan fuori coloriti dalle sue vivaci impressioni, dalla sua
maraviglia, dalla sua indignazione. Una cosa soprattutto lo
colpisce, che "molte lingue si cambiarono in pochi giorni". Non vi
si sa rassegnare, e li chiama ad uno ad uno, e ricorda loro quello
che diceano e quello che erano. Il mutarsi dell'animo secondo gli
eventi non gli potea entrare:
"Donato Alberti, ... dove sono le tue
arroganze, che ti nascondesti in una vile cucina? O messer Lapo
Salterelli, minacciatore e battitore de' rettori che non ti
serviano nelle tue quistioni, ove t'armasti? In casa i Pulci,
stando nascoso, ... O messer Manetto Scali, che volevi esser
tenuto sì grande e temuto, ove prendesti le armi? ... O voi
popolani, che desideravate gli ufici e succiavate gli onori, e
occupavate i palagi de' rettori, ove fu la vostra difesa? Nelle
menzogne, simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando
i nemici, solamente per campare. Adunque piangete sopra voi e la
vostra città."
I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e
ingenerose sono da lui rappresentati con lo stesso accento di
maraviglia, come di cose non viste mai, e svegliano nel suo animo
onesto una indignazione eloquente. Ed è da quei sentimenti
che è uscito questo capolavoro di descrizione:
"Molti nelle pie opere divennero grandi, i
quali avanti nominati non erano, e nelle crudeli opere regnando,
cacciarono molti cittadini e feciongli rubelli, e sbandeggiarono
nell'avere e nella persona. Molte magioni guastarono, e molti ne
puniano, secondo che tra loro era ordinato e scritto. Niuno ne
campò che non fosse punito. Non valse parentado nè
amistà; nè pena si potea minuire, nè cambiare
a coloro a cui determinate erano. Nuovi matrimoni niente valsero,
ciascuno amico divenne nimico; i fratelli abbandonavano l'un
l'altro, il figliuolo il padre, ogni amore, ogni umanità si
spense. ... Patto, pietà nè mercè in niuno
mai si trovò. Chi più dicea: - Muoiano, muoiano i
traditori -, colui era il maggiore."
Tra' proscritti fu Dante. Condannato in
contumacia, non rivide più la sua patria. Ira, vendetta,
dolore, disdegno, ansietà pubbliche e private, tutte le
passioni che possono covare nel petto di un uomo, lo
accompagnarono nell'esilio. Chi ha visto l'indignazione di Dino,
può misurare quella di Dante.
Il priorato fu il principio della sua rovina, com'egli dice, ma fu
anche il principio della sua gloria. Non era uomo politico;
mancavagli flessibilità e arte di vita; era tutto un pezzo,
come Dino. Priore, volle procurare una concordia impossibile, e
non riuscì che a farsi ingannare da' Neri in Firenze e da
Bonifazio in Roma. Esule, non valse a mantenere quella preminenza
che era debita al suo ingegno e alla sua virtù, si
lasciò soverchiare da' più audaci e arrischiati, e
non potendo impedire e non volendo accettare molti disegni, si
segregò e si fece parte per se stesso. Toltosi alle
faccende pubbliche, ripiegatosi in sè, sviluppò
tutte le sue forze intellettive e poetiche.
Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale
ardore allo studio che la vista ne fu debilitata. Finisce la Vita
Nuova con la speranza "di dire di lei quello che non fu mai detto
di alcuna". E fece di questo suo primo e solo amore "la bellissima
e onestissima figlia dell'Imperatore dell'universo, alla quale
Pitagora pose nome Filosofia". Frutto di questi nuovi studi furono
le sue canzoni allegoriche e scientifiche.
Tra questi studi nacque la seconda Beatrice,
luce spirituale, unità ideale, l'amore che congiunge
insieme intelletto e atto, scienza e vita. Intelletto, amore,
atto, era questa la trinità, che fu il suo secondo amore,
la sua filosofia. Beatrice divenne un simbolo, e la poesia
vanì nella scienza.
Quel mondo lirico, che a noi pare troppo
astratto, parve poco spirituale ai contemporanei, che chiamavano
"sensuale" quel primo amore di Dante, e poco intendevano questo
suo secondo amore. E Dante, per cessare da sè l'infamia e
per mostrare la dottrina "nascosa sotto figura di allegoria",
volle illustrare e comentare le sue canzoni egli medesimo.
Era dottissimo. Teologia, filosofia, storia,
mitologia, giurisprudenza, astronomia, fisica, matematica,
rettorica, poetica, di tutto lo scibile avea notizia e non
superficiale: perchè di tutto parlò con chiarezza e
con padronanza della materia. Il disegno gli si allargò: al
poeta tenne dietro lo scienziato; e pensò di chiudere in
quattordici trattati, quante erano le canzoni, tutta la scienza
nella sua applicazione alla vita morale. Un lavoro simile, che
Brunetto chiamò Tesoro, e altri chiamavano Fiore o
Giardino, egli chiamò Convito, quasi mensa dov'è
imbandito "il pane degli angeli", il cibo della sapienza. Brunetto
avea scritto il Tesoro in francese, gli altri trattavano la
scienza in latino. La prosa volgare era tenuta poco acconcia a
questa materia, massime dopo l'infelice versione dell'Etica di
Aristotile, fatta da un tal Taddeo, celebre medico, nominato
"l'ippocratista". Bisogna vedere quante sottili ragioni adduce
Dante per scusarsi di scrivere in volgare. Celebra il latino come
"perpetuo e non corruttibile", e perchè "molte cose
manifesta concepute nella mente, che il volgare non può", e
perchè "il ... volgare seguita uso e il latino arte"; onde
il latino è "più bello, più virtuoso e
più nobile". Ma appunto per questo il comento latino non
sarebbe stato "suggetto alle canzoni" scritte in volgare, ma
"sovrano", e il comento per sua natura è servo e non
signore, e dee ubbidire e non comandare. Ora il latino non
può ubbidire, perchè "comandatore" e sovrano del
volgare. Oltrechè, come può il latino comentare il
volgare, non conoscendo il volgare? E che il latino non è
conoscente del volgare, si vede: "chè uno abituato di
latino non distingue, s'egli è d'Italia, lo volgare
provenzale dal tedesco nè il tedesco lo volgare italico o
provenzale ". Ecco le opinioni, le forme e le sottigliezze della
scuola. Questa novità di scrivere di scienza in volgare,
che è come dare a' convitati "pane di biado e non di
formento", gli pare così grande che a difendersene spende
otto capitoli, modello di barbarie scolastica. Lasciando stare le
sottigliezze, la sostanza è questa, ch'egli usa "il volgare
di sì", perchè loquela propria e "delli suoi
generanti", e suo "introducitore" nello studio del latino, e
perciò "nella via di scienza, ch'è ultima
perfezione". Scrisse in volgare le rime, il volgare usò
"deliberando, interpretando e quistionando"; dal principio della
vita ebbe con esso "benivolenza e conversazione"; il volgare
è l'amico suo, dal quale non si sa dividere. Coloro "fanno
vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza", che per
"iscusarsi del non dire o dire male accusano e incolpano la
materia, cioè lo volgare proprio". La plebe, o come dice
egli, le "popolari persone" cadono "nella fossa" di questa falsa
opinione per poca discrezione: "per che incontra che molte volte
gridano: - Viva la loro morte - e: - Muoia la loro vita -,
purchè alcuno cominci", e sono da chiamare "pecore, e non
uomini". Gli altri vi caggiono per vanità o per vanagloria,
o per invidia o per pusillanimità. Questo disamare lo
volgare proprio e pregiare l'altrui, gli pare un adulterio,
conchiudendo con queste sdegnose parole: "E tutti questi cotali
sono gli abbominevoli cattivi d'Italia, che hanno a vile questo
prezioso volgare, lo quale, se è vile in alcuna cosa, non
è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di
questi adulteri". E però egli scrive questo comento in
volgare, per fargli avere "in atto e palese quella bontade che ha
in potere e occulto", mostrando che la sua virtù si
manifesta anche in prosa, senza le accidentali adornezze della
rima e del ritmo, come donna "bella per natural bellezza e non per
gli adornamenti dell'azzimare e delle vestimenta", e che altissimi
e novissimi concetti convenientemente, sufficientemente e
acconciamente, "quasi come per esso latino", vi si esprimono. E
finisce con queste profetiche parole: "Questo sarà luce
nuova, sole nuovo, il quale surgerà, ove l'usato
tramonterà".
Tanta veemenza nell'accusare, tanto ardore nel
magnificare può fare intendere quanto radicata e sparsa era
l'opinione degl'infiniti "ciechi", com'egli li chiama, che
tenevano il volgare inetto alla prosa. E non ottenne l'intento. Il
latino continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato a
mezza via il Convito, trattò in latino la rettorica e la
politica, che insieme con l'etica era la materia ordinaria dei
trattati scientifici.
Il libro De vulgari eloquio non è un
fior di rettorica, quale si costumava allora, un accozzamento di
regole astratte cavate dagli antichi, ma è vera critica
applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati. La base di
tutto l'edifizio è la lingua nobile, aulica, cortigiana,
illustre, che è dappertutto e non è in alcuna parte,
di cui ha voluto dare esempio nel Convito. Questo ideale parlare
italico è illustre, in quanto si scosta dagli elementi
locali, ove prendono forma i dialetti e si accosta alla
maestà e gravità del latino, la lingua modello.
Voleva egli far del volgare quello che era il latino, non la
lingua delle persone popolari, ma la lingua perpetua e
incorruttibile degli uomini colti. Sogno assai simile a quello di
una lingua universale, fondata con procedimenti artificiali della
scienza. Scegliere il meglio di qua e di là e far cosa una
e perfetta, sembra cosa facile e assai conforme alla logica, ma
è contro natura. Le lingue, come le nazioni, vanno
all'unità per processi lenti e storici; e non per fusioni
preconcette, ma per graduale assorbimento e conquista degli
elementi inferiori. Il ghibellino che dispregiava i dialetti
comunali e voleva un parlare comune italico, di cui abbozzava
l'immagine, ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.
Il trattato, De Monarchia, è diviso in
tre libri. Nel primo dimostra la perfetta forma di governo essere
la monarchia; nel secondo prova questa perfezione essere incarnata
nell'impero romano, sospeso, non cessato, perchè
preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni tra l'impero
e il sacerdozio, l'unico imperatore e l'unico papa.
L'eccellenza della monarchia è fondata
sull'unità di Dio. Uno Dio, uno imperatore. Le oligarchie e
le democrazie sono "polizie oblique", governi "per accidente",
reggimenti difettivi. Fin qui tutti erano d'accordo, guelfi e
ghibellini. Non ci erano due filosofie: le premesse erano comuni
ai due partiti.
E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo
spirito e il corpo, e la preminenza di quello, base della
filosofia cristiana. E ne inferivano che nella società sono
due poteri, lo spirituale e il temporale, il papa e l'imperatore.
Il contrasto era tutto nelle conseguenze.
Se lo spirito è superiore al corpo,
dunque, conchiudeva Bonifazio ottavo, il papa è superiore
all'imperatore. "Il potere spirituale - dic'egli - ha il diritto
d'instituire il potere temporale e di giudicarlo, se non è
buono. E chi resiste, resiste all'ordine stesso di Dio, a meno
ch'egli non immagini, come i manichei, due princìpi,
Ciò che sentenziamo errore ed eresia. Adunque ogni uomo dee
essere sottoposto al pontefice romano, e noi dichiariamo che
questa sottomissione è necessaria per la salute
dell'anima".
Filosofia chiara, semplice, popolare, irresistibile per il
carattere indiscusso delle premesse consentite da tutti e per
l'evidenza delle conseguenze. Quando lo spirito era il sostanziale
e il corpo in se stesso era il peccato, e non valea se non come
apparenza o organo dello spirito, cos'altro potevano essere i re e
gl'imperatori, che erano il potere temporale, se non gl'investiti
dal papa, gli esecutori della sua volontà? I guelfi, che,
salve le franchigie comunali, ammettevano premesse e conseguenze,
erano detti "la parte di santa Chiesa".
Dante ammetteva le premesse, e per fuggire alla
conseguenza suppone che spirito e materia fossero ciascuno con sua
vita propria, senza ingerenza nell'altro, e da questa ipotesi
deduce l'indipendenza de' due poteri, amendue "organi di Dio"
sulla terra, di diritto divino, con gli stessi privilegi, "due
soli", che indirizzano l'uomo, l'uno per la via di Dio, l'altro
per la via del mondo, l'uno per la celeste, l'altro per la terrena
felicità. Perciò il papa non può unire i due
reggimenti in sè, congiungere il pastorale e la spada;
anzi, come vero servo di Dio e immagine di Cristo, dee dispregiare
i beni e le cure di questo mondo, e lasciare a Cesare ciò
che è di Cesare. L'imperatore dal suo canto dee usar
riverenza al papa, appunto per la preminenza dello spirito sul
corpo; e poichè il popolo è corrotto e usurpatore, e
la società è viziosa e anarchica, il suo uffizio
è di ridurre il mondo a giustizia e concordia, ristaurando
l'impero della legge. Nè è a temere che sia tiranno,
perchè nella stessa sua onnipotenza troverà il freno
a se stesso: perciò rispetterà le franchigie de'
comuni e l'indipendenza delle nazioni. Questa era l'utopia
dantesca o piuttosto ghibellina. Dante ne ha fatto un sistema e ne
è stato il filosofo.
Scendendo alle applicazioni, Dante mostra nel
secondo libro che la monarchia romana fu di tutte perfettissima.
La sua storia risponde alle tre età dell'uomo.
Nell'infanzia ebbe i re: adulta, e rettasi a popolo, con geste
maravigliose, una serie di miracoli che attestano la sua missione
provvidenziale, si apparecchiò alla età virile,
ordinandosi a monarchia sotto Augusto, che san Tommaso chiama
vicario di Cristo, e che Dante, seguendo la tradizione virgiliana,
dice discendente da Enea fondatore dell'impero, per disegno
divino. E fu a quel tempo che nacque Cristo, e "fu suddito
dell'impero", e compì l'opera della redenzione delle anime,
mentre Augusto componeva il mondo in perfetta pace.
Da queste premesse storiche Dante conchiude che
Roma per dritto divino dee essere la capitale del mondo, e che
giustizia e pace non può venire in terra se non con la
ristaurazione dell'impero romano, "la monarchia predestinata" di
cui la più bella parte il giardino, era l'Italia.
In apparenza, questo era un ritorno al passato,
ma ci era in germe tutto l'avvenire: ci era l'affrancamento del
laicato e l'avviamento a più larghe unità. I guelfi
si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di là del
comune vedi la nazione, e al di là della nazione
l'umanità, la confederazione delle nazioni. Era un'utopia
che segnava la via della storia.
Guelfi e ghibellini aveano comune la
persuasione che la società era corrotta e disordinata, e
chiedevano il paciere. La selva, immagine della corruzione,
è un punto di partenza comune a Brunetto guelfo e a Dante
ghibellino. I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie un
legato del papa, come Carlo di Valois, "che giostrò con la
lancia di Giuda", come dice Dante. I ghibellini invocavano
l'imperatore. E credesi che Dante abbia scritto questo trattato
per agevolare la via all'imperatore Arrigo settimo di Lucemburgo,
sceso a pacificare l'Italia e morto al principio dell'impresa,
glorificato da Dante, celebrato da Mussato, lacrimato da Cino. Non
avevano ancora imparato, e guelfi e ghibellini, che chiamar
pacieri è mettersi a discrezione altrui, e che metter
l'ordine e salvar la società dalle fazioni è antico
pretesto di tutt'i conquistatori.
Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse appunto ad
Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo insieme le sue opere latine,
di cui la più originale è quella De vulgari eloquio,
e unendovi il Convito, si può avere un giusto concetto del
suo lavoro intellettuale.
Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo.
Nè la filosofia fu la sua vocazione, lo scopo a cui
volgesse tutte le forze dello spirito. Fu per lui un dato, un
punto di partenza. L'accettò come gli veniva dalla scuola,
e ne acquistò una piena notizia. Seppe tutto, ma in nessuna
cosa lasciò un'orma del suo pensiero, posto il suo studio
meno in esaminare che in imparare. Accoglie qualsiasi opinione
anche più assurda, e gran parte degli errori e de'
pregiudizi di quel tempo. Cita con uguale riverenza Cicerone e
Boezio, Livio e Paolo Orosio, scrittori pagani e cristiani. La
citazione è un argomento. Il suo filosofare ha i difetti
dell'età. Dimostra tutto, anche quello che non è
controverso; dà pari importanza a tutte le quistioni.
Ammassa argomenti di ogni qualità, anche i più
puerili; spesso non vede la sostanza della quistione, e si perde
in minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo scolastico e le
infinite distinzioni. Pure, se fra tanti viottoli ti regge ire
sino alla fine, troverai nella sua Monarchia un'ampiezza ed
unità di disegno ed una concordanza di parti, che ti fa
indovinare il grande architetto dell'altro mondo.
I difetti delle opere latine sono comuni al
Convito, e gl'intralciano lo stile, e gl'impediscono
quell'andamento naturale e piano del discorso, che potea renderlo
accessibile agl'illetterati, a' quali era destinato. La sua teoria
della lingua illustre lo allontana da quell'andare soave e
semplice della prosa volgare, e quando gli altri volgarizzano il
latino, egli latinizza il volgare, cercando nobiltà e
maestà nelle perifrasi, ne' contorcimenti e nelle
inversioni. Usa una lingua ibrida, non italiana e non latina,
spogliata di tutte le movenze e attitudini vivaci del dialetto, e
lontana da quella dignità e misura, che ammira nel latino e
a cui tende con visibile e infelice sforzo. Se la natura gli
avesse concesso un più squisito senso artistico, avrebbe
forse potuto essere fondatore della prosa. Ma gli manca la grazia,
e senti la rozzezza nello sforzo della eleganza. Salvo qualche
raro intervallo, che la passione lo scalda e lo fa eloquente, la
sua prosa, come la sua lirica, fa desiderare l'artista.
Vocazione di Dante non fu la filosofia e non fu
la prosa. Quello ch'egli cercava, non potè realizzarlo come
scienza e come prosa.
- Che cerchi? - Gli domandò un
frate. Rispose: - Pace. - E questo cercavano tutt'i contemporanei.
Pace era concordia del regno terrestre col regno celeste,
dell'anima con Dio, il regno di Dio sulla terra. "Adveniat regnum
tuum." Pace vera quaggiù non può essere; vera pace
è in Dio, nel mondo celeste; Beatrice morendo parea che
dicesse: "Io sono in pace". La vita è una prova, un
tirocinio, per accostarsi quanto si può all'ideale celeste
e meritarsi l'eterna pace.
Lo scopo della vita è la salvazione
dell'anima, la pace dell'anima nel mondo celeste. Vivere è
morire alla terra per vivere in cielo. La vita è la storia
dell'anima, è un "mistero". Uscita pura dalle mani di Dio
"che la vagheggia", è sottoposta quaggiù al male e
al dolore, e non può tornare nella patria che purificata di
ogni macula terrestre. Per giungere a pace bisogna passare per tre
gradi, personificati ne' tre esseri, Umano, Spoglia e Rinnova, e
a' quali rispondono i tre mondi, inferno, purgatorio e paradiso.
Il "mistero" o la storia finisce al primo grado, quando l'anima
sopraffatta dall, Umano e vinta nella sua battaglia col demonio
viene in potere di questo: è la tragedia dell'anima, la
tragedia di Fausto, prima che Goethe, ispirato da Dante, lo avesse
riscattato. Ma quando l'anima vince le tentazioni del demonio, e
si spoglia e si purga dell'Umano, hai la sua glorificazione
nell'eterna pace: hai la "commedia" dell'anima. Questo è il
mistero, ora tragedia, ora commedia, secondo che prevale l'umano o
il divino, il terrestre o il celeste, che giace in fondo a tutte
le rappresentazioni e a tutte le leggende di quell'età.
Messo in iscena, era detto "rappresentazione": narrato. Era
"leggenda" o "vita", esposto in figura era "allegoria",
rappresentato in modo diretto e immediato, era "visione"; anzi le
due forme si compenetravano, e spesso l'allegoria era una visione,
e la visione era allegorica. Allegorie, visioni, leggende,
rappresentazioni erano diverse forme di questo mistero dell'anima,
del quale i teologi erano i filosofi, e i predicatori erano gli
oratori, che aggiungevano spesso alla dottrina l'esempio, qualche
leggenda o visione, com'è nello Specchio di vera penitenza.
Il mistero dell'anima era in fondo tutta una metafisica religiosa,
che comprendeva i più delicati e sostanziali problemi della
vita, e produceva una civiltà a sè conforme. Ci
entrava l'individuo e la società, la filosofia e la
letteratura.
La letteratura volgare in senso prettamente
religioso si stende per due secoli da Francesco di Assisi e
Iacopone sino a Caterina. L'Allegoria dell'anima, la
rappresentazione del Giovane monaco, l'Introduzione alle
virtù, la Commedia dell'anima sono in forma letteraria la
teoria di questo mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge
la sua perfezione dottrinale, ed acquista la sua individuazione o
realtà storica ne' Fioretti, nelle leggende e nelle visioni
del Cavalca e del Passavanti.
Ma questa letteratura era senza eco nella
classe colta da cui esce l'impulso della vita intellettuale. Dante
spregiava il latino della Bibbia, come privo di dolcezza e di
armonia. Quello scrivere così alla buona e come si parla
era tenuto barbarie e rozzezza. Vagheggiavano una forma di dire
illustre e nobile, prossima alla maestà del latino, della
quale Dante die' nel Convito un saggio poco felice. Nè
potea piacere quella semplicità di ragionamento con tanta
scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano dalle scuole con
tanta filosofia in capo, con tanta erudizione sacra e profana. Ma
se aveano in poco conto quella letteratura, giudicata povera e
rozza, non era diverso il concetto che essi avevano della vita. I
teologi filosofavano e i filosofi teologizzavano. La rivelazione
rimaneva integra nelle sue basi essenziali, ammesse come assiomi
indiscutibili. Tali erano l'unità e personalità di
Dio, l'immortalità dello spirito e lo scopo della vita
oltre terreno.
Ma se il concetto era lo stesso, la materia era
più ampia, abbracciando la coltura, oltre la Bibbia e i
santi Padri, quanto del mondo antico era noto, e la forma era
più libera, paganizzando sotto lo scudo dell'allegoria e
voltando il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e
Platone.
Il regno di Dio chiamavano regno della
filosofia. E realizzare il regno di Dio era conformare il mondo a'
dettati della filosofia unificare intelletto e atto. Il mediatore
era l'Amore, principio delle cose divine e umane, e non l'amore
sensuale, ch'era peccato, ma un amore intellettuale, l'amore della
filosofia. Il frutto dell'amore è la sapienza, che non
è puro intelletto, ma intelletto e atto congiunti, la
virtù. Il regno di Dio in terra era dunque il regno della
virtù, o come dicevano, della giustizia e della pace. A
realizzare questo regno erano istrumenti i due Soli, i due organi
di Dio, il papa e l'imperatore. La politica era l'arte di
realizzare questo regno della giustizia e della pace, rendendo gli
uomini virtuosi e felici. Il criterio politico era puramente
etico, come s'è visto in Albertano giudice, in Egidio
Colonna, in Mussato, in Dino Compagni. All'effettuazione di questo
regno etico concorreva la tradizione virgiliana; perchè
Virgilio era un testo non meno rispettabile che la Bibbia. E si
attendeva la monarchia predestinata da Dio, la ristorazione
dell'impero romano.
In questi due secoli abbiamo due letterature
quasi parallele, e persistenti l'una accanto all'altra: una
schiettamente religiosa, chiusa nella vita contemplativa,
circoscritta alla Bibbia e a' santi Padri, e che ha per risultato
inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni, e
l'altra che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema
filosofico, e abbraccia i vari aspetti della vita, e dà per
risultato somme, enciclopedie, trattati, cronache e storie,
sonetti e canzoni. Tra queste due letterature erra la novella e il
romanzo, eco della cavalleria, rimasti senza seguito e senza
sviluppo, quasi cosa profana e frivola.
Gli uomini istrutti si studiavano di render
popolare la cultura, specialmente nella sua parte più
accessibile e pratica, l'etica e la morale. Indi le tante versioni
e raccolte di precetti etici sotto nome di Fiori, Giardini,
Tesori, Ammaestramenti. Un tentativo di questo genere fu il
Tesoretto.
Nella prima parte della lirica dantesca hai la
storia ideale della santa, nella sua purezza soppresso il demonio
e le tentazioni della carne. È il mistero dell'anima
così come è rappresentato nella Commedia dell'anima.
L'anima, che uscita pura dalle mani di Dio, dopo breve
pellegrinaggio ritorna in cielo bellezza spirituale, o luce
intellettuale, è Beatrice; e Beatrice è la santa
della gente colta, è la donna platonica e innominata de'
poeti, battezzata e santificata.
Nella seconda parte Beatrice è la
filosofia, che riceve la sua esplicazione dottrinale nelle Canzoni
e nel Convito. La poesia va a metter capo nella pura scienza,
nell'esposizione scolastica di un mondo morale, dell'etica.
La letteratura popolare va a finire nelle
lettere dottrinali e monotone di Caterina: il suo difetto ingenito
è l'astrazione dell'ascetismo. La letteratura dotta va a
finire nelle sottigliezze scolastiche del Convito: il suo difetto
intrinseco è l'astrazione della scienza. Tutte e due hanno
una malattia comune, l'astrazione, e la sua conseguenza
letteraria, l'allegoria.
Ma il mondo di Dante non potea rimaner chiuso
in questi limiti, o piuttosto non era questo il suo mondo naturale
e geniale, conforme alle qualità del suo spirito e del suo
genio, e ci sta a disagio. La sua forza non è l'ardore
della ricerca e della investigazione, che è il genio degli
spiriti speculativi. La scienza è per lui un dogma: il
cervello rimane passivo in quelle scolastiche esposizioni. Avea
troppa immaginazione, perchè potesse rimaner nell'astratto,
e studia più a figurarlo e colorirlo che a discuterlo e
interrogarlo. La fantasia creatrice, il vivo sentimento della
realtà, le passioni ardenti del patriota disingannato e
offeso, le ansietà della vita pubblica e privata, non
poteano avere appagamento in quella regione astratta della
scienza, che pur gli era tanto cara. Sentiva il bisogno meno di
esporre che di realizzare. E volle realizzare questo regno della
scienza o regno di Dio che tutti cercavano, farne un mondo
vivente.
Il mondo è una selva oscura, corrotto
dal vizio e dall'ignoranza. Rimedio è la scienza, secondo i
cui princìpi dovrebb'esser conformato. La scienza è
il mondo ideale, non qual è, ma quale dee essere. Questo
ideale si trova realizzato nell'altra vita, nel regno di Dio,
conforme alla verità e alla giustizia. Perciò ad
uscir dalla selva non ci è che una via, la contemplazione e
la visione dell'altra vita. Per questa via l'anima, superate le
battaglie del senso e purificatasi, ha la sua pace, la sua eterna
commedia, la beatitudine.
Da questo concetto semplice e popolare
uscì la contemplazione o visione, detta la Commedia,
rappresentazione allegorica del regno di Dio, il "mistero
dell'anima" o la "Commedia dell'anima."
VII
LA COMMEDIA
Chi mi ha seguito vede che la "Divina Commedia" non è un
concetto nuovo, nè originale, nè straordinario,
sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo
maravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di
tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme
letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati, tesori,
giardini, sonetti e canzoni. L'Allegoria dell'anima e la Commedia
dell'anima sono gli schemi, le categorie, i lineamenti generali di
questo concetto.
Nel Convito la sostanza è l'etica, che
Dante cerca di rendere accessibile agl'illetterati, esponendola in
prosa volgare. Qui il problema è rovesciato. La sostanza
sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al
mistero dell'anima, il concetto di tutt'i misteri e di tutte le
leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la
coltura di quel tempo. Con questa felice ispirazione, pigliando a
base della coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le
due letterature, che si contendevano il campo, intorno al comune
concetto che le ispirava, il mistero dell'anima. La
rappresentazione e la leggenda esce dalla sua rozza
volgarità e si alza a' più alti concepimenti della
scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa
mistero e leggenda. Indi l'immensa popolarità di questo
libro, che gl'illetterati accettavano nel senso letterale e i
dotti comentavano come un libro di scienza, come la Somma di san
Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi quel medesimo che sentiva
nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni, nè
è maraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia
pensosa e come alienata, dicesse: - Costui par veramente uscito
ora dall'inferno. - Gli eruditi si affannavano a cercare il senso
de' versi strani, e il Boccaccio iniziava quella serie di comenti
che spesso in luogo di squarciare il velo lo fanno più
denso.
In effetti la Divina Commedia è una
visione dell'altro mondo allegorica. Cristianamente, la visione e
la contemplazione dell'altra vita è il dovere del credente,
la perfezione. Il santo vive in ispirito nell'altro mondo; le sue
estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita, a cui
sospira. Dante accetta questa base ascetica, popolarissima:
contemplare e vedere l'altro mondo è la via della
salvazione. Per campare dalla selva del vizio e dell'ignoranza,
egli si getta alla vita contemplativa, vede in ispirito l'altro
mondo e narra quello che vede. Questo è il motivo ordinario
di tutte le visioni, è la storia di tutt'i santi, è
il tema di tutt'i predicatori, è la lettera della Commedia,
visione dell'altro mondo, come via a salute. Ma la visione
è allegoria. L'altro mondo è allegoria e immagine di
questo mondo, è in fondo la storia o il mistero dell'anima
ne' suoi tre stati, detti nell'Allegoria dell'anima Umano,
Spoglia, Rinnova, che rispondono a' tre mondi, Inferno, Purgatorio
e Paradiso. È l'anima intenebrata dal senso, nello stato
puramente umano, che spogliandosi e mondandosi della carne si
rinnova, ritorna pura e divina. Questa allegoria era popolare e
comune non meno che la lettera. Ciascuno vedeva un po' l'altro
mondo con l'occhio di questo mondo, con le sue passioni e
interessi. I predicatori, soprattutto nella descrizione delle pene
infernali, cercavano immagini delle passioni terrene. Il mistero
dell'anima era la base di tutte le invenzioni, la leggenda delle
leggende. L'uomo, caduto nell'errore e nella miseria, che finisce
o vendendo l'anima al demonio o purgandosi e salvandosi, era il
fondamento di tutte le storie popolari, come s'è visto
nell'Introduzione alle virtù e nella Commedia dell'anima.
La Commedia dell'anima è l'anima uscita dalle mani di Dio
pura, che in terra combatte le sue battaglie con la carne e col
demonio, e vince assistita dalla grazia di Dio. Vizi e
virtù combattono, come gli dei di Omero, intorno all'anima;
le virtù vincono e l'anima è salva.
Nell'Introduzione alle virtù è un giovane caduto in
miseria, a cui apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e
signora, e gli mostra la battaglia de' Vizi e delle Virtù;
e il giovane, spregiando i beni terrestri, si leva al cielo. La
filosofia è anche la divina consolatrice di Boezio,
così popolare, e di Dante, a cui dopo la morte di Beatrice
apparve questa "nobilissima figlia dell'Imperatore dell'universo",
facendolo suo amico e servo. Il vizio e l'ignoranza, la
conversione per opera di Dio o della filosofia, la redenzione e
beatificazione, visione di Dio e della scienza, era il luogo
comune delle due letterature, de' semplici e degli uomini colti. E
Dante fonde insieme le due forme, e tira nella sua allegoria
filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio e scienza, e fa un
mondo armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo. L'anima
nell'inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora dal
terreno ha a guida il lume naturale, la ragione o la filosofia; ma
la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta
libera e monda e leggiera, ha nel paradiso maestra la grazia o la
teologia, luce intellettuale, che le mostra la scienza senza velo,
o Dio nella sua essenza.
Perchè l'altro mondo è
allegorico, figura dell'anima nella sua storia, il poeta è
sciolto da' vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo
libero dell'immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le
forme cristiane, adopera alla sua costruzione tutt'i materiali
della scienza, sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo
pagano, mescolando insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero,
figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel mondo
universale della coltura, tanto desiderato dalle classi colte e
fino allora tentato invano, cristiano nel suo spirito e nella sua
lettera, ma dove già penetra da tutte le parti il mondo
antico. Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e
grottesca, legittimata qui dall'allegoria, che concede al poeta
libertà di forme ch'egli creda più acconce a
significare i suoi concetti. Il mondo pagano e la scienza profana
sono qui materiali di costruzione, usati a edificare un tempio
cristiano, a quel modo che colonne egizie e greche si veggono
talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de'
nuovi tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione
gigantesca prendon parte tutte le età e tutte le forme,
fuse insieme e battezzate, penetrate da un solo concetto, il
concetto cristiano.
L'ordito è semplicissimo: è la
storia o mistero dell'anima nella sua espressione elementare, come
si trova nella rappresentazione della Commedia dell'anima; e l'hai
già tutta e chiara innanzi, fin dal primo canto. Dante nel
giorno del Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua
possanza e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui, si
trova smarrito in una selva oscura, e sta per soggiacere
all'assalto delle passioni, figurate nella lonza, il leone e la
lupa, quando a camparlo dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo
mena seco a contemplare l'inferno e il purgatorio, ove, confessati
i suoi falli, guidato da Beatrice, sale in paradiso e di luce in
luce giunge alla faccia di Dio. Allegoricamente, Dante è
l'anima, Virgilio è la ragione, Beatrice è la
grazia, e l'altro mondo è questo mondo stesso nel suo
aspetto etico e morale, è l'etica realizzata, questo mondo
quale dee essere secondo i dettati della filosofia e della morale,
il mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.
Dante è l'anima non solo come individuo,
ma come essere collettivo, come società umana, o
umanità. Come l'individuo, così la società
è corrotta e discorde, e non può aver pace se non
instaurando il regno della giustizia o della legge, riducendosi
dall'arbitrio de' molti sotto unico moderatore. E qui entra la
tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio, fondata
da Augusto, discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo
del mondo. Questo concetto politico non è intruso e
soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso concetto etico,
applicato all'individuo e alla società. È tale la
medesimezza, che la stessa allegoria si può interpretare in
un senso puramente etico, per rispetto all'individuo, e in un
senso politico, per rispetto alla società. E non è
perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta
docilità alle più diverse interpretazioni.
Se l'allegoria ha reso possibile a Dante una
illimitata libertà di forme, gli rende d'altra parte
impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura
rappresentare il figurato, non può essere persona libera e
indipendente, come richiede l'arte, ma semplice personificazione o
segno d'idea, sicchè non contenga se non i tratti soli che
hanno relazione all'idea, a quel modo che il vero paragone non
esprime di se stesso se non quello solo che sia immagine della
cosa paragonata. L'allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e
insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa
il segno o la cifra di un concetto a sè estrinseco. Hai due
realtà distinte, l'una fuori dell'altra, l'una figura e
adombramento dell'altra, perciò amendue incompiute e
astratte. La figura, dovendo significare non se stessa, ma un
altro, non ha niente d'organico e diviene un accozzamento
meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di
sè, com'è il grifone del Purgatorio, l'aquila del
Paradiso, e il Lucifero, e Dante con le sette "P" incise sulla
fronte.
La poesia non s'era ancora potuta
sciogliere dall'allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio
spirituale facea guerra non solo agl'idoli, ma anche alla poesia,
tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E
verità era filosofia o storia: la verità poetica non
era compresa. La poesia era stimata un tessuto di menzogne, e
"poeta" e "mentitore", come dice il Boccaccio, era la stessa cosa;
i versi erano chiamati, come dice san Girolamo, "cibo del
diavolo". La poesia perciò non fu accettata se non come
simbolo e veste del vero: l'allegoria fu una specie di
salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini.
Erano detti "poeti solenni", a distinzione de' "popolari", i dotti
che esprimevano in poesia la dottrina sotto figura, o in forma
diretta. Dante definisce la poesia "banditrice del vero", sotto
"il velame della favola ascoso", di modo che il lettore "sotto
alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare, trovi
salutari e dolcissimi ammaestramenti". La poesia è in
sè una "bella menzogna", che non ha alcun valore, se non
come figura del vero.
Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto
l'influenza ne' nostri lirici, Dante lavora sopra idee astratte:
trova una serie di concetti, e poi ti forma una serie
corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a questo
processo, a correre al generale. Il campo ordinario della
filosofia scolastica era l'Ente con tutte le altre
generalità, e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti,
anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la proposizione
generale. Ora quel mondo di concetti è la maggiore
dell'altro mondo.
Quali sieno questi concetti, io dirò
quasi con le stesse parole di Dante.
La patria dell'anima è il cielo, e come
dice Dante, discende in noi da altissimo abitacolo. Essa partecipa
della natura divina.
L'anima, uscendo dalle mani di Dio, è
"semplicetta", "sa nulla"; ma ha due facoltà innate, la
ragione e l'appetito, "la virtù che consiglia", e l'esser
"mobile ad ogni cosa che piace", l'esser "presta ad amare".
L'appetito (affetto, amore) la tira verso il
bene. Ma nella sua ignoranza non sa discernere il bene, segue la
sua falsa immagine e s'inganna. L'ignoranza genera l'errore, e
l'errore genera il male.
Il male o il peccato è posto
nella materia, nel piacere sensuale.
Il bene è posto nello
spirito: il sommo Bene è Dio, puro spirito. L'uomo dunque,
per esser felice, dee contrastare alla carne e accostarsi al sommo
Bene, a Dio. A questo fine gli è stata data la ragione come
consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la
moralità delle sue azioni.
La ragione per mezzo della filosofia ci
dà la conoscenza del bene e del male. Lo studio della
filosofia è perciò un dovere, è via al bene,
alla moralità. La moralità è la "bellezza
della filosofia": è l'etica, "regina delle scienze", "il
primo cielo cristallino".
A filosofare è necessario amore. L'Amore
(appetito) può esser sementa di bene e di male, secondo
l'oggetto a cui si volge. Il falso amore è "appetito non
cavalcato dalla ragione". Il vero amore è studio della
filosofia, "unimento spirituale dell'anima con la cosa amata".
Filosofia è "amistanza a sapienza",
amicizia dell'anima con la sapienza. Nelle nature inferiori
l'amore è "sensibile dilettazione". Solo l'uomo, come
"natura razionale, ha amore alla verità e alla
virtù" (alla filosofia). Ciò è vera
felicità, che per contemplazione della verità si
acquista.
In questi concetti si trova il succo della
morale antica. Già i filosofi pagani aveano mostrato la
filosofia come unico porto fra le tempeste della vita: esser
filosofo significava e significa anche oggi resistere alle
passioni ed a' piaceri, vincer se stesso, serbare l'eguaglianza
dell'animo nelle umane vicissitudini.
Ma ecco ora sopraggiungere il
cristianesimo.
L'umanità per il peccato d'origine cadde
in servitù dei sensi (del male o del peccato), e la ragione
e l'amore non furono più sufficienti a salvarla. La ragione
andava a tentoni e menava all'errore; "i filosofi andavan e non
sapevan dove"; l'amore rimaso senza "rettore" divenne appetito
sensuale. Era necessaria una redenzione soprannaturale. Dio si
fece uomo e redense l'umanità, offrendosi vittima
espiatoria per lei.
Mediante questo sacrificio, la ragione è
stata avvalorata dalla fede, l'amore avvalorato dalla grazia, la
filosofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.
Redenta l'umanità, ciascun uomo ha
acquistato la virtù di salvarsi con l'aiuto di Dio. Guidato
dalla ragione e dalla fede, fortificato dall'amore e dalla grazia,
può affrancarsi da' sensi e levarsi di mano in mano sino a
Dio, al sommo Bene.
Questo cammino dalla materia o dal peccato sino
allo spirito o al bene comprende tutto il circolo della morale o
etica. La conoscenza della morale (naturale e rivelata, filosofia
e teologia) è perciò necessaria a salute.
La morale è il "Nosce te ipsum", la
conoscenza di se stesso. L'uomo si trova in questa vita in uno de'
tre stati di cui tratta la morale, stato di peccato, stato di
pentimento, stato di grazia.
L'altro mondo è figura della morale.
L'inferno è figura del male o del vizio; il paradiso
è figura del bene o della virtù; il purgatorio
è il passaggio dall'uno all'altro stato mediante il
pentimento e la penitenza. L'altro mondo è perciò
figura de' diversi stati ne' quali l'uomo si trova in questa vita.
La rappresentazione dell'altro mondo è
dunque un'etica applicata, una storia morale dell'uomo, com'egli
la trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di sè il
suo inferno e il suo paradiso.
Il viaggio nell'altro mondo è figura
dell'anima nel suo cammino a redenzione. Ed è Dante stesso
che fa questo viaggio.
Si trova in una selva oscura (stato d'ignoranza
e di errore, la selva erronea del Convito), vede il dilettoso
colle, principio e cagione di tutta gioia (la beatitudine),
illuminato dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (la
scienza), ma tre fiere (la carne, gli appetiti sensuali) gli
tengono il passo. L'uomo da sè non può salire il
calle, non può giungere a salute: viene dunque il deus ex
machina, l'aiuto soprannaturale. Si richiede non solo ragione, ma
fede, non solo amore, ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo
guida, insino a che, confesso e pentito e purgato d'ogni macula
terrena, succede Beatrice (ragione sublimata a fede, amore
sublimato a grazia). Con questo aiuto esce dallo stato d'ignoranza
e di errore (la selva), e prende il cammino della scienza (l'altro
mondo, il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima l'inferno
(l'anima nello stato del male) e conosce il male nella sua natura,
nelle sue specie, ne' suoi effetti (vedi canto XI). Entra allora
in purgatorio (pentimento ed espiazione), dove ancor vive la
memoria e l'istinto del male, e conosciuto il suo stato, pentito e
mondo, diventa libero (dalla carne o dal peccato). Si trova allora
ricondotto allo stato d'innocenza, nel quale era l'uomo avanti il
peccato d'origine, e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice
(fede e grazia) Con la sua guida sale in paradiso (l'anima nello
stato di beatitudine), di grado in grado si leva sino alla
conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di Dio, del sommo
Bene, e in questa mistica congiunzione dell'umano e del divino si
riposa (è beato).
La redenzione della società ha luogo
nello stesso modo che degl'individui. La società serva
della materia è anarchia, discordia sviata dall'ignoranza e
dall'errore. E come l'uomo non può ire a pace, se non vinca
la carne ed ubbidisca alla ragione, così la società
non può ridursi a concordia, se non presti ubbidienza ad un
supremo moderatore (l'imperatore) che faccia regnare la legge (la
ragione), guida e freno dell'appetito.
Con questo fondo generale si lega tutto lo
scibile di quel tempo, metafisica, morale, politica, storia,
fisica, astronomia, ecc
Il centro intorno a cui gira questa vasta
enciclopedia è il problema dell'umana destinazione che si
trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie, il
mistero dell'anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte
le sue forme. Il problema è posto ed è sciolto
cristianamente. L'umanità ha perduto ed ha racquistato il
paradiso; questa storia epica di Milton è l'antecedente del
problema. L'umanità ha racquistato il paradiso, cioè
ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in che modo?
Qual è la via di salvazione? La Commedia è la
risposta a questa domanda, la soluzione del problema.
Il cristianesimo ne' primi tempi di fervore
rispondea: - L'uomo si salva, imitando Cristo che ha salvato
l'umanità, si salva con l'amore. Bisogna volger le spalle
alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare. - Di
qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama
eccellentissima e simile alla vita divina. Il che dovea menar
dritto alla visione estatica, alla comunione tra l'anima e Dio, al
misticismo, tanta parte della letteratura volgare. Gli uomini
stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri, e
nutrivano l'anima del pensiero della morte, della meditazione
dell'altra vita; i santi Padri esortano spesso i fedeli a volger
la mente all'altro mondo; anche oggi le prediche, i libri
ascetici, i libri di preghiera non sono che un continuo "Memento
mori"; è famoso il "Pensa, anima mia", frase formidabile, a
cui il lettore vede già in aria venir dietro il giudizio
universale e le fiamme dell'inferno. Se le cose di quaggiù
sono caduche e "nulla promission rendono intera", se il
significato serio della vita è nell'altro mondo, se
là è il vero, è la realtà: l'Iliade,
il poema della vita è la Commedia, la storia dell'altro
mondo.
In quei primi tempi la scienza non è
necessaria a salute, anzi i cristiani menavano vanto della loro
ignoranza: "Beati pauperes spiritu". Avendo per avversari gli
uomini più dotti del paganesimo, rispondevano ex abundantia
cordis, con la sicurezza e l'eloquenza della fede, la loro lingua
di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici, che spesso umiliava
l'orgoglio di una scienza vòta e arida, non bastò
più appresso. Aristotele dominava nelle scuole; la scienza
si era introdotta nella teologia e ne avea fatto un cumulo di
sottigliezze: lo stesso misticismo avea preso forme scientifiche,
divenuto ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino,
Bernardo e Bonaventura. L'Amore dunque prende un contenuto,
diviene scienza, e la loro unità è la filosofia, uso
amoroso di sapienza.
La scienza però non contraddice, non
annulla, anzi fortifica e dimostra lo stesso concetto della vita.
Anche per Dante la santificazione è posta nella
contemplazione; l'oggetto della contemplazione è Dio; la
beatitudine è la visione di Dio; al sommo della scala de'
beati mette i contemplanti, non gli operanti; ma per giungere
all'unione con Dio non basta volere, bisogna sapere, ci vuole la
sapienza che è amore e scienza, unità del pensiero e
della vita. Perciò Virgilio non può esser ragione,
che non sia anche amore, e Beatrice non può esser fede, che
non sia anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a un tempo;
ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere.
L'intelletto è in cima della scala: l'amore dee essere
inteso, se ne dee avere intelletto.
Tale è la soluzione dantesca. A quattro
secoli di distanza il problema si ripresenta, ma i termini sono
mutati. Il punto di partenza non è più l'ignoranza,
la selva oscura, ma la sazietà e vacuità della
scienza, l'insufficienza della contemplazione, il bisogno della
vita attiva. La sapiente Beatrice si trasforma nell'ignorante e
ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera; anzi il suo
male è stato appunto la contemplazione, lo studio della
scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle
fresche onde della vita. Ma al tempo di san Tommaso la ragione
entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio,
curiosa, credula, acuta, tanto più confidente, quanto meno
esperta della misura di sè e delle cose; le si domandava
tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale
del mondo morale, la felicità. Lo scopo della scienza non
era speculativo solamente, ma pratico. Nell'ordine speculativo era
già conseguito il suo scopo, divenuta per Dante un libro
chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee
operare anche sulla volontà, menare a virtù e
felicità. E se questo miracolo non era ancora avvenuto, se
la realtà era tanto disforme alla scienza, doveasene recare
la cagione, secondo Dante e i contemporanei, all'ignoranza.
Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale,
drizzarla all'opera. Indi l'importanza che ebbe l'etica e la
rettorica, la scienza de' costumi e l'arte della persuasione.
I tentativi fatti, compreso il Convito, furono
infelici. Trattandosi di verità da esporre e non da
cercare, manca lo spirito e l'ardore scientifico, manca in tutti,
anche in Dante. La stessa esposizione non è libera,
predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non
potea uscire una letteratura filosofica, quella forma, propria
degli uomini meditativi, che ti rivela non solo l'idea, ma come in
te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti che
l'accompagnano, pregna di altre idee, le quali per la potenza
comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni,
mobili, nasciture. Qui sta la vita superiore della forma
filosofica, generata immediatamente dal travaglio del pensiero,
che mette in moto tutte le altre facoltà, compresa
l'immaginazione. In quei tentativi il contenuto scientifico ci
sta, non nel punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma
già trovato, divenuto nello spirito un antecedente non
esaminato, tolto pesolo e grezzo dalla scuola. La terra si
manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di
avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con
quelli, non vive della vita de' campi, non li lavora, li conosce
sulla carta. Rimane una proprietà astratta, senza effettiva
possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non
è fatto parte dell'anima mia. Non ci è
investigazione e non ci è passione, dico la passione che
è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo
fora la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove,
come dice Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma
qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i
frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza con esso le
sue prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili
le parti superiori della scienza, non riman libera che l'ultima e
più bassa operazione dell'intelletto, distinguere e
sottilizzare.
Essendo la scienza base di tutto l'edificio, ne
seguitò quella falsa poetica di cui è detto. La
letteratura solenne e dotta divenne un istrumento della scienza,
un modo di volgarizzarla. E tenne due vie, l'esposizione diretta o
l'allegorica. Nè altro fu l'intendimento di Dante nella
rappresentazione dell'altro mondo. Come que' filosofi che sotto
nome di utopia costruiscono un mondo dove sia realizzato il loro
sistema, Dante costruisce il mondo allegorico della scienza, dove
pur trova modo di esporla in forma diretta nelle sue parti
sostanziali.
Egli ha aria di dire: - Volete salvarvi
l'anima? Venite appresso a me nell'altro mondo; ivi impareremo
dalla bocca de' morti la filosofia morale, la scienza della
salvazione. - E i morti parlano ed espongono la scienza,
soprattutto in paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in vere
cattedre o pulpiti. Nè la scienza è solo nelle
parole de' morti, ma anche nella costruzione e rappresentazione
dell'altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in forma
allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a' suoi fantasmi,
e dice: - Bada che tu non passeggi per curiosità, per
osservare e dipingere: il tuo scopo è l'insegnamento della
scienza per la salute dell'anima; non ti dimenticare della
scienza. - E la poetica gli soggiunge: - Pensa che tutte le tue
invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono nè
più nè meno che sciocche bugie, quando non rendano
odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale si dee
nascondere la dottrina. - Ond'è che il poeta costringe la
stessa realtà a produrre un contenuto scientifico: dietro
la realtà ci è la scienza, come dietro l'ombra ci
è il corpo; qui la scienza è il corpo, e la
realtà è l'ombra, "ombrifero prefazio del vero",
anzi è meno che ombra, perchè nell'ombra ci è
pure l'immagine del corpo. È l'alfabeto della scienza, come
la parola è del pensiero, un alfabeto composto non di
lettere, ma di oggetti, ciascuno segno della tale e tale idea.
Questi erano i concetti, e queste le forme, a
cui lo spirito era giunto. Perciò quel concetto
fondamentale dell'età, il mistero dell'anima o dell'umana
destinazione, non era ancora realizzato come arte; perchè
l'arte è realtà vivente, che abbia il suo valore e
il suo senso in se stessa, e qui la scienza, in luogo di calare
nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sè.
Il mistero dell'anima era dunque o rozza e
greggia realtà nella letteratura popolare, o trattato e
allegoria nella letteratura dotta e solenne.
Dante s'impadronì di questo concetto e
tentò realizzarlo come arte. Ma ci si mise con le stesse
intenzioni e con le stesse forme. Prese quella rozza realtà
degli ascetici, e volle farne l'ombrifero prefazio del vero,
l'allegoria della scienza. Da questa intenzione non potea uscir
l'arte.
Neppure l'esposizione della scienza in forma
diretta è arte. Il poeta che vuole esporre la scienza, e
vuol pur fare una poesia, si propone un problema assurdo, voler
dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del
corpo. La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento
esteriore, non penetra l'idea, non se l'incorpora; l'idea rimane
invitta nella sua astrazione. Dante spiega in questo assunto tutte
le forze della sua immaginazione; nessuno più di lui ha
saputo con tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e
farle forza; ma questo connubio della poesia e della scienza,
ch'egli chiama nel Convito un "eterno matrimonio", non è
uno di due, è un eterno due. La poesia può farle
preziosi doni, può vestirla sontuosamente, ingemmarla,
girarle attorno carezzevole, può abbigliarla, non
possederla. E la possiede allora solamente, quando non la vede
più fuori di sè, perchè è divenuta la
sua vita e anima, la realtà.
L'allegoria è una prima forma
provvisoria dell'arte. È già la realtà, che
però non ha valore in se stessa, ma come figura, il cui
senso e il cui interesse è fuori di sè, nel
figurato, oggetto o concetto che sia. E poichè nel figurato
ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella
figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la
realtà divenuta allegorica vi è necessariamente
guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce qualità non
sue, ma del figurato come il veltro che si ciba di sapienza e di
virtude, o esprime di lei solo alcune parti, e non perchè
sue, ma perchè si riferiscono al figurato, come il grifone
del Purgatorio. In tutti e due i casi la realtà non ha vita
propria, o per dir meglio non ha vita alcuna: l'interesse è
tutto nel figurato, nel pensiero. Ora, o il pensiero è
oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio, di maniera che
ti si affaccino più sensi, e tu rimani sospeso e
raffreddato; o è chiaro, e lo hai innanzi nella sua
generalità, senza carattere poetico. La selva è
figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto
perchè figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare,
per cui e in cui è vita, generale e immobile come un
concetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier
delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che
mai sen rivesta; e non propriamente suo, perchè quel corpo
singolare, che chiamasi figura, serve a due padroni, è
sè ed un altro, è insieme lettera e figura, un corpo
a due anime, rappresentato in guisa, che prima paia se stesso, la
selva, e considerato attentamente mostri in sè le orme di
un altro. Talora la figura fa dimenticare il figurato; talora il
figurato strozza la figura. Per lo più nel senso letterale
penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano, e per
volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.
Adunque in queste forme non ci è ancora
arte. La realtà ci sta o come immagine del pensiero
astratto ed estrinseco, o come figura di un figurato parimente
astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due
termini. Il pensiero non è calato nell'immagine; il
figurato non è calato nella figura. Hai forme iniziali
dell'arte non hai ancora l'arte.
Dante si è messo all'opera con queste
forme e con queste intenzioni. Se l'allegoria gli ha dato
abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo
cristiano tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia, ha
d'altra parte viziato nell'origine questo vasto mondo,
togliendogli la libertà e spontaneità della vita,
divenuto un pensiero e una figura, una costruzione a priori,
intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.
E se la Commedia fosse assolutamente in questi
termini, sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio
poi, grottesca figura d'idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione
astratta viveva un mondo concreto e reale, la cui base era la
storia del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione
letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri, nei
cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta
già tutta una letteratura. Era la letteratura degli uomini
semplici, poveri di spirito. A costoro la via a salute era la
contemplazione non di esseri allegorici, figurativi della scienza
ma reali; Dio, la Vergine, Cristo, gli angioli, i santi,
l'inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che essi
chiamavano l'altra vita, non figura di questa, anzi la sola che
essi chiamavano realtà e verità. Il contemplante o
il veggente era il santo, il profeta, l'apostolo, banditore della
parola di Dio; Dante, l'amico della filosofia, contemplando il
regno divino, se ne fa non solo il filosofo, ma il profeta e
l'apostolo, rivelandolo e predicandolo agli uomini; diviene il
missionario dell'altro mondo, ed è san Pietro che gli apre
la bocca e lo investe della sacra missione:
Apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo.
Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per
lui una cosa così seria, come per tutt'i credenti, seria
nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della
scienza, lo intravvede attraverso la scienza, ma la scienza non lo
dissolveva, anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso
fosse una figura, una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti
scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a
Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o
come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a
quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura,
così l'altro mondo è per Dante più che
figura, è vivace e seria realtà, che ha in se stessa
il suo valore e il suo significato.
Nè quel mondo cristiano rimane nella sua
generalità religiosa, com'è nei cantici, nelle
prediche e ne' misteri e leggende. Dalla vita contemplativa cala
nella vita attiva e si concreta nella vita reale. Essendo la
perfezione religiosa nel dispregio de' beni terreni, i credenti,
da Francesco d'Assisi a Caterina, non poteano vedere con animo
quieto i costumi licenziosi de' chierici e de' frati, la
corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni
giorno, il papa divenuto sovrano temporale e dominato da fini e
interessi terreni, in tresca adultera co' re. Su questo punto i
santi sono così severi, come Dante; più avean fede,
e maggiore era l'indignazione. Venendo più al particolare,
abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo il Bello contro
l'imperatore, ciò che Dante chiama un adulterio, inviare
Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi i
guelfi. Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del re
di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di
scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e
interesse temporale, era essa non solo radice e causa della
corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione stabile
delle nazioni, e massime d'Italia, in quella unità civile o
imperiale, che rendea immagine dell'unità del regno di Dio.
A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de' tempi
evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle
città, prima che vi entrasse la corruzione e la licenza de'
costumi, di cui la Chiesa dava il mal esempio.
Come si vede, il mondo politico entrava per
questa via nel mondo cristiano, e ne facea parte sostanziale. La
politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi: era
un'appendice dell'etica e della rettorica. E come vita reale il
suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava
un'immagine pura in tempi più antichi, una specie di
età dell, oro della vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era
già per Dante una contemplazione astratta e filosofica.
Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte. Offeso da
Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra speranze
e timori, fra gli affetti più contrari, odio e amore,
vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione, con l'occhio
sempre volto alla patria che non dovea più vedere, in
quella catastrofe italiana c'era la sua catastrofe, le sue
opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore
dell'età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino.
Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue. Non è
Omero, contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la
sua personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto
quel mondo, di cui era insieme l'apostolo e la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto
nelle forme e ne' concetti dell'età, volea costruire un
mondo etico o scientifico in forma allegorica, come entra in quel
mondo, non vi trova più la figura. Simile a quel pittore
che s'inginocchia innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi
nell'immaginazione la figura nella persona del santo, egli cerca
la figura e trova una realtà piena di vita, trova se
stesso.
Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano
afferma che "poeta" vuol dire "profeta", banditore del vero.
Sublime ignorante, non sapea dov'era la sua grandezza. Era poeta e
si ribella all'allegoria. La favola, ciò ch'egli chiama
"bella menzogna", lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir
dietro come innamorato, nè sa creare a metà,
arrestarsi a mezza via. Nel caldo dell'ispirazione non gli
è possibile starsi col secondo senso innanzi e formar
figure mozze, che vi rispondano appuntino, particolare con
particolare, accessorio con accessorio, come riesce a' mediocri.
La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene se
stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti
particolari. Indi la disperazione de' comentatori: egli fece il
suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Per metter d'accordo la sua poetica con la sua
poesia, Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee
essere indipendente dall'allegorico, di modo che sia intelligibile
per se stesso. Con questa scappatoia si è salvato dalle
strette dell'allegoria, ed ha conquistato la sua libertà
d'ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue
creature. Sia pure l'altro mondo figura della scienza; ma è
prima e innanzi tutto l'altro mondo, e Virgilio è Virgilio,
e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se di
alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si
ficca dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.
Sicchè nella Commedia, come in tutt'i
lavori d'arte, si ha a distinguere il mondo intenzionale e il
mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò
che ha fatto. L'uomo non fa quello che vuole, ma quello che
può. Il poeta si mette all'opera con la poetica, le forme,
le idee e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista,
più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza.
Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro, logico e
concorde: la realtà è una mera figura. Ma se il
poeta è artista, scoppia la contraddizione vien fuori non
il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell'arte.
Come l'argomento siasi affacciato a Dante non
è chiaro. Le memorie secrete del genio non sono scritte
ancora e mal si può indovinare da quello che è
espresso quello che è preceduto nello spirito d'un autore.
È difficile far la geologia di un lavoro d'arte, trovare
nel definitivo le tracce del provvisorio. È probabile che
la Commedia sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad
imitazione di quelle "commedie dell'anima", di quelle visioni
dell'altra vita, così in voga; e che dapprima il poeta
pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla
rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse de'
frammenti e anche de' canti furono scritti prima che un disegno
ben chiaro e concorde gli entrasse in mente. Questo è il
tempo oscuro alla critica e altamente drammatico, il tempo de'
tentennamenti, del silenzioso contendere con se stesso, degli
abbozzi, del va e vieni, storia intima del poeta. Il quale, quando
gli si mostra l'argomento, vede per prima cosa dissolversi quella
parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una
massa di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i
palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti.
Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza
di crearla. Ma sono frammenti già penetrati di virtù
attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con desiderio,
con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati. La
creazione comincia veramente, quando quel mondo tumultuario e
frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora esce
dall'illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma
stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente
secondo la sua essenza. Ora il mondo dantesco trovò la sua
base nella idea morale.
La idea morale non è concetto arbitrario
ed estrinseco all'argomento, è insito nell'altro mondo,
è il suo concetto; perchè senza di quella l'altro
mondo non ha ragion d'essere. La base dunque è vera,
è nell'argomento; e se difetto c'è, il difetto
è nella natura dell'argomento. Ma Dante meditandovi sopra,
e non come poeta ma come filosofo, valicò l'argomento. Non
è contento che la ci sia, ma la mostra e la spiega. E non
si contenta neppure di questo. Quella idea diviene la filosofia,
tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non è
più la base, il senso interiore dell'altro mondo a quel
modo che lo spirito è nella natura, ma è essa il
contenuto, essa l'argomento, essa lo scopo. Così quella
vivace realtà si va ad evaporare in una generalità
filosofica, e il lavoro diviene un insegnamento morale-politico
sotto il velo dell'altro mondo. Il poeta spontaneo e popolare si
volta nel poeta dotto e solenne. Descrivere l'altro mondo
così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un
frivolo passatempo, la maniera de' narratori volgari. La lettera
ci è, ma è per i profani, per gli uomini semplici,
che non vedono di là dell'apparenza. Ma egli scrive per
gl'iniziati, per gl'intelletti sani, e loro raccomanda di non
fermarsi alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son
messi a guardare di là.
Così sono nati due mondi danteschi, uno
letterale e apparente, l'altro occulto, la figura e il figurato. E
poichè l'interesse è in questo senso occulto, in
questo di là, i dotti si son messi a cercarlo. L'hanno
cercato, e non l'hanno trovato, e dopo tante dispute e vane
congetture, esce infine il buon senso, esce Voltaire e dice:
"Gl'italiani lo chiamano divino ma è una divinità
occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si
manterrà sempre, perchè nessuno lo legge". E
Voltaire vuol dire: - Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti;
e poichè non ti vuoi far capire, statti con Dio -. E vuol
dire ancora: - Ne val poi la pena? È una falsa
divinità quella che rimane nascosta -. Pure nè il
veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo
disprezzo ad intiepidire l'ammirazione. Con nuovo ardore italiani
e stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o
piuttosto a due mondi, l'uno visibile e l'altro invisibile;
ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si
è ravvolto il dio. Ma nè acutezza d'ingegno,
nè copia di dottrina, nè profonda conoscenza di quei
tempi, nè studio paziente delle altre sue opere hanno
potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture. Gli antichi
interpreti dissentivano ne' particolari; il dissenso de' moderni
è più profondo: hai interi sistemi che si confutano
a vicenda. Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania, che
non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere una
critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un pelago di
quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di
sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti: - Qual
è il vero Dante? - Poichè ciascun comentatore ha il
suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa
cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà, di
umanità, di nazionalità, chi un precursore di
Lutero, chi un santo Padre. Cercano Dante dove non è,
cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia
che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel
trovando, si sia affrettato a conchiudere: "Dunque Dante non
esiste"? Io ne conchiudo: - Poichè non è là,
cerchiamolo altrove. - La grandezza del dio non è nel
santuario, ma là dove si mostra con tanta pompa al di
fuori. A forza di cercar maraviglie in un mondo ipotetico, non
vediamo quelle che ci si affacciano innanzi. Parlando a coro della
dignità della Commedia e de' veri e del senso arcano, si
è data una importanza fattizia a questo mondo
intellettuale-allegorico, se non fosse per altro, per la fatica
che ci si è spesa. Se Dante tornasse in vita, sentendo a
dire che Beatrice è l'eresia o la sua anima, che le arpie
sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che il
suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi
occulti gli sono affibbiati, potrebbe a più d'uno tirargli
le orecchie e dire: - Cotesto "arri" non ci misi io -. Ma gli si
potrebbe rispondere: - Vostra colpa: perchè non siete stato
più chiaro? Ci avete promessa un'allegoria: perchè
non ci avete data un'allegoria? La vostra figura non risponde
appuntino al figurato: perchè l'avete fatta sì
bella? Perchè le avete data tanta realtà? In tanta
ricchezza di particolari dove o come trovare l'allegoria? E qual
maraviglia che la stessa figura significhi una per me e una per
voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di che
provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci
fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all'allegorico,
ci è il senso morale e l'anagogico: dove trovare il
bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo
dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora
la carne. E anche voi gridate che i versi sono un velo della
dottrina; e, come il peccatore, piantate lì il figurato, e
correte appresso alla figura, e la fate così impolpata,
così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di
là dal quale non si vede nulla, e perciò si vede
tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo noi. Se
dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco, messa
tra voi e noi, che ci toglie la vostra vista, se il vostro poema
è divenuto un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla
cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi; di chi
è la colpa? Non è forse della vostra poca logica,
che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che sono un elogio.
Così è. Dante è stato
illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva. Ciascuno è
quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere un
altro. Dante è poeta, e avviluppato in combinazioni
astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l'aria e la
luce. Tratto ad una falsa concezione dal vezzo de' tempi, valica
l'argomento e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di
questi la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà
e ne vuol fare la figura de' suoi concetti. Ma, come attinge il
reale, ivi sente se stesso, ivi genera, ivi l'ingegno trova la sua
materia; quelle figure prendono corpo, acquistano una vita
propria; e le diresti creature libere e indipendenti, se quella
benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla
di piombo, impacciando a volta a volta i loro movimenti.
Così quel mondo intenzionale, tanto caro al poeta, si
è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo
reale, solo rimasto vivo. Tutto l'altro è l'astratto di
quel mondo, è il lavoro oltrepassato: non è la
Commedia, è il suo di là, la sua nebbia, che pur
penetra qua e là e lascia delle grandi ombre, che
gl'interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra. A
quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette,
che attestano la lenta e progressiva formazione della materia, qui
si discernono i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale,
allegorico, scissi, isolati, sterili, più o meno
tollerabili, secondo la maggiore o minore abilità
dell'esposizione, inviluppati in una forma più alta, alla
quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua
poetica. I quali frammenti sono i fossili della Commedia, morti
già da gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della
letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il
rimanente, gli è che il vero lavoro è in questo
rimanente, dotato di una vita così fresca e tenace, che
distende un po' di sua luce anche sulle parti morte. Quel
contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova
entrato: spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe
più.
Che cosa è dunque la Commedia? È
il medio evo realizzato come arte, malgrado l'autore e malgrado i
contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il medio
evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell'arte.
La religione era misticismo la filosofia scolasticismo. L'una
scomunicava l'arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti
a staccarsi dal reale. L'altra viveva di astrazioni e di formole e
di citazioni, drizzando l'intelletto a sottilizzare intorno a'
nomi e alle vacue generalità che si chiamavano "essenze".
Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a
idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il
contrario dell'arte. Ne' poeti semplici trovi il reale rozzo,
senza formazione, come ne' misteri, nelle visioni, nelle leggende.
Ne' poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o
figurativa e allegorica. L'arte non era nata ancora. C'era la
figura; non c'era la realtà nella sua libertà e
personalità.
Dante raccoglie da' misteri la Commedia
dell'anima, e fa di questa storia il centro di una sua visione
dell'altro mondo. Tutta questa rappresentazione non è che
senso letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono
figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo
spirito, lo porta verso la figura e non verso il figurato. La sua
natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e
scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi e lo
costringe a concretare, a materializzare, a formare anche
ciò che è più spirituale e impalpabile, anche
Dio. Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e
non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non
è più lettera, ma è spirito, non è
più figura, ma è realtà, è un mondo in
sè compiuto e intelligibile, perfettamente realizzato.
Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude,
inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme, in questo gran
mistero dell'anima o dell'umanità, poema universale, dove
si riflettono tutt'i popoli e tutti i secoli che si chiamano il
"medio evo".
Ma questo mondo artistico, uscito da una
contraddizione tra l'intenzione del poeta e la sua opera, non
è compiutamente armonico, non è schietta poesia. La
falsa coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale
spontaneità, e vi gitta dentro un tentennare, un non so che
di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e crudezza di
colori. Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora
abbellito d'immagini che pur non bastano a vincere la sua
astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le sue figure allegoriche
ricordano talora più i mostri orientali che la schietta
bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che persone
conscie e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente,
spesso gli escono particolari estranei alla figura, che turbano e
distraggono il lettore e gli rompono l'illusione. La presenza
perenne di un altro senso, che aleggia al di sopra della
rappresentazione ed introducevisi a quando a quando, ne turba la
chiarezza e l'armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in
rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità e riesce
intralciato e torbido. Non è un tempio greco: è un
tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi
pugnano, non bene armonizzati. Or rozzo, or delicato. Ora poeta
solenne, or popolare. Ora perde di vista il vero e si abbandona a
sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con
semplicità. Ora rozzo cronista, ora pittore finito. Ora si
perde nelle astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la
vita. Qui cade in puerilità, là spicca il volo a
sopraumane altezze. Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la
luce dell'immagine. E mentre teologizza, scoppia la fiamma del
sentimento. Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria,
quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne. Talora
la sua credulità ti fa sorridere, talora la sua audacia ti
fa stupire. Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva tutta
l'esistenza, com'era allora. I contrari elementi, che fermentavano
in una società ancora nello stato di formazione,
contendevano in lui. E senza che ne avesse coscienza. Se guardi
alle sue aspirazioni, tutto è armonia. Filosofo, pensa il
regno della scienza e della virtù. Cristiano, contempla il
regno di Dio. Patriota, sospira al regno della giustizia e della
pace. Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e
armonia, lo bello stile: il suo autore è Virgilio. Maggiore
era la barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un
mondo armonico e concorde. Ma il poeta è inviluppato egli
medesimo in quella rozza realtà e in quelle forme discordi;
e ne sente la puntura, e gli manca la serenità
dell'artista. E gli esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran
parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le
scabrosità di una materia non perfettamente doma.
Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se
stesso e interroghiamolo. Perchè un argomento non è
tabula rasa, dove si può scrivere a genio, ma è
marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo
concetto e le leggi del suo sviluppo. La più grande
qualità del genio è d'intendere il suo argomento, e
diventare esso, risecando da sè tutto ciò che non
è quello. Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere
la sua anima o la sua coscienza E parimente il critico, in luogo
di porsi innanzi regole astratte; e giudicare con lo stesso
criterio la Commedia e l'Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee
studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua
natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica,
cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo
concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile. Che cosa
è l'altro mondo?
È il problema dell'umana destinazione
sciolto, è il mistero dell'anima spiegato, è la fine
della storia umana, il mondo perfetto l'eterno presente,
l'immutabile necessità. Nella natura non ci è
più accidente, nell'uomo non ci è più
libertà. La natura è predeterminata e fissata
secondo una logica preconcetta, secondo l'idea morale. Reale e
ideale diventano identici, apparenza e sostanza è tutt'uno.
L'uomo non ha più libero arbitrio: è lì,
fissato e immobilizzato, come natura. Ogni azione è
cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è
sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi. Non
c'è più successione, nè sviluppo, non
principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma.
L'individuo scompare nel genere. Il carattere, la
personalità, non ha modo di manifestarsi. Eterno dolore,
eterna gioia, senza eco, senza varietà, senza contrasto
nè gradazione. Non ci è epopea, perchè manca
l'azione; non ci è dramma, perchè manca la
libertà; la lirica è l'immutabile e monotona
espressione di una sola aria; rimane l'esistenza nella sua
immobile estrinsechezza, descrizione della natura e dell'uomo.
Che cosa è dunque l'altro mondo per
rispetto all'arte? È visione, contemplazione, descrizione,
una storia naturale.
Ma in questa visione penetra la leggenda o il
mistero, perchè ivi dentro è rappresentata la
commedia o redenzione dell'anima nel suo pellegrinaggio dall'umano
al divino, "di Fiorenza in popol giusto e sano". Ci hai dunque
l'apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro mondo, i cui
attori sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde,
Beatrice, san Pietro, san Bernardo, la Vergine, Dio, dramma
allegorico, come allegorica è la Commedia dell'anima. Dico
apparenza di un dramma, perchè la santificazione nasce non
dall'operare, ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e
gli altri mostrano, insegnano. Il dramma dunque svanisce nella
contemplazione.
Questo mondo così concepito era il mondo
de' misteri e delle leggende, divenuto mondo teologico-scolastico
in mano a' dotti. Dante lo ha realizzato, gli ha dato l'esistenza
dell'arte, ha creato quella natura e quell'uomo. E se il suo mondo
non è perfettamente artistico, il difetto non è in
lui, ma in quel mondo, dove l'uomo è natura e la natura
è scienza, e da cui è sbandito l'accidente e la
libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell'arte.
Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla
vita reale, vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da
quelle forme e da quell'allegoria. Ma Dante, entrando nel regno
de' morti, vi porta seco tutte le passioni de' vivi, si trae
appresso tutta la terra. Dimentica di essere un simbolo o una
figura allegorica, ed è Dante, la più potente
individualità di quel tempo, nella quale è
compendiata tutta l'esistenza, com'era allora, con le sue
astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose, con
la sua civiltà e la sua barbarie. Alla vista e alle parole
di un uomo vivo, le anime rinascono per un istante, risentono
l'antica vita, ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il
tempo; in seno dell'avvenire vive e si muove l'Italia, anzi
l'Europa di quel secolo. Così la poesia abbraccia tutta la
vita, cielo e terra, tempo ed eternità, umano e divino; ed
il poema soprannaturale diviene umano e terreno, con la propria
impronta dell'uomo e del tempo. Riapparisce la natura terrestre,
come opposizione, o paragone, o rimembranza. Riapparisce
l'accidente e il tempo, la storia e la società nella sua
vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana, con
Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita, ed entro a
questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo,
Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i
Cerchi e i Donati, la nuova e l'antica Firenze, la storia d'Italia
e la sua storia, le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi
amori, le sue predilezioni.
Così la vita s'integra, l'altro mondo
esce dalla sua astrazione dottrinale e mistica, cielo e terra si
mescolano, sintesi vivente di questa immensa comprensione Dante,
spettatore, attore e giudice. La vita guardata dall'altro mondo
acquista nuove attitudini, sensazioni e impressioni. L'altro mondo
guardato dalla terra veste le sue passioni e i suoi interessi. E
n'è uscita una concezione originalissima, una natura nuova
e un uomo nuovo. Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza
d'azione, che si succedono, si avvicendano, s'incrociano, si
compenetrano, si spiegano e s'illuminano a vicenda, in perpetuo
ritorno l'uno nell'altro. La loro unità non è in un
protagonista, nè in un'azione, nè in un fine
astratto ed estraneo alla materia, ma è nella stessa
materia; unità interiore e impersonale, vivente
indivisibile unità organica, i cui momenti si succedono
nello spirito del poeta, non come meccanico aggregato di parti
separabili, ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi,
com'è la vita. Questa energica e armoniosa unità
è nella natura stessa de' due mondi, materialmente distinti
ma una cosa nell'unità della coscienza. Cielo e terra sono
termini correlativi, l'uno non è senza l'altro; il puro
reale ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco
il suo ideale; ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo
paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti gli dei d'Olimpo:
lo scettico può abolire l'inferno, non può abolir la
coscienza. Appunto perchè i due mondi sono la vita stessa
nelle sue due facce, in seno a questa unità si sviluppa il
più vivace dualismo, anzi antagonismo: l'altro mondo rende
i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe, ma in
quelle ombre freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano
d'imprecazioni terrene fino le tranquille vòlte del cielo.
Gli uomini, con esso le loro passioni e vizi e virtù
rimangono eterni, come statue, in quell'attitudine, in quella
espressione di odio, di sdegno, di amore, che sono stati colti
dall'artista; ma mentre l'altro mondo eterna la terra,
trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto l'immagine
dell'infinito, ne scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli
stessi in un diverso teatro, che è la loro ironia. Questa
unità e dualità uscente dall'imo stesso della
situazione balena al di fuori nelle più varie forme, ora in
un'apostrofe, ora in un discorso, ora in un gesto, ora in
un'azione, ora nella natura, ora nell'uomo. In questa unità
penetra la più grande varietà, nè è
facile trovare un lavoro artistico, in cui il limite sia
così preciso e così largo. Niente è
nell'argomento che costringa il poeta a preferire il tal
personaggio, il tal tempo, la tale azione: tutta la storia, tutti
gli aspetti sotto a' quali si è mostrata l'umanità,
sono a sua scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle
sue ire e alle sue opinioni, e può intramettere nello scopo
generale fini particolari, senza che ne scapiti l'unità. Il
che dà al suo universo compiuta realità poetica,
veggendosi nella permanente unità tutto ciò che
sorge e dalla libertà dell'umana persona e dall'accidente,
e moversi con vario gioco tutt'i contrasti, e il necessario
congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.
Adunque, che poesia è codesta? Ci
è materia epica, e non è epopea; ci è una
situazione lirica, e non è lirica; ci è un ordito
drammatico, e non è dramma. È una di quelle
costruzioni gigantesche e primitive, vere enciclopedie, bibbie
nazionali, non questo o quel genere, ma il tutto, che contiene nel
suo grembo ancora involute tutta la materia e tutte le forme
poetiche, il germe di ogni sviluppo ulteriore. Perciò
nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato: l'uno
entra nell'altro, l'uno si compie nell'altro. Come i due mondi
sono in modo immedesimati, che non puoi dire: - Qui è
l'uno, e qui è l'altro -; così i diversi generi sono
fusi di maniera, che nessuno può segnare i confini che li
dividono, nè dire: - Questo è assolutamente epico, e
questo è drammatico. -
È il contenuto universale, di cui tutte
le poesie non sono che frammenti, il "poema sacro", l'eterna
geometria e l'eterna logica della creazione incarnata ne' tre
mondi cristiani: la città di Dio, dove si riflette la
città dell'uomo in tutta la sua realtà del tal luogo
e del tal tempo; la sfera immobile del mondo teologico, entro di
cui si movono tempestosamente tutte le passioni umane.
L'idea che anima la vasta mole e genera la sua
vita e il suo sviluppo, è il concetto di salvazione, la via
che conduce l'anima dal male al bene, dall'errore al vero,
dall'anarchia alla legge, dal molteplice all'uno. È il
concetto cristiano e moderno dell'unità di Dio sostituita
alla pluralità pagana. Questo concetto, se fosse solo un di
fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pensiero, o
rappresentato in forma allegorica come figurato, non basterebbe a
generare un'opera d'arte. Ma qui è non solo il di fuori, ma
il di dentro, non solo il significato e la scienza di quel mondo
opera di filosofo e di critico, ma principio attivo, com'è
nell'uomo e nella natura, che costruisce e forma quel mondo, e gli
dà una storia e uno sviluppo. Questo principio attivo, se
nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o
la virtù o la legge, come realtà viva e operosa
è lo spirito, che ha per suo contrario la materia o la
carne, dove sta come in una prigione o in un "vasello", da cui si
sforza di uscire. La vita è perciò un antagonismo,
una battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio. E
la sua storia è la progressiva vittoria dello spirito, la
costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive,
il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino
a Dio, assoluto spirito, la Verità, la Bontà,
l'Unità, l'ultimo Ideale. Il concetto dantesco, lo spirito
che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva
dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito,
l'emancipazione della materia e del senso mediante l'espiazione e
il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l'inferno e
il paradiso, posta e sciolta. Omero trasporta gli dèi in
terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell'altro
mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo
spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si
riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa
è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione;
il reale, il presente è l'infinito spirito; tutto l'altro
è "vanità che par persona". Questo assottigliamento
è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente.
L'Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e
del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in
presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il
peccato, il terrestre si continua nell'altro mondo e s'immobilizza
in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena
eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole,
la luce dell'intelletto, lo spirito; il terreno è
rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo
spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso
di sè, alla salvazione. Nel Paradiso l'umana persona
scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce;
più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione
s'idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell'assoluto
spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:
... ... tutta cessa
mia visione e ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di Sibilla.
Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la storia; non
solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco, ma lo incontrate
sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita, sotto
tutte le forme, in tutte le quistioni che si affacciano al poeta,
in religione, in filosofia, in politica, in morale, e così
si concreta e compie in tutti gl'indirizzi della vita. In
religione è il cammino dalla lettera allo spirito, dal
simbolo all'idea, dal vecchio al nuovo Testamento; nella scienza
dall'ignoranza e dall'errore alla ragione e dalla ragione alla
rivelazione; in morale dal male al bene, dall'odio all'amore,
mediante l'espiazione; in politica dall'anarchia all'unità.
Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo, diventa storia:
il tale uomo, il tale popolo, il tale secolo. In religione vi sta
innanzi la Chiesa romana, il papato, che il poeta vuole emancipare
dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale;
in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della
verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le
passioni, le discordie, le colpe e i vizi della barbara
età, dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel
vostro cammino verso il sommo bene; in politica è l'Italia
anarchica e sanguinosa che il poeta aspira a comporre a pace e
concordia nell'unità dell'impero. Così un solo
concetto penetra il tutto, come forma, come pensiero e come
storia. Mai più vasta e concorde comprensione non era
uscita da mente di uomo. Alcuni ci vedono dentro l'altro mondo, e
il resto è una intrusione e quasi una profanazione; Edgardo
Quinet rimane choqué veggendo come le passioni del poeta lo
inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico, di
cui quello sia la rappresentazione sotto figura. Chiamano questo
poema o "religioso", o "politico", o "didascalico", o "morale", lo
riducono a querele di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi
e ghibellini. Guardano non dall'alto del monte, dalla pianura, e
prendono per il tutto quello che incontrano nella diritta linea
del loro cammino. Ciascuno si fabbrica un piccolo mondo e dice: -
Questo è il mondo di Dante. - E il mondo di Dante contiene
tutti quei mondi in sè. È il mondo universale del
medio evo realizzato dall'arte.
Questa immensa materia si forma e si sviluppa
secondo il concetto in tre mondi, de' quali l'inferno e il
paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spirito, odio e
amore, e il purgatorio è il termine medio o di passaggio:
tre mondi, de' quali la letteratura non offriva che povere e rozze
indicazioni, e che escono dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.
L'inferno è il regno del male, la morte
dell'anima e il dominio della carne, il caos: esteticamente
è il brutto.
Dicesi che il brutto non sia materia d'arte, e
che l'arte sia rappresentazione del bello. Ma è arte tutto
ciò che vive, e niente è nella natura che non possa
esser nell'arte. Non è arte quello solo che ha forma
difettiva o in sè contraddittoria, cioè l'informe o
il deforme o il difforme: e perciò non è arte il
confuso, l'incoerente, il dissonante, il manierato, il concettoso,
l'allegorico, l'astratto, il generale, il particolare: tutto
questo non è vivo, è abbozzo o aborto di artisti
impotenti. L'altro, bello o brutto che si chiami in natura,
esteticamente è sempre bello.
In natura il brutto è la materia
abbandonata a' suoi istinti, senza freno di ragione: e ne nasce
una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso estetico.
Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato se
stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: - Tu
sei brutto. - Più il suo senso morale ed estetico è
sviluppato, e più la sua impressione è gagliarda,
più lo vede vivo e vero innanzi alla immaginazione.
Perciò non pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo,
anzi lo pone in evidenza e lo ritrae co' suoi propri colori.
Il brutto è elemento necessario
così nella natura, come nell'arte; perchè la vita
è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e
il falso, il bene e il male, il bello e il brutto. Togliete la
contraddizione, e la vita si cristallizza. Verità
così palpabile che le immaginazioni primitive posero della
vita due princìpi attivi, il bene e il male, l'amore e
l'odio, Dio e il demonio; antagonismo che si sente in tutte le
grandi concezioni poetiche. Perciò il brutto, così
nella natura, come nell'arte, ci sta con lo stesso dritto che il
bello, e spesso con maggiori effetti, per la contraddizione che
scoppia nell'anima del poeta. Il bello non è che se stesso;
il brutto è se stesso e il suo contrario, ha nel suo grembo
la contraddizione, perciò ha vita più ricca,
più feconda di situazioni drammatiche. Non è dunque
maraviglia che il brutto riesca spesso nell'arte più
interessante e più poetico. Mefistofele è più
interessante di Fausto, e l'inferno è più poetico
del paradiso.
Dante concepisce l'inferno come la depravazione
dell'anima, abbandonata alle sue forze naturali, passioni, voglie,
istinti, desidèri, non governati dalla ragione o
dall'intelletto; contraddizione ch'egli esprime con l'energia di
uomo offeso nel suo senso morale:
... ... le genti dolorose,
che hanno perduto il ben dell'intelletto...
Che libito fe' licito in sua legge...
Che la ragion sommettono al talento...
L'anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza;
peccatrice in vita, peccatrice ancor nell'inferno, salvo che qui
il peccato è non in fatto, ma in desiderio. Onde
nell'inferno la vita terrena è riprodotta tal quale,
essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora presente al
dannato. Il che dà all'inferno una vita piena e corpulenta,
la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi diviene povera e
monotona. Gli è come un andare dall'individuo alla specie e
dalla specie al genere. Più ci avanziamo, e più
l'individuo si scarna e si generalizza. Questa è certo
perfezione cristiana e morale, ma non è perfezione
artistica. L'arte come la natura è generatrice, e le sue
creature sono individui, non specie o generi, non tipi o
esemplari; sono res, non species rerum, Perciò l'inferno ha
una vita più ricca e piena, ed è de' tre mondi il
più popolare. Aggiungi che la vita terrena o infernale
è colta dal poeta nel vivo stesso della realtà in
mezzo a cui si trova, essendo essa la rappresentazione epica della
barbarie, nella quale il rigoglio della passione e la
sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori. Dante stesso
è un barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo,
appassionatissimo, libera ed energica natura. Al contrario la vita
negli altri due mondi non ha riscontro nella realtà, ed
è di pura fantasia, cavata dall'astratto del dovere e del
concetto, e ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e
contemplativa.
Essendo l'inferno il regno del male o della
materia in se stessa e ribelle allo spirito, la legge che regola
la sua storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi
dello spirito, insino alla sua estinzione, alla materia assoluta.
Il suo punto di partenza è
l'indifferente, l'anima priva di personalità e di
volontà, il negligente. Il carattere qui è il non
averne alcuno. In questo ventre del genere umano non è
peccato, nè virtù, perchè non è forza
operante: qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il
preludio di esso. Ma se, moralmente considerati, i negligenti
tengono il più basso grado nella scala de' dannati e paiono
a Dante "sciaurati" più che peccatori, il concetto morale
rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare i
dannati. Altri sono i criteri del poeta. La morale pone i
negligenti sul limitare dell'inferno, la poesia li pone più
giù dell'ultimo scellerato, che Dante stima più di
questi mezzi uomini. E la poesia è d'accordo con la tempra
energica del gran poeta e de' suoi contemporanei. A quegli uomini
vestiti di ferro anima e corpo questi esseri passivi e
insignificanti doveano ispirare il più alto dispregio. E il
dispregio fa trovare a Dante frasi roventi. Sono uomini che
vissero senza infamia e senza lode", anzi "non fur mai vivi". La
loro pena è di essere stimolati continuamente, essi che non
sentirono stimolo alcuno nel mondo. La pena è minima,
eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono così
vinti nel "duolo", che lacrimano e gettano le alte strida, che
fanno tumultuare l'aria
come la rena quando il turbo spira.
A' loro piedi è la loro
immagine, il verme. Turba infinita, senza nome: appena accenna ad
un solo, e senza nominarlo,
colui che fece per viltate il gran rifiuto
Il loro supplizio è la
coscienza della loro viltà, il sentirsi dispregiati,
cacciati dal cielo e dall'inferno. Ritratto immortale e
popolarissimo, di cui alcuni tratti sono rimasti proverbiali.
Esseri poetici, appunto perchè assolutamente prosaici, la
negazione della poesia e della vita: onde nasce il sublime
negativo degli ultimi tre versi:
Fama di loro il mondo esser non lassa:
Misericordia e Giustizia gli sdegna.
Non ragioniam di lor; ma guarda e passa.
Se i negligenti non sono nell'inferno, perchè mancò
loro la forza del bene e del male, gl'innocenti e i virtuosi non
battezzati non sono in paradiso, perchè mancò loro
la fede, sono nel Limbo. E anche qui il concetto teologico ci sta
per memoria, per semplice classificazione. La poesia nasce da
altre impressioni e da altri criteri. Il valore poetico dell'uomo
non è nella sua moralità e nella sua fede, ma nella
sua energia vitale; non è una idea, ma una forza, il
personaggio poetico. Perciò il negligente, considerato
esteticamente, è un sublime negativo, la negazione della
forza, il non esser vivo. E perciò qui nel Limbo la
mancanza di fede è un semplice accessorio, e l'interesse
è tutto nel valore intrinseco dell'uomo, come essere vivo,
come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico e dà ad
alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore bontà, ma
per la fama che loro acquistò in terra la grandezza
dell'ingegno e delle opere:
... ... L'onrata nominanza
che di lor suona su nel vostro mondo,
grazia acquista nel ciel che sì gli
avanza.
Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con
Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un pantheon di uomini
illustri. E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando
alzava questo magnifico tempio della storia e della coltura
antica, e le impressioni che ne dovettero ricevere i
contemporanei, ricordi le sue impressioni quando giovinetto su'
banchi della scuola gli si affacciavano le maraviglie di questo
mondo greco-latino. Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare, Bruto,
ciascuno di questi nomi, quante memorie, quante fantasie
suscitava! Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti
caratteristici che segnano i protagonisti, il "signore
dell'altissimo canto" e il "maestro di color che sanno". E colui,
che a quella vista si sente "esaltare" in se stesso e s'incorona
poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de' tempi
nuovi, "sesto tra cotanto senno", è non il Dante dell'altro
mondo, ma Dante Alighieri. Ecco ciò che rende il Limbo
così interessante, come il mondo de' negligenti, due
concezioni originalissime, uscite da un profondo sentimento della
vita reale e rimaste freschissime ne' secoli. Molti tratti sono
ancora oggi in bocca del popolo.
Come l'inferno è concepito e ordinato,
lo spiega nel canto undecimo il poeta stesso, architetto e
filosofo delle sue costruzioni. Quel regno del male è
partito in tre mondi, rispondenti alle tre grandi categorie del
delitto: la incontinenza e violenza, la malizia, e la fredda
premeditazione. Ciascuna di queste categorie si divide in generi e
specie, in cerchi e gironi. Il concetto etico di questa scala de'
delitti è che dove è più ingiuria è
più colpa, e l'ingiuria non è tanto nel fatto,
quanto nell'intenzione. Perciò la malizia e la frode
è più colpevole della incontinenza e violenza, e la
fredda premeditazione de' traditori è più colpevole
della malizia. Indi la storica evoluzione dell'inferno, dove da'
meno colpevoli, gl'incontinenti, si passa alla città di
Dite, sede de' violenti, e poi si scende in Malebolge, e di
là nel pozzo de' traditori. Questo è l'inferno
scientifico o etico. Ma non è ancora l'inferno poetico.
La poesia dee voltare questo mondo
intellettuale in natura vivente. L'ordine scientifico presenta una
serie di concetti astratti, il poetico una serie di figure, di
fatti e d'individui: il primo una serie di delitti, il secondo una
serie non solo d'individui colpevoli, ma di tali e tali individui.
Dividere in categorie significa considerare in un gruppo
d'individui non quello che ciascuno ha di proprio, ma quello che
ha di comune col gruppo a cui appartiene. Così una
classificazione è possibile, una esatta riduzione a generi
e specie. Ma la poesia ritorna l'individuo nella sua libera
personalità, e lo considera non come essere morale, ma come
forza viva e operante. E più in lui è vita,
più è poesia. Perciò, se l'inferno, come
mondo etico, è il successivo incattivirsi dello spirito,
sì che alla violenza, comune all'uomo e all'animale,
succede la malizia, "male proprio dell'uomo", e alla malizia la
fredda premeditazione, questo concetto poeticamente rimane ozioso
e non serve che alla sola classificazione. Come natura vivente o
come forma, l'inferno è la morte progressiva della natura,
la vita e il moto che manca a poco a poco sino alla compiuta
immobilità, alla materia come materia, dove insieme con la
vita muore la poesia. Indi la storia dell'inferno.
Dapprima la situazione è tragica: il
motivo è la passione, dove la vita si manifesta in tutta la
sua violenza; perchè la passione raccoglie tutte le forze
interiori, distratte e sparpagliate nell'uso quotidiano della
vita, intorno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista la
coscienza della sua libertà infinita. Preso per se stesso
lo spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e
non può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio fare
ch'esso non creda, non senta e non voglia quello che crede, sente
e vuole. Non vi è donnicciuola, così vile, che non
si senta forza infinita, quando è stretta dalla passione. -
Io ti amo e ti amerò sempre, e se dopo morte si ama, ed io
ti amerò, e piuttosto con te in inferno che senza te in
paradiso. - Queste sono le eloquenti bestemmie che traboccano da
un cuore appassionato, e che rendono eroiche la timida Giulietta e
la gentile Francesca.
Ma quando la passione vuole realizzarsi,
s'intoppa in un altro infinito, nell'ordine generale delle cose,
di cui si sente parte e innanzi a cui è un fragile
individuo. E n'esce la tragica collisione tra la passione e il
fato, l'uomo e Dio, il peccato. Nella vita nè la passione,
nè il fato sono nella loro purezza: la passione ha le sue
fiacchezze e oscillazioni; il fato talora è il caso, o
l'espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in
cui intoppa il protagonista. Ma nell'inferno l'anima è
isolata dal fatto ed è pura passione e puro carattere,
perciò inviolabile e onnipotente, e il fato è Dio,
come eterna giustizia e legge morale: onde la prima parte
dell'inferno, ove incontinenti e violenti, esseri tragici e
appassionati, mantengono la loro passione di rincontro a Dio,
è la tragedia delle tragedie, l'eterna collisione nelle sue
epiche proporzioni.
Tutto questo mondo tragico è penetrato
dello stesso concetto. La natura infernale non è ancora
laida e brutta; anzi balzan fuori tutt'i caratteri che la rendono
un sublime negativo, l'eternità, la disperazione, le
tenebre. L'eterno è sublime, perchè ti mostra un di
là sempre allo stesso punto, per quanto tu ti ci avvicini;
la disperazione è sublime, perchè ti mostra un fine
non possibile a raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra
è sublime, come annullamento della forma e morte della
fantasia, per quella stessa ragione che è sublime la morte,
il male, il nulla. Leggete la scritta sulla porta dell'inferno.
Ne' primi tre versi è l'eterno immobile che ripete se
stesso, dolore, dolore e dolore, quel luogo, quel luogo e quel
luogo, per me, per me e per me, insino a che in ultimo l'eterno
risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
La luce, il "dolce lome", rende sublimi le tenebre, morte del sole
e delle stelle e dell'occhio, come è "l'aer senza stelle",
e il "loco d'ogni luce muto", e quel "ficcar lo viso al fondo" e
"non discernere alcuna cosa". Certo, l'eternità, le tenebre
e la disperazione sono caratteri comuni a tutto l'inferno; ma solo
qui sono poesia, quando l'inferno si affaccia per la prima volta
alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime
impressioni. Appresso, diventano spettacolo ordinario, come
è il sole, visto ogni giorno.
E Dante, che parte da princìpi
preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche, quando è
tutto nel realizzare e formare i suoi mondi, opera con piena
spontaneità, abbandonato alle sue impressioni. Il canto
terzo è il primo apparire dell'inferno, e come ci si sente
la prima impressione, come si vede il poeta esaltato, turbato
dalla sua visione, assediato di forme, di fantasmi, impazienti di
venire alla luce! In quel "diverse voci, orribili favelle" ecc.,
non ci è solo il grido de' negligenti: ci è
lì tutto l'inferno, che manda il suo primo grido. Quel
canto del sublime è una sola nota musicale variamente
graduata, è l'eterno, il tenebroso, il terribile,
l'infinito dell'inferno, che invade e ispira il poeta e vien fuori
co' vivi colori della prima impressione, è il vero canto
del regno de' morti, della "morta gente", è l'albero della
vita, che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa,
e ne toglie la speranza:
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
E ne toglie le stelle:
risonavan per l'aer senza stelle.
E ne toglie il tempo:
facevano un tumulto il qual s'aggira
sempre in quell'aria senza tempo tinta.
E ne toglie il cielo:
non isperate mai veder lo cielo.
E ne toglie Dio:
ch'hanno perduto il ben dello intelletto.
Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza
contorni, cerchio, loco, null'altro: la diresti natura vuota, se
non la riempissero l'eternità e le tenebre e la morte e la
disperazione. Nel regno de' violenti prende una forma. Si esce dal
sublime: si entra nel bello negativo. Incontri tutto ciò
che è figura, ordine, regolarità, proporzione in
terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città, la
città di Dite. Vedi selve, laghi, sepolcri; e l'effetto
poetico nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti
gli accessorii che la rendono bella in terra.
Non frondi verdi, ma di color fosco:
non rami schietti, ma nodosi e involti
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
La natura spogliata della sua vita, del suo cielo, della sua luce,
delle sue speranze, è un sublime che ti gitta nell'animo il
terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello
negativo pieno di strazio e di malinconia. È la natura
snaturata, depravata, a immagine del peccato: con la virtù
se n'è ita la bellezza, sua faccia.
Questa natura snaturata vien fuori con maggior
vita nelle pene. Perchè il concetto nella natura sta
immobile come nell'architettura e nella scultura; dove nelle pene
acquista ogni varietà di attitudini e di movenze. Le pene
sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza della
passione. In quella natura eterna e tenebrosa odi un mugghio,
"come fa mar per tempesta", e il rovescio della grandine, e il
cozzo delle moltitudini: moti disordinati, violenti, come i moti
dell'animo. Vedi tombe ardenti, laghi di sangue, alberi che
piangono e parlano, la natura sforzata e snaturata dal peccatore.
Gli strani accozzamenti producono l'effetto del maraviglioso e del
fantastico, ma il fantastico è presto vinto e ti piglia il
raccapriccio e l'orrore. Il poeta prende in troppa serietà
il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderti con
colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto sulla tua
immaginazione, vuol colpire la tua coscienza. Dove il fantastico
è più sviluppato, è nella selva de' suicidi;
ma anche lì vien subito la spiegazione, e la maraviglia
dà luogo a una profonda tristezza.
Ma il concetto non ha ancora la sua
subiettività, non è ancora anima. Un primo grado di
questa forma è nel demonio. Cielo e inferno sono stati
sempre popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono
l'intervallo tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e Satana. È la
storia del bene e del male che si sviluppa nella nostra anima, un
progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di forme
secondo le religioni e le civiltà, i demòni hanno
per base i diversi gradi del male, e per forma il gigantesco e il
mostruoso, il puro terrestre, il bestiale giunto all'umano, e
spesso preponderante, come nella sfinge, nella chimera, in
Cerbero. Il demonio di Dante non ha più la sua storia, come
in terra, spirito tentatore accanto all'uomo e ribelle e rivale di
Dio. Qui è immobilizzato come l'uomo; la sua storia
è finita; cosa gli resta? Soffrire e far soffrire, vittima
e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato
che flagella nell'uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele, che
combattono contro Dio e contro l'uomo, erano compiute persone
poetiche. Altra è qui la situazione, e altro è il
demonio. Esso è il vinto di Dio, e meno che uomo,
perchè non è dell'uomo che una sua parte sola, il
peccato. È piuttosto tipo, specie, simbolo, che persona.
È il più basso gradino nella scala degli esseri
spirituali, lo spirito tra l'umano e il bestiale, in cui
l'intelletto è ancora istinto e la volontà è
ancora appetito. Figure vive e mobili della colpa, ma figure,
semplice esteriorità: non carattere, non passione, non
intelligenza, non volontà. Fra gl'incontinenti e i violenti
il demonio è tragico e serio: è azione mimica e
tutta esterna, passione tradotta in moti e gesti, senza la parola,
salvo brevi imprecazioni. La natura ti dà figura e colore:
qui la figura si muove e il colore si anima, è la figura in
azione. Il poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane,
e le ha rifatte e rinnovate. Come a costruire il suo inferno
toglie alla terra le sue forme, e strappandole dal circolo loro
assegnato, le compone diversamente e ti crea una nuova natura;
così ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte
le forme demoniache, Minos Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le
arpie, le furie, e le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e
libere, spogliate di concetto, di vita e di religione, e le
ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo pensiero e la sua
religione. Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte, in
cui vien fuori l'apparenza di un carattere: impaziente rissoso,
manesco, che grida e batte. Il poeta si è ben guardato di
sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura
di Caronte rimane severa e grave, e non fa dissonanza con la
solennità della natura infernale, dove si trova collocata.
Minos è il giudizio rappresentato in modo affatto esteriore
e plastico, e rapido come saetta:
dicono e odono e poi son giù
vòlte.
Le altre figure sono schizzi, appena disegnati; ingegnoso è
il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle più belle
ottave dell'Ariosto.
Noi concepiamo oramai la costruzione de'
singoli canti. Il poeta comincia col porci innanzi la natura del
luogo e la qualità della pena; il demonio ora precede, ora
vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme e misti, non
ancora l'individuo, ma l'uomo collettivo, gruppi di mezzo a' quali
spesso si stacca l'individuo e tira la tua attenzione.
I gruppi sono l'espressione generale del
sentimento che riempie i peccatori nella società infernale;
sono la parentela del delitto, dove trovi nello stesso lago di
sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada
Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.
Come nella natura e nel demonio, così
ne' gruppi l'aspetto è dapprima severo e tragico. Essi
esprimono il sublime dello spirito la disperazione. L'uomo ha
bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al
pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento
germoglia sentimento; l'uomo vive quando è in un'onda
assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è
l'annullamento della vita morale, la stagnazione del pensiero e
del sentimento, la morte, il nulla, il caos, le tenebre dello
spirito, un sublime negativo. Come il sublime delle tenebre
è nella luce che muore, il sublime della disperazione
è nella morte della speranza:
nulla speranza gli conforta mai
non che di posa, ma di minor pena.
L'espressione estetica della disperazione è la bestemmia,
violenta reazione dell'anima, innanzi a cui tutto muore, e che nel
suo annichilamento involge l'universo:
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
l'umana specie e il luogo e il tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
La passione trasforma la faccia dell'uomo, abitualmente
tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia negli
occhi: momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne' suoi
gruppi. Gli avari stanno col pugno chiuso, gl'irosi si lacerano le
membra: violenza di moti appassionati, niente che sia basso o
vile: puoi abborrirli, non puoi disprezzarli.
Immaginate una piramide. Nella larghissima base
vedete la natura infernale. Più su è il demonio,
figura bestiale in faccia umana, bestia talora in tutto, mai in
tutto uomo. Alzate ancora l'occhio, e vedete gruppi nella violenza
della passione. È la stessa idea che si sviluppa e si
spiritualizza, insino a che da questo triplice fondo si eleva
sulla cima la statua, l'individuo libero, l'idea nella sua
individuale realtà, e più che l'idea, se stesso
nella sua libertà. È di mezzo a quella folla
confusa, a quei gruppi, che escono i grandi uomini dell'inferno o
piuttosto della terra; è da questa triplice base
dell'eternità che esce fuori il tempo e la storia e
l'Italia e più che altri Dante come uomo e come cittadino.
L'inferno degl'incontinenti e de' violenti
è il regno delle grandi figure poetiche. Qui trovi come in
una galleria di personaggi eroici Francesca, Farinata, Cavalcanti,
Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Capaneo, Dante, il Fato, Dio e
la Fortuna. Sono in presenza forze colossali, la energia della
passione e la serenità del fato. Qui è Francesca
eternamente unita al suo Paolo, là è la Fortuna che
non ode le imprecazioni degli uomini e beata si gode. Ora ti
percote il suono della divina giustizia che in eterno rimbomba;
ora ti stupisce Capaneo che tra le fiamme oppone sè a tutte
le folgori di Giove. Su questo fondo tragico s'innalza la libera
persona umana e vi si spiega in tutta la ricchezza delle sue
facoltà. Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e
scolastiche, e prendiamo possesso della realtà. La donna
non è più Beatrice, il tipo realizzato de'
trovatori, fluttuante ancora tra l'idea e la realtà; qui
acquista carattere, storia, passioni, una ricca e vivace
personalità, è Francesca da Rimini, la prima donna
del mondo moderno. L'uomo non è più il santo con le
sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria, il suo uffizio,
il suo partito, la sua famiglia, le sue passioni e il suo
carattere; è Farinata, è Cavalcanti, è
Brunetto, è Pier delle Vigne, è Dante Alighieri,
alla cui fiera natura Virgilio applaude:
... ... Alma sdegnosa,
benedetta colei che in te s'incinse!
L'inferno dà loro una realtà più energica,
creando nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura "per
le nuove radici del suo legno". Farinata dice:
ciò mi tormenta più che questo
letto.
All'annunzio della morte del figlio, Cavalcanti
supin ricadde e più non parve fuora.
Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel quale si sente vivere
ancora. Capaneo può dire: "Qual i' fui vivo, tal son
morto". E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria.
L'inferno è il loro piedistallo, sul quale si ergono col
petto e con la fronte, affermando la loro umanità. Nascono
situazioni e forme novissime, che danno rilievo alle figure e a'
sentimenti.
Questo mondo tragico, dove l'impeto della
passione e la violenza del carattere mette in gioco tutte le forze
della vita, ha la sua perfetta espressione in questi grandi
individui, rimasti così vivi e giovani e popolari, come
Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia, della
epopea e della tragedia. E ora quale contrasto! Lasciamo appena le
falde dilatate di foco e la rena che s'infiamma come esca sotto
fucile, e ci troviamo in una pozzanghera che fa zuffa con gli
occhi e col naso. Lasciamo i tragici demòni
dell'antichità, i centauri e le arpie, e incontriamo
diavoli con le corna e armati di frusta, e vilissimi uomini che
alle prime percosse scappano senz'aspettar le seconde nè le
terze. In luogo di Capaneo con la fronte levata, il primo che
vediamo ha gli occhi bassi, vergognoso di mostrarsi; e Dante,
così riverente e pietoso finora e anche sdegnoso, diviene
maligno e sarcastico, e compone per la prima volta il labbro ad un
sorriso sardonico. Chiama "salse pungenti" quel letamaio,
che dagli uman privati parea mosso
. Un altro lo sgrida:
... ... "Perchè se' tu sì ingordo
di riguardar più me che gli altri
brutti?"
E Dante, che lo vede col capo lordo tanto che non parea "s'era
laico o cherco", gli ricorda crudelmente di averlo veduto in terra
co' capelli asciutti. E quegli esprime il suo dolore, "battendosi
la zucca". Tutto è mutato: natura, demonio e uomo, immagini
e stile. Cadiamo in pieno plebeo. Chi sono questi uomini? Sono
adulatori e meretrici dannati alla stessa pena: gli uni vendono
l'anima, le altre vendono il corpo. Sentite che noi passiamo in un
altro mondo, nel mondo de' fraudolenti.
Esteticamente, il mondo de' fraudolenti
è la prosa della vita; precipitata dal suo piedistallo
ideale, e divenuta volgarità. È la passione che si
muta in vizio, il carattere che diviene abitudine, la forza che
diviene malizia. La passione è poetica, perchè ha
virtù di concitare tutte le forze dell'anima, sì
ch'elle prorompano di fuori liberamente: il vizio è la
passione fatta abitudine, ripetizione degli stessi atti, un fare
perchè si è fatto; è l'artista divenuto
artefice, l'arte divenuta mestiere. L'uomo appassionato
spiritualizza la sua azione, ci mette dentro se stesso, ma nel
vizioso l'anima è sonnolenta, la sua azione è
stupida materia, atto meccanico a cui lo spirito rimane estraneo.
La passione produce il carattere, la forte volontà, che
è la stessa passione in continuazione; il vizio ha compagna
la fiacchezza e bassezza dell'anima, non essendo altro la bassezza
che l'abdicazione e l'apostasia della propria anima. I grandi
caratteri sicuri di sè hanno a loro istrumento la forza,
impetuosi fino all'imprudenza, semplici fino alla
credulità; gli animi fiacchi hanno a loro istrumento la
malizia, coscienza della loro impotenza, e, pipistrelli notturni,
assaltano alle spalle e non osano guardare in viso.
In questo mondo il di fuori è mutato,
perchè mutato è il di dentro, ove non trovi
più caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia, lo
spirito oscurato e materializzato, la dissoluzione della vita. A
quei cerchi indeterminati, a quella città rosseggiante di
Dite, nomi e figure terrene, succede un non so che, una cosa senza
nome, che il poeta chiama bizzarramente "Malebolge", una natura
sformata e in dissoluzione, ripe scoscese, scogli mobili che fanno
da ponticelli, e giù valloni paludosi, dove le acque finora
impetuose e correnti stagnano e si putrefanno, valloni angusti,
bolge, valigie, borse, che stringendosi più e più
vanno a finire in un pozzo: natura piccola, in rovina e in
putrefazione. Al demonio mitologico iroso e appassionato succede
il diavolo cornuto, essere grottesco, o piuttosto i diavoli che
vanno in frotte, e si mescolano in ignobili parlari con la gente
più abbietta, e canzonano e sono canzonati, maliziosi,
bugiardi, plebei, osceni. Al vivo movimento delle bufere e delle
grandini e delle fiamme succede la materia in decomposizione,
quanti strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia e
quante malattie ti offre lo spedale. Tali la natura, il demonio,
le pene. Vedi ora l'uomo. La faccia umana è rimasta finora
inviolata: innanzi all'immaginazione la passione invermiglia la
faccia di Francesca, e la grandezza dell'anima pare nella faccia
dell'uomo che si leva dritto dalla cintola in su. Qui la faccia
umana sparisce: hai caricature e sconciature di corpi. Uomini
cacciati in una buca, capo in giù, piedi in su;
vólti travolti in su le spalle, sì che il pianto
scende giù per le reni; visi, occhi e corpi imbacuccati e
incappucciati; musi umani fuor della pegola a modo di ranocchi;
corpi, altri smozzicati, accismati, altri marciti e imputriditi,
scabbiosi, tisici, idropici. Di questa figura umana deturpata e
contraffatta l'immagine più viva è Bertram dal
Bormio, il cui busto si fa lanterna del suo capo che porta pesol
per le chiome. In questo mondo prosaico e plebeo, che comincia con
Taide e finisce con mastro Adamo, la materia ovvero la parte
bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul domandarci: -
Costoro sono uomini o bestie? - Non sono ancora bestie, e l'uomo
già muore in loro:
che non è nero ancora e il bianco muore.
Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana; e la
più profonda concezione di Malebolge è questa
trasformazione dell'uomo in bestia e della bestia in uomo: hanno
l'appetito e l'istinto della bestia, hanno la coscienza dell'uomo.
Si sanno uomini e sono bestie; e qui è la pena, nella
coscienza umana che loro è rimasta.
La forma estetica di questo mondo è la
commedia, rappresentazione de' difetti e de' vizi. Fra tanta
fiacchezza della personalità il grande uomo, l'individuo,
è gittato nell'ombra, e vien su il descrittivo,
l'esteriorità. Nell'inferno tragico le descrizioni sono
sobrie e rapide, l'interesse principale è negli attori che
prendono la parola: qui è un gregge muto, visto da lontano.
Virgilio dice a Dante: - Vedi là Mirra, vedi Giasone, vedi
Manto. - Appena è se qualche epiteto ti segna in fronte
alcuno de' più grandi personaggi, come si fa di Giasone:
e per dolor non par lacrima spanda.
Prima dite: "Il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto
Latini" ; ora dite: "Il canto de' ladri, de' falsari, de'
truffatori": vi sono gruppi, non individui; vi è il
descrittivo, manca il drammatico. Manca la grandezza negli attori,
e manca la pietà negli spettatori. La figura umana
così torta, che il pianto degli occhi bagnava le natiche,
cava a Dante lacrime; l'"homo sum" si sente colpito in lui; ma
Virgilio lo sgrida:
Ancor sei tu degli altri sciocchi?
Qui vive la pietà, quand'è ben
morta.
Abbonda il descrittivo; l'immaginazione di Dante è
così robusta, che avendo a fare con oggetti così
fuori della natura, non che sentirsi impacciata, pare che scherzi:
con tanta facilità e spontaneità esprime le
più varie e strane attitudini: la fiamma parla come lingua
d'uomo, le zanche piangono e fremono. Il più grande sforzo
dell'immaginazione umana è la trasformazione di uomini in
bestie, nel canto ventesimoquinto, quantunque la soverchia
minutezza generi sazietà.
Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno
individuo in cui si sviluppa con più chiara coscienza il
concetto di Malebolge. Un lato serio di questo concetto è
lo spirito che varca il limite assegnatogli. Se la ragione potesse
veder tutto,
mestier non era partorir Maria.
L'esperienza avea le sue colonne d'Ercole; la ragione avea pure le
sue colonne. Questo concetto qui è serio, non è
sublime, nè tragico; perchè l'uomo, che con la
temerità oraziana sforza la natura, è qui non
dirimpetto a Dio come Prometeo e Capaneo, ma colpito e soggiogato,
senza che in lui paia vestigio di ribellione, di orgoglio e di
violenza:
... ... Dove rui,
Anfiarao? perchè lasci la guerra?
E non restò di rovinare a valle,
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
L'uomo di Orazio è sublime, perchè lo vedi
nell'opera, senti in lui la voluttà del frutto proibito,
malgrado Dio e la natura. Anfiarao è un puro nome; sublime
di terrore è quel suo precipitare a valle, mostrandocelo
successivamente inabissarsi, ma il grottesco vien subito dopo:
Mira che ha fatto petto delle spalle:
perchè volle veder troppo davante,
di rietro guarda e fa ritroso calle.
Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle
acque per giudizio di Dio, "come a lui piacque". Pure un po'
dell'audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in
bocca nobili parole, e ti fa sentire quell'ardente
curiosità del sapere che invadeva i contemporanei. Ti par
di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene
virtù. Se la logica ghibellina pone in inferno l'autore
dell'agguato contro Troia, radice dell'impero sacro romano, la
poesia alza una statua a questo precursore di Colombo, che indica
col braccio nuovi mari e nuovi mondi, e dice a' compagni:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Ulisse è il grand'uomo solitario di Malebolge. È una
piramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da tutt'i
lati, traendosi appresso il lordo, l'osceno, il disgustoso: lo
spirito, divenuto malizia, è qui decaduto, degradato; e con
lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse stesso per la sua
malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle fiamme. Siamo in
un mondo comico.
La regina delle forme comiche è la
caricatura, il difetto colto come immagine e idealizzato. Al che
si richiede che il personaggio operi ingenuamente e brutalmente,
come non avesse coscienza del suo difetto, a quel modo che si vede
in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti caratteri comici. I
dannati di Malebolge sono così fatti: essi sono cinici e
perciò ridicoli, come i diavoli nel canto ventesimosecondo,
rissosi, abietti, vanitosi, bassamente feroci ne' loro atti.
Così sono i ladri, i truffatori, i barattieri, plebe in cui
il vizio è così connaturato, che non se ne accorge
più. Tale è Nicolò terzo vano del suo papale
ammanto, che crede Dante venuto nell'inferno apposta per veder
lui. Tali sono pure Sinone e maestro Adamo. Essi si mostrano nella
loro naturalezza, e possono essere rappresentati nella forma
diretta e immediata, isolando il difetto dagli accessorii e
idealizzandolo, divenuto un contromodello, l'immagine opposta a
quel tipo, a quel modello di perfezione che ciascuno ha in mente:
qui è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un
comico plebeo della più bassa lega: sia esempio la rissa
tra Sinone e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco, l'infimo
grado del comico. Quest'uomo, così possente creatore
d'immagini nell'inferno tragico, qui si sente arido, freddo, in un
mondo non suo. Le situazioni sono comiche, ma il comico è
rozzamente formato, e non è artistico, non ha la sua
immagine che è la caricatura, nè la sua impressione
che è il riso. Due persone in rissa cadono in un lago
d'acqua bollente che li divide. Situazione comica, se mai ce ne
fu. Il poeta dice:
Lo caldo sghermidor subito fue.
Espressione vivace, ma che non sveglia nessuna immagine e ti
lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel movimento, quella
smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La
pancia di mastro Adamo, che sotto il pugno di Sinone "sonò
come fosse un tamburo", è una felice caricatura; ma
è una freddura il dire:
e mastro Adamo gli percosse 'l volto
col pugno suo che non parve men duro.
Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi più
comici non fanno ridere. Perchè a fare la caricatura
bisogna fermare l'immaginazione nell'oggetto comico, spassarcisi,
obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello. Dante non ha questo
sublime obblio comico, non ha indulgenza, nè
amabilità. Teme di sporcarsi tra quella gente, e se ode, se
ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci sta, se ne scusa:
Ahi fera compagnia! Ma in chiesa
coi santi e in taverna coi ghiottoni.
Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il
disdegno; e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.
Il riso muore, quando il personaggio comico ha
coscienza del suo vizio, e non che sentirne vergogna vi si pone al
di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non sei tu che gli fai
la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista, che
si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e
se ne fa un'aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo
più acconcio a dire: - Miratemi -; più acconcio a
dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e non
arrossisce; il rossore è proprio della faccia umana. L'uomo
consapevole del suo difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia
alla faccia umana e dicesi "sfacciato" o "sfrontato". Qui la
caricatura uccide se stessa, il comico giunto alla sua ultima
punta si scioglie; e n'esce un sentimento di supremo disgusto e
ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria
abbiezione predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto un
sentimento che tocca quasi l'orrore. Qui Dante è nel suo
campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Mastro Adamo è
come animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni Fucci ha
avuto la coscienza e l'ha soffocata; sono i due estremi nella
scala del vizio; l'uno non è mai salito fino all'uomo;
l'altro è passato per l'uomo ed è ricaduto nella
bestia. Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e sceglie
le circostanze più acconce a darvi risalto:
Vita bestial mi piacque e non umana,
siccome a mul ch'io fui. Son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
Ecco l'uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo di Malebolge,
l'umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.
Ma l'umano non muore mai in tutto. L'uomo
diviene bestia, ma la bestia torna uomo. E con senso profondo
Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci scoperto ladro
gitta il rossore della vergogna:
e di trista vergogna si dipinse.
L'uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna, in luogo
di mostrarlo al naturale (ciò che produce la caricatura)
cerca occultarlo sotto contraria apparenza: il poltrone fa il
bravo. Nasce il contrasto tra l'essere e il parere: la situazione
divien comica, e la sua forma è l'ironia. Lo spettatore
indulgente e che vuole spassarsi a sue spese finge di crederlo e
di secondarlo; accetta come seria l'apparenza che si dà,
anzi la carica ancora di più; fa il bravo, ed egli lo
chiama un "Orlando", ma accompagnando le parole di un cotale
ammiccar d'occhi che esprima scambievole intelligenza, di un tuono
di voce in falsetto, di un riso equivoco, che vuol dire: - Io ti
conosco. - Perciò l'essenziale dell'ironia non è
nell'immagine, ma nel sottinteso: è il riflesso che succede
allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma
delicata, perchè lo spettatore, alla vista del difetto che
altri cerca di mascherare, non sente collera, non gli strappa la
maschera dal viso, anzi se la mette egli stesso e serba una
compostezza e una pulitezza, equivoca ne' movimenti e ne' gesti.
Forma di tempi civili, assai rara nelle età barbare e nelle
poesie primitive. Dante, accigliato, brusco, tutto di un pezzo,
com'è ne' suoi ritratti, ha troppa bile e collera, e non
è buono nè alla caricatura, nè all'ironia. Ma
dalla sua fantasia d'artista è uscita una di quelle
creazioni, che sono le grandi scoperte nella storia dell'arte, un
mondo nuovo: il "nero cherubino", che strappa a san Francesco
l'anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele.
Egli crea il diavolo, gli dà il suo concetto e la sua
funzione. Il diavolo è l'ironia incarnata: non ci è
uomo tanto briccone che il diavolo non sia più briccone di
lui, e capite che non è disposto a guastarsi la bile per le
bricconerie degli uomini. L'uomo può ingannare un altro
uomo, ma non può ficcarla al diavolo, perchè il
diavolo nel suo senso poetico è lui stesso, la sua
coscienza che risponde con un'alta risata a' suoi sofismi, e gli
fa il controsillogismo, e gli dice beffandolo:
... ... Forse
tu non sapevi ch'io loico fossi!
Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto è
sublime quando offende il nostro senso morale ed estetico e ci
gitta in violenta reazione. Scoppia la collera, l'indignazione,
l'orrore: il comico è immediatamente soffocato. Quando
veggo un difetto rivelarsi all'improvviso, uso la caricatura.
Quando veggo un difetto che cerca mascherarsi, prendo la maschera
anch'io e uso l'ironia. Ma quando quel difetto mi offende, mi
sfida, mi provoca, si mette dirimpetto a me come contraddizione al
mio intimo senso, la mia coscienza così audacemente negata
e contraddetta reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo
mostro qual è, nella sua laida nudità. La caricatura
e l'ironia si risolvono in una forma superiore, il sarcasmo, la
porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rientriamo nella
grande poesia.
Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono,
ma per morire: nasce la caricatura, ed è guastata; spunta
la maschera, ed è strappata. E la morte viene da questo,
che nella forma sarcastica del brutto ci è l'idea che
l'uccide, il suo contrario. Nel canto de' simoniaci il sarcasmo fa
la sua splendida apparizione. Il comico muore sotto l'ira di
Dante. L'antitesi tra quello che è di fuori e quello che
è nella sua anima scoppia in ravvicinamenti innaturali,
come "calcando i buoni e sollevando i pravi", "Dio d'oro e
d'argento"; e spesso in parole a doppio contenuto, che è
l'immagine del sarcasmo. Tale è la parola rimasa
proverbiale, con che è qualificata la servilità
della Chiesa. Parimente chiama "adulterio" la simonia e
"idolatria" l'avarizia, parole, nelle quali entrano come elementi
la santità del matrimonio e il vero Dio: in una sola
immagine c'è il brutto e ci è l'idea che lo
condanna.
Ma il sarcasmo dee purificare e consumare se
stesso. Finchè rimane nel particolare e nel personale, il
linguaggio è acre, bilioso: hai Giovenale e Menzini. Il
poeta, non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee
spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l'orizzonte, essere
eloquente, voce di verità, espressione impersonale della
coscienza. Certo, in quel canto de' simoniaci vive immortale la
vendetta dell'uomo ingannato che anticipa a Bonifazio l'inferno, e
del ghibellino e del cristiano che vede nel papato temporale una
pietra d'inciampo e di scandalo. Ma i sentimenti e le passioni
personali, se hanno ispirato il poeta e resa terribilmente
ingegnosa la sua fantasia, non penetrano nella rappresentazione.
Bisogna sapere la storia per indovinare i terribili incentivi
dell'alta creazione. Ciò che qui senti è la
convinzione, la buona fede del poeta, la sincerità e
l'impersonalità della sua collera: onde sgorga dal suo
labbro eloquente tanta magnificenza d'immagini e di concetti.
Prima Dante è in collera con Nicolò, pinto in pochi
tratti vano, piccolo, col cervello e co' sensi nel piede. E
comincia col "tu", e l'assale corpo a corpo, con ironia amara che
si trasforma nel pugnale del sarcasmo:
e guarda ben la mal tolta moneta,
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
Ma nel pendìo dell'ingiuria si contiene d'un tratto,
passaggio meritamente ammirato: la piccola persona di
Nicolò scomparisce; sottentra il "voi", i papi, il papato;
le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia, e da
ultimo la collera svanisce in una certa tristezza pura di ogni
stizza; è un deplorare, non è più un inveire:
Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici,
concezione delle più originali, dove il comico è
posto ed è sciolto. Poco felice nel maneggio delle forme
comiche, il poeta è insuperabile quando se ne sviluppa,
mutato il riso in collera, come nella sua invettiva, nella pena di
Bertram dal Bormio, nella rappresentazione di Vanni Fucci. Rimane
un fondo comico che aspetta ancora il suo artista. Pure in quella
materia appena formata vive immortale il suo nero cherubino.
Nel pozzo de' traditori la vita scende di un
grado più giù: l'uomo bestia diviene l'uomo
ghiaccio, l'essere petrificato, il fossile. In questo regresso
dell'inferno, in questo cammino a ritroso dell'umanità
siamo giunti a quei formidabili inizi del genere umano, regno
della materia stupida, vuota di spirito, il puro terrestre,
rappresentato ne' giganti, figli della terra, nella loro lotta
contro Giove, natura celeste e spirituale, inferiore di forza
fisica, ma armato del fulmine:
... ... con minaccia
Giove dal cielo ancora, quando tuona
Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli ribelli.
Qui all'ingresso trovi i giganti; alla fine Lucifero: mitologia e
Bibbia si mescolano, espressioni della stessa idea. La lotta
è finita: i giganti sono incatenati; Lucifero è
immenso e stupido carname, il gradino infimo nella scala de'
demòni. Il gigantesco è la poesia della materia; ma
qui, vuoto e inerte, è prosa. Tra' giganti e Lucifero
stanno i dannati fitti nel ghiaccio. Le acque putride di
Malebolge, ventate dalle enormi ali di Lucifero, si agghiacciano,
s'indurano, diventano mare di vetro, di dentro a cui traspariscono
come festuche i traditori contro i congiunti nella Caina, contro
la patria nell'Antenora, contro gli amici nella Tolomea, e contro
i benefattori nella Giudecca. La pena è una, ma graduata
secondo il delitto. Il movimento si estingue a poco a poco, la
vita si va petrificando, finchè cessa in tutto la lacrima,
la parola e il moto. L'immagine più schietta di questo
mondo cristallizzato è il teschio dell'arcivescovo
Ruggieri, inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.
L'Ugolino è una delle più
straordinarie e interessanti fantasie. E per lui che la vita e la
poesia entra in questo mare morto, dove la natura e il demonio e
l'uomo è materia stupida e senza interesse. Come concetto
morale, il tradimento è la colpa più grave; ma qui
manca l'organo della colpa: il grido della coscienza sembra
agghiacciato insieme col colpevole. Questo grido può uscire
dal petto concitato di Dante spettatore, come è già
avvenuto in Malebolge, dove l'invettiva di Dante risolve il
comico. Qui ci è di meglio. Tra questi esseri petrificati
Dante gitta il suo Ugolino, ghiacciato con gli altri, come
traditore egli pure, ma col capo sul capo di Ruggieri,
perchè insieme egli è il suo tradito e il suo
carnefice. È la vittima che qui alza il grido contro il
traditore, e gli sta eternamente co' denti sul capo, saziando in
quello il suo odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio.
Così è nato l'Ugolino, il personaggio più
ricco, più moderno, più popolare di Dante dove
l'analisi è più profonda e più sviluppata,
nelle sue straordinarie proporzioni così umano e vero.
Prendete ora una carta topografica
dell'inferno, e guardate questa piramide capovolta, a forma
d'imbuto. Vedete l'immensa base alla cima, senza figura altra che
di cerchi, fra le tenebre eterne; e poi quei cerchi prendon figura
di città rosseggiante di fiamme, e la città di
bolgia putrida e puzzolenta, e la bolgia di pozzo entro il quale
è petrificata la natura; in cima l'infinito, alla fine il
tristo buco
sopra 'l qual pontan tutte le altre rocce;
e voi avete così l'immagine visibile di questo inferno
estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo
entusiasmo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario,
il feroce, l'orribile, finchè da' più bassi fondi
della società sale su il laido, l'abietto e il plebeo.
Questa decomposizione e depravazione successiva della vita
è l'Inferno.
L'Inferno è l'uomo compiutamente
realizzato come individuo, nella pienezza e libertà delle
sue forze. E può misurare la grandezza dell'opera, chi vede
gli abbozzi di Dino Compagni, o lo scarno Ezzelino, o le rozze
formazioni de' misteri e delle leggende. L'individuo era ancora
astratto e impigliato nelle formole, nelle allegorie e
nell'ascetismo. In quelle vuote generalità ci è la
donna e l'uomo, come genere, come simbolo, come l'anima; manca
l'individuo. E manca tanto, che spesso non ha un nome, ed è
la "mia donna", o "un giovine", "un santo uomo". Non un nome solo
era rimasto vivo nel mondo dell'arte, fra tante liriche e
leggende. Dante volea scrivere il mistero dell'anima; si
cacciò tra allegorie e formole, ed ecco uscirgli dalla
fantasia l'individuo, volente e possente, nel rigoglio e nella
gioventù della forza, spezzato il nocciolo dove lo avea
chiuso il medio evo. I pittori disegnavano santi e cupole, i
filosofi fantasticavano sull'ente; i lirici platonizzavano, gli
ascetici contemplavano e pregavano: Dante pensava l'inferno; e
là, tra' furori della carne e l'infuriar delle passioni,
trovava la stoffa di Adamo, l'uomo com'è impastato, con la
sua grandezza e con la sua miseria, e non descritto, ma
rappresentato e in azione, e non solo ne' suoi atti, ma ne' suoi
motivi più intimi. Così apparvero sull'orizzonte
poetico Francesca, Farinata, Cavalcanti, la Fortuna, Pier delle
Vigne, Brunetto, Capaneo, Ulisse, Vanni Fucci, il "nero
cherubino", Nicolò terzo e Ugolino. Tutte le corde del
cuore umano vibrano. Vedi attorno a questa schiera d'immortali,
turba infinita di popolo nella maggior varietà di
attitudini, di forme, di sentimenti, di caratteri, che ti passano
avanti, alcuni appena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati
in fronte di qualche frase indimenticabile, che li eterna, come
Taide, Mosca, Giasone, Omero, Aristotile, papa Celestino,
Bonifazio, Clemente, Bruto, Bocca degli Abati, Bertram dal Bormio.
Nel regno de' morti si sente per la prima volta la vita nel mondo
moderno. Come è bella la luce, il "dolce lome", a
Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva de'
suicidi, spogliata del verde! Come è commovente Brunetto,
che raccomanda a Dante il suo Tesoro, e Pier delle Vigne che gli
raccomanda la sua memoria! Come ride quel giardino del peccato
innanzi a Francesca! Col vivo sentimento della dolce vita, della
bella natura, è accompagnato il sentimento della famiglia.
Quel padre che cade supino, udendo la morte del figlio, e Ugolino
che dannato a morire di fame guarda nel viso a' figliuoli, e
Anselmuccio che gli domanda: - Che hai? - E Gaddo che gli dice: -
Perchè non mi aiuti? - Sono scene solitarie della poesia
italiana. Ciascuno è in una situazione appassionata. I
sentimenti spinti alla punta idealizzano e ingrandiscono gli
oggetti. Tutto è colossale, e tutto è naturale E in
mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più
vivente di tutti, pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico,
vendicativo, feroce, col suo elevato sentimento morale col suo
culto della grandezza e della scienza anche nella colpa, coi suo
dispregio del vile e dell'ignobile, alto sopra tanta plebe,
così ingegnoso nelle sue vendette, così eloquente
nelle sue invettive.
Queste grandi figure, là sul loro
piedistallo rigide ed epiche come statue, attendono l'artista che
le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia
esseri drammatici. E l'artista non fu un italiano: fu Shakespeare.
Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta
in quella età della vita che le passioni si scoloriscono, e
l'esperienza e il disinganno tolgono le illusioni, e scemata la
parte attiva e personale, l'uomo si sente generalizzare, si sente
più come genere che come individuo. Spettatore più
che attore, la vita si manifesta in lui non come azione, ma come
contemplazione artistica, filosofica, religiosa. In quella calma
delle passioni e de' sensi era posto l'ideale antico del savio,
l'ideale nuovo del santo, fuso insieme in quel Catone, che Dante
chiama nel Convito anima nobilissima e la più perfetta
immagine di Dio in terra. Catone è il savio antico, pinto
come i filosofi, con quella sua lunga barba, in quella calma e
gravità della sua decorosa vecchiezza:
degno di tanta riverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Ma è qualcosa di più; è il savio battezzato e
santificato, con la fronte radiante, illuminata dalla grazia,
sì che pare un sole. Virgilio non comprende questo savio
cristianizzato, e parla al Catone di sua conoscenza, ricordando la
sua virtù, la sua morte per la libertà, la sua
Marzia. E il nuovo Catone risponde: - Marzia, che piacque tanto
agli occhi miei, non mi move più; ma se Donna del cielo ti
guida, non ci è mestier lusinga:
basta ben che per lei mi richegge.
Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo
doppio ideale è realizzato: il mondo di Catone o della
libertà, dove lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la
sua libertà:
Libertà va cercando ch'è
sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma, altro
stile. Non è più l'Iliade, è l'Odissea,
è un nuovo poema. Paragonare Inferno e Purgatorio e
maravigliarsi che qui non sieno le bellezze ammirate colà,
gli è come maravigliarsi che il purgatorio sia purgatorio e
non inferno. O, se pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa,
maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiutamente
dimenticare l'antico se stesso, le sue abitudini di concepire, di
disporre, di colorire, e seppellito in questo nuovo mondo
ricrearsi l'ingegno e la fantasia a quella immagine, e con tanta
spontaneità che pare non se ne accorga: obblio dell'anima
nella cosa, il secreto della vita, dell'amore e del genio.
L'inferno e il regno della carne, che scende
con costante regresso sino a Lucifero. Il purgatorio e il regno
dello spirito, che sale di grado in grado sino al paradiso.
È là che si sviluppa il mistero, la Commedia
dell'anima, la quale dall'estremo del male si riscote e si sente e
mediante l'espiazione e il dolore si purifica e si salva. Onde con
senso profondo il purgatorio esce dall'ultima bolgia infernale, e
Lucifero, principe delle tenebre, e quello stesso per le spalle
del quale Dante salendo esce a riveder le stelle.
Ci è un avanti-purgatorio, dove la carne
fa la sua ultima apparizione. Il suo potere non è
più al di dentro: l'anima è già libera; della
carne non resta che la mala abitudine. Gradazione finissima e
altamente comica, dalla quale è uscito l'immortale ritratto
di Belacqua, caricatura felicissima nella figura, ne' movimenti,
nelle parole, e tanto più comica quanto più Belacqua
si sforza di rimaner serio, usando un'ironia che si volge contro
di lui.
Questo avanti-purgatorio è quasi una
transizione tra l'inferno e il purgatorio: il peccato vi è
e non v'è; e ancora nell'abitudine non è più
nell'anima; il demonio ci sta sotto la forma del serpente d'Eva,
involto tra l'erbe e i fiori, cacciato via da due angioli dalle
vesti e dalle ali di color verde, simbolo della speranza.
Comparisce per scomparire, quasi per far testimonianza che se ne
va dalla scena per sempre. Innanzi alla porta del purgatorio
scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne gran parte di
poesia se ne va.
L'anima non appartiene più alla carne,
ma l'ha avuta una volta sua padrona e se ne ricorda. La carne non
è più una realtà, come nell'inferno, ma una
ricordanza. Ne' sette gironi, rispondenti a' sette peccati
mortali, le anime ricordano le colpe per condannarle; ricordano le
virtù per compiacersene.
Quel ricordare le colpe non è se non
l'inferno che ricomparisce in purgatorio per esservi giudicato e
condannato; quel ricordare le virtù non è se non il
paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e
vagheggiato: l'inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci sta
in desiderio. Carne e spirito non sono una realtà: la
tirannia della carne è una rimembranza; la libertà
dello spirito è un desiderio.
Poichè la realtà non è
più in presenza, ma in immaginazione, essa vi sta non come
azione rappresentata e drammatica, ma come immagine dello spirito,
a quel modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle
cose non presenti, e pingiamo al di fuori quello spettro della
mente. Questa realtà dipinta vien fuori nelle pareti e ne'
bassirilievi del purgatorio. Nell'inferno e nel paradiso non sono
pitture, perchè ivi la realtà è natura
vivente, è l'originale, di cui nel purgatorio hai il
ritratto. Inferno e paradiso sono in purgatorio, ma in pittura,
come il passato e l'avvenire delle anime, non presenti agli occhi,
ma all'immaginativa. Quelle pitture sono il loro "memento", lo
spettacolo di quello che furono, di quello che saranno, che le
stimola, mette in attività la loro mente, si che ricordano
altri esempli e si affinano, si purgano.
Siamo dunque fuori della vita. Le passioni
tornano innanzi alle anime, ma non sono più le loro
passioni, sono fuori di esse, contemplate in sè o in altri
con l'occhio dell'uomo pentito. Anche le virtù sono
estrinseche alle anime, contemplate al di fuori come esempli e
ammaestramenti. Le anime sono spettatrici, contemplanti, non
attrici. Passioni buone o cattive non sono in presenza e in
azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in intagli e
pitture.
Questa concezione così semplice e vera
nella sua profondità è la pittura e la scoltura,
l'arte dello spazio, idealizzata nella parola e fatta poesia.
Perchè il poeta non dipinge, ma descrive il dipinto. La
parola non può riprodurre lo spazio che successivamente, e
perciò è inefficace a darti la figura, come fa il
pennello e lo scarpello. Nè Dante si sforza di dipingere,
entrando in una gara assurda col pittore. Ma compie e idealizza il
dipinto, mostrando non la figura, ma la sua espressione e
impressione: dinanzi all'immaginazione la figura diviene mobile,
acquista sentimento e parola.
Le aguglie di Traiano in vista si movono al vento; la vedovella
è atteggiata di lagrime e di dolore; nell'attitudine di
Maria si legge: "Ecce ancilla Dei"; l'angiolo intagliato in atto
soave non sembrava immagine che tace:
Giurato si saria ch'ei dicesse Ave.
Davide ballando sembra più e meno che re; e gli sta di
contro Micol, che ammirava,
siccome donna dispettosa e trista.
Erano i tempi di Giotto, e parevano maravigliosi quei primi
tentativi dell'arte. Quest'alto ideale pittorico di Dante fa
presentire i miracoli del pennello italiano. Il poeta avea innanzi
all'immaginazione figure animate, parlanti, dipinte da
Colui, che mai non vide cosa nuova,
ben più vivaci che non gliele potevano offrire i suoi
contemporanei.
Più in la il dipinto sparisce: senza aiuto di senso, per
sua sola virtù, lo spirito intuisce il bene e il male,
ricorda i buoni e i cattivi esempli, vede da se stesso e in se
stesso. La realtà non solo non ha la sua esistenza, come
cosa sensata, il sensibile; ma neppure come figurativa, in
pittura; diviene una visione diretta dello spirito, che opera
già libero e astratto dal senso. Nasce un'altra forma
dell'arte, la visione estatica. L'anima vede farsi dentro di
sè una luce improvvisa, nella quale pullulano immagini
sopra immagini come bolle d'acqua che gonfiano e sgonfiano, e
l'universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di
modo che il "suono di mille tube" non basterebbe a rompere la
contemplazione. Dante trova forme nuove ed energiche ad esprimere
questo fenomeno. Le immagini "piovono" nell'alta fantasia; la
mente è
... ... sì ristretta
dentro di se', che di fuor non venia
cosa che fosse allor da lei ricetta.
L'immaginativa ne "ruba" di fuori, sì
che uom non s'accorge
perchè d'intorno suonin mille tube.
L'anima vòlta in estasi ficca gli occhi nell'immagine con
ardente affetto:
come dicesse a Dio: - D'altro non calme -.
Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di
santo Stefano: un quadro a contrasto, dove tra la folla inferocita
che grida: - Martira, martira -, è la figura del santo, la
persona già aggravata dalla morte e china verso terra, ma
gli occhi al cielo preganti pace e perdono: è il soprastare
dell'anima nell'abbandono del corpo.
Siamo dunque in piena vita contemplativa. Il
processo della santificazione si sviluppa. Nell'inferno i tumulti
e le tempeste della vita reale appassionata dal furore de' sensi:
qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi, in quel mondo de'
misteri e delle estasi, così popolare, nel mondo di
Girolamo, di Francesco d'Assisi e di Bonaventura, dove la pittura
attingea le sue ispirazioni.
Nella visione estatica lo spirito ha già
un primo grado di santificazione, ha conquistato la sua
libertà dal senso, ha già il suo paradiso; ma
è un paradiso interiore, immagine e desiderio, e non
sarà realtà, paradiso reale, se non quando quella
luce e quelle immagini, vedute dallo spirito entro di sè,
sieno fuori di sè, sieno cose e non immagini. Il purgatorio
è il regno delle immagini, uno spettro dell'inferno, un
simulacro del paradiso.
Nella visione estatica lo spirito è
attivo e conscio; nel sogno è passivo e inconscio: è
una forma di visione superiore, non solo senza opera del senso, ma
senza opera dello spirito; è visione divina, prodotta da
Dio. Perciò il sogno
anzi che 'l fatto sia, sa le novelle;
e l'anima
alle sue vision quasi è divina.
Nel sogno si rivela il significato delle visioni e delle apparenze
del purgatorio. Che cosa significano quelle pitture e quelle
estasi? che cosa è il purgatorio? È il regno
dell'intelletto e del vero, dove il senso è spogliato delle
sue belle e piacevoli apparenze, e mostrato qual'è, brutto
e puzzolento. L'apparenza è una sirena:
Io son - cantava - io son dolce Sirena,
che i marinari in mezzo al mar dismago,
tanto son di piacere a sentir piena.
Ma una donna santa, la Verità, fende i drappi; e la mostra
qual femmina balba e scialba, e mostra il ventre:
quel mi svegliò col puzzo che ne usciva.
Vinto il senso e l'apparenza, si presenta a Dante in sogno
l'immagine della vita, non quale pare, ma qual è, la vera
vita a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio. E vede la
vita nella prima delle due sue forme, la vita attiva, lo
affaticarsi nelle buone opere per giungere alla beatitudine della
vita contemplativa. La sirena è rozzamente abbozzata: manca
a Dante il senso della voluttà; senti nel verso stesso non
so che intralciato e stanco. Lia è una delle sue più
fresche creazioni, personaggio tipico così perfetto nel suo
genere, come la Fortuna. La sua felicità non è
ancora beatitudine, come è della suora che vive guardando
Dio, il suo miraglio; ma appunto perciò è più
interessante e poetica, più umana, più vicina a noi
questa bella fanciulla, che va tutta lieta pel prato, e coglie
fiori e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio. Tale è
la prima immagine che il giovine incontra sovente ne' suoi sogni!
L'ultima forma sotto la quale si presenta la
realtà è la visione simbolica, dove la forma non
significa più se stessa, ma un'altra cosa. Il purgatorio
finisce tra' simboli: è il paradiso che si offre all'anima
sotto figura. Cristo è un grifone, e il carro su cui sta
è la Chiesa, e Dante ha una serie di strane visioni, che
rappresentano simbolicamente la storia della Chiesa.
Così la realtà corpulenta e
tempestosa dell'inferno si va diradando e sottilizzando per
trasformarsi nella vera realtà, lo spirito o il paradiso.
Questo processo di carne a spirito è il purgatorio, dove la
forma diviene pittura, estasi, sogno, simbolo. Il simbolo
già non è più forma, ma puro spirito, lavoro
intellettuale. Sotto la figura ci è la nuova e vera
realtà, pronta a svilupparsene e comparire essa
direttamente.
L'uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi
a questo stato dell'anima. Il suo carattere è la calma
interiore, assai simile alla tranquilla gioia dell'uomo virtuoso,
che nella miseria terrena sulle ali della fede e della speranza
alza lo spirito al paradiso. Le ombre sono contente nel fuoco, gli
affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro d'inquietudine
e d'impazienza. Ne nasce un mondo idillico, che ricorda
l'età dell'oro, dove tutto è pace e affetto, e dove
si manifestano con effusione le pure gioie dell'arte, i dolci
sentimenti dell'amicizia. In questo mondo di pitture e scolture
Dante si è coronato di artisti: Casella, Sordello, Guido
Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Arnaldo Daniello, Oderisi,
Stazio, e ne ha cavato episodi commoventi, che fanno vibrare le
fibre più delicate del cuore umano. Ricorderò il suo
incontro con Casella, e il ritratto di Sordello, e i cari
ragionamenti dell'arte con Guinicelli e Buonagiunta, e l'incontro
di Stazio e Virgilio. È un lato della vita nuovo, pur
così vero in tempi che la vita intima della famiglia,
dell'arte e dell'amicizia era un rifugio e quasi un asilo fra le
tempeste della vita pubblica. Come tocca il core l'amicizia di
Dante e di Forese, fratello di Corso Donati, il principale nemico
di Dante, e quel domandar ch'egli fa di Piccarda! I movimenti
improvvisi dell'affetto e della maraviglia sono colti con tanta
felicità, che rimangono anche oggi vivi nel popolo, come
è l'"o" lungo e roco delle anime che veggon l'ombra di
Dante, o il paragone delle pecorelle, e la calma di Sordello,
a guisa di leon quando si posa,
mutata subito in un sì vivace impeto di affetti, e Stazio
che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo, obliando di essere
un'ombra, e il cerchio dell'anime intorno a Dante,
quasi obliando d'ire a farsi belle,
e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia di Dante:
Oh ombre vane, fuor che nell'aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio
chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all'arte,
alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a' profani,
è il mondo rappresentato nel Purgatorio. Le ricordanze de'
casi anche più tristi sono pure di amarezza, raddolcite
dalle speranze dell'ultimo giorno. Manfredi non ha una ingiuria
per i suoi nemici, chiede perdono, ed ha già perdonato.
Io mi rendei
piangendo a quei che volentier perdona.
Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più
strazianti della sua morte con una calma e una serenità,
che diresti indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il
sentimento espresso in questi versi:
Qui vi perdei la vista
nel nome di Maria finio, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore il suo tempio
domestico. Ciascuno vuol essere ricordato a' suoi diletti. Come
è caro quel Forese con quel "Nella mia",
la vedovella mia che tanto amai!
E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che si sono
dimenticati di lui, e Manfredi vuol essere ricordato a Costanza, e
Iacopo a' suoi fanesi, che pregassero per lui: la sola Pia non ha
alcun nome nel suo santuario domestico, e non ha che Dante che
possa ricordarsi di lei:
ricordati di me, che son la Pia.
Questo mondo così affettuoso è penetrato di
malinconia: sentimento nuovo, che avrà tanta parte nella
poesia moderna, e generato qui, nel Purgatorio. Questo sentimento
ti prende a udir la Pia, così delicata nella solitudine del
suo cuore; eppure non era sola, e ricorda la gemma, pegno d'amore.
La tenerezza e delicatezza de' sentimenti dispone l'animo alla
malinconia: perchè malinconia non è se non dolce
dolore, dolore raddolcito da immagini care e tenere. Richiede
perciò anime raccolte che vivano in fantasia, sieno
"pensose", non distratte dal mondo, chiuse nella loro
intimità La malinconia è il frutto più
delicato di questo mondo intimo. Come ti va al core quell'ora che
incomincia i tristi lai la rondinella, presso alla mattina, e
quella squilla di lontano,
che pare il giorno pianger che si more,
e quell'ora della sera che i naviganti partono e s'inteneriscono
pensando
lo dì c'han detto a' dolci amici: addio!
Qui Dante gitta via l'astronomia, che rende spesso così
aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le dolcezze di
una natura malinconica. Tra le scene più intime, più
penetrate di malinconia, è il suo incontro con Casella.
Cominciano espansioni di affetto. Nel primo impeto corrono ad
abbracciarsi. Casella dice:
Così com'io t'amai
nel mortal corpo, così t'amo sciolta.
Dante risponde: - Casella mio! - e lo prega a voler cantare, come
faceva in vita, che col canto gli acquietava l'anima, e ora
l'anima sua è così affannata. E Casella canta una
poesia di Dante, e Dante e Virgilio e le anime fanno cerchio,
rapite, dimentiche del purgatorio, sgridate da Catone. Ma se
Catone non perdona, perdonano le muse. Quest'oblio del purgatorio,
questa musica che ci riconduce alle care memorie della vita, la
terra che scende nell'altro mondo e si impossessa delle anime,
sì che obliano di essere ombre e vogliono abbracciare gli
amici e pendono dalla bocca di Casella, questo è poesia. Ci
si sente qua dentro la malinconia dell'esilio, l'uomo che giovine
ancora desiderava con la sua Bice e i suoi amici e le loro donne
ritrarsi in un'isola e farne il santuario dei suoi affetti e
obliarvi il mondo.
E c'è la malinconia propria del
purgatorio, quel vedere di là con mutati occhi le grandezze
e gli affetti terreni, quel disabbellirsi della vita, quel cadere
di tutte le illusioni:
Non è il mondan rumore altro ch'un fiato
di vento, ch'or vien quinci ed or vien quindi,
e muta nome perchè muta lato.
Una delle figure più interessanti è Adriano.
All'ultimo della grandezza dice:
Vidi che lì non si quetava il core,
ne più salir poteasi in quella vita;
per che di questa in me s'accese amore.
Questo papa disilluso ha lunga e mala parentela, e sono tutti
morti per lui, eccetto la buona Alagia:
E questa sola m'è di la rimasa.
Quest'ultimo verso è pregno di malinconia.
Questa calma filosofica, che fa guardare dall'alto del purgatorio
la vita e ne scopre il vano e il nulla, restringe il circolo della
personalità e della realtà terrena. Gli individui
appariscono e spariscono, appena disegnati; hanno la bellezza, ma
anche la monotonia e l'immobilità della calma. Sono uomini
che discutono e conversano in una sala, più che uomini
agitati e appassionati. I grandi individui storici, le grandi
creature della fantasia scompariscono.
Più che negli individui la vita si
manifesta nei gruppi: la vita qui è meno individuo che
genere. La comune anima ha la sua espressione nel canto.
Nell'inferno non ci son cori; perchè non vi è
l'unità dell'amore. L'odio è solitario; l'amore
è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i
loro effetti nella misurata varietà delle voci e
degl'istrumenti. Qui le anime sono esseri musicali, che escono
dalla loro coscienza individuale, assorte in uno stesso spirito di
carità:
Una parola era in tutto e un modo,
sì che parea tra esse ogni concordia.
Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni, espressione
varia di dolore, di speranza, di preghiera, di letizia, di lodi al
Signore. Quando giungono al purgatorio, le odi cantare: "In exitu
Israel de Aegypto". Giungono nella valle, ed ecco intonare il
Salve Regina. La sera odi l'inno: "Te lucis ante terminum
Rerum creator poscimus". Entrando nel purgatorio, risuona il Te
Deum. Sono i salmi e gl'inni della Chiesa, cantati secondo le
varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime parole. Ti par
d'essere in chiesa e udir cantare i fedeli. Quei canti latini
erano allora nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in
chiesa; il primo verso bastava a ricordarli. Il poeta ha creduto
bastar questo ad accendere ne' petti l'entusiasmo religioso. E
forse bastava allora, quando quei versi suscitavano tante
rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia qui non
è nella rappresentazione, ma in quei lettori e in quei
tempi. Un nome, una parola basta in certi tempi a produrre tutto
l'effetto: con quei tempi se ne va la loro poesia, e restano cosa
morta. Molte parti del poema dantesco, aride liste di nomi e di
fatti, soprattutto le allusioni politiche, allora così
vive, oggi son morte. E tutta questa lirica del purgatorio
è cosa morta. Perchè Dante non crea dal suo seno
quei sentimenti, ma li trova belli e scritti ne' canti latini, e
si contenta di dirne le prime parole. Pure, la situazione delle
anime purganti è altamente lirica; la loro
personalità non è individuale, ma collettiva, e
l'espressione di quella comune anima svegliatasi in loro è
l'onda canora de' sentimenti. Qui mancò la vena e la forza
al gran poeta, e si rimise a Davide di quello ch'era suo compito.
Più che visioni e simboli e dipinti, la vita del purgatorio
era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di amore, di
quell'incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi
in uno stesso spirito di carità. Ha saputo così ben
dipingerle queste anime ardenti, che s'incontrano, si baciano e
vanno innanzi, tirate su verso il cielo!
Li veggio d'ogni parte farsi presta
ciascun'ombra, e baciarsi una con una,
senza restar, contente a breve feste.
Così per entro loro schiera bruna
s'ammusa l'una con l'altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna.
E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i loro
sentimenti, non solo il vago e l'indeterminato, ma anche il
proprio e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio,
lo mostra il suo "paternostro", rimaso canto solitario.
Le fuggitive apparizioni degli angeli sono
quasi immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza.
In essi non e alcuna subbiettività: sono forme eteree
vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell'estasi,
e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.
Tal che parea beato per iscritto...
Verdi come fogliette pur mo' nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate...
Ben discernea in lor la testa bionda,
ma nelle facce l'occhio si smarria,
come virtù ch'a troppo si confonda...
A noi venìa la creatura bella,
bianco vestita, e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Molto per la pittura, poco per la poesia. Manca la parola, manca
la personalità. Ci è il corpo dell'angiolo; non ci
è l'angiolo. Nelle dolci note, tra quelle forme d'angioli,
l'anima s'infutura, "gusta le primizie del piacere eterno". Di che
prende qualità la natura del purgatorio, una montagna,
scala al paradiso, in principio faticosa a salire:
E quanto uom più va su, e men fa male.
Però quando ella ti parrà soave
tanto che il su andar ti sia leggiero,
com'a seconda in giuso l'andar con nave,
allor sarai al fin d'esto sentiero.
Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal
sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco. La prima
impressione della luce, uscendo dall'inferno, cava a Dante questa
bella immagine:
Dolce color d'oriental zaffiro
che s'accoglieva nel sereno aspetto
dell'aer puro infino al primo giro,
agli occhi miei ricomincio diletto.
La natura è l'accordo musicale e la voce di quel di dentro:
qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un solo universo
lirico. Scena stupenda è nel canto settimo, maravigliosa
consonanza tra le ombre sedute, quete, che cantano "Salve Regina",
e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.
"Salve Regina" in sul verde e in su' fiori
quindi seder, cantando, anime vidi.
Le anime piangono e cantano, e il luogo alpestre è lieto di
apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha termine,
quando l'anima si leva con libera volontà a miglior soglia,
tolte le "schiume della coscienza", con pura letizia. Così
come nell'inferno si scende sino al pozzo ghiacciato della morte,
nel purgatorio si sale sino al paradiso terrestre, immagine
terrena del paradiso, dove l'anima è monda del peccato o
della carne, e rifatta bella e innocente. Tutto è qui che
alletti lo sguardo e lusinghi l'immaginazione: riso di cielo,
canti di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolar di fronde e
mormorare di acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme
con tale austera misura, che non dà luogo a mollezza ed
ebbrezza di sensi, nè il diletto turba la calma.
Il purgatorio è il centro di questo
mistero o commedia dell'anima; è qua che il nodo si
scioglie. Dante, più che spettatore è attore. Uscito
dall'inferno, appena all'ingresso del purgatorio l'angiolo incide
sulla sua fronte sette "P", che sono i sette peccati mortali, che
si purgano ne' sette gironi. Da un girone all'altro una "P"
scomparisce dalla fronte, finchè van via tutte, e puro e
rinnovellato giunge al paradiso terrestre. Passa da uno stato
nell'altro in sonno, cioè a dire per virtù della
grazia, senza sua coscienza. È Lucia, "nemica di ciascun
crudele", che lo piglia dormente e sognante, e lo conduce in
purgatorio. Così la storia intima dell'anima, i suoi
errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti, sono storia
esterna e simbolica: il dramma è strozzato nella sua culla.
La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si scioglie, e il
pentimento, l'anima che si riconosce, e caccia via da sè il
peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione. A questo
punto il dramma si fa umano, e ciò che avrebbe potuto far
Dante, si vede da quello che ha fatto qui; ma una storia intima,
personale, drammatica dell'anima, com'è il Faust, non era
possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.
Qui tutt'i personaggi del dramma si trovano a
fronte. Di qua Dante, Virgilio, Stazio; di là Beatrice con
gli angeli; in mezzo e il rio che li divide, bipartito in due
fiumi, Lete, l'obblio, ed Eunoè, la forza. Nell'uno l'anima
si spoglia della scoria del passato; nell'altra attinge
virtù di salire alle stelle.
L'alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Lete si passasse, e tal vivanda
fosse gustata senza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda.
Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo
scotto del pentimento, e le passa all'altra riva, rifatte
nell'antico stato d'innocenza. E lo specchio dell'anima
rinnovellata è Matilde, che danza e sceglie fiori, in
sembianza ancora umana, celeste creatura, con l'ingenua
giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una silfide,
col pudico sguardo di vergine, il viso radiante di luce. Tale era
Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento di Matilde,
il nunzio del paradiso terrestre.
La scena dove questo mistero dell'anima si
scioglie ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero
liturgico, una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano
durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e ambulante in
processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette
alberi d'oro, e dietro gente vestita di bianco che canta "Osanna",
e le fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti,
e sotto questo cielo di luce sfila la processione. Ecco a due a
due i profeti e i patriarchi dell'antico Testamento, sono
ventiquattro seniori coronati di giglio:
Tutti cantavan: - Benedetta tue
nelle figlie di Adamo, e benedette
sieno in eterno le bellezze tue. -
Segue la Chiesa in figura di carro trionfale, a due ruote (i due
testamenti), tra quattro animali (i quattro vangeli), tirato da un
grifone, simbolo di Cristo; a destra Fede, Speranza e
Carità; a sinistra Prudenza, Giustizia, Fortezza e
Temperanza, vestite di porpora; dietro due vecchi, san Luca e san
Paolo, e dietro a loro, quattro in umile paruta, forse gli
scrittori dell'Epistole, e solo e dormente san Giovanni
dall'Apocalisse:
E diretro da tutti un veglio solo
venir dormendo con la faccia arguta.
Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia la
rappresentazione. Virgilio guarda attonito, non meno che Dante. Il
senso di quella processione allegorica gli sfugge. La missione del
savio pagano è finita. Hai innanzi la dottrina nuova, la
Chiesa di Cristo co' suoi profeti e patriarchi, co' suoi
evangelisti e apostoli, co' suoi libri santi.
Fermata la processione, uno canta e gli altri
ripetono: "Veni sponsa, de Libano", e sul carro si leva
moltitudine di angioli che cantano e gittano fiori.
Tutti dicean: - Benedictus qui venis
e fior gittando di sopra e dintorno
manibus o date lilia plenis. -
Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido velo, cinta
d'oliva, sotto verde manto, vestita di colore di fiamma; appare
come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le gittano
dalle finestre i fedeli. Dante non la vede, ma la sente: è
Beatrice.
Quest'apoteosi di Beatrice, questo primo
apparire della sua donna ancora velata fra tanta gloria, scioglie
l'immaginazione dalla rigidità de' simboli e de' riti, e le
dà le libere ali dell'arte. Il dramma si fa umano; spuntano
le immagini e i sentimenti:
Io vidi già nel cominciar del giorno
le parte oriental tutta rosata,
e l'altro ciel di bel sereno adorno
e la faccia del sol nascere ombrata
sì chè per temperanza di vapori
l'occhio la sostenea lunga fiata.
Così dentro una nuvola di fiori,
che dalle mani angeliche saliva
e ricadeva giù dentro e di fuori,
sovra candido vel, cinta di oliva
donna m'apparve sotto il verde manto
vestita di color di fiamma viva.
L'apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui
l'astrattezza del simbolo è superata. Ti senti innanzi ad
un'anima d'uomo. Quella donna è la sua Beatrice, l'amore
della sua prima giovinezza; e Virgilio e il dolcissimo padre che
sparisce, quando più ne aveva bisogno, quando era proprio
come un fantolino in paura che si volge alla mamma; e si volge, e
non lo vede più, e lo chiama tre volte per nome nella mente
sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma in un dramma
moderno:
E lo spirito mio che già cotanto
tempo era stato ch'alla sua presenza
non era di stupor tremando affranto,
senza dagli occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d'antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che nella vista mi percosse
l'alta virtù che già m'avea
trafitto
prima ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi alla sinistra, col respitto
col quale il fantolin corre alla mamma,
quando ha paura o quando egli è
afflitto,
per dicer a Virgilio: - Men che dramma
di sangue m'è rimaso, che non tremi;
conosco i segni dell'antica fiamma -.
Ma Virgilio ne avea lasciati scemi
di sè; Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio, a cui per mia salute dièmi.
Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per introdurre
in iscena Beatrice:
Dante, perchè Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora,
che pianger ti convien per altra spada.
Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chiama
per nome:
Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
Non sapei tu che qui l'uomo è felice?
E gli occhi cadono nella fontana, e non sostenendo la propria
vista, cadono sull'erba:
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro
fonte;
ma veggendomi in esso, io trassi all'erba:
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Qui è la prima volta e sola che
un'azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo
svolgimento, come in un mistero, e Dante vi rivela un ingegno
drammatico superiore. I più intimi e rapidi movimenti
dell'animo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono
perfettamente disegnati; gli angioli fanno coro e intervengono. La
scena è rapida, calda, piena di movimenti e di gradazioni
fini e profonde. La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri
giunge a poco a poco sino al pianto dirotto. Dapprima sta li
più attonito che compunto, ma quando gli angioli nel loro
canto hanno aria di compatirgli, come se dicessero: "Donna,
perchè sì lo stempre?" scoppia il pianto. Quello che
non potè il rimprovero, ottiene il compatimento. Gradazione
vera e profonda e rappresentata con rara evidenza d'immagine.
Instando Beatrice: - Di' di', se questo è vero -, tra
confusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un tale
"sì" dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:
al quale intender fur mestier le viste.
I sentimenti dell'animo scoppiano con tanta ingenuità e
naturalezza, che rasentano il grottesco; quando Beatrice dice:
"Alza la barba", il nostro dottore con linguaggio della scuola
riflette:
e quando per la "barba" il "viso" chiese,
ben conobbi 'l velen dell'argomento.
Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo di Dante
fra le lacrime e i sospiri, e dà a questa magnifica storia
del cuore un colorito locale.
Queste gradazioni corrispondono alle parole di
Beatrice. Qui non ci è dialogo: è lei che parla: le
risposte di Dante sono le sue emozioni. Pure non ci è
monotonia, ne declamazione: tutto esce da una situazione vera e
finamente analizzata. "Regalmente proterva", la sua
severità è raddolcita poi dal canto degli angioli.
Beatrice non parla più a Dante: parla agli angioli, e narra
loro la storia di Dante. La situazione diviene meno appassionata,
ma più elevata: mai la poesia non s'era alzata a un
linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la
sua musa:
Quando di carne a spirto era salita
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu' io a lui men cara e men gradita:
e torse i passi suoi per via non vera,
immagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.
Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale, stringente,
implacabile nella sua logica. E una sola idea sotto varie forme,
ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta. - Sei uomo,
hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della
terra,
o pargoletta,
o altra vanità per sì breve uso?
- E quando Dante potè formare la voce, viene la
risposta:
... ... Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che 'l vostro viso si nascose.
Come si vede, è l'antica lotta tra il senso e la ragione
che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell'anima fra
gli errori e le battaglie del senso, che qui si scioglie in
commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello
spirito. L'idea è più che trasparente, è
manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma l'idea e
calata nella realtà della vita e produce una vera scena
drammatica, con tale fusione di terreno e di celeste, di passione
e di ragione, di concreto e di astratto, che vi trovi la stoffa da
cui dovea sorgere più tardi il dramma spagnuolo.
Dante, pentito, tuffato nel fiume Lete, e
menato a Beatrice dalle virtù, sue ancelle:
Noi sem qui ninfe; e nel ciel semo stelle.
Pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Menrenti agli occhi suoi...
E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che possa
rendere quello che Dante vede, quello che sente:
O isplendor di viva luce eterna,
chi pallido si fece sotto l'ombra
sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te, qual tu paresti,
là, dove armonizzando il ciel ti
adombra,
quando nell'aere aperto ti solvesti?
Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione sino
all'albero della vita, dove, antitesi a questa Chiesa gloriosa di
Cristo, apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena,
trafitta dall'impero, travagliata dall'eresia, corrotta dal dono
di Costantino, smembrata da Maometto, e in ultimo meretrice fra le
braccia del re di Francia. Concetto stupendo, questo apparire
della vita terrena nell'ultimo del purgatorio, germogliata
dall'albero infausto del peccato di Adamo. Il terreno apparisce
quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in
realtà, ma in ricordanza. Siamo già alla soglia del
paradiso.
Così finisce questa processione
dantesca, una delle concezioni più grandiose del poema,
anzi in sè sola tutto un poema, dove ci vediamo sfilare
davanti tutt'i grandi personaggi della Chiesa celeste, immagine
anticipata del regno di Dio, un'apoteosi del cristianesimo, entro
di cui si rappresenta il più alto mistero liturgico, la
Commedia dell'anima.
Questa processione dove far molta impressione
in quei tempi delle processioni, de' misteri e delle allegorie,
quando gli angeli, le virtù e i vizi, e Cristo e Dio stesso
entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere
liturgico e simbolico, che qui scema in gran parte la bellezza
della poesia. Questo difetto nuoce soprattutto nella
rappresentazione della Chiesa terrena, dove l'aquila, la volpe, e
il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto
così magnifico, una storia così interessante.
Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando
il mantovano Sordello, sentendo Virgilio esser di Mantova, esce
dalla sua calma di leone:
O mantovano, io son Sordello.
della tua terra. - E l'un l'altro abbracciava.
E Dante pensa alla sua Firenze, dove
... ... l'un l'altro si rode
di quei che un muro e una fossa serra.
Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contrasto
impetuoso, eloquente, e n'esce una poesia tutta cose, dove si
riflettono i più diversi movimenti dell'animo, il dolore,
lo sdegno, la pietà, l'ironia, una calma tristezza.
Il Purgatorio è il dolce rifugio della
vecchiezza. Quando la vita si disabbella a' nostri sguardi, quando
le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degli
affetti domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere
dell'arte e del pensiero, il Purgatorio ci s'illumina di viva luce
e diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze,
una gran parte di noi. Fu il libro di Lamennais, di Balbo, di
Schlosser.
Viene il Paradiso. Altro concetto,
altra vita, altre forme.
Il paradiso e il regno dello spirito, venuto a
libertà, emancipato dalla carne o dal senso, perciò
il soprasensibile, o come dice Dante, il trasumanare, il di la
dall'umano. È quel regno della filosofia che Dante volea
realizzare in terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e
atto sono una cosa. Amore conduce lo spirito al supremo
intelletto, e il supremo intelletto è insieme supremo atto.
La triade è insieme unità. Quando l'uomo è
alzato dall'amore fino a Dio, hai la congiunzione dell'umano e del
divino, il sommo bene, il paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta,
è una forma della vita umana. Ci è nel nostro
spirito un di là, ciò che dicesi il sentimento
dell'infinito, la cui esistenza si rivela più chiaramente
alle nature elevate.
L'arte antica avea materializzato questo di
là, umanando il cielo, e la filosofia partendo dalle
più diverse direzioni era giunta a questa conclusione
pratica, che l'ideale della saggezza, e perciò della
felicità, è posto nella eguaglianza dell'animo,
ciò che dicevasi "apatia", affrancamento dalle passioni e
dalla carne: pagana tranquillità, che vedi nelle figure
quiete e serene e semplici dell'arte greca.
Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del limbo:
Sembianza avevan ne' trista ne' lieta...
Parlavan rado, con passi soavi
Virgilio n'è il tipo più puro, le cui impressioni
vanno di rado al di là di un sospiro, o di un movimento
tosto represso. Questa calma è la fisonomia del purgatorio,
il carattere più spiccato di quelle anime, dove
l'aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicure di
salirvi quandochessia. Ma già in quelle anime penetra un
elemento nuovo, l'estasi, il rapimento, la contemplazione; ci sta
Catone, ma irradiato di luce.
Col cristianesimo s'era restaurato nello
spirito questo inquieto di là, e divenne in breve molta
parte della vita, anzi la principale occupazione della vita. E si
sviluppò un'arte e una letteratura conforme. Chi vede gli
ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di
San Giovanni Laterano, o le facce estatiche de' santi consumate
dal fervore divino ha innanzi stampato il tipo di questo uomo
nuovo. Quel di là, il celeste, il divino, appare su quelle
facce, come appare nella Città di Dio di santo Agostino e
nella Dieta salutis di san Bonaventura. A questa immagine avea
composta la sua Gerusalemme celeste frate Giacomino da Verona nel
secolo decimoterzo.
Questo di là, intravveduto nelle estasi,
ne' sogni, nelle visioni nelle allegorie del purgatorio, eccolo
qui nella sua sostanza, è il paradiso. Il quale
intravveduto nella vita ha una forma, e può essere arte; ma
non si concepisce come, veduto ora nella sua purezza, come regno
dello spirito, possa avere una rappresentazione. Il paradiso
può essere un canto lirico, che contenga. non la
descrizione di cosa che è al di sopra della forma, ma la
vaga aspirazione dell'anima a "non so che divino", ed anche allora
l'obietto del desiderio, pur rimanendo "un incognito indistinto",
riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nell'Aspirazione
e nel Pellegrino di Schiller, e in questi bei versi del
Purgatorio, imitati dal Tasso:
Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze eterne.
Per rendere artistico il paradiso, Dante ha immaginato un paradiso
umano, accessibile al senso e all'immaginazione. In paradiso non
c'è canto, e non luce e non riso; ma essendo Dante
spettatore terreno del paradiso, lo vede sotto forme terrene:
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultade, e mani e piedi
attribuisce a Dio ed altro intende.
Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l'arte. Il
paradiso teologico è spirito, fuori del senso e
dell'immaginazione, e dell'intelletto; Dante gli dà
parvenza umana e lo rende sensibile ed intelligibile. Le anime
ridono, cantano, ragionano come uomini. Questo rende il paradiso
accessibile all'arte.
Siamo all'ultima dissoluzione della forma.
Corpulenta e materiale nell'Inferno, pittorica e fantastica nel
Purgatorio, qui è lirica e musicale, immediata parvenza
dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e cerchio
dello spirito, non esso spirito. Il purgatorio, come la terra,
riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l'hanno
immediatamente da Dio, sicchè le anime purganti, come gli
uomini, veggono il sole, e nel sole intravvedono Dio, offertosi
già alla fantasia popolare come emanazione di luce; ma i
beati intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui
senza mezzo:
lume che a lui veder ne condiziona.
Adunque il paradiso e la più spirituale manifestazione di
Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce,
di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt'i sentimenti non
altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che
contemplazione. Amore, beatitudine, contemplazione prendono anche
forma di luce; gli spiriti si scaldano ai raggi d'amore; la
beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel riso;
e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel
cospetto eterno:
Luce intellettual piena d'amore,
amor di vero ben pien di letizia,
letizia che trascende ogni dolzore.
Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce;
l'ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.
Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo
progresso, come l'inferno e il purgatorio. È una
progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una forma
sempre più sottile sino al suo compiuto sparire,
manifestazione ascendente di Dio che risponde a' diversi ordini o
gradi di virtù. Sali di stella in stella, come di
virtù in virtù, sino al cielo empireo, soggiorno di
Dio.
Ad esprimere queste gradazioni, unica forma
è la luce. Perciò non hai qui, come nell'inferno o
nel purgatorio, differenze qualitative, ma unicamente
quantitative, un più e un meno. Prima la luce non è
così viva che celi la faccia umana; più si sale e
più la luce occulta le forme come in un santuario. Come
è la luce, così è il riso di Beatrice, un
"crescendo" superiore ad ogni determinazione; la fantasia,
formando, non può seguire l'intelletto, che distingue. Bene
il poeta vi adopera l'estremo del suo ingegno, conscio della
grandezza e difficoltà dell'impresa:
L'acqua ch'io prendo giammai non si corse.
Minerva spira e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran l'Orse.
Dapprima caldo di questo mondo, sua fattura, allettato dalla
novità o dal maraviglioso de' fenomeni che gli si
affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine; poi quasi
stanco diviene arido e dà in sottigliezze; ma lo vedi
rilevarsi e poggiare più e più a inarrivabile
altezza, sereno, estatico: diresti che la difficoltà lo
alletti, la novità lo rinfranchi, l'infinito lo esalti.
Il paradiso propriamente detto è il
cielo empireo, immobile e che tutto move, centro dell'universo.
Ivi sono gli spiriti, ma secondo i gradi de' loro meriti e della
loro beatitudine appariscono ne' nove cieli che girano intorno
alla terra, la luna, Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove,
Saturno, le stelle fisse e il primo mobile. Ne' primi sette cieli,
che sono i sette pianeti, ti sta avanti tutta la vita terrena. La
luna è una specie di avanti-paradiso. I negligenti aprono
l'inferno e il purgatorio, e aprono anche il paradiso. E i
negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontà
propria, ma per violenza altrui. Il loro merito non è
pieno, perchè mancò loro quella forza di
volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe' Muzio severo
alla sua mano. Perciò in loro rimane ancora un vestigio
della terra: la faccia umana. In Mercurio, Venere, il sole, Marte,
Giove hai le glorie della vita attiva, i legislatori, gli amanti,
i dottori, i martiri, i giusti. In Saturno hai la corona e la
perfezione della vita, i contemplanti. Percorsi i diversi gradi di
virtù, comincia il tripudio, o come dice il poeta, il
trionfo della beatitudine. Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di
Cristo, nel primo mobile il trionfo degli angioli, e nell'empireo
la visione di Dio, la congiunzione dell'umano e del divino, dove
s'acqueta il desiderio. Questa storia del paradiso secondo i
diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne' diversi gradi di
luce.
La luce, veste e fascia delle anime, è
la sola superstite di tutte le forme terrene, e non è vera
forma, ma semplice parvenza e illusione dell'occhio mortale. Essa
è la stessa beatitudine, la letizia delle anime, che prende
quell'aspetto agli occhi di Dante:
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia d'intorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Queste parvenze dell'interna letizia si atteggiano, si
determinano, si configurano ne' più diversi modi, e non
sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che paion
fuori in quelle forme. E n'esce la natura del paradiso, luce
diversamente atteggiata e configurata, che ha aspetto or di
aquila, or di croci, or di cerchio, or di costellazione, ora di
scala, con viste nuove e maravigliose. Queste combinazioni di luce
non sono altro che gruppi d'anime, che esprimono i loro pensieri
co' loro moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili le parvenze
di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura
terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più
delicati, e ne fa lo specchio della natura celeste. Così
rientra la terra in paradiso, non come sostanziale, ma come
immagine, parvenza delle parvenze celesti. È la terra che
rende amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento
della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni
ingegnose e simboliche. La terra ha pure la sua parte di paradiso,
ed è in quei fenomeni che inebbriano, innalzano l'animo e
lo dispongono alla tenerezza e all'amore: trovi qui tutto che in
terra è di più etereo, di più sfumato, di
più soave. E come l'impressione estetica nasce appunto da
questo profondo sentimento della natura terrestre, avviene che il
lettore ricorda il paragone, senza quasi più sapere a che
cosa si riferisca. Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del
Paradiso:
Come a raggio di sol che puro mèi
per fratta nube, già prato di fiori
vider coverti d'ombra gli occhi miei;
vid'io così più turbe di
splendori
fulgorati di su da' raggi ardenti,
senza veder principio di fulgori.
Sì come 'l Sol che si cela egli stessi
per troppa luce, quando il caldo ha rose
le temperanze de' vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa,
e così chiusa chiusa mi rispose...
Come l'augello, intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati,
la notte che le cose ci nasconde,
che per veder gli aspetti desiati
e per trovar lo cibo onde gli pasca,
in che i gravi labori gli sono grati,
previene 'l tempo in su l'aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur se l'alba nasca...
... come orologio che ne chiami
nell'ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perchè l'ami;
che l'una parte e l'altra tira ed urge,
"tin tin" sonando con si dolce nota,
che il ben disposto spirto d'amor turge...
... e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
Qual lodoletta che in aere si spazia,
prima cantando e poi tace contenta
dell'ultima dolcezza che la sazia...
Pareva a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sè l'eterna margherita
ne ricevette, com'acqua recepe
raggio di luce, rimanendo unita.
Siccome schiera d'api che s'infiora
una fiata, ed una si ritorna
là dove suo lavoro s'insapora...
E vidi lume in forma di riviera,
fulvido di fulgore, intra duo rive,
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d'ogni parte si mettean ne' fiori
quasi rubin che oro circoscrive.
Poi come inebriate dagli odori
riprofondavan sè nel miro gurge;
e s'una entrava, un'altra usciane fuori.
Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e di
evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto
ciò che in terra è più ridente e smagliante.
Siamo nell'empireo. La virtù visiva è stanca, ma si
raccende alle parole di Beatrice, sì che gli appare la
riviera di luce, e fortificata la vista in quella riviera, in quei
fiori inebbrianti, in quell'oro, in quei rubini, in quelle vive
faville, Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio
del loro tripudio. Ma in verità gli scanni de' beati sono
meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.
Ma la forma, come parvenza dello spirito,
è un press'a poco, un quasi, un come, "fioca e corta" al
concetto. Questa impotenza della forma produce un sublime
negativo, che Dante esprime con l'energia intellettuale di chi ha
vivo il sentimento dell'infinito:
... appressando sè al suo desire
nostro intelletto si profonda tanto
che la memoria retro non può ire.
... ogni minor natura
è corto recettacolo a quel bene,
che non ha fine e sè con sè
misura.
... nella giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com'occhio per lo mare, entro s'interna;
chè, benchè dalla proda veggia il
fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
egli è, ma 'l cela lui l'esser profondo.
La letizia che move le anime e "trascende ogni dolzore", non
è se non beatitudine. E rende beate le anime l'entusiasmo
dell'amore e la chiarezza intellettiva, o come dice Dante, "luce
intellettual piena d'amore". Esse hanno allegro il cuore e allegra
la mente. Nel cuore è perenne desiderio e perenne
appagamento. Nella mente la verità sta come "dipinta".
La luce è forma inadeguata della
beatitudine. Ti dà la parvenza, ma non il sentimento e non
il pensiero. Spuntano perciò due altre forme, il canto e la
visione intellettuale.
Quello che nel purgatorio è amicizia,
nel paradiso è amore, ardore di desiderio placato sempre
non saziato mai, infinito come lo spirito. Stato lirico e
musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La
medesimezza del sentimento spinto sino all'entusiasmo genera la
comunione delle anime; la persona non è l'individuo, ma il
gruppo, come è delle moltitudini nei grandi giorni della
vita pubblica. I gruppi qui non sono cori, che accompagnino e
compiano l'azione individuale, ma sono la stessa
individualità diffusa in tutte le anime, o se vogliamo
chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili e muti, di
Cristo, di Maria e d'Iddio. Ecco il coro di Maria:
Per entro 'l cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
quaggiù e più a sè l'anima
tira,
parrebbe nube che squarciata tuona,
comparata al suonar di quella lira,
onde si coronava il bel zaffiro,
del quale il ciel più chiaro
s'inzaffira.
- Io sono amore angelico che giro
l'alta letizia che spira dal ventre
che fu albergo del nostro desiro;
e girerommi, Donna del ciel, mentre
che seguirai tuo Figlio e farai dia
più la spera superna, perchè
lì entre -.
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti gli altri lumi
facèn sonar lo nome di Maria...
E come fantolin che inver' la mamma
tende le braccia, poi che 'l latte prese,
per l'animo che infin di fuor s'infiamma;
ciascun di quei candori in su si stese
con la sua cima sì che l'alto affetto
ch'egli aveano a Maria, mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
"Regina coeli" cantando sì dolce
che mai da me non si partì il diletto.
Quella facella è l'angiolo Gabriele, e il coro è
angelico. Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito,
hanno vita comune, se non che negli angioli la virtù
è innocenza e la letizia è irriflessa: plenitudine
volante tra' beati e Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni
bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e
allegro della prima età, tripudianti e folleggianti con una
espansione che il poeta chiama "arte" e "gioco":
Qual è quell'angel che con tanto gioco
guarda negli occhi la nostra Regina,
innamorato sì che par di fuoco?
L'amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta
"sodalizio". I loro moti sono danze, le loro voci sono canti; ma,
in quell'accordo di voci, in quel turbine di movimenti la
personalità scompare: è una musica in cui i diversi
suoni si confondono e si perdono in una sola melode. Non ci
è differenza di aspetto, ma per dir così una faccia
sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del
Paradiso, ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta,
contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici, non ha
avuta tanta libertà e attività di spirito da creare
la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e
gli affetti del celeste sodalizio. E dove potea giungere, lo
mostra la preghiera di san Bernardo, che è un vero inno
alla Vergine, e l'inno a san Francesco d'Assisi e l'inno a san
Domenico, nella loro semplicità anche un po' rozza tutto
cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni.
I canti delle anime sono vuoti di contenuto,
voci e non parole, musica e non poesia: è tutto una sola
onda di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco:
- Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo -
cominciò - gloria - tutto il paradiso,
tal che m'inebbriava il dolce canto.
Ciò ch'io vedeva, mi sembrava un riso
dell'universo, perochè mia ebbrezza
entrava per l'udire e per lo viso.
Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!
Oh vita intera d'amore e di pace!
Oh senza brama sicura ricchezza!
È l'armonia universale, l'inno della creazione. La luce,
vincendo la corporale impenetrabilità e frammischiando i
suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle
anime, l'individualità sparita nel mare dell'essere. Il
poeta, signore anzi tiranno della lingua, forma ardite parole a
significare questa medesimezza amorosa degli esseri nell'essere:
"inciela", "imparadisa", "india", "intuassi", "immei", "inlei",
"s'infutura", "s'illuia", delle quali voci alcune dopo lungo
obblio rivivono. La redenzione dell'anima è la sua
progressiva emancipazione dall'egoismo della coscienza; la sua
individualità non le basta; si sente incompiuta, parziale,
disarmonica, e sospira alla idealità nella vita universale.
Questo è il carattere della vita in paradiso. Non solo
sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la
personalità. Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.
Questo vanire delle forme e della stessa
personalità riduce il paradiso a una corda sola, a lungo
andare monotona, se non vi penetrasse la terra e con la terra
altre forme ed altre passioni. La terra penetra come contrapposto
a questa vita d'amore e di pace. È vita d'odio e di vana
scienza, e provoca le collere e i sarcasmi de' celesti.
Il contrapposto è colto in alcuni
momenti altamente poetici. Accolto nel sole gloriosamente allato a
Beatrice, si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure
terrestri:
O insensata cura de' mortali
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l'ali!
Chi dietro a iura, e chi ad aforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi in rubare, e chi in civil negozio;
chi nel diletto della carne involto
s'affaticava e chi si dava all'ozio.
Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall'alto
delle stelle fisse guarda alla terra:
... e vidi questo globo
tal ch'io sorrisi del suo vil sembiante.
La terra "che ci fa tanto feroci", veduta dal cielo, gli pare
un'aiuola. Il concetto, abbellito e allargato dal Tasso, ha qui
una severità di esecuzione quasi ieratica. Il poeta si
sente già cittadino del cielo, e guarda così di
passata e con appena un sorriso a tanta viltà di sembiante
volgendone immediatamente l'occhio e mirando in Beatrice:
L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendomi io con gli eterni gemelli,
tutta m'apparve da' colli alle foci:
poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.
Pure è quest'aiuola che desta nel seno de' beati
varietà di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove
corde. Accanto all'inno spunta la satira in tutte le sue
gradazioni, il frizzo, la caricatura, l'ironia, il sarcasmo. Qual
frizzo, che l'allusione di Carlo Martello, così pungente
nella sua generalità:
e fanno re di tal, che è da sermone!
Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta nel
maneggio della caricatura e dell'ironia, frustando i predicatori
plebei di quel tempo:
Or si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia 'l cappuccio e più non si
richiede.
Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi e della
gloria dell'antica Roma con fiere minacce ai guelfi, nemici
dell'aquila imperiale. Papa e monaci sono i più assaliti.
San Tommaso, dette le lodi di san Francesco, riprende i
francescani, e san Benedetto i benedettini, e san Pietro il papa.
Tutt'i re di quel tempo mandano sangue sotto il flagello di Dante.
Non si può attendere da' santi alcuna indulgenza alle umane
fralezze. La satira è acerba; la sua musa è
l'indignazione, e la sua forma ordinaria è l'invettiva. Le
forme comiche sono uccise in sul nascere e si sciolgono nel
sarcasmo. Il sarcasmo non è qui nè un pensiero,
nè un tratto di spirito, ma pittura viva del vizio, con
parole anche grossolane, come "cloaca", che mettano in vista il
laido e il disgustoso. Il vizio è colto non in una forma
generale e declamatoria, ma là, in quegli uomini, in quel
tempo, sotto quelli aspetti, con pienezza di particolari ed
esattezza di colorito. Capilavori di questo genere sono la pittura
de' benedettini e l'invettiva di san Pietro.
Questo contrapposto tra il cielo e la terra non
è altro se non l'antitesi che è in terra tra i buoni
e i cattivi, e per scendere al particolare, tra l'età
dell'oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è
il presente condannato dal passato, è il passato messo in
risalto dal suo contrasto con la corruzione presente. Ci erano i
benedettini, ma ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e
Clemente, ma ci era stato san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e Pio
e Calisto e Urbano. Gli uomini di quell'aurea età
più illustri per santità e per scienza sono qui
raccolti, come in un pantheon; è il mondo eroico cristiano,
succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo, e
di cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso.
Questa età dell'oro collocata nel
passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi ha
ispirato a Dante una delle scene più interessanti, ed
è la pittura dell'antica e della nuova Firenze, fatta dal
Cacciaguida, uno de' suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi
insieme: vedi l'ideale dell'età dell'oro e della domestica
felicità con tanta semplicità di costumi, con tanta
modestia di vita, e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le
sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena di
famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli medesimo il
suo piedistallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo
esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare
la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L'esilio non
è rappresentato ne' patimenti materiali: Dio riserba dolori
più acuti ai magnanimi, lasciare ogni cosa diletta
più caramente e domandare il pane all'insolente
pietà degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive
qui immortale ne' versi divenuti proverbiali del più misero
e del più grande. Ma è un dolore virile: tosto
rileva la fronte, e dall'alto del suo ingegno e della sua missione
poetica vede a' suoi piedi tutt'i potenti della terra.
La letizia delle anime non è solo amore,
ma visione intellettuale. La luce, il riso non sono altro che
manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce e
detta "intellettuale". Beatrice spiega così il suo riso a
Dante:
S'io ti fiameggio nel caldo d'amore
di là dal modo che in terra si vede,
sì che degli occhi tuoi vinco il valore,
non ti maravigliar; chè ciò
procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
La beatitudine e la contemplazione, e la contemplazione è
appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le
anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono
e descrivono la verità, non come idea, ma come natura
vivente. In terra ci è l'apparenza del vero, e
perciò diversità di sistemi filosofici, come spiega
Beatrice:
Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l'amor dell'apparenza e 'l suo pensiero.
In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto
eterno; in Dio è legato con amore in un volume ciò
che per l'universo si squaderna; vedere Dio è vedere la
verità. E non è visione solo di cose, ma di pensieri
e di desidèri. I beati vedono il pensiero di Dante senza
ch'egli lo esprima.
La scienza com'era concepita a' tempi di Dante,
sposata alla teologia, avea una forma concreta e individuale,
materia contemplabile e altamente poetica. Un Dio personale, che,
immobile motore, produce amando l'idea esemplare dell'universo,
pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una
parte più e meno in un'altra sino alle ultime contingenze;
gli astri, dove si affacciano i beati, influenti sulle umane sorti
e governati da intelligenze da cui spira il moto e le virtù
de' loro giri; il cielo empireo, centro di tutt'i cerchi cosmici e
soggiorno della pura luce; l'universo, splendore della
divinità, dove appare squadernato ciò che in Dio
è un volume; l'ordine e l'accordo di tutto il creato dalle
infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la
caduta dell'uomo per il primo peccato e il suo riscatto per
l'incarnazione e la passione del Verbo; la verità rivelata,
oscura all'intelletto, visibile al cuore, avvalorata dalla fede,
confortata dalla speranza, infiammata dalla carità: in
questa scienza della creazione il pensiero è talmente
concretato e incorporato, che il poeta può contemplarlo
come cosa vivente, come natura. Perciò la forma scientifica
è qui meno un ragionamento che una descrizione, come di
cosa che si vede e non si dimostra. Il perfetto vedere de' beati
è privilegio di Dante; nessuno gli sta del pari nella forza
e chiarezza della visione. Spirito dommatico, credente e poetico,
predica dal paradiso la verità assoluta, e non la pensa, la
scolpisce. Diresti che pensi con l'immaginazione, aguzzata dalla
grandezza e verità dello spettacolo. Nascono ardite
metafore e maravigliose comparazioni. L'accordo della prescienza
col libero arbitrio è una delle concezioni più
difficili e astruse; ma qui non è una concezione, è
una visione, uno spettacolo: così potente è questa
immaginazione dantesca:
La contingenza che fuor del quaderno
della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
se non come dal viso in che si specchia
nave che per corrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti si apparecchia.
Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dall'alto del
paradiso, da cui dechina via via fino alle ultime conseguenze:
forma contemplativa e dommatica, anzi che discorsiva e
dimostrativa, e propria della poesia, presentando
all'immaginazione vasti orizzonti in una sola comprensione:
Guardando nel suo Figlio con l'Amore
che l'uno e l'altro eternalmente spira
lo primo e ineffabile valore
quanto per mente e per occhio si gira
con tant'ordine fe' ch'esser non puote
senza gustar di lui chi ciò rimira.
Questa forma poetica della scienza, questa visione intellettuale,
abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a molta perfezione.
È un certo modo di situare l'oggetto e metterlo in vista,
sì che l'occhio dell'immaginazione lo comprenda tutto. Se
ci è cosa che ripugna a questa forma, è lo
scolasticismo con la barbarie delle sue formole e le sue
astrazioni; ma l'immaginazione vi fa penetrare l'aria e la luce:
miracolo prodotto dalle due grandi potenze della mente dantesca,
la virtù sintetica e la virtù formativa. Veggasi la
stupenda descrizione che fa Beatrice del moto degli astri, di poco
inferiore alla storia del processo creativo, il capolavoro di
questo genere. Qui la scienza della creazione è abbracciata
in un solo girar d'occhio, con sì stretta e rapida
concatenazione che tutto il creato ti sta innanzi come una sola
idea semplice. Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi, come
l'unità della luce nella sua diversità, e
l'imperfezione della natura, che non ti dà mai realizzato
l'ideale. I concetti qui non sono astrazioni, ma forze vive, gli
attori della creazione, la luce, il cielo, la natura, e non hai un
ragionamento, hai una storia animata, con una chiarezza e vigore
di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone
poetiche:
Ciò che non muore e ciò che
può morire
non è se non splendor di quell'idea,
che partorisce amando il nostro Sire.
Chè quella viva luce che si mea
dal suo Lucente, che non si disuna
da lui, nè dall'amor che in lor
s'intrea;
per sua bontate il suo raggiare aduna
quasi specchiato in nuove sussistenze,
eternalmente rimanendosi una.
Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di energia
in dir cosa difficilissima. Nè minor potenza d'intuizione
trovi nella fine, quando, paragonando l'ideale alla cera del
suggello, aggiunge:
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando all'artista,
che ha l'abito dell'arte e man che trema.
Ed anche la mano di Dante trema, che fra tante bellezze ci
è non poca scoria. Non di rado vedi non il poeta, ma il
dottore che esce dall'università di Parigi, pieno il capo
di tesi e di sillogismi. Molte quistioni sono troppo speciali,
altre sono infarcite di barbarie scolastica: definizioni,
distinzioni, citazioni, argomentazioni. E questo è non per
difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio. A lui pare
che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne
vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in
piccola barca. - Tornate indietro - egli dice - che il mio libro e
per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; - e
sono i filosofi e i dottori suoi pari. Perciò il Paradiso e
poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia,
che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e
discente.
La visione intellettuale è la
beatitudine. L'esposizione della scienza riesce in cantici e inni,
le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del
cielo:
Finito questo, l'alta corte santa
risuona per le spere un Dio lodiamo,
nella melode che lassù si canta.
Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
risono per lo cielo, e la mia donna
dicea con gli altri: "Santo, santo, santo !"
Così è sciolto questo mistero dell'anima. Adombrato
ne' simboli e allegorie del Purgatorio, qui il mistero è
svelato, è la Divina Commedia dell'anima, il suo indiarsi
nell'eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio, si che sale
come rivo,
se di alto monte scende giuso ad imo,
è l'amore, è Beatrice, che all'alto volo gli veste
le piume Beatrice è in sè il compendio del paradiso,
lo specchio dove quello si riflette ne' suoi mutamenti. Puoi
dipingerla quando prega Virgilio o quando "regalmente proterva"
rimprovera l'amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che
è indarno opera di pennello. La stessa parola non è
possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile,
se non ne' suoi effetti su Dante e su' celesti. Ecco uno de'
più bei luoghi:
Quivi la donna mia vid'io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fe' il pianeta;
e se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec'io, che pur di mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come in peschiera che è tranquilla e
pura
traggono i pesci a ciò che vien di
fuori,
per modo che lo stimin lor pastura;
sì vid'io ben più di mille
splendori
trarsi ver' noi, ed in ciascun s'udia:
Ecco chi crescerà li nostri amori. -
Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l'anima. L'amore
è purificato: nulla resta più di sensuale. Dante che
nel purgatorio sentì il tremore dell'antica fiamma, qui ode
Beatrice con un sentimento assai vicino alla riverenza. Quando
ella si allontana, ei non manda un lamento: ogni parte terrestre
è in lui arsa e consumata. Le sue parole sono affettuose;
ma è affetto di riverente gratitudine, siccome, nel piccolo
cenno che gli fa Beatrice, l'amore dell'uomo come ombra si dilegua
nell'amore di Dio, ella lo ama in Dio:
Così orai, e quella si lontana,
come parea, sorrise e riguardommi:
poi si tornò alla eterna fontana.
Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre a vedere
il simbolo del trionfo di Cristo senza lo "scotto" del pentimento,
così non può ne' "gemelli" o stelle fisse
contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua fede.
Allora san Pietro lo incorona poeta, e poeta vuol dire banditore
della verità. San Pietro gli dice:
e non asconder quel ch'io non ascondo.
Così la Commedia ha la sua consacrazione e la sua missione.
È la verità bandita dal cielo, della quale Dante si
fa l'apostolo e il profeta: è il "poema sacro". Con quella
stessa coscienza della sua grandezza che si fe' "sesto fra cotanto
senno", qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l'interprete,
congiungendo in sè le due corone, il savio e il santo,
l'antica e la nuova civiltà, il filosofo e il teologo.
Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato, Dante si sente
oramai vicino a Dio. Avea già contemplata la
divinità nella sua umanità, il Dio-uomo. Il trionfo
di Cristo, la festa dell'Incarnazione, sembra reminiscenza di
funzioni ecclesiastiche, co' suoi principali attori, Cristo, la
Vergine, Gabriello. Cristo e la Vergine sono come nel santuario,
invisibili; la festa è tutta fuori di loro e intorno a
loro. Succede il trionfo degli angioli, e poi nell'empireo il
trionfo di Dio.
L'empireo è la città di Dio, il
convento de' beati, il proprio e vero paradiso. Beatrice raggia
sì, che il poeta si concede vinto più che tragedo o
comico superato dal suo tema, e desiste dal seguir
più dietro a sua bellezza poetando,
come all'ultimo suo ciascun artista.
Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile
lo Creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa, le cui
bianche foglie si distendono per l'infinito spazio, e sono gli
scanni de' beati. San Bernardo spiega e descrive il maraviglioso
giardino. Il punto che più splende è là dove
sono
gli occhi da Dio diletti e venerati,
dove è la Vergine e gli angioli. Quel punto è la
pacifica orifiamma del paradiso, la bandiera della pace. Il
giardino, la rosa, l'orifiamma sono immagini graziose, ma
inadeguate. Queste metafore non valgono la stupenda terzina, dove
san Bernardo è rappresentato in forma umana e
intelligibile:
Diffuso era per gli occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio,
quale a tenero padre si conviene.
Il paradiso, appunto perchè paradiso, non puoi determinarlo
troppo e descriverlo, senza impiccolirlo. La sua forma adeguata
è il sentimento, l'eterno tripudio: ciò che è
ben colto in quella plenitudine volante di angeli, che diffondono
un po' di vita tra quella calma. Il vero significato lirico del
paradiso è nell'inno di Dante a Beatrice e nell'inno di san
Bernardo alla Vergine, ne' quali è il paradiso guardato
dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo. I beati stessi
diventano interessanti, quando tra quella luce vedi spuntare
visi a carità suadi,
ed atti ornati di tutte onestadi
o quando "chiudon le mani" implorando la Vergine.
Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in
lui l'universo, e poi la Trinità, e poi l'Incarnazione,
congiunzione dell'umano e del divino, in cui si acqueta il
desiderio, il "disiro" e il "velle",
sì come ruota ch'egualmente e mossa.
Dante vede, ma è visione, di cui hai le parole e non la
forma; ci è l'intelletto, non ci è più
l'immaginazione, divenuta un semplice lume, un barlume. La forma
sparisce; la visione cessa quasi tutta; sopravvive il sentimento:
... quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di sibilla.
L'immaginazione morendo manda in questi bei versi l'ultimo raggio.
All'"alta fantasia" manca la possa; e insieme con la fantasia
muore la poesia.
Così finisce la storia dell'anima. Di
forma in forma, di apparenza in apparenza, ritrova e riconosce se
stessa in Dio, pura intelligenza, puro amore e puro atto. Ed
è in questa concordia che l'anima acqueta il suo desiderio,
trova la pace. Nell'Inferno signoreggia la materia anarchica: le
sue forme ricevono d'ogni sorte differenze, spiccate, distinte,
corpulente e personali. Nel Purgatorio la materia non è
più la sostanza, ma un momento: lo spirito acquista
coscienza di sua forza, e contrastando e soffrendo conquista la
sua libertà: la realtà vi è in immaginazione,
rimembranza del passato da cui si sprigiona, aspirazione
all'avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e
rappresentazioni dell'immaginativa anzi che obbietti reali:
pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e canti. Nel Paradiso
lo spirito già libero di grado in grado s'india; le
differenze qualitative si risolvono, e tutte le forme svaporano
nella semplicità della luce, nella incolorata melodia
musicale, nel puro pensiero. Quel regno della pace che tutti
cercavano, quel regno di Dio, quel regno della filosofia, quel "di
là", tormento e amore di tanti spiriti, è qui
realizzato. Il concetto della nuova civiltà, di cui avevi
qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui compreso in
una immensa unità, che rinchiude nel suo seno tutto lo
scibile, tutta la coltura e tutta la storia. E chi costruisce
così vasta mole, ci mette la serietà dell'artista,
del poeta del filosofo e del cristiano. Consapevole della sua
elevatezza morale e della sua potenza intellettuale, gli stanno
innanzi, acuti stimoli all'opera, la patria, la posterità,
l'adempimento di quella sacra missione che Dio affida all'ingegno,
acuti stimoli, ne' quali sono purificati altri motivi meno nobili,
l'amor della parte, la vendetta, le passioni dell'esule: ci
è là dentro nella sua sincerità tutto l'uomo,
ci è quel d'Adamo e ci è quel di Dio. A poco a poco
quel mondo della fantasia diviene parte del suo essere, il suo
compagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro della
memoria, l'eco de' suoi dolori, delle sue speranze e delle sue
maledizioni. Nato a immagine del mondo che gli era intorno,
simbolico, mistico e scolastico, quel mondo si trasforma e si
colora e s'impolpa della sua sostanza, e diviene il suo figlio, il
suo ritratto. La sua mente sdegna la superficie, guarda
nell'intimo midollo, e la sua fantasia ripugna all'astratto, a
tutto dà forma. Onde nasce quella intuizione chiara e
profonda che è il carattere del suo genio. E non solo
l'oggetto gli si presenta con la sua forma, ma con le sue
impressioni e i suoi sentimenti. E n'esce una forma, che è
insieme immagine e sentimento, immagine calda e viva, sotto alla
quale vedi il colore del sangue, il movere della passione. E con
l'immagine tutto è detto, e non vi s'indugia e non la
sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e sdegna gli
accessorii. A conseguire l'effetto spesso gli basta una sola
parola comprensiva, che ti offre un gruppo d'immagini e di
sentimenti, e spesso, mentre la parola dipinge, non fosse altro,
con la sua giacitura, l'armonia del verso ne esprime il
sentimento. Tutto è succo, tutto è cose, cose intere
nella loro vivente unità, non decomposte dalla riflessione
e dall'analisi. Per dirla con Dante, il suo mondo è un
volume non squadernato. È un mondo pensoso, ritirato in
sè, poco comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero
in travaglio. In quelle profondità scavano i secoli, e vi
trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive
involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo, che
sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi
letteratura moderna.
VIII
IL CANZONIERE
Dante morì nel 1321. La sua Commedia riempie di sè
tutto il secolo. I contemporanei la chiamarono "divina", quasi la
parola sacra, il libro dell'altra vita, o come diceano, il "libro
dell'anima". Un tal Trombetta, quattrocentista, la mette fra le
opere sacre e i libri dell'anima "da studiarsi in quaresima", come
le Vite de' santi Padri la Vita di san Girolamo. Il popolo cantava
i suoi versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua
fantasia. I dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle
favole, quantunque alcuni austeri, come Cecco d'Ascoli, quel velo
non ce l'avrebbero voluto. E Fazio degli Uberti crede di far cosa
più degna, rimovendo ogni velo ed esponendoci arida scienza
nel suo Dittamondo, "dicta mundi".
L'impressione non fu puramente letteraria.
Ammiravano la forma squisita, ma tenevano il libro più che
poesia. Vedevano là entro il libro della vita o della
verità, e ben presto fu spiegato e comentato come la Bibbia
e come Aristotile, accolto con la stessa serietà con la
quale era stato concepito.
Oscurissimo in molti particolari, e per le
allusioni politiche e storiche e pel senso allegorico, il libro
nel suo insieme è così chiaro e semplice, che si
abbraccia tutto di un solo sguardo. La scienza della vita o della
creazione è colta ne' suoi tratti essenziali e
rappresentata con perfetta chiarezza e coesione. L'armonia
intellettuale diviene cosa viva nell'architettura, così
coerente e significativa nelle grandi linee, così accurata
ne' minini particolari. L'immaginazione anche più pigra
concepisce di un tratto inferno, purgatorio e paradiso. Il
pensiero nuovo, mistico e spiritualista, lunga elaborazione dei
secoli, compariva qui perfettamente armonizzato e pieno di vita.
In questo mondo intellettuale e dommatico, così ben
rispondente alla coscienza universale, si sviluppava la storia o
il mistero dell'anima nella più grande varietà delle
forme, sì che vi si rifletteva tutta la vita morale nel suo
senso più serio e più elevato. Il sentimento della
famiglia, la viva impressione della natura, l'amor della patria,
un certo senso d'ordine, di unità, di pace interiore che fa
contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici e
privati, la virtù dell'indignazione, il disprezzo di ogni
viltà e volgarità, la virilità e la fierezza
della tempra, l'aspirazione ad un ordine di cose ideale e
superiore, il vivere in ispirito e in contemplazione, come
staccato dalla terra, il sentimento della giustizia e del dovere,
la professione della verità, piaccia o non piaccia, con
l'occhio volto a' posteri, e quella fede congiunta con tanto
amore, quell'accento di convinzione, quella coscienza che ha il
poeta della sua personalità, della sua grandezza e della
sua missione; tutto questo appartiene a ciò che di
più nobile ed elevato e nella natura umana. Anche quel non
so che scabro e rozzo e quasi selvaggio, ch'è nella
superficie, rendeva l'immagine di quella eroica e ancor barbara
giovinezza del mondo moderno.
Ma l'impressione prodotta dalla Commedia
rimaneva circoscritta nell'Italia centrale. La scuola del nuovo
stile non avea fatto ancora sentire la sua azione nelle rimanenti
parti d'Italia, dove la lingua dominante era sempre il latino
scolastico ed ecclesiastico. Malgrado l'esempio di Dante, non era
ancora stabilito che in rima si potesse scrivere d'altro che di
cose d'amore. E in questa sentenza era anche Cino da Pistoia, solo
superstite di quella scuola immortale, dalla quale era uscita la
Commedia. Compariva sulla scena la nuova generazione.
Lo studio de' classici, la scoperta di nuovi
capilavori, una maggior pulitezza nella superficie della vita, la
fine delle lotte politiche col trionfo de' guelfi, la maggior
diffusione della coltura sono i tratti caratteristici di questa
nuova situazione. La superficie si fa più levigata, il
gusto più corretto, sorge la coscienza puramente
letteraria, il culto della forma per se stessa. Gli scrittori non
pensarono più a render le loro idee in quella forma
più viva e rapida che si offrisse loro innanzi; ma
cercarono la bellezza e l'eleganza della forma. Dimesticatisi con
Livio, Cicerone, Virgilio parve loro barbaro il latino di Dante;
ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano state
l'ammirazione della forte generazione scomparsa, e non poterono
tollerare il latino degli scolastici e della Bibbia. Intenti
più alla forma che al contenuto, poco loro importava la
materia, pur che lo stile ritraesse della classica eleganza.
Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi
furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Nel Petrarca si manifesta energicamente questo
carattere della nuova generazione. Fece lunghi e faticosi viaggi
per iscoprire le opere di Varrone, le storie di Plinio, la seconda
deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e due sue
orazioni. Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua liberalità
la prima versione di Omero e di parecchi scritti di Platone.
Scopritore instancabile di codici emendava, postillava, copiava:
copiò tutto Terenzio. In questa intima familiarità
co' più grandi scrittori dell'antichità
greco-latina, tutto quel tempo di poi, che fu detto "il medio
evo", gli apparve una lunga barbarie; di Dante stesso ebbe assai
poca stima; gli stranieri chiamava "barbari"; gl'italiani chiamava
"latin sangue gentile"; voleva una ristaurazione
dell'antichità, e che non fosse ancora fattibile, ne
accagiona la corruttela de' costumi. Era Petracco e si fece
chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e li
chiamò Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono lui e lo
chiamarono Cicerone. Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a
Cicerone, a Seneca, a Quintiliano, a Tito Livio, ad Orazio, a
Virgilio, ad Omero, co' quali viveva in ispirito, e poco innanzi
di morire, scrisse una lettera alla posterità, alla quale
raccomanda la sua memoria.
Così appariva l'aurora del Rinnovamento.
L'Italia volgeva le spalle al medio evo, e dopo tante
vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava popolo romano e
latino. Questo proclamava Cola da Rienzo dall'alto del
Campidoglio. Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti; gli
scolastici cessero il campo agli eruditi e a' letterati; la
teologia fu segregata dagli studi di coltura generale e divenne
scienza de' chierici; la filosofia conquistò il primato in
tutto lo scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le
leggende, i miti, i misteri, separati dal tronco in cui vivevano,
divennero forme puramente letterarie e d'imitazione; tutto quel
mondo teologico, mistico nel concetto, scolastico e allegorico
nelle forme, fu tenuto barbarie da uomini che erano già in
grado di gustare Virgilio e Omero.
Questa nuova Italia, che ripiglia le sue
tradizioni e si sente romana e latina e si pone nella sua
personalità di rincontro agli altri popoli, tutti stranieri
e barbari, ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone. Qui
non ci è più il guelfo o il ghibellino, non il
romano o il fiorentino: c'è l'Italia che si sente ancora
regina delle nazioni; ci è l'italiano che parla con
l'orgoglio di una razza superiore, e ricorda Mario come se fosse
vivuto l'altro ieri e quella storia fosse la sua storia; ci
è la viva impressione di quel mondo classico sul giovine
poeta, che ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell'Italia
potente e gloriosa, l'Italia di Mario. L'orgoglio nazionale e
l'odio de' barbari è il motivo della canzone, lo spirito
che vi alita per entro. Vi compariscono già tutte le
qualità di un grande artista. La chiarezza e lo splendore
dello stile, la fusione delle tinte, l'arte de' chiaroscuri, la
perfetta levigatezza e armonia della dizione, la sobrietà
nel ragionamento, la misura ne' sentimenti, un dolce calore che
penetra dappertutto senza turbare l'equilibrio e la
serenità e l'eleganza della forma, fanno di questa canzone
uno de' lavori più finiti dell'arte. L'Italia ha avuto il
suo poeta; ora ha il suo artista.
In questa risurrezione dell'antica Italia
è naturale che la lingua latina fosse stimata non solo
lingua de' dotti, ma lingua nazionale, e che la storia di Roma
dovesse sembrare agl'italiani la loro propria storia. Da queste
opinioni uscì l'Africa, che al Petrarca dove parere la vera
Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in quella lotta
ultima, nella quale Roma, vincendo Cartagine, si apriva la via
alla dominazione universale. Questo poema rispondeva così
bene alla coscienza pubblica, che Petrarca fu incoronato principe
de' poeti, ed ebbe tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto
mai. Nuovo Virgilio, volle emulare anche a Cicerone, accettando
volentieri legazioni che gli dessero occasione di recitare
pubbliche orazioni. Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole,
sempre in latino: lavori molto apprezzati da' contemporanei, ma
tosto dimenticati, quando cresciuta la coltura e raffinato il
gusto, parve il suo latino così barbaro, come barbaro era
parso a lui il latino di Dante e de' Mussati, de' Lovati e de'
Bonati tenuti a' tempi loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.
Ma la lingua latina potea così poco
rivivere come l'Italia latina. Il latino scolastico avea pure
alcuna vita, perchè lo scrittore sforzava la lingua e
l'ammodernava e ci mettea se stesso. Ma il latino classico non
potea produrre che un puro lavoro d'imitazione. Lo scrittore pieno
di riverenza verso l'alto modello non pensa ad appropriarselo e
trasformarlo, ma ad avvicinarvisi possibilmente. Tutta la sua
attività è volta alla frase classica, che gli sta
innanzi nella sua generalità, spoglia di tutte le idee
accessorie che suscitava ne' contemporanei, e dove è il
più fino e il più intimo dello stile. Perciò
schiva il particolare e il proprio, corre volentieri appresso le
perifrasi e le circonlocuzioni, e arido nelle immagini, povero di
colori, scarso di movimenti interni, e dice non quanto o come gli
sgorga dal di dentro, ma ciò che può rendersi in
quella forma e secondo quel modello: difetti visibili nell'Africa.
Così si formo una coscienza puramente letteraria, lo studio
della forma in se stessa con tutti gli artifici e i lenocini della
rettorica: ciò che fu detto "eleganza", "forma scelta e
nobile"; maniera di scrivere artificiosa, che pare anche nelle sue
canzoni politiche, come quella a Cola di Rienzo, opera più
di letterato che di poeta, e perciò pregiata molto,
finchè in Italia durò questa coscienza artificiale.
In verità il Petrarca era tutt'altro che
romano o latino, come pur voleva parere: potè latinizzare
il suo nome, ma non la sua anima. Lo scrittore latino è
tutto al di fuori, ne' fatti e nelle cose, è tutto vita
attiva e virile, diresti non abbia il tempo di piegarsi in
sè e interrogarsi. Al Petrarca sta male l'abito di
Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani e
ridevano. Non sentivano l'uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano.
L'uomo c'era, ma più simile all'anacoreta e al santo che a
Livio e a Cicerone, più inclinato alle fantasie e alle
estasi che all'azione. Natura contemplativa e solitaria, la vita
esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua vera vita
fu tutta al di dentro di sè: il solitario di Valchiusa fu
il poeta di se stesso. Dante alzo Beatrice nell'universo, del
quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto
l'universo in Laura, e fece di lei e di sè il suo mondo.
Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.
Pare un regresso: pure è un progresso.
Questo mondo è più piccolo, è appena un
frammento della vasta sintesi dantesca, ma è un frammento
divenuto una compiuta e ricca totalità, un mondo pieno,
concreto, sviluppato, analizzato, ricerco ne' più intimi
recessi. Beatrice sviluppata dal simbolo e dalla scolastica, qui
è Laura nella sua chiarezza e personalità di donna;
l'amore, scioltosi dalle universe cose entro le quali giaceva
inviluppato, qui non è concetto nè simbolo, ma
sentimento; e l'amante, che occupa sempre la scena, ti dà
la storia della sua anima, instancabile esploratore di se stesso.
In questo lavoro analitico-psicologico la realtà pare
sull'orizzonte chiara e schietta, sgombra di tutte le nebbie, tra
le quali era stata ravvolta. Usciamo infine da' miti, da' simboli,
dalle astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in piena luce,
nel tempio dell'umana coscienza. Nessuna cosa oramai si pone di
mezzo tra l'uomo e noi. La sfinge è scoperta: l'uomo
è trovato.
Gli è vero che la teoria rimane la
stessa. La donna è "scala al Fattore", l'amore è il
"principio delle universe cose". Ma tutto questo è
accessorio, è il convenuto; la sostanza del libro è
la vicenda assidua de' fenomeni più delicati del cuore
umano. Cresciuto in Avignone fra le tradizioni provenzali e le
corti d'amore, quando Francesco da Barberino avea già
pubblicato i Documenti d'amore e i Reggimenti delle donne,
raccolta di tutte le leggi e costumanze galanti, egli attinge
nello stesso arsenale e spaccia la stessa rettorica, allegorie,
concetti, sottigliezze, spiritose galanterie. Soprattutto tiene
molto a questo, che tutto il mondo sappia non essere, il suo,
amore sensuale, ma amicizia spirituale, fonte di virtù.
Dante chiama infamia l'accusa di avere espresso il suo amore
troppo sensualmente, e a cessare da sè l'infamia
trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni
filosofiche. Ma le continue proteste e dichiarazioni del Petrarca
non convincono nessuno; perchè e il corpo di Laura, non
come la bella faccia della sapienza, ma come corpo, che gli scalda
l'immaginazione. Laura è modesta, casta, gentile, ornata di
ogni virtù; ma sono qualità astratte, non è
qui la sua poesia. Ciò che move l'amante e ispira il poeta,
è Laura da' capei biondi, dal collo di latte, dalle guance
infocate, da' sereni occhi, dal dolce viso, la quale egli situa e
atteggia in mille maniere e ne cava sempre un nuovo ritratto, che
spicca in mezzo ad un bel paesaggio, il verde del campo, la
pioggia de' fiori, l'acqua che mormora, fatta la natura eco di
Laura.
Questo sentimento delle belle forme, della
bella donna e della bella natura, puro di ogni turbamento,
è la musa di Petrarca. Diresti Laura un modello, del quale
il pittore sia innamorato, non come uomo, ma come pittore, intento
meno a possederlo che a rappresentarlo. E Laura è poco
più che un modello, una bella forma serena, posta lì
per essere contemplata e dipinta, creatura pittorica, non
interamente poetica: non è la tale donna nel tale e tale
stato dell'animo, ma è la Donna, non velo o simbolo di
qualcos'altro, ma la donna come bella. Non ci è ancora
l'individuo: ci è il genere. In quella quietudine
dell'aspetto, in quella serenità della forma ci è
l'ideale femminile ancora divino, sopra le passioni, fuori degli
avvenimenti, non tocco da miseria terrena, che il poeta crederebbe
profanare calandolo in terra e facendolo creatura umana. La chiama
una dea, ed è una dea; non è ancor donna. Sta ancora
sul piedistallo di statua; non è scesa in mezzo agli
uomini, non si è umanata. Coloro i quali vogliono leggere
nell'anima di questo essere muto e senza espansione, e cercarvi il
suo segreto, fanno il contrario di quello che volle il poeta,
cercano la donna dov'egli vedeva la dea. Certo a' nostri occhi
Laura dee parere una forma monotona, e anche talora insipida; ma
chi si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverà in
Laura la creatura più reale che il medio evo poteva
produrre.
La vita di Laura diviene umana appunto allora
che è morta ed è fatta creatura celeste. Qui l'amore
non può aver niente più di sensuale: è
l'amore di una morta, viva in cielo, e può liberamente
spandersi. Non vedi più i "capei d'oro" e le "rosee dita" e
il "bel piede", dal quale l'"erbetta verde" e i "fiori di color
mille" desiderano d'esser tocchi. Pure questa Laura non dipinta e
più bella, e soprattutto più viva, perchè
"meno altera", meno dea e più donna, quando apparisce
all'amante, e siede sulla sponda del suo letto, e gli asciuga gli
occhi con quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli
angioli si volge indietro, come aspetti qualcuno; e nella suprema
beatitudine desidera il bel corpo e l'amante ed entra con lui in
dolci colloqui. Così il mistero di Laura si scioglie
nell'altro mondo, com'è nella Commedia: tutte le
contraddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del reale,
tolta di mezzo la carne, divenuta creatura libera
dell'immaginazione, Laura par fuori con chiarezza, acquista un
carattere, dove ci è la santa, e ci è soprattutto la
donna. Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono, Beatrice e
Laura cominciano a vivere, appunto quando muoiono.
E il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In
vita di Laura, sorge l'opposizione tra il senso e la ragione, tra
la carne e lo spirito. Questo concetto fondamentale del medio evo,
se nel Petrarca è purificato della sua forma simbolica e
scolastica, rimane pur sempre il suo "credo" cristiano e
filosofico. L'opposizione era sciolta teoricamente con l'amicizia
platonica o spirituale, legame d'anime, puro di ogni
concupiscenza; dalla quale astrazione non potea uscire che una
lirica dottrinale e sbiadita, senza sangue, dove non trovi
nè l'amante, nè l'amata, nè l'amore. Vi sono
momenti nella vita del Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici,
perchè egli si possa dare a questo spasso. Allora riproduce
la scuola de' trovatori con tutt'i suoi difetti, in una forma
eletta e vezzosa, che li pallia. E vi trovi il convenzionale, il
manierato, le regole e le sottigliezze del codice d'amore,
soprattutto il concettoso, dotato com'era di uno spirito acuto.
Non coglie se stesso nel momento dell'impressione; l'impressione
è passata, e se la mette dinanzi e la spiega, come critico
o filosofo: hai un di là dell'impressione, l'impressione
generalizzata e spiegata, come è nella più parte de'
suoi sonetti in vita di Laura; antitesi, freddure, sottigliezze,
ragionamenti in forma pretensiosa e civettuola. Allora tutto
è chiaro; tutto e spiegato con Platone e col codice
d'amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla
donna, sull'amore, pomposamente abbigliato. Trovi un maraviglioso
artefice di verso, un ingegno colto, ornato, acuto, elegante: non
trovi ancora il poeta e non l'artista. Ma nel momento delle
impressioni, tra le sue irrequietezze e agitazioni, circuito di
fantasmi, par fuori la sua personalità: trovi il poeta e
l'artista. Quello che sente è in opposizione con quello che
crede. Crede che la carne è peccato; che il suo amore
è spirituale; che Laura gli mostra la via "che al ciel
conduce"; che il corpo è un velo dello spirito. E se in
questo "credo" trovasse ogni suo appagamento, avremmo Dante e
Beatrice. Ma non vi si appaga: l'educazione classica e l'istinto
dell'artista si ribella contro queste astrazioni di uno
spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo, il
senso del reale e del concreto, così sviluppato ne' pagani.
Non vi si appaga l'artista, e non vi si appaga l'uomo;
perchè si sente inquieto, non ben sicuro di quello che
crede e vuol far credere, e sente il morso del senso e tutte le
ansietà di un amore di donna. Scoppia fuori la
contraddizione, o il mistero. Il suo amore non e così
possente che lo metta in istato di ribellione verso le sue
credenze, nè la sua fede è così possente che
uccida la sensualità del suo amore. Nasce un fluttuar
continuo di riflessioni contraddittorie, un sì ed un no, un
voglio e non voglio:
Io medesmo non so quel che mi voglio.
Nasce il mistero dell'amore, che ti offre le più diverse
apparenze, senza che il poeta giunga ad averne chiara coscienza:
Se amor non è, che dunque è quel
che i' sento?
a s'egli è amor, per Dio che cosa e
quale?
Manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa
contraddizione, e più vi si dimena, più vi
s'impiglia. Il canzoniere in vita di Laura è la storia
delle sue contraddizioni. Ora gli pare che contraddizione non ci
sia, e unisce in pace provvisoria cielo e terra, ragione e senso,
gli occhi che mostrano la via del cielo e gli occhi alfin dolci
tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.
Sono i suoi momenti di sanità e di forza, di entusiasmo
più artistico che amoroso, dal quale escono le vivaci
descrizioni del bel corpo e le tre "canzoni sorelle". Ora si sente
inquieto, e si lascia ir dietro alla corrente delle impressioni e
delle immagini, e vede il meglio e al peggior s'appiglia, come
conchiude nella canzone
I' vo pensando e nel pensier m'assale,
dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione e il
senso, la ragione che parla e il senso che morde. E ci sono pure
momenti che la ragione piglia il di sopra, e si volge a Dio, e si
confessa, e fa proposito di svellere dal suo cuore il "falso dolce
fuggitivo",
che il mondo traditor può dare altrui.
Non c'è dunque nel Canzoniere una storia, un andar graduato
da un punto all'altro; ma è un vagar continuo tra le
più contrarie impressioni, secondo le occasioni e lo stato
dell'animo in questo o quel momento della vita. Non ci è
storia, perchè nell'anima non ci è una forte
volontà, ne uno scopo ben chiaro; perciò è
tutta in balìa d'impressioni momentanee, tirata in opposte
direzioni. Di che nasce un difetto d'equilibrio, la discordia o la
scissura interiore. Il reale comparisce la prima volta nell'arte,
condannato, maledetto, chiamato il "falso dolce fuggitivo": pur
desiderato, di un desiderio vago che si appaga solo in
immaginazione, debolmente contraddetto e debolmente secondato.
Minore è la speranza, più vivo è il
desiderio, il quale, mancatagli la realtà, si appaga in
immaginazione. Nasce una vita di sogni, di estasi, di fantasie, di
quello che l'animo desidera, non con la speranza di conseguirlo,
anzi con la coscienza di non conseguirlo mai. Il poeta sogna, e sa
che sogna, e gli piace sognare,
e più certezza averne fora il peggio.
Perchè se per averne più certezza, rompe il corso
dell'immaginazione, sopraggiunge il disinganno. Così vive
in fantasia, fabbricandosi godimenti interrotti spesso dalla
riflessione con un "ahi lasso!", in un flutto perenne d'illusioni
e disillusioni. Il disaccordo interno è appunto in questo,
nella immaginazione che costruisce e nella riflessione che
distrugge: malattia dello spirito, nata appunto dall'esagerazione
dello spiritualismo. Lo spirito non è sano, perchè a
forza di segregarsi dalla natura e dal senso si trova al fine di
rincontro e ribelle l'immaginazione, e l'immaginazione non
è sana, perchè ha di rincontro a sè e ribelle
la riflessione, che in un attimo le dissipa i suoi castelli
incantati. Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta,
e non ha forza di sottoporsi la volontà, per il contrasto
che trova nell'immaginazione. L'immaginazione rimane pura
immaginazione, e non ha forza sulla volontà, non lavora a
realizzare i suoi dolci fantasmi per il contrasto che trova nella
riflessione. Se una delle due forze potesse soggiogar l'altra,
nascerebbe l'equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza
alcun risultato, non si giunge mai a un virile "io voglio", ci
è al di dentro il sì e il no in eterna tenzone:
perciò la vita non esce mai al di fuori in un risultato, in
un'azione, rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di
dentro:
... ... In questi pensier,
lasso, tienmi dì e notte il signor
nostro, Amore.
Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile e in una
inutile riflessione. È punito là dove ha peccato. Ha
voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba
di se stesso ed è egli medesimo il suo avoltoio. Stanco,
svogliato, disgustato di una realtà a cui si sente
estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle al mondo e si
riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e
rimane solo con se stesso a fantasticare, "solo e pensoso",
incalzato dal suo interno avoltoio:
Solo e pensoso i più deserti campi
vo misurando a passi tardi e lenti.
Da questa situazione sono uscite le due più profonde
canzoni del medio evo, l'una poco nota, l'altra assai popolare,
amendue poco studiate, l'una che incomincia:
Di pensiero in pensier, di monte in monte;
l'altra che incomincia:
Chiare, fresche e dolci acque.
Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della sua
malattia, di questa attività interna inutile e oziosa, una
specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da
sè e attingere il reale, avremmo la tragedia dell'anima,
come Dante ne concepì la commedia (una tragedia, nella
quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua
condanna) tra' dolori della contraddizione vedremmo il misticismo
morire, spuntare l'alba della realtà, il senso o il corpo,
proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli
tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza
virilità. Gli manca la forza che abbondò a Dante
d'idealizzarsi nell'universo; e rimanendo chiuso nella sua
individualità, gli manca pure ogni forza di resistenza:
sì che la tragedia si risolve in una flebile elegia. Il
poeta si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in lamenti.
Acuto più che profondo, non guarda negli abissi del suo
male e si contenta descriverne i fenomeni condensati in immagini e
in sentenze rimaste proverbiali. Tenero e impressionabile, capace
più di emozioni che di passioni, non dimora lungamente nel
suo dolore, che vien presto l'alleviamento, lo scoppio delle
lagrime e de' lamenti. Artista più che poeta, e disposto a
consolarsi facilmente, quando l'immaginazione abbia virtù
di offrirgli un simulacro di quella realtà di cui sente la
privazione:
in tante parti e sì bella la veggio,
che se l'error durasse, altro non chieggio.
La famiglia, la patria, la natura, l'amore sono
per il poeta, com'era Dante, cose reali, che riempiono la vita e
le danno uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente materia di
rappresentazione: l'immagine per lui vale la cosa. Ma come ci
è insieme in lui la coscienza che è l'immagine e non
la cosa, la sua soddisfazione non è intera, ci è in
fondo un sentimento della propria impotenza, ci e questo: - Non
potendo avere la realtà, mi appago del suo simulacro. -
Onde nasce un sentimento elegiaco "dolce-amaro", la malinconia,
sentimento di tutte le anime tenere, che non reggono lungamente
allo strazio e non osano guardare in viso il loro male, e si
creano amabili fantasmi e dolci illusioni. Manca al suo strazio
l'elevata coscienza della sua natura e la profondità del
sentimento. Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo,
cercando scampo nella benefica immaginazione. La fisonomia di
questo stato del suo spirito è scolpita nella canzone:
Chiare, fresche e dolci acque,
cielo fosco e funebre che a poco a poco si rasserena ne'
più cari diletti dell'immaginazione, insino a che da ultimo
divien luce di paradiso:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Il poeta è così attirato in questo mondo
fabbricatogli dall'immaginazione, che quando si riscuote, domanda:
Qui come venn'io, o quando?
Il suo obblio, il suo sogno era stato così tenace,
così simile alla realtà, che gli parea essere in
cielo, non là dov'era. Questa dolce malinconia è la
verità della sua ispirazione, è il suo genio. Quando
si sforza di uscirne, spunta spesso il retore: le sue collere, le
sue ammirazioni non sono senza una esagerazione e ricercatezza,
che rivelano lo sforzo. Ma quando vi s'immerge e vi si annega, la
sua forma acquista il carattere della verità congiunta con
la grandezza, è un modello di semplicità e
naturalezza.
Gli è che natura, negandogli le grandi
convinzioni e le grandi passioni e lo sguardo profondo di Dante,
ne aveva fatto un artista finito. L'immagine appaga in lui non
solo l'artista, ma tutto l'uomo. Senza patria, senza famiglia,
senza un centro sociale in mezzo a cui viva altro che letterario,
ritirato nella solitudine dello studio e nell'intimo commercio
degli antichi, la verità e la serietà della sua vita
e tutta in queste espansioni estetiche, come la vita del santo e
nelle sue estasi e contemplazioni. Dante è sbandito da
Firenze, ma la sua anima è sempre colà. Il Petrarca
è costretto a dimostrare la sua italianità:
Non è questo 'l terren ch'io toccai
pria?
A Dante non fa bisogno di rettorica. Si sente italiano e ne ha
tutte le passioni, e ne senti il fremito e il tumulto nella sua
poesia. Ciò che al contrario ti colpisce nel mondo
personale e solitario del Petrarca è la privazione della
realtà, e un desiderio di essa scemo di forza, che si
appaga ne' docili sogni dell'immaginazione. Tutto converge
nell'immaginazione; tutto gli si offre come un sensibile: il
pensiero e il sentimento sono in lui contemplazione estetica,
bella forma. Ciò che l'interessa non è entusiasmo
intellettuale, nè sentimento morale o patriottico, ma la
contemplazione per se stessa, in quanto è bella, un
sentimento puramente estetico. Laura piange; egli dice: - Quanto
son belle quelle lacrime! - Laura muore; egli dice:
Morte bella parrea nel suo bel viso.
Fantastica sulla sua morte. Ed ecco Laura che prega sulla sua
fossa,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
La bellezza per Dante è apparenza simbolica, la bella
faccia della sapienza: dietro a quella ci sta la vita nella sua
serietà, vita intellettuale e morale. Qui la bellezza,
emancipata dal simbolo si pone per se stessa, sostanziale, libera,
indipendente, quale si sia il suo contenuto, sia pure
indifferente, o frivolo o repugnante. Il contenuto, già
così astratto e scientifico, anzi scolastico, qui pare per
la prima volta essenzialmente come bellezza schietta,
realtà artistica. Al Petrarca non basta che l'immagine sia
viva, come bastava a Dante; vuole che sia bella. Ciò che
move il suo cervello a sviluppare e formare l'immagine, non
è l'idea, come storia o filosofia o etica, ma è il
piacere estetico, che in lui s'ingenera della sua contemplazione.
Questo sentimento della bella forma è
così in lui connaturato, che penetra ne' minimi particolari
dell'elocuzione, della lingua e del verso. Dante anche nei
più minuti particolari di esecuzione guarda il di dentro, e
non lo perde mai di vista, perchè è il di dentro che
l'appassiona; il Petrarca rimane volentieri al di fuori, e non
resta che non l'abbia condotto all'ultima perfezion tecnica. Nelle
immagini, ne' paragoni, nelle idee non cerca novità e
originalità, anzi attinge volentieri ne' classici e ne'
trovatori, intento non a cercare o trovare, ma a dir meglio
ciò che è stato detto da altri. L'obbiettivo della
sua poesia non è la cosa, ma l'immagine, il modo di
rappresentarla. E reca a tanta finezza l'espressione che la
lingua, l'elocuzione, il verso finora in uno stato di continua e
progressiva formazione, acquistano una forma fissa e definitiva,
divenuta il modello de' secoli posteriori. La lingua poetica
è anche oggi quale il Petrarca ce la lasciò,
nè alcuno gli è entrato innanzi negli artifici del
verso e dell'elocuzione. Quel tipo di una lingua illustre che
Dante vagheggiava nella prosa, il Petrarca lo ha realizzato nella
poesia, dalla quale è sbandito il rozzo, il disarmonico, il
volgare, il grottesco e il gotico, elementi che pur compariscono
nella Commedia. È una forma bella non solo per rispetto
all'idea, ma per se stessa, aulica, aristocratica, elegante,
melodiosa. La parola vale non solo come segno, ma come parola. Il
verso non è solo armonia, o rispondenza con quel di dentro,
ma melodia, elemento musicale in se stesso.
Ma questa bella forma non è un puro
artificio tecnico o meccanico, una vuota sonorità, anzi
vien fuori da una immaginazione appassionata e innamorata, che ha
il suo riposo, il suo ultimo fine in se stessa. È una
immaginazione chiusa in sè, non trascendente, che di rado
si alza a fantasia o a sentimento, anzi rifugge dal fantasma, e
tende spesso a produrre immagini finite, ben contornate, chiare e
fisse. E se vi si appagasse, sarebbe poesia assolutamente pagana e
plastica. Ma il grande artista ne' momenti anche più
geniali della produzione sente come un vuoto, qualche cosa che gli
manchi, e non è soddisfatto, ed è malinconico. Che
gli manca?
Gli manca, com'è detto, il possesso e il
godimento e la serietà e la forza della vita reale. Come
artista si sente incompiuto; come immaginazione si sente isolato:
vivere in immaginazione gli piace; pur sente che là non
è la vita, e vi trova sollievo, non appagamento. Questo
sentimento del vuoto che penetra ne' più cari diletti
dell'immaginazione, e li tronca bruscamente, questa immaginazione
che, appunto perchè si sente immaginazione e non
realtà, produce le sue creature con la lacrima del
desiderio negli occhi, questo desiderio inestinguibile che pullula
dal seno stesso dell'arte e la chiarisce ombra e simulacro, e non
cosa viva, sono il fondo originale e moderno della poesia
petrarchesca. L'immagine nasce trista, perchè nasce con la
coscienza di essere immagine e non cosa, e lo strazio di questa
coscienza è raddolcito, perchè, non ci essendo la
cosa, ci è l'immagine, e così bella, così
attraente. Situazione piena di misteri, di contraddizioni e di
chiaroscuri, che genera quel non so che "dolce amaro", detto
malinconia, un sentirsi consumare e struggere dolcemente:
che dolcemente mi consuma e strugge.
La malinconia è la musa cristiana, e il male di Dante e de'
più eletti spiriti di quel tempo. Ma la malinconia del
Petrarca e della nuova generazione che gli stava attorno e
già di un'altra natura e accenna a tempi nuovi.
La malinconia di Dante ha radice nello spirito
stesso del medio evo, che poneva il fine della vita in un di
là della vita, nella congiunzione dell'umano e del divino,
che è la base della Divina Commedia. Le anime del
purgatorio sono malinconiche, perchè sospirano appresso ad
un bene, di cui hanno innanzi la sola immagine nelle pitture, ne'
simboli, nelle visioni estatiche. Quei godimenti dell'immaginativa
aguzzano più il desiderio. Non basta loro l'immagine:
vogliono la realtà; e questo volere, raddolcito alla
presenza del simulacro, genera la loro malinconia. Sono prive del
paradiso, ma lo veggono in immaginazione, e sperano di salirvi
quando che sia: perciò sono contente nel fuoco. La
condizione delle anime purganti è molto simile a quella
degli uomini nella vita terrena: è lo stesso tarlo che li
rode. La vita corporale è un velo, un simulacro di quel di
là che la fede e la scienza offriva chiarissimo
all'intelletto e all'immaginazione; perciò la vita
corporale era in se stessa il peccato o la carne, l'inferno, il
vasello o la prigione, dove l'anima vive malinconica: il giorno
della morte è per l'anima il giorno della vita e della
libertà. Non che profondarsi nel reale, e cercare di
assimilarselo, l'anima tende a separarsene, e vivere in ispirito o
in immaginazione, fabbricandosi un simulacro di quel di là
a cui spera di giungere: indi la tendenza all'ascetismo, alla
solitudine, all'estasi e al misticismo. Questa era la malinconia
di Caterina, quando dicea: "Muoio e non posso morire".
La stessa tendenza e la stessa malinconia
è nel Petrarca. Anch'egli cerca fabbricarsi ombre e
simulacri di Laura, anch'egli cerca l'obblio e il riposo ne' sogni
dell'immaginazione. Quando la santa e il poeta s'incontrarono in
Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto parenti di spirito.
Il poeta aveva la stessa inclinazione alla solitudine, alla
contemplazione, al raccoglimento, all'estasi, alla malinconia. E
se guardiamo all'apparenza, c'era in tutti e due le stesse
credenze e le stesse aspirazioni. Quel "muoio e non posso morire"
corrisponde bene a questo grido del poeta:
aprasi la prigione ov'io son chiuso,
e che 'l cammino a tal vista mi serra.
Ma qui fiutate la rettorica, e là avete l'espressione nuda
ed energica di un sentimento che investe tutta l'anima e consuma
la santa a trentatrè anni. Questa concentrazione ed
unità delle forze intorno ad un punto solo, in che è
la serietà della vita, mancò al Petrarca. Il suo
mondo è pur quello di Caterina e di Dante, mondato della
sua scorza scolastica e simbolica, ridotto in forma più
chiara e artistica, ma pur quello. Se non che questo mondo mistico
non lo possiede tutto e, sovrano e indiscusso nella mente non tira
a sè tutte le forze della vita. È in lui visibile
una dispersione e distrazione di forze, come di uomo tirato in qua
e in là da contrarie correnti, che vorrebbe pigliar la sua
via e non se ne sente la forza, e vaga in balìa dei flutti
scontento e riluttante. La bella unità di Dante, che vedeva
la vita nell'armonia dell'intelletto e dell'atto mediante l'amore,
è rotta. Qui ci è scompiglio interiore ribellione,
contraddizione:
e veggio il meglio ed al peggior m'appiglio.
La malinconia di Caterina è l'impazienza del morire, di
unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la dissonanza
fra il mondo divino e la selva oscura, la vita terrena, malinconia
piena di forza e di speranza, che si scioglie nell'azione. La
malinconia del Petrarca è la coscienza della sua interna
dissonanza e della sua impotenza a conciliarla, malinconia
insanabile, perchè il male non è nell'intelletto,
è nella volontà non certo ribelle, ma debole e
contraddittoria. Per palliare la dissonanza, esce in mezzo la
sofistica e la rettorica, con le più smaglianti frasi, con
le più sottili distinzioni: intervalli di tregua, che fanno
risorgere più acuta la coscienza del male. Gli è che
il medio evo è già nel suo petto in fermentazione,
penetrato di altri elementi, senza che egli abbia una distinta
coscienza di questo nuovo stato: accanto al cristiano ascetico ci
è l'erudito, il letterato, l'artista, il pagano, l'uomo di
mondo con tutti gl'istinti e le tendenze naturali, che vogliono
farsi valere. Si forma in lui un essere contraddittorio, come ne'
tempi di transizione, che non è ancora l'uomo nuovo, e non
è più l'uomo antico.
La malinconia del Petrarca non è dunque
più la malinconia del medio evo, di un mondo formato e
trascendente, che rende quaggiù malinconico lo spirito per
il suo legame a quel corpo, ma è la malinconia di un mondo
nuovo che, oscuro ancora alla coscienza, si sviluppa in seno al
medio evo e ci sta a disagio, e tende a sprigionarsene, e non ne
ha la forza per la resistenza che trova nell'intelletto.
L'intelletto appartiene al medio evo, alle cui dottrine ha tolta
la ruvida scorza, non la sostanza. Quel mondo nuovo, plastico,
pagano, reazione della natura contro il misticismo, è
ancora così debole, così poco lineato, che
l'intelletto può condannarlo e maledirlo, o assimilarselo
con una sofistica apparenza di conciliazione, e se cacciato dalla
vita reale riapparisce nell'immaginazione, può penetrare
anche colà e dirgli: - Tu non sei che un fantasma.
Se in vita di Laura questo sentimento nuovo che
sorge, più vicino all'uomo e alla natura, e dissimulato co'
più ingegnosi sofismi, quasi peccato che si cerchi di
palliare, dopo la morte di Laura purificato e trasformato si
manifesta con più energia. Beatrice morta diviene per Dante
la scienza, la voce di quel mondo di là, ov'era lo scopo
della vita. La storia di Beatrice è sviluppo di idee e di
dottrine nella lirica e nella Commedia. Il suo riso è luce
intellettuale, raggio dell'intelletto. La storia di Laura è
profondamente umana e reale, eco de' più delicati
sentimenti, delle più tenere emozioni, delle più
vivaci impressioni che colpiscono l'uomo in terra.
La poesia in vita di Laura è dominata
dall'intelletto, da una riflessione sofistica e rettorica, che
altera la purità de' sentimenti, e sottilizza le immagini,
e raffredda le impressioni, e con vani sforzi di conciliazione
mette più in vista quel sì e quel no che
battagliavano nella debole volontà del poeta. In morte di
Laura ogni battaglia cessa, e non ci è più vestigio
di sofismi e di rettorica, perchè la conciliazione cercata
finora così ingegnosamente e non conseguita e già
avvenuta per la natura delle cose. Laura morta diviene libera
creatura dell'immaginazione, non più persona autonoma e
resistente, ma docile fantasma. Il poeta ne fa la sua creatura,
può darle affetti e pensieri, quali gli piaccia: può
piangerla, vederla, parLare seco, vivere seco in ispirito. La
situazione è semplice e umana. È la donna amata,
sparita dalla terra, che ti apparisce in sogno e ti asciuga gli
occhi e ti prende per mano e ti parla: consolazioni malinconiche,
interrotte da una lacrima, quando ti svegli. Dante si asciuga
presto la lacrima, e si gitta fra le onde agitate dell'esistenza,
e si rifà un ideale e lo chiama Beatrice. A lui manca il
tempo di piangere, perchè tiene nel suo petto due secoli,
ed ha la forza di comprenderli e realizzarli. Il Petrarca giunge
qui, che è già stanco e disgustato dell'esistenza,
vi giunge con l'anima di solitario e di romito, e non ha altra
forza che di piangere:
Ed io son un di quei che il pianger giova.
Piange la fine delle illusioni, il vacuo dell'esistenza, il perire
di tutte le cose:
Veramente siam noi polvere ed ombra.
Così, dopo vane speranze e vani timori, quest'anima tenera
e impressionabile rinunzia alla lotta, e si abbandona, e si separa
da un mondo, dove invano erasi sforzata di penetrare, e si ritira
nella solitudine della sua immaginazione con Laura, chiamando
partecipi de' suoi lamenti l'usignolo, e il vago augelletto, e la
valle e il bosco e l'aura e l'onda. La scissura interna dà
luogo ad una calma elegiaca; il cuore stanco si riconcilia con
l'intelletto. Il passato, cagione di gioie e di affanni, gli pare
un sogno; la vita gli pare insipida; vivere è un breve
sonno; morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti; quando
gli occhi si chiudono, allora si aprono nell'eterno lume; il mondo
cristiano, non contraddetto mai dal suo intelletto, ora penetra
nel suo cuore, gli appare come un mondo nuovo, che dipinge con
accenti di maraviglia:
Come va il mondo! Or mi diletta e piace
quel che più mi dispiacque; or veggio e
sento
che per aver salute ebbi tormento
e breve guerra per eterna pace.
Ecco in che modo rappresenta questo nuovo stato nel suo inno alla
Vergine:
Da poi ch'i' nacqui in su la riva d'Arno,
cercando or questa, ora quell'altra parte,
non è stata mia vita altro che affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m'hanno
tutta ingombrata l'alma.
Vergine sacra ed alma,
non tardar: ch'i' son forse all'ultim'anno.
I dì miei più correnti che saetta
fra miserie e peccati
sonsen andati; e sol Morte ne aspetta.
Quest'uomo, che gitta sul passato lo sguardo del disinganno, che
chiama la sua vita miseria e peccato, che vede gli anni fuggiti
con tanta rapidità senza alcun frutto, ben si promette di
fare un altro canzoniere alla Vergine, ma e troppo tardi. - Omai
son stanco! - Grida. E se ne' Trionfi cerca ingrandire il suo
orizzonte e uscire da sè e contemplare l'umanità,
ciò che ne' suoi versi ha ancora qualche interesse è
il suo passato, che i vecchi hanno il privilegio di evocare,
rifarne qualche frammento; e soprattutto il sogno di Laura, tanto
imitato da poi.
Chi legge il Canzoniere, non può non
ricevere questa impressione, di un mondo astratto, rettorico,
sofistico, quale fu foggiato da' trovatori, dove appariscono
sentimenti più umani e reali e forme più chiare e
rilevate, o se vogliamo guardare più alto, di un mondo
mistico-scolastico, oltreumano, ammesso ancora dall'intelletto, ma
repulso dal cuore e condannato dall'immaginazione. Se guardiamo
alla forma, quel mondo ha perduto il suo aspetto
simbolico-dottrinale, che lo teneva al di là della vita e
dell'arte, e si è umanizzato, è divenuto immagine e
sentimento; il tempio gotico si è trasformato in un bel
tempietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luce uguale,
con perfetta simMetria, ispirato da Venere, dea della bellezza e
della grazia. Il grottesco, il gotico, gli angoli, le punte, le
ombre, l'indefinito, il dissonante, il prolisso, il superfluo, il
volgare, il difforme, tutto è cacciato via da questo tempio
dell'armonia, maraviglia d'arte, che chiude un secolo e ne
annunzia un altro. L'artista gode; l'uomo è scontento.
Perchè sotto a questa bella forma così levigata e
pulita vive un povero core d'uomo, nutrito di desidèri e
d'immagini, a cui lo tira la natura, da cui lo allontana la
ragione, senza la forza di uscire dalla contraddizione e senza la
ferma volontà di realizzarle. L'uomo è minore
dell'artista. L'artista non posa, che non abbia data l'ultima
finitezza al suo idolo; l'uomo non osa di guardarsi, e abbozza i
moti del proprio cuore, e salta nelle più opposte
direzioni, quasi tema di fermarsi troppo, di esser costretto a
volere e a risolversi. Perciò quella bella superficie riman
fredda; non ha al di sotto profondità di esplorazione, o
energia di volontà e di convinzione. La situazione poteva
esser tragica, rimane elegiaca; poesia di un'anima debole e
tenera, che si effonde malinconicamente in dolci lamenti, assai
contenta, quando possa vivere in immaginazione e fantasticare:
l'uomo svanisce nell'artista. Gli è che a quest'uomo
mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece
di Caterina una santa e di Dante un poeta. Quel mondo giace nel
suo cervello già decomposto e in fermentazione, mescolato
con altre divinità. Ciò che di più serio si
move nel suo spirito è il sentimento dell'arte congiunto
con l'amore dell'antichità e dell'erudizione. È in
abbozzo l'immagine anticipata de' secoli seguenti, di cui fu
l'idolo. L'arte si afferma come arte e prende possesso della vita.
Così il medio evo, quando appena
cominciava a svilupparsi negli altri popoli, presso di noi per una
precoce cultura si dissolveva prima che avesse potuto esplicarsi
in tutti gli aspetti dell'arte e produrre la forma drammatica.
Dante, che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne
fu la fine. Quel mondo così perfetto al di fuori è
al di dentro scisso e fiacco: è contemplazione d'artista,
non più fede e sentimento. Questa dissonanza tra una forma
così finita e armonica e un contenuto così debole e
contraddittorio ha la sua espressione ne' sentimenti che
prevalgono a' tempi di transizione, la malinconia, la tenerezza,
la delicatezza, il molle e voluttuoso fantasticare. E l'illustre
malato, abbandonato a' flutti di questo doppio mondo, di un mondo
che se ne va e di un mondo che se ne viene, e che con tanta
dolcezza e grazia rappresenta una contraddizione a scioglier la
quale gli manca la coscienza e la forza, è Francesco
Petrarca.
IX
IL DECAMERONE
Se ora apri il Decamerone, letta appena la prima novella, gli
è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca:
"Qui come venn'io o quando?". Non è una evoluzione, ma
è una catastrofe, o una rivoluzione, che da un dì
all'altro ti presenta il mondo mutato. Qui trovi il medio evo non
solo negato, ma canzonato.
Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato
di parecchi secoli, con questa differenza, che il Molière
te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l'intenzione di concitare
gli uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si
spassa con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita che di
farti ridere a spese del suo buon confessore e de' creduli frati e
della credula plebe. Perciò l'arma del Molière
è l'ironia sarcastica; l'arma del Boccaccio è
l'allegra caricatura. Per giungere a queste forme e a queste
intenzioni bisogna andare fino al Voltaire. Giovanni Boccaccio
sotto un certo aspetto fu il Voltaire del secolo decimoquarto.
Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono
ch'egli guastò e corruppe lo spirito italiano. Egli
medesimo in vecchiezza fu preso dal rimorso e finì
chierico, condannando il suo libro. Ma quel libro non era
possibile, se nello spirito italiano non fosse già entrato
il guasto, se "guasto" s'ha a dire. Ove le cose, di cui ride il
Boccaccio, fossero state venerabili, poniamo pure ch'egli avesse
potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione.
Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere a qualche cosa che
volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve dire a voce
alta ciò che tutti dicevano nel loro segreto, e fu
applauditissimo, con tanto successo che il buon Passavanti se ne
spaventò e vi oppose come antidoto lo Specchio di
penitenza. Il Boccaccio fu dunque la voce letteraria di un mondo,
quale era già confusamente avvertito nella coscienza. C'era
un segreto: egli lo indovinò, e tutti batterono le mani.
Questo fatto, in luogo d'essere maledetto, merita di essere
studiato.
Il carattere del medio evo è
la trascendenza, un dì là oltreumano ed
oltrenaturale, fuori della natura e dell'uomo, il genere e la
specie fuori dell'individuo, la materia e la forma fuori della
loro unità, l'intelletto fuori dell'anima, la perfezione e
la virtù fuori della vita, la legge fuori della coscienza,
lo spirito fuori del corpo, e lo scopo della vita fuori del mondo.
La base di questa teologia filosofica è l'esistenza degli
universali. Il mondo fu popolato di esseri o intelligenze, sulla
cui natura molto si disputò: sono esse idee divine? Sono
generi e specie reali? Sono specie intelligibili? Questo edificio
gemeva già sotto i colpi dei nominalisti, cioè di
quelli che negavano l'esistenza de' generi e delle specie, e li
chiamavano puri nomi, e dicevano esistere solo il singolo,
l'individuo. Sulla loro bandiera era scritto un motto divenuto
così popolare: "Non bisogna moltiplicare enti senza
necessità".
L'ascetismo era il frutto naturale di un mondo
teocratico spinto all'esagerazione. La vita quaggiù perdeva
la sua serietà e il suo valore. L'uomo dimorava con lo
spirito nell'altra vita. E la cima della perfezione fu posta
nell'estasi, nella preghiera e nella contemplazione.
Così nacque la letteratura
teocratica, così nacquero le leggende, i misteri, le
visioni, le allegorie: così nacque la Commedia, il poema
dell'altra vita. Il pensiero non aveva intimità, non calava
nell'uomo e nella natura, ma se ne teneva fuori, tutto intorno
alla natura e alle qualità degli enti, che erano le stesse
forze umane e naturali sciolte dall'individuo ed esistenti per
sè stesse. Le astrazioni dello spirito divennero esseri
viventi. E perchè le astrazioni, frutto dell'intelletto
inesauribile nelle sue distinzioni e suddistinzioni, sono
infinite, questi esseri moltiplicarono nell'acuto intelletto degli
scolastici. Come il mondo scolastico fu popolato di esseri
astratti, così il mondo poetico fu popolato di esseri
allegorici, l'uomo, l'anima, la donna, l'amore, le virtù, i
vizi. Non erano persone, come le pagane divinità: erano
semplici personificazioni.
Il sentimento, come frutto di inclinazioni
umane e naturali, era peccato. Le passioni erano scomunicate. La
poesia era madre di menzogne. Il teatro cibo del diavolo. La
novella e il romanzo generi di letteratura profani. Tutto questo
si chiamava il senso, e il luogo comune di questo mondo ascetico
era la lotta del senso con la ragione, da fra Guittone a Francesco
Petrarca. Il sentimento, reietto come senso e costretto ad esser
ragione, strappato dal cuore umano, divenne anch'esso un
universale, un fatto esteriore, ora simbolico, ora scolastico, o,
come si diceva, "platonico". Il padre de' sentimenti, l'amore,
divenne un fatto filosofico, forza unitiva, unità
dell'intelletto e dell'atto. Così nacque la lirica
platonica, dal Guinicelli al Petrarca. Il senso e l'immaginazione
si ribellavano contro questo platonismo. Ed è in questa
ribellione, ancorachè poco scrutata e poco accentuata, che
è la grandezza della lirica petrarchesca. Rappresentare i
moti del cuore e della immaginazione nella loro naturalezza e
intimità era vietato. E colui che più gustò
di questo frutto proibito, fu il Petrarca.
L'immaginazione era un istrumento
dell'intelletto, destinata a creare forme e simboli di concetti
astratti. Lo sa il povero Dante. Nessuno ebbe mai l'immaginazione
così torturata. E nacquero forme simboliche e
intellettuali, nella cui generalità scomparve l'individuo
con la sua personalità. Erano forme tipiche, generi e
specie, anzichè l'individuo. La regina delle forme, la
donna, non potè sottrarsi a questa invasione degli
universali, e rimase un ideale più divino che umano, bella
faccia, ma faccia della sapienza, più amata che amante, e
amata meno come donna che come scala alle cose celesti.
Così nacquero Beatrice e Laura.
Certo, a nessuno è lecito parlare con
poca riverenza di questo mondo dell'autorità che segna un
momento interessantissimo nella storia dello spirito umano, e che
ha pure il suo fondamento nella vita. L'illuminismo o il
misticismo, la visione estatica, è un portato naturale
dello spirito nella sua alienazione dal corpo, ciò che
dicevasi a "vivere in astrazione": momento di concitazione e di
entusiasmo, che l'uomo pare più che uomo e sembra in lui
parli un dio o un demonio. Perciò quell'entusiasmo fu detto
"furore divino" o "estro", qualità de' profeti e de' poeti,
che sono tutt'uno per Dante. Questa elevazione dell'anima in se
stessa, e al di sopra de' limiti ordinari della vita reale,
è il lato eroico dell'umanità, il privilegio della
giovinezza, la condizione di tutte le società primitive,
quando, cessati i bisogni materiali, vi si sveglia lo spirito.
Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i
piaceri, è degno di stima.
Ma è uno stato di tensione e di
disquilibrio che non può aver durata. L'arte, la coltura,
la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano e lo
trasformano.
L'arte, impossessandosi di questo mondo, lo
umanizza, lo accosta all'uomo e alla natura, lo mescola di altri
elementi, vi fa penetrare le passioni e i furori del senso. Non ci
hai ancora equilibrio; non ci hai qualche cosa che sia la vita
nella sua intimità, insieme paradiso e inferno; ma
già di rincontro al paradiso hai l'inferno, di rincontro a
Beatrice hai Francesca da Rimini, e di rincontro a Dante, simbolo
dell'umanità, hai Dante Alighieri, l'individuo in tutta la
sua personalità. Nel Canzoniere quel mondo si spoglia pure
le sue forme natie, teologiche, scolastiche, allegoriche, e prende
aspetto più umano e naturale.
E se fosse durato ancora un pezzo nella
coscienza, non è dubbio che l'arte vi si sarebbe
compiutamente sviluppata, e come la visione e la leggenda divenne
la Commedia, come Selvaggia divenne Beatrice, e Beatrice Laura,
dal seno de' misteri sarebbe uscito il dramma, e molti generi di
letteratura ancora iniziali e abbozzati già nella Commedia
sarebbero venuti a maturità, come l'inno e la satira. Ma
già quel mondo nel Canzoniere non ha più il calore
dell'entusiasmo e della fede, e in quelle forme così
eleganti lascia una parte della sua sostanza. Il sentimento
religioso, morale, politico vive fiaccamente nella coscienza del
poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall'arte.
Questo infiacchirsi della coscienza, questo
culto della bella forma fra tanta invasione di antichità
greco-romana sono i due fatti caratteristici della nuova
generazione, che succede all'età virile e credente e
appassionata di Dante. Quegli uomini non si appassionano
più per le dottrine, e non cercano il vero sotto i "versi
strani"; la "bella veste" li appaga. I loro studi non hanno
più a guida l'investigazione della verità, ma
l'erudizione: c'è il sapere per il sapere, come l'arte per
l'arte. I Fiori, I Giardini, I Conviti, I Tesori, dove la sapienza
sacra e profana era usata a scopo morale, danno luogo a raccolte
semplicemente storiche ed erudite. Ci sono ancora gli scolastici,
che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro querele si
sperdono nel plauso universale, che pone il Petrarca accanto a
Virgilio. E codesto Virgilio non è più il mago,
precursore del cristianesimo, e neppure il savio "che tutto
seppe", ma è il dolce ed elegante poeta. Dante s'incorona
da sè in paradiso poeta, profeta e apostolo: i
contemporanei incoronano nel Petrarca l'autore dell'Africa, della
nuova Eneide. La coltura e l'arte sono i nuovi idoli dello spirito
italiano.
Ma la coltura e l'arte non è il naturale
fiorire di un mondo interiore, anzi è accompagnata con
l'infiacchirsi della coscienza, e si pone già per se
stessa, come un fatto estrinseco che abbia il suo valore in
sè e sia a un tempo mezzo e scopo. È una coltura e
un'arte "formale", non riscaldata abbastanza dal contenuto. Ci
è lì dentro lo stesso mondo di Dante, ma c'è
come ragione in lotta col sentimento e con l'immaginazione; lotta
fiacca e inconcludente: scemato è il vigore della fede e
della volontà.
Gli è che quel mondo mistico, fuori
della natura e dell'uomo, appunto per la sua esagerazione, non
poteva avere alcun riscontro con la realtà. Ebbe la sua
età dell'oro, evocata da Dante con tanta malinconia; ma a
lungo andare dovea rimanere pura teoria, ammessa per tradizione e
per abitudine e contraddetta nella vita pratica. Più alto
era il modello, più visibile era la contraddizione e
più scandalosa. Nel secolo di Dante e di Caterina grandi
sono i lamenti e le invettive per la corruttela de' costumi,
specialmente ne' papi e ne' chierici, che con l'esempio
contraddicevano alle loro dottrine. Queste invettive divennero il
luogo comune della letteratura, e ne odi l'eco un po' rettorica
ne' versi eleganti del Petrarca contro l'avara Babilonia. Ma lo
spettacolo, divenuto abituale e generale, non moveva più
indignazione; e mentre Caterina ammoniva e il Petrarca
satireggiava, il mondo continuava sua via. Allato al misticismo
vedevi il cinismo. Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna di
Napoli.
La corruttela de' costumi non era negazione
ardita delle dottrine cristiane, anzi tutti si tenevano buoni
cristiani, ed erano zelantissimi contro gli eretici, e molti
facevano all'ultimo penitenza. Ma era qualche cosa di peggio: era
indifferenza, un oscurarsi del senso morale. Quel mondo viveva
ancora nell'intelletto, non creduto e non combattuto, ozioso,
senza alcuna efficacia su' sentimenti e sulle azioni.
In questa condizione degli spiriti, la coltura
dovea avere un effetto deleterio. La parte leggendaria,
fantastica, miracolosa di quel mondo dovea parere a quegl'ingegni
così svegliati cosa così poco seria, come le
prediche de' frati contraddette dalla vita. Sparisce quel candore
infantile di fede anche nelle cose più assurde, che tanto
ci alletta negli scrittori antecedenti. Le classi colte cominciano
a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso della sua
credulità. Esser credente era prima un titolo di gloria de'
più forti ingegni. Essere incredulo diviene ora indizio di
animo colto.
D'altra parte la maggiore coltura, generando un
più vivo sentimento della natura e dell'uomo, dovea
affrettare la rovina di un mondo così astratto e
così estrinseco alla vita. Il reale disconosciuto dovea
prender la sua rivincita; la natura troppo compressa dovea reagire
a sua volta. Così di rincontro a quello spiritualismo
esagerato sorgeva una reazione inevitabile, il naturalismo e il
realismo nella vita pratica.
Indi è che la coltura, in luogo di
calare in quel mondo e modificarlo e trasformarlo e riabilitarlo
nella coscienza, come fu più tardi in Germania, si
collocò addirittura fuori di esso, e lasciata la coscienza
vuota, impiegò la sua attività ne' piaceri
dell'erudizione e dell'arte.
Così quel mondo si trovò fuori
della coscienza, senza lotta intellettuale, anzi rimanendo ozioso
padrone dell'intelletto. Ci erano anche allora i liberi pensatori,
soprattutto ne' conventi, ma erano sforzi isolati, scuciti. Una
lotta più seria era stata iniziata da' ghibellini; ma la
rotta di Benevento e il trionfo durevole de' guelfi avea posto
fine alla discussione e all'esame. Gli uomini amavano meglio
scoprire e postillare manoscritti, e nelle cose di fede lasciar
dire il papa, e vivere a modo loro.
Questo fu il naturale effetto della vittoria
guelfa. Finirono le lotte e le discussioni; successe
l'indifferenza religiosa e politica, fra tanto fiorire di coltura,
di erudizione, di arte, di commerci e d'industrie. Ci erano tutti
i segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza
dell'antichità, un gusto più fine e un sentimento
artistico più sviluppato, una disposizione meno alla fede
che alla critica e all'investigazione, minor violenza di passioni,
maggiore eleganza di forme: l'idolo di questa società dovea
essere il Petrarca, nel quale riconosceva e incoronava se stessa.
Ma sotto a quel progresso v'era il germe di una incurabile
decadenza, l'infiacchimento della coscienza.
Il Canzoniere, posto tra quei due mondi, senza
esser nè l'uno, nè l'altro, così elegante al
di fuori, così fiacco e discorde al di dentro, è
l'ultima voce letteraria, rettorica ed elegiaca, di un mondo che
si oscurava nella coscienza. I contemporanei applaudivano alla
bella forma, e non cercavano e non si appassionavano pel
contenuto, come avveniva con la Commedia.
Quel mondo, divenuto letterario e artistico,
anche un po' rettorico e convenzionale, non rispondeva più
alle condizioni reali della vita italiana. Quel misticismo,
quell'estasi dello spirito, che si rivela un'ultima volta con
tanta malinconia e tenerezza nel Petrarca, era in aperta rottura
con le tendenze e le abitudini di una società colta,
erudita, artistica, dedita a' godimenti e alle cure materiali,
ancora nell'intelletto cristiana, non scettica e non materialista
ma nella vita già indifferente e incuriosa degli alti
problemi dell'umanità. Il linguaggio era lo stesso, ma
dietro alla parola non ci era più la cosa. Questo era il
segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito e non definito,
ma che pur si manifestava con tanta chiarezza nella vita pratica.
E colui che dovea svelare il segreto e dargli una voce letteraria,
non usciva già dalle scuole: usciva dal seno stesso di una
società che dovea così bene rappresentare.
Tutti i grandi scrittori erano usciti
dall'università di Bologna, Guinicelli, Cino, Cavalcanti,
Dante, Petrarca.
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni
dopo il Petrarca e otto prima della morte di Dante, "non
pienamente avendo imparato grammatica", come scrive Filippo
Villani, "volendo e costringendolo il padre per cagione di
guadagno, fu costretto ad attendere all'abbaco, e per la medesima
cagione a peregrinare". Il padre era un mercante fiorentino, e
alla mercatura indirizzò il figlio. Quando i giovani appena
cominciavano i loro studi nella università, il nostro
Giovanni faceva, come si direbbe oggi, il commesso viaggiatore in
servigio del padre, e il suo libro era la pratica e la conoscenza
del mondo. Girando di città in città, si mostrava
più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che
all'esercizio della mercatura, e più uomo di spirito e
d'immaginazione che uomo d'affari. Era chiamato "il poeta". Venuto
in Napoli a ventitrè anni, menava vita signorile, bazzicava
in corte, usava co' gentiluomini, spendeva largamente,
amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava. Dicesi che alla vista
della tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua
vocazione poetica. Fatto è che il buon padre, visto che non
se ne potea cavare un mercante, pensò farne un
giureconsulto, e lo mise a studiare i canoni, con gran
rincrescimento del giovane, che chiama sciupato il tempo messo a
fare il mercante e ad imparare i canoni. Finalmente, libero di
sè, si gittò agli studi letterari, e come portava il
tempo, si die' al latino e al greco, e si empì il capo di
mitologia e di storia greca e romana. Ei menava la vita, mezzo tra
gli studi e i piaceri, spesso viaggiando, non più a
mercatare, ma a cercar manoscritti. Narrasi che al 7 aprile del
1341 siAsi nella chiesa di San Lorenzo invaghito di Maria, figlia
naturale di re Roberto: certo, nella corte spensierata e
licenziosa della regina Giovanna non potè prender lezione
di buon costume, nè di amori platonici. E volse lo studio e
l'ingegno a rallegrare col suo spirito la corte e la sua non
ingrata Maria, che con nome poetico chiamò Fiammetta. Il
Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto era pieno
di Dante, e tra' suoi più appassionati era il nostro poeta.
Frutto della sua ammirazione fu la Vita di Dante, uno de' suoi
lavori giovanili. Ma egli poteva ammirarlo, non comprenderlo,
perchè lo spirito di Dante non era in lui. Formatosi fuori
della scuola, alieno da ogni seria coltura scolastica e ascetica,
profano anzichè mistico ne' sentimenti e nella vita, si
foggiò un Dante a sua immagine. Chi vuol conoscere le
opinioni e i sentimenti del nostro giovane, legga quel libro e vi
troverà già la stoffa, da cui uscì il
Decamerone. Nessuna originalità e profondità di
pensiero, nessuna sottigliezza di argomentazione; tutto vi
è dimostrato, anche le più comuni verità, ma
il fondamento della dimostrazione non è nell'intelletto,
è nella memoria; non hai innanzi un pensatore, nè un
disputatore, ma un erudito. Vuol mostrare l'ingratitudine di
Firenze verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, "il cui petto uno
umano tempio di divina sapienza fu reputato", e la Siria, la
Macedonia, la greca e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e
Smirne, e Pilos, e Chios, e Colofon, e Mantova, e Sulmona, e
Venosa, e Aquino. "Tu sola, " conchiude il poeta "quasi i
Cammilli, i Publicoli, i Torquati, Fabrizi, Catoni, Fabi, Scipioni
... in te fossero, ... avendoti lasciato il tuo antico cittadino
Claudiano cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta cura,
ma l'hai da te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi
potuto, del tuo soprannome". Volendo parlar di Dante, comincia ab
ovo, dalla prima fondazione di Firenze. Spesso lascia lì
Dante ed esce in lunghe digressioni, tra le quali è
notabile quella sulla natura della poesia. Secondo lui, il
linguaggio poetico fu trovato per porgere "sacrate lusinghe" alla
divinità, con parole lontane "da ogni altro plebeo e
pubblico stile di parlare" e "sotto legge di certi numeri
composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi
il rincrescimento e la noia". I poeti imitarono "dello Spirito
santo le vestigie", perchè come nella divina Scrittura, "la
quale teologia appelliamo, quando con figura di alcuna storia,
quando col senso di alcuna visione", si mostra l'"alto mistero
della Incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose
occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa ...
così i poeti, ... quando con finzioni di vari iddii, quando
con trasmutazioni di uomini in varie forme, quando con leggiadre
persuasioni ne dimostrano le cagioni delle cose e gli effetti
delle virtù e de' vizi". Poi spiega ciò che lo
Spirito santo volle mostrare nel rogo di Mosè, nella
visione di Nabuccodonosor, nelle lamentazioni di Geremia; e
ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno, Giove,
Giunone, Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio
e di Licaone in lupo, e nella bellezza degli Elisi e
nell'oscurità di Dite. E ribattendo quelli che chiamano i
poeti antichi "uomini insensati", inventori di favole "a niuna
verità convenienti", conclude che "la teologia e la poesia
quasi una cosa si posson dire", anzi che la "teologia niun'altra
cosa è che una poesia d'Iddio" e "poetica finzione".
L'erudito poeta non si arresta qui, e ci regala la favola di
Dafne, amata da Febo e in lauro convertita, per darci spiegazione
perchè i poeti avevano la corona d'alloro. Di quello che fu
il mondo interiore di Dante, qui non è alcun vestigio;
invece il mondo esterno vi è sviluppato fino all'aneddoto,
fino al pettegolezzo. Ci si vede uno spirito curioso e profano che
cerca il maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani,
disposto a spiegarli con la superficialità di un erudito e
di un uomo di mondo, o "del secolo", come si diceva allora. Spende
le ultime pagine ad almanaccare sopra un sogno attribuito alla
madre di Dante e vi fa pompa di tutta la sua erudizione. Sotto il
suo sguardo profano Beatrice perde tutta la sua idealità, e
l'amore di Dante, scacciato dalle sue regioni ascetiche e
platoniche e scolastiche, acquista una tinta romanzesca. Il nostro
Giovanni non si fa capace come Dante a nove anni abbia potuto
amare Beatrice. Il caso gli pare strano, e ne cerca diverse
spiegazioni. Forse fu "conformità di complessioni o di
costumi"; forse anche "influenza da cielo". Ma queste spiegazioni
non lo appagano, e si ferma in quest'altra, che cava
dall'esperienza. Dante, secondo lui, vide Beatrice in una festa il
primo di maggio, quando la "dolcezza del cielo riveste dei suoi
ornamenti la terra, e tutta per la varietà de' fiori
mescolati tra le verdi fronde la fa ridente, e per esperienza
veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la generale
allegrezza, per la delicatezza de' cibi e de' vini, gli animi
eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti ampliarsi e
divenire atti a poter leggermente esser presi da qualunque cosa
che piace".
Dante dunque amò fanciullo
per la stessa ragione che può amare un uomo maturo; i cibi
e i vini delicati e l'allegrezza generale, ecco ciò che
dispose il suo animo all'amore. Beatrice era per Dante "angeletta
bella e nova", senza contorni e senza determinazioni scesa di
cielo a mostrare le bellezze e le virtù che le piovono
dalle stelle. Tutto questo non entra al Boccaccio, il quale vuol
pure spiegarsi come la potè parere un'angioletta, e si
foggia nella profana immaginazione una bella immagine di
fanciulla, e la descrive così:
"Assai leggiadretta secondo la sua
fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e piacevole molto, con
costumi e con parole assai più gravi e modeste che 'l suo
picciolo tempo non richiedeva; ed oltre a questo, aveva le
fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene,
oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi
un'angioletta era reputata da molti."
Ecco un'angioletta di carne; eccoci dalle mistiche altezze di
Dante caduti in piena fisiologia e notomia. Dante amò,
perchè tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad
amare; e Beatrice parea quasi un'angioletta, perchè era
fatta così e così. Beatrice muore a ventiquattro
anni. Il nostro biografo non se ne maraviglia, perchè "un
poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo, ... ci
conduce" alla morte. I parenti e gli amici per consolare Dante gli
diedero moglie:
"Oh menti cieche, oh tenebrosi
intelletti!", esclama il nostro scapolo e nemico dell'amore
regolato. "Qual medico" egli aggiunge
"s'ingegnerà di cacciare
l'acuta febbre col fuoco, o 'l freddo delle midolla delle ossa col
ghiaccio o colla neve? Certo niun altro se non colui, il quale con
nuova moglie crederà le amorose tribolazioni mitigare".
E qui da uomo esperto della materia
parla della natura e de' fenomeni dell'amore e dell'indole delle
donne, e delle noie e degli affanni de' mariti, e compiange il
povero Dante. Dipinge con tocchi sicuri, e in certi punti è
eloquente, perchè qui è in casa sua. Udite questo
periodo: "Possiamo pensare quanti dolori nascondono le camere, li
quali da fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia trapassa le
mura, sono riputati diletti". Ma Dante, secondo ch'egli narra,
dimenticò presto moglie e Beatrice, e si die' all'amore
delle donne: ciò che l'indusse al gran viaggio nell'altro
mondo, ove se ne fece così aspramente rimproverare da
Beatrice. Il quale amore non pare poi un così gran peccato
al nostro scapolo: "Chi sarà tra' mortali giusto giudice a
condannarlo? Non io". Ed ecco venire innanzi l'erudito, e citare
parecchi casi di uomini illustri vinti dalle donne, Giove, Ercole,
Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode. Ti par di assistere a una
parodia. Eppure niente è più serio. Il giovane
è pieno di ammirazione verso Dante che chiama un "iddio fra
gli uomini", e crede con questa Vita riparare alla ingratitudine
di Firenze e alzargli un monumento.
La Vita di Dante è una rivelazione. Qui
dentro si manifesta l'autore in tutta la sua ingenuità e
spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che si andava formando
in Italia. Mette in un fascio mondo sacro e profano, Bibbia e
mitologia, teologia e poesia: la teologia è una "poesia di
Dio", una "finzione poetica". Questa strana mescolanza era
già comune al secolo; Dante stesso ne dava esempio. Ma dove
Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo universo e lo
battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio sbattezza tutto
l'universo e lo materializza. In teoria ammette la religione, e
parla con riverenza della teologia, che ci fa conoscere "la divina
essenza e le altre separate intelligenze". Ma in pratica questo
mondo dello spirito rimane perfettamente estraneo alla sua
intelligenza e al suo cuore. Misticismo, platonicismo,
scolasticismo, tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per
lui. Non solo questo mondo gli rimane estraneo come coltura, ma
ancora più come sentimento. E gli manca non solo il
sentimento religioso, ma fino quella certa elevatezza morale che
talora ne fa le veci. Spento è in lui il cristiano, e anche
il cittadino. Non gli è mai venuto in mente che servire la
patria e dare a lei l'ingegno e le sostanze e la vita è un
dovere così stretto, come è il provvedere al proprio
sostentamento. Dietro al cittadino comincia a comparire il buon
borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia molto
fastidio, e lo lasci attendere alla sua industria, e non lo tiri
per forza di casa o di bottega. De' guelfi e ghibellini è
perduta la memoria, tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare
il significato. E non si persuade come Dante siesi potuto
mescolare nelle pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla sua
vanità, ed ha quasi l'aria di dirgli: - Ben ti sta. - Non
voglio dire con questo che il Boccaccio fosse uomo dispregiatore
della religione o della virtù o della patria. Sciolto era
di costumi, pure tutti i doveri comuni della vita li adempiva con
la stessa puntualità e diligenza degli altri, e molte
legazioni gli furono commesse da' suoi concittadini. Ma
l'età eroica era passata; la nuova generazione non
comprendeva più le lotte e le passioni de' padri; il
carattere era caduto in quella mezzanità che non è
ancora volgarità, e non è più grandezza;
della religione, della libertà, dell'uomo antico c'erano
ancora le forme, ma lo spirito era ito. Di vita pubblica qualche
apparenza era ancora in Toscana, sede della coltura; nelle altre
parti era vita di corte. L'erudizione, l'arte, gli affari, i
piaceri costituivano il fondo di questa nuova società
borghese e mezzana, della quale ritratto era il Boccaccio,
gioviale, cortigiano, erudito, artista. Se la malinconia
dell'estatico Petrarca ti presentava un simulacro dell'uomo
antico, la spensierata giovialità del Boccaccio è
l'ingresso nel mondo, a voce alta e beffarda, della materia o
della carne, la maledetta, il peccato; è il primo riso di
una società più colta e più intelligente,
disposta a burlarsi dell'antica; è la natura e l'uomo, che,
pure ammettendo l'esistenza di separate intelligenze, non ne tien
conto, e fa di sè il suo mezzo e il suo scopo.
Questo tempo fu detto di transizione. Vivevano
insieme nel seno degli uomini due mondi, il passato nelle sue
forme se non nel suo spirito, ed un mondo nuovo che si affermava
come reazione a quello, fondato sulla realtà presa in se
stessa e vuota di elementi ideali. Erano in presenza il
misticismo, con le sue forme ricordevoli del mondo soprannaturale,
e il puro naturalismo. Ma il misticismo, indebolito già
nella coscienza, era divenuto abituale e tradizionale, applaudito
nel Petrarca non come il mondo sacro, ma come un mondo artistico e
letterario. Il naturalismo al contrario sorgeva allora in piena
concordia con la vita pratica e co' sentimenti, con tutti gli
allettamenti della novità. Questo mutamento nello spirito
dovea capovolgere la base della letteratura. Il romanzo e la
novella, rimasti generi di scrivere volgari e scomunicati, presero
il sopravvento. Al mondo lirico, con le sue estasi, le sue visioni
e le sue leggende, il suo entusiasmo, succede il mondo epico o
narrativo, con le sue avventure, le sue feste, le sue descrizioni,
i suoi piaceri e le sue malizie. La vita contemplativa si fa
attiva; l'altro mondo sparisce dalla letteratura; l'uomo non vive
più in ispirito fuori del mondo, ma vi si tuffa e sente la
vita e gode la vita. Il celeste e il divino sono proscritti dalla
coscienza, vi entra l'umano e il naturale. La base della vita non
è più quello che dee essere, ma quello che è:
Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.
Mettiamo ora il piè in questo mondo del
Boccaccio. Che vi troviamo? Opere latine di gran mole: una specie
di dizionario storico, ove hai tutte le antiche forme mitologiche
usate da' poeti, e con le loro spiegazioni allegoriche, e i fatti
degli uomini illustri e delle celebri donne, libri tradotti in
francese, in tedesco, in inglese, in ispagnuolo, in italiano, di
cui si fecero moltissime edizioni, accolti con infinito favore da'
contemporanei, come una nuova rivelazione dell'antichità.
Prima ci erano le enciclopedie e i "fiori" e i "giardini", ove si
raccoglieva ciò che gli antichi pensarono in filosofia, in
etica, in rettorica; il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi
immaginarono, quello che operarono. Al mondo del puro pensiero
succede il mondo dell'immaginazione e dell'azione. Vediamolo ora
all'opera. Quest'uomo, che ha pieno il capo di tanta erudizione
greca e latina, che ammira Dante perchè ha saputo molto
bene imitare Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano, e a cui di
fiorentino è rimasto l'amore del bello idioma e il
sentimento dell'arte, è insieme il trovatore e il giullare
della corte, rallegrata dalle sue facezie e dai suoi racconti,
è l'erede della gaia scienza, sa a menadito romanzi
francesi, italiani e provenzali, e scrive per sollazzarsi e per
sollazzare. Ci erano in lui parecchi uomini non ben fusi,
l'erudito, l'artista, il trovatore, il letterato e l'uomo di
mondo.
Ecco uscirgli dall'immaginazione il Filocolo.
Il titolo è greco, come più tardi è il
Filostrato e come sarà il Decamerone. La materia è
tratta da un romanzo spagnuolo, ed è gli amori di Florio e
Biancofiore. Ma si tratta della Spagna pagana, al tempo di Roma
pagana, quando già vi penetrava il cristianesimo. La
materia è tale, che il giovane autore vi può
sviluppare tutte le sue tendenze. Ai giovani innamorati e alle
amorose donzelle consacra i "nuovi versi, i quali - egli dice loro
- non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell'antica Troia,
nè le sanguinose battaglie di Farsaglia, ma udirete i
pietosi avvenimenti dell'innamorato Florio e della sua
Biancofiore, i quali vi fiano graziosi molto". Probabilmente i
giovani vaghi e le donne innamorate avrebbero desiderato una
storia di amore più breve e meno dotta. Ma come resistere
alla tentazione? Il giovane ci ficca dentro tutta la mitologia, e
ad ogni menoma occasione esce fuori con la storia greca e romana.
Giulia, uccisole il marito, nell'ultima disperazione, parlando
all'uccisore, cita Ecuba e Cornelia. Nè la mitologia ci sta
a pigione, come semplice colorito, ma è la vera macchina
del racconto, come in Omero e Virgilio. E se Giove, Pluto, Venere,
Pallade e Cupido fossero personaggi vivi, avremmo un grottesco non
dispiacevole; ma sono personificazioni ampollose e rettoriche,
formate dalla memoria, non dall'immaginazione. Ancora, visto che
teologia e poesia sono una stessa cosa, la teologia è
paganizzata, e Dio diviene Giove, e Lucifero diviene Pluto;
sì che pagani e cristiani, inimicandosi a morte, usano le
stesse forme e adorano gli stessi iddii. Macchinismo vuoto che
s'intramette dappertutto, e guasta il linguaggio naturale del
sentimento, introducendo ne' fatti e nelle passioni un'espressione
artificiale e metaforica. Volendo dire giovani innamorati si dice:
"i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzato a'
venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane
figliuolo di Citerea". L'avvicinarsi della sera è espresso
così: "I disiosi cavalli del sole caldi per lo diurno
affanno si bagnavano nelle marine acque d'occidente". Altrove
è detto: "L'Aurora aveva rimossi i notturni fuochi, e Febo
avea già rasciutte le brinose erbe". Nasce uno stile
pomposo e freddo, che invano l'autore cerca incalorire con le
figure rettoriche, in cui è maestro. Spesseggiano le
interrogazioni, le esclamazioni, le personificazioni, le
apostrofi; il sentimento si sviluppa dalle cose e si pone per se
stesso in una forma ampollosa e pretensiosa. Il prode Lelio
è ucciso sul campo di battaglia, e il poeta vi recita su
questa magnifica tirata rettorica:
"Oh misera Fortuna, quanto sono i tuoi
movimenti vani e fallaci nelle mondane cose! Ove sono i molti
tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove i molti amici?
Ove la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte
queste cose, e il suo corpo senza sepoltura morto giace negli
strani campi. Almeno gli avessi tu concedute le romane lacrime, e
le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti
occhi, e l'ultimo onore della sepoltura gli avesse potuto fare!"
Giulia sviene: "gli spiriti ... vagabondi pare che vadano per lo
vicino aere"; e il poeta fa una lunga apostrofe a Lelio, che al
suo pericol correndo lei semiviva abbandona, e dice di Amore:
"Deh! Quanto Amore si portò villanamente
tra voi, avendovi tenuti insieme con la sua virtù tanto
tempo caramente congiunti; e ora, nell'ultimo partimento, non
consentì che voi vi avessi insieme baciati o almeno
salutati."
I personaggi fanno spesso lunghe orazioni con tutti gli artifici
della rettorica, com'è la parlata di Pluto a' ministri
infernali, imitata dal Tasso. Spesso la sensualità si
scopre tra le lacrime. Giulia si straccia i capelli e si squarcia
le vesti; il giovane deplora quello "sconcio tirare" che traeva "i
biondi capelli" "dell'usato modo e ordine", e aggiunge: "I
vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima
soleano nascondere". Non mancano qua e colà tratti
affettuosi, e anche modi e forme di dire semplici ed efficaci; ma
rimane il più spesso fuori dell'uomo e della natura,
inviluppato in perifrasi, circonlocuzioni, aggettivi, orazioni,
descrizioni e citazioni: ci si sente una viva tendenza al reale
guastata dalla rettorica e dall'erudizione. Accampandosi nel mondo
antico, e portandovi pretensioni erudite e rettoriche, la
letteratura, se da una parte si emancipava da quel mondo
teologico-scolastico che sorgeva come barriera tra l'arte e la
natura, s'intoppava dall'altra in una nuova barriera, un mondo
mitologico-rettorico.
Il successo del Filocolo alzò l'animo
del giovane a più alto volo. Pensò qualche cosa come
l'Eneide, e scrisse la Teseide. Ma niente era più alieno
dalla sua natura che il genere eroico, niente più lontano
dal secolo che il suono della tromba. Qui hai assedii, battaglie,
congiure di dei e di uomini, pompose descrizioni, artificiosi
discorsi, tutto lo scheletro e l'apparenza di un poema eroico; ma
nel suo spirito borghese non entra alcun sentimento di vera
grandezza, e Teseo e Arcita e Palemone e Ippolito ed Emilia non
hanno di epico che il manto. Il suo spirito è disposto a
veder le cose nella loro minutezza, ma più scende ne'
particolari, più l'oggetto gli si sminuzza e scioglie,
sì che ne perde il sentimento e l'armonia. Le armi, i modi
del combattere, i sacrifizii, le feste, tutta l'esteriorità
è rappresentata con la diligenza e la dottrina di un
erudito; ma dov'è l'uomo? E dov'è la natura? De'
suoi personaggi carichi di emblemi e di medaglie antiche si
è perduta la memoria. Ecco un campo di battaglia. Egli vede
con molta chiarezza i fenomeni che ti presenta, ma è la
chiarezza di un naturalista, scompagnata da ogni movimento
d'immaginazione; ci è l'immagine, manca il fantasma, que'
sottintesi e que' chiaroscuri, che ti danno il sentimento e la
musica delle cose:
Dopo il crudele e dispietato assalto
orribile per suoni e per fedite,
li fatto prima sopra il rosso smalto,
si dileguaron le polveri trite;
non tutte, ma tal parte, che da alto
ed ancora da basso eran sentite
parimente e vedute di costoro
le opere e 'l marziale aspro lavoro.
È un'ottava prosaica, dove un fenomeno comunissimo è
sminuzzato con la precisione e distinzione di un anatomico, non di
un poeta. Il Tasso tutto condensa in un verso solo, che ti
presenta in unica immagine il campo di battaglia:
la polve ingombra ciò ch'al sangue
avanza.
La stessa prosaica maniera trovi nell'ottava seguente:
Il sangue quivi de' corpi versato,
e de' cavalli ancor similemente,
aveva tutto quel campo innaffiato,
onde attutata s'era veramente
e la polvere e 'l fumo: imbragacciato
di sangue era ciascun destrier corrente,
o qualunque uomo vi fosse caduto,
benchè a caval poi fosse rivenuto.
Qui il sangue è talmente analizzato negli oggetti e
congiunto con particolari così vuoti e insignificanti, che
se ne perde l'impressione. Alla grande maniera, sobria, rapida,
densa, di Dante, del Petrarca, succede il prolisso, il diluito e
il volgare. Chi ricorda descrizioni simili nell'Ariosto e nel
Tasso, vi troverà le stesse cose, ma vive e mobili, piene
di sentimento e di significato. Nel canto duodecimo descrive la
bellezza di Emilia da' capelli fino alle anche, anzi fino a'
piedi, e non si contenta di passare a rassegna tutte le parti del
corpo, chè di ciascuna fa minuta descrizione, e non solo
nel quale, ma nel quanto, sì che pare un geometra
misuratore. Delle ciglia dice:
... più che altra cosa
nerissime e sottil, nelle qua' lata
bianchezza si vedea lor dividendo,
nè il debito passavan se' estendendo..
Ecco un'ottava similmente prosaica su' capelli:
Dico che li suoi crini parean d'oro,
non per treccia ristretti, ma soluti
e pettinati sì che infra loro
non n'era un torto, e cadean sostenuti
sopra li candidi omeri, nè fòro
prima nè poi sì be' giammai
veduti:
nè altro sopra quelli ella portava
ch'una corona che assai si stimava.
Ottave e versi soffrono malattia di languore: così procede
il suono fiacco e sordo.
La Teseide è indirizzata a Fiammetta, e
copertamente e sotto nomi greci espone una vera storia d'amore. Ma
la gravità del soggetto, e le intenzioni letterarie
soperchiarono l'autore e lo tirarono in un mondo epico, pel quale
non era nato. Meglio riuscì nel Filostrato, dove lo
scheletro greco e troiano esattamente riprodotto nella sua
superficie è penetrato di una vita tutta moderna.
L'allusione non è in questo o quel fatto, come nella
Teseide, ma è nello spirito stesso del racconto. I languori
di Troilo, gli artifici di Pandaro, che è il mezzano, le
resistenze sempre più deboli di Griseida, le gradazioni
voluttuose di un amore fortunato, le arti e le lusinghe di Diomede
presso Griseida, la sua vittoria e le disperazioni di Troilo,
questo non è epico e non è cavalleresco, se non solo
ne' nomi de' personaggi: è una pagina tolta alla storia
secreta della corte napoletana, è il ritratto della vita
borghese, collocata di mezzo fra la rozza ingenuità
popolana e l'ideale vita feudale o cavalleresca. Qui per la prima
volta l'amore, squarciato il velo platonico, si manifesta nella
sua realtà ed autonomia, separato da' suoi antichi
compagni, l'onore e il sentimento religioso; e non è
già amore popolano, ma borghese, cioè a dire
raffinato, pieno di tenerezze e di languori, educato dalla coltura
e dall'arte. Mancati tutti gli alti sentimenti della vita pubblica
e religiosa, non rimane altra poesia che della vita privata. La
quale è vil prosa, quando il fine del vivere non è
che il guadagno, ed è nobilitata dall'amore. Vivere tra'
godimenti di amore, con l'animo lontano da ogni cupidigia di onori
e di ricchezze, questo è l'ideale della vita privata, nella
quale la parte seria e prosaica è rappresentata dal
mercante. È un ideale che il Boccaccio trova nella sua
propria vita, quando volse le spalle alla mercatura e si
diè a' piacevoli studi e all'amore. Descritti in
morbidissime ottave i voluttuosi ardori di Troilo e Griseida, il
poeta, calda ancora l'immaginazione, così prorompe:
Deh! Pensin qui gli dolorosi avari,
che biasiman chi è innamorato,
e chi, come fan essi, a far denari
in alcun modo non si è tutto dato,
e guardin se, tenendoli ben cari
tanto piacer fu mai a lor prestato,
quanto ne presta amore in un sol punto
a cui egli è con ventura congiunto.
Ei diranno di sì, ma mentiranno;
e questo amor "dolorosa pazzia"
con risa e con ischerni chiameranno;
senza veder che sola un'ora fia
quella che sè e' danari perderanno,
senza aver gioia saputo che sia
nella lor vita: Iddio gli faccia tristi,
ed agli amanti doni i loro acquisti.
Ottave sconnesse e saltellanti, assai inferiori alle bellissime
che precedono; il poeta sa meglio descrivere che ragionare: pure
ci senti per entro un po' di calore, e la conclusione è
felicissima: è un moto subito e vivace di immaginazione,
come di rado gl'incontra.
Sotto aspetto epico questo racconto è
una vera novella con tutte le situazioni divenute il luogo comune
delle storie d'amore, i primi ardenti desiri, l'intramessa di un
amico pietoso e le ritrosie della donna, le raffinate
voluttà del godimento, la separazione degli amanti, le
promesse e i giuramenti e gli svenimenti della donna, la sua
fragilità e i lamenti e i furori del tradito amante. Sotto
vernice antica spunta il mondo interiore del Boccaccio, una
mollezza sensuale dell'immaginazione congiunta con una
disposizione al comico e al satirico. L'infedeltà di
Griseida lo fa uscire in questo ritratto della donna:
Giovine donna è mobile, e vogliosa
è negli amanti molti, e sua bellezza
estima più ch'allo specchio, e pomposa
ha vanagloria di sua giovinezza;
la qual quanto piacevole e vezzosa
è più, cotanto più seco
l'apprezza:
virtù non sente, nè conoscimento,
volubil sempre come foglia al vento.
A Beatrice e Laura succede Griseida; all'amore platonico l'amore
sensuale; al volo dell'anima verso la sua patria, il cielo,
succede il tripudio del corpo. La reazione è compiuta. A
Dante succede il Boccaccio.
La contraddizione prende quasi aria di parodia
inconscia nell'Amorosa visione. La Commedia è imitata nel
suo disegno e nel suo meccanismo. Anche il Boccaccio ha la sua
visione. Anch'egli incontra la bella donna, che dee guidarlo
all'altura, che è "principio e cagion di tutta gioia", via
a salute e pace. Ma dove nella Commedia si va di carne a spirito,
sino al sommo Bene, in cui l'umano è compiutamente
divinizzato o spiritualizzato, dove nella Commedia il sommo Bene
è scienza e contemplazione: qui il fine della vita è
l'umano e la scienza è il principio, e l'ultimo termine
è l'amore, e la fine del sogno è in questi versi:
Tutto stordito mi riscossi allora,
e strinsi a me le braccia, e mi credea
infra esse madonna averci ancora.
Il paradiso del Boccaccio è un tempio dell'umanità,
un nobile castello, che ricorda il Limbo dantesco, ricco di sale
splendide e storiate, come sono le pareti del purgatorio. Ed
è tutta la storia umana, che ti viene innanzi in quelle
pitture. Dante invoca le muse, l'alto ingegno; il Boccaccio invoca
Venere:
O somma e graziosa intelligenza
che movi il terzo cielo, o santa dea,
metti nel petto mio la tua potenza.
Una scala assai stretta mena al castello, e sulla piccola porta
è questa scritta:
... ... questa piccola porta mena a via di
vita,
posta che paia nel salir molesta:
riposo eterno dà cotal salita.
Dunque salite su senza esser lenti:
l'animo vinca la carne impigrita.
Eccoci nella prima sala. E vi son pinte le sette scienze, e via
via schiere di filosofi e poi di poeti, a quel modo che fa Dante
nel limbo. Tutto il canto quinto è consacrato a Virgilio e
a Dante, del quale dice:
Costui è Dante Alighieri fiorentino,
il qual con eccellente stil vi scrisse
il sommo ben, le pene e la gran morte:
gloria fu delle muse mentre visse,
ne qui rifiutan d'esser sue consorte.
Dalla sala delle Muse si passa nella sala della Gloria. E ti
sfilano innanzi moltitudine di uomini venuti in fama, quasi un
quadro della storia del mondo. Da Saturno e Giove scendi
all'età de' giganti e degli eroi; poi giungi agli uomini e
alle donne illustri di Grecia e di Roma, in ultimo viene la
cavalleria ne' suoi due circoli di Arturo e Carlomagno, sino
all'ultimo cavaliere, Federico secondo, e l'occhio si stende a
Carlo di Puglia, Corradino, Ruggieri di Loria e Manfredi. Il poeta
dà libero corso alla sua vasta erudizione, intento
più a raccogliere esempli che a lumeggiarli: sicchè
nessuno de' suoi personaggi è giunto a noi così
vivo, come è l'Omero e l'Aristotile del limbo dantesco, o
l'Omero del Petrarca.
Siamo infine nella sala di Amore e Venere. E
come innanzi la storia, qui vien fuori la mitologia, e senti le
prodezze amorose di Giove, Marte, Bacco e Pluto ed Ercole. Poi
vengono gli amori di Giasone, Teseo, Orfeo, Achille, Paride, Enea,
Lancillotto.
Scienza, gloria, amore, ecco la vita quando non
vi s'intrometta la Fortuna e colpisca Cesare o Pompeo nel sommo
della felicità. Percorsi i circoli della vita, comincia il
tripudio, o la beatitudine; e non sono già le danze delle
luci sante nel trionfo di Cristo o degli angeli, ma le voluttuose
danze di un paradiso maomettano, o le danze delle ninfe napolitane
a Baia. Il poeta s'innamora, e mentre in sogno si tuffa negli
amorosi diletti e tiene fra le braccia la donna, si sveglia, e la
sua guida gli dice:
Ciò che porse
il tuo dormire alla tua fantasia
tutto averai.
E mentre la visione si dilegua, ella lo raccomanda al "sir di
tutta pace", all'Amore.
Con le stesse forme e con lo stesso disegno di
Dante il Boccaccio riesce a un concetto della vita affatto
opposto, alla glorificazione della carne, nella quale è il
riposo e la pace. La "Divina Commedia" qui è cavata fuori
del soprannaturale, in cui Dante aveva inviluppata
l'umanità e se stesso e il suo tempo, ed è
umanizzata, trasformata in un real castello, sede della coltura e
dell'amore. Se non che il Boccaccio non vide che quelle forme
contemplative e allegoriche, naturale involucro di un mondo
mistico e soprannaturale, mal si attagliavano a quella vita tutta
attiva e terrena, ed erano disformi al suo genio, superficiale ed
esterno, privo di ogni profondità ed idealità:
perciò riesce monotono, prolisso e volgare. Oggi, a tanta
distanza, c'è difficile a concepire come non abbia trovato
subito il suo genere, che è la rappresentazione della vita
nel suo immediato, sciolta da ogni involucro non solo teologico e
scolastico, ma anche mitologico e cavalleresco. Ma lento è
il processo dell'umanità anche nell'individuo, che passa
per molte prove e tentennamenti prima di trovare se stesso. Il
Boccaccio, amico delle muse, stima co' suoi contemporanei che "le
cose volgari non possono fare un uomo letterato" e che si
richiedono "più alti studi". E gli alti studi sono il
latino e il greco, la conoscenza dell'antichità. Il suo
maggior titolo di gloria era l'ampia erudizione, che lo rendeva
superiore a Dante ed anche al suo "Silvano", il Petrarca. Trova
innanzi a sè forme consacrate e ammirate, le forme epiche
di Virgilio e Stazio, le forme liriche di Dante e di Silvano, e in
quelle forme vuol realizzare un mondo prosaico che gli si moveva
dentro. Nei suoi primi lavori salta fuori tutto il suo mondo
greco-romano, mitologico e storico, con grande ammirazione de'
contemporanei. Gli amori di Troilo e Griseida, d'Arcita e Palemone
passarono le Alpi e fecondarono l'immaginazione di Chaucer; i
quadri storici e mitologici della sua Visione ispirarono molti
Saggi e molti Tempi dell'umanità. Chi legge i Reali di
Francia e tante scarne traduzioni di romanzi francesi allora in
voga, può concepire che gran miracolo dovè parere la
Teseide, il Filostrato e il Filocolo. Anche nelle sue Rime si vede
l'uomo nuovo alle prese con forme vecchie. Vi trovi il solito
repertorio, l'innamoramento, i sospiri, i desiri, i pentimenti, il
volgersi a Dio e alla Madonna, ma la bella unità lirica del
mondo di Dante e del Petrarca è rotta, ed ogni
idealità è scomparsa. Dietro alle stesse forme
è un diverso contenuto che mal vi si adagia. La donna in
nome è ancora un'angioletta, ma che angiolo! Ella sta non
raccolta e modesta nella sua ingenuità infantile, come
Bice; o nella sua casta dignità, come Laura; ma
all'ombra di mille arbori fronzuti,
in abito leggiadro e gentilesco
tende lacci
con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco.
Hai la donna vezzosa e civettuola della vita comune, ed un amante
distratto, che ora esala sospiri profani in forme platoniche e
tradizionali, ora pianta lì la sua angioletta, e si sfoga
contro i suoi avversari, e ragiona della morte e della fortuna, o
inveisce contro le donne:
Elle donne non son, ma doglia altrui,
senza pietà, senza fè,
senz'amore,
liete del mal di chi più lor credette.
Perchè meglio si comprenda questa disarmonia tra forme
convenzionali e un contenuto nuovo, guardiamo questo sonetto:
Sulla poppa sedea d'una barchetta,
che 'l mar segando presta era tirata,
la donna mia con altre accompagnata,
cantando or una, or altra canzonetta.
Or questo lito ed or quell'isoletta,
ed ora questa ed or quella brigata
di donne visitando, era mirata
qual discesa dal ciel nuova angioletta.
Io che seguendo lei vedeva farsi
da tutte parti incontro a rimirarla
gente, vedea come miracol novo:
ogni spirito mio in me destarsi
sentiva, e con Amor di commendarla
vago non vedea mai il ben ch'io provo.
Il sonetto comincia bene, in forma disinvolta e fresca,
ancorachè per la parte tecnica un po' trascurata. In quelle
giovanette, che cantano a mare e vanno a visitare le amiche e sono
ammirate dalla gente, vedi una scena tutta napolitana, e ti corre
innanzi Baia, sede di secrete delizie che destano le furie gelose
del poeta. Ma questa bella scena alla fine si guasta, col solito
"spirito" e col solito "Amore vago di commendare", e riesce in una
freddura. Chi vuol vedere un sonetto affatto moderno, dove
l'autore si è sciolto da ogni involucro artificiale, e ti
coglie in atto la vita di Baia con le sue soavità e le sue
licenze, senta questo:
Intorno ad una fonte, in un pratello
di verdi erbette pieno e di bei fiori,
sedeano tre angiolette, i loro amori
forse narrando; ed a ciascuna il bello
viso adombrava un verde ramoscello
che i capei d'or cingea, al qual di fuori
e dentro insieme due vaghi colori
avvolgeva un soave venticello.
E dopo alquanto l'una alle due disse
com'io udii: - Deh! Se per avventura
di ciascuna l'amante or qui venisse,
fuggiremo noi quinci per paura? -
- A cui le due risposer: - Chi fuggisse,
poco savia saria con tal ventura. -
Qui senti il Boccaccio in quella sua mescolanza di sensuale e
malizioso. Gli scherzi del venticello sono abbozzati con l'anima
di un satiro che divora con gli occhi la preda, e la chiusa cinica
così inaspettata ti toglie a ogni idealità e ti
gitta nel comico. Qui il Boccaccio trova se stesso. Fu chiamato
"Giovanni della tranquillità" per quella sua spensierata
giovialità, che lo tenea lontano da ogni esagerazione delle
passioni, e tiravalo nel godimento e nel gusto della vita reale. E
quantunque si doglia dell'epiteto come d'una ingiuria e lo rifiuti
sdegnosamente, pure è là il suo genio e la sua
gloria, e non dove sfoggia in forme rettoriche sentimento ed
erudizione. Fu chiamato anche "uomo di vetro", per una cotal sua
mobilità d'impressioni e di risoluzioni, di cui sono
esempio le Rime, dove invano cerchi l'unità organica del
Canzoniere, e un disegno qualunque, avvolto il poeta dalle onde
delle impressioni e della vita reale e de' suoi studi e
reminiscenze classiche. Pure tra molte volgarità trovi un
elevato sentimento dell'arte, o, come egli dice, "l'amor delle
muse, che lo trae d'inferno", come chiama la terra deserta dalle
muse. "Vidi", egli canta,
... una ninfa uscire
d 'un lieto bosco, e verso me venire
co' crin ristretti da verde corona.
A me venuta disse: - Io son colei,
che fo di chi mi segue il nome eterno,
e qui venuta sono ad amar presta;
lieva su, vieni. - Ed io già di costei
acceso, mi levai; ond'io d'inferno
uscendo, entrai nell'amorosa festa.
Da questo elevato sentimento dell'arte è uscito il sonetto
sopra Dante, scritto con una gravità e vigore di stile
così insueto, che farebbe quasi dubitare sia cosa sua:
Dante Alighieri son, Minerva oscura
d'intelligenza e d'arte, nel cui ingegno
l'eleganza materna aggiunse al segno,
che si tien gran miracol di natura.
L'alta mia fantasia pronta e sicura
passò il tartareo e poi il celeste
regno,
e il nobil mio volume feci degno
di temporale e spirital lettura.
Fiorenza gloriosa ebbi per madre,
anzi matrigna a me pietoso figlio,
colpa di lingue scellerate e ladre.
Ravenna fummi albergo del mio esiglio;
ed ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre,
presso cui invidia non vince consiglio.
La stessa disparità tra le forme e il contenuto troviamo
nella Fiammetta e nel Corbaccio o Laberinto d'amore. Sono due
generi nuovi e pel contenuto affatto moderni. La Fiammetta e un
romanzo intimo e psicologico, dove una giovane amata e abbandonata
narra ella medesima la sua storia, rivelando con la più
fina analisi le sue impressioni. Il Corbaccio è la satira
del sesso femminile fatta dal vendicativo scrittore, canzonato da
una donna. La scelta di questi argomenti è felicissima.
L'autore volge le spalle al medio evo e inizia la letteratura
moderna. Di un mondo mistico-teologico-scolastico non è
più alcun vestigio. Oramai tocchiamo terra: siamo in
cospetto dell'uomo e della natura. Abbiamo una pagina di storia
intima dell'anima umana, colta in una forma seria e diretta nella
Fiammetta, in una forma negativa e satirica nel Corbaccio. La
letteratura non è più trascendente, ma immanente,
cioè a dire vede l'uomo e la natura in se stessa, e non in
forme estrinseche e separate, mitologiche e allegoriche. Ma il
Boccaccio non sa trovare le forme convenienti a questo contenuto.
Per rappresentarlo nella sua verità non aveva che a
mettersi in immediata comunione con quello ed esprimere le sue
impressioni così naturali e fresche come gli venivano. Ma
s'accosta a questo mondo con l'animo preoccupato dall'erudizione,
dalla storia, dalla mitologia e dalla rettorica, e lo vede, lo
dipinge a traverso di queste forme. L'impressione giungendo nel
suo spirito vi è immediatamente falsificata, nè si
riconosce più dietro a quel denso involucro, che se non
è teologico-scolastico, è pur qualche cosa di
più strano, è mitologico-rettorico. Nasce una nuova
trascendenza, la cui radice non è nel naturale sviluppo del
pensiero religioso e filosofico, come l'antica, ma nell'avviamento
classico preso dalla coltura. Fiammetta abbandonata da Panfilo,
prima di fare i suoi lamenti, vuol vedere come in Virgilio si
lamenta Didone abbandonata, pensando che a lei non è lecito
di lamentarsi in altra guisa. E se vuol consolarsi, cercando
compagni al suo dolore, ti fa un trattato di storia antica,
narrando tutti i casi infelici di amore degli antichi iddii ed
eroi. E se sogna, cerca in Ovidio la spiegazione de' sogni. Vuol
dire che sente vergogna di palesare i suoi godimenti amorosi? E ti
definisce la vergogna e ragiona lungamente de' suoi effetti sulle
donne. Vuol esprimere gioia, speranza, timore, dolore, ira,
gelosia? E analizza ciascuno di questi sentimenti, facendo tesoro
di tutti i luoghi topici registrati da Aristotile. Bisogna vedere
con che diligenza il Sansovino nota tutti i luoghi etici e
patetici, e le imitazioni e le erudizioni della Fiammetta, a guida
de' maestri e degli scolari. Dante, Minerva oscura, potè
spesso tra le nebbie delle sue allegorie attingere il mondo reale,
perchè era artista, e se è scolastico, non è
mai rettorico: il Boccaccio non può distrigarsi da quel
mondo artificiale e coglier la natura, perchè gli manca
ogni serietà di vita interiore nel pensiero e nel
sentimento, e vi supplisce con le esagerazioni e le
amplificazioni. Che dirò delle sue descrizioni così
minute, come le sue analisi, e tutte di seconda mano, non ispirate
dall'impressione immediata della natura? Veggasi il suo inverno e
la primavera e l'autunno, e tutte le sue descrizioni della
bellezza virile e femminile, fatte con la squadra e col compasso.
Così gli è venuto scritto un romanzo prolisso,
noioso, in guisa che, a sentir quegli eterni lamenti della
Fiammetta che aspetta Panfilo, siamo tentati di dire: - Panfilo,
torna presto! Che non la sentiamo più. -
Più conforme al suo genio è il
Corbaccio, satira delle donne. Ma come il burlato è lui, le
risa sono a sue spese, specialmente quando si lamenta che una
donna abbia potuto farla a lui, che pure è un letterato. Vi
mostra egli così poco spirito come nella lettera a
Nicolò Acciaioli, che il Petrarca grecizzando chiamava
Simonide, dove leva le alte strida perchè, invitato alla
corte di Napoli, gli sia toccata quella cameraccia e quel
lettaccio, ed esce in vitupèri, in minacce, in
pettegolezzi, resi ancora più ridicoli da quella forma
ciceroniana. Come qui minaccia e vitupera e inveisce alla latina,
così nel Corbaccio satireggia con la storia, co' luoghi
comuni degli antichi poeti, narrando fatti o allegorie e
ammassando noiosi ragionamenti. L'ordito è semplicissimo.
Il Boccaccio, beffato da una donna, si vuole uccidere, ma il
timore dell'inferno ne lo tiene, e pensa più saviamente a
vivere e a vendicarsi, non col ferro, ma, come i letterati fanno,
con "concordare di rime" o "distender di prose". Fra questi
pensieri si addormenta e si trova in sogno nel "laberinto
d'amore", o valle incantata, una specie di selva dantesca, dove
gli appare un'ombra, ed è il marito della donna, che nel
purgatorio espia la troppa pazienza avuta con lei. Costui gli
espone tutte le cattive qualità delle donne, a cominciare
dalla sua. E quando si è bene sfogato, lo conduce sopra di
un monte altissimo, onde vede il laberinto metter capo
nell'inferno. Questa vista guarisce il Boccaccio del mal concetto
amore. Come si vede, la satira non è rappresentazione
artistica, ma esposizione, in forma di un trattato di morale, de'
vizi femminili. Nondimeno trovi qua e là di bei motti, e
novellette graziose e descrizioni vivaci dei costumi delle donne,
con l'uso felicissimo del dialetto fiorentino, com'è la
donna in chiesa, che "incomincia una dolente filza di paternostri,
dall'una mano nell'altra e dall'altra nell'una trasmutandogli
senza mai dirne niuno", o la donna che con le sue gelosie non
dà tregua al marito, e "di ciarlare mai non resta, mai non
molla, mai non fina: dàlle, dàlle, dàlle,
dalla mattina infino alla sera, e la notte ancora non sa restare".
Nelle sue gelose querele si rivela il vero genio del Boccaccio,
una forza comica accompagnata con rara felicità di
espressione, attinta in un dialetto così vivace e
già maturo, pieno di scorciatoie, di frizzi, di motti, di
grazie. Citiamo alcuni brani:
"Credi tu ch'i' sia abbagliata, e ch'i' non
sappia a cui tu vai dietro? A cui tu vogli bene? E con cui tutto
il dì favelli? Misera me, che è cotanto tempo ch'io
ci venni, e pur una volta ancora non mi dicesti - Amor mio, ben
sia venuta. - Ma alla croce di Dio, io farò di quelle a te
che tu fai a me. Or son io così sparuta? Non son io
così bella, come la cotale? Ma sai che ti dico? Chi due
bocche bacia, l'una convien che gli puta. Fàtti
costà, se Iddio m'aiuti, tu non mi toccherai: va' dietro a
quelle di cui tu se' degno, chè certo tu non eri degno
d'aver me, e fai bene ritratto di quello che tu sei, ma a fare a
far sia.
Questa è lingua già degna di
Plauto, e il Corbaccio è sparso di cotali scene, degne di
colui che aveva già scritto il Decamerone. Fra' tanti
peccati che il marito tradito e l'amante burlato attribuiscono
alla donna c'è pur questo, che "le sue orazioni e i suoi
paternostri sono i romanzi franceschi", e "tutta si stritola
quando legge Lancillotto o Tristano nelle camere segretamente". E
anche "legge la canzone dello indovinello, e quella di Florio e di
Biancefiore, e simili altre cose assai". Sono preziose rivelazioni
sulla letteratura profana e proibita, allora in voga. Ma se
peccato c'è, il maggior peccatore era il Boccaccio per
l'appunto, che per piacere alle donne scrivea romanzi. Pure
è lecito credere ch'elle leggevano con più gusto la
nuda storia francesca di Florio e Biancefiore, che l'imitazione
letteraria fatta dal Boccaccio, detta Filocolo, dove Biancefiore
(Blanchefleur) è chiamata all'italiana "Biancofiore". Alle
donne caleva poco di mitologia e storia antica, e se tanta
erudizione e artificio rettorico potea parere cosa mirabile al suo
maestro di greco, Pilato, e a' latinisti e grecisti che erano
allora i letterati, le donne, che cercavano ne' libri il piacer
loro, facevano de' suoi scritti poca stima, e, "ciò che
peggio era, per lui, Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e
molti altri illustri uomini creduti suoi amici e domestici, come
fango scalpitavano e schernivano". In verità, le donne col
loro senso naturale erano migliori giudici in letteratura che
Leonzio Pilato e tutti i dotti.
Quelli che chiamarono "tranquillo" il nostro
Giovanni espressero un concetto più profondo che non
pensavano. La tranquillità è appunto il carattere
del nuovo contenuto che egli cercava sotto forme pagane. La
letteratura del medio evo è tutt'altro che tranquilla; anzi
il suo genio è l'inquietudine, un cercare continuo, il di
là senza speranza di attingerlo. Il suo uomo è
sospeso da terra, con gli occhi in alto, accesi di desiderio.
L'uomo del Boccaccio è, al contrario, assiso, in ozio
idillico, con gli occhi volti alla madre terra, alla quale domanda
e dalla quale ottiene l'appagamento. Ma al Boccaccio non piace
esser chiamato "tranquillo", inconsapevole che la sua forza
è lì dov'è la sua natura. E si prova nel
genere eroico e cavalleresco, e nelle confessioni della Fiammetta
tenta un genere lirico-tragico. Tentativi infelici di uomo che non
trova ancora la sua via. L'indefinito è negato a lui, che
descrive la natura con tanta minutezza di analisi. Il sospiro
è negato a lui, che numera ad uno ad uno i fenomeni del
sentimento. L'eroico e il tragico non può allignare in
un'anima idillica e sensuale. E quando vi si prova, riesce falso e
rettorico. Perciò non gli riesce ancora di produrre un
mondo, cioè una totalità organica, armonica e
concorde. Nel suo mondo epico-tragico-cavalleresco penetra uno
spirito eterogeneo e dissolvente, che rende impossibile ogni
formazione artistica, il naturalismo pagano: spirito invitto,
perchè è il solo che vive al di dentro di lui, il
solo che si possa dire il suo mondo interiore. E quando gli riesce
di coglierlo nella sua semplicità e verità, come gli
si move al di dentro, allora trova se stesso e diviene artista.
Questo mondo, gittato come frammento discorde e caotico ne' suoi
romanzi epici e tragici, par fuori in tutta la sua purezza nel
Ninfale fiesolano e nel Ninfale d'Ameto.
Qui l'autore, volgendo le spalle alla
cavalleria e a' tempi eroici, rifà con l'immaginazione i
tempi idillici delle antiche favole e dell'età dell'oro,
quando le deità scendevano amicamente nella terra popolata
di ninfe, di pastori, di fauni e di satiri. La mitologia non
è qui elemento errante fuori di posto in mondo non suo,
è lei tutto il mondo.
Questo mondo mitologico primitivo è un
inno alla natura. Nel Ninfale fiesolano la ninfa sacra a Diana,
vinta dalla natura, manca al suo voto ed è trasmutata in
fonte. L'anima del racconto è il dolce peccato, nel quale
cadono Africo e Mensola non per corruzione o depravazione di
cuore, ma per l'irresistibile forza della natura nella piena
semplicità ed innocenza della vita; sì che, saputo
il fatto, ne viene compassione alla stessa Diana. Indi a poco
sopraggiunge Atalante, e con la guida del figlio della colpa, nato
da Mensola, distrugge gli asili sacri a Diana, e marita le ninfe
per forza, ed edifica Fiesole, ed introduce la civiltà e la
coltura. Così il mondo mitologico perisce con le sue
selvatiche istituzioni, e comincia il viver civile conforme alle
leggi della natura e dell'amore.
Il racconto è diviso in sette parti o
canti ed è in ottava rima. L'autore, non costretto a
gonfiare le gote nè a raffinare i sentimenti, si fa cullare
dolcemente dalla sua immaginazione in questo mondo idillico, e
descrive paesaggi e scene di famiglia e costumi pastorali con una
facilità che spesso è negligenza, non è mai
affettazione o esagerazione. La tromba è mutata nella
zampogna, suono più umile, ma uguale e armonioso: l'ottava
procede piana e naturale, talora troppo rimessa; e non mancano di
bei versi imitativi. Africo e Mensola debbono dividersi,
chè l'ora è tarda; e il poeta dice:
Partir non si sanno,
ma or si partono, or tornano, or vanno.
Altrove dice:
sempre mirandosi avanti ed intorno,
se Mensola vedea, poneva mente.
Frequente è in lui l'uso dello sdrucciolo in mezzo al
verso, e quell'entrare de' versi l'uno nell'altro, che slega e
intoppa le sue ottave eroiche, ma dà a queste ottave
idilliche un aspetto di naturalezza e di grazia. Il suo periodo
poetico, saltellante e imbrogliato nella Teseide, qui è
corrente e spedito, assai prossimo al linguaggio naturale e
familiare:
Ella lo vide prima che lui lei,
perchè' a fuggir del campo ella prendea:
Africo la sentì gridare - Omei! -
e poi guardando fuggir la vedea:
e infra se disse: - Per certo costei
è Mensola -, e poi dietro le correa;
e sì la prega e per nome la chiama,
dicendo: - Aspetta quel che tanto t'ama. -
Africo dorme; e il padre dice alla moglie, Alimena:
O cara sposa,
nostro figliuol mi pare addormentato,
e molto ad agio in sul letto si posa,
sì che a destarlo mi parria peccato,
e forse gli saria cosa gravosa
se io l'avessi del sonno svegliato.
- E tu di' vero, - diceva Alimena -
lascial posare e non gli dar più pena. -
Manca il rilievo: per soverchia naturalezza si casca nel triviale
e nel volgare. Più tardi verrà il grande artista,
che calerà in questo mondo della natura e dell'amore appena
sbozzato e pur ora uscito alla luce, e gli darà l'ultima e
perfetta forma.
Simile di disegno, ma in più larghe
proporzioni, è il Ninfale d'Ameto. È il trionfo
della natura e dell'amore sulla barbarie de' tempi primitivi. E il
barbaro qui non è la ninfa, sacrata a Diana, che per
violenza di natura rompe il voto, ma è il pastore,
abitatore della foresta co' fauni e le driadi, che scendendo al
piano lascia l'alpina ferita e prende abito civile. Il luogo della
scena comincia in Fiesole, negli antichissimi tempi detta Corito,
quando vi abitavano le ninfe e non era venuto ancora Atalante a
cacciarle via e introdurvi costumi umani. Così l'Ameto si
collega col Ninfale fiesolano. Il pastore Ameto erra e caccia su
pel monte e per la selva, quando un dì affaticato giunge
co' suoi cani al piano, presso il Mugnone; e riposando e
trastullandosi co' cani, gli giunge all'orecchio un dolce canto, e
guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla
bellissima Lia. Sono ninfe, non sacrate a Diana, ma a Venere. Lia
racconta nella sua canzone la storia di Narciso, "bellissimo e
crudo cacciatore", che, rifiutando il caro amore delle donne e
innamorato della sua immagine, fu convertito in fiore. Ameto parte
pensoso, recando seco l'immagine di Lia. Venuta la primavera,
torna al piano, e cerca e chiama Lia, descrivendo la sua bellezza
e offrendole doni:
Tu se' lucente e chiara più che il vetro
ed assai dolce più ch'uva matura;
nel cuor ti sento, ov'io sempre t'impetro
E siccome la palma in ver l'altura
si stende, così tu, viepiù
vezzosa
che 'l giovanetto agnel ne la pastura;
e sei più cara assai e grazïosa
che le fredde acque a' corpi faticati,
o che le fiamme a' freddi, e ch'altra cosa.
E i tuoi capei più volte ho simigliati
di Cerere a le paglie secche e bionde,
dintorno crespi al tuo capo legati...
Vieni, ch'io serbo a te giocondo dono,
che io ho còlti fiori in abbondanza
agli occhi bei, d'odor soave e buono.
E siccome suol esser mia usanza,
le ciriege ti serbo, e già per poco
non si riscaldan per la tua distanza.
Con queste, bianche e rosse come fuoco
ti serbo gelse, mandorle e susine,
fravole e bozzacchioni in questo loco.
Belle peruzze e fichi senza fine,
e di tortole ho presa una nidiata,
le più belle del mondo, e piccoline...
Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio traggono
pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto trova la sua Lia fra
bellissime ninfe, delle quali contempla le bellezze parte a parte,
fatto giudice esperto e amoroso. E tutti fan cerchio a un pastore
che canta le lodi di Venere e di Amore. Sopravvengono altre ninfe,
le quali "non umane pensava, ma dèe", e contempla rapito
celesti bellezze, e di pastore si sente divenuto amante, dicendo:
"Io, usato di seguire bestie, amore poco avanti da me non saputo
seguendo, non so come mi convertirò in amante seguendo
donne". Le belle ninfe gli siedono intorno, ed egli scioglie un
inno a Giove e canta la sua conversione. Questi sono gli
antecedenti del romanzo, sparsi di vaghissime descrizioni di
bellezze femminili in quella forma minuta e stancante che è
il vezzo dell'autore. Lia propone che ciascuna ninfa canti la sua
storia e canti la deità reverita da lei, acciocchè
"oziose, come le misere fanno, non passino il chiaro giorno".
Sedute in cerchio e posto in mezzo Ameto, come loro presidente o
antistite, cominciano i loro racconti. Sono sette ninfe: Mopsa,
Emilia, Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta e Lia, ciascuna
consacrata a una divinità, Pallade, Diana, Pomena, Bellona,
Venere, delle quali si cantano le lodi. Ne' racconti delle ninfe
vedi la vittoria dell'amore e della natura sulla ferina
salvatichezza degli uomini, e all'ozio bestiale tener dietro le
arti di Pallade, di Diana, di Astrea, di Pomena e di Bellona, la
cultura e l'umanità. Ti vedi innanzi svilupparsi tutto il
mondo della cultura, e cominciare da Atene ed in ultimo posare in
Etruria, dove l'autore con giusto orgoglio pone il principio della
nuova cultura. Da ultimo apparisce una luce una e trina, entro la
quale guardando Ameto, Mopsa gli occhi asciugandoli, da quelli
levò l'oscura caligine, sì che nella luce triforme
ravvisa la celeste e santa Venere, madre di amore puro e
intellettuale. Tuffato nella fonte da Lia, gittati i panni
selvaggi e lavato di ogni lordura, si sente "di bruto fatto uomo",
e "vede chi sieno le ninfe, le quali più all'occhio che
all'intelletto erano piaciute, e ora all'intelletto piacciono
più che all'occhio; discerne quali sieno i templi, quali le
dee di cui cantano e chenti sieno i loro amori, e non poco in
sè si vergogna de' concupiscevoli pensieri avuti". Le
ninfe, le quali non sono altro che le scienze e le arti della vita
civile, tornano alla celeste patria, e Ameto canta la sua
redenzione dallo stato selvaggio.
Questo disegno evidentemente è uscito da
una testa giovanile, ancora sotto l'azione di tutti i diversi
elementi di quella cultura. Palpabili sono le reminiscenze della
Divina Commedia. Lia e Fiammetta ricordano Matilde e Beatrice. Il
concetto nella sua sostanza è dantesco: è
l'emancipazione dell'uomo, il quale, percorse le vie del senso e
dell'amore sensuale, è dalla scienza innalzato all'amore di
Dio. Anche la forma allegorica è dantesca, non essendo
quelle apparizioni che simboli di concetti e figure di quelle
separate intelligenze che presiedono alle stelle e regolano i moti
dell'animo. Tutto questo si trova inviluppato in un mondo
mitologico, che è la sua negazione, animato da un
naturalismo spinto sino alla licenza: Apuleio e Longo contendono
con Dante nel cervello dello scrittore. Il romanzo, che
nell'intenzione dovrebbe essere spirituale, è nel fatto
soverchiato da un vivo sentimento della bella natura e de' piaceri
amorosi. Si vede il giovane, che sta con Dante in astratto, ma ha
pieno il capo di mitologia, di romanzi greci e franceschi, di
avventure licenziose, e fa di tutto una mescolanza. Se qualche
cosa in questa noiosa lettura ti alletta, è dove lo
scrittore si abbandona alla sua natura, com'è la comica
descrizione che Acrimonia fa del suo vecchio marito, nel quale
intravvedi già il povero dottore a cui Paganino rubò
la moglie, e com'è qua e là qualche pittura e
sentimento idillico. Pure, in un mondo così dissonante e
scordato si sviluppa chiaramente un entusiasmo giovanile per la
coltura e l'umanità. Ci si sente il secolo, che scuote da
sè la rozza barbarie, e s'incammina fidente verso un mondo
più colto e polito. Ameto si spoglia il ruvido abito del
medio evo, e guidato dalle muse prende aspetto gentile e umano. Le
ombre del misticismo si diradano nel tempio di Venere. Dante canta
la redenzione dell'anima nell'altro mondo. Il Boccaccio canta la
fine della barbarie e il regno della coltura. È lo spirito
nuovo, da cui più tardi uscirà Lorenzo de' Medici e
Poliziano.
Gittando ora un solo sguardo su questi lavori,
si possono raccogliere con chiarezza i caratteri della nuova
cultura. Le teorie in astratto rimangono le stesse, e il Boccaccio
pensa come Dante. Ma nel fatto lo spirito abbandona il cielo e si
raccoglie in terra: perde la sua idealità e la sua
inquietudine, e diviene tranquillo, calato tutto e soddisfatto
nella materia della sua contemplazione. A un mondo lirico di
aspirazioni indefinite, espresso nella visione e nell'estasi,
succede un mondo epico, che ha ne' fatti umani e naturali il suo
principio e il suo termine. Il poeta in luogo d'idealizzare
realizza, cioè a dire fugge le forme sintetiche e
comprensive che gittano lo spirito in un di là da esse, e
cerca una forma nella quale l'immaginazione si trovi tutta e si
riposi. Non ci è più il "forse" e il "parere", non
una forma appena abbozzata, quasi velo di qualcos'altro, ma una
forma terminata e chiusa in sè e corpulenta, nella quale
l'oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti:
alla terzina succede l'analitica ottava. Rimangono ancora le
terzine, e le visioni e le allegorie, i sonetti e le canzoni, ma
come forme prettamente convenzionali e d'imitazione, sciolte dallo
spirito che le ha generate: il passato per lungo tempo si continua
come morta forma in un mondo mutato. Succedono forme giovani e
nuove, più conformi a un contenuto epico. Sul mondo
inquieto delle allegorie e delle visioni si alza il sereno e
tranquillo mondo pagano, con le sue deità umanizzate, con
la sua natura animata, col suo vivo sentimento della bellezza, con
la sua disinteressata contemplazione artistica. Queste tendenze
non trovano soddisfazione in un contenuto eroico e cavalleresco,
perchè la serietà di una vita eroica e cavalleresca
è ita via insieme col medio evo, e non è più
nella coscienza, e non può essere altro che imitazione
letteraria e artificio rettorico. Più conveniente a quelle
forme è la vita idillica, ne' cui tranquilli ozi, nella cui
semplicità e chiarezza l'anima, agitata dalle lotte
politiche e turbata dalle ombre di un mondo trascendente, si
raccoglie come in un porto e si riposa. L'idillio è la
prima forma nella quale si manifesta questa nuova generazione,
fiacca e stanca, pur colta ed erudita, che chiama barbara la
generazione passata, e celebra i nuovi tempi della coltura e
dell'umanità, invocando Venere e Amore.
Specchio di questa società nelle sue
fluttuazioni, nelle sue imitazioni, nelle sue tendenze, è
il Boccaccio. I suoi tentennamenti e le sue dissonanze provengono
dalla coesistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi, vivi
e morti, mescolati. Un doppio involucro, mistico e mitologico,
circonda come una nebbia questo mondo della natura.
Fra questi tentennamenti si andò
formando il Decamerone. Il Boccaccio lascia qui cavalleria,
mitologia, allegoria, e tutto il suo mondo classico, tutte le sue
reminiscenze dantesche, e si chiude nella sua società, e ci
vive e ci gode, perchè ivi trova se stesso, perchè
vive anche lui di quella vita comune. Par così facile
attingere la società in questa forma diretta e immediata:
pur si vede quanto laboriosa gestazione è necessaria,
perchè esca alla luce il mondo del tuo spirito.
Quel mondo esisteva prima del Decamerone. In
Italia abbondavano romanzi e novelle e "canzoni latine", canti
licenziosi. Le donne, come abbiam visto, leggevano secretamente
tra loro questi libri profani, e i novellatori intrattenevano le
liete brigate con racconti piacevoli e licenziosi. Il fondo comune
de' romanzi erano le avventure de' cavalieri della Tavola rotonda
e di Carlomagno Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran
numero di questi eroi ed eroine, Artù, Lancillotto,
Galeotto, Isotta la bionda, Chedino, Palamides, Lionello,
Tristano, Orlando, Uliviero, Rinaldo, Guttifré, Roberto
Guiscardo, Federico Barbarossa, Federico secondo. Egli medesimo
scrisse romanzi per far piacere alle donne, e rifatto il romanzo
di Florio e Biancofiore, cercò un teatro più
conforme a' suoi studi classici ne' tempi eroici e primitivi delle
greche tradizioni. Pure, le novelle doveano riuscire più
popolari e più gradite, perchè più conformi
a' tempi e a' costumi. E se ne raffazzonavano o inventavano di
ogni sorta, serie e comiche, morali e oscene, variate e abbellite
da' novellatori secondo i gusti dell'uditorio. La novella era
dunque un genere vivente di letteratura, lasciato in balia
dell'immaginazione, e come materia profana e frivola, trascurata
dagli uomini colti. Rivale della novella era la leggenda co' suoi
miracoli e le sue visioni. Gli uomini colti si tenevano alto in
una regione loro propria, e lasciavano a' frati i Fioretti di san
Francesco e la Vita del beato Colombino, e a' buontemponi la
semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.
In questo mondo profano e frivolo entrò
il Boccaccio, con non altro fine che di scrivere cose piacevoli e
far cosa grata alla donna che gliene avea data commissione. E
raccolse tutta quella materia informe e rozza, trattata da
illetterati, e ne fece il mondo armonico dell'arte.
Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle
quali il Boccaccio ha attinte le sue novelle. E molti credono si
tolga qualche cosa alla sua gloria, quando sia dimostrato che la
più parte de' suoi racconti non sono sua invenzione, quasi
che il merito dell'artista fosse nell'inventare, e non piuttosto
nel formare la materia. Fatto è che la materia, così
nella Commedia e nel Canzoniere come nel Decamerone, non
uscì dal cervello di un uomo, anzi fu il prodotto di una
elaborazione collettiva, passata per diverse forme, insino a che
il genio non l'ebbe fissata e fatta eterna.
Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto
diversi nomi, ma non c'era la novella, e tanto meno il novelliere,
in cui i singoli racconti fossero composti ad unità e
divenissero un mondo organico. Questo organismo vi spirò
dentro il Boccaccio, e di racconti diversi di tempi, di costumi e
di tendenze fece il mondo vivente del suo tempo, la società
contemporanea, della quale egli aveva tutte le tendenze nel bene e
nel male.
Non è il Boccaccio uno spirito superiore
che vede la società da un punto elevato e ne scopre le
buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza. È un
artista che si sente uno con la società in mezzo a cui
vive, e la dipinge con quella mezza coscienza che hanno gli uomini
fluttuanti fra le mobili impressioni della vita, senza darsi la
cura di raccogliersi e analizzarle. Qualità che lo
distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca, spiriti
raccolti ed estatici. Il Boccaccio è tutto nel mondo di
fuori tra' diletti e gli ozi e le vicissitudini della vita, e vi
è occupato e soddisfatto, e non gli avviene mai di piegarsi
in sè, di chinare il capo pensoso. Le rughe del pensiero
non hanno mai traversata quella fronte, e nessun'ombra è
calata sulla sua coscienza. Non a caso fu detto "Giovanni della
tranquillità". Sparisce con lui dalla nostra letteratura
l'intimità, il raccoglimento, l'estasi, la inquieta
profondità del pensiero, quel vivere dello spirito in
sè, nutrito di fantasmi e di misteri. La vita sale sulle
superficie e vi si liscia e vi si abbellisce. Il mondo dello
spirito se ne va: viene il mondo della natura.
Questo mondo superficiale, appunto
perchè vuoto di forze interne e spirituali, non ha
serietà di mezzi e di scopo. Ciò che lo move non
è Dio, nè la scienza, non l'amore unitivo
dell'intelletto e dell'atto, la grande base del medio evo; ma
è l'istinto o l'inclinazione naturale: vera e violenta
reazione contro il misticismo. Ti vedi innanzi una lieta brigata,
che cerca dimenticare i mali e le noie della vita, passando le
calde ore della giornata in piacevoli racconti. Era il tempo della
peste, e gli uomini con la morte innanzi si sentivano sciolti da
ogni freno e si abbandonavano al carnevale della loro
immaginazione. Di questo carnevale il Boccaccio aveva l'immagine
nella corte ove avea passati i suoi più bei giorni,
attingendo le sue ispirazioni in quel letame, sul quale le Muse e
le Grazie sparsero tanti fiori. Un congegno simile trovi
già nell'Ameto, un decamerone pastorale: se non che ivi i
racconti sono allegorici e preordinati ad un fine astratto: non
c'è lo spirito della Divina Commedia, ma ce n'è
l'ossatura. Qui al contrario i racconti non hanno altro fine che
di far passare il tempo piacevolmente, e sono veri mezzani di
piacere e d'amore, il vero Principe Galeotto, titolo italiano del
novelliere, velato pudicamente da un titolo greco. I personaggi
evocati nell'immaginazione da diversi popoli e tempi appartengono
allo stesso mondo, vuoto al di dentro, corpulento al di fuori.
Personaggi, attori, spettatori e scrittore sono un mondo solo, il
cui carattere è la vita tutta al di fuori, in una
tranquilla spensieratezza.
Questo mondo è il teatro de' fatti umani
abbandonati al libero arbitrio e guidati ne' loro effetti dal
caso. Dio o la provvidenza ci sta di nome, quasi per un tacito
accordo, nelle parole di gente caduta nella più profonda
indifferenza religiosa, politica e morale. E non c'è
neppure quella intima forza delle cose, che crea la logica degli
avvenimenti e la necessità del loro cammino; anzi
l'attrattivo del racconto è proprio nell'opposto, mostrando
le azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un fine
affatto contrario a quello che ragionevolmente si potea
presupporre. Nasce una nuova specie di maraviglioso, generato non
dall'intrusione nella vita di forze oltrenaturali sotto forma di
visioni o miracoli, ma da uno straordinario concorso di accidenti
non possibili ad essere preveduti e regolati. L'ultima impressione
è che signore del mondo è il caso. Ed è
appunto nel vario giuoco delle inclinazioni e delle passioni degli
uomini sottoposte a' mutabili accidenti della vita che è
qui il deus ex machina, il dio di questo mondo.
E poichè la macchina è il
maraviglioso, l'imprevisto, il fortuito, lo straordinario,
l'interesse del racconto non è nella moralità degli
atti, ma nella loro straordinarietà di cause e di effetti.
Non già che il Boccaccio sconosca il mondo morale e
religioso, ed alteri le nozioni comuni intorno al bene od al male,
ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona.
Poco a lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò
che importa è che possa stuzzicare la curiosità con
la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri. La
virtù, posta qui a fare effetto sull'immaginazione, manca
di semplicità e di misura, e diviene anch'essa un
istrumento del maraviglioso, condotta ad una esagerazione, che
scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il difetto di senso
morale. Esempio notabile è la Griselda, il personaggio
più virtuoso di quel mondo. La quale per mostrarsi buona
moglie soffoca tutti i sentimenti della natura e la sua
personalità e il suo libero arbitrio. L'autore, volendo
foggiare una virtù straordinaria, che colpisca di
ammirazione gli uditori, cade in quel misticismo contro di cui si
ribella e che mette in gioco, collocando l'ideale della
virtù femminile nell'abdicazione della personalità,
a quel modo che secondo l'ideale teologico la carne è
assorbita dallo spirito e lo spirito è assorbito da Dio. Si
rinnova il sacrificio di Abramo, e il Dio che mette la natura a
così crudel prova è qui il marito. Similmente la
virtù in Tito e Gisippo è collocata così
fuori del corso naturale delle cose, che non ti alletta come un
esempio, ma ti stupisce come un miracolo. Ma virtù
eccezionali e spettacolose sono rare apparizioni, e ciò che
spesso ti occorre è la virtù tradizionale di tempi
cavallereschi e feudali, una certa generosità e gentilezza
di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie
cavalleresche ed eroiche in tempi borghesi. La qual virtù
è in questo, che il principe usa la sua potenza a
protezione de' minori, e soprattutto degli uomini valenti
d'ingegno e di studi e poco favoriti dalla fortuna, come furono
Primasso e Bergamino, verso i quali si mostrarono magnifici
l'abate di Cligny e Can Grande della Scala. Così è
molto commendato il primo Carlo d'Angiò, il quale, potendo
rapire e sforzare due bellissime fanciulle, figliuole di un
ghibellino, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle.
La virtù in questi potenti signori è di non fare
malvagio uso della loro forza, anzi di mostrarsi liberali e
cortesi. Già cominciava in quel mondo a parer fuori una
classe di letterati, che viveva alle spese di questa virtù,
celebrando con giusto cambio una magnificenza, della quale
assaporavano gli avanzi. L'anima altera di Dante mal vi si
piegava, nè gli fu ultima cagione d'amarezza quel mendicare
la vita a frusto a frusto e scendere e salire per le altrui scale.
Ma i tempi non erano più all'eroica, e il Petrarca si
lasciava dotare e mantenere da' suoi mecenati, e il Boccaccio
vivea de' rilievi della corte di Napoli, comicamente imbestiato,
quando il mantenimento non era dicevole a un par suo, disposto da'
buoni o da' cattivi cibi al panegirico o alla satira. Tale
è il tipo di ciò che in questo mondo boccaccevole
è chiamato la virtù, una liberalità e
gentilezza d'animo, che dalle castella penetra nelle città
e fino ne' boschi, asilo de' masnadieri, della quale sono esempio
Natan, e il Saladino, e Alfonso, e Ghino di Tacco, e il negromante
di Ansaldo. Questo, se non è propriamente senso morale,
è pur senso di gentilezza, che raddolcisce i costumi e
spoglia la virtù del suo carattere teologico e mistico,
posto nell'astinenza e nella sofferenza, le dà aspetto
piacevole, più conforme ad una società colta e
allegra. Vero è che siccome il caso, regolatore di questo
mondo, ne fa di ogni maniera, talora l'allegria che vi domina
è funestata da tristi accidenti, che turbano il bel sereno.
Ma è una nuvola improvvisa, la quale presto si scioglie e
rende più cara la vista del sole, o come dice la Fiammetta,
è una "fiera materia, data a temperare alquanto la
letizia". Volendo guardare più profondamente in questo
fenomeno, osserviamo che la gioia ha poche corde, e sarebbe cosa
monotona, noiosa, e perciò poco gioiosa, come avviene
spesso ne' poemi idillici, se il dolore non vi si gittasse entro
con le sue corde più varie e più ricche d'armonia,
traendosi appresso un corteggio di vivaci passioni, l'amore, la
gelosia, l'odio, lo sdegno, l'indignazione. Il dolore ci sta qui
non per sè, ma come istrumento della gioia, stuzzicando
l'anima, tenendola in sospensione e in agitazione, insino a che
per benignità della fortuna o del caso comparisce
d'improvviso il sereno. E quando pure il fatto sorta trista fine,
com'è in tutt'i racconti della giornata quarta, l'emozione
è superficiale ed esterna, esaltata e raddolcita in
descrizioni, discorsi e riflessioni, e non condotta mai sino allo
strazio, com'è nel fiero dolore di Dante. Sono fugaci
apparizioni tragiche in questo mondo della natura e dell'amore,
provocate appunto dalla collisione della natura e dell'amore non
con un principio elevato di moralità, ma con la
virtù cavalleresca, "il punto d'onore". Di che bellissimo
esempio, oltre il Gerbino, è il Tancredi, che testimone
della sua onta uccide l'amante della figliuola, e mandale il cuore
in una coppa d'oro: la quale, messa sopra esso acqua avvelenata,
quella si bee e così muore. Il motivo della tragedia
è il punto d'onore, perchè ciò che move
Tancredi è l'onta ricevuta, non solo per l'amore della
figliuola, ma ancora più per l'amore collocato in uomo di
umile nazione. Ma la figliuola dimostra vittoriosamente al padre
la legittimità del suo amore e della sua scelta, invocando
le leggi della natura e il concetto della vera nobiltà,
posta non nel sangue, ma nella virtù; e l'ultima
impressione è la condanna del padre indarno pentito e
piangente sul morto corpo della figliuola, il quale apparisce non
come giusto vendicatore del suo onore offeso, ma come ribelle
verso la natura e l'amore. L'effetto estetico è la
compassione verso il padre e la figliuola, l'una di alto animo,
l'altro umano e di benigno ingegno, vittime tutti e due non per
difetto proprio, ma per le condizioni del mondo in mezzo a cui
vivono. La conclusione ultima è la rivendicazione delle
leggi della natura e dell'amore verso gli ostacoli in cui
s'intoppano. Sicchè la tragedia è qui il suggello e
la riprova del mondo boccaccevole, e il dolore fugace che vi fa la
sua comparsa, presentato nella sua forma più mite e tenera,
vicina alla compassione, è come il condimento della gioia,
a lungo andare insipida, quando sia abbandonata a se stessa.
La base della tragedia è mutata. Non
è più il terrore che invade gli spettatori incontro
a un fato incomprensibile che si manifesta nella catastrofe, come
ne' greci, e neppure l'espiazione per le leggi di una giustizia
superiore, come nell'inferno dantesco; ma è il mondo
abbandonato alle sue forze naturali e cieche, nel cui conflitto
rimane l'amore come una specie di diritto superiore, incontro a
cui tutti hanno torto. La natura, che nel mondo dantesco è
il peccato, qui è la legge, ed ha contro di sè non
un mondo religioso e morale, di cui non è vestigio,
ancorchè ammesso in astratto e in parola, ma la
società come si trova ordinata in quel complesso di leggi,
di consuetudini che si chiamano l'"onore". Il conflitto è
tutto però al di fuori nell'ordine de' fatti prodotti dal
diverso urto di queste forze e terminati dalla benignità o
malvagità del caso o della fortuna; e non sale a vera
opposizione interna che sviluppi le passioni e i caratteri. Il
poeta non è un ribelle alle leggi sociali e tantomeno un
riformatore; prende il mondo com'è, e se le sue simpatie
sono per le vittime dell'amore, non biasima per ciò coloro
che dall'onore sono mossi ad atti crudeli, anch'essi degni di
stima, vittime anch'essi. Così esalta Gerbino, che volle
romper la fede data dal re, suo zio, anzi che mancare alle leggi
dell'amore ed esser tenuto vile; ma non biasima il re che lo fece
uccidere, "volendo anzi senza nipote rimanere, ch'essere tenuto re
senza fede". Ne nasce in mezzo all'agitazione de' fatti esteriori
una calma interna, una specie di equilibrio, dove l'emozione non
penetra se non quanto è necessario a ravvivare e variare
l'esistenza. Perciò in questo mondo borghese e indifferente
e naturale la tragedia rimane esteriore e superficiale, naufragata
qui come un frammento galleggiante nella vastità delle
onde. Il movimento non ha radice nella coscienza, nelle forti
convinzioni e passioni stimolate dal contrasto, ma si scioglie in
un giuoco di immaginazione, in una contemplazione artistica de'
vari casi della vita, che sorprendano e attirino la tua
attenzione. Per dirla con un solo vocabolo comprensivo,
virtù e vizi qui non hanno altro significato che di
"avventure", ovvero casi straordinari tirati in iscena dal
capriccio del caso. Gli uditori non vi prendono altro interesse
che di trovarvi materia a passare il tempo con piacere; e del loro
piacere è mezzana la stessa virtù e lo stesso
dolore.
Un mondo, il cui dio è il caso e il cui
principio direttivo è la natura, non è solo
spensierato e allegro, ma è anche comico. Già quel
non prendere in nessuna serietà gli avvenimenti e farne un
giuoco di pura immaginazione, quell'intreccio capriccioso de'
casi, quell'equilibrio interno che si mantiene sereno tra le
più crudeli vicissitudini, sono il terreno naturale su cui
germina il comico. Un'allegrezza vuota d'intenzione e di
significato è cosa insipida, è appunto quel riso che
abbonda nella bocca degli stolti. Perchè il riso abbia
malizia o intelligenza, dee avere una intenzione e un significato,
dee esser comico. E il comico dà a questo mondo la sua
fisonomia e la sua serietà.
Questa società è essa medesima
una materia comica, perchè niente è più
comico che una società spensierata e sensuale, da cui
escono i tipi di don Giovanni e di Sancio Panza. Ma è una
società che rappresentava a quel tempo quanto di più
intelligente e colto era nel mondo, e ne aveva coscienza. Una
società siffatta aveva il privilegio di esser presa sul
serio da tutto il mondo e di poter ridere essa di tutto il mondo.
In effetti due cose serie sono in queste novelle, l'apoteosi
dell'ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e rispettare
da' più potenti signori, e una certa alterezza borghese che
prende il suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de'
baroni e de' conti. Questi sono i caratteri di quella classe a cui
apparteneva il Boccaccio, istruita, intelligente, che teneva
sè civile e tutto l'altro barbarie. E il comico qui nasce
appunto da questo: è la caricatura che l'uomo intelligente
fa delle cose e degli uomini posti in uno strato inferiore della
vita intellettuale. La società colta aveva innanzi a
sè i frati ed i preti, o come dice il Boccaccio, le cose
cattoliche, orazioni, confessioni prediche, digiuni,
mortificazioni della carne, visioni e miracoli; e dietro stava la
plebe con la sua sciocchezza e la sua credulità. Sopra
questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio fa sonare la
sferza.
Materia del comico è dunque l'efficacia
delle orazioni, come il "paternostro" di san Giuliano, il modo di
servire Dio nel deserto, la vita pratica de' frati, de' preti e
delle monache in contraddizione con le loro prediche, l'arte della
santificazione insegnata a fra Puccio, i miracoli e le apparizioni
de' santi, come l'apparizione dell'angelo Gabriello, e la
semplicità della plebe, trastullo dei furbi. Visibile
soprattutto è la reazione della carne contro gli eccessivi
rigori di un clero che proscriveva il teatro e la lettura de'
romanzi, e predicava i digiuni e i cilizi come la via al paradiso.
È una reazione che si annunzia naturalmente con la licenza
e il cinismo. La carne scomunicata si vendica, e chiama
"meccanici" i suoi maldicenti, cioè gente che giudica
grossamente secondo l'opinione volgare. Così il mondo dello
spirito in quelle sue forme eccessive è divenuto per questa
gente il mondo volgare. È immaginabile con che
voluttà la carne dopo la lunga compressione si sfoghi, con
che delizia ti ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti,
scegliendo i modi e le frasi più scomunicate, e talora
volgendo a senso osceno frasi e immagini sacre. È il mondo
profano in aperta ribellione, che ha rotto il freno e fa la
caricatura al padrone, cadutogli di sella. Su questo fondo comico
s'intreccia una grande varietà di accidenti, di cui sono
gli eroi i due protagonisti immortali di tutte le commedie, chi
burla e chi si fa burlare, i furbi e i gonzi, e di questi i
più martoriati e i più innocenti, i mariti. E fra
tanti accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri
comici, de' quali alcuni sono rimasti veri tipi, come il
cattivello di Calandrino e lo scolare vendicativo che sa dove il
diavolo tien la coda. I caratteri seri sono piuttosto
singolarità che tipi, individui perduti nella minutezza ed
eccezionalità della loro natura, come Griselda, Tito, il
conte di Anguersa, madama Beritola, Ginevra e la Salvestra e
l'Isabetta e la figlia di Tancredi. Ma i caratteri comici sono la
parte viva e intima e sentita di questo mondo, e riflettono in
sè fisonomie universali che incontrate nell'uso comune
della vita, come compar Pietro e maestro Simone e fra Puccio e il
frate montone e il giudice squasimodeo e monna Belcolore e Tofano
e Gianni Lotteringhi, e tutte le varietà, perchè
"infinita è la turba degli stolti". Così questo
mondo spensierato e gioviale si disegna, prende contorni, acquista
una fisonomia, diviene la "commedia umana".
Ecco, a così breve distanza, la commedia
e l'anticommedia, la "Divina Commedia" e la sua parodia, la
"commedia umana"! E sullo stesso suolo e nello stesso tempo
Passavanti, Cavalca, Caterina da Siena, voci dell'altro mondo,
soverchiate dall'alto e profano riso di Giovanni Boccaccio. La
gaia scienza esce dal suo sepolcro col suo riso incontaminato; i
trovatori e i novellatori, spenti da' ferri sacerdotali, tornano a
vita e ripigliano le danze e le gioiose canzoni nella guelfa
Firenze; la novella e il romanzo, proscritti, proscrivono alla lor
volta e rimangono padroni assoluti della letteratura. Certo,
questo mutamento non viene improvviso, come appare un moto di
terra: lo spirito laicale è visibile in tutta la
letteratura e si continua con tradizione non interrotta, come
s'è visto, insino a che nella Divina Commedia prende
arditamente il suo posto e si proclama anch'esso sacro e di
diritto divino, e Dante, laico, assume tono di sacerdote e di
apostolo. Ma Dante il fa con tanta industria che tutto l'edificio
stia in piedi e la base rimanga salda. La sua "commedia" è
una riforma; la "commedia" del Boccaccio è una rivoluzione,
dove tutto l'edificio crolla e sulle sue rovine escono le
fondamenta di un altro.
La Divina Commedia uscì dal numero de'
libri viventi, e fu interpretata come un libro classico, poco
letta, poco capita, pochissimo gustata, ammirata sempre. Fu
divina, ma non fu più viva. E trasse seco nella tomba tutti
quei generi di letteratura, i cui germi appaiono così
vivaci e vigorosi ne' suoi schizzi immortali, la tragedia, il
dramma, l'inno, la laude, la leggenda, il mistero. Insieme
perirono il sentimento della famiglia e della natura e della
patria, la fede in un mondo superiore, il raccoglimento e l'estasi
e l'intimità, le caste gioie dell'amicizia e dell'amore,
l'ideale e la serietà della vita. In questo immenso mondo,
crollato prima di venire a maturità e produrre tutti i suoi
frutti, ciò che rimase fecondo fu Malebolge, il regno della
malizia, la sede della umana commedia. Quel Malebolge, che Dante
gitta nel loto, e dove il riso è soverchiato dal disgusto e
dalla indignazione, eccolo qui che mena sulla terra la sua ridda
infernale, abbigliato dalle Grazie, e si proclama esso il vero
paradiso, come capì don Felice e non capì il povero
frate Puccio. In effetti qui il mondo è preso a rovescio.
"Commedia" per Dante è la beatitudine celeste. "Commedia"
pel Boccaccio è la beatitudine terrena, la quale tra gli
altri piaceri dà anche questo, di passare la malinconia
spassandosi alle spalle del cielo. La carne si trastulla, e chi ne
fa le spese è lo spirito.
Se la reazione contro uno spiritualismo
esagerato e lontanissimo dalla vita pratica fosse venuta da lotte
vivaci nelle alte regioni dello spirito, il movimento sarebbe
stato più lento o più contrastato, come negli altri
popoli, ma insieme più fecondo. Il contrasto avrebbe
fortificata la fede negli uni e le convinzioni negli altri, e
generata una letteratura piena di vigore e di sostanza, alla quale
non sarebbe mancata nè la passione di Lutero, nè
l'eloquenza di Bossuet, nè il dubbio di Pascal, nè
le forme letterarie possibili solo dove la vita interiore è
forte e sana. Così il movimento sarebbe stato insieme
negativo e positivo, il distruggere sarebbe stato insieme
l'edificare. Ma le audacie del pensiero punite inesorabilmente,
troncata col sangue l'opposizione ghibellina, rimaso il papato
arbitro e vicino e sospettoso e vigile, quel mondo religioso
così corrotto ne' costumi, come assoluto nelle dottrine e
grottesco nelle forme, al contatto con una coltura così
rapida e con lo spirito fatto adulto e maturo dallo studio degli
antichi scrittori, non potè esser preso sul serio dalla
gente colta, che pure è quella che ha in mano l'indirizzo
della vita nazionale. Nacque a questo modo la scissura tra la
gente colta e tutto il rimanente della società, che pure
era la gran maggioranza, rimasa passiva e inerte in mano al prete
di Varlungo, a donno Gianni, a frate Rinaldo e a frate Cipolla.
Sicchè per la gente istruita quel mondo divenne il mondo
del volgo, o de' meccanici, e saperne ridere era segno di coltura:
ne ridevano anche i chierici che volevano esser tenuti uomini
colti. Così coesistevano l'una accanto all'altra due
società distinte, senza troppo molestarsi. La
libertà del pensiero era negata; vietato mettere in dubbio
la dottrina astratta; ma quanto alla pratica, era un altro affare,
si viveva e si lasciava vivere, trastullandosi tutti e
sollazzandosi nel nome di Dio e di Maria. Gli stessi predicatori
ne davano esempio, cercando di divertire il pubblico con motti e
ciance ed iscede; cosa che al buon Dante muoveva lo stomaco, e che
faceva ridere il Boccaccio, scrivendo nella conclusione del suo
Novelliere: "se le prediche de' frati per rimorder delle lor colpe
gli uomini il più oggi piene di motti e di ciance e di
scede si veggono, estimai che quegli medesimi non stesser male
nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle
femmine."
L'indignazione di Dante era caduta:
sopravvenne il riso, come di cose oramai comuni. Non si move la
bile se non in quelli che credono e veggono profanata la loro
credenza ne' fatti: è la bile de' santi e di tutti gli
uomini di coscienza. Ma quella colta società, vuota di
senso religioso e morale, non era disposta a guastarsi la bile per
i difetti degli uomini. Le "sfacciate donne fiorentine" qui
allettano e lasciviano e fanno "quadri viventi", come si dice e si
fa oggidì. Il traffico delle cose sacre, occasione allo
scisma della credente Germania, e che Dante nella nobile ira sua
chiama "adulterio", qui è materia di amabili frizzi, senza
fiele e senza malizia. La confessione suggerisce l'idea di
equivoci molto ridicoli, ne' quali sono i laici e le laiche, che
la fanno a' preti, uomini "tondi" e "grossi", come si mostra nel
confessore di ser Ciappelletto, e nel frate Bestia, carattere
comico de' meglio disegnati. Il foggiar miracoli, come quel di
Masetto l'ortolan Alberto o di frate Cipolla, il fabbricar santi e
renderli miracolosi, come è di ser Ciappelletto, è
rappresentato con l'allegria comica di gente colta e incredula.
Profanazioni simili fanno ridere, perchè le cose profanate
non ispirano più riverenza.
Questa società tal quale, sorpresa calda
calda nell'atto della vita, è trasportata nel Decamerone:
quadro immenso della vita in tutte le sue varietà di
caratteri e di accidenti i più atti a destare la
maraviglia, sul quale spicca Malebolge tirato dall'inferno e messo
sul proscenio, il mondo sensuale e licenzioso della furberia e
della ignoranza, entro cui si move senza mescolarvisi un mondo
colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di tempi
cavallereschi, vestito un po' alla borghese, spiritoso, elegante,
ingegnoso, gentile, di cui il più bel tipo è
Federigo degli Alberighi. Gli abitanti naturali di questo mondo
sono preti e frati e contadini e artigiani e umili borghesi e
mercatanti, con un corteggio femminile corrispondente, e le alte
risa plebee di questo perpetuo carnevale coprono le donne e i
cavalieri, le armi e gli amori, le cortesie e le imprese di quel
mondo dello spirito, della coltura, dell'ingegno e della eleganza,
allegro anch'esso, ma di un'allegrezza costumata e misurata,
magnifico negli atti, avvenente nelle forme, e nel parlare e ne'
modi decoroso. Questi due mondi, le cui varietà si perdono
nello sfondo del quadro, vivono insieme, producendo un'impressione
unica e armonica di un mondo spensierato e superficiale, tutto al
di fuori nel godimento della vita, menato in qua e in là
da' capricci della fortuna.
Questo doppio mondo così armonizzato
nelle sue varietà riceve la sua intonazione dall'autore e
dalla lieta brigata che lo introduce in iscena. L'autore e i suoi
novellatori appartengono alla classe colta e intelligente. Essi
invocano spesso Dio, parlano della Chiesa con rispetto, osservano
tutte le forme religiose, fanno vacanza il venerdì,
perchè in quel giorno il nostro Signore per la "nostra vita
morì", cantano canzoni platoniche e allegoriche, e menano
vita allegra, ma costumata e quale a gentili persone si richiede.
Lo spirito, l'eleganza, la coltura, le muse rendono questa
società amabile, come oggi si riscontra ne' circoli
più eleganti. Specchio suo è quel mondo della
cortesia, reminiscenza feudale abbellita dalla coltura e dallo
spirito, alla cui immagine si dipinge la colta e ricca borghesia.
E come quel mondo feudale avea i suoi buffoni e giullari, questa
società ha anch'essa chi la rallegri. E i suoi buffoni e
giullari sono quell'infinito mondo che le si schiera innanzi
preti, frati, contadini, artigiani, di cui prende spasso, traendo
piacere così dai babbei come dai furbi. In questo comico
non ci è punto una intenzione seria e alta, come correggere
i pregiudizi, assalire le istituzioni, combattere l'ignoranza,
moralizzare, riformare: nel che sta la superiorità del
comico di Rabelais e di Montaigne, che è la reazione del
buon senso contro un mondo artificiale e convenzionale. Lì
il riso è serio, perchè lascia qualche cosa nella
coscienza; qui il riso è per il riso, per passare
malinconia, per cacciare la noia. Quel mondo plebeo è
guardato come fa un pittore il modello, senz'altra intenzione che
di pigliarne i contorni e i lineamenti e mettere in vista
ciò che può meglio trastullare la nobile brigata.
Nell'immenso naufragio sopravviveva la coscienza letteraria e il
sentimento artistico fortificato dallo spirito e dalla coltura; ed
è da quella coscienza che sono usciti questi capolavori,
modelli idealizzati a uso e piacere di una società
intelligente e sensuale dal geniale artista, idolo delle giovani
donne a cui sono intitolati.
L'ideale comico rimasto come il suggello
dell'immortalità su questi modelli è nella
rappresentazione diretta di questa società così
com'è, nella sua ignoranza e nella sua malizia messa al
cospetto di una società intelligente, che sta lì a
bella posta per applaudire e batter le mani. Il motivo comico non
esce dal mondo morale, ma dal mondo intellettuale. Sono uomini
colti che ridono alle spalle degli uomini incolti, che sono i
più. Perciò il carattere dominante che rallegra la
scena è una certa semplicità di spirito di nature
inculte, messa in risalto quando si trova a contatto con la
furberia: ciò che costituisce il fondo del carattere
sciocco. Con la sciocchezza è congiunta spesso la
credulità, la vanità, la millanteria, la
volgarità de' desidèri. La furberia dà il
rilievo a questo carattere, sì che lo metta in vista nel
suo aspetto ridicolo. Ma la furberia è anch'essa comica,
non certo allo sciocco, ma agl'intelligenti uditori che la
comprendono. Così i due attori concorrono ciascuno per la
parte sua a produrre il riso. Qui è il fondamento della
commedia boccaccevole. Si vede la coltura in quel suo primo
fiorire mostrar coscienza di sè, volgendo in gioco
l'ignoranza e la malizia delle classi inferiori. Il comico ha
più sapore quando i beffati sono quelli che ordinariamente
beffano, quando cioè i furbi, che burlano i semplici, sono
alla lor volta burlati dagl'intelligenti, com'è il
confessore burlato dalla sua penitente.
Il comico talora vien fuori per un improvviso
motto o facezia, che illumina tutta una situazione e provoca il
riso di un tratto e irresistibilmente: ciò che oggi si
direbbe un "tratto di spirito". Sono brevi novelle, il cui sapore,
come nel sonetto, è tutto nella chiusa. Di questo genere
è la novella del giudeo, che guardando a Roma la corruzione
cristiana, si converte al cristianesimo. La chiusa sopraggiunge
così improvvisa e così disforme alle premesse, che
l'effetto è grande. E ce n'è parecchie altre di
questo stampo, e non molto felici, perchè l'autore lavora
sopra un motto già trovato e noto. Tali sono le novelle
della marchesana di Monferrato, di Guglielmo Borsiere e di maestro
Alberto. Questi fuochi incrociati di motti e di frizzi, che
brillano con tanto splendore ne' circoli eleganti e bastano ad
acquistarti riputazione di uomo di spirito, sono la parte
più appariscente, ma più elementare dello spirito.
La fucina dove si fabbricavano motti, facezie, proverbi,
epigrammi, frizzi, era la scuola de' trovatori e della "gaia
scienza". Moltissimi di questi motti si erano già accasati
nel dialetto fiorentino, e con molti altri usciti
dall'immaginazione di un popolo così svegliato e arguto. Il
Decamerone ne è seminato. Ma questi motti, appunto
perchè entrati già nel corpo della lingua, non sono
altro che parole e frasi, un dizionario morto, e raccoglierli e
infilarli, come fa il Burchiello, non è da uomo di spirito.
Sono i colori del comico, non sono il comico esso medesimo. Sono
il patrimonio già acquistato dello spirito nazionale, e
perciò mancanti di quella freschezza e di quell'imprevisto
che è la qualità essenziale dello spirito; nè
possono conseguire un effetto estetico se non associandosi a
qualche cosa di nuovo e d'inaspettato, trovato allora allora che
ti vengono sotto la penna. Ciò fa che il Burchiello
è insipido, e il Boccaccio è spiritoso;
perchè per il Boccaccio i motti e i frizzi non sono scopo a
sè stessi, ma un semplice mezzo di stile, il colorito.
Lo spirito nel suo senso elevato è nel
comico quello che il sentimento è nel serio, una
facoltà artistica. E come il sentimento, così lo
spirito è un grande condensatore, dando una velocità
di percezione che ti faccia cogliere di un tratto sotto contrarie
apparenze il simile o il dissimile. Dove la sagacia giunge per via
di riflessione, lo spirito giunge di un salto e intuitivamente. I
figli di Ugolino nell'esaltazione del sentimento dicono: "Tu ne
vestisti queste misere carni e tu le spoglia". Qui il sentimento
opera nel serio quello che nel comico lo spirito; congiunge
improvvisamente e in una sola frase idee e immagini diverse. Ma
per giungere a questa produzione geniale è necessario che
lo spirito sia anch'esso un sentimento, il sentimento del
ridicolo, cioè a dire che stando in mezzo al suo mondo ne
provi tutte le emozioni, e ci viva entro e ci si spassi,
pigliandovi lo stesso interesse che altri piglia nelle cose
più serie della vita. Pure l'emozione dee esser quella di
uno spettatore intelligente, anzi che di un attore mescolato in
mezzo a' fatti, sì che tu guardi quella calma e prontezza e
presenza di animo, che ti tenga superiore allo spettacolo:
ond'è che il vero uomo di spirito fa ridere e non ride,
lui. È questa calma superiore che rende lo spirito padrone
del suo mondo e glielo fa foggiare a sua guisa, annodando le fila,
sviluppando i caratteri, disegnando le figure, distribuendo i
colori.
Lo spirito del Boccaccio è meno
nell'intelletto che nell'immaginazione, meno nel cercar rapporti
lontani che nel produrre forme comiche. Lo studio che i suoi
antecessori pongono a spiritualizzare, lui lo pone a incorporare.
E cerca l'effetto non in questo o quel tratto, ma nell'insieme,
nella massa degli accessorii tutti stretti come una falange. Gli
antecessori fanno schizzi: egli fa descrizioni. Quelli cercano
l'impressione più che l'oggetto: egli si chiude e si
trincera nell'oggetto e lo percorre e rivolta tutto. Perciò
spesso hai più il corpo e meno l'impressione; più
sensazione che sentimento; più immaginazione che fantasia;
più sensualità che voluttà. Mancano i profumi
a' suoi fiori, mancano i raggi alla sua luce. È una luce
opaca, per troppa densità e ripetizione di se stessa.
Questa maniera nelle cose serie è insopportabile, come nel
Filocolo e nell'Ameto, con quelle interminabili descrizioni e
orazioni, dove ti senti come arenato e che non vai innanzi, E ti
offende anche talora nel Decamerone, quando per esempio si fa
parlare Tito o la figliuola di Tancredi con tutte le regole della
rettorica e della logica. Ma nel comico questa maniera è
una delle sue forme più naturali, e la prima a comparire
nell'arte dopo quella esplosione rudimentale di motti e di
proverbi. Perchè il comico è il regno del finito e
del senso, e le prime sue impressioni sono singolarizzate nelle
minute pieghe degli oggetti; dove nel serio le prime impressioni
ti danno allegorie e personificazioni, forme generalizzate
nell'intelletto. Questa prima forma del comico è la
caricatura.
La quale è la rappresentazione diretta
dell'oggetto, fatta in modo che sia messo in vista il suo lato
difettoso e ridicolo. Certo, basterebbe metterti sott'occhio il
difetto e lasciarti indovinare tutto il resto. Un solo tratto di
spirito illumina tutto il corpo e te lo presenta
all'immaginazione. Ma il Boccaccio non se ne contenta, e come fa
il pittore, ti disegna tutto il corpo, scegliendo e distribuendo
in modo gli accessorii e i colori, che ne venga maggior luce sul
lato difettoso. Di che nasce che il ridicolo non rimane isolato su
quel punto, ma si spande su tutta l'immagine, di cui ciascuna
parte concorre all'effetto, apparecchiando, graduando e producendo
una specie di "crescendo" nella scala del comico. Il riso,
perchè vi sei ben preparato e disposto, di rado ti viene
improvviso e irresistibile, come in quei brevi tratti che ti
presentano rapporti inaspettati, anzi spesso più che riso
è una gioia uguale che ti tiene in uno stato di pacata
soddisfazione. Non ridi, ma hai la faccia spianata e contenta, e
ti si vede il riso sotto le guance, non tale però che debba
per forza scattar fuori in quella forma contratta e convulsa. Il
quale effetto nasce da questo, che l'autore non ti presenta una
serie di rapporti usciti dall'intelletto, ma una serie di forme
uscite dall'immaginazione. E sono forme piene, carnose, togate,
minutamente disegnate. L'autore, come obbliato in questo mondo
dell'immaginazione, ha aria di non aggiungervi niente del suo,
egli che ne è il mago. E tu ci stai dentro come incantato.
L'autore non si distrae mai, non mette il capo fuori per fare una
smorfia che provochi il riso, non tratta il suo argomento come
cosa frivola, e piglia e lascia e torna. Quella è la sua
idea fissa, e lo incalza e lo tiene e tiraselo appresso, e non gli
dà fiato, se non sia uscita tutta fuori. E tu non ti
distrai, ti senti come dondolato deliziosamente nella tua
contemplazione, nè il riso, che talora ti coglie,
t'interrompe, chè subito ti ci rituffi entro, e corri e
corri, e il corso è finito, e tu corri ancora dolcemente
naufragato. Ma non è il mondo orientale, dove
l'immaginazione, quasi fatta ebbra dall'oppio, salta fremente
dalle braccia dell'amore pe' vasti campi dell'infinito e ti fa
provare quel sentimento che dicesi voluttà, e che è
l'infinito nel senso, quel vago e indefinito e musicale che tra
gli abbracciamenti ti rivela Dio. Questo è un mondo
prettamente sensuale, chiuso e appagato in forme precise e
rotonde, da cui niente è che ti stacchi e ti rapisca in
alte regioni. Appunto perchè questi fiori non mandano
profumi e queste luci non gittano raggi, tu hai sensazioni e non
sentimenti, immaginazione e non fantasia, sensualità e non
voluttà. Il rêve scompare. L'estasi non tiene
più assorti i tuoi sguardi. Hai trovato già il tuo
paradiso in quella realtà piena e attraente. Diresti che la
carne in questo suo primo riapparire nel mondo ti si sveli nel suo
tripudio tutta nuda, ed empia di lusinghe e di vezzi il tuo
paradiso. Perciò la forma di questo paradiso è
cinica, anche più dove un senso ironico di modestia
è una civetteria che riaccende il senso.
Poichè la forma di questo mondo è
la caricatura, uscita da una immaginazione abbondante, minuta
disegnatrice, hai innanzi non punte e rialzi, ma l'oggetto intero
nelle sue più fine gradazioni. Breve ne' preliminari e
nella dipintura astratta di personaggi, l'autore alza subito il
sipario, e ti trovi in piena azione che si movono e parlano. E
già fin da' primi lineamenti ti balza innanzi il motivo
comico, che ti si sviluppa a poco a poco per via di gradazioni,
l'una entrata nelle altre con effetto crescente. Il Boccaccio vi
spiega quella qualità che i francesi, mirando alla forza
nel suo calore e nella sua facilità, chiamano "verve", e
noi chiamiamo "brio", mirando alla forza nella sua allegra
genialità. Di che maraviglioso esempio è la novella
di Alibech, e l'altra di ser Ciappelletto. A render più
piccante la caricatura serve l'ironia, che qui è forma non
sostanziale, ma accessoria. Ed è un'apparente bonomia,
un'aria d'ingenuità, con la quale il narratore fa il pudico
e lo scrupoloso, e non vuol dire e pur dice, e non vuol credere e
pur crede, e si fa la croce con un sogghigno. Questa ironia
è come una specie di sale comico, che rende più
saporito il riso a spese del "paternostro" di san Giuliano e de'
miracoli di ser Ciappelletto.
Essendo base di questo mondo la descrizione,
cioè l'oggetto non ne' suoi raggi e ne' suoi profumi,
cioè a dire nelle sue impressioni, ma nel suo corpo
singolarizzato ed individuato, ha bisogno di forme piene e ricche,
e così nascono le due forme della nuova letteratura,
l'ottava rima nella poesia e il periodo nella prosa.
Abbiamo già vista la nona rima
svilupparsi con magnificenza orientale nel poema l'Intelligenzia.
L'ottava rima non è inventata dal Boccaccio, come non
è sua invenzione il periodo. Ma è lui che le
dà un corpo e l'intonazione. Prima di lui l'ottava rima
è un accozzamento slegato e fortuito, dove diversi oggetti
sono ficcati insieme a caso, che potrebbero assai bene star da
sè. Stanno lì dentro oggetti nudi, non ci e un solo
oggetto sviluppato e addobbato. L'ottava rima è un
meccanismo, non è ancora un organismo. Il Boccaccio ha
fatto dell'ottava una totalità organica, ed è
l'oggetto che si sviluppa a poco a poco nelle sue gradazioni. Ben
trovi ne' suoi poemi ottave felici; ma in generale elle sono
impigliate, mal costruite, e in sul più bello ti cascano.
Nel genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idillico
ti riesce volgare e abbandonato. Gli è che l'ottava,
nell'ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni, è la
maggiore idealità della forma poetica e richiede
un'attività geniale che manca al Boccaccio, errante in un
mondo artificiale e convenzionale. Il difetto è tutto al di
dentro, nell'anima; ciò che freddamente è concepito,
nasce debole e mal congegnato, e non ci vale artificio.
Qui al contrario l'autore è a casa sua:
pinge un mondo, in cui vive, a cui partecipa con la più
grande simpatia, e tutto in esso, gitta via ogni involucro
artificiale. Ci è in lui qualche cosa più che il
letterato, ci è l'uomo che vi guazza entro e vi si dimena e
vi si strofina e vi lascivia. E n'esce una forma, che è
quel mondo esso medesimo, di cui sente gli stimoli nella carne e
nell'immaginazione. Così è venuta fuori quella forma
di prosa, che si chiama il "periodo boccaccevole".
A quel tempo il grande movimento letterario che
aveva il suo centro a Firenze si era di poco allargato fuori di
Toscana. La restaurazione dell'antichità che presentava
all'immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco che allora
spuntava appena, involto in quel vago chiaroscuro che accresce le
illusioni, tirava a sè l'attenzione La lingua di Dante non
era ancora lingua italiana: la chiamavano "idioma fiorentino". La
lingua era sempre il latino, nè era mutata l'opinione che
di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in "latino
volgare", come si chiamavano i dialetti. Il Boccaccio dice di
sè che scrive in "idioma fiorentino", e quelli che usavano
il volgare dice che scrivevano in "latino volgare". Il tipo di
perfezione era sempre il latino, e l'ideale vagheggiato dalla
classe erudita era un volgare nobile o illustre, secondo quel
modello configurato, un volgare alzato a quella stessa perfezione
di forma. Questo tentò Dante nel Convito, con piena fede
che il volgare fosse acconcio ad esprimere le più gravi
speculazioni della scienza non altrimenti che il latino, e quello
scolastico latino volgare o "volgare latino", nudo e tutto ossa e
nervi, parve per la prima volta magnificamente addobbato nelle
larghe pieghe della toga romana. Ma la pece scolastica s'era
appiccata anche a Dante, e quella barbarie delle scuole sta
così in quelle ampie forme a disagio, come un contadino
vestito a festa in abito cittadinesco. Non ci è fusione, ci
è punte e contrasti.
Il Boccaccio non era uscito dalle scuole, e
quando più tardi studiò filosofia e un po' anche
teologia, il suo spirito era già formato nell'esperienza
della vita comune, nell'uso del suo volgare e nello studio de'
classici. Come il Petrarca, ha in abbominio gli scolastici, ne'
quali vede proprio il contrario di quella elegante coltura greca e
romana, vede la barbarie e la rozzezza. Regnano nel suo spirito,
divinità, Virgilio e Ovidio e Livio e Cicerone, e non ci
è Bibbia che tenga, e non ci è san Tommaso. Quando
vuol dipingere alcun lato serio, morale o scientifico, del suo
mondo, la sua imitazione è un artificio esterno e
meccanico, perchè ha più immaginazione che
sentimento e più intelletto che ragione. La sua forma
è decorosa, nobile, spesso disimpacciata, ma troppo uguale
e placida, e talora ti fa sonnecchiare. Il periodo è un
rumor d'onde uniforme, mosse faticosamente da mare stanco e
sonnolento. Manca l'ispirazione, supplisce la rettorica e la
logica. Il che avviene, perchè il Boccaccio separato dalle
immagini e gittato nel vago del sentimento o nell'astratto del
discorso, perde il piede e va giù. Tratta le idee come
fossero corpi, e analizza e minuteggia che è uno
sfinimento. Le idee sono luoghi comuni annacquati in un viavai di
piccoli e oziosi accessorii, distinzioni, riserve, condizioni,
"se", "ma", "avvegnachè" e "conciossiacosachè". Uno
studio soverchio di esattezza, una notomia minuta di ogni
pensieruzzo mette più in vista la volgarità e
insipidezza dell'idea. La forma si stacca visibilmente dalla cosa,
e appare un meccanismo ingegnoso, lavorato accuratamente e sempre
quello. Cosa c'è sotto? Il luogo comune. Questo fu chiamato
più tardi forma letteraria. E non c'è cosa
più contraria alla scienza, che è parola e non
frase, e mal si riconosce nelle circonlocuzioni, nelle perifrasi e
ne' pleonasmi. In questo artificio ci è un progresso: ci
è quell'arte de' nessi e delle gradazioni, che mancava alla
prosa, e rivela uno spirito adulto, educato dai classici. Ma ci
è il difetto opposto, un volere di ogni idea fare una
catena cominciata e terminata in sè, ciò che
è un pantano, e non acqua corrente. Il Boccaccio odia gli
scolastici; ma il suo periodo non è che sillogismo
mascherato, una frase generica, come "umana cosa è aver
compassione degli affiitti", che per molti andirivieni riesce in
qualche volgare moralità. Il formulario è divenuto
un meccanismo ben congegnato; ma il fondo è lo stesso. Vedi
lo scolastico vestito a nuovo e più alla moda. Se l'ampio
giro del periodo boccaccevole è una catena artificiale dove
la scienza perde la sua semplicità ed elasticità e
la sua libertà di movimento, non è meno assurdo
nell'espressione del sentimento, la forza più libera e
indisciplinabile dello spirito, che spezza tutti i legami della
logica e sbalza fuori con rapidità. I bruschi e tragici
movimenti dell'animo qui sono come cristallizzati tra
congiunzioni, parentesi e ragionamenti. Manca ogni
subbiettività: ti è difficile guardare al di dentro
nella coscienza; i casi sono straordinari, i fatti interessanti,
le situazioni drammatiche, e non ti viene la lacrima, e non ti
senti commosso, perchè l'anima non si manifesta che in
frasi comuni e rigirate. Veggasi la novella di madama Beritola, e
l'altra del conte d'Anguersa, ove tra' più pietosi
accidenti e mutazioni della fortuna non si muta la forma, sempre
attillata e guantata. Pure, qua e là si sente una certa non
dirò commozione, ma emozione di una immaginazione calda, e
n'escono movimenti sentimentali, come nelle ultime parole della
figliuola di Tancredi e in alcuni tratti della Griselda.
Questa forma di periodo, che si affà
così poco alla scienza e al sentimento, dove appare un mero
meccanismo foggiato alla latina, acquista senso e moto, quando il
teatro della vita è nell'immaginazione, cioè a dire
quando l'autore si trova nel vivo dell'azione, non con idee e
sentimenti, ma con oggetti innanzi ben determinati. Tale è
la descrizione della peste, o del combattimento di Gerbino.
Perchè il fatto non è come l'idea, uno e semplice,
ma come il corpo, è un multiplo, un insieme di circostanze
e di accessorii. Questo insieme è il periodo, il quale
nella sua evoluzione è ciò che in pittura si chiama
"un quadro". Aggruppare le circostanze, subordinarle, coordinarle
intorno ad un centro, ombreggiare, lumeggiare, è arte somma
nel Boccaccio. La descrizione, quando sta per sè, in
astratto e separata dall'azione, non riscalda abbastanza
l'immaginazione e riesce fronzuta, com'è spesso nelle
introduzioni. Ma quando ci è qualche cosa che si move e
cammina, e rassomiglia ad un'azione, l'immaginazione si mette in
moto anche lei, e assiste pacata allo spettacolo, disegnando e
facendo quadri in quelle larghe forme che si chiamano periodi.
Questa maniera di narrare a quadri non è certo l'andamento
naturale dell'azione, che perde l'impeto e l'attrito, arrestata
ne' suoi movimenti più rapidi dall'occhio tranquillo di una
immaginazione disegnatrice. E perciò non è maniera
conveniente alla storia, e non è prosa, ma è arte in
forma prosaica, e narrazione poetica. Que' quadri e periodi ti
danno non pur l'ordine e il legame e il significato de' fatti, ma
le movenze, le attitudini, le gradazioni: onde nasce quell'effetto
d'insieme che dicesi "fisonomia" o "espressione".
Ma dove il periodo boccaccevole diviene una
creazione sui generis, un organismo vivente, è nel lato
comico e sensuale del suo mondo. E non è già che vi
adoperi maggiore artificio o finezza; ma è che qui ci
è la musa, vale a dire tutto un mondo interiore, la
malizia, la sensualità, la mordacità, un vero
sentimento comico e sensuale. Ed è questa
sentimentalità, la sola che la natura abbia concessa al
Boccaccio, che penetra in quei flessuosi giri della forma e ne fa
le sue corde. Il suo periodo è una linea curva che
serpeggia e guizza ne' più libidinosi avvolgimenti, con
rientrature e spezzamenti e spostamenti e riempiture, e sono vezzi
e grazie, o civetterie di stile, che ti pongono innanzi non pur lo
spettacolo nella sua chiarezza prosaica, ma il suo motivo
sentimentale e musicale. Quelle onde sonore, quelle pieghe ampie
della forma latina, piena di gravità e di decoro, dove si
sente la maestà e la pompa della vita pubblica, trasportata
dal foro nelle pareti di una vita privata oziosa e sensuale,
diventano i lubrici volteggiamenti del piacere stuzzicato dalla
malizia. In bocca a Tito, a Gisippo senti la rettorica imitazione
di un mondo fuori della coscienza: l'aria è pur quella, ma
cantata da un borghese che non ne ha il sentimento e sbaglia
spesso il motivo. Qui al contrario, in questo mondo erotico e
malizioso, hai la stess'aria, penetrata da un altro motivo che la
soggioga e se l'assimila; e quelle forme magniloquenti che
arrotondivano la bocca degli oratori, arrotondiscono il vizio e
gli danno gli ultimi finimenti e allettamenti. I latini
nell'espressione del comico gittavano via le armi pesanti e
vestivano alla leggiera: il Boccaccio concepisce come Plauto, e
scrive come Cicerone. Pure il suo concepire è così
vivo e vero, che Cicerone si trasforma nella sua immaginazione in
una sirena vezzosa che tutta in sè si spezza e si dimena.
Ma spesso, tutto dentro nel soggetto, gitta via i viluppi e i
contorcimenti, e salta fuori snello, rapido, diritto, incisivo.
Maestro di scorciatoie e di volteggiamenti, la sua immaginazione
covata da un sentimento vero spazia come padrona tra forme antiche
e moderne, e le fonde e ne fa il suo mondo, e vi lascia sopra il
suo stampo. Sarebbe insopportabile questo mondo e profondamente
disgustoso, se l'arte non vi avesse profuse tutte le sue veneri,
inviluppando la sua nudità in quelle ampie forme latine,
come in un velo agitato da venti lascivi. L'arte è la sola
serietà del Boccaccio, sola che lo renda meditativo fra le
orgie dell'immaginazione e gli corrughi la fronte nella più
sfrenata licenza, come avveniva a Dante e al Petrarca nelle loro
più alte e pure ispirazioni. Di che è uscito uno
stile dove si trovano fusi i vari uomini che vivevano in lui, il
letterato, l'erudito, l'artista, il cortigiano, l'uomo di studio e
di mondo, uno stile così personale, così intimo alla
sua natura e al suo secolo, che l'imitazione non è
possibile, e rimane monumento solitario e colossale fra tante
contraffazioni.
Che cosa manca a questo mondo?
Mondo della natura e del senso, gli manca quel
sentimento della natura e quel profumo voluttuoso che gli
darà il Poliziano.
Mondo della commedia, gli manca quell'alto
sentimento comico nelle sue forme umoristiche e capricciose che
gli darà l'Ariosto.
E che cosa è questo mondo?
È il mondo cinico e malizioso della carne, rimasto nelle
basse sfere della sensualità e della caricatura spesso
buffonesca, inviluppato leggiadramente nelle grazie e ne' vezzi di
una forma piena di civetteria, un mondo plebeo che fa le fiche
allo spirito, grossolano ne' sentimenti, raggentilito e
imbellettato dall'immaginazione, entro del quale si move
elegantemente il mondo borghese dello spirito e della coltura con
reminiscenze cavalleresche.
È la nuova "Commedia", non la "divina",
ma la "terrestre Commedia". Dante si avvolge nel suo lucco e
sparisce dalla vista. Il medio evo con le sue visioni, le sue
leggende, i suoi misteri, i suoi terrori e le sue ombre e le sue
estasi, è cacciato dal tempio dell'arte. E vi entra
rumorosamente il Boccaccio e si tira appresso per lungo tempo
tutta l'Italia.
X
L'ULTIMO TRECENTISTA
L' ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti, l'uomo
"discolo e grosso". Di mezzana coltura, d'ingegno poco al di
là del comune, ma di un raro buon senso, di poca iniziativa
e originalità, ma di molta se.nplicità e
naturalezza, era nella sua mediocrità la vera eco del
tempo. Gli facea cerchio la turba de' rimatori, ripetizione stanca
del passato, il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato, e
Antonio da Ferrara, e Filippo Albizi, e Giovanni d'Amerigo, e
Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da
Faenza, e Astorre pur da Faenza, e Antonio Cocco, e Angelo da San
Geminiano, e Andrea Malavolti, e Antonio Piovano, e Giovanni da
Prato, e Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de'
Benedetti, che lo chiama "eroe gentile", e parecchi altri. E il
nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con
lodi. Ultime voci de' trovatori italiani. Luoghi comuni e forma
barbara annunziano un mondo tradizionale ed esaurito. Ci trovi
anche sentimenti morali e religiosi, ma insipidi e freddi come
un'avemaria ripetuta meccanicamente tutt'i giorni. Per questo lato
il Sacchetti continua il passato, fa perchè gli altri
fanno, pensa così, perchè gli altri così
pensano, piglia il mondo come lo trova, senza darsi la pena di
esaminarlo. Questa è la sua parte morta. Ma ci è una
parte viva, quella a cui partecipa, e che suona nel suo spirito,
quella in cui apparisce la sua personalità. Ed è
appunto quel mondo di cui il Boccaccio è così vivace
espressione.
Franco è il "vero uomo della
tranquillità". Il Boccaccio sdegnava l'epiteto, e talora
voleva sonare la tromba e rappresentare azioni e passioni eroiche.
Franco non ha pretensioni, e si mostra com'è, ed è
contento di esser così. È uomo stampato all'antica,
in tempi corrotti, buon cristiano e insieme nemico degl'ipocriti e
mal disposto verso i preti e i frati, diritto ed intero nella
vita, alieno dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace, ma
senza fiele, modesto estimatore di sè e lontanissimo di
mettersi allato a' grandi poeti di quel tempo, che erano, secondo
lui e i contemporanei, Zanobi da Strada, il Petrarca e il
Boccaccio. Quali erano i desidèri del nostro brav'uomo?
Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più
contento uomo del mondo, quando in villa o in città potea
darsi buon tempo fra le allegre brigate, motteggiando, novellando,
sonetteggiando. Ci è in lui dell'idillico e del comico. Ama
la villa, perchè in città
mal vi si dice, e di ben far vi è caro;
e nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la
freschezza dell'aura campestre, come è quella così
briosa delle "donne che givano cogliendo fiori per un boschetto",
e l'altra delle "montanine", di una grazia così ingenua. In
città è un burlone, pieno il capo di motti, di
facezie, di fatterelli, e te li snocciola come gli escono, con
tutto il sapore del dialetto e con un'aria di bonomia che ne
accresce l'effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono molto al di
sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare
svelto e allegro, dove non mancano pensieri galanti e gentili:
dietro il poeta senti l'uomo che ci piglia gusto e vi si sollazza,
e sta già con l'immaginazione nella lieta brigata dove i
versi saranno cantati, tra musica e ballo. Veggasi la ballata del
"pruno" e il madrigale del "falcone".
Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo
stesso mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e
domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti,
pettegolezzi vengon fuori, bassa vita popolana in forma popolana.
Alcuni le pregiano più che il Decamerone, per lo stile
semplice e naturale e rapido, non privo di malizia e di arguzia
fiorentina. Ma la naturalezza del Sacchetti è quella
dell'uomo a cui le muse sono avare de' loro doni. Non è
artista, e neppure d'intenzione. Gli manca ogni sorta
d'ispirazione Quel mondo con tanta magnificenza organizzato nel
Decamerone è qui un materiale grezzo, appena digrossato.
Perciò delle sue trecento novelle si ricorda appena qualche
aneddoto: nessun personaggio è rimasto vivo.
Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo
buon umore ci è una nota malinconica, che all'ultimo manda
più lugubre suono. Non piace al brav'uomo un mondo, in cui
chi ha più danari vale più, e grida che
"vertù con pecunia non si acquista", e che "gentilezza e
virtù son nella mota". Dipinge al vivo gli avvocati de'
suoi tempi:
Legge civile e ragion canonica
apparan ben, ma nel mal spesso l'usano:
difendono i ladroni, e gli altri accusano.
Chi ha danari e chi più puote scusano:
tristo a colui che con costor s'incronica,
se non empie lor man sotto la tonica!
Ora se la piglia con le vecchie. Ora è tutto stizzoso per
le nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi. Grida
contro la turba de' rimatori e de' cantori:
Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
tal compitar non sa che fa ballate,
tosto volendo che sieno intonate.
Così del canto avvien: senz'alcun'arte
mille Marchetti veggio in ogni parte.
E quando muore il Boccaccio, "copioso fonte di eleganza", esclama:
Ora è mancata ogni poesia,
e vòte son le case di Parnaso...
S'io piango o grido, che miracol fia,
pensando che un sol c'era rimaso
Giovan Boccacci, ora è di vita fore? ...
... Quel duol che mi pugne
è che niun riman, nè alcun viene,
che dia segno di spene
a confortar che io salute aspetti,
perchè in virtù non è chi
si diletti...
Sarà virtù già mai
più in altrui
O starà quanto medicina ascosta,
quando anni cinquecento perdè il corso?
...
Chi fia in quella etate,
forse vedrà rinascer tal semenza;
ma io ho pur temenza,
che prima non risuoni l'alta tromba, ...
che si farà sentir per ogni tomba.
Ne' numeri ciascuno ha mente pronta,
dove moltiplicando s'apparecchia
sempre tirare a sè con la man destra...
E le meccaniche arti
abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
Ben veggio giovinetti assai salire
non con virtù, perchè la curan
poco,
ma tutto adopran in corporea vesta: ...
... già mai non cercan loco
dove si faccia delle muse festa.
Come deggio sperar che surga Dante,
che già chi il sappia legger non si
trova?
E Giovanni che è morto ne fe' scola.
Tutte le profezie che disson sempre
tra il Sessanta e l'Ottanta esser il mondo
pieno di svari e fortunosi giorni,
vidon che si dovean perder le tempre
di ciascun valoroso e gire al fondo.
E questo è quel che par che non
soggiorni...
E s'egli è alcun che guardi,
gli studi in forni vede già conversi...
Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è
l'elogio funebre del Trecento, pronunziato dal più candido
e simpatico de' suoi scrittori, l'ultimo trecentista. Sulla fine
del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico
indietro, e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l'Africa
col suo "alto poeta", e Giovan Boccacci non col suo festevole
Decamerone, ma co' dotti e magni volumi latini, De' viri illustri,
Delle donne chiare, e "il terzo":
Buccolica; il quarto: Monti e fiumi;
il quinto: Degl'iddii e lor costumi.
Oimè! Dante è morto. Morto è Boccacci.
Petrarca muore. Chi rimane? E l'ultimo trecentista guarda intorno
e risponde: - Nessuno. - Ricorda le infauste profezie, nunzie di
sciagure fra il sessanta e l'ottanta, e gli pare venuto il
finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre grandi e tanti
altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è
perita per sempre? O risurgerà dopo cinquecento anni, come
fu della medicina? O non verrà prima il giudizio finale? Il
mondo è dato all'abaco e alle arti meccaniche: "nuda
è l'adorna scuola" da tutte sue parti:
non si trova fenestra
che valor dentro chiuda.
La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a' sollazzi
e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le muse, e non
ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono mutati in
forni. Il poeta accomiata la canzone in questo modo:
Orfana, trista, sconsolata e cieca,
senza conforto e fuor d'ogni speranza,
se alcun giorno t'avanza,
come tu puoi, ne va' peregrinando,
e di' al cielo: - Io mi ti raccomando. -
Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo. Il Dugento
finisce con Cino e Cavalcanti e Dante già adulti e chiari,
finisce come un'aurora entro cui si vede già brillare la
vita nuova, una nuova èra. Il Trecento finisce come un
tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon Franco
pensa: - Chi sa se tornerà il sole? -
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte
del Petrarca, intuona anche lui un poetico Lamento. Piangono
intorno al grand'uomo Gramatica, Rettorica, Storia, Filosofia, e
lo accompagnano al sepolcro di Parnaso,
Virgilio, Ovidio, Giovenale e Stazio,
Lucrezio, Persio, Lucano e Orazio
e Gallo.
E Pallas Minerva, venuta dall'angelico regno, conserva la sua
corona. In ultimo della mesta processione spunta l'autore col suo
nome, cognome e soprannome:
È Anton de' Beccar, quel da Ferrara,
che poco sa, ma volentieri impara.
È anche un brav'uomo costui, vede anche lui tutto nero:
Del mondo bandita è concordia e pace,
per l'universo la discordia trona,
sommerso è ogni bene,
l'amor di Dio ha bando,
e parmi che la fe' vada mancando.
Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri, dove non
trovi alcuna profondità di vista e non forza di mente o di
sentimento. Pur vi trovi, ancorchè in forma pedantesca, la
fisonomia del secolo negli ultimi giorni della sua esistenza.
Quella nota malinconica è la stessa
forza che tirò alla Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a
Maria gli ardori del Petrarca, e rattristò le ultime ore di
Franco Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi
a Caterina da Siena. Perchè quella forza, contraddetta e
negata nella vita, occupava ancora l'intelletto, e tra le orgie di
una borghesia arricchita e gaudente comparirà talora come
un rimorso, e chiamerà gli uomini alla penitenza.
"La fede va mancando", grida il ferrarese. e
gli studi "si convertono in forni", nota il fiorentino. Non si
potea meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il secolo
e che comunicava alla nuova generazione. Possiamo disegnarla in
brevi tratti.
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in
Firenze, così nelle altre parti d'Italia la borghesia si
costituisce, si ordina, diviene una classe importante per
industrie, per commerci, per intelligenza e per coltura. E lo
stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta. La coltura
non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde, e
fa del popolo italiano il più civile di Europa.
La vita pubblica e la vita religiosa rimane
stazionaria fra l'universale indifferenza. Continuano le stesse
forme, ma sciolte dallo spirito che le rendea venerabili, quelle
persone, quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e
diventano il motivo comico delle liete brigate.
La vita privata viene su. Ed è vita
socievole, spensierata, condita dallo spirito. Gli uomini si
uniscono in compagnie o brigate non per discutere, ma per
sollazzarsi, in città e in villa. E si sollazzano a spese
delle classi inculte. Trovatori, cantori e novellatori non sono
più il privilegio delle castella e delle corti. L'allegria
feudale si spande anche nelle case de' ricchi borghesi, e i
racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri, e
in una forma spesso licenziosa e cinica. La licenza del linguaggio
era il solletico dell'allegria.
Così venne una letteratura sensuale e
motteggiatrice, profana e pagana. Le novelle e i romanzi tennero
il campo. L'allegra vita della città si specchiava in forme
liriche svelte e graziose, rispetti, strambotti, frottole, ballate
e madrigali. L'allegra vita de' campi avea pur le sue forme, le
"cacce" e gl'idilli. L'anima di questa letteratura è lo
spirito comico e il sentimento idillico.
La forma dello spirito comico è la
caricatura penetrata di un'ironia maliziosa, ma non maligna. La
forma idillica è la descrizione della bella natura,
penetrata di una molle sensualità. Traspare da tutta questa
letteratura una certa quiete e tranquillità interiore, come
di gente spensierata e soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista
che apre questo mondo allegro della natura. Il misticismo perisce,
ma ben vendicato, traendosi appresso religione, moralità,
patria, famiglia, ogni semplicità e dignità di vita.
Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica e l'allegria
comica. Sono le due divinità della nuova letteratura.
Ma come l'antica letteratura vede i suoi ideali
attraverso un involucro allegorico-scolastico, così la
nuova non può trovare se stessa se non attraverso
l'involucro del mondo greco-latino.
La vita del Boccaccio è in compendio la
vita letteraria italiana, come si andrà sviluppando.
Comincia scopritore instancabile di manoscritti, e tutto mitologia
e storia greca e romana. Non è ancora un artista, è
un erudito. La sua immaginazione erra in Atene e in Troia. Tenta
questo e quel genere, e non trova mai se stesso. Quel mondo
è come un denso velo che muta il colore degli oggetti e
gliene toglie la vista immediata. Imita Dante, imita Virgilio,
petrarcheggia e platoneggia come il buon Sacchetti. Scrive magni
volumi latini, ammirazione de' contemporanei. E si scopre artista,
quando, gittato via tutto questo bagaglio, scrive per sollazzo,
abbandonato alla genialità dell'umore. Dove cerca il
piacere, trova la gloria.
Questa vita ne' suoi tentennamenti, nelle sue
imitazioni, nelle sue pedanterie, ne' suoi ideali, è la
storia della nuova letteratura.
XI
"LE STANZE"
Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta
alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono
visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi antenati, e i
Boccacci si moltiplicano, l'impulso dato da lui e dal Petrarca
diviene una febbre, o per dir meglio, quella tale corrente
elettrica che incerti momenti investe tutta una società e
la riempie dello stesso spirito. Quella stessa attività che
gittava l'Europa crociata in Palestina, e più tardi
spingendola verso le Indie le farà trovare l'America, tira
ora gl'italiani a disseppellire il mondo civile rimasto per
così lungo tempo sotto le ceneri della barbarie. Quella
lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere:
agl'italiani pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso
di sè stessi, essere rinati alla civiltà. E la nuova
èra fu chiamata il "Rinascimento".Nè questo era un
sentimento che sorgeva improvviso. Per lunga tradizione Roma era
capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl'italiani erano
sempre gli antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua
era il latino, e la lingua parlata era chiamata il "latino
volgare", un latino usato dal volgo. Questo sentimento, legato in
Dante con le sue opinioni ghibelline, ispirava più tardi
l'Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio. Ora diviene
il sentimento di tutti e dà la sua impronta al secolo. La
storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi,
i Bracciolini, che furono i Colombi di questo mondo nuovo. Gli
scopritori sono insieme professori e scrittori. Dopo le lunghe
peregrinazioni in oriente e in occidente, vengono le letture, i
comenti, le traduzioni. Il latino è già così
diffuso, che i classici greci si volgono in latino, perchè
se ne abbia notizia, come i dugentisti volgevano in volgare i
latini. Pullulano latinisti e grecisti: la passione invade anche
le donne. Grande stimolo è non solo la fama, ma il
guadagno. Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si
stringono intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando.
Sorgono centri letterari nelle grandi città: a Roma, a
Napoli, a Firenze, più tardi a Ferrara intorno agli
Estensi. E quei centri si organizzano e diventano accademie Sorge
la pontaniana a Napoli, l'Accademia platonica a Firenze, quella di
Pomponio Leto e di Platina a Roma. Illustri greci, caduta
Costantinopoli, traggono a Firenze. Gemistio spiega Platone a'
mercatanti fiorentini. Marsilio Ficino, il traduttore di Platone,
lo predica dal pulpito, come la Bibbia. Pico della Mirandola,
morto a trentun anno, stupisce l'Italia con la sua dottrina, ed
oltrepassando il mondo greco, cerca in Oriente la culla della
civiltà.
I caratteri di questa coltura sono palpabili.
Innanzi tutto ti colpisce la sua
universalità. Il centro del movimento non è
più solo Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il
mezzodì dopo lungo sonno prende il suo posto nella storia
letteraria, e il Panormita fa già presentire il Pontano e
il Sannazzaro. Roma è il convegno di tutti gli eruditi,
attirati dalla liberalità di Nicolò quinto. La
coltura acquista una fisonomia nazionale, diviene italiana. Anche
il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato alla latina,
si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria
italiana.
Ma è l'Italia de' letterati, col suo
centro di gravità nelle corti. Il movimento è tutto
sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O,
per dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le
repubbliche, mancata è ogni lotta intellettuale, ogni
passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa,
la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e
de' letterati, esalata in versi latini. A' letterati fama, onori e
quattrini; a' principi incensi, tra il fumo de' quali sono giunti
a noi papa Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre della
patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e Leone decimo e
i duchi di Este. I letterati facevano come i capitani di ventura:
servivano chi pagava meglio: il nemico dell'oggi diventa il
protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano
all'incanto.
Questa fiacchezza e servilità di
carattere, accompagnata con una profonda indifferenza religiosa,
morale e politica, di cui vediamo gli albori fin da' tempi del
Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e
abito sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare
cinismo. Una certa ipocrisia c'è, quando si ha ad esprimere
dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla
rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua
nudità. È una letteratura senza veli, e più
sfacciata in latino che in volgare.
Ne nasce l'indifferenza del contenuto.
Ciò che importa non è cosa s'ha a dire, ma come s'ha
a dire. I più sono secretari di principi, pronti a vestire
del loro latino concetti altrui. La bella unità della vita,
come Dante l'aveva immaginata, la concordia amorosa
dell'intelletto e dell'atto, è rotta. Il letterato non ha
obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la
vita. Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di
fuori, quale esso sia: a lui spetta dargli la veste. Il suo
cervello è un ricco emporio di frasi, di sentenze, di
eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie:
forme vuote e staccate da ogni contenuto. Così nacque il
letterato e la forma letteraria.
Il movimento iniziato a Bologna era
intellettuale: si cercava negli antichi la scienza. Il movimento
ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la
forma. Sorge la critica, circondata di grammatiche e di
rettoriche; il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono
più confusi in una eguale adorazione: si giudicano, si
classificano, pigliano posto. Questi lavori filologici ed eruditi
sono la parte più seria e più durevole di questa
coltura. Spiccano fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla. Il
titolo ti dà già la fisonomia del secolo.
Effetti di questa coltura cortigiana e
letteraria, co' suoi vari centri in tutta Italia, sono una certa
stanchezza di produzione, l'inerzia del pensiero, l'imitazione
delle forme antiche come modelli assoluti, l'uomo e la natura
guardati a traverso di quelle forme. È una nuova
trascendenza, il nuovo involucro. Lo scrittore non dice quello che
pensa o immagina o sente, perchè non è l'immagine
che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di Virgilio vede il
mondo non nella sua vista immediata, ma come si trova
rappresentato da' classici, a quel modo che Dante vedea Beatrice a
traverso di Aristotile e di san Tommaso.
Ma non ci è guscio che tenga incontro
all'arte. Dante potè spesso rompere quel guscio,
perchè era artista. E se in questa cultura fossero elementi
seri di vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è
dubbio che vedremmo venire il grande artista, destinato a farne
sentire il suono pur tra queste forme latine. Ciò che ferve
nell'intimo seno di una società, tosto o tardi vien su e
spezza ogni involucro. Si dà colpa al latino, che questo
non sia avvenuto. E se il medio evo non ha potuto sviluppare tra
noi tutte le sue forme, se il mondo interiore della coscienza
s'è infiacchito, la colpa è de' classici che
paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che
i classici di questo fatto sono innocentissimi. Certo, il mondo di
Omero e di Virgilio, di Tucidide e di Livio, non è un mondo
fiacco e frivolo. E se i latinisti non poterono riprodurne che
l'esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è il
vuoto, gli è che il vuoto era nell'anima loro, e nessuno
dà ciò che non ha. Un cuore pieno trova il modo di
spandersi anche nelle forme più artificiali e più
ripugnanti.
Leggete questi latinisti. Cosa c'è
lì dentro che viva e si mova? Lo spirito del Boccaccio che
aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il
sale comico, in una forma elegante e vezzosa. Questo studio
dell'eleganza nelle forme, accompagnato co' tranquilli ozi della
villa e i sollazzevoli convegni della città, era in
iscorcio tutta la vita del letterato.
Così, quando il secolo era travagliato
da mistiche astrazioni e da disputazioni sottili, il latino fu
scolastico. E ora che il naturalismo idillico e comico del
Boccaccio è il vero e solo mondo poetico, il latino
è idillico, dico il latino artistico e vivo. La grande
orchestra di Dante è divenuta già nel Petrarca la
flebile elegia. In questo latino elegante il dolore è
elegiaco, e il piacere è idillico. La vita è tutta
al di fuori, è un riso della natura e dell'anima: la stessa
elegia è un rapimento voluttuoso de' sensi. Sulle rive di
Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni di Baia, ora tutto
vezzeggiativi e languori, ora motteggevole e faceto. Mergellina,
Posilipo, Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono
dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose, e allegrano le nozze
della sua Lepidina. La crassa sensualità è
vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione e i deliziosi profumi
dell'eleganza. La sua musa, come la sua colomba, "fugit insulsos
et parum venustos" "odit sorditiem", nega i suoi doni a quelli che
sono "illepidi atque inelegantes", e "gaudet nitore", e
rassomiglia alla sua "puella", di cui nessuna "vivit mundior
elegant'orve". Spirito ed eleganza, questo è il mondo
poetico di una borghesia colta e contenta, che cantava i suoi ozi
e passava il tempo tra Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni
e le cacce e gli amori. Ne senti l'eco tra le delizie di Baia e
tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea la Lepidina tra'
susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra
le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice
è la bella natura campestre, con più immaginazione
nel Pontano, con più sentimento nel Poliziano. Piace la
"cerula" ninfa Posilipo e la "candida" Mergellina, e quel voler
essere uccello per cascarle in grembo è un bel tratto
galante, una sensualità dell'immaginazione. Il Pontano
è figurativo, tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano
è più semplice, più vicino alla natura, e te
ne dà l'impressione:
Hic resonat blando tibi pinus amata susurro;
hic vaga coniferis insibilat aura cupressis:
hic scatebris salit et bullantibus incita venis
pura coloratos interstrepit unda lapillos.
Questo latino, maneggiato con tanta sveltezza, modulato con tanta
grazia, non cade nel vuoto, come lingua morta, e questi canti non
sono stimati lavori di pura erudizione e imitazione. Lorenzo Valla
chiama il latino la "lingua nostra"; nessuna cosa di qualche
importanza non si scrivea se non in latino, e metteasi a fuggire
il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto.
Dante stesso era detto "poeta da calzolai e da fornai". Non pareva
impossibile continuare il latino, come i greci continuavano il
greco, parlare la lingua universale, la lingua della scienza e
della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istrutti.
Ma queste tendenze trovavano naturale
resistenza a Firenze, dove il volgare avea messo salde radici,
illustrato da tanta gloria, nè potea parer vergogna
scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe
colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto
erano ancora il popolo, con una comune fisonomia. Grandissima
l'ammirazione de' classici; frequentissimi gli Studi del Landino,
del Crisoloro, del Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e
il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile
(discussioni erudite, senza conclusione e serietà pratica);
si applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte
dell'Albiera o gli occhi di Lorenzo, "purus apollinei sideris
nitor", come fossero gli occhi di Laura. Ma insieme si difendeva
il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo spiegava Dante, e
il Landino sponeva il Petrarca, e Leonardo Bruni sosteneva essere
il volgare lo stesso latino antico com'era parlato a Roma, e
Lorenzo de' Medici preferiva il Petrarca a' poeti latini, chiamava
"unico" Dante, celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di
Cino e di Cavalcanti e di altri minori scrivea le lodi con acume e
maturità di giudizio. Ci erano gli oppositori, i
grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un
ignorante, "rerum ommum ignarum" e che scrivea così male in
latino. Ma in Firenze non attecchivano. Cristoforo Landino nel suo
studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a
esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di
sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi sottoporre
a regole di grammatica e di rettorica. Certo, il vezzo del latino
introduceva nel volgare caduto in mano a' pedanti vocaboli e frasi
e giri, di cui si sentono gli effetti fino nella prosa del
Machiavelli; ma quella barbara mescolanza per la sua esagerazione
divenne ridicola, e non potè alterare le forme del volgare,
così come erano state fissate negli scrittori e si
mantenevano vive nel popolo. Nè l'uso fu mai intermesso; e
Lionardo scrivea in volgare la vita di Dante e del Boccaccio, e in
volgare Feo Belcari scrivea le vite de' santi e le
rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti, le
frottole, le cacce, le ballate, tutt'i generi di lirica popolare
legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e privati, le
mascherate, le giostre, le serenate, le rappresentazioni, i
giuochi, le sfide. Non era cosa facile guastare o sopraffare una
lingua legata così intimamente con la vita.
La forza della lingua volgare era appunto in
questo: che rifletteva la vita pubblica e privata, divenuta parte
inseparabile della società nelle sue usanze e ne' suoi
sentimenti. Onde se gli uomini colti, trasportati dalla corrente
comune, scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell'uso vario
della vita adoperavano il volgare, condotto ormai al suo maggior
grado di grazia e di finezza, parlato e scritto bene generalmente.
Un gran mutamento era però avvenuto nella letteratura
volgare. Il mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato
non era potuto più risorgere di sotto a' colpi del Petrarca
e più del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e
continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e
convenzionale a cui è straniera l'anima. Al contrario era
in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la
"gaia scienza", e dava i suoi colori anche alle cose sacre. Le
laude erano intonate come i rispetti, e i misteri acquistavano la
tinta romanzesca delle novelle e romanzi allora in voga. La Stella
ricorda in molte parti le avventure della bella sventurata
Zinevra, "sei anni andata tapinando per lo mondo". Spesso c'entra
il comico e il buffonesco, e ti par d'essere in piazza a sentir le
ciane che si accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leggenda
tende alla novella.
La leggenda è un racconto
maraviglioso animato da uno spirito mistico e ascetico, con le sue
estasi, le sue visioni, i suoi miracoli. Ci è al di sotto
la fede che fa muovere i monti e ti tiene al di sopra de' sensi,
anzi sforza i sensi e dà loro le ali dell'immaginazione.
Questo mondo miracoloso dello spirito, fatto così palpabile
come fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio
che lo renda verisimile, anzi con la più grande
ingenuità, essendo quelle verità incontrastate pel
narratore e pe' lettori. Questa impressione ti fanno le leggende
del Passavanti e le Vite del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che comparisce
nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo. Sono antiche
rappresentazioni, messe a nuovo, intonacate, imbiancate, a uso di
un pubblico più colto. Santo Abraam, Alessio, Abramo,
Eugenia e Maddalena, i santi e i padri e i romiti del Cavalca ti
sfilano innanzi. Con la natia rozzezza è ita via anche la
semplicità e l'unzione e ogni sentimento liturgico e
ascetico. Il miracolo ci sta come miracolo, cioè a dire
come una macchina del maraviglioso, a quel modo che è la
fortuna nelle novelle del Boccaccio. Il motivo drammatico è
l'effetto che fanno sugli spettatori certe grandi mutazioni e
improvvise nello stato de' personaggi, morale o materiale:
perciò non gradazioni, non ombre, non sfumature; i contorni
sono chiari e decisi; l'azione è tutta esteriore e
superficiale, e si ferma solo quando una mutazione improvvisa
provoca esplosioni liriche di gioia, di dolore, di maraviglia. Ci
è quella lirica superficiale e quella chiarezza epica che
è propria del Boccaccio. La lirica è sacra di nome,
e non ha quell'elevazione dell'anima verso un mondo superiore, che
senti in Dante o in Caterina: ci è la preghiera, non ce
n'è il sentimento. L'azione è pedestre e borghese,
di una prosaica chiarezza, non animata dal sentimento, non
trasformata dall'immaginazione. E il mondo dantesco vestito alla
borghese, i cui accenti di dolore sono elegia, le cui mistiche
gioie sono idilli mancato è il senso del terribile e del
sublime, mancata è l'indignazione e l'invettiva: se alcuna
serietà rimane ancora in queste spettacolose
rappresentazioni, apparecchiate con tanta pompa di scene e di
decorazioni, è reminiscenza ed eco di un mondo indebolito
nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite, che a grandi
spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano
più i contemporanei di Dante, e non gli autori e non gli
spettatori. Si andava alle rappresentazioni, come alle feste
carnascialesche, per sollazzarsi. E si sollazzavano, come si
conviene a gente colta e artistica, co' piaceri dello spirito e
dell'immaginazione. Il mistero era per essi un piacevole esercizio
dell'immaginazione, una ricreazione dello spirito. Con la
coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale, il
dramma era così poco possibile come la tragedia o
l'eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda. Se
quelle rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco rimasero
stazionarie, e non poterono mai acquistare la serietà e
profondità di un vero mondo drammatico, fu perchè
mancò all'Italia un ingegno drammatico, come affermano
alcuni, quasi l'ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza
radici, e venuto espressamente dal cielo? O fu, come affermano
altri, perchè il latino attirò a sè gli
uomini colti, e il mistero fu trascurato come cosa del popolo,
quasi che autori de' misteri non fossero gli uomini più
colti di quel tempo, o il latino, che non potè uccidere il
volgare, potesse uccidere l'anima di una nazione, quando un'anima
ci fosse stata? La verità è che il povero latino non
potè uccider nulla, perchè nulla ci era, niuna
serietà di sentimento religioso, politico, morale, pubblico
e privato, da cui potesse uscire il dramma. Quel mondo spensierato
e sensuale non ti potea dare che l'idillico e il comico; e in
tanto fiorire della coltura, con tanta disposizione ed educazione
artistica, non potea produrre che un mondo simile a sè, un
mondo di pura immaginazione. Il mistero è un aborto,
è una materia sacra che non dice più nulla alla
mente ed al cuore, senza alcuna serietà di motivi, e
trasformata da uomini colti in un puro giuoco d'immaginazione dove
angioli e demoni, paradiso e inferno hanno così poca
serietà come Apollo e Diana e Plutone. La serietà e
solennità della materia era in flagrante contraddizione con
quella forma tutta senso e tutta superficie, e con quel mondo
spensierato e allegro della pura immaginazione,
idillico-comico-elegiaco. Il mistero ci fu, quale poteva
realizzarlo l'Italia in questa disposizione dello spirito, e ci fu
l'ingegno, quale poteva essere allora l'ingegno italiano. Quel
mistero fu l'Orfeo, e quell'ingegno fu Angiolo Poliziano.
Il Poliziano è la più spiccata
espressione della letteratura in questo secolo. Ci è
già l'immagine schietta del letterato, fuori di ogni
partecipazione alla vita pubblica, vuoto di ogni coscienza
religiosa o politica o morale, cortigiano, amante del quieto
vivere, e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi. Ebbe in
Lorenzo un protettore, un amico, e divenne la sua ombra, il suo
compagno ne' sollazzi pubblici e secreti. Cominciò la vita,
voltando l'Iliade in latino, grecista e latinista sommo. Dettava
epigrammi latini con la facilità di un improvvisatore. Si
traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e Virgilio. E non
si ammirava solo l'erudito, ma l'uomo di gusto e il poeta, che
ispirato vi aggiungeva le sue emozioni e le sue impressioni e i
suoi carmi. Il suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il
compendio di questa vita tranquilla e placida, spenta a
quarant'anni.
Il Poliziano aveva uno squisito sentimento
della forma nella piena indifferenza di ogni contenuto. Il tempio
era vuoto: vi entrò Apollo e lo empì d'immagini e di
armonie. Il mondo antico s'impossessò subito di un'anima
dove ogni vestigio del medio evo era scomparso. Il Boccaccio senti
che è ancora medio evo, e lo vedi alle prese co' canoni e
le scienze sacre e le forme dantesche: il vecchio e il nuovo Adamo
combattono in lui, come nel Petrarca: erano tempi di transizione.
Nel Poliziano tutto è concorde e deciso: non ci è
più lotta. Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio
evo nelle sue forme e nel suo contenuto, di cui vedevi ancora la
memoria prosaica nelle laude e ne' misteri, è un mondo in
tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è
per lui la barbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua
anima: non ve lo trova. Il sentimento della bella forma,
già così grande nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui
è tutto; e quel mondo della bella forma, appresso al quale
correvano faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da' primi
anni, è il mondo suo, e ci vive come fosse nato là
dentro, e ne ha non solo la conoscenza, ma il gusto. Questo era la
coltura, l'umanità, il risorgimento, orgoglio di una
società erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il
Boccaccio l'avea abbozzata, e che ora si specchia nel Poliziano
come nel suo modello ideale. Perchè questa generazione,
caduta così basso, fiacca di tempra e vuota di coscienza,
aveva pure la sua idealità, il suo divino, ed era
l'orgoglio della coltura, il sentimento della forma. Le sue
mascherate, le cacce, le serenate, le giostre, le feste, tanta
parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate dalle arti
dello spirito e da' piaceri dell'immaginazione. E se il cardinale
Gonzaga, rientrando nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca
nella poesia il loro ornamento e decoro, il giovane Poliziano gli
scrive in due giorni l'Orfeo. E che cosa è l'Orfeo? Come
gli venne in mente Orfeo? Giovanni Boccaccio nel Ninfale e
nell'Ameto canta la fine della barbarie e il regno della coltura o
dell'umanità. Il rozzo Ameto, educato dalle arti e dalle
muse, apre l'animo alla bellezza e all'amore, e di bruto si sente
fatto uomo. Atalante trasforma il bosco di Diana in città,
e vi marita le ninfe, e v'introduce costumi civili. Orfeo è
il grande protagonista di questo regno della coltura, venuto
dall'antichità giovine e glorioso ne' carmi di Ovidio e di
Virgilio. Questo fondatore dell'umanità col suono della
lira e con la dolcezza del canto mansuefà le fiere e gli
uomini e impietosisce la morte e incanta l'inferno. È il
trionfo dell'arte e della coltura su' rozzi istinti della natura,
consacrato dal martirio, quando, sforzando le leggi naturali,
è dato in balìa all'ebbro furore delle baccanti.
Dopo lungo obblio nella notte della seconda barbarie, Orfeo
rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando il
regno dell'umanità, o per dir meglio, dell'umanismo. Questo
è il mistero del secolo, è l'ideale del
Risorgimento. Le sacre rappresentazioni cacciate dalle
città menano vita oscura nei contadi, e cadono in
così profondo obblio che giacciono ancora polverose nelle
biblioteche.
L'Orfeo è un mondo di pura
immaginazione. I misteri avevano la loro radice in un mondo
ascetico, fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre reale per
una gran parte degli spettatori. Qui tutti sanno che Orfeo, le
driadi, le baccanti, le furie, Plutone e il suo inferno sono
creature dell'immaginazione. A quel modo che nelle giostre i
borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo
cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare una grande
soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co' loro costumi e abiti
le ombre del mondo antico. Che entusiasmo fu quello, quando Baccio
Ugolini, vestito da Orfeo e con la cetra in mano, scendeva il
monte, cantando in magnifici versi latini le lodi del cardinale!
"Redeunt saturnia regna." Sembravano ritornati i tempi di Atene e
Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo, nunzio alle
genti della nuova èra, della nuova civiltà. Nel
medio evo si dicea "vivere in ispirito", ed era il ratto
dell'anima alienata da' sensi in un mondo superiore. Ciò
che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il
sentimento dell'arte, la sola religione sopravvissuta, e si vive
in immaginazione. I ricchi, a quel modo che decorano i palagi
degli avi, decorano con l'arte i loro piaceri.
E che decorazione è quest'Orfeo! Dove
sotto forme antiche vive e si move quella società,
idealizzata nell'anima armoniosa del poeta. È un mondo
mobile e superficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo
sguardo il fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si
esala nel suono e nel canto; il pensiero è appena iniziale,
incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un'elegia;
l'inno è un idillio; e n'esce un mondo idillico-elegiaco,
penetrato di un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e
ti accarezza, insino a che questo bel mondo dell'arte ti si
disfà come nebbia, e ti svegli violentemente tra il furore
e l'ebbrezza dei sensi. Il canto di Aristeo, il coro delle driadi,
il ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di questo mondo
incantato, la cui quiete idillica penetrata di flebile e molle
elegia si scioglie nel disordine bacchico. La lettura non basta a
darne un'adeguata idea. Bisogna aggiungervi gli attori e le
decorazioni e il canto e la musica e l'entusiasmo e l'ebbrezza di
una società che ci vedea una così viva immagine di
se stessa. Il suo ideale, il suo Orfeo è una lieve
apparizione, ondeggiante tra' più delicati profumi, a cui
se troppo ti accosti, ti fuggirà come Euridice. È un
mondo che non ha altra serietà, se non quella che gli
dà l'immaginazione; le passioni sono emozioni, gli
avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre; la vita
danza e canta, e non si ferma e non puoi fissarla. La stessa
leggerezza penetra nelle forme, flessibili, variamente modulate, e
come tutta un'orchestra di metri, entranti gli uni negli altri in
una sola armonia. Il settenario rammorbidisce l'endecasillabo; la
ballata dà le ali all'ottava; le rime si annodano ne'
più voluttuosi intrecci. Ora è il dialetto nella sua
grazia, ora è la lingua nella sua maestà; qui lo
sdrucciolo ti tira nella rapida corsa, là il tronco ti
arresta e ti culla; con una facilità e un brio che pare il
poeta giuochi con i suoi strumenti.
Così Orfeo, il figlio di Apollo e di
Calliope, rinacque; così divenne il nunzio del
Risorgimento. Le edizioni moltiplicarono; penetrò dalle
corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e
favola d'Orfeo; e anche oggi nelle valli toscane ti giunge la
melodia di Orfeo dalla dolce lira, una storia in ottava rima.
Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora nel mondo
moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra
le feste di Firenze nacquero le Stanze. Quel mondo borghese della
cortesia, così ben dipinto nel Decamerone, riproducea nelle
sue giostre il mondo profano de' romanzi e delle novelle, la
cavalleria. I poeti celebrano a suon di tromba "le gloriose pompe
e i fieri ludi" di questi mercanti improvvisati cavalieri e
vestiti all'eroica: non ci era più la realtà; ce
n'era l'immaginazione. Le giostre erano in fondo una
rappresentazione teatrale, e i giostranti erano attori che
rappresentavano i personaggi de' romanzi, spettacolo continuato
oggi nelle corse, con questo progresso, che gli attori sono i
cavalli. Ridicoli sono i poeti che narrano le alte geste de'
giostranti come fossero Orlando e Carlomagno, con le frasi
ampollose de' romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le
fogge, le divise, gli stemmi, gli scontri con una serietà
frivola. Anche Giuliano de' Medici fece la sua giostra, e divenne
l'eroe di quel poemetto che i posteri hanno chiamato le Stanze.
Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol
celebrare le gloriose imprese:
sì che i gran nomi e ' fatti egregi e
soli
fortuna o morte o tempo non involi.
Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati. E che cosa
è rimasto? Le Stanze: forme vaganti, di cui nessuno cerca
il legame, ciascuna compiuta in sè. Nella giovine mente del
poeta non ci è il romanzo: ci è Stazio e Claudiano
con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euripide, ci è
Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio con la sua
Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è
tutto un mondo d'immagini fluttuanti, sciolte, disseminate come le
stelle nel cielo all'occhio semplice del pastore. Questo è
il mondo che vien fuori in un legame artificiale e meccanico,
delle cui fila interrotte nessuno si cura: perchè la
giostra non è il motivo di questo mondo, è la
semplice occasione. La sua unità non è in un'azione
frivola e incompiuta, debole trama. La sua unità è
in se stesso, nello spirito che lo move, ed è quel vivo
sentimento della natura e della bellezza che dal Boccaccio in qua
è il mondo della coltura.
La primavera, la notte, la vita rustica, la
caccia, la casa di Venere, il giardino d'Amore, gl'intagli, non
sono già episodi, sono questo mondo esso medesimo nella sua
sostanza, animato da un solo soffio. Sono l'apoteosi di Venere e
d'Amore, della bella natura, la nuova divinità.
E la natura non ha già quel vago, che ti
fa pensoso e ti tiene in una dolce malinconia; non sei nel regno
de' misteri e delle ombre, nel regno musicale del sentimento: sei
nel regno dell'immaginazione. Venere è nuda, Iside ha
alzato il velo. Non hai più gli schizzi di Dante, hai i
quadri del Boccaccio; non hai più la faccia di Giotto, hai
la figura del Perugino; non hai più il terzetto nel suo
raccoglimento, hai l'ottava rima nella sua espansione. Ci è
quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il
Boccaccio, e di cui senti la fragranza nella Lepidila e nel
Rusticus: l'anima sta come rilassata in dolce riposo, non
fantasticando ma figurando parte a parte e disegnando, quasi
voglia assaporare goccia a goccia i suoi piaceri. E non è
la descrizione minuta, anatomica, spesso ottusa, del Boccaccio;
chè mentre la natura ti si offre distinta come un bel
paesaggio, non sai onde o come ti giungono mormorii, concenti,
note, come la voce di una divinità nascosta nel suo grembo.
La sensualità filtrata fra tanta dolcezza di note lascia in
fondo la sua parte grossolana ed esce fuori purificata; e non
è la musa civettuola del Boccaccio, è la casta musa
del Parnaso, che copre la sua nudità e vi gitta sopra il
suo manto verginale. Nel Boccaccio è la carne che accende
l'immaginazione: nel Poliziano l'immaginazione è come un
crogiuolo, dove l'oro si affina. La sensuale e volgare Griseida si
spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea, e diviene la
gentile Simonetta, bellezza nuda, sviluppata da ogni velo
allegorico dantesco e petrarchesco, a contorni precisi e finiti,
pur divina nella sua realtà:
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
Tra il poeta e il suo mondo non ci è comunione diretta: ci
stanno di mezzo Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio, Ovidio, che
gli prestano le loro immagini e i loro colori. Ma egli ha un gusto
così fine e un sentimento della forma così squisito,
che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova
creazione. Ci è nel suo spirito una grazia che ingentilisce
il volgare naturalismo del suo tempo, e una delicatezza che gli fa
cogliere del suo mondo il più bel fiore. L'insignificante,
il rozzo, il plebeo non entra nella sua immaginazione: ciò
che sta lì dentro è tutto elegante e profumato, e
non cessa che non l'abbia reso con l'ultima finitezza e
perfezione. Le sue reminiscenze mitologiche e classiche sono
semplici mezzi di colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere,
Diana, e la tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo
spirito va al di là della frase, attinge le cose nella loro
vita, e le rende con evidenza e naturalezza. Perciò, raro
connubio, l'eleganza in lui non è mai rettorica e si
accompagna con la naturalezza, perchè ha delle cose una
impressione propria e schietta. La mammola, la rosa, l'ellera, la
vite, il montone, la capra, gli uccelli, le aurette, l'erba e il
fiore, tutto si anima e si configura e prende le più vaghe
e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica.
Ciò che prova non è sensualità, è
voluttà, sensazione alzata a sentimento, che fonde il
plastico e te ne fa sentire la musica interiore. Ottiene
potentissimi effetti con la massima semplicità de' mezzi,
spesso col solo allogare gli oggetti, ora aggruppando, ora
distinguendo, e tutto animando, come persone vive. Tale è
la mammoletta verginella con gli occhi bassi e vergognosa, e
l'ellera che va carpone co' piedi storti, o l'erba che si
maraviglia della sua bellezza, bianca, cilestre, pallida e
vermiglia. Il sentimento che n'esce non ha virtù di tirarti
dalle cose e lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella tua
contemplazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto il
mondo, e non pensi di uscirne, e la guardi parte a parte nella
grazia della sua varietà. Perchè il motivo
dell'ispirazione non è lo spirito nella sua natura
trascendente e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo, e
non come un bel velo, una bella apparenza, ma terminato e
tranquillo in se stesso, quale si mostra nel periodo e
nell'ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio,
divenute la base della nuova letteratura. L'ottava del Boccaccio,
diffusa, pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una
fisonomia. Ciascuna stanza è un piccolo mondo, dove la cosa
non lampeggia a guisa di rapida apparizione, ma ti sta riposata
innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze. Non è
un periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista
emerga tra minori figure; ma è come una serie, dove ti vedi
sfilare avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo.
Diresti che in questa bella natura tutto è interessante, e
non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava
accomodata al genio di un uomo che non ammette l'insignificante e
l'indifferente, e tutto vuole sia oro e porpora. Perciò non
hai fusione, ma successione, che è la cosa come ti si
spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi.
La stanza non ti dà l'insieme, ma le parti; non ti
dà la profondità, ma la superficie, quello che si
vede. Pure le parti sono così bene scelte e la serie
è ordita con una gradazione così intelligente, che
all'ultimo te ne viene l'insieme, prodotto non dalla descrizione,
ma dal sentimento. Vuol descrivere la primavera e ti dà una
serie di fenomeni:
Zefiro già di be' fioretti adorno
avea ai monti tolta ogni pruina;
avea fatto al suo nido già ritorno
la stanca rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente all'òra mattutina;
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore.
Questi fenomeni sono così bene scelti, legati con tanto
accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni così
freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo, e te ne
viene non all'occhio ma all'anima l'insieme, ed è quel
senso d'intima soddisfazione, che ti dà la primavera, la
voluttà della natura. In Dante non ci è
voluttà, ma ebbrezza: così è trascendente.
Nel Boccaccio non ci è voluttà, ma
sensualità. La voluttà è la musa della nuova
letteratura, è l'ideale della carne o del senso, è
il senso trasportato nell'immaginazione e raffinato, divenuto
sentimento. Qui è una voluttà tutta idillica, un
godimento della natura senz'altro fine che il godimento, con
perfetta obblivione di tutto l'altro; senti le prime e fresche
aure di questo mondo della natura assaporato da un'anima, il cui
universo era la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da
Teocrito e da Virgilio. Da questa doppia ispirazione, un intimo
godimento della natura accompagnato con un sentimento puro e
delicato della forma e della bellezza, sviluppato ed educato da'
classici, è uscito il nuovo ideale della letteratura,
l'ideale delle Stanze, una tranquillità e soddisfazione
interiore piena di grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza
ed eleganza della forma; ciò che possiamo chiamare in due
parole: "voluttà idillica". Il contenuto di questo ideale
è l'età dell'oro e la vita campestre, con tutto il
corteggio della mitologia, ninfe, pastori, fauni, satiri, driadi,
divinità celesti e campestri, in una scala che dal
più puro e più delicato va sino al lascivo e al
licenzioso. La forma è il descrittivo ammollito e
liquefatto in dolci note musicali, quale apparisce nell'Orfeo e
nelle Stanze, i due modelli di questa letteratura, che iniziata
nel Boccaccio, andrà fino al Metastasio.
La quale non è lavoro solitario di
letterato nel silenzio del gabinetto, ma è lo spirito
stesso della società, come si andava atteggiando,
còlto nelle costumanze e feste pubbliche. Centro di questo
movimento è Lorenzo de' Medici, col suo coro di dotti e di
letterati, il Ficino, il Pico, i fratelli Pulci, il Poliziano, il
Rucellai, il Benivieni, e tutti gli accademici. La letteratura
vien fuori tra danze e feste e conviti.
Lorenzo non avea la coltura e l'idealità
del Poliziano. Avea molto spirito e molta immaginazione, le due
qualità della colta borghesia italiana. Era il più
fiorentino tra' fiorentini, non della vecchia stampa, s'intende.
Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtà
epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante
da' motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole,
mezzo tra' piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e
nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando orgie
notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore. Era
classico di coltura, toscano di genio, invescato in tutte le
vivezze e le grazie del dialetto. Maneggiava il dialetto con
quella facilità che governava il popolo, lasciatosi menare
da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle
sue tendenze. Chi comprende l'uomo è padrone dell'uomo.
Portò a grande perfezione la nuova arte dello Stato, quale
si richiedeva a quella società, divenute le feste e la
stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza succedeva la
malizia, più efficace: il pugnale del Bandini uccise un
principe, non il principato; la corruzione medicea uccise il
popolo; o per dire più giusto, Lorenzo non era che lo
stesso popolo studiato, compreso e realizzato, l'uno degno
dell'altro. Tal popolo, tal principe. Quella corruzione era ancora
più pericolosa, perchè si chiamava "civiltà",
ed era vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il Landino e il
Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico, con reminiscenze e
immagini classiche, entra nella folla de' rimatori, i quali
continuavano il mondo tradizionale de' sonetti e delle canzoni. Ce
n'erano a dozzina, e in tutte le parti d'Italia: l'uomo colto
esordiva col sonetto, uso giunto fino a' tempi nostri. Molti
canzonieri uscirono in questo secolo; appena è se oggi si
ricordi Giusto de' Conti e il Benivieni. Continuare il Petrarca
dovea significare realizzarlo, sviluppare quell'elemento sensuale,
idillico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e che
è l'elemento nuovo. Ma il povero Petrarca era malato, e i
sonettisti esalano sospiri poetici dall'anima vuota e
indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti
scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria, senza base.
Non c'è più un mondo organico, ma un accozzamento
fortuito e monotono di forme divenute convenzionali. Manca
l'immaginazione e la malinconia e l'estasi, i veri fattori del
mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e le
acutezze dello spirito, congiunta l'insipidezza con le vuote
sottigliezze, come nelle rime tanto celebrate del Ceo, del
Notturno, del Serafino, del Sasso, del Cornazzano, del Tebaldeo.
Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita nuova, e
narra il suo innamoramento, con le occasioni e le spiegazioni de'
suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur
disinvolta e franca. Anche nel suo Canzoniere appariscono forme e
idee convenzionali; anche vi domina lo spirito, di cui avea
sì gran dovizia. Ma c'è lì una sua impronta;
ci è un sentimento idillico e una vivacità
d'immaginazione che alcuna volta ti rinfresca e ti fa andare
avanti con pazienza. Non ci è sonetto o canzone che si
possa dire una perfezione; ma c'è versi assai belli e qua e
là paragoni, immagini, concetti che ti fermano.
Il sonetto e la canzone sono quasi forme
consacrate e inalterabili, dove nessuno osa mettere una mano
profana. Rimangono perciò immobili, senza sviluppo. Il
nuovo spirito si fa via nella nuova forma, l'ottava rima o la
stanza. Vi apparisce l'amore idillico-elegiaco, proprio del tempo;
la forma condensata del Petrarca si scioglie e si effonde ne'
magnifici giri dell'ottava; non più concetti e sottili
rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni. Anche dove
il concetto è dantesco, come nelle stanze del Benivieni,
che, lasciato il primo casto amore e corso appresso alla sirena,
si sente trasformato in lonza, la forma è lussureggiante e
vezzosa, e più simile a sirena che a casta donna. Modello
di questo genere è la Selva d'Amore di Lorenzo,
composizione a stanze, d'un fare largo e abbondante, alquanto
sazievole, il cui difetto è appunto il soverchio
naturalismo, una realtà minuta, osservata e riprodotta
esattamente ne' suoi caratteri esterni, non fatta dall'arte mobile
e leggiera, non idealizzata. Tra le sue più ammirate
descrizioni è quella dell'età dell'oro, dove
è patente questo difetto. Vedi l'uomo in villa, che tutto
osserva, e anima con l'immaginazione la natura senza averne il
sentimento. Ci è l'osservatore, manca l'artista.
Bella e parimente sazievole è la
descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono
sulla natura. La soverchia esattezza nuoce all'illusione e
addormenta l'immaginazione. Veggasi questa ottava:
Siccome il cacciator ch'i cari figli
astutamente al fero tigre fura;
e benchè innanzi assai campo gli pigli,
la fera, più veloce di natura
quasi già il giunge e insanguina gli
artigli;
ma veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova in su la rena,
crede sia 'l figlio e 'l corso suo raffrena.
Ci si vede un uomo che in un fatto così pieno di
concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e osserva e
spiega il fenomeno e lo rende con evidenza, ma non ne riproduce il
sentimento: c'è l'esattezza, manca il calore e l'armonia.
Veggasi ora l'artista, il Poliziano:
Qual tigre a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
poi resta di uno specchio all'ombra vana,
all'ombra ch'e suo' nati par somigli;
e mentre di tal vista s'innamora
la sciocca, el predator la via divora.
Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma si
paragoni. Ciò che in Lorenzo è naturalismo, è
idealità nel Poliziano. Nell'uno è il di fuori
abbellito dall'immaginazione, l'altro nel di fuori ti fa sentire
il di dentro. Lorenzo dice:
Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:
altra più giovinetta si dislega
appena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all'aer niega;
altra cadendo a piè il terreno infiora.
Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e con
proprietà rara di vocaboli. Vedete ora nel Poliziano queste
rose animarsi come persone vive: ne senti la fragranza, la grazia,
la freschezza:
questa di verdi gemme s'incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra che 'n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boccaccio nel
Ninfale dava l'esempio, il poeta non è obbligato a
platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per
tutta una vita. Finge amori altrui, e in luogo di chiudersi nella
natura e ne' fenomeni dell'amore fino alle più raffinate
acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualità degli
avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che
introduce sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una
storia umana. Come son care queste ricordanze di donna amata, che
torna a casa e non vi trova il suo amore!
Qui l'aspettai, e quinci pria lo scòrsi,
quinci sentii l'andar de' leggier piedi,
e quivi la man timida li porsi;
qui con tremante voce dissi: - Or siedi, -
qui volle allato a me soletto porsi,
e quivi interamente me li diedi...
O sospirar che d'ambo i petti uscia!
O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lasciommi piena di disio,
quando già presso al giorno disse: -
Addio.
L'Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia sono poemetti di
questo genere. Soprastà per calore ed evidenza di
rappresentazione l'Ambra, graziosa invenzione ispirata da Ovidio e
dal Boccaccio. Ma il capolavoro è la Nencia, che pare una
pagina del Decamerone. Qui Lorenzo lascia la mitologia e gli amori
sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della società,
rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini, con
un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre
il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze
fu piena della Nencia; era la città che metteva in
caricatura il contado. L'idillio vi si accompagna con quel sale
comico, che si sente nel prete di Varlungo e monna Belcolore, e
che è la vera genialità di Lorenzo: basta ricordare
i Beoni. Chi ama i paragoni ragguagli la Beca, la Nencia e la
Brunettina, tre ritratti di contadine. Nella Beca del Pulci senti
il puzzo del contado: la caricatura è sfacciatamente
volgare e licenziosa. Nella Nencia hai l'idealità comica:
una caricatura fatta con brio e con grazia, con un'aria perfetta
di bonomia e di sincerità. Nella Brunettina del Poliziano
hai il ritratto ideale della contadina, rimossa ogni intenzione
comica. È la Venere del contado con morbidezza di tinte
assai ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione ed
eleganza del disegno. Notabile è soprattutto la
verità del colorito e la perfetta realtà.
Tra le feste si ravviva la poesia popolare.
Vedevi Lorenzo andar per le vie, come re Manfredi, sonando e
cantando tra' suoi letterati. Il poeta della Nencia qui è
nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella società
licenziosa e burlevole. La trasformazione è compiuta:
giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione. I Beoni o il
Simposio è una parodia della Divina Commedia e dei Trionfi
non pur nel disegno, ma nelle frasi: le sacre immagini
dell'Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini
dell'ebbrezza. Tra questi passatempi poetici è da porre la
Caccia col falcone, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati
con lepore e con grazia in stanze sveltissime, con tutt'i sali e
le vivezze del dialetto. Così si passava allegramente il
tempo:
E così passo, compar, lieto il tempo,
con mille rime in zucchero ed a tempo.
Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di
costumi.
Lo stesso spirito è nelle
ballate e ne' canti carnascialeschi: una sensualità
illuminata dall'allegria e dall'umor comico. Il mondo
convenzionale de' trovatori è ito via, e insieme il suo
vocabolario. Ti senti in mezzo a un popolo festevole e
motteggiatore, che ha rotto il freno e si dà balìa.
Un'allegria spensierata e licenziosa è il motivo di questi
canti: l'amore non è un affetto, ma un divertimento, un
modo di stare allegri. Il motto comune è la brevità
della vita, l'orrore della vecchiezza, il dovere di coglier la
rosa mentre è fiorita, quel tale: "Edamus et bibamus: post
mortem nulla voluptas". Aggiungi la caricatura de' predicatori di
morale e delle cose sacre, com'è la confessione di Lorenzo
e la sua preghiera a Dio contro i mal parlanti. In questo mondo,
rappresentato dal vero e nell'atto della vita, così di fuga
e tra le impressioni, non hai concetti raffinati, ma pittura
vivace di costumi e di sentimenti, come l'ansia dell'aspettare
nella canzone:
Io non so qual maggior dispetto sia
che aspettar quel che il cor brama e desia;
o il dispetto contro i gelosi:
Non mi dolgo di te, nè di me stessi,
chè so mi aiuteresti stu potessi;
o quel volere e disvolere della donna nella canzonetta sulla
pazzia, e nell'altra, tirata giù tutta di un fiato,
così rapida e piena di cose:
Ei convien ti dica il vero
una volta, dama mia.
Questo carnevale perpetuo si manifesta ne' Canti e Trionfi
carnascialeschi in tutta la sua licenza. Uscivano di carnovale,
come si costuma anche oggi, carri magnificamente addobbati, ora
rappresentazioni mitologiche, com'è il Trionfo di
Bàcco e Arianna co' suoi satiri e Sileno e Mida, ora
corporazioni di arti e mestieri, com'è il canto de'
"cialdonai", o de' "calzolai", o delle "filatrici", o de'
"bericuocolai", ora pitture sociali, come il canto delle
"fanciulle", o delle "giovani donne", o de' "romiti", o de'
"poveri". Il motivo generale è l'amor licenzioso,
stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in moto
l'immaginazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in
piazza e portato in trionfo. La rappresentazione della vita e de'
costumi e delle condizioni sociali e l'allegra caricatura, che
sono l'anima di questo genere di letteratura, com'è nel
"carnevale" di Goethe, si perdono ne' bassi fondi della
oscenità plebea. Cosa ora possono essere le sue Laude, se
non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
In questa pozzanghera finirono le serenate, le
mattinate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli strambotti,
le cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a mano
de' letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti perde i suoi
vezzi e le sue leggiadrie ne' sonetti plebei del canonico Franco e
suoi pari, che non avevano neppure l'arguzia e la festività
di Lorenzo.
Il popolo era meno corrotto de' suoi letterati.
Ne' suoi canti non trovavi certo l'amore platonico e ascetico e i
concetti raffinati, ma neppure gli equivoci osceni di Lorenzo e le
brutture del Franco.
La più schietta voce di questa
letteratura popolare è Angelo Poliziano. Rado capita negli
equivoci. Scherza, motteggia, ma con urbanità e decenza,
come ne' suoi consigli alle donne:
Io vi vo', donne, insegnare
come voi dobbiate fare;
e nel "ritratto della vecchia", e in quella ballata graziosissima:
Donne mie, voi non sapete
che io ho il mal che avea quel prete.
Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle
"montanine" di Franco Sacchetti, massime quando il fondo è
idillico, come nella ballata dell'"augelletto", e nell'altra:
Io mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio, in un verde giardino.
Nelle sue canzoni e canzonette, nelle sue Lettere e ne' suoi
rispetti non trovi novità d'idee o d'immagini o di
situazioni, e neppure un'impronta personale e subbiettiva, come
nel Petrarca. Ci trovi il segretario del popolo, che traduce in
forme eleganti il repertorio comune de' canti popolari dall'un
capo all'altro d'Italia. Perciò non hai qui la freschezza e
originalità delle stanze idilliche: spesso ci senti la
fretta e la distrazione, come di chi scriva di fuga e per
occasione. Vedi ritornare le stesse idee con lievi mutamenti,
com'è il fuggire del tempo e il coglier la rosa fiorita. Il
dizionario delle idee popolari è piccolo volume, e non
s'ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle poche idee si aggirano
intorno a situazioni generiche e semplici, come sono la bellezza
del damo o della dama, la gelosia, la dipartita, l'attendere, lo
sperare, l'incitare, la disperazione e i pensieri di morte, le
dichiarazioni e le disdette. Sono l'espressione di un essere
collettivo, non del tale e tale individuo. E così sono nel
Poliziano. I nomi mutano, secondo l'argomento, come la dipartita e
la ritornata, e anche secondo il tempo, come la serenata o il
notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse. Sono per lo
più stanze in rime variamente alternate, come nelle ballate
e ne' rispetti, fatte svelte e leggiere nelle canzonette, ove
domina il settenario o l'ottonario. Spesso non hai che un solo
motivo variamente modulato e con graziose ripigliate, come fosse
un trillo o un gorgheggio:
E crederrei, s'io fossi entro la fossa,
risuscitare al suon di vostra gola;
crederrei, quando io fussi nell'inferno,
sentendo voi, volar nel regno eterno.
La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano. Ci si vede
il cervello in riposo, fra onde musicali, e come viene l'idea, non
corre a un'altra, ma ci si ferma e la trattiene deliziosamente
nell'orecchio, finchè non le abbia data tutta la sua
armonia. Questo palpare e accarezzare l'idea, compiuta già
come idea, ma non ancora compiuta come suono, è proprio
della poesia popolare, povera d'idee, ricca d'immagini e di suoni.
La parola è nel popolo più musica che idea.
Ciò che si diceva allora: "cantare a aria", qual si fosse
il contenuto, o come dice un poeta, "siccome ti frulla".
Così cantavasi "Crocifisso a capo chino", una lauda, con la
stess'aria di una canzone oscena.
Tra queste impressioni nacque la "canzone di
maggio", il saluto della primavera:
Ben venga Maggio,
e il gonfalon selvaggio,
cantata dalle villanelle, che venivano a Firenze, anche due secoli
dopo, come afferma il Guadagnoli. Vi si nota la fina eleganza di
un uomo che fa oro ciò che tocca, congiunta con una
perspicuità che la rende accessibile anche alle classi
inculte. Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e
sensuale, con l'aria di chi partecipa a quella vita ed è
pur disposto a pigliarne spasso; il Poliziano anche nelle sue
più frivole apparenze le gitta addosso un manto di porpora,
elegante spesso, gentile e grazioso sempre. Alla idealità
del Poliziano si accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e
Arianna.
Lorenzo e il Poliziano sono il centro
letterario de' canti popolari, sparsi in tutta Italia non solo in
dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi
versi, come: "O crudel donna, che lasciato m'hai"; "Giù per
la villa lunga / la bella se ne va"; "Chi vuol l'anima salvare /
faccia bene a' pellegrini", ecc. Vi si mescolavano laude, racconti
e poemetti spirituali con le stesse intonazioni. Li portavano ne'
più piccoli paesi i rapsodi o poeti ambulanti e i ciechi
con la loro chitarra o mandòla in collo, che vivevano di
quel mestiere. E si chiamavano "cantastorie", quando i loro canti
erano romanzette o romanze, racconti di strane avventure
intercalati di buffonerie e motti licenziosi. Questa letteratura
profana e proibita a' tempi del Boccaccio, come s'è visto,
era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti.
Erano alla moda "romanzi franceschi" con le loro traduzioni,
imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In questo secolo
moltiplicarono co' rispetti e le ballate anche i romanzi. Della
cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle corti, e alcuna
lontana reminiscenza ne davano le compagnie di ventura. Cavaliere
e cavallo era ancora il tipo della storia, l'ideale eroico
celebrato nelle giostre e riflesso ne' romanzi. Se ne scrivevano
in dialetto e in volgare. Tra gli altri che venner fuori, sono
degni di nota l'Aspromonte, l'Innamoramento di Carlo,
l'Innamoramento di Orlando, Rinaldo, la Trebisonda, i Fioretti de'
paladini, il Persiano, la Tavola rotonda, il Troiano, la Vita di
Enea, la Vita di Alessandro di Macedonia, il Teseo, il Pompeo
romano, il Ciriffo Calvaneo. Il maggiore attrattivo era la
libertà delle invenzioni: si empivano le carte di fole e di
sogni, come dice il Petrarca; e chi le dicea più grosse,
era stimato più. Questo elemento fantastico penetrò
anche ne' misteri, come nelle laude era penetrato il canto
popolare. Le rappresentazioni presero una tinta romanzesca:
l'effetto, non potendosi più trarre da un sentimento
religioso che faceva difetto, si cercava nella varietà e
nel maraviglioso degli accidenti, com'è il San Giovanni e
Paolo di Lorenzo.
Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli
strati della società, e dalle corti scendeva fino ne'
più umili villaggi e di là risaliva alle corti. La
plebe aveva i suoi cantastorie, la corte aveva i suoi novellatori.
E non si contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi
dalle cronache e dalle tradizioni, ma vi aggiungevano del loro non
solo nel colorito e negli accessorii, ma nella invenzione. Il
Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte e tra liete brigate,
come immagino fossero recitate le sue novelle. Il suo Florio, il
Teseo, il Troilo lasciarono poco durevole vestigio, perchè
argomenti poco popolari e guasti dall'erudizione e dalla
mitologia. Ma l'impulso da lui dato fu grande; e la ballata, la
novella, il romanzo, ciò che chiamasi letteratura profana,
divennero l'impronta del secolo, da Franco Sacchetti a Lorenzo de'
Medici. La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli
eroi della Tavola rotonda e i paladini di Carlomagno. In antico la
Tavola rotonda avea molta popolarità, e Tristano e Isotta
tennero per qualche tempo il primato. Il Boccaccio nell'Amorosa
visione cita gli eroi principali di queste tradizioni normanne,
come nomi già noti e volgari. Ma la Francia era più
nota, e i "romanzi franceschi più diffusi", e Carlomagno
avea un certo legame con l'Italia, come un eroe religioso,
protettore del papa e vincitore de' saracini e precursore delle
crociate. Era già comparso l'Innamoramento di Orlando. E
Matteo Boiardo ci die' l'Orlando innamorato, una vasta tela in
sessantanove canti, interrotta dalla morte.
Il Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella
corte estense, divenuta un centro letterario importante accanto a
Napoli, Roma e Firenze. Ivi la letteratura nasceva pure fra le
giostre, gli spettacoli e le danze. Il Boiardo, uomo coltissimo,
dotto di greco e di latino, studiosissimo di Dante e del Petrarca,
era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio alla
letteratura toscana. Ne' suoi sonetti, canzoni e ballate è
facile a vedere non so che astratto e rigido, come di uomo ben
composto negli atti e nella persona, pure impacciato. È in
lui una serietà di motivi che in quel secolo della parodia
si può chiamare un anacronismo. Gli piace recitare i suoi
canti tra liete brigate, e averne le lodi; ma i passatempi e gli
scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe profanare i suoi
eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la serietà d'Omero,
e fu salutato allora l'"Omero italiano". Certo, non crede alle sue
favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune
incredulità scappa fuori alcuna volta in qualche tratto
ironico; ma questo riso della coltura a spese della cavalleria non
è il motivo, e un accessorio fuggevole del racconto. Cosa
dunque aveva più di serio la cavalleria nella coscienza
italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e le
cerimonie e le feste delle corti. Quelle forme erano così
vuote, come le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni sentimento
eroico e religioso, anzi negato e parodiato. Invano si studia il
Boiardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie
proporzioni di un'epopea.
Il mondo omerico è un organismo vivente,
dove sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono
perfettamente realizzati e armonizzati: il mondo cavalleresco,
mancati tutt'i suoi motivi interiori, è qui sotto forme
epiche il mondo plebeo dell'immaginazione, un maraviglioso sciolto
dalle leggi dello spazio e del tempo, senza serietà di
scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi di spada. Come
Elena nell'Iliade, qui è Angelica che move intorno a
sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice
antecedente, rimasto ozioso nel racconto, e Angelica è la
vera motrice dell'immensa macchina, è il maraviglioso in
permanenza, la maga. Il miracolo continua: non lo fanno i santi;
lo fanno i maghi e le maghe. E il miracolo non è la
macchina o l'istrumento, ma è fine a se stesso. Voglio dire
che il miracolo non è un mezzo per conseguire uno scopo
serio e sviluppare un'azione interessante, come nelle leggende e
ne' primitivi poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo
nel mondo del Boiardo altra serietà che il miracolo stesso,
il fine di sorprendere gli uditori con la straordinarietà
degli avvenimenti. I motivi delle azioni non sono a cercare nella
serietà di un mondo religioso, morale, eroico, divenuto
convenzionale e tradizionale, come il mondo cristiano, ma nel
libero gioco delle passioni e de' caratteri sotto l'influsso di
potenze occulte. Onde nasce un mondo pieno di vivacità e di
mobilità, dove tutte le forze dell'individuo, non frenate
da leggi e da autorità superiori, si sviluppano nel pieno
rigoglio della natura e producono effetti così maravigliosi
come le stregonerie e gl'incanti. Orlando e Rinaldo ti fanno
maravigliare non meno che Malagigi e Angelica. Un mondo
così essenzialmente fantastico e insieme così poco
serio per il poeta e per gli uditori è in fondo quel mondo
della cortesia calato dal Boccaccio in mezzo alla borghesia e
fatto moderno, e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie. Il
ferrarese ha creduto renderlo cosa seria, dandogli forma nobile e
decorosa, purgata dalle licenze e da' disordini de' romanzi
plebei; ma è appunto quest'apparenza di serietà che
toglie attrattivo al suo racconto. Ne' romanzi plebei il
maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti e ingenui uditori;
ma i colti "signori e cavalieri", alla cui presenza recitava il
Boiardo i suoi canti, non potevano vedere in quei fantastici
racconti che un puro giuoco d'immaginazione, disposti a spassarsi
della plebe, che faceva gli occhioni e apriva la bocca. Quel mondo
dunque non poteva divenire borghese se non trasportato
nell'immaginazione e accompagnato da un sogghigno. E tutte e due
queste condizioni mancano nell'Orlando innamorato. Il Boiardo ha
molta vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la
sua penna. Certo, non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e
di là; trova innanzi a sè un immenso materiale
agglomerato da' secoli: ma quella materia la fa sua, scegliendo,
combinando, padroneggiandola. Il suo intento, direi quasi la sua
vanità, è di sorprendere gli uditori con la
ricchezza e varietà de' suoi intrecci, menandoseli appresso
tra le più strane avventure. Ma al Boiardo mancano tutte le
grandi qualità dell'artista, e soprattutto quelle due che
sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo,
l'immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora lo scherzo; ma
rimane un tentativo abortito: non ha brio, non facilità,
non grazia. Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell'alta
immaginazione artistica che si chiama fantasia. Vede chiaro,
disegna preciso, come fosse un mondo storico; e appunto
perciò in un mondo così fantastico rimane pedestre e
minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni, non ti
tira per forza in una regione incantata. A questo grande inventore
di magie la natura negò la magia più desiderabile,
la magia dello stile. Le più originali concezioni, le
più interessanti situazioni ti cascano sul più
bello: sei nel fantastico e ti trovi nel volgare, e Angelica ti si
trasforma in una donnicciuola e Orlando in un babbeo. Il che
avviene senza intenzione comica, unicamente per la soverchia
crudezza de' colori, a cui mancano le gradazioni e le mezze tinte.
Così quel mondo, che nella sua intima natura dovea essere
fantastico e comico, ti riesce spesso nella rappresentazione
prosaico e volgare. Non una sola situazione, non una figura
è rimasta viva. Dicesi che il nobil conte facesse suonare a
festa le campane del villaggio, quando gli venne trovato il nome
di Rodamonte, quasi l'importanza fosse ne' nomi o ne' fatti. E non
è Rodamonte che è rimasto vivo, è Rodomonte.
Se il Boiardo recitava i suoi canti a' signori
ferraresi, Luigi Pulci rallegrava le feste e i conviti di Lorenzo
recitando le stanze del suo Morgante. Qui ritroviamo la fisonomia
letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello
"sgangherato e senza remi", come lo chiama Battista Alberti, sino
a Lorenzo de' Medici. Il Pulci discende in diritta linea dal
Boccaccio e dal Sacchetti, e ne sviluppa le tendenze con
più energia che non il Poliziano e non Lorenzo.
Piglia il romanzo come lo trova per le vie, un
miscuglio di santo e di profano, di buffonesco e di serio. E non
pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente più gli
ripugna che la tromba. Ti dà un mondo rimpiccinito, fatto
borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduta la
loro aureola, e ti camminano innanzi semplici mortali. Niente
è più volgare che Carlo o Gano. Carlo è un
rimbambito, Gano è un birbante destituito di ogni
grandezza: volgare lui, volgari i suoi intrighi. Rinaldo è
un ladrone di strada, Ulivieri è un cacciatore di donne e
la sua Meridiana non è in fondo che una femminella. Di
caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo
superficiale e mobilissimo, e vai di palo in frasca, e non ti
raccapezzi. Gano trama la rovina de' paladini, Forisena si gitta
dalla finestra, Babilonia rovina, Carlo è scoronato da
Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori appena
abbozzati, come non fossero opera di uomini, ma di qualche
bacchetta magica, rappresentati con la stessa indifferenza e
leggerezza di colorito, con la quale Morgante si mangia un
elefante e sfracella il capo a una balena. È la cavalleria
com'era concepita e trasformata dalla plebe. Il cantastorie
è in fondo un giullare, o piuttosto un buffone plebeo, che
abbassa quel mondo al suo livello e de' suoi uditori, e invocati
gravemente Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a' suoi lazzi,
e ti fa sbellicar dalle risa. Il buffone, personaggio accessorio
ne' racconti e nelle commedie, è qui il personaggio
principale, è lo spirito stesso del racconto. La parte
più seria del romanzo è certo la morte di Orlando; e
anche lì quanti lazzi! Ecco il principio della grande
battaglia:
Chi vuol lesso Macon, chi l'altro arrosto;
ognun volea del nimico far torte:
dunque vegnamo alla battaglia tosto,
sì ch'io non tenga in disagio la morte,
che colla falce minaccia ed accenna
ch'io muova presto le lance e la penna.
Nell'inferno si fa gran festa, che attendono i pagani; Lucifero
"trangugiava a ciocche le anime che piovean de' seracini"; e san
Pietro attende le anime de' cristiani:
E perchè Pietro a la porta è pur
vecchio,
credo che molto quel giorno s'affanna;
e converrà ch'egli abbi buon orecchio,
tanto gridavan quelle anime: - Osanna! -
ch'eran portate dagli angeli in cielo:
sicchè la barba gli sudava e 'l pelo.
I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da'
macellai e da' cucinieri; i colpi di spada sono in modo
così grossolano esagerati che la morte stessa diviene
ridicola; i miracoli sono così strani e così
caricati che perdono ogni serietà, come è Orlando
morto, trasformato in colomba, che si posa sulla spalla di Turpino
e gli entra in bocca con tutte le penne.
Se il buffone fosse di buona fede, seriamente
credulo e sciocco, avremmo il grottesco, com'è ne' romanzi
primitivi. Ma qui il buffone è un uomo colto, che parla a
un colto uditorio, e non è il buffone, ma fa il buffone,
contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede.
Sicchè ci troviamo in quella stessa disposizione di animo
che ispirò la Belcolore e la Nencia: è il borghese
che si spassa alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla finta
serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse,
chiama in testimonio Turpino, o dove nelle cose più gravi
fa boccacce e t'esce fuori con una smorfia e si burla del suo
argomento e de' suoi personaggi. La parodia è ancora
più comica, perchè dissimulata con molta cura, di
rado rilevata, e posta il più sovente nella natura stessa
del fatto senza alcuno artificio di forma, come è Morgante
che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o
Margutte che scoppia dalle risa e muore. E riderà in
eterno, nota l'angiolo Gabriello, trasformato l'individuo in tipo.
La rappresentazione è anch'essa conforme a questa parodia
plebea. La plebe non analizza e non descrive; ma ha l'intuito
sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che vede alla
naturale e così in grosso, e non ci si ferma e passa oltre.
La forma qui è tutta esteriore e rapida; si movono insieme
"le lance e la penna"; l'autore, mentre move la penna, vede le
lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal
fondo, e ti balzano innanzi vivide, e tu le cogli in una sola
girata d'occhio. L'ottava non ha periodo e le rime non hanno
gioco: è un incalzare di versi senza posa, frettolosi, poco
curati, gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro
è un verso solo. Al che aiuta il dialetto, maneggiato
maestrevolmente, soprattutto per la proprietà de' vocaboli.
Tutto è plebeo: azioni, passioni e linguaggio. Un
capolavoro di questa vita plebea è il sacco di Sarragozza,
col supplizio di Gano e di Marsilio. - "E io voglio fare il boia"
-, dice l'arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illuminano
tutta una situazione. La risposta di Rinaldo a Marsilio, che vuol
farsi cristiano all'ultima ora, è quale potrebbe suonare in
bocca di un becero.
Il romanzo è una commedia, che contro
l'intenzione dell'autore si volge in tragedia. Ma la tragedia
è da burla, e non ce n'è il sentimento. Lo spirito
del racconto è il basso comico, un comico vuoto e
spensierato, che imputridisce nelle acque morte di
un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia. Maggiore
spirito è in Lorenzo e nel Boccaccio, che si mescolano fra
la plebe, e non sono plebe e la guardano alcun poco dall'alto. Ma
il Pulci, ancorchè uomo colto, per i sentimenti e le
inclinazioni è plebe, e a forza di rappresentare la parte
del buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale.
Perciò gli mancano tutte le alte qualità di un
artista comico: la grazia, la finezza, la profondità
dell'ironia, e ti riesce spesso grossolano, superficiale, inculto
e negletto anche nella forma. Ha non solo la grossolanità,
ma anche l'angustia di un'immaginazione plebea, non essendoci ne'
suoi personaggi molta ricchezza di carattere, quella
varietà di movenze, di sentimenti e d'istinti che fa
dell'uomo un piccolo mondo. Rinaldo, Orlando, Ulivieri, Astolfo,
Sansonetto, Ricciardetto, i paladini sono tutti a uno stampo, e
non ci è differenza in loro che della forza. Malagigi
è insignificante. Gano, Falserone, Bianciardino, Marsilio,
Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salincorno, tutt'i pagani sono
esseri superficiali, e spesso puri nomi. I più accarezzati
dall'autore sono i due personaggi del suo cuore, Morgante e
Margutte. Morgante è lo scudiere di Orlando, ed è il
vero protagonista, lo spirito del racconto. Non è il
cavaliere, è lo scudiere l'eroe di questa storia plebea, il
cui spirito penetra dappertutto e si continua anche dopo la sua
morte. Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della
plebe, ghiotto, millantatore, ignorante, di poca malizia, ma
buono, fedele e coraggioso. Il suo battaglio è l'emulo di
Durindana. Margutte è la plebe nella sua degenerazione e
corruzione, ignobile, beffardo, ladro, fraudolento, assai vicino
all'animale. Questi due esseri accoppiati insieme si compiono e si
spiegano. Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari e
i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la vera
parodia, come è di Sancio Panza e don Chisciotte. Ma lo
spirito plebeo penetra ancora fra' cavalieri, e Margutte e
Morgante sono non una parte, ma il tutto, l'alto modello a cui
più o meno è informata la storia, intitolata a buona
ragione Il Morgante.
Una concezione originale è Astarotte. Il
diavolo cornuto di Dante, che già riceve una prima
trasformazione nel suo nero cherubino, il bravo loico che ha tutta
l'aria di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed
è un buon compagnone. Come il nero cherubino arieggia agli
scolastici, Astarotte è il nuovo spirito del secolo,
motteggiatore, ironico e libero pensatore, che fa il teologo e
l'astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini
Dionisio e Gregorio; chè
ognuno erra
a voler giudicare il ciel di terra
Astarotte, che è stato un serafino e de' principali, sa
molte cose, che non sanno "i poeti, i filosofi e i morali", e dice
la verità, e non fa come gli spiriti folletti che si
aggirano per l'aria e ingannano gli uomini, "facendo parere quel
che non è":
chi si diletta ir gli uomini gabbando,
chi si diletta di filosofia,
chi venire i tesori rivelando,
chi del futuro dir qualche bugia.
Vedesi la filosofia messa a fascio con l'astrologia e le altre
arti di gabbare gli uomini.
Ma Astarotte promette di dire la verità,
e tiene la promessa, come un diavolo d'onore:
Chè gentilezza è bene anche in
inferno.
E sa la verità non per ragione, ma per esperienza, come di
cose che vede e tocca, confermandole anche con l'autorità
della Scrittura. Dove ci vuol ragione, come nella quistione della
prescienza, la quale "l'umana gente avvolge di tanti errori",
dice: - "Nol so: però non ti rispondo" -. Ma quanto a'
fatti, afferma ardito e sicuro. E afferma che, salvo i giudei e i
saracini, piacciono a Dio quelli che osservano la loro religione,
come fecero gli antichi romani, su' quali piovve tanta grazia
celeste; che al di là delle colonne d'Ercole è
l'altro emisperio, abitato come questo, e ben vi si può
ire; che quella gente è parte della famiglia di Adamo,
anch'essa redenta, altrimenti Dio sarebbe stato partigiano; che
gli animali pinti nel padiglione di Luciana non sono tutti, e
compie la lista descrivendo un gran numero di animali poco noti.
Rinaldo, avido d'imparare, si propone di lanciarsi pe' mari ignoti
e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte: la poesia
indovina Cristoforo Colombo, o piuttosto la scienza, perchè
il dotto Astarotte era in fondo il celebre Toscanelli, amico e
suggeritore del Pulci.
Questa concezione è una delle più
serie della nostra letteratura e delle meglio disegnate e
sviluppate del Morgante. Ci è lì il secolo nelle sue
intime tendenze non ancora ben chiare, che volge le spalle alle
forme scolastiche e alle contemplazioni ascetiche, e diffida de'
ragionamenti astratti, e si gitta avido nella esplorazione della
natura e dell'uomo. Il mondo gli si allarga innanzi, e mentre gli
uni ricalcano le vie della storia e rifanno Atene e Roma, gli
altri lasciando teologia, filosofia e astrologia e fatture e altre
"opinioni sciocche", mostre ingannevoli degli spiriti folletti,
percorrono la terra in tutt'i versi e già sono con
l'immaginazione al di là dell'oceano. Il secolo comincia a
prender possesso della terra; la storia naturale, la fisica, la
nautica, la geografia prendono il posto delle quistioni sugli enti
e sull'esistenza degli universali - i fatti e l'esperienza
occupano le menti più che i ragionamenti sottili. Aggiungi
l'ironia, quel prender le cose così alla leggiera e
sdrucciolandovi appena, quell'aria già scettica e
miscredente, ancorachè non ci sia ancora negazione e
scetticismo, e avrai l'immagine del secolo, il ritratto di
Astarotte. Ma l'autore sembra quasi non accorgersi della stupenda
concezione, e abborraccia dappertutto, anche qui. Gli manca la
coscienza seria e intelligente delle nuove vie, nelle quali entra
il secolo; gli manca quell'elevatezza d'animo che rende eloquente
l'uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi orizzonti. L'Ulisse di
Dante è sublime; il suo Rinaldo è insignificante. E
l'Astarotte riesce l'eco volgare e confusa di un secolo ancora
inconsapevole di sè.
Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il
Pontano e tutti gli eruditi e i rimatori di quell'età non
sono che frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato
di preparazione, senza sintesi.
Ci è un uomo che per la sua
universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon
Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e
letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a
Bologna, cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze
accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo; caro a' papi, a Giovan
Francesco signore di Mantova, a Lionello d'Este, a Federigo di
Montefeltro; celebrato da' contemporanei come "uomo dottissimo e
di miracoloso ingegno", "vir ingenii elegantis, acerrimi iudicii,
exquisitissimaeque doctrinae", dice il Poliziano. Destrissimo
nelle arti cavalleresche, compì i suoi studi a Bologna
dalle lettere sino alle leggi, datosi poi con ardore alle
matematiche e alla fisica. Deesi a lui la facciata di Santa Maria
Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo Rucellai, la
chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco primon Rimini.
Sono suoi trovati la camera ottica, il reticolo de' pittori e
l'istrumento per misurare la profondità del mare, detto
"bolide albertiana". Nelle sue Piacevolezze matematiche trovi non
pochi problemi di molto interesse, e nei suoi libri
Dell'architettura, che gli procacciarono il nome di "Vitruvio
moderno", hai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute.
I suoi Rudimenti e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua
contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste arti.
Fu così pratico del latino, che un suo
scherzo comico scritto a venti anni e intitolato Philodoxeos,
venne da tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittore
latino, e da Alberto d'Eyb a Carlo Marsuppini, professore di
rettorica a Firenze e segretario della repubblica. E non minor
pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso, addestratosi anche
nel maneggio del dialetto, quando con Cosimo de' Medici e gli
altri sbanditi fu richiamato in Firenze. Ne' suoi Intercenali o
"intrattenimenti della cena", ne' suoi Apologhi, nel suo Momo
scritto a Roma il 1451, dove rappresenta se stesso, piacevoleggia
con urbanità. Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non
ne scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono le
sue Egloghe e le sue Elegie, amorosi idilli, come era la voga dal
Boccaccio in qua. Era in voga anche Platone, e platonizzò.
Ma al suo ingegno così pratico, così lontano dalle
astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico, che facea
andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo seguì come
artista ne' suoi dialoghi della Tranquillità dell'animo e
della Famiglia, il cui terzo libro fu lungo tempo attribuito al
Pandolfini, e del Teogenio o della vita civile e rusticana. Tali
sono pure l'Ecatomfilea, la Deifira, la Cena di famiglia, la
Sofrona, la Deiciarchia. Il dialogo è la sua maniera
prediletta, un certo discorrere alla familiare e alla buona,
così alieno dalle pedanterie scolastiche, e che trovi anche
dove parla uno solo come nelle sue Efebie, nella sua epistola
sull'Amore, nella sua Amiria. Chi misura l'ingegno dalla
quantità delle opere e dalla varietà delle
cognizioni, dee tenerlo ingegno così miracoloso come fu
tenuto a quel tempo. Certo, egli fu l'uomo più colto del
suo tempo e l'immagine più compiuta del secolo nelle sue
tendenze.
Battista ha già tutta la fisonomia
dell'uomo nuovo, come si andava elaborando in Italia. La scienza,
svestite le sue forme convenzionali, è in lui amabile e
familiare. Lascia le discussioni teologiche e ontologiche. Materia
delle sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte
le sue attinenze, cioè l'uomo e la natura così
com'è, secondo l'esperienza, il nuovo regno della scienza.
È un artista, perchè non solo studia e comprende, ma
contempla, vagheggia, ama l'uomo e la natura. Anima idillica e
tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ritirato nella pace
e nell'affetto della famiglia, abitante in ispirito più in
villa che in città, non curante di ricchezze e di onori,
vuoto di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia
conforme, di cui è base l'"aurea mediocritas", una
moderazione ed eguaglianza d'animo, che ti tenga fuori di ogni
turbazione. Il suo amore della natura campestre non ha nulla di
sentimentale e d'indefinito, che t'induca a fantasticare; anzi
tutto è disegnato partitamente con la sagacia di un
osservatore intelligente e con l'impressione fresca di uomo che se
ne senta ricreare l'occhio e riposare l'anima. E non è la
natura in se stessa che lo alletta, com'è ne' "quadretti di
genere" del Poliziano, ma è l'uomo nella natura: il
paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi
muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e
tranquillità, dov'è posto l'ideale della
felicità. Il vero protagonista è perciò
l'uomo, com'era concepito allora, sottratto alle tempeste della
vita pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e
tra' campi, tutto alle sue faccende e a' suoi onesti diletti. Ma
è insieme l'uomo colto e civile e umano, che disputa e
ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno,
porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita. La
quale arte si può ridurre in questa sentenza: che l'uomo
dee tener lontane da sè le passioni e le turbazioni dello
spirito e serbar regola e modo in tutte le cose. Questo equilibrio
interno, metà epicureo, è quella pace che Dante
cercava nell'altro mondo, e che Battista ti offre in questo mondo,
il nuovo principio etico generato dagli antichi moralisti e che
Lorenzo Valla chiama argutamente la "voluttà". Il concetto
ascetico che l'uomo non può conseguire vera felicità
in terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e non
afferma il cielo e si occupa della terra. Battista non ti
dà una filosofia con deduzioni rigorose, non cessa di
essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non
sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali
pericolose conseguenze traeva quello indirizzo. Non è il
filosofo: è l'artista e il pittore della vita, come gli si
porgeva. I suoi ragionamenti non movono da princìpi
filosofici, ma dalle sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli
della storia, e soprattutto dalla sua esperienza della vita. Il
suo uomo non è un'astrazione, un'idea formata da concezioni
anticipate, ma è preso dal vero nella vita pratica, co'
suoi costumi e le sue inclinazioni. Pinge e descrive più
che non ragiona; e non è un descrivere letterario o
rettorico, ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi
agli occhi il modello e n'è vivamente impressionato. Onde
riesce pittore di costumi e di scene di famiglia, o campestri o
civili, impareggiabile. E non hai già la vuota
esteriorità, come spesso è in Lorenzo; ma dentro
è il nuovo ideale dell'uomo savio e felice, che par fuori
nella calma decorosa e composta de' lineamenti, a cui fa spesso da
contrapposto la faccia disordinata dell'uomo sregolato e turbato.
È l'onesto borghese idealizzato, che succede al tipo
ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghese purgato ed
emendato, toltagli l'aria beffarda e licenziosa. Di questo ideale
immagine parlante è lo stesso Battista, di cui suprema
virtù era la pazienza delle ingiurie anche più gravi
e de' mali più stringenti della vita: "protervorum impetum
patientia frangebat", dice di sè: ottimo rimedio a non
guastarsi il sangue. Questa pazienza o uguaglianza dell'animo
è la genialità della nuova letteratura, impressa
sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del
Poliziano e del nostro Battista e che gl'innamora delle forme
terse e riposate, il cui interno equilibrio si manifesta nella
bellezza e nella grazia. Questo amore della bella forma, non solo
in sè tecnicamente, ma come espressione dell'interna
tranquillità, è la musa di Battista. Scrivendo di
sè, dice:
"Praecipuam et singularem voluptatem capiebat
spectandis rebus, in quibus aliquod esset specimen formae ac
decus. Senes praeditos dignitate aspectus et integros atque
valentes iterum atque iterum demirabatur, delitiasque naturae sese
venerari praedicabat... Quicquid ingenio esset hominum cum quadam
effectum elegantia, id "prope divinum" dicebat... Gemmis floribus,
ac locis praesertim amoenis visendis, nonnumquam ab aegritudine in
bonam valetudinem rediit."
Quest'uomo, che alla vista della bella natura
si sente tornar sano, che sta lì a contemplare l'aspetto
decoroso di una vecchiezza sana e intera, che chiama divina
l'opera elegante dell'ingegno, e sente voluttà a
contemplare le belle forme, aggiunge a questa squisita
idealità un senso così profondo del reale, che gli
rende familiari gli arcani della natura e anche della storia, come
mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove predice con
molta sagacia parecchi avvenimenti, le future sorti di principi e
di pontefici, e i moti delle città. Indi è che nelle
sue pitture trovi precisione tecnica, verità di colorito e
grande espressione: è una realtà finita ed evidente,
che mostra nelle sue forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel
Governo della famiglia la pittura della vita villica, e la
descrizione del convito, e quella maravigliosa scena di famiglia,
dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata,
dice: "Tristo a me! E ove t'imbrattasti così il viso? Forse
t'abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti, chè
quest'altri non ti dileggino. - Ella m'intese e lagrimò. Io
le die' luogo ch'ella si lavasse le lagrime e il liscio". Dello
stesso genere è la pittura de' giocatori nella Cena di
famiglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della
vita quieta e felice di Genipatro, nel quale intravvedi Battista:
"Truovomi ancora per la età riverito,
pregiato, riputato; consigliansi meco; odonmi come padre;
ricordanmi; lodanmi in suoi ragionamenti; approvano, seguono i
miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto ove
io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse,
qual certo ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in
vita che mi dispiaccia, e questo mi conosco oggidì
più felice che mai, poi che in cosa niuna a me stesso
dispiaccio... Godo testè qui ragionando con voi; godo solo
leggendo questi libri; godo pensando e commentando queste e simili
cose, quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben trascorsa
vita e investigando fra me cose sottili e rare, sono felice. E
parmi abitare fra gl'iddii, quando io investigo e ritruovo il sito
e forze in noi de' cieli e suoi pianeti. Somma certo
felicità viversi senza cura alcuna di queste cose caduche e
fragili della fortuna, con l'animo libero da tanta contagione del
corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine,
parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie, seco
disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue
perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando il padre e
procreatore di tanti beni."
Parti udire Cicerone a discorrere della
vecchiezza e dell'amicizia, e delle lettere e dell'uomo felice:
senti in questo Teogenio quella superiorità
dell'intelligenza sulla forza e sulla fortuna, e della coltura
sulla barbarie e la rozzezza plebea; quella beatitudine dell'uomo
ritirato nello studio, nella famiglia, ne' campi; quell'ardore
delle scoperte, quel culto dell'arte, che è la fisonomia
del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine
della Tranquillità dell'animo, ove Battista pinge
maravigliosamente se stesso. Nell'Ecatomfilea ti arrestano
ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, com'è la
pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell'amore
degli uomini "che fioriscono in età ferma e matura":
pittura che ha ispirato le belle ottave dell'Ariosto. De'
vagheggini perditempo dice:
"Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e
inerti, i quali per disagio di faccende fanno l'amore suo quasi
esercizio e arte, e con sue parrucchine, frastagli, ricamuzzi e
livree, segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per
tutto discorrono. Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; però
che questi non amano, ma così logorano passeggiando il
dì, non seguendo voi, ma fuggendo tedio."
La storia dell'amore e della gelosia di
Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico
perduto, e per finezza e verità di osservazione è
molto innanzi alla Fiammetta del Boccaccio, la cui imitazione
è visibile nella Ecatomfilea, e più nella Deifira e
nella Epistola di un fervente amante: pianti e querele amatorie,
dove il buon Battista, uscendo della sua natura, come il
Boccaccio, dà nella rettorica. Per trovare il grande
scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come
nell'epistola sopra l'amore, reminiscenza del Corbaccio, e la
pittura delle donne e l'altra dell'amante, pari alle più
belle del Corbaccio. E, per finirla, vedi nella
Tranquillità dell'animo la descrizione del duomo di
Firenze, con tanta idealità nella massima precisione degli
accessorii:
"... questo tempio ha in sè grazia e
maestà, e ... mi diletta ch'io veggo in questo tempio
giunta una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e
piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad
amenità, e dall'altra parte comprendo che ogni cosa qui
è fatta ed offirmata a perpetuità... Qui senti in
queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi
chiamavano misteri, una soavità maravigliosa... Ei possono
in me questi canti ed inni della Chiesa quello a che fine ei
dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni altra
perturbazione d'animo, e commovuomi a certa non so quale io la
chiami lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio. E qual
cuore sì bravo si trova che non mansueti se stesso, quando
ei sente su bello ascendere e poi discendere quelle intere e vere
voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo, che mai
sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto
... alle nostre miserie umane, che io non lacrimi."
Come son vere queste impressioni! E con quanta felicità
rese! "Gracilità vezzosa", "lentezza d'animo", sono forme
nuove, pregne d'idealità. Il sentimento religioso, cacciato
dalla coscienza, si trasforma in sentimento artistico, e move
l'animo come architettura e come musica.
Pittore egregio, Battista non è del pari
felice, quando ragiona, o quando narra. I suoi ragionamenti non
sono originali e non profondi, e sembrano uscire più dalla
memoria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora de'
Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esteriorità, lontana
assai dal suo modello, il Boccaccio.
Volle Battista raggiungere nella prosa quella
idealità che il Poliziano poi raggiunse nella poesia.
Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono dal
plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma un aspetto
signorile ed elegante. Come il Poliziano vagheggiò una
poesia illustre, così Battista continua la prosa illustre
di Dante e del Boccaccio. Patente è su di lui l'influsso
che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio. Ne' suoi
trattati e dialoghi trovi prette voci latine, come "bene est",
"etiam", "idest", "praesertim"; e parole e costruzioni e giri
latini, come "proibire" e "vietare", e participii presenti e
infiniti con costruzione latina, e "affirmare", "asseguire",
"conditore di leggi", "duttore", "valitudine", e moltissimi altri
vocaboli simili. Anche nel collocamento delle parole e
nell'intreccio del periodo latineggia. Ma non è un barbaro,
che ti faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto
ed elegante, che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo.
Mira a un parlare di gentiluomo, se non con latina maestà,
certo con gravità elegante ed urbana. E come è un
toscano, anzi un fiorentino, la latinità è temperata
dalla vivezza e grazia paesana. Se guardiamo a' trecentisti, il
congegno del periodo, l'arte de' nessi e de' passaggi, una
più stretta concatenazione d'idee, una più
intelligente distribuzione degli accessorii, una più salda
ossatura ti mostra qui una prosa più virile e uno spirito
più coltivato, fatto maturo dalla educazione classica.
Pure, se per queste qualità Battista avanza i trecentisti,
è inferiore al Boccaccio, e rimane molto al di qua dalla
perfezione. La prosa non è nata ancora: ci è una
prosa d'arte, dove lo scrittore è più intento alla
forma che alle cose, e mira principalmente all'eleganza, alla
grazia e alla sonorità. Come arte, i ritratti di Battista
sono ciò che la prosa ti dà di più
compìto in questo secolo. Ma sono frammenti, e tutti quasi
vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir cosa
così perfetta come è un quadro del Poliziano.
Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa
intera come il Decamerone, fra le trentacinque sue opere.
Rimangono di bei frammenti, quadri staccati. Il secolo finisce, e
non hai ancora il libro del secolo, quello che lo riassume e lo
comprende ne' suoi tratti sostanziali Se hassi a dir "secolo"
un'età sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue
gradazioni, come un individuo, il primo secolo comprende il
Dugento e il Trecento, il cui libro fondamentale è la
Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo
compimento, la sua sintesi, nel Cinquecento. Il Petrarca è
la transizione dall'uno all'altro.
Il Quattrocento è un secolo di
gestazione ed elaborazione. È il passaggio dall'età
eroica all'età borghese, dalla società cavalleresca
alla società civile, dalla fede e dall'autorità al
libero esame, dall'ascetismo e simbolismo allo studio diretto
della natura e dell'uomo, dalla barbarie scolastica alla coltura
classica. Hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di
cui il secolo non si rende ben conto. Hai perciò un immenso
repertorio di forme e di concetti: hai frammenti, manca il libro;
hai l'analisi, manca la sintesi. Il secolo ha tendenze varie e
spiccate; ma non ne ha la coscienza. Nella sua coscienza ci
è questo solo chiaro e distinto, che la perfezione è
ne' classici, e che a quel modello bisogna conformarsi: onde lo
studio dell'eleganza, della bella forma in qualsivoglia contenuto.
Perciò il grande uomo del secolo per confessione de'
contemporanei fu Angiolo Poliziano, che nelle Stanze si
accostò più a quell'ideale classico.
Ma questo grande movimento, che più
tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa, fu in
Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica, con
l'apoteosi della coltura e dell'arte. Il suo dio è Orfeo, e
il suo ideale è l'idillio, sono le Stanze. L'eleganza e il
decoro delle forme è accompagnato con la licenza de'
costumi ed uno spirito beffardo, di cui i frati, i preti e la
plebe fanno le spese. Non era una borghesia che si andava
formando: era una borghesia che già aveva avuta la sua
storia, e fra tanto fiore di coltura e d'arte si dissolveva sotto
le apparenze di una vita prospera e allegra. A turbare i baccanali
sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo Savonarola, e parve
l'ombra scura e vindice del medio evo che riapparisse improvviso
nel mondo tra frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boccaccio,
Pulci, Poliziano, Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il
carro di Bacco e Arianna, e ritta sul carro della Morte tende la
mano minacciosa e con voce nunzia di sciagure grida agli uomini: -
Penitenza! Penitenza! - Tra questo canto de' morti:
Dolor, pianto e penitenza
ci tormentan tutta via:
questa morta compagnia
va gridando: - Penitenza. -
Fummo già come voi siete:
voi sarete come noi:
morti siam, come vedete;
così morti vedrem voi.
E di là non giova poi
dopo il mal far penitenza.
La borghesia gaudente e scettica chiamò quella gente i
"piagnoni", e quella gente pretese dal suo frate qualche miracolo;
e poichè il miracolo non fu potuto fare, si volse contro al
frate. Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco era fra una
borghesia colta e incredula, e una plebe ignorante e
superstiziosa. Su questi elementi non poteva edificar nulla il
frate. Voleva egli restaurare la fede e i buoni costumi facendo
guerra a' libri, a' dipinti e alle feste, come se questo fosse la
causa e non l'effetto del male. Il male era nella coscienza, e
nella coscienza non ci si può metter niente per forza. Ci
vogliono secoli, prima che si formi una coscienza collettiva; e
formata che sia, non si disfà in un giorno. Chi mi ha
seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata
questa coscienza italiana, può giudicare qual criterio e
quanto buon senso fosse nell'impresa del frate. Nella storia
c'è l'impossibile, come nella natura. E il frate, che
voleva rimbarbarire l'Italia per guarirla, era alle prese con
l'impossibile.
Savonarola fu una breve apparizione. L'Italia
ripigliò il suo cammino, piena di confidenza nelle sue
forze, orgogliosa della sua civiltà. Quaranta anni di pace,
la lega medicea tra Napoli, Firenze e Milano, l'invenzione della
stampa, la digestione già fatta del mondo latino,
l'apparizione e lo studio del mondo greco, la vista in lontananza
del mondo orientale, l'audacia delle navigazioni e l'ardore delle
scoperte, e tanto splendore e gentilezza di corti a Napoli, a
Firenze, a Urbino, a Mantova, a Ferrara, tanta prosperità e
agiatezza e allegria della vita, tanta diffusione ed eleganza
della coltura e amore dell'arte avevano ravvivate le forze
produttive, indebolite nella prima metà del secolo, e
creato un movimento così efficace di civiltà, che
non potè essere impedito o trattenuto dalle più
grandi catastrofi. Spuntava già la nuova generazione
intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al Poliziano. E i giovani
si chiamavano Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini,
Ludovico Ariosto, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello,
Bembo, Berni, tutta una falange predestinata a compiere l'opera
de' padri. L'un secolo s'intreccia talmente nell'altro, che non si
può dire dove finisca l'uno, dove l'altro cominci. Sono una
continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso
ideale.
XII
IL CINQUECENTO
Di questo ideale, di cui adombra i lineamenti Giovanni Boccaccio,
non hai finora che segni, indizi, frammenti. Il suo lato positivo
è una sensualità nobilitata dalla coltura e
trasformata nel culto della forma come forma, il regno solitario
dell'arte nell'anima tranquilla e idillica: di che trovi
l'espressione filosofica nell'Accademia platonica, massime nel
Ficino e nel Pico, e l'espressione letteraria nell'Alberti e nel
Poliziano, a cui con pari tendenza, ma con minore abilità
tecnica e artistica, si avvicina il Boiardo. Il protagonista di
questo mondo nuovo è Orfeo, e il suo modello più
puro e perfetto sono le Stanze. Accanto al Poliziano, pittore
della natura, sta Battista Alberti, pittore dell'uomo. Attorno a
questi due spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici,
rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in
quegli anni di pace e di prosperità s'interessava alle
sorti di Cefalo e agli amori di Ergasto e di Corimbo. Le
accademie, le feste, le colte brigate erano un'Arcadia letteraria,
alla quale in quel vuoto ozio degli spiriti il pubblico prendeva
una viva partecipazione. A Napoli, a Firenze, a Ferrara si vivea
tra novelle, romanzi ed egloghe. Gli uomini, già
cospiratori, oratori, partigiani, patrioti, ora vittime, ora
carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori. E mi spiego l'infinito
successo che ebbe l'Arcadia del Sannazzaro, la quale parve a'
contemporanei l'immagine più pura e compiuta di
quell'ideale idillico. Ma di questo Virgilio napolitano non
è rimasta viva che qualche sentenza felicemente espressa,
come:
L'invidia, figliuol mio, se stessa macera...
Peggiora il mondo e peggiorando invetera.
Nè della sua Arcadia è oggi la lettura cosa
tollerabile, e per la rigidità e artificio della prosa
monotona nella sua eleganza, e per un cotal vuoto e rilassatezza
di azione e di sentimento, che esprime a maraviglia quell'ozio
interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella
placidità e tranquillità della vita, dove ponevano
l'ideale della felicità.
Il lato negativo di questo ideale era il
comico, una sensualità licenziosa e allegra e beffarda, che
in nome della terra metteva in caricatura il cielo, e
rappresentava col piglio ironico di una coltura superiore le
superstizioni, le malizie, le dabbenaggini, i costumi e il
linguaggio delle classi meno colte. Da questa coltura sensuale,
cinica e spiritosa uscì quell'epiteto, i "piagnoni", che fu
a Savonarola più mortale della scomunica papale. I canti
carnascialeschi sono il tipo del genere: il suo poeta è il
Boccaccio, il suo storico è il Sacchetti, il suo istrione
è il Pulci, il suo centro è Firenze. A questo lato
negativo si congiunge il Pomponazzi, che spezza ogni legame tra
cielo e terra, negando l'immortalità dell'anima. Era il
vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di una
società indifferente e materialista, che si battezzava
platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il suo
papa, il suo Alessandro sesto, che così bene la
rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad
alta voce i suoi segreti, quando ella medesima non si aveva fatta
ancora la domanda: - Cosa sono? E dove vado?
Questa società tra balli e feste e canti
e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e
costretta a svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il Pontano
bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava la sampogna,
e la monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto
dello straniero. Carlo ottavo correva e conquistava Italia col
gesso. Trovava un popolo che chiamava lui un barbaro, nel pieno
vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma
vuota l'anima e fiacca la tempra. Francesi, spagnuoli, svizzeri,
lanzichenecchi insanguinarono l'Italia, insino a che, caduta con
fine eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero. La lotta
durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquant'anni di lotta
che l'Italia sviluppò tutte le sue forze e attinse
quell'ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in
eredità.
All'ingresso del secolo incontriamo Machiavelli
e l'Ariosto, come all'ingresso del Trecento trovammo Dante.
Machiavelli aveva già trentun anno, e ventisei ne aveva
l'Ariosto. E sono i due grandi ne' quali quel movimento letterario
si concentra e si riassume, attingendo l'ultima perfezione.
Gittando un'occhiata sull'insieme, è
patente il progresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il
greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che
non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che
oramai si comincia a dire senz'altro lingua italiana. Ma fuori di
Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e
nativi, e si avvicina al latino, producendo così quella
forma comune di linguaggio che Dante chiamava aulica e illustre. I
letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e
riconoscendo nel latino la perfezione e il modello, secondo
l'esempio già dato dal Boccaccio e da Battista Alberti,
atteggiarono la lingua alla latina. E non pur la lingua, ma lo
stile, mirando alla gravità, al decoro, all'eleganza, con
grave scapito della vivacità e della naturalezza. Questo
concetto della lingua e dello stile, creazione artificiosa e
puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana, come si vede
ne' mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne' sommi, come
nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli. La quale forma
latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla
grazia e al brio del dialetto, così nuda e astratta ha la
sua espressione pedantesca negli Asolani del Bembo, e giunge a
tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel Galateo
del Casa e nel Cortigiano del Castiglione. Ma in Toscana quella
forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima
viva resistenza, e senti negli scrittori il sapore del dialetto,
quella non so quale atticità, che nasce dall'uso vivo, e
che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella
maniera, come si vede nelle Novelle del Lasca, ne' Capricci del
bottaio e nella Circe del Gelli, nell'Asino d'oro e ne' Discorsi
degli animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e
là un sentore della nuova maniera ciceroniana e
boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini
d'ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza e alla
grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni,
nelle Lettere, nel Dafni e Cloe. La lotta durò un bel pezzo
tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che
battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma
popolare o viva ed una forma convenzionale e letteraria. Anche in
Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla
semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini,
ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma
nobile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo
stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo.
Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d'Italia
spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate, i rispetti, gli
stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a
poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini e donne. La
posterità ha dimenticati i petrarchisti, e appena è
se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il
Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di
Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo, boccaccevole e
petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.
Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo
di una buona fattura, e l'ultimo prosatore o rimatore scrivea
più corretto e più regolato che parecchi pregiati
scrittori de' secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene
e tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante,
moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt'i generi.
Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire, orazioni, storie,
epistole, tutto a modo degli antichi. Il Trissino scrivea l'Italia
liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il Giovenale e
monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A' misteri successero
commedie e tragedie, con magnifica rappresentazione. E non solo le
forme del dire latine, ma anche la mitologia s'incorporava nella
lingua: e si giurò per gl'"iddii immortali", e Apollo, le
muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno, Plutone, Cerbero, le
ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso.
Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano,
come oggi il francese, e mescolavano il parlare di parole latine,
per vezzo o per maggiore efficacia. Ci erano gl'improvvisatori,
che nelle corti lì su due piedi fabbricavano epigrammi e
facezie, come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito
qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo
dava annacquato al suo "archipoeta", un improvvisatore di distici,
quando il distico mal riusciva. E c'erano anche non pochi, che
conoscevano ottimamente il latino e lo scrivevano con rara
perfezione, come il Sannazzaro, il Fracastoro e il Vida, i cui
poemi latini sono ciò che di più elegante siesi
scritto in quella lingua ne' tempi moderni. Aggiungi le odi ed
elegie del Flaminio.
Latinisti e rimatori erano le due più
grosse schiere de' letterati. Nelle loro opere l'importante
è la frase, un certo artificio di espressione, che riveli
nell'autore coltura e conoscenza de' classici. I lettori non meno
colti ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le
orme del Boccaccio o del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone.
Pareva questa imitazione il capolavoro dell'ingegno. E mi spiego
come uomini assai mediocri furono potuti tenere in così
gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor
Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili, noiosissimi. Ma la frase,
in tanta insipidezza del fondo, non poteva essere sufficiente
alimento all'attività di una borghesia così
svegliata ed eccitata, che decorava la sua sensualità e il
suo ozio co' piaceri dello spirito. Salse piccanti si
richiedevano, fatti maravigliosi e straordinari, intrecciati in
modo che stimolassero la curiosità e tenessero viva
l'attenzione. L'intrigo diviene la base delle novelle, de'
romanzi, delle commedie e delle tragedie, un intrigo così
avviluppato che è assai vicino al garbuglio. Si cerca ne'
fatti il nuovo e lo strano, che stuzzichi l'immaginazione, il
buffonesco e l'osceno nella commedia, il mostruoso e l'orribile
nella tragedia. Dall'una parte ci è la frase, vacua
sonorità, dall'altra il fatto, il vacuo fatto uscito dal
caso; e come la frase oltrepassa l'eleganza ed è
pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e civettuola, come nel
Firenzuola o nel Caro, così il fatto, per voler troppo
stuzzicare, diviene osceno o mostruoso, e sempre assurdo. Il
realismo abbozzato dal Boccaccio, sviluppato nel Quattrocento,
corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la
dissoluzione morale e la depravazione del gusto. Ci è nella
società italiana una forza ancora intatta, che in tanta
corruzione la mantiene viva, ed è nel pubblico l'amore e la
stima della coltura, e negli artisti e letterati il culto della
bella forma, il sentimento dell'arte. In quella forma letteraria e
accademica vedevano gl'italiani una traduzione della lingua viva,
il parlare quotidiano idealizzato, secondo quel modello dove
ponevano la perfezione, ed eran larghi non pur di lodi, ma di
quattrini e di onori a questi artefici della forma. I centri
letterari moltiplicarono; comparvero nuove accademie; e le
più piccole corti divennero convegni di letterati, i
più oscuri principi volevano il segretario che ponesse in
bello stile le loro lettere, e letterati e artisti che li
divertissero. Il centro principale fu a Roma, nella corte di Leone
decimo, dove convenivano d'ogni parte novellatori, improvvisatori,
buffoni, latinisti, artisti e letterati, come già presso
Federico secondo. Anche i cardinali avevano segretari e parassiti
di questa risma; anche i ricchi borghesi, come il conte Gambara di
Brescia, il Chigi, i Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano.
Intorno a Domenico Veniero in Venezia si aggruppavano Bernardo
Tasso, Trifon Gabriele, il Trissino, il Bembo, il Navagero, Speron
Speroni; a Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il vecchio
Sannazzaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia. Da questi noti
s'indovini la caterva de' minori. Pensioni, donativi impieghi,
abbazie, canonicati, era la manna che piovea sul loro capo. E
c'era anche la gloria: onorati, festeggiati, divinizzati, e senza
discernimento confusi i sommi e i mediocri. Furono chiamati
"divini", con Michelangelo e l'Ariosto, Pietro Aretino e il Bembo,
e Bernardo Accolti, detto anche l'"unico". Costui, fatto duca,
usciva con un corteggio di prelati e guardie svizzere; dove
giungeva, s'illuminavano le città, si chiudevano le
botteghe, si traeva ad udire i suoi versi dimenticati: tanti onori
non furono fatti al Petrarca. I letterati acquistarono coscienza
della loro importanza: pitocchi e adulatori, divennero insolenti,
e si posero in vendita, e la loro storia si può riassumere
in quel motto di Benvenuto Cellini: "Io servo a chi mi paga". Come
si facevano statue, quadri, tempi per commissioni, così si
facevano storie, epigrammi, satire, sonetti a richiesta, e spesso
l'ingiuria era via a vendere a più caro prezzo la lode. In
quest'aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano
servili e ciarlatani per far valere la merce. Non ci è
immagine più straziante che vedere l'ingegno appiè
della ricchezza, e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a
Clemente settimo, e l'Ariosto gridare al suo signore che non aveva
di che rappezzarsi il manto, e veder Michelangelo, quando,
... da' rei tempi costretto,
eroi dipinse a cui fu campo il letto:
sdegnose parole di Alfieri. Soverchiavano i mediocri con
l'audacia, la ciarlataneria, l'intrigo e la bassezza, ora
addentandosi, ora strofinandosi, temuti e corteggiati. Vecchia
storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così
a' tempi di Federico o di Roberto. Se non che allora la dottrina
era merce rara, e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora
la coltura e il sapere era diffuso, e lo scrivere in prosa e in
verso era divenuto un vero meccanismo, facile a imparare, che
teneva luogo d'ispirazione, e per la somiglianza esteriore
confondeva nella stessa lode sommi e mediocri. Di grandi uomini
è pieno quel secolo, se si dee stare a' giudizi de'
contemporanei. Francesco Arsilli nella sua elegia De poëtis
urbanis ti dà la lista di cento poeti latini nella sola
corte di Leone decimo, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi
dimenticati. Bernardo Tasso, il Rucellai, l'Alamanni, il Giovio,
lo Scaligero, il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco e altri
infiniti furono tenuti cime d'uomini, che oggi nessuno più
legge. Pure ne' più, anche ne' mediocrissimi, era viva la
fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti. Venale
era il Giovio, e ossequioso cortigiano era Bernardo Tasso, ma
quando prendevano la penna, c'era qualche cosa nel loro animo che
li nobilitava, ed era lo studio della perfezione, il prendere sul
serio il loro mestiere.
Quest'era la sola forza, la sola virtù
rimasta intatta. La corruzione e la grandezza del secolo non era
merito o colpa di principi o letterati, ma stava nella natura
stessa del movimento, ond'era uscito, che ora si rivelava con
tanta precisione, generato non da lotte intellettuali e
novità di credenze, come fu in altri popoli, ma da una
profonda indifferenza religiosa, politica, morale, accompagnata
con la diffusione della coltura, il progresso delle forze
intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è il
germe della vita e qui è il germe della morte; qui è
la sua grandezza e la sua debolezza.
Questo movimento è già come in
miniatura tutto raccolto presso il Boccaccio, il quale, se
riproduce con vivacità le apparenze, non ne ha coscienza, e
non sa qual mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche
caricature. Del qual mondo nuovo appariscono i frammenti dal
Sacchetti al Pulci, che ne fissano il lato negativo e comico,
mentre il suo ideale trasparisce già nell'Alberti, nel
Boiardo, nel Poliziano. La violenta reazione del Savonarola non fa
che accrescere forza e celerità al movimento e dargli
coscienza di sè. Il secolo decimosesto nella sua prima
metà non è che questo medesimo movimento scrutato
profondamente, rappresentato nel suo insieme, e condotto per le
varie sue forme sino al suo esaurimento. È la sintesi che
succede all'analisi.
Qual è il lato positivo di questo
movimento? È l'ideale della forma, amata e studiata come
forma, indifferente il contenuto.
E qual è il suo lato negativo? È
appunto l'indifferenza del contenuto, una specie di eccletismo
negli uni, come Raffaello, Vinci, Michelangelo, il Ficino, il
Pico, che abbracciano ogni contenuto, perchè ogni contenuto
appartiene alla coltura, all'arte e al pensiero; eccletismo
accompagnato negli altri da una satira allegra e senza fiele di
quei princìpi e forme e costumi del passato ancora in
credito presso le classi inculte.
Ciò che è divino in questo
movimento è l'ideale della forma, o per trovare una frase
più comprensiva, è la coltura presa in se stessa e
deificata. Il lato comico e negativo non è esso medesimo
che una rivelazione della coltura.
Il "limbo" di Dante e l'Amorosa visione del
Boccaccio fanno già presentire quest'orgoglio di
un'età nuova, che comprendeva e glorificava tutta la
coltura. Orfeo annunzia al suono della lira la nuova
civiltà, che ha la sua apoteosi nella Scuola di Atene,
ispirazione dantesca di Raffaello, rimasta così popolare,
perch'ivi è l'anima del secolo, la sua sintesi e la sua
divinità. Questa Scuola d'Atene, con i tre quadri compagni
che comprendono nel loro sviluppo storico teologia, poesia e
giurisprudenza, è il poema della coltura, di così
larghe proporzioni come il paradiso di Dante, aggiuntovi il limbo.
Il quadro diviene una vera composizione, come lo vagheggiava Dante
ne' suoi dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo
Davide hanno un riscontro nel Cenacolo, nella Sacra famiglia,
nella Trasfigurazione, nel Giudizio, poemi sparsi qua e là
di presentimenti drammatici. Il pittore vagheggia la bellezza
nella forma come l'Alberti o il Poliziano, e studia possibilmente
a non alterare con troppo vivaci commozioni la serenità e
il riposo de' lineamenti: perciò riescono figure epiche
anzi che drammatiche. Quel non so che tranquillo e soddisfatto,
che senti nelle stanze del Poliziano, e ti avvicina più al
riposo della natura che all'agitazione della faccia umana, quella
"pace tranquilla senz'alcuno affanno" è l'impronta di
queste belle forme: salvo che quella pace non è già
"simile a quella che nel cielo india", un ideale musicale, come
Beatrice e Laura, ma vien fuori da uno studio del reale ne' suoi
più minuti particolari. Senti che il pittore ha innanzi un
modello accuratamente studiato e contemplato con amore, che nella
sua immaginazione si compie, e prende quella purezza e riposo di
forma, che Raffaello chiamava "una certa idea". In questa certa
idea ci entra pure alcun poco il classico, il convenzionale e la
scuola; difetti appena visibili ne' lavori geniali, usciti da una
sincera ispirazione, dove domina il sentimento della bellezza e lo
studio del reale. Così nacquero le Madonne del secolo,
nella cui fisonomia non è l'inquietudine, l'astrazione e
l'estasi della santa, ma la ingenua e idillica tranquillità
della verginità e dell'innocenza. Queste facce si vanno
sempre più realizzando, insino a che nella immaginazione
veneziana di Tiziano pigliano una forma quasi voluttuosa.
La stessa larghezza di concezione nella purezza
e semplicità de' lineamenti trovi nell'architettura: il
gotico è debellato dal Brunelleschi; si collega insieme
l'ardito e il semplice, Michelangiolo e Palladio. Chi ricordi in
che guisa l'Alberti rappresenta il duomo di Firenze, può
concepire il San Pietro, la vasta mole, che è il medio evo
nella sua materia e il mondo nuovo ne' suoi motivi, la vera e
profonda sintesi di tutto quel gran movimento, che ti offriva
nell'apparenza lo stesso mondo del passato, quelle forme, quei
nomi, quei costumi, que' concetti e quella materia, pure
sostanzialmente trasformato ne' suoi motivi, uscito dalla
coscienza e divenuto un puro ideale artistico, l'ideale della
forma. Questa materia antica penetrata di uno spirito nuovo nella
sua vasta comprensione epica, dove trovi fusi tutti gli elementi
della nuova civiltà, ti dà anche la letteratura
nell'Orlando furioso. La Scuola di Atene, il San Pietro, l'Orlando
furioso sono le tre grandi sintesi del secolo.
L'Orlando furioso ti dà la nuova
letteratura sotto il suo duplice aspetto, positivo e negativo.
È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali,
un mondo puro dell'arte, il cui obbiettivo è realizzare nel
campo dell'immaginazione l'ideale della forma. L'autore vi si
travaglia con la più grande serietà, non ad altro
inteso che a dare alla sua materia l'ultima perfezione,
così nell'insieme come ne' più piccoli particolari.
Il poeta non ci è più, ma ci è l'artista che
continua il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e chiude il
ciclo dell'arte nella poesia. Ma poichè in fine questo
mondo così bello, edificato con tanta industria, non
è che un giuoco d'immaginazione, vi penetra un'ironia
superiore, che se ne burla e vi si spassa sopra col più
allegro umore. La parte plebea, che nel Decamerone occupa il
proscenio, qui giace ne' bassi fondi, con la sua oscenità e
la sua buffoneria, e sorge a galla il mondo della cortesia e del
valore, ne' suoi più bei colori, ma accompagnato da questo
sentimento, che è un bel sogno: la realtà si fa
valere e disfà il castello incantato. È la visione
severa di un'anima ricca che si effonde in amabili fantasie,
elegiaca nelle sue turbazioni, idillica nelle sue gioie, con non
altro fine e non altra serietà che la produzione artistica.
Nelle arti figurative, la produzione è accompagnata con un
perfetto obblio dell'anima nella sua creatura: Raffaello è
tutto intero nella sua opera, e non guarda mai fuori, e realizza
la sua idea con quella serietà con la quale Dante
costruisce l'altro mondo. L'ideale della forma, che si esprime con
tanta serietà nelle arti, non ha ancora la coscienza che
esso è mera forma, mero giuoco d'immaginazione. Ma qui
l'arte si manifesta e si sente pura arte, e sa che il mondo reale
non è quello, e accompagna con un sorriso la sua
produzione. In questo sorriso, in questa presenza e coscienza del
reale tra le più geniali creazioni è il lato
negativo dell'arte, il germe della dissoluzione e della morte.
Intorno a questo mondo ariostesco pullulano
poemi e romanzi e novelle. Lascio stare il Girone e l'Avarchide
dell'Alamanni, prette imitazioni, senza alcuna serietà.
Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il Trissino e
Bernardo Tasso. A tutti e due spiacque il sorriso ariostesco.
Orlando e Rinaldo parvero al Trissino, non altrimenti che al
cardinale d'Este, delle "corbellerie", fole e capricci di cervello
ozioso. Cercando nella storia le sue ispirazioni e in Omero il suo
modello, scrisse l'Italia liberata dà' Goti. Nella sua
intenzione dovea essere un poema eroico e serio come l'Iliade, che
chiamasse l'Italia ad alti e virili propositi. Ma il Trissino non
era che un erudito, non poeta e non patriota, e non potea
trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua anima, e
nemmeno nella sua arida immaginazione. Di eroico non c'è
nel suo poema che le armi e le divise: manca l'uomo. La sua
punizione fu il silenzio e la dimenticanza, e il poveruomo, non
volendo recarne la colpa a difetto d'ingegno, se la piglia con
l'argomento, e prorompe:
Sia maledetta l'ora e il giorno, quando
presi la penna e non cantai d'Orlando.
Ma l'argomento cavalleresco non valse a salvare dal naufragio
Bernardo Tasso, che nel suo Floridante e nel suo Amadigi,
più noto, vagheggiò una rappresentazione epica
più conforme a' precetti dell'arte e lontana da ciò
ch'egli diceva licenza ariostesca. Non piacque al pubblico, ma
piacque a Speron Speroni, come il Girone era piaciuto al Varchi. E
il pubblico avea ragione; chè non s'intendeva di Aristotile
e di Omero, e non poteva pigliare sui serio gli eroi
cavallereschi, si chiamassero Orlando o Amadigi. Bernardo è
tutto fiori e tutto mèle, così artificiato e
prolisso lui, come il Trissino negletto e arido, tutti e due
noiosi. Piacque invece l'Orlando innamorato rifatto dal Berni,
dove la soverchia e uniforme serietà del testo è
temperata da forme ed episodi comici appiccativi dal Berni. Ma il
comico non passa la buccia e non penetra nell'intimo stesso di
quel mondo e non lo trasforma, e il Berni mi fa l'effetto di quel
buffone nelle commedie, posto lì per far ridere il pubblico
co' suoi lazzi, mentre gli attori accigliati conservano la lor
posa tragica.
Scrivere romanzi diviene un mestiere: l'epopea
ariostesca è smembrata, e i suoi episodi diventano romanzi.
Sei ne scrive Lodovico Dolce, tra' quali Le prime imprese di
Orlando. Il Brusantini ferrarese canta Angelica innamorata, il
Bernia canta Rodomonte, il Pescatore Ruggiero, e Francesco de'
Lodovici Carlo Magno. Romanzi con la stessa facilità
composti, applauditi e dimenticati. Accanto agl'imitatori del
Petrarca e del Boccaccio sorgono gl'imitatori dell'Ariosto.
Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si
collega con l'idillio, e nel suo lato negativo con la satira e la
novella.
Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano
l'idillio è la vera musa della poesia italiana, la materia
nella quale lo spirito realizza l'ideale della pura forma, l'arte
come arte. In quella grande dissoluzione sociale la poesia lascia
le città e trova il suo ideale ne' campi, tra ninfe e
pastori, fuori della società, o piuttosto in una
società primitiva e spontanea.
Là trovi quell'equilibrio interiore,
quella calma e riposo della figura, quella perfetta armonia de'
sentimenti e delle impressioni, che chiamavano l'"ideale della
bellezza" o della "bella forma". Questo spiega la grande
popolarità delle Stanze, dove questo ideale si vede
realizzato con grande perfezione. Sono imitazioni la Ninfa
tiberina del Molza e il Tirsi del Castiglione. Nella Ninfa
tiberina hai di belle stanze: Euridice in fuga con alle spalle
l'innamorato Aristeo è così dipinta:
La sottil gonna in preda ai venti resta,
e col crine ondeggiando indietro torna.
Ella più ch'aura o più che strale
presta
per l'odorata selva non soggiorna,
tanto che il lito prende snella e mesta,
fatta per la paura assai più adorna.
Esce Aristeo la vaga selva anch'egli,
e la man par avergli entro i capegli.
Tre volte innanzi la man destra spinse
per pigliar de le chiome il largo invito;
tre volte il vento solamente strinse,
e restò lasso senza fin schernito.
Maniera corretta, e nulla più. Manca in queste stanze il
movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la voluttà
idillica del Poliziano. La stessa parca lode è a fare de'
due poemi idillici, le Api del Rucellai e la Coltivazione
dell'Alamanni. Ci è la naturalezza, manca il sangue.
L'idillio fu la moda dell'Italia ne' suoi anni
di pace e di prosperità. Era il riposo voluttuoso di una
borghesia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita
privata, fra ozi e piaceri eleganti. Ora tra il rumore delle armi,
fra tante avventure e agitazioni della vita sottentra il romanzo
cavalleresco. L'idillio cessa di essere un genere vivo, e va a
raggiungere il platonismo e il petrarchismo. Gli angeli e il
paradiso, Giove e Apollo, le piagge apriche e i vaghi colli, i
languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e
n'esce un vasto repertorio di luoghi comuni, dove attingono poeti
e poetesse: chè di poetesse fu anche fecondo il secolo.
Il Quattrocento ondeggiava tra l'idillio e il
carnevale: ozio di villa e ozio di città. La quiete
idillica era il solo ideale superstite, nella morte di tutti gli
altri, presso una società sensuale e cinica, la cui vita
era un carnevale perpetuo. Celebri diventano il carnevale di
Venezia e il carnevale di Roma. I canti carnascialeschi fanno il
giro d'Italia. La buffoneria, l'equivoco osceno, lo scherzo
grossolano diventano un elemento importante della letteratura in
prosa e in verso, l'impronta dello spirito italiano. Le accademie
sono il semenzaio di lavori simili. Esse rassomigliano quelle
liete brigate di buontemponi e fannulloni, che ispirarono il
Decamerone, modello del genere. Sono letterati ed eruditi, in
pieno ozio intellettuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose
sopra i più frivoli argomenti, tanto più ammirati
per la vivacità dello spirito e l'eleganza delle forme,
quanto la materia è più volgare. Strani sono i nomi
di queste accademie e di questi accademici, come lo Impastato, il
Raggirato, il Propaginato, lo Smarrito, ecc. E recitano le loro
dicerie, o come dicevano, "cicalate" sull'insalata, sulla torta
,sulla ipocondria, inezie laboriose. Simili cicalate fatte in
verso erano dette "capitoli": il Casa canta la gelosia, il Varchi
le ova sode, il Molza i fichi, il Mauro la bugia, il Caro il naso
lungo; si cantano le cose più volgari e anco più
turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene, al modo di
Lorenzo, il maestro del genere. Il carnevale dalla piazza si
ritira nelle accademie, e diviene più attillato, ma anche
più insipido. Tra queste accademie era quella dei
Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro, il Casa, il Molza, il
Berni tra prelati e monsignori. Il Berni piacque fra tutti, e si
disputavano i suoi capitoli, e se li passavano di mano in mano.
Francesco Berni, "maestro e padre del burlesco
stile", detto poi "bernesco", è l'eroe di questa
generazione, erede di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo, nella sua
sensualità ornata dalla coltura e dall'arte. Nella sua
ammirazione per questo "primo e vero trovatore" dello stile
burlesco, il Lasca dice:
Non sia chi mi ragioni di Burchiello;
che saria proprio come comparare
Caron dimonio all'agnol Gabriello.
Buontempone, amico del suo comodo e del dolce far niente, la sua
divinità è l'ozio più che il piacere:
Cacce, musiche, feste, suoni e balli,
giochi, nessuna sorte di piaceri
troppo il movea...
Onde il suo sommo bene era in iacere
nudo, lungo, disteso; e 'l suo diletto
era il non far mai nulla e starsi in letto.
Ma il poveruomo è costretto a lavorare per guadagnarsi la
vita, e fa il segretario, come tutti quasi i letterati di quel
tempo, a' servigi di questo e quel cardinale:
aveva sempre in seno e sotto il braccio
dietro e innanzi di lettere un fastello,
e scriveva e stillavasi il cervello.
Dietro a' capricci del suo padrone, una volta non ne può
più, chè ha sonno, e dee stare lì a guardarlo
giocare la primiera:
Può far la nostra donna ch'ogni sera
io abbia a stare a mio marcio dispetto
infino alle undici ore andarne a letto
a petizion di chi gioca a primiera?
Direbbon poi costoro: - Ei si dispera,
e a' maggiori di sè non ha rispetto. -
Corpo di... , io l'ho pur detto:
hassi a vegliar la notte intera intera?
La morte di papa Leone gitta il terrore tra' letterati, che vedono
mancare la mangiatoia, e più quando il successore è
Adriano sesto spagnuolo, oltramontano, avaro, contadino, e non so
quanti altri epiteti gli appicca nella sua indignazione il Berni:
Pur quando io sento dire oltramontano
vi fo sopra una chiosa col verzino,
"idest nemico del sangue italiano".
Era in fondo un brav'uomo, senza fiele, un buon compagnone, col
quale si passava piacevolmente un quarto d'ora, anima tranquilla e
da canonico, vuota di ambizioni e di cupidigie e di passioni, e
anche d'idee. Sapea di greco, e più di latino, e fece anche
lui i suoi bravi versi latini e i suoi sonetti petrarcheschi, come
portava il tempo. Scrivea il più spesso a "sfogamento di
cervello, il maggior suo passatempo". Non cercava l'eleganza, per
fuggire fatica, e gli veniva "il sudor della morte", quando si
dovea "metter la giornea" e rispondere "per le consonanze o per le
rime" a lettere eleganti. Lo scrivere stesso gli era fatica. "A
vivere avemo sino alla morte, - dice al Bini, - a dispetto di chi
non vuole, e il vantaggio è vivere allegramente, come
conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che
si fanno per Roma, e scrivendo soprattutto il manco che potete;
quia haec est victoria quae vincit mundum". Si qualifica "asciutto
di parole, poco cerimonioso e intrigato in servitù": ottime
scuse alla sua pigrizia. E quando lo assediano e lo tormentano e
si dolgono che non risponda, e non li ami e li dimentichi, gli
viene la stizza:
Perchè m'ammazzi con le tue querele,
Priuli mio, perchè ti duoli a torto,
che sai che t'amo più che l'orso il
miele?
Sai che nel mezzo del petto ti porto
serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
più che non son le radici nell'orto:
se ti lamenti perchè non ti ho
scritto...
E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia, e la lettera
finisce con un eccetera. Benedetta pigrizia, che lo fa parlare
"come gli viene alla bocca" e gli fa scriver lettere che sono "un
zucchero di tre cotte", intarsiate di brevi motti latini per
vezzo, le più saporite e semplici e disinvolte in quel
tempo de' segretari, che se ne scrissero tante e così
sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza,
chè volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la
coda. - Fateci un capitolo sulla primiera!
"Compare, - scrive il poveruomo, - io non ho
potuto tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori
questo benedetto capitolo e commento della primiera, e siate certo
che l'ho fatto, non perchè mi consumassi d'andare in
istampa, nè per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per
fuggire la fatica mia e la malevolenzia di molti che,
domandandomelo e non lo avendo, mi volevano mal di morte.
Avendogliel' a dare, mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere; e
l'uno e l'altro non mi piaceva troppo, per non m'affaticare e non
m'obbligare."
Eccolo dunque costretto a fare il capitolo, e poi a stamparlo;
eccolo immortale a suo dispetto. E scrisse sulle anguille, i
cardi, la peste, le pesche, la gelatina, e sopra Aristotile, il
quale
ti fa con tanta grazia un argomento,
che te lo senti andar per la persona
fino al cervello e rimanervi drento.
Così venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vivono
eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso e ameno. Il
successo fu grande. Dicono, perchè era fiorentino e
maneggiava assai bene la lingua. Ed è un dir poco. Il vero
è che il Berni ha una intuizione immediata e netta delle
cose, che rende vive e fresche con facilità e con brio. Tra
lui e la cosa non ci è nessun mezzo, o imitazione, o
artificio di stile, o repertorio; egli l'attinge direttamente
secondo l'immagine che gli si presenta nel cervello. E l'immagine
è la cosa stessa in caricatura, guardata cioè da un
punto che la scopra tutta nel suo aspetto comico. Il quale aspetto
balza improvviso innanzi alla nostra immaginazione, perchè
non esce fuori a pezzi e a bocconi da una descrizione, ma ti sta
tutto avanti per virtù di somiglianze o di contrasti
inaspettati. Tale è la pittura di maestro Guazzaletto, e la
mula di Florimonte, e la bellezza della sua donna, contraffazione
della Laura petrarchesca. In questi ritratti a rapporti non hai
niente che stagni o langua; hai una produzione continua, che ti
tien desto e ti sforza a ire innanzi insino a che il poeta
trionfalmente ti accomiata:
Ora eccovi dipinta
una figura arabica, un'arpia,
un uom fuggito dalla notomia.
Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa in caricatura
plebe e frati; e anche il Berni ci si prova nella Catrina e nel
Mogliazzo, imitazioni caricate di parlari e costumi plebei,
inferiori per grazia e spontaneità alla Nencia. Ma la
materia ordinaria del Berni è la caricatura della
borghesia, in mezzo a cui viveva. Non è più la
coltura che ride dell'ignoranza e della rozzezza, è la
coltura che ride di se stessa: la borghesia fa la sua propria
caricatura. Il protagonista non è più il cattivello
di Calandrino, ma è il borghese vano, poltrone, adulatore,
stizzoso, sensuale e letterato, la cui immagine è lo stesso
Berni, che mena in trionfo la sua poltroneria e sensualità.
L'attrattivo è appunto nella perfetta buona fede del poeta,
che ride de' difetti propri e degli altrui, come di
fragilità perdonabili e comuni, delle quali è da
uomo di poco spirito pigliarsi collera. Il guasto nella borghesia
era già così profondo e tanto era oscurato il senso
morale, che non si sentiva il bisogno dell'ipocrisia, e si
mostravano servili e sensuali uomini per altre parti commendevoli;
com'erano moltissimi letterati e il nostro Berni, "il dabbene e
gentile" Berni, dice il Lasca, che si dipinge a quel modo con
piena tranquillità di coscienza, e non pensa punto che
gliene possa venire dispregio. Quando certi vizi diventano comuni
a tutta una società, non generano più disgusto e
sono magnifica materia comica, e possono stare insieme con tutte
le qualità di un perfetto galantuomo. Il Berni è
poltrone e sensuale e cortigiano, e non lo dissimula, ciò
che farebbe ridere a sue spese, anzi lo mette in evidenza,
cogliendone l'aspetto comico, come fa un uomo di spirito, che non
crede per questo ne scapiti la sua riputazione. Questa credenza o
perfetta buona fede lo mette in una situazione netta e
schiettamente comica, sì ch'egli contempla e vagheggia il
suo difetto senz'alcuna preoccupazione di biasimo e con perfetta
libertà di artista. È sottinteso che in questi
ritratti berneschi non è alcuna profondità o
serietà di motivi; appena la scorza è incisa: ci
è la borghesia spensierata e allegra, che non ha avuto
ancora tempo di guardarsi in seno, ed è tutto al di fuori,
nella superficie delle cose. Questa superficialità e
spensieratezza è anch'essa comica, è parte
inevitabile del ritratto. Perciò la forma comica sale di
rado sino all'ironia, e rimane semplice caricatura, un movimento e
calore d'immaginazione, com'è generalmente ne' comici
italiani, a cominciare dal Boccaccio. Dove non è
immaginazione artistica, il comico non si sviluppa, ed il difetto
rimane prosaico, e perciò disgustoso, come è in
tutti gli scrittori di proposito osceni. Ne' ritratti del Berni
entra anche l'osceno, ingrediente di obbligo a quel tempo; ma non
è lì che attinge la sua ispirazione, non vi si piace
e non vi si avvoltola. Ciò che l'ispira non è il
piacere dell'osceno, o la seduzione del vizio, ma è un
piacere tutto d'immaginazione e da artista, che senti nel brio e
nella facilità dello stile, e che mettendo in moto il
cervello gli fa trovare tanta novità di forme, d'immagini e
di ravvicinamenti, come è il ritratto della sua cameriera,
e l'altro, un vero capolavoro, della sua famiglia. Ecco
perchè il Berni è tanto superiore a' suoi imitatori
ed emuli, freddamente osceni e buffoni. Pure la buffoneria oscena
diviene l'ingrediente de' banchetti, delle accademie e delle
conversazioni, e invade la letteratura, quasi condimento e salsa
dello spirito: la statua di Pasquino diviene l'emblema della
coltura. Ci erano capitoli e sonetti: sorgono poemi interi
berneschi, com'è la Vita di Mecenate del Caporali, di una
naturalezza spesso insipida e volgare, e il suo Viaggio al
Parnaso, e la Gigantea dell'Arrighi, e la Nanea del Grazzini, o i
Nani vincitori de' giganti. Di tanti poeti berneschi si nomina
oggi appena il Caporali. Nondimeno questa lirica bernesca è
la sola viva in questo secolo. Gli stessi poeti petrarcheggiando
annoiano, e si fanno leggere piacevoleggiando; perchè i
loro sospiri d'amore escono da un repertorio già vecchio di
concetti e di frasi, e non corrispondono allo stato reale della
società e della loro anima; dove in quel piacevoleggiare ci
è il secolo, ci è loro, e non ci è ancora
modelli o forme convenzionali, e qualche cosa dee pur venire dal
loro cervello.
I canti carnascialeschi, come i rispetti e le
ballate e le serenate, erano legati con la vita pubblica; ora il
circolo della vita si restringe: la vita letteraria è nelle
accademie e tra' convegni privati. Per le piazze si aggirano
ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee. Ma la coltura se
ne allontana, e la trovi in corte o nell'accademia o nelle
conversazioni, centri di allegria spensierata e licenziosa;
però da gente colta, che sa di greco e di latino, che
ammira le belle forme e cerca ne' suoi divertimenti l'eleganza, o
come dicevasi, il "bello stile". Vi si recitavano capitoli,
sonetti, poemi burleschi, poemi di cavalleria e novelle. Come
però l'arte è una merce rara e la produzione era
infinita, il pubblico diveniva meno severo, e pur d'esser
divertito non mirava tanto pel sottile nel modo. In sostanza
questa borghesia spensierata e oziosa era sotto forme così
linde vera plebe, mossa dagli stessi istinti grossolani e
superficiali, la curiosità, la buffoneria, la
sensualità, e quando quest'istinti erano accarezzati,
accettava tutto, anche il mediocre, anche il pessimo: il che era
segno manifesto di non lontana decadenza.
Questa letteratura comica o negativa si
sviluppa in modo prodigioso. Accanto a' capitoli e a' romanzi
moltiplicano le novelle. Il cantastorie diviene l'eroe della
borghesia. E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo, il Decamerone.
Il petrarchismo era una poesia di transizione, che in questo
secolo è un così strano anacronismo come
l'imitazione di Virgilio o di Cicerone. Ma il Decamerone portava
già ne' suoi fianchi tutta questa letteratura, era il germe
che produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il Berni, l'Ariosto
e tutti gli altri.
Quasi ogni centro d'Italia ha il suo
Decamerone. Masuccio recita le sue novelle a Salerno, il Molza
scrive a Roma il suo decamerone, e il Lasca le sue Cene a Firenze,
e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti o cento favole, e Antonio
Mariconda a Napoli le sue Tre giornate, e Sabadino a Bologna le
sue Porretane, e quattordici novelle scrive il milanese Ortensio
Lando, e Francesco Straparola scrive in Venezia le sue Tredici
piacevoli notti, e Matteo Bandello il suo novelliere, e le sue
diciassette novelle il Parabosco. A Roma si stampano le novelle
del Cadamosto da Lodi e di monsignor Brevio da Venezia. A Mantova
si pubblicano le novelle di Ascanio de' Mori, mantovano, e a
Venezia escono in luce le Sei giornate di Sebastiano Erizzo,
gentiluomo veneziano, e le dugento novelle di Celio Malespini,
gentiluomo fiorentino, e i Giunti a Firenze pubblicano i
Trattenimenti di Scipione Bargagli. Aggiungi la Giulietta di Luigi
da Porto vicentino, e l'Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.
Tutti questi scrittori, dal quattrocentista
Masuccio sino al Bargagli che tocca il Seicento, si professano
discepoli e imitatori del Boccaccio. Chi se ne appropria lo
spirito, e chi le invenzioni anche e la maniera. I toscani, presso
i quali il Boccaccio è di casa, scrivono con più
libertà, e ci hanno una grazia e gentilezza di dire loro
propria, che copre la grossolanità de' sentimenti e de'
concetti: tale è il Lasca, e il Firenzuola nelle novelle
inserite ne' suoi Discorsi degli animali e nel suo Asino d'oro.
Gli altri procedono più timidi, e riescono pesanti, come il
Giraldi e il Brevio e il Bargagli, o scorretti e trascurati, come
il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto. Il linguaggio
è quell'italiano comune che già si usava dalla
classe colta nello scrivere e talora anche nel parlare, tradotto
in una forma artificiosa e alla latina che dicevasi letteraria, e
solcato di neologismi, barbarismi, latinismi e parole e frasi
locali, salvo ne' più colti, come è il Molza, per
speditezza e festività vicino a' toscani.
Quel bel mondo della cortesia che nel
Decamerone tiene sì gran parte, rifuggitosi ne' poemi
cavallereschi, scompare dalla novella. E neppure ci è
quello stacco tra borghesia e plebe, quella coscienza di una
coltura superiore, che si manifesta nella caricatura della plebe,
quell'allegrezza comica a spese delle superstizioni e de'
pregiudizi frateschi e plebei, che tanto ti alletta nelle novelle
fiorentine e fino nella Nencia. Questo mondo interiore scompare
anch'esso. La novella attinge tutta la società ne' suoi
vizi, nelle sue tendenze, ne' suoi accidenti, con nessun altro
scopo che d'intrattenere le brigate con racconti interessanti.
L'interesse è posto nella novità e
straordinarietà degli accidenti, come sono i mutamenti
improvvisi di fortuna, o burle ingegnose per far danari o
possedere l'amata, o casi maravigliosi di vizi o di virtù.
Re, principi, cavalieri, dottori, mercanti, malandrini, scrocconi,
tutte le classi vi sono rappresentate e tutt'i caratteri, comici e
seri, e tutte le situazioni, dalla pura storia sino al più
assurdo fantastico. Sono migliaia di novelle, arsenale
ricchissimo, dove hanno attinto Shakespeare, Molière e
altri stranieri.
La più parte di queste novelle sono
aridi temi, magri scheletri in forma affettata insieme e
scorretta. L'interessante è stimolare la curiosità
del pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari. Perciò
hai da una parte il comico e dall'altra il fantastico.
Nel comico, salvo i toscani, ne' quali
supplisce la grazia del dialetto, i novellieri mostrano pochissimo
spirito. Una delle novelle meglio condotte è la "scimia"
del Bandello, la quale si abbiglia co' panni di una vecchia morta,
e par dessa, e spaventa quelli di casa. Il fatto è in
sè comico, ma l'esposizione è arida e superficiale,
e i sentimenti e le impressioni comiche ci sono appena abbozzate.
C'è una novella di Francesco Straparola assai spiritosa
d'invenzione, dove si racconta il modo che tenne un marito per
rendere ubbidiente la moglie, e la sciocca imitazione fattane dal
fratello, novella che suggerì al Molière la Scuola
de' mariti. Ma di spiritoso non c'è che l'invenzione, forse
neppur sua: così triviale e abborracciata è
l'esposizione. Un villano che fa la scuola ad un astrologo
è anche un bel concetto del Lando, ma scarso di trovati e
situazioni comiche. Pure il Lando è scrittor vivace e
rapido, e nelle descrizioni efficace e pittoresco. Il villano
predice la pioggia; ma l'astrologo vede il cielo sereno.
"Alzato il viso, guatava d'ogni intorno, e
diligentemente ogni cosa contemplando, s'avvide essere il cielo
tutto bello, il sole temperato, il monte netto da nuvoli, e
appresso s'accorse che l'austro nel soffiare era dolcissimo, e
cominciò attentamente a considerare in qual segno fosse il
sole e in qual grado, che cosa stesse nel mezzo del cielo, e qual
segno stessegli in dritta linea opposto. Nè potendo in
verun modo conoscere che pioggia dovesse dal cielo cadere, al
villano rivolto, disse con ira e con isdegno: - Dio e la Natura
potrebbono far piovere, ma la Natura sola non lo potrebbe fare."
Sopravvenuta più tardi pioggia dirottissima, descrive le
sue rovine e i suoi effetti in questo modo:
"Rovinarono torri, sbarbicaronsi molte querce,
caddero bellissimi palagi, tremò tutta la riviera
dell'Adige, parve che il cielo cadesse e che tutta la macchina
mondana fosse per disciogliersi."
Tutta la novella è scritta in questa prosa spedita e
animata, e si legge volentieri, ma il sentimento comico vi fa
difetto, nè vi supplisce una lingua poetica e senza colore
locale.
Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non di
spirito o di coltura o di arte, ma di lingua, essendo il dialetto
toscano, ricco di sali e di frizzi e di motti e di modi comici, un
istrumento già formato e recato a perfezione dal Boccaccio
al Berni. Materia ordinaria del Lasca è la
semplicità degli uomini "tondi e grossi", fatta giuoco de'
tristi e degli scrocconi. È la novella ne' termini che
l'aveva lasciata il Boccaccio. Il suo Calandrino è Gian
Simone o Guasparri, rigirati e beffati da scrocconi che si
prevalgono della loro credulità. Il Boccaccio mette in
iscena preti e frati, il Lasca astrologi, guardando meno alle
superstizioni religiose che alle credenze popolari nell'"orco,
tregenda e versiera", negli spiriti e ne' diavoli. Oggi abbiamo i
magnetisti e gli spiritisti; allora c'erano i maghi o gli
astrologi, con la stessa pretensione di conoscere l'avvenire e di
guarire gl'infermi, e conoscere i fatti altrui, e farti comparire
i morti o le persone lontane: materia inesausta di ridicolo, non
altrimenti che i miracoli de' frati. Se il Boccaccio mette in
gioco il mondo soprannaturale della religione, il Lasca si beffa
del mondo soprannaturale della scienza. Il fantastico regna ancora
qua e colà in Italia; ma a Firenze era morto sotto l'ironia
del Boccaccio, del Sacchetti, di Lorenzo e del Pulci, nè i
piagnoni poterono risuscitarlo. Il nostro Lasca non ha lo spirito
e la finezza del Boccaccio, non ha ironia ed è grossolano
nelle sue caricature; ma è facile, pieno di brio e di vena,
evidente, e trova nel dialetto immagini e forme comiche belle e
pronte, senza che si dia la pena di cercarle. Ecco la magnifica
pittura dell'astrologo Zoroastro:
"... era uomo di trentasei in quarant'anni, di
grande e di ben fatta persona, di colore ulivigno, nel viso
burbero e di fiera guardatura, con barba nera, arruffata e lunga
infino al petto, ghiribizzoso molto e fantastico; aveva dato opera
all'alchimia, era ito dietro e andava tuttavia alla baia
degl'incanti; aveva sigilli, caratteri, filattiere, pentacoli,
campane, bocce e fornelli di varie sorte da stillare erba, terra,
metalli, pietre e legni; aveva ancora carta non nata, occhi di
lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di pesce colombo,
ossa di morti, capestri d'impiccati, pugnali e spade che avevano
ammazzato uomini, la chiavicola e il coltello di Salomone, e erba
e semi colti a vari tempi della luna e sotto varie costellazioni,
e mille altre favole e chiacchiere da far paura agli sciocchi;
attendeva all'astrologia, alla fisonomia, alla chiromanzia e cento
altre baiacce; credeva molto nelle streghe, ma soprattutto agli
spiriti andava dietro, e con tutto ciò non aveva mai potuto
vedere ne fare cosa che trapassasse l'ordine della natura,
benchè mille scerpelloni e novellacce intorno a ciò
raccontasse e di farle credere s'ingegnasse alle persone; e non
avendo nè padre, nè madre, e assai benestante sendo,
gli conveniva stare il più del tempo solo in casa, non
trovando per la paura nè serva, nè famiglio che
volesse star seco, e di questo infra sè maravigliosamente
godea; e praticando poco, andando a casa con la barba avviluppata
senza mai pettinarsi, sudicio sempre e sporco, era tenuto dalla
plebe per un gran filosofo e negromante."
È un periodo interminabile, tirato giù felicemente,
dove, come in un quadro, ti sta dinanzi tutta la persona, in una
ricchezza di accessorii, espressi con una proprietà di
vocaboli, che si può trovar solo in un fiorentino.
"Struggersi d'amore" è un sentimento serio che il Lasca
traduce in comico, aggiungendovi le immagini del dialetto: "la
farà in modo innamorar di voi ch'ella non vegga altro dio,
e si consumi e strugga de' fatti vostri, come il sale nell'acqua,
e ... vi verrà dietro, più che i pecorini al pane
insalato". Parlando del banchetto che tenne l'astrologo con i suoi
compagni di giunteria, lo Scheggia, il Pilucca e il Monaco, alle
spese del candido Gian Simone, dice: "E fecero uno scotto da
prelati, con quel vino che smagliava". Se il Lasca dee molto al
dialetto, ha pure un pregio proprio che lo mette accanto al Berni,
una intuizione chiara e viva delle cose, che te le dà
scolpite in rilievo. Tale è il viaggio per aria del Monaco,
come Zoroastro dà a credere al dabben Simone:
"[Zoroastro] si stese in terra boccone, e disse
non so che parole, e rittosi in piede e fatto due tomboli,
s'arreco da un canto del cerchio inginocchioni, e guardando fisso
nel vaso,... disse: - Il Monaco nostro ha già riavuto il
resto, e vassene con l'insalata verso Pellicceria per andarsene a
casa; ma in questo istante io l'ho fatto invisibilmente alzare ai
diavoli da terra: oh eccolo che egli e già sopra il
Vescovado: oh che gli vien bene, egli è già sopra la
piazza di Madonna: oh ora egli è sopra la vecchia di Santa
Maria Novella: testè entra in Gualfonda: oh eccolo a mezza
la strada! Oh egli è già presso a meno di cinquanta
braccia: oh eccolo, eccolo già rasente alla finestra! Or
ora sarà nel cerchio in pianelle, in mantello, in
cappuccio, e con l'insalata e con le radici in mano." Il nostro
speziale, chè colui che chiamavano "il Lasca"
nell'accademia degli Umidi era appunto lo speziale Anton Maria
Grazzini, dipinge con tanto rilievo gli oggetti, perchè li
vede chiarissimi nell'immaginazione, e non si ha a travagliare
intorno alla forma, e non v'usa alcuno artificio, scrive parlando.
Nè è meno evidente e parlante nel dialogo. Simone,
passata la paura e uscitogli tutto l'amore di corpo, non vuol
più dare all'astrologo i venticinque fiorini promessigli. E
dice allo Scheggia:
"- Io ti giuro sopra la fede mia che mi
è uscito ... tutto l'amor di corpo, e della vedova non mi
curo più niente... Oh che vecchia paura ebb'io per un
tratto! e' mi si arricciano i capelli quando vi ci penso,
sicchè pertanto licenzia e ringrazia Zoroastro. - Lo
Scheggia, udite le di colui parole, diventò piccino
piccino..., e parendogli rimanere scornato, disse: - Oimè,
Gian Simone, che è quello che voi mi dite? Guardate che il
negromante non si crucci. Che diavol di pensiero e il vostro? Voi
andate cercando Maria per Ravenna: io dubito fortemente, come
Zoroastro intenda questo di voi, ch'egli non si adiri tenendosi
uccellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco. Bella cosa
e da uomini dabbene mancar di parola! ...Tanto è Gian
Simone, egli non è da correrla così a furia: se egli
vi fa diventare qualche animalaccio, voi avrete fatto poi una
bella faccenda. - Colui era già per la paura diventato nel
viso un panno lavato, e rispondendo allo Scheggia, disse: - Per lo
sangue di tutt'i diavoli che fo giuro d'assassino, che domattina,
la prima cosa, io me ne voglio andare agli Otto, e contare il
caso, e poi farmi bello e sodare, non so chi mi tiene che non vada
ora. - Tosto che lo Scheggia senti ricordare gli Otto,
diventò nel viso di sei colori, e fra sè disse: -
Qui non è tempo da battere in camicia, facciamo che il
diavolo non andasse a processione -; e a colui rivolto, dolcemente
prese a favellare e disse: - Voi ora, Gian Simone, entrate bene
nell'infinito, e non vorrei per mille fiorini d'oro in beneficio
vostro, che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto. Ora non
sapete che l'ufficio degli Otto ha potere sopra gli uomini, e non
sopra i demòni? Egli ha mille modi di farvi, quando voglia
gliene venisse, capitar male, che non si saperrebbe mai."
Cosa manca al Lasca? La mano che trema. Scioperato, spensierato,
balzano, vispo e svelto, ci è in lui la stoffa di un grande
scrittor comico; ma gli manca il culto e la serietà
dell'arte, e abborraccia e tira giù come viene, e lascia a
mezzo le cose, e si arresta alla superficie, naturale e vivace
sempre, spesso insipido, grossolano e trascurato, massime
nell'ordito e nel disegno.
Questo basso comico, plebeo e buffonesco, ne'
confini della semplice caricatura, perciò superficiale ed
esteriore, ritratto di una borghesia colta, piena di spirito e
d'immaginazione, e insieme spensierata e tranquilla, ha la sua
sorgente colà stesso onde uscì il Morgante, e poi i
capitoli e i sonetti del Berni: è il bernesco nell'arte,
buffoneria ingentilita dalla grazia e alzata a caricatura, maniera
sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca, infiltratasi nel
dialetto e rimasta forma toscana. Nelle altre parti d'Italia la
buffoneria è senza grazia, spesso caricata troppo, e
lontana da quel brio tutto spontaneità e naturalezza, che
senti nel Berni e nel Lasca. Tra' più sgraziati è il
Parabosco.
Col comico va congiunto il fantastico. Il
novelliere, in luogo di guardare nella vita reale e studiarvi i
caratteri, i costumi, i sentimenti, cerca combinazioni tali di
accidenti che solletichino la curiosità. Per questa via dal
nuovo si va allo strano, e dallo strano al fantastico, al
soprannaturale e all'assurdo. Così una borghesia scettica,
che ride de' miracoli, che si beffa del soprannaturale religioso e
non vuol sentire a parlare di misteri e di leggende, come forme
barbare, sente poi a bocca aperta racconti di fate, di maghi, di
animali parlanti, che tengano desta la sua curiosità. Il
Mariconda narra con serietà rettorica i casi di Aracne, di
Piramo e Tisbe e altre favole mitologiche. E con la stessa
serietà Francesco Straparola raccoglie nelle sue Notti le
più sbardellate invenzioni di quel tempo, saccheggiando
tutt'i novellatori, Apuleio, Brevio, soprattutto il napolitano
Girolamo Morlino, autore di ottanta novelle in latino. Ivi trovi
il fantastico spinto all'ultimo limite dell'assurdo. Vedi un
anello trasformato in un bel giovane, pesci e cavalli e falconi e
bisce e gatte fatate che fanno maraviglie, e satiri e uomini
salvatici o in forma porcile, e morti risuscitati, e asini e leoni
in conversazione, e fate e negromanti e astrologi. Queste ch'egli
chiama "favole", si accompagnano con altri racconti osceni o
faceti, o com'egli dice, "ridicolosi", e sono le solite burle
fatte alla gente semplice e grossa, o com'egli dice, "materiale".
Il pretesto è uno scopo di volgare morale o prudenza, un
"fabula docet", ma in fondo l'autore mira a render piacevoli le
sue Notti, eccitando il riso o movendo la curiosità. Non
mostra alcuna intenzione letteraria, salvo nelle descrizioni, una
goffa imitazione del Boccaccio chiama egli medesimo "basso" e
"dimesso" il suo stile, e dice che le invenzioni non son sue, ma
suo è il modo di raccontarle. Non hai qui dunque
contorcimenti, lenocini, artifici, eleganze: è un narrare
alla buona e a corsa, in quella lingua comune italiana, di forma
più latina che toscana, mescolata di parole venete,
bergamasche e anche francesi, come "follare" (fouler) per
calpestare. Non si ferma sul descrivere o particolareggiare, non
bada a' colori salta le gradazioni, va diritto e spedito, cercando
l'effetto nelle cose, più che nel modo di dirle. E le cose,
non importa se di lui o di altri, contengono spesso concetti molto
originali, come Nerino, lo studente portoghese, che fa le sue
confidenze amorose al suo maestro Brunello, ch'egli non sa essere
il marito della sua bella onde Molière trasse il pensiero
della sua Ecole des femmes; o l'asino che co' suoi vanti la fa al
leone; o i bergamaschi che con la loro astuzia la fanno a' dottori
fiorentini; o la vendetta dello studente burlato dalle donne; o
Flaminio che va in cerca della morte; o le nozze del diavolo. Il
successo fu grande: si fecero in poco tempo del libro più
di venti edizioni; e di molte favole è rimasta anche oggi
memoria. L'osceno, il ridicolo, il fantastico era il cibo del
tempo: poi quella forma scorretta, imperfetta, ma senza frasche e
spedita soprattutto nel vivo del racconto, dovea rendere il libro
di più facile lettura alla moltitudine che non gli
Ecatommiti del Giraldi e le novelle dell'Erizzo e del Bargagli, di
una forma artificiata e noiosa. Ma il successo durò poco.
Anche la Filenia del Franco fu tenuta pari al Decamerone, e
dimenticata subito. Manca allo Straparola il calore della
produzione, e ti riesce prosaico e materiale anche nel più
vivo di una situazione comica, o nel maggiore allettamento
dell'oscenità, o ne' movimenti più curiosi del
fantastico, come di uomini uccisi e rifatti vivi. Narra il
miracolo con quella indifferenza, che i casi quotidiani della
vita; e mi rassomiglia un uomo divenuto per la lunga consuetudine
frigido e ottuso, che non ha più passioni, ma vizi. Chi
vuol vederlo, paragoni le sue "Nozze del diavolo" col Belfegor del
Machiavelli, argomento simile, e il suo studente vendicativo col
famoso studente del Boccaccio. E vedrà che a lui manca non
meno il talento comico che la virtù informativa. Ma che
importa? Non mira che a stuzzicare la sensualità e la
curiosità, e chi si contenta gode. E per meglio avere l'uno
e l'altro intento, aggiunge al racconto un enigma o indovinello in
verso, osceno di apparenza, e spiegato poi altrimenti che suona a
prima udita. Così oggi i cervelli oziosi per fuggir la noia
fanno o sciolgono sciarade e rebus. Il fantastico era il cibo de'
cervelli oziosi, non meno che l'enigma, o i tanti poemi
cavallereschi. L'arte era divenuta mestiere; e pur di sentire
fatti nuovi e strani, non si cercava altro. Ristorare il
fantastico in mezzo a una borghesia scettica e sensuale era vana
impresa. Nelle antiche leggende senti il miracolo, e senti il
maraviglioso ne' romanzi antichi di cavalleria: ora manca
l'ingenuità e la semplicità, e l'arte non può
riprodurre il fantastico che con un ghigno ironico, volgendolo in
gioco. Perciò la sola novella fantastica che si possa
chiamare lavoro d'arte è il Belfegor, il diavolo
accompagnato dal sorriso machiavellico. Cosa ha di vivo il diavolo
borghese e volgare dello Straparola o la sua Teodosia, che
è la leggenda messa in taverna?
Se una ristorazione del fantastico non era
possibile, come poteva aversi una ristorazione del tragico? Ma ci
furono anche novelle tragiche con la stessa intonazione del
Decamerone, anzi della Fiammetta. E sono quello che potevano
essere, fior di rettorica. D'immaginazione ce n'era molta, ma di
sentimento non ce n'era favilla. Cosa di eroico o di affettuoso o
di nobile poteva essere tra quelle corti e quelle accademie,
ciascuno sel pensi. Chi desideri esempli di questa rettorica,
vegga la Giulietta di Luigi da Porto, o nel Bandello i monologhi
di Adelasia e Aleramo, o nell'Erizzo i lamenti di re Alfonso sulla
tomba di Ginevra. Come a svegliare i romani ci voleva la vista del
sangue, a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si va
sino al più atroce e al più volgare. La figliuola di
re Tancredi nel Boccaccio è una nobile creatura, ma sono
mostri volgari la Rosmonda del Bandello o l'Orbecche del Giraldi,
che pur non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono e non ti
agitano, per il freddo artificio della forma. Tra gli eleganti
elegantissimo è il Bargagli, che sceglie forme nobili e
solenni anche dove è in fondo cosa da ridere, come è
la sua Lavinella, situazione comica in forma seria, anzi oratoria.
Ciò che rimane di vivo in questa
letteratura non e il fantastico e non il tragico, ma un comico,
spesso osceno e di bassa lega e superficiale, che non va al di
là della caricatura e talora è più nella
qualità del fatto che ne' colori. Alcuna volta ci è
pur sentore di un mondo più gentile, soprattutto
nell'Erizzo e nel Bandello, come è la novella di costui
della reina Anna; ma in generale, come nelle corti anche
più civili sotto forme decorose e amabili giace un fondo
licenzioso e grossolano, la novella è oscena e plebea in
contrasto grottesco con uno stile nobile e maestoso, puro
artificio meccanico. È un comico che a forza di ripetizione
si esaurisce e diviene sfacciato e prosaico. Il capitolo muore col
Berni e la novella col Lasca.
È il Decamerone in putrefazione. Il
difetto del capitolo è di cercare i suoi mezzi comici
più nelle combinazioni astratte dello spirito che nella
rappresentazione viva della realtà. È lo stesso
difetto del petrarchismo: il Petrarca del capitolo è
Francesco Berni, e i petrarchisti sono i suoi imitatori, che a
forza di cercar rapporti e combinazioni escono in freddure e
sottigliezze. Il difetto della novella è la
sensualità prosaica e la vana curiosità: senza
ideali e senza colori, e in una forma spesso pedantesca e
sbiadita. E capitolo e novella hanno poi un difetto comune, la
superficialità, quel lambire appena la esteriorità
dell'esistenza e non cercare più addentro, come se il mondo
fosse una serie di apparenze fortuite e non ci fosse uomo e non ci
fosse natura. Essendo tutto un giuoco d'immaginazione, a cui
rimane estraneo il cuore e la mente, la forma comica nella quale
si dissolve è la caricatura degradata sino alla pura
buffoneria. Lo spirito volge in giuoco anche quel giuoco
d'immaginazione, intorno a cui si travagliarono con tanta
serietà il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il
Poliziano, il Pulci, il Berni, il Lasca, divenuto nel Furioso il
mondo organico dell'arte italiana, e traduce l'ironia ariostesca
in aperta buffoneria, avvolgendo in una clamorosa risata tutti
gl'idoli dell'immaginazione, antichi e nuovi. La nuova arte,
uscita dalla dissoluzione religiosa, politica e morale del medio
evo e rimasta nel vuoto, innamorata di solo se stessa, come
Narciso, va a morire per mano di un frate sfratato, di Teofilo
Folengo: muore ridendo di tutto e di se stessa. La Maccaronea del
Folengo chiude questo ciclo negativo e comico dell'arte italiana.
Ma ci era anche un lato positivo. Mentre ogni specie di contenuto
è messa in giuoco, e l'arte cacciata anche dal regno
dell'immaginazione si scopre vuota forma, un nuovo contenuto si va
elaborando dall'intelletto italiano, e penetra nella coscienza e
vi ricostruisce un mondo interiore, ricrea una fede non più
religiosa, ma scientifica, cercando la base non in un mondo sopra
naturale e sopra umano, ma al di dentro stesso dell'uomo e della
natura. Pomponazzi, negando l'esistenza degli universali,
rigettando i miracoli, proclamando mortale l'anima, e spezzando
ogni legame tra il cielo e la terra, pose obbiettivo della scienza
l'uomo e la natura. Platonici e aristotelici per diverse vie
proclamavano l'autonomia della scienza, la sua indipendenza dalla
teologia e dal dogma. La Chiesa lasciava libero il passo a tutta
quella letteratura frivola e oscena e a tutta quella vita
licenziosa, della quale era esempio la corte di Leone, ma non
potea veder senza inquietudine questo risvegliarsi
dell'intelligenza nelle scuole. Il materialismo pratico,
l'indifferenza religiosa era spettacolo vecchio; ma la spaventava
quel materialismo alzato a dottrina, e l'indifferenza divenuta
aperta negazione, con quella ipocrita distinzione di cose vere
secondo la fede e false secondo la scienza. Il concilio
lateranense testimonia la sua inquietudine. Leone decimo proclama
eresia quella distinzione, proibisce l'insegnamento di Aristotile,
e sottopone i libri alla censura ecclesiastica. A che pro? Il
materialismo era il motto del secolo. Leone decimo stesso era un
materialista, come fu Lorenzo con tutto il suo platonismo.
Nè altro erano il Pulci, il Berni, il Lasca e gli altri
letterati, ancorachè si guardassero di dirlo. Alcuni
manifestavano con franchezza la loro opinione, come Lazzaro
Bonamico, Giulio Cesare Scaligero, Simone Porzio, Andrea
Cesalpino, Speron Speroni, e quel professore Cremonino da Cento
che fe' porre sulla sua tomba: "Hic iacet Cremoninus totus".
Quando gli studenti avevano innanzi un professore nuovo, e lo
vedevano nicchiare, gli dicevano subito: - Cosa pensate
dell'anima?
Quando il materialismo apparve, la
società era già materializzata. Il materialismo non
fu il principio, fu il risultato. Fino a quel punto il dogma era
stato sempre la base della filosofia e il suo passaporto. Era un
sottinteso che la ragione non poteva contraddire alla fede, e
quando contraddizione appariva, si cercava il compromesso, la
conciliazione. Così poterono lungamente vivere insieme
Cristo e Platone, Dio e Giove: tutta la coltura era unificata
nell'arte e nel pensiero, e non si cercava con quanta logica e
coesione e con quanta buona fede. In nome della coltura si
paganizzavano le forme cattoliche anche da' più pii, come
ne' loro poemi sacri facevano il Sannazzaro e il Vida; si
paganizzò anche san Pietro, e paganizzava anche Leone
decimo. Tutto questo era arte, era civiltà, e non solo non
era impedito, anzi promosso e incoraggiato; farvi contro non si
poteva senza aver taccia di barbaro e incolto. E si tollerava pure
Pasquino, voglio dire quella buffoneria universale, le cui
maggiori spese le facevano preti, frati, vescovi e cardinali.
In quella corruzione così vasta,
soprattutto nel clero, era il caso di dire: "petimusque damusque
vicissim"; e tutti ridevano, e primi i beffati. Di cose di
religione non si parlava, e quando era il caso, le si faceva di
berretto, se ne osservavano le forme e il linguaggio per l'antica
abitudine, senza darvi alcuna importanza. Sotto il manto
dell'indifferenza ci era la negazione. In quel vuoto immenso non
rimaneva altro in piedi che la coltura come coltura e l'arte come
arte. Ed era appunto la negazione che appariva nell'arte sotto
forma comica, e formava il suo contenuto. Che cosa era quell'arte?
Era il ritratto dello spirito italiano. Era la contemplazione di
una forma perfetta nella indifferenza o negazione del contenuto.
La società vagheggiava nell'arte se stessa.
Ma era una società spensierata e
accademica, che non si era ancora guardata al di dentro, non si
avea fatto il suo esame di coscienza. E quando per la prima volta
gitta l'occhio entro di sè e domanda: - Che sono dunque?
Onde vengo? Ove vado? - La risposta non poteva essere altra che
questa: - Sono corpo: vengo dalla terra e torno alla terra,
l'"alma parens", la gran madre antica. - Questa risposta dapprima
fa rabbrividire: sembra una scoperta, ed è un risultato. E
invade le università e si attira i fulmini del concilio.
Zitto! Grida la borghesia gaudente e spensierata, che non volea
esser turbata nel suo alto sonno. E la cosa rimase lì.
"Intus ut libet, foris ut moris", diceva Cremonino. Credete come
volete, ma parlate come parlano. E le audacie del Valla e del
Pomponazzi si perdettero nel rumore de' baccanali. Ci era la cosa,
ma non si voleva la parola. Materialismo era in tutto, nella vita,
nelle lettere, nelle sue applicazioni alla morale, alla politica,
all'uomo e alla natura. Ma non si chiamava materialismo. Si
chiamava coltura, arte, erudizione, civiltà, bellezza,
eleganza: ipocrisia in alcuni, in altri corta intelligenza.
Così si viveva tutti in buon accordo e allegramente, e
quando veniva la bile ci era lo sfogatoio: permesso di dir male
de' preti e anche del papa, e di abbandonarsi a tutt'i piaceri
corporali, andando a messa, facendosi il segno della croce e
gridando contro gli eretici, e specialmente contro i signori
luterani che con le loro malinconie teologiche minacciavano il
mondo di una nuova barbarie. Pigliare sul serio la teologia!
Questo per i nostri letterati era un tornare indietro di due
secoli.
Fu appunto in quel tempo che Lutero, spaventato
come Savonarola alla vista di così vasta corruttela
italiana, proclamò la Riforma e regalò al mondo una
teologia purgata ed emendata. Se innanzi al papato fu un eretico,
alla borghesia italiana apparve un barbaro, come Savonarola. E in
verità la sua teologia era in una vera contraddizione con
la civiltà italiana, avendo per base la reintegrazione
dello spirito e l'indifferenza delle forme, cioè a dire
negando quella sola divinità che era rimasta viva nella
coscienza italiana, il culto della forma e dell'arte. Una riforma
religiosa non era più possibile in un paese coltissimo,
avvezzo da lungo tempo a ridere di quella corruttela, che moveva
indignazione in Germania e che avea già cancellato nel suo
pensiero il cielo dal libro dell'esistenza. L'Italia avea
già valica l'età teologica e non credeva più
che alla scienza, e dovea stimare i Lutero e i Calvino come de'
nuovi scolastici. Perciò la Riforma non potè
attecchire fra noi e rimase estranea alla nostra coltura, che si
sviluppava con mezzi suoi propri. Affrancata già dalla
teologia, e abbracciando in un solo amplesso tutte le religioni e
tutta la coltura, l'Italia del Pico e del Pomponazzi, assisa sulle
rovine del medio evo, non potea chiedere la base del nuovo
edificio alla teologia, ma alla scienza. E il suo Lutero fu
Nicolò Machiavelli.
Il Machiavelli è la coscienza e il
pensiero del secolo, la società che guarda in sè e
s'interroga e si conosce; è la negazione più
profonda del medio evo, e insieme l'affermazione più chiara
de' nuovi tempi; è il materialismo dissimulato come
dottrina, e ammesso nel fatto e presente in tutte le sue
applicazioni alla vita.
Non bisogna dimenticare che la nuova
civiltà italiana è una reazione contro il misticismo
e l'esagerato spiritualismo religioso, e, per usare vocaboli
propri, contro l'ascetismo, il simbolismo e lo scolasticismo:
ciò che dicevasi il medio evo. La reazione si
presentò da una parte come dissoluzione o negazione: di che
venne l'elemento comico o negativo, che dal Decamerone va sino
alla Maccaronea. Ma insieme ci era un lato positivo, ed era una
tendenza a considerare l'uomo e la natura in sè stessi,
risecando dalla vita tutti gli elementi sopraumani e
soprannaturali: un naturalismo aiutato potentemente dal culto de'
classici e dal progresso dell'intelligenza e della coltura. Onde
venne quella tranquillità ideale della fisonomia, quello
studio del reale e del plastico, quella finitezza dei contorni,
quel sentimento idillico della natura e dell'uomo, che diè
nuova vita alle arti dello spazio e che senti ne' ritratti
dell'Alberti, nelle Stanze, nel Furioso e fino negli scherzi del
Berni. Questo era il lato positivo del materialismo italiano, un
andar più dappresso al reale ed alla esperienza, dato bando
a tutte le nebbie teologiche e scolastiche, che parvero
astrazioni. Il pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo e in
quello che negava e in quello che affermava è il
Machiavelli.
Il concetto del Machiavelli è questo, che bisogna
considerare le cose nella loro verità "effettuale",
cioè come son porte dall'esperienza ed osservate
dall'intelletto; che era proprio il rovescio del sillogismo e la
base dottrinale del medio evo capovolta: concetto ben altrimenti
rivoluzionario che non è quel ritorno al puro spirito della
Riforma e che sarà la leva da cui uscirà la scienza
moderna.
Questo concetto applicato all'uomo ti dà
il Principe e i Discorsi, e la Storia di Firenze e i Dialoghi
sulla milizia. E il Machiavelli non ha bisogno di dimostrarlo: te
lo dà come evidente. Era la parola del secolo ch'egli
trovava e che tutti riconoscevano.
Così nasce la scienza dell'uomo, non
quale può o dee essere, ma quale è; dell'uomo non
solo come individuo, ma come essere collettivo, classe, popolo,
società, umanità. L'obbiettivo della scienza diviene
la conoscenza dell'uomo, il "nosce te ipsum", questo primo motto
della scienza quando si emancipa dal soprannaturale e pone la sua
indipendenza. Tutti gli universali del medio evo scompariscono. La
"divina commedia" diviene la "commedia umana" e si rappresenta in
terra: si chiama storia, politica, filosofia della storia, la
scienza nuova. La scienza della natura si sviluppa più
tardi. Non si crede più al miracolo, ma si crede ancora
all'astrologia. Attendete ancora un poco, e il concetto del
Machiavelli applicato alla natura vi darà Galileo e
l'illustre coorte dei naturalisti.
Non è il caso di disputare sulla
verità o falsità delle dottrine. Non fo una storia e
meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia delle lettere. Ed
è mio obbligo notare ciò che si move nel pensiero
italiano; perchè quello solo è vivo nella
letteratura che è vivo nella coscienza.
Da quel concetto esce non solo la scienza
moderna, ma anche la prosa. Come nella scienza ci aveva ancora
molta parte l'immaginazione, la fede, il sentimento; così
nella prosa erano penetrati elementi etici, rettorici, poetici,
chiusi in quella forma convenzionale boccaccevole, che dicevasi
forma letteraria, ed era già divenuta maniera, un vero
meccanismo. Ma il Machiavelli spezza questo involucro, e crea il
modello ideale della prosa, tutta cose e intelletto, sottratta
possibilmente all'influsso dell'immaginazione o del sentimento, di
una struttura solida sotto un'apparente sprezzatura.
E da quel concetto dovea uscire anche un nuovo
criterio della vita, e perciò dell'arte. L'uomo e la natura
hanno nel medio evo la loro base fuori di sè, nell'altra
vita; le loro forze motrici sono personificate sotto nome di
universali ed hanno un'esistenza separata. Questo concetto della
vita genera la Divina Commedia. La macchina della storia è
fuori della storia ed è detta "la provvidenza". Questa
macchina è nel mondo boccaccesco il caso o la fortuna. Non
ci è più la provvidenza, e non ci è ancora la
scienza. Il maraviglioso non è più detto miracolo,
anzi del miracolo si fanno beffe; ma è detto intrigo, nodo,
accidente straordinario. Le passioni, i caratteri, le idee non
sono forze che regolano il mondo, sopraffatte da questo nuovo
fato, la volubile e capricciosa fortuna. Il Machiavelli insorge e
contro la fortuna e contro la provvidenza, e cerca nell'uomo
stesso le forze e le leggi che lo conducono. Il suo concetto
è che il mondo è quale lo facciamo noi, e che
ciascuno è a se stesso la sua provvidenza e la sua fortuna.
Questo concetto dovea profondamente trasformar l'arte.
La poesia italiana usciva dal medio evo libera
da ogni ingombro allegorico e scolastico, ma insieme vuota di ogni
contenuto, forma pura. Il suo vero contenuto è negativo,
cioè a dire è il ridere del suo contenuto,
considerarlo come un giuoco d'immaginazione, un esercizio dello
spirito. Questo doppio elemento dell'arte è detto dal
Cecchi il "ridicolo" e il "grupposo", intendendo per grupposo il
nodo, l'intreccio, la varietà e novità de' casi. Di
questo maraviglioso perseguitato dal ridicolo ti dà il
Machiavelli splendido esempio nel suo Belfegor. La novella, il
romanzo, la commedia sono il teatro naturale di questa poesia, la
Divina Commedia dell'arte nuova. Ma nel concetto del Machiavelli
la vita non è una farsa della provvidenza, e non è
il giuoco capriccioso della fortuna, ma è regolata da forze
o da leggi umane e naturali. Perciò la base dell'arte non
è l'avventura o l'intrigo, ma il "carattere"; e se volete
vedere quello che sarà, guardate quali sono gli attori e
quali le forze che mettono in giuoco. L'arte non può starsi
contenta alla semplice esteriorità, e presentare gli
avvenimenti come un accozzo fortuito di casi straordinari, ma dee
forare la superficie e cercare al di dentro dell'uomo quelle cause
che sembrano provvidenziali o casuali. Così l'arte non
è un vano e ozioso gioco d'immaginazione, ma è
rappresentazione seria della vita nella sua realtà non solo
esteriore, ma interiore. E quest'arte, che cerca la sua base nella
scienza dell'uomo, ti dà la Mandragola e la Storia di
Firenze, e più tardi la Storia d'Italia del Guicciardini e
i suoi Ricordi.
A questo modo si realizza questa grand'epoca,
detta il "Risorgimento", che dal Boccaccio si stende sino alla
seconda metà del secolo decimosesto. Da una parte, mancati
tutti gl'ideali, religioso, politico, morale, e non rimasta nella
coscienza altra cosa salda che l'amore della coltura e dell'arte,
il contenuto non ha alcun valore in se stesso e diviene una
materia qualunque trattata a libito dall'immaginazione, che ne fa
la sua creatura e spesso anche il suo gioco, un gioco che ha la
sua idealità nell'ironia ariostesca, e trova la sua
dissoluzione nella caricatura della Maccaronea. Mentre l'arte
produce i suoi miracoli nella piena indifferenza del contenuto,
come pura arte, un nuovo contenuto si forma e penetra nella
coscienza, uno studio dell'uomo e della natura in sè
stessi, che cerca la sua base nell'esperienza, e non
nell'immaginazione e non nelle vane cogitazioni. Questo senso
profondo del reale ti crea la scienza e la prosa, e ti segna nella
Mandragola un nuovo indirizzo dell'arte.
Se dunque vogliamo studiar bene questo secolo,
dobbiamo cercarne i segreti ne' due grandi, che ne sono la
sintesi, Ludovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.
XIII
L' ORLANDO FURIOSO
Ludovico nacque nello stesso anno che Michelangiolo, il 1474.
Machiavelli, Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo, Aretino, i
principali personaggi di questa età letteraria, nacquero in
questo scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il Machiavelli
nel sessantanove, il Bembo nel settanta, il Guicciardini
nell'ottantadue, e nel novantaquattro il Folengo, e nel novanta
Pietro Aretino.
Nel novantotto, proprio l'anno che il
Machiavelli era eletto segretario del comune fiorentino, Ludovico
scrivea in prosa le sue due prime commedie. L'uno attendeva alle
gravi faccende dello Stato, e ne' suoi viaggi in Italia e in
Europa attingeva quella scienza dell'uomo e quella pratica del
mondo, che dovea fare di lui la coscienza e il pensiero del
secolo; l'altro faceva il letterato in corte, e scrivea sonetti,
canzoni, elegie, capitoli, commedie, tutto nel mondo della sua
immaginazione.
Aveva allora ventisei anni. Cinque ne aveva
sciupati intorno alle leggi; finchè, avuta dal padre
licenza, si mise con ardore allo studio delle lettere, e tutto
pieno il capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio,
cominciò a far versi latini e italiani, come tutti
facevano, elegie, canzoni, odi, epigrammi, madrigali, sonetti,
epistole, epitalami, carmi.
Nel '94, quando Carlo ottavo scendeva in
Italia, il giovane Ludovico scrive un'ode oraziana a Filiroe, nome
ch'egli appicca ad una contadinella. Carlo minaccia
... ... asperi
furore militis tremendo,
turribus ausoniis ruinam.
E il giovane sdraiato sull'erba e con gli occhi alla sua Filiroe
scrive:
Rursus quid hostis prospiciat sibi,
me nulla tangat cura, sub arbuto
iacentem aquae ad murmur cadentis...
Pensa e sente e scrive come Orazio. Il mondo precipita: e che
importa? sol che possa andar pe' campi, seguire Lida, Licori,
Filli, Glaura, e cantare i suoi amori:
Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris
Lyda modo meus est, est modo Phyllis amor...
Antra mihi placeant potius montesque supini,
vividaque irriguis gramina semper aquis ...
Dum vaga mens aliud poscat, procul este Catones
...
E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano di una sua amata di
Reggio, De Iulia, una cantante, De Glycere et Lycori, De Megilla,
e fino De catella puellae, imitazione felice di Catullo. Luigi
decimo-secondo conquista il ducato di Milano, chiamatovi da
Alessandro sesto e che importa,
... ... si furor, Alpibus
saevo flaminis irmpetu
... ... iam spretis, quatiat celticus ausones?
Che importa servire a re gallo o latino,
si sit idem hinc atque hinc non leve servitium?
Barbaricone esse est peius sub nomine, quam sub
moribus?
Tutti barbari e tutti tristi. E il giovane, esclamando: "Improba
secli conditio!" e lamentando "clades et Latii interitum",
nuper ab occiduis illatum gentibus, olim
pressa quibus nostro colla fuere iugo,
svolge l'occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio e
Catullo. L'anno appresso alla calata di Carlo ottavo l'Ariosto
recita l'orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara, De
laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri. Scrivea pure
sonetti, canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca.
Nel movantatre a diciannove anni, scrive un'elegia per la morte di
Leonora d'Aragona, moglie del duca di Ferrara. Nell'introduzione
si scopre ancora lo studente e il dilettante:
Rime disposte a lamentarvi sempre,
accompagnate il miserabil core
in altro stil che in amorose tempre:
che or giustamente da mostrar dolore
abbiamo causa, ed è sì grave il
danno
che appena so s'esser potria maggiore.
I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca; in
latino sono sensuali, all'oraziana. In latino tiene Megilla tra le
braccia, e non può credere a' suoi occhi, e dice:
An haec vera Megilla
cuius detineor sinu?
Haec, haec vera mea est; nil modo fallimur,
mi anceps anime: en sume cupita iam
mellita oscula, sume
expectata diu bona.
Ma in italiano Megilla è "l'alta beltade", che "col suo
beato lume illustra e imbianca l'occaso", e l'amante e "nel dir
lento e restio" e non descrive, perchè "chi descriver puote
a pieno il sole?".
Non è valore uman che tanto ascenda.
Se avesse potuto apprendere il greco, Anacreonte o Teocrito gli
avrebbe instillata nell'immaginazione un'altra fraseologia:
perchè tutto questo è un gioco di frasi. Ma, tutto
dietro al latino, non pensò per allora al greco:
Che 'l saper nella lingua degli Achei
non mi reputo onor, s'io non intendo
prima il parlar de li latini miei.
Mentre l'uno acquistando, e differendo
vo l'altro, l'occasion fuggì sdegnata,
poi che mi porge il crine ed io nol prendo.
Morì il padre, ch'egli aveva soli ventott'anni, e lo
lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa:
così dovè mutare Omero nel libro de' conti:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
dietro a Marta bisogna ch'io rivolga;
ch'io muti in squarci ed in vacchette Omero.
Nè potè avere più agio e modo d'intendere
"nella propria lingua dell'autore ciò che Ulisse sofferse a
Troia e poi nel lungo errore, e ciò che scrisse Euripide,
Pindaro e gli altri, a cui le Muse argive donar sì dolci
lingue e sì faconde"; perchè venuto in corte fu
mandato qua e là, oppresso dal giogo del cardinale d'Este:
E di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e per le fosse
io potevo imparar greco o caldeo.
Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria, una
commedia in prosa, scritta con tutte le regole della commedia
plautina, e che parve un miracolo a Ferrara, appunto perchè
vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino.
Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia, con
tutte le regole dell'arte poetica e con le forme di Plauto e
Terenzio. E non solo s'imitava quel meccanismo, ma si riproducea
lo stesso mondo comico, servi, parasiti, cortigiane, padri avari e
figli scapestrati. Il giovane autore, a quel modo che trasforma le
sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo di
Plauto, e nel suo lavoro d'imitazione perde di vista la
società in mezzo a cui si trova. La sua commedia è
una ricostruzione, non è una creazione, e intento al
meccanismo, si lascia fuggire le più belle situazioni e
contrasti comici. Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa
vita che viene dal Decamerone, non so che licenzioso e buffonesco,
conforme allo spirito comico, quale s'era sviluppato a Firenze, e
si sentiva nel Lasca e nel Berni, segretario del Bibbiena. Ma
l'Ariosto vive fuori di questo ambiente, e in un mondo tutto di
erudizione, e quando vuol essere faceto, ti riesce grossolano.
Oltrechè, essendo quello un mondo di accatto e con
caratteri già dati, ci sta a disagio, e non ci si
abbandona, e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed
è ne' viluppi, negl'intrighi, negli equivoci, prodotti dal
caso o dalla malizia, in un imbroglio drammatico, che spesso
stanca l'attenzione. Ma l'intrigo non basta a sostenere
l'interesse, quando i caratteri non sieno bene sviluppati e
l'intrigo non si trasformi in situazione comica. Trappola,
Volpino, Nebbia, Erofilo, Lucrano sono esseri insignificanti,
nè dall'intreccio esce alcuna scena fondamentale, dove si
raccolga l'interesse. Più tardi scrisse altre commedie,
intestatosi a farle in versi sdruccioli, per rendere l'imitazione
latina perfetta, parendogli che quel metro rispondesse a capello
al giambo. Nè in questa forma sgraziata, che vuol essere
poesia e non è prosa, gli riesce meglio la commedia,
ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a
quella società, come è il Negromante. Sbagliata la
via, non si raddrizza più. Un negromante o astrologo che fa
mestiere di sua arte, e con sue bugie cava quattrini da' gonzi,
è un argomento popolarissimo, e trattato allora da tutt'i
novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate,
come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte di
scroccone e giuntatore era rappresentata dall'astrologo. Il nome
era mutato: il motivo comico era lo stesso. Ricordiamoci con che
brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la
tradizione e la malizia del Boccaccio, e l'ambiente di Firenze,
dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il
Magnifico. Ma nel Negromante ariostesco senti la società
latina, dove il servo è più astuto del padrone,
rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l'intende e la
studia su' libri. Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più
che uomini, preda facile de' birboni che ci vivono intorno. Sono
essi non il principale, ma il fondo del quadro, la vile
moltitudine sulla quale si esercita la malizia de' servi e degli
avventurieri. Concetto profondo, se l'Ariosto l'avesse trovato lui
e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione e senza
alcun senso, come se fosse cosa naturalissima questo mondo colto
al rovescio, sì che i servitori ne sappiano più dei
padroni e diventino i loro tutori e salvatori, come Fazio e
Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante. Costui,
che è il protagonista, non è proprio un astrologo,
com'è nel Lasca, e come il prete è prete nel
Boccaccio; ma è un birbone matricolato, che fa l'astrologo
senza crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata
dall'astrologia messa in burla: qui l'astrologia ci sta per
comparsa, nè da essa escono i mezzi d'azione. Se mastro
Iachelino, che è il negromante, fosse un vero astrologo,
che mentre vuol farla a' padroni è burlato da' servitori,
il concetto sarebbe così spiritoso, com'è
nell'astrologo del Lando, di cui si mostra più sapiente un
contadino, anzi l'asina del contadino. Ma qui l'astrologo è
un ignorantaccio, che, come dice il Nibbio suo servo e confidente,
mal sapendo leggere e male scrivere, fa professione di filosofo,
di medico, di alchimista, di astrologo, di mago:
e sa di queste e dell'altre scienzie
che sa l'asino e il bue di sonar gli organi.
Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro
Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo, che sono i
servi, dall'altra. Non mancano bei tratti, che rivelano
nell'autore un ingegno e uno spirito comico non comune. Cinzio
racconta al servo le maraviglie del negromante, e il servo si
beffa del negromante e del padrone, ed è in ultimo colui
che l'accocca a tutti. Cinzio l'assicura gravemente che sa
trasformare uomini e donne in animali. Risponde Temolo:
Si vede far tutto il dì, nè
miracolo
è cotesto . .
Non vedete voi che subito
un divien potestade, commissario,
provveditore, gabelliere, giudice,
notaio, pagator degli stipendii,
che li costumi umani lascia, e prendeli
o di lupo o di volpe o di alcun nibbio?
- Capisco - dice Cinzio. La poca esperienza che hai del
mondo ti fa parlare così. Ma non credi tu dunque che e'
possa scongiurare gli spiriti? - E Temolo risponde:
Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo
nè meno crederei; ma li grandi uomini,
e principi e prelati, che vi credono,
fanno col loro esempio ch'io, vilissimo
fante, vi credo ancora.
Questo tratto è stupendo d'ironia; è il popolano
ignorante che col suo naturale buon senso si prende spasso de'
grandi uomini. Bella situazione drammatica è dove Nibbio,
viste le reti tese a Cinzio, a Massimo e a Camillo, il più
ricco, domanda al negromante:
Delle tre starne che in piè avete,
ditemi,
qual mangerete?
ASTROLOGO
Vedraimi ir beccandole
ad una ad una, ed attaccarmi in ultimo
alla più grassa, e tutta divorarmela.
NIBBIO
Eccoven'una, e la miglior: mettetevi,
se avete fame, a piacer vostro a tavola.
ASTROLOGO
Chi è? Camillo?
NIBBIO
Si.
ASTROLOGO
Si ben; mangiarmelo
voglio, che l'ossa non credo ci restino.
E questo Nibbio, quando vede scoperte le magagne dell'astrologo,
egli, suo servo, confidente e mezzano, gli dà il calcio
dell'asino, e lo ruba e lo pianta lì. Sono bei tratti
perduti in un mondo convenzionale e superficiale, e poco studiato,
e abborracciato nei momenti più interessanti. L'autore vi
mostra un'attitudine più a narrare, ad esporre, a
descrivere, che a drammatizzare. Che uomo sia mastro Iachelino,
è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma quando lo
si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto
al di sotto dell'aspettazione.
Ludovico era di coltura al di sotto de' tanti
dotti di quel tempo, ed anche di alcuni della corte. Il cardinale
Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa, che i suoi
staffieri e camerieri, e volendo trarre un utile dal nostro poeta,
ne fece un "cavallaro", mandandolo qua e là in suo
servigio. Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone
decimo, quando era proscritto con la sua famiglia da Firenze,
vistolo papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne
cavò altro che belle parole. Fu anche in Firenze per
commissione della corte ferrarese, e la profonda impressione
fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta in
quell'occasione:
A veder pien di tante ville i colli
par che 'l terren ve le germogli,
come vermène germogliar suole e
rampolli.
Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,
fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
non ti sarian da pareggiar due Rome.
Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perchè il
cardinale lo abbia tolto a' dolci studi e a' cari amici e spintolo
in quel "rincrescevole laberinto". Da ultimo il cardinale volea
trarselo appresso in Ungheria, e qui il nostro poeta perde le
staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare il
cardinale in versi, sta bene; ma far da comparsa nel suo
corteggio, questo no:
Io stando qui, farò con chiara tromba
il suo nome sonar forse tanto alto,
che tanto mai non si levò colomba.
E lo loda in latino e in volgare, e più sfacciatamente in
latino:
Quis patre invicto gerit Hercule fortius arma?
Mystica quis casto castius Hyppolito?
Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo e non
poeta:
Non vuol che laude sua da me composta
per opra degna di mercè si pona:
di mercè degno è l'ir correndo in
posta...
S'io l'ho con laude ne' miei versi messo,
dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ozio:
più grato fòra essergli stato
appresso.
Ludovico, scrittor di commedie, è lui medesimo un carattere
de' più comici, e se, rappresentando un mondo
convenzionale, è riuscito nelle commedie poco felice,
è stato felicissimo dipingendo se stesso alla buona e al
naturale. Alcune sue qualità te gli affezionano Ama i
fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a
servitù, rodendo il freno. Il suo ideale è la
tranquillità della vita, starsene a casa fantasticando e
facendo versi, vivere e lasciar vivere. Ma il punto è che
sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico, non
aveva ambizioni, non curava grandezze, nè onori; "gli
sapeva meglio una rapa" in casa sua che t"ordo o starna o porco
selvaggio "all'altrui mensa:
E così sotto una vil coltre,
come di seta o d 'oro ben mi corco.
E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che agli sciti
sien state, agl'indi, agli etiopi, e oltre.
Degli uomini son vari gli appetiti;
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.
Chi vuole andare attorno, attorno vada;
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna:
a me piace abitar la mia contrada.
Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel monte che divide e quel che serra
l'Italia, e un mare e l'altro che la bagna.
Questo mi basta: il resto della terra,
senza mai pagar l'oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Ma non è lasciato vivere, e ha tra' piedi il cardinale, e
ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello. Qualche
rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili
accenti:
Apollo, tua merce, tua mercè, santo
collegio delle muse, io non possiedo
tanto per voi, ch'io possa farmi un manto.
... ...
Or, conchiudendo, dico che, se 'l sacro
cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo ed
acro
renderli, e tôr la libertà mia
prima.
... ...
Se avermi dato onde ogni quattro mesi
ho venticinque scudi, nè sì fermi
che molte volte non mi sien contesi,
mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
obbligarmi ch'io sudi e tremi, senza
rispetto alcun ch'io muoia o ch'io m'infermi;
non gli lasciate aver questa credenza:
ditegli che più tosto ch'esser servo,
torrò la povertade in pazienza.
Ma sono scarse faville. Non è così rimesso d'animo o
cupido d'onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua
comodità per fare a gusto del cardinale; e non è
così altero, che rompa la catena una buona volta, e lo
mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il mal umore, con una
sua propria fisonomia nella scala de' Sancio Panza e de' don
Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale
è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell'amico
Leone. Come lo accoglie bene! Ma sono parole, e la sera gli tocca
andare a cena sino all'insegna del Montone:
Piegossi a me dalla beata sede:
la mano e poi le gote ambe mi prese,
e il santo bacio in amendue mi diede.
Indi, col seno e con la falda piena
di speme, ma di pioggia molle e brutto,
la notte andai sin al Montone a cena.
Ora lo prende la stizza, e si sfoga descrivendo la cupidità
ingorda de' cardinali; ora fa il filosofo, come volesse dire: - E
quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e quattro
mitre, ne val poi la pena? -
Sia ver che d'oro m'empia la scarsella
e le maniche e il grembo, e se non basta,
m'empia la gola e il ventre e le budella;
in che util mi risulta essermi stanco
in salir tanti gradi? Meglio fora
starmi in riposo, o affaticarmi manco.
Ora ha aria di scusare il papa. - Poerino! Parenti, cardinali che
gli diedero "il più bel di tutt'i manti," amici che lo
aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!
Se fin che tutti beano, aspetto a trarme
la volontà di bere, o me di sete,
o secco il pozzo d 'acqua veder parme,
meglio è star nella solita quiete.
Questa magnifica situazione è sviluppata
con ricchezza di motivi e di gradazioni, con una perfetta
varietà di caratteri, e con un'ironia tanto più
pungente, quanto appare più ingenua e più bonaria.
Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto governatore, che fa un
ritratto stizzoso de' suoi amministrati, e deplora il tempo
sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di andare in
Ungheria, o che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra
la sua vita e le sue contrarietà, i suoi studi. Ci si vede
tra la stizza quella specie di rassegnazione delle anime fiacche,
che significa: - Ma che ci è a fare? Pazienza! - E anche
una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt'i suoi difetti,
come fossero perle. Anche il Berni è così, e si fa
bello della sua poltroneria; ma carica e buffoneggia, con lo scopo
di far ridere: dove Ludovico si dipinge tutto al naturale a
semplice sfogo del mal umore, e meno cerca l'effetto e più
l'ottiene. Si ride a spese degli altri e anche un po' a sue spese,
e senza ch'egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo
così artificiato, dove per soverchio studio d'imitazione o
per conseguire certi effetti artistici si perdeva di vista la
realtà della vita, Ludovico, che scrivendo commedie o
canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo convenzionale,
qui in presenza di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un
carattere comico de' più interessanti, perchè non
è solo il suo ritratto, ma del borghese e letterato
italiano a quel tempo nel suo aspetto men reo. Ha visto Roma, ha
visto Firenze, è stato in Lombardia, ma il suo mondo non si
è ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le
sue cure domestiche, i suoi umori con la corte, i suoi piccoli
fastidi, i suoi amori, le sue relazioni letterarie, i suoi
interessi privati sono tutta la sua preoccupazione allora appunto
che l'Italia era corsa da' barbari e si dibatteva nella sua
agonia. Il borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo,
ritirato nella famiglia o tra le allegre brigate, è tutto
qui con la sua quiete e il suo "fuge rumores". Ci è in
questo ritratto un po' di Orazio, ma l'imitazione è qui
natura, è somiglianza di anima e di genio. Il riso è
puro di amarezza e di disprezzo, perchè senti che l'uomo di
cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo, ha
tutte le qualità amabili delle anime deboli e buone. Non ci
è il capitolo e non la satira, perchè quell'uomo non
si propone di berteggiare nè di censurare, ma unicamente di
sfogare il suo umore col fratello o l'amico. E perciò la
sua narrazione è mescolata di osservazioni, facezie, motti,
proverbi, movimenti stizzosi d'immaginazione, tratti e pitture
satiriche, e soprattutto di apologhi graziosissimi, piccoli
capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e tragico del
medio evo, il linguaggio della Divina Commedia e de' Trionfi, in
questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio
della commedia, il metro del capitolo, della satira e della
epistola, con una sprezzatura che arieggia alla prosa. La parabola
si compie in queste epistole dell'Ariosto, dove la terzina
è profondamente modificata, e prende forma pedestre,
aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.
La terzina, come il sonetto e la canzone, era
il genere letterario e tradizionale. L'ottava, la cui immagine si
vede già abbozzata ne' rispetti e ne' canti popolari, era
il linguaggio de' romanzi, delle narrazioni e delle descrizioni,
recata a perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio di moda e
popolare. E la terzina sarebbe rimasta, come il sonetto e la
canzone, stazionaria e convenzionale, se il Berni e l'Ariosto non
le avessero data nuova vita, traendola dal cielo, e dandole abito
conforme al tempo. L'ottava rima cantava; la terzina discorreva,
berteggiava, satirizzava, esprimeva la parte prosaica e reale
della vita.
Fra tanti fastidi e piccole miserie della vita
Ludovico scriveva l'Orlando furioso, con molta noia del cardinale
Ippolito, che vedeva sciupato in quelle "corbellerie" il tempo
destinato al suo "servizio". Il Boiardo interruppe il suo Orlando
innamorato proprio allora che calava le Alpi Carlo ottavo per
andar "non so in che loco". Morì qualche anno dopo, quando
Ludovico traduceva Plauto e Terenzio e scriveva commedie,
rappresentate magnificamente nel teatro di corte. La gloria
dell'Omero ferrarese spronò l'Ariosto a tentar qualche cosa
di simile. Cominciò in terza rima una storia epica de'
fasti estensi, ma smise subito, disacconcio il metro alla sua
larga vena. E si risolse senz'altro di continuar la storia di
Orlando, ripigliandola là dove l'avea lasciata il Boiardo.
Se ne consigliò col Bembo, il quale lo esortò a
scrivere il poema in latino. L'Orlando in latino! Il Bembo non
capiva cosa fosse l'Orlando innamorato. Ma lo capiva l'Ariosto,
che di quella lettura facea sua delizia, e deliberò senza
più di usare lo stesso metro e le stesse forme. Così
cansò l'imitazione classica, e ricuperò la
libertà del suo ingegno. Pose mano al lavoro nel 1505, al
suo trentunesimo anno, e vi si seppellì per dieci anni, e
spese tutto il rimanente della vita a emendarlo. Si racconta che
andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a
metà della via. Altri fatti si narrano della sua
distrazione. Che cosa c'era dunque nella sua testa? C'era
l'Orlando furioso. Niuna opera fu concepita nè lavorata con
maggior serietà.
E ciò che la rendeva seria non era alcun
sentimento religioso o morale o patriottico, di cui non era
più alcun vestigio nell'arte, ma il puro sentimento
dell'arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è
ne' suoi fini il desiderio un po' di secondare il gusto del
secolo, e toccare tutte le corde che gli erano gradite, un po' di
tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa d'Este. Ma
sono fini che rimangono accessorii naufragati e dimenticati nella
vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un
sentimento superiore, che è per lui fede, moralità e
tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta
ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finchè
non abbia dato alle sue creazioni l'ultima forma che lo contenti.
Da questa serietà e genialità di lavoro uscì
l'epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola
divinità riverita ancora in Italia, l'Arte.
Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di
opposte civiltà. Posti l'uno e l'altro tra due secoli,
prenunziati da astri minori, furono le sintesi, in cui si
compì e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il medio
evo; in Ludovico finisce il Rinascimento.
Ritratto tutti e due della loro età.
Dante fu più poeta che artista: all'artista nocquero la
scolastica, l'allegoria, l'ascetismo, e la stessa grandezza ed
energia dell'uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale
troppo vivo e appassionato e resistente, perchè l'arte
potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era
involuto in forme così dense e fisse, che il suo sguardo
profondo non potè sempre penetrarvi e attingerlo nel suo
immediato.
Tutto questo mondo è già sciolto
innanzi a Ludovico, nella sua realtà e nelle sue forme.
È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non ha
partecipato. Già nel Petrarca spunta l'artista, che si
foggia il mondo del suo cuore, e se lo compone e atteggia come
pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le
gioie. Già nel Boccaccio l'arte si trastulla a spese di
quella realtà e di quelle forme. Già su quel mondo
è passato il ghigno di Lorenzo, e il riso beffardo del
Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli
altari la nuova divinità annunziata da Orfeo, tra' profumi
eleganti del Poliziano. Ludovico non ha niente da affermare, e
niente da negare. Trova il terreno già sgombro, e senza
opera sua. Non è credente, e non è scettico;
è indifferente. Il mondo in mezzo a cui si forma,
destituito di ogni parte nobile e gentile, senza religione, senza
patria, senza moralità, non ha per lui che un interesse
molto mediocre. Buona pasta d'uomo, con istinti gentili e liberi,
servo non fremente e ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie
nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con
fedeltà, con intelligenza, ma senza entusiasmo e senza
partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era
per lui una distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era
l'arte. Andate a vedere quest'uomo mezzano e borghese come quasi
tutt'i letterati di quel tempo, nella sua bontà e
tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare
la libertà e non sa patire la servitù, e tutto
rimpiccinito e ritirato tra le sue contrarietà e le sue
miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e le sue
collere; andate a vedere quest'uomo quando fantastica e compone.
Il suo sguardo s'illumina, la sua faccia è ispirata, si
sente un iddio. Là, su quella fronte, vive ciò che
è ancora vivo in Italia: l'artista.
Già questo mondo cavalleresco, che
riempie la sua immaginazione, non era stato altro mai in Italia
che un mondo di fantasia e visto da lontano. E quando ogni
idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell'ideale di
bontà e di virtù che altri trovavano nella vita
pastorale: così sorse sulle rovine del medio evo il poema
cavalleresco e l'idillio, i due mondi poetici o ideali del
Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c'era,
ma lontana e confusa per le date, per i luoghi e per i fatti;
sicchè veniva alla coscienza non da tradizioni nazionali,
ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati. Pure una immagine
vicina di quel mondo era nelle corti, dove appariva quel non so
che signorile e gentile e umano che fu detto "cortesia", e dove
spesso si davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle
forme e que' costumi. Ci era dunque nella coscienza italiana un
mondo della cortesia contrapposto al mondo plebeo per la pulitezza
delle forme e la gentilezza de' sentimenti; un mondo le cui leggi
non erano derivate dal Vangelo, nè da alcun codice, ma
dall'essere cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire:
"in fè di gentiluomo". Ci era il codice dell'onore e
dell'amore, che comprendeva gli obblighi del prode e leale
cavaliere. La costanza e fedeltà nell'amore, la devozione
al suo signore, l'osservanza della parola, la difesa de' deboli,
la riparazione delle offese, erano gli articoli principali di quel
codice, il cui complesso costituiva il così detto punto
d'onore. Questo è quel mondo della cortesia che nel
Decamerone apparisce come il mondo poetico in contrapposto con la
rozzezza plebea: e in verità Gerbino e Guglielmo e la
figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini
di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra. Ma nelle
corti italiane, come quelle di Urbino, di Ferrara, di Mantova, era
rimasto di quel mondo appena un barlume, e più
nell'apparenza che nella sostanza, anzi non rado avveniva di
vedere accoppiata con l'eleganza e la galanteria dei costumi la
più sfacciata perfidia, come in Cesare Borgia. Un
sentimento vero e profondo dell'onore non era dunque parte intima
del carattere nazionale, e se allora potevano esserci uomini di
onore, non ci era certo nè un popolo, nè una classe,
dove l'onore fosse regola della vita, anzi quegli uomini colti e
svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con
loro danno o incomodità osservavano quelle leggi: non era
virtù, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso
ironico, la cui punta è appena dissimulata
nell'esclamazione del poeta:
O gran bontà de' cavalieri antichi!
Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco, che
potesse ispirare qualche cosa come il Cid; e scaduto ogni
sentimento religioso, morale e politico, l'onore rimaneva senza
base, e non avea serbate che alcune delle sue qualità
superficiali, e più brillanti che solide, di cui si vede il
codice nel Cortigiano del Castiglione. Perciò la
cavalleria, come la mitologia e come il mondo religioso, non era
fra noi altro che pura leggenda o romanzo, un mondo
d'immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per la
novità, la varietà e la straordinarietà degli
accidenti. Meno il suo significato era serio, e più il suo
contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt'i limiti di
spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si
proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiosità e
appagare l'immaginazione, intessendo sul vecchio fondo
tradizionale cavalleresco le favole più assurde, e
intrigandole fra loro in modo da tener sospesa e curiosa
l'attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre,
interrompendo, intramettendo, ripigliando co' passaggi più
bruschi, e portando l'incoerenza fino nell'esterna orditura del
racconto.
Già cominciava a spuntare una scienza
dell'uomo e della natura. L'invenzione della stampa, la scoperta
di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci, gli
scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli, la Riforma, la
costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna, la Francia,
l'Inghilterra, erano fatti colossali che rinnovavano la faccia del
mondo. Ma le conseguenze non erano ancora ben chiare, e il mondo
moderno, il mondo dell'uomo e della natura, o, per dirlo in una
parola, la scienza, era ancora come un sole inviluppato di vapori,
che non danno via a' suoi raggi. E i vapori erano il mondo
popolare dell'immaginazione, che suppliva alla scienza, riempiendo
la terra di miracoli. Ogni specie di soprannaturale era accumulata
e ammessa, il miracolo de' cristiani, il prodigio de' pagani,
gl'incanti de' maghi e delle fate, le imposture degli astrologi.
L'uomo stesso in mezzo a questa natura fatata e incantata era un
attore degno di quel teatro: essere ancora primitivo, credulo,
ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni,
determinato all'azione da sùbiti movimenti, anzi che da
posata riflessione, e che non si ripiega mai in sè, non si
studia, non si conosce, è tutto superficie, tutto fuori nel
tumulto e nel calore della vita. Perciò è piuttosto
anch'esso una forza naturale che un essere consapevole, una forza
tirata e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti, povera di
"carattere" e di "autonomia".
Nondimeno l'Italia era il paese, dove l'uomo,
come intelligenza, era più adulto, più formato
dall'educazione e dalla coltura, e dove il soprannaturale sotto
tutte le sue forme non era ammesso che come macchina poetica, un
gioco d'immaginazione. Perciò, se in altre parti di Europa
ci era ancora un legame tra il mondo cavalleresco e il mondo
reale, questo legame era spezzato tra noi, e la cavalleria non era
che un mondo di pura immaginazione.
Ludovico era tutt'altro che uomo cavalleresco,
anzi tirava al comico. E quando prese a voler continuare la storia
del Boiardo, era come un pittore che dipinge con la stessa
indifferenza una santa o una ninfa o una fata, pur di dipingerla
bene. Molti chiedono: - Quale fu lo scopo dell'Ariosto? - Non
altro che rappresentare e dipingere quel mondo della cavalleria.
Omero canta l'ira di Achille; Virgilio canta Enea; Dante canta la
redenzione dell'anima; l'Ariosto non canta l'impresa di Agramante
o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e
Bradamante: l'impresa di Agramante è per lui come un punto
fisso intorno al quale si sviluppa il mondo cavalleresco, non lo
scopo, ma il tempo e il luogo nel quale si mostra quel mondo. Egli
canta le donne e i cavalieri, le cortesie e le audaci imprese che
furono "a quel tempo" che Agramante venne in Francia. Le furie di
Orlando e gli amori di Ruggiero sono non episodi, appunto
perchè non ci è un'azione unica e centrale, ma parti
importanti di quell'immensa totalità che dicesi mondo
cavalleresco. L'unità è dunque non questa o quella
azione e non questo o quel personaggio, ma è tutto esso
mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal
tempo. Se l'impresa di Agramante fosse non il semplice materiale
dove si sviluppa il mondo cavalleresco, ma una vera e seria
azione, lo scopo del poema, e se Orlando e Ruggiero fossero
episodi in quest'azione, il romanzo sarebbe così difettoso,
come difettosa sarebbe la Divina Commedia, a volerla giudicare con
lo stesso criterio. Belli questi episodi che invadono l'azione e
la soperchiano! Bella quest'azione che ha i suoi accidenti
più importanti fuori del poema nella storia del Boiardo, e
che ispira un interesse molto mediocre al poeta, il quale se ne
ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo
sparse in un centro, e volentieri e per lungo tempo se ne
dimentica, e finita essa, continua senza di essa! Unità
d'azione ed episodi sono un linguaggio convenzionale venutoci da
Aristotile e da Orazio, e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare
al mondo cavalleresco. Perchè l'essenza di quel mondo
è appunto la libera iniziativa dell'individuo, la mancanza
di serietà, di ordine, e di persistenza in un'azione unica
e principale, sì che le azioni si chiamano avventure, e i
cavalieri si dicono erranti. Staccarsi dal centro, andare vagando,
e cercare avventure, è lo spirito di un mondo che ripugna
così alla unità come alla disciplina. Volere
organizzare questo mondo co' precetti di Orazio e di Aristotile
è un volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine,
e la varietà è unità. Come l'unità del
mondo nella sua infinita varietà è nel suo spirito o
nelle sue leggi, così l'unità di questa vasta
rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo
cavalleresco.
La forza centripeta è assai fiacca in
questo mondo della libertà e dell'iniziativa individuale; e
ci vuole l'angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri
erranti a Parigi, dove si combatte. E non ci si trovano che un par
di volte, e appena una giornata; chè il dì appresso
corrono di nuovo dietro a' fantasmi delle loro passioni, tirati da
amore, da vendetta, da gloria, e vaghi tutti di avventure strane e
maravigliose. La stessa impresa di Agramante non è un fatto
religioso o politico, ma anch'essa una grande avventura, cagionata
dal desiderio della vendetta. Parigi è un punto stabile
dove stanno a offesa e difesa con gli eserciti Carlo e Agramante;
ma i loro paladini e cavalieri, la più parte re e signori,
vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un punto
di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si
riposa, e di cui si vale il poeta per comporre e annodare le fila
in certi grandi intervalli. Perchè al di sopra di
quest'anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno e
armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e
sa stuzzicare la curiosità e non affaticare l'attenzione,
cansare in tanta varietà e spontaneità di movimenti
il cumulo e l'imbroglio, ricondurti innanzi improvviso personaggi
e avvenimenti che credevi da lui dimenticati, e nella maggiore
apparenza del disordine raccogliere le fila, egli solo tranquillo
e sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti.
Parigi è il principal nodo dell'ordito, è come un
faro, che di tanto in tanto brilla e illumina tutto intorno. La
scena si apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane
hanno avuto una gran rotta. E allora appunto, quando il bisogno
è maggiore, Rinaldo, Orlando, Brandimarte vanno via.
Rinaldo corre dietro a Baiardo, Orlando corre dietro ad Angelica,
e Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi trovate già in
pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E mentre
essi corrono, Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi
entra solo e vi sparge il terrore. Parigi è salvato,
perchè una pioggia miracolosa spenge l'incendio, e Rinaldo
guidato dall'angiolo Michele giunge proprio a tempo e disfà
i pagani. Agramante che assediava, è assediato. I cavalieri
pagani sono anche erranti. Ferraù cerca Orlando, a cui ha
giurato di toglier l'elmo; Gradasso cerca Rinaldo, a cui vuol
togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica; Marfisa, Rodomonte,
Ruggiero, Mandricardo contendono e pugnano tra loro. Riesce al
demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice, che li
tira seco a Parigi. Giungono e disfanno i cristiani. Ma il
dì appresso si raccende la discordia e vengono alle mani.
Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte
lasciano per ira il campo; e chi rimane? Rinaldo tra' cristiani,
Ruggiero tra' pagani. Un duello tra Rinaldo e Ruggiero dee porre
fine alla guerra. Ma Agramante rompe i patti, è disfatto,
la sua flotta è dispersa da' nemici e da' venti, e vede di
lungi la sua patria arsa da' cristiani. Il poema cominciato a
Parigi si termina a Parigi, con le nozze di Ruggiero e la morte di
Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto, ma
non ne è l'anima o il motivo interiore. Il motivo è
lo spirito di avventura e la soddisfazione degli appetiti,
l'amore, o il punto d'onore, o il maraviglioso, che tirasi
appresso il cavaliere, quando non sia sviato e impedito da forze
soprannaturali. Il soprannaturale è qui come semplice
macchina o forza, senza personalità; e forze sono e non
persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa.
È un soprannaturale privo di ogni aureola e prestigio, e
tali sono pure le spade e gli scudi incantati, e gli anelli
fatati, e gl'ippogrifi, e la lancia di Argalìa, e il corno
di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano fredda
l'immaginazione del poeta. Si è così avvezzi a
questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un mondo
ordinario; quel fantastico in permanenza uccide se stesso e perde
le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è, non
è in quello, ma negli effetti tragici o comici che sa
cavarne il poeta, come sono gli effetti comici del corno di
Astolfo. Tra questo mondo soprannaturale vive una forza
indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle varie sue
gradazioni, dal mostro e dal gigante e dal pagano sino al
cavaliere cristiano, il cui modello è nel codice di onore,
e che rappresenta la civiltà e il progresso nella comune
barbarie.
I motivi spirituali di questo mondo, l'amore,
l'onore e il maraviglioso o lo spirito di avventura, sono dal
poeta portati a quell'ultimo punto che confina col ridicolo:
l'amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il punto
d'onore degenera in puntiglio e produce i più strani
effetti, la cui immagine tragica è Mandricardo, e il cui
modello comico è Rodomonte nelle sue imprese sul ponte; il
maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell'inferno e nel
paradiso terrestre e nel regno della Luna. Il mondo cavalleresco
ne' suoi motivi interni è spinto all'ultima punta. Se
l'elemento soprannaturale è fiacco, e la stessa Alcina pare
quasi più una personificazione allegorica che una verace
persona poetica, vivacissima è al contrario la pittura
degli avvenimenti determinati da forze naturali e umane, che
abbracciano tutto il circolo della vita nelle sue varie e
contrarie apparenze. Vi si sviluppano profonde combinazioni
estetiche, serie e comiche; come è Angelica che finisce
moglie di un povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione
di Astolfo nella Luna, la discordia nel campo di Agramante,
Agramante in vista di Biserta, e Gradasso fatato, che,
guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana, quando
le ha ottenute e si crede felice, è ammazzato da Orlando.
Reminiscenza di Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del
castello incantato e dalle delizie di Alcina, e riuscito il
più perfetto modello di cavaliere. Intorno a queste grandi
combinazioni si aggruppano fatti minori, che danno il finito e il
contorno a questo mondo nelle sue più lievi sfumature, come
è la morte di Zerbino e il lamento d'Isabella, Olimpia
abbandonata, la morte e le esequie di Brandimarte, le avventure di
Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di Martano, di
Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto abbia
un aspetto fuori dell'ordinario e si discosti tanto da' costumi e
dal sentire del suo tempo, pure Ludovico ci sta così a suo
agio e ne ha sì vivamente impressa l'immaginazione, che te
lo dà alla luce con tutt'i caratteri di una vita presente e
reale. E qui è il maraviglioso del genio ariostesco,
rappresentare un mondo così straordinario con
semplicità e naturalezza. Le condizioni di esistenza sono
veramente fantastiche sino all'assurdo; ma una volta ammesse
quelle basi, il movimento storico diviene profondamente umano e
naturale. Si vegga con che fine gradazioni psicologiche è
condotto Orlando sino a perdere il senno, con che scala
intelligente è rappresentato il dolore di Olimpia, o la
discordia de' pagani nel campo di Agramante. Perciò tutti
quei personaggi ti stanno innanzi vivi, e non puoi dimenticarli
più. Alcuni anzi son divenuti caratteri comici proverbiali,
come Rodomonte, Gradasso, Sacripante, Marfisa. Il poeta non
s'intromette niente nella sua storia, e più che attore,
è spettatore che gode alla vista di quel mondo, quasi non
fosse il mondo suo, il parto della sua immaginazione. Indi quella
perfetta obbiettività e perspicuità del mondo
ariostesco, che è stata detta chiarezza omerica. L'arte
italiana in questa semplicità e chiarezza ariostesca tocca
la sua perfezione, ed è per queste due qualità che
l'Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico
"artisti" e non "poeti". Non dà valore alle cose, slegate
dalla realtà e puro gioco d'immaginazione; ma dà un
immenso valore alla loro formazione, e intorno vi si travaglia con
la maggiore serietà. Non ci è così piccolo
particolare, che non tiri la sua attenzione, e non abbia le sue
ultime finitezze. Appunto perchè l'interesse è non
nella cosa, ma nella sua forma, la maniera sobria e comprensiva di
Dante è abbandonata, e non hai schizzi, hai quadri finiti.
Ciò che nel Decamerone ti dà il periodo, qui te lo
dà l'ottava, di una ossatura perfetta, e congegnata a modo
di un quadro col suo protagonista, i suoi accessorii e il suo
sfondo. Il Poliziano ti dà una serie, di cui lascia il
legame all'immaginazione: l'Ariosto ti dà un vero periodo,
così distribuito e proporzionato che pare una persona. E
l'effetto è non solo in quella ossatura materiale
così solida e bene ordinata, ma in quell'onda musicale, in
quella superficie scorrevole e facile, che ti fa giungere
all'anima insieme coi fatti i loro motivi e i loro affetti. Nel
secolo de' grandi pittori, quando l'immaginazione italiana mirava
a dare all'immagine tutta la sua finitezza, l'Ariosto è
pittore compìto, che non ti lascia l'oggetto finchè
non ne abbia fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di
luce o di armonia straordinari, o lusso di colori e di accessorii:
non ci è ombra di affettazione, o di pretensione; ci
è l'oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente. Il
poeta fissa l'esteriorità nel punto che è viva,
quando cioè è atteggiata così o così
per movimenti interni o esteriori, e non osserva, non riflette,
non la scruta, non l'interroga, non cerca al di dentro, non la
palpa, non la maneggia per volerla abbellire. Nessun movimento
subbiettivo viene a turbare l'obbiettività del suo quadro;
nessun movimento intenzionale. Non ci è il poeta, ci
è la cosa che vive, e si move, e non vedi chi la move, e
pare si mova da sè! Questa sublime semplicità nella
piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei
chiamava a ragione la "divinità" dell'Ariosto. E non
è solo nel minuto, ma nelle grandi masse. La sua vista
rimane tranquilla e chiara ne' più bruschi e complicati
movimenti d'insieme. Indi è che dipinge duelli, battaglie,
giostre, feste, spettacoli, paesaggi, castella, con quella purezza
e semplicità di disegno che dipinge le cose minime. Nelle
ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di
scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata,
lisciata e si vede l'intenzione dell'eleganza. Qui la superficie
è così naturalmente piana, che ti par nata a quel
modo e che non possa essere altrimenti. Pigliamo ad esempio la
rosa:
Questa di verdi gemme s'incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l'altra, che in dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
Qui la rosa m'ha aria di una fanciulla civettuola, che prende
questa o quell'attitudine per parer vezzosa. L'"incappellarsi", lo
"sportello", quell'"ardere in dolce foco", sono immagini
appiccatele da immaginazione umana. È la rosa non nella sua
naturalezza immediata, ma come pare all'uomo. Ci si vede il lavoro
dello spirito, che l'orna e la vezzeggia, la rosa passata
attraverso lo spirito e uscitane trasformata. Vedi ora
nell'Ariosto, la rosa,
che in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
nè gregge nè pastor se le
avvicina;
l'aura soave e l'alba rugiadosa,
l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:
gioveni vaghi e donne innamorate
amano averne e seni e tempie ornate.
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
Questa è la storia o il romanzo della
rosa. Il poeta ha aria non di descrivere, ma di raccontare, e ti
pone innanzi la cosa nella sua verità naturale, sì
che niente paia oltrepassato, esagerato, o trasformato. L'"alba
rugiadosa", il "ceppo verde", la "nativa spina", i "gioveni
vaghi", le "donne innamorate", i "seni e le tempie", il "gregge e
il pastore" sono tutte immagini naturali, distinte, plastiche,
obbiettive, prodotte da una immaginazione impersonale, assorbita
dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell'ottava, con tanta
semplicità che l'ultimo verso par ti caschi per terra, come
vil prosa, a quel modo che è cascata la rosa da quella sua
altezza verginale. Gli è che qui eleganza, armonia,
colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito, ma sono
la forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro veste,
ma la loro chiarezza. Come le cose minime, così le grandi
masse sono disegnate con la stessa perspicuità e purezza.
Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi non trovi mai
ripetizioni o reminiscenze, perchè ciascuna cosa è
come un individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro,
piccolo o grande che sia, prende la sua movenza e il suo colore
dalla cosa rappresentata, e però ciascun quadro è in
sè distinto e compìto, condotto e disegnato negli
ultimi particolari. Lo spirito ne' suoi preconcetti è
limitato, e produce la "maniera", che ti pone innanzi non la cosa
vista, ma il modo di guardarla, la visione: e perciò
facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi, ne' quali prevale
la maniera, come il Petrarca, il Tasso, il Marino, e simili. Al
contrario inimitabile è l'Ariosto che non ha maniera,
perchè è tutto obbliato e calato nelle cose, e non
ha un guardare suo proprio e personale. Anzi egli ha una perfetta
bonomia, un'aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le
cose gli si presentano, senza mettervi niente di suo. Ha un
ingegno poroso, che riceve e rende le cose nella evidenza e
distinzione della loro personalità, senza che esse trovino
ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno è
trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma secondo
la varia natura delle cose. Con la stessa facilità e
sicurezza vien fuori l'eroico, il tragico, il comico, l'idillico,
il licenzioso, come qualità naturali delle cose, anzi che
del suo spirito. Di che viene l'evidenza miracolosa di questo
mondo nella sua infinita varietà e libertà, e la sua
serietà artistica nel suo insieme e nelle minime parti.
L'evidenza è in quel coglier gli oggetti vivi, cioè
in azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali,
anch'essi in azione, cioè come movimenti, attitudini o
motivi, accessorii che Dante fa indovinare, e che qui si
sviluppano nelle larghe pieghe dell'ottava. E perchè gli
oggetti sono còlti in azione o in movimento, le descrizioni
sono rare e sobrie, e appena accennati i caratteri e i paesaggi,
che sono l'uomo e la natura nel loro stato d'immobilità, e
abbozzate le intramesse e le commettiture e le circostanze
facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati brevemente,
e l'azione colta nel momento più interessante e condotta
innanzi con le vele gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade
d'impaludare o di deviare: come in questo mondo par che non
esistano limiti di spazio o di tempo, così nello stile non
trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e corrente. Tutto
è succo e pieno di senso. Niente ci sta in modo assoluto:
tutto è relativo e intenzionale, e concorre all'effetto,
ora serio ora comico. L'effetto è quale te lo può
dare un mondo di sola immaginazione, al quale il poeta non prende
altra partecipazione che artistica, che non ha alcuna relazione
con le sue passioni e i suoi sentimenti. L'effetto è una
viva curiosità sempre nutrita e accompagnata spesso da una
tranquilla soddisfazione, come chi sa di sognare, e gli piace, e
tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella contemplazione. Il
sogno gli piace, pure non dice nulla al suo cuore e alla sua
mente: è un dolce ozio dell'immaginazione. È un
flutto d'immagini così vive e limpide, così naturali
e così espressive, che ti tengono a sè e non ti
concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde
sonore, tra colori e tra mormorii, che dilettano la vista e
suonano deliziosamente nell'orecchio. Quel mondo è il tuo
rêve, o per dirla con linguaggio tolto a quel mondo,
è il tuo castello incantato, il tuo sogno dorato.
L'impressione non è così profonda che oltrepassi
l'immaginazione e colpisca il tuo essere in ciò che di
più serio ha il pensiero o il sentimento. La più
gagliarda impressione ti suscita appena una emozione, nuvoletta
nel suo formarsi già sciolta in quel limpido cielo. Di
queste nuvolette leggiere, appena disegnate, è sparso il
racconto, e sono movimenti subitanei che provocano una risata o
una lacrima, immediatamente repressi e trasformati. Eccone qualche
esempio:
- Nè men ti raccomando ancora la mia
Fiordi... -
ma dir non puote "ligi", e qui finìo...
Stese la mano in quella chioma d'oro,
e strascinollo a se' con violenza;
ma come gli occhi in quel bel volto mise,
gli ne venne pietade e non l'uccise.
Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni,
quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia subito
nel tuo cuore qualche cosa che si move, e che non puoi chiamare
ancora "sentimento", quando una nuova immagine ti avverte del
gioco e ricaschi nella tranquillità della tua visione. Una
delle creature più simpatiche dell'Ariosto è
Zerbino, e quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo, ci
è nel nostro cuore un piccol movimento, che risponde ai
palpiti della sua Isabella; ma il poeta con una galanteria piena
di grazia paragona la lunga e non profonda ferita al nastro
purpureo, che partisce la tela d'argento ricamata dalla sua bella,
e spenge in sul nascere quel movimento. La morte di Zerbino
è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo
straziante è rintuzzato da immagini graziosissime. Isabella
è china sul morente: il poeta la guarda, e la trova
pallidetta come rosa:
rosa non còlta in sua stagion, sì
ch'ella
impallidisca in su la siepe ombrosa.
Zerbino, morendo, nella sua disperazione manda un ultimo sguardo
pieno di passione all'amata:
per queste bocca e per questi occhi giuro,
per queste chiome onde allacciato fui...
Talora è una sola circostanza ben collocata, che dal
sentimentale ti gitta nell'immagine:
e straccia a torto l'auree crespe chiome.
A quest'ufficio adempiono specialmente i paragoni, che nel
più vivo dell'emozione te ne distraggono e ti presentano un
altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella
alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola
fuggente, che abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all'empia fera in bocca.
L'"impasto leone", l'"uscito di tenebre serpente", l'"orsa
assalita nella petrosa tana", il "vase a bocca stretta e a lungo
collo, onde l'acqua esce a goccia a goccia", e simili spettacoli,
non nuovi e non originali, come presso Dante, ma di apparenze e
movenze vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni che
riconducono la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della
passione. Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di
Bradamante, che è una vera canzone elegiaca, sparsa di
amabili paragoni. Quell'occhio vagante, che cerca se stesso nella
natura, ha già rasciutte le lacrime. Onde nasce quel tono
generale del sentimento più vicino all'elegiaco e
all'idillico che all'eroico e al tragico; ciò che è
conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del poeta,
ma alla stessa tendenza dell'arte, dal Petrarca in qua. Anche la
natura rimane tutta al di fuori e non ti cerca l'anima,
com'è il giardino di Alcina e il paradiso terrestre. Ci
è l'immagine, non ci è il sentimento:
Zaffir, rubini, oro, topazi e perle
e diamanti e crisoliti e iacinti
potriano i fiori assimigliar che per le
liete piagge v'avea l'aura dipinti...
Cantan fra i rami gli augelletti vaghi
azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli,
murmuranti ruscelli e cheti laghi
di limpidezza vincono i cristalli.
Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni?
Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e
non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro
che è tutto di una gemma
più che carbonchio lucida e vermiglia.
O stupenda opra! O dedalo architetto!
Non hai dunque il sentimento della natura, come non hai il
sentimento della patria, della famiglia, dell'umanità, e
neppure dell'amore, dell'onore. In luogo del sentimento hai la
sentenza morale, che è la sua astrazione, il sentimento
naturalizzato e cristallizzato in bei versi, come:
il miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.
Ecco magnifiche sentenze intorno all'amore:
Quel che l'uom vede, Amor gli fa invisibile,
e l'invisibil fa vedere Amore.
Che non può far di un cor che abbia
suggetto
questo crudele e traditore Amore?...
Che lietamente in sul principio applaude,
e tesse di nascosto inganno e fraude.
... ... Amor che sempre
d'ogni promessa sua fu disleale,
e sempre guarda come involva e stempre
ogni nostro disegno razionale...
Io dico e dissi e dirò finch'io viva
che chi si trova in degno laccio preso
pur che altamente abbia locato il core
pianger non dee, se ben languisce e muore.
Chi mette il piè sull'amorosa pania,
cerchi ritrarlo e non v'inveschi l'ale:
chè non è in somma amor se non
insania,
a giudizio de' savi universale.
Oh gran contrasto in giovenil pensiero
desir di lauda ed impeto d'amore!
Né, chi più vaglia, ancor si
trova il vero,
chè resta or questo, or guel superiore.
Amor sempre rio non si ritrova:
se spesso nuoce, anche talvolta giova.
La lunga absenzia, il veder vari luoghi,
praticare altre femmine di fuore,
par che sovente disacerbi e sfogli
dell'amorose passïoni il core.
Amor dee far gentile un cor villano,
e non far d'un gentil contrario effetto.
Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali, ma
luoghi comuni assai bene versificati, che non lasciano alcun
vestigio di sè. Il sentimento, ora condensato in una
sentenza, ora tradotto in una immagine, appena nato, si dissolve.
Non mancano tratti sentimentali, come è la risposta di
Dardinello a Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte, o i lamenti di
Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali ed
elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico, e
naufragati sotto a quei flutti d'immagini. Sono voci d'angoscia e
di passione, che prima di giungere a noi già si confondono
col rumore delle onde e diventano visibili: sono immagini Un
ultimo esempio ce lo dà Orlando, che piangendo e chiamando
Angelica la paragona ad un'agnella smarrita, e ci fa intorno de'
ricami.
In una società così poco
sentimentale, così superficiale e mobile, e così
ricca d'immaginazione, come povera di coscienza, si può
concepire quale viva ammirazione dovessero destare questi quadri
plastici. La nuova letteratura iniziata in quei giri musicali del
Decamerone si contemplava e si ammirava in queste flessuose
ottave, dove la vita nella sua rapida vicenda è così
palpabile e così limpida "Procul este, profani." Nessuna
ombra del reale, nessuno spettro del presente, nessuna voce
profonda del cuore o della mente venga a turbare questa danza
serena. Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a' miracoli
dell'immaginazione. Il poeta volge le spalle all'Italia, al
secolo, al reale e al presente, e naviga come Dante in un altro
mondo, e quando dalla lunga via ritorna, si circonda, come d'una
corona, di poeti e di artisti, vera immagine di quella Italia,
madre della coltura e dell'arte, a cui egli presentava l'Orlando.
Ma Dante si traeva appresso nell'altro mondo tutta la terra: la
patria lo inseguiva anche colà co' suoi fantasmi. Ludovico
naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un pittore
che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa
tremare la mano, ciò che gli fa battere il cuore, è
questo solo pensiero: "Quello che mi sta nella testa, quello che
io vedo così bene qua dentro, uscirà così
sulla tela?". E tocca e ritocca, sino alla morte, scontento,
inquieto: perchè non è tranquillo, chi ha qualche
cosa a realizzare, sulla terra. Ciò che Ludovico ha a
realizzare non è questo o quel contenuto nella sua
realtà e serietà. Il mondo cavalleresco è per
lui fuori della storia, libera creatura della sua immaginazione.
Ciò che ha a realizzare in quello è la forma, la
pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella
società, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le
qualità da ciò. Ha sensibilità più che
sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni; ha
vista chiara più che profonda; ha l'anima tranquilla,
sgombra di ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella
produzione, e tutta versata al di fuori nei suoi fantasmi.
È lo spirito non ancora consapevole, che vive al di fuori e
si espande nel mondo e s'immedesima con quello e lo riflette puro
con brio giovanile. Così è venuto fuori quasi di un
getto, quasi per generazione spontanea, questo mondo cavalleresco,
sorriso dalle Grazie, di una freschezza eterna, tolto alle ombre e
a' vapori e a' misteri del medio evo, e illuminato sotto il cielo
italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito dalla
fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo
omerico. Il Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova
letteratura avea trovato il suo mondo.
E che cosa volea questa nuova letteratura? Non
volea già questo o quel contenuto. Era scettica e cinica, e
credeva solo all'arte. E l'Ariosto le dava questo mondo dell'arte
in un contenuto di pura immaginazione.
Ma non ci accostiamo molto a questa bella
esteriorità. Se ci mettiamo sopra la mano, la ci fugge come
ombra, e se guardiamo al di sotto, pare non ci sia nulla. Quando
leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci della
natura, che trovano un'eco nelle tue fibre, e sembrano le tue
voci, le voci della tua anima. Gli è che ivi la forma
è esso medesimo il contenuto, e il contenuto sei tu,
è vita della tua vita, è sangue del tuo sangue. Qui
il contenuto è un giuoco della immaginazione, e non ti ci
profondi e non ti ci appassioni, appunto perchè hai il
sentimento che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la
lacrima, quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.
Pare, ma non è vero, che al di sotto di
questa bella esteriorità non ci è nulla. Al di sotto
ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.
L'elemento dell'arte negativo e dissolvente
avea già percorso tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino
alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il
Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura,
hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato
comico. L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la
cavalleria, come fece il Cervantes, e nel suo mondo s'incontrano
episodi comici, e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la
Gabrina, con la stessa indifferenza che s'incontrano episodi
tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale,
non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i
lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo Orlando. Il
suo riso è più serio e più profondo.
È il riso dello spirito moderno, diffuso
sul soprannaturale di ogni qualità; è, se non ancora
la scienza, il buon senso, generato da un sentimento già
sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore
della scienza.
Ludovico è innanzi tutto un artista. A
questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora,
ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più
serio a lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un
amore, un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione
se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza, fa e
disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza, come
materia di cui conosce tutti gli elementi, e che atteggia e
configura a suo genio. La materia, in Dante così resistente
e scabra, qui perde i suoi angoli e le sue punte, e come cera,
riceve tutte le impressioni. L'immaginazione le si accosta sgombra
di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si
obblia, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore
è scomparso nella creatura. L'obbiettività è
perfetta. Ma guarda bene, e vedrai sulla faccia di quella creatura
la fisonomia poco riverente di colui che l'ha creata, e che in
certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la
mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura,
e a ogni modo ci mette una grazia, che gli daresti un bacio. La
burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della
rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà in un
istante le creazioni più interessanti, e ti avviene
così spesso, che non ti abbandoni più e prendi
guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell'ambiente equivoco nel
quale si aggira quel mondo. Quando l'autore sembra interamente
scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che
un bel momento metterà fuori il capo e ti farà una
smorfia. Di sotto a quella obbiettività omerica si sviluppa
di un tratto sotto forma d'ironia l'elemento subbiettivo e
negativo.
Cosa è dunque questo mondo? È la
sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze. È il
medio evo, il mondo chiamato "barbaro", il passato, rifatto
dall'immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lì
dentro quel sentimento dell'arte, quel culto della forma e della
bellezza, quella obbiettività di una immaginazione giovane,
ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza la nuova
letteratura, che genera i miracoli della pittura e
dell'architettura, e che lì giunge alla sua perfezione,
congiunta con lo splendore e con l'armonia la massima
semplicità e naturalezza di disegno. E c'è insieme
quell'intimo senso dell'uomo e della natura, o del reale, che ti
atteggia il labbro ad un ghigno involontario, quando ti vedi
sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell'uomo,
generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole; tu le
configuri; tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi,
perchè sai che quel mondo sei tu che lo componi, e non ci
vedi altra serietà se non quella che gli dà la tua
immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo. Come fanciullo,
senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati
e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere
l'uomo, che ti fa un ghigno, e quel ghigno vuol dire: - Sono
soldati e castelli di carta. - La cultura è nel suo fiore,
l'immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione,
ed opera i più grandi miracoli dell'arte; ma lo spirito
è già adulto, materialista e realista, incredulo,
ironico, e si trastulla a spese della sua immaginazione. Questo
momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come
realtà, ma come arte, e, appunto perchè semplice
gioco d'immaginazione o arte pura, lo perseguita della sua ironia,
è la vita interiore del mondo ariostesco, è il suo
organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto
del Berni, ed avrai accentuati gli estremi, tra' quali erra questa
unità superiore, dove sono fusi e contemperati ciò
che è troppo ideale nell'uno e ciò che è
troppo grossolano nell'altro. La quale fusione è fatta con
gradazioni così intelligenti e con passaggi così
naturali, e il lettore fin dal principio vi è così
ben preparato, che non hai dissonanze o stonature, e niente ti
urta, perchè il poeta opera senza coscienza o intenzione, e
concepisce a quel modo naturalmente, ed è lui medesimo
l'unità che comunica al suo mondo.
Vedi come concepisce. Il protagonista non
è il savio Orlando, ma Orlando matto e furioso. Questo tipo
della cavalleria così trasformato è già una
concezione ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa
concezione. Il momento della pazzia è rappresentato con
tale realtà di colorito, che la tua illusione è
perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana
nelle sue più fine gradazioni. È un "crescendo" di
particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un fatto
così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta te
lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede
la più schietta allegrezza comica, la caricatura spinta
sino alla buffoneria. Anche il modo come Orlando riacquista il
senno ha un profondo senso comico. Secondo le tradizioni del medio
evo, l'uomo non può trovare la pace che nell'altro mondo.
È la base della Divina Commedia. Il poeta materializza
questo concetto e lo rende comico, cavandone la bizzarra
concezione che ciò che si perde in terra, si ritrova
nell'altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull'ippogrifo
nell'altro mondo, che è una vera parodia del viaggio
dantesco. Il fumo e il puzzo gl'impedisce di entrare nell'inferno;
ma all'ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per
la soverchia crudeltà verso gli amanti. È il
concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio, e divenuto
comico. Poi sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di
gemme trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli danno
alloggio in una stanza e provvedono di buona biada il suo cavallo,
e a lui danno frutti di tal sapore,
che a suo giudicio sanza
scusa non sono i due primi parenti
se per quei fur sì poco ubbidienti.
Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo e "tutt'i comodi".
È il paradiso terrestre materializzato. Di là,
"uscito del letto", con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la
parodia prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In
un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil tempo che si perde a giuoco,
e l'ozio lungo d'uomini ignoranti;
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti
mai,
là su salendo ritrovar potrai.
Per comprendere questa ironia, bisogna
ricordare che la Luna era come un castello di Spagna o un castello
in aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno che vive
nelle astrattezze si dice che "sta nel regno della luna".
Là si trova in varie ampolle un liquore sottile e molle,
che è il senno che si perde in terra.
Di sofisti e di astrologhi raccolto
e di poeti ancor ve n'era molto.
Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi
e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior senno, egli vede
vacuità e astrazione. La fine è di una schietta
allegria:
e vi son tutte l'occorrenze nostre;
sol la pazzia non v'è poca, nè
assai,
chè sta qua giù, nè se ne
parte mai.
L'ironia colpisce anche Angelica, la figliuola del maggior re del
Levante, l'amata di Orlando, di Rinaldo, di Sacripante, di
Ferraù, che finisce moglie di un "povero fante". La scena
comincia nel Boiardo con le più eroiche apparenze della
cavalleria, giostre, tornei, duelli, con Carlomagno circondato de'
suoi paladini, tra il fiore de' cavalieri di Francia, di Spagna,
di Lamagna, d'Inghilterra, tra cui pompeggia la figura di
Angelica, la reina del racconto; e va a finire in un idillio,
negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel Boiardo ha
proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di
Albracca, passando nel cervello di Ludovico, si trasforma in una
concezione ironica.
Anche nella guerra tra Carlo e Agramante,
unità esteriore e meccanica del poema, la cavalleria
è guardata da un aspetto comico. Il lato eroico della
cavalleria è l'individualità, quella forza
d'iniziativa che fa di ogni cavaliere l'uomo libero, che trova il
suo limite in se stesso, cioè a dire nelle leggi dell'amore
e dell'onore, a cui ubbidisce volontariamente. Togli il limite, e
l'iniziativa individuale diviene confusione e anarchia, l'eroico
divien comico. Il cavaliere non ubbidisce più che a' suoi
istinti e passioni; si sviluppa in lui la parte bestiale, nascono
collisioni e attriti del più alto effetto comico. Il
concetto è già adombrato con brio nel ritratto della
Discordia, capitata da san Michele in un convento di frati, "tra
santi ufficii e messe":
avea dietro e dinanzi e d'ambi i lati
notai, procuratori ed avvocati.
Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio, la Frode,
la Discordia, è ammiratissima per originalità di
concezione e fusione di colori:
Dovunque drizza Michelangel le ale,
fuggon le nubi e torna il ciel sereno,
gli gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiam di notte lampeggiar baleno.
Versi stupendamente epici, che vanno digradando fin nel satirico
con naturali mutamenti di tono. Ed è un satirico ancora
più efficace, perchè non ci è apparenza
d'intenzione satirica, anzi ci si rivela una bonomia, un'aria
senza malizia, dov'è la finezza dell'ironia ariostesca. La
Discordia fa il suo mestiere, e ne viene la famosa scena nel campo
di Agramante rimasta proverbiale dov'è il vero scioglimento
dell'azione, il motivo interno della dissoluzione e della
sconfitta dell'esercito pagano. I movimenti comici in questa scena
sono più nelle cose che nelle frasi, fondati su quel
subitaneo e impreveduto delle impressioni e degl'istinti che
toglie luogo alla riflessione e spinge i cavalieri gli uni contro
gli altri. Rodomonte è il più spiccato carattere di
questo genere, ed è rimasto proverbiale, mistura di forza e
di coraggio e di bestialità. Le sue imprecazioni contro le
donne, la sua credulità e sciocchezza nel fatto d'Isabella,
la sua comica lotta col pazzo Orlando, la sua scurrilità e
grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi, che
mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico,
materia gigantesca vuota di senno, grossolana e bestiale. Il
contrapposto è Ruggiero, "di virtù fonte", nel quale
il poeta ha voluto rappresentare la parte seria ed eroica del
cavaliere, leale, gentile, magnanimo. Nella sua concezione ci
entra un po' l'Achille omerico, un po' Damone e Pizia, Quinzio e
Flaminio, collisioni tra l'onore e l'amore, tra l'amore e
l'amicizia, da cui escono molti effetti drammatici. Ma chi ha
studiato un po' Ludovico, come si dipinge egli medesimo, vede che
l'uomo è al di sotto del poeta nè in lui ci è
la stoffa, da cui escono le grandi figure eroiche, ne ci è
nel suo tempo. Manca al suo eroe prediletto semplicità e
naturalezza: l'eroico va digradando nel fantastico e
nell'idillico. Perciò il suo Ruggiero non ha potuto
togliere il posto a Orlando e Rinaldo, gli eroi dell'antica
cavalleria, e malgrado le sue simpatie pel fondatore di casa
d'Este, l'interesse è assai più per Orlando e
Rodomonte, creazioni geniali e originali.
L'ironia è non solo nella concezione
fondamentale del poema, ma negli accessorii cavallereschi. L'amore
di Orlando verso Angelica è stato perfettamente
cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua mano,
non le ha tolto l'onore, "almeno" secondo che Angelica ne assicura
Sacripante, il quale dal canto suo non vuole essere "così
sciocco". Doralice piange la morte di Mandricardo; ma, se non
fosse vergogna, andrebbe "forse" a stringer la mano a Ruggiero:
Io dico "forse", non ch'io ve l'accerti,
ma potrebbe esser stato di leggiero...
Per lei buono era vivo Mandricardo;
ma che ne volea far dopo la morte?
Un riso scettico aleggia sulle virtù cavalleresche e sui
grandi colpi de' cavalieri, quei gran colpi "ch'essi soli sanno
fare". Una frase, un motto scopre l'ironia sotto le più
serie apparenze. È un riso talora a fior di labbra, appena
percettibile nella serietà della fisonomia.
Questo risolino che quasi involontariamente
erra tra le labbra e non si propaga sulla faccia, e non degenera
che assai di rado in aperta e sonora risata, questa magnifica
esposizione artistica che ti dà tutta l'apparenza e
l'illusione della realtà nelle cose più strane e
assurde, tutto questo, fuso insieme senz'aria d'intenzione e di
malizia e con perfetta bonarietà, ti mostra la concezione
come un corpo in movimento e cangiante, che non puoi fissare e
definire, più simile a fantasma che a corpo. Non sai se
è cosa seria o da burla; pur ti piace, perchè,
mentre la tua immaginazione è soddisfatta, il tuo buon
senso non è offeso, e contempli le vaghe fantasie
egregiamente dipinte di secoli infantili col risolino intelligente
di un secolo adulto.
Questo mondo, dove non è alcuna
serietà di vita interiore, non religione, non patria, non
famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore,
questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che
ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in
fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la
serietà di un'alta ispirazione artistica. Il poeta
considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello
scopo e ne' mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle
combinazioni e a' trastulli della sua immaginazione. Ci è
in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio
artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di
Virgilio o di Dante, e ci è insieme la coscienza che
è un lavoro semplicemente artistico, e perciò dal
punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il cardinale
Ippolito, una "corbelleria". E sarebbe stato una corbelleria, se
l'autore avesse voluto dargli più serietà che non
portava, e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la corbelleria
diviene una concezione profonda di verità, perchè il
poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l'aria di
beffarsi lui de' suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo,
e tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento,
considerandolo non altrimenti che un arsenale d'immaginazione,
è ciò che dicesi "capriccio" e "umore". Se non che
il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione, e si
obblia in quel suo mondo, e gli dà l'ultima finitezza. Di
che nasce che l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu
ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e
virtù, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto
è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie
maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di
esposizione, che all'ultimo dispare come un fantasma, cacciato via
da una frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua
ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo
fanciullesco dell'immaginazione, dove si rivela un così
alto sentimento dell'arte e insieme la coscienza di un mondo
adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo
moderno. E perchè questo è fatto senza espressa
intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e
concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in
antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l'uno
nell'altro, sono la rappresentazione artistica dell'un mondo con
sópravi l'impronta dell'altro. In questa fusione più
sentita che pensata, e che fa dell'autore e della sua creazione un
solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la
verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per
la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro più
finito dell'immaginazione italiana, e per il profondo significato
della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito
umano.
XIV
LA MACCARONEA
Mentre Ludovico componeva il suo Orlando a Ferrara, Girolamo
Folengo vi facea i primi studi sotto la guida di un tal Cocaio.
Era di Cipada, villaggio mantovano, di famiglia nobile e agiata.
Strinse conoscenza con Ludovico. Comparivano allora in istampa la
Spagna, il Buovo, la Trebisonda, l'Ancroia, il Morgante, il
Mambriano del Cieco di Ferrara, l'Orlando innamorato. Avea il capo
pieno di romanzi più che di grammatica, e pensò
rifare l'Orlando innamorato, ma saputo del Berni, smise per
allora. Andato in istudio a Bologna, fu discepolo del Pomponazzi,
che dava bando al soprasensibile e al sopranaturale, e predicava
il più aperto naturalismo. Gli studenti erano ordinati a
modo di casta, con le loro leggi e privilegi, capi i più
arrischiati e baldanzosi, tra' quali era un giovane mantovano,
chiamato con lo stesso nome di Francesco Gonzaga, marchese di
Mantova, che lo tenne a battesimo. Vive erano tra loro le
reminiscenze cavalleresche, rinfrescate dalla lettura; e duelli,
sfide, avventure, imprese amorose erano una parte della loro vita,
più interessante che le lezioni accademiche. Fra tanti capi
ameni ci era Girolamo, che per le sue eccentricità si fe'
mandar via da Bologna, e non fu voluto ricevere in casa il padre,
sicchè finì frate in Brescia, ribattezzatosi
Teofilo. Ma ne fuggì con una donna, e ricomparso nel
secolo, per campare la vita si die' a scriver romanzi, sotto il
nome di quel tal Cocaio, postogli a' fianchi, Cassandra
inascoltata, dal padre, e di Merlino, il celebre mago de' romanzi
di cavalleria. Ebbe fama, ma quattrini pochi, e Merlino il
"pitocco", come si chiama nel suo Orlandino, stanco della vita
errante, si rifece frate, scrisse poesie sacre, e morì
pentito e confesso e da buon cristiano, come il Boccaccio.
Merlino, o piuttosto Teofilo, o piuttosto
Girolamo, era, come vedete, uno di quegli uomini che si chiamano
"scapestrati", e fin dal principio perdono l'orizzonte, e fanno
una vita "sbagliata". Messosi fuori di ogni regola e convenienza
sociale, in una vita equivoca, non laico e non frate, tra miseria
e dispregio, si abbrutì, divenne cinico, sfrontato e
volgare. Trattò la società come nemica, e le
sputò sul viso, prorompendo in una risata pregna di bile.
Ridere a spese delle forme religiose e cavalleresche era moda;
egli ci mise intenzione e passione. Ciò che negli altri era
colorito, in lui fu l'obbiettivo, lo scopo. E a questa intenzione
furono armi una fantasia originale, una immaginazione ricca e una
vena comica tra il buffonesco e il satirico. La sua prima
concezione, come ci assicura quel tal Cocaio, fu l'Orlandino o le
geste del piccolo Orlando, poema in ottava rima e in otto
capitoli. Lo chiama la prima deca "autentica" di Turpino, stimando
apocrife tutte le storie in voga, eccetto quelle del Boiardo, del
Pulci, dell'Ariosto e del Cieco da Ferrara:
Apocrife son tutte e le riprovo,
come nemiche d'ogni veritate;
Boiardo, l'Ariosto, Pulci, e il Cieco
autenticati sono ed io con seco.
Ma Orlando nasce al settimo capitolo, e quando comincia appena a
vivere, finisce il poema. Forse il poco successo gli tolse la
voglia di andare innanzi. La forma è orrida, irta di
barbarismi e solecismi, e confessa egli medesimo che i lettori vi
trovavano
oscuri sensi ed affettate rime.
- Ma che colpa ci ho io? - Soggiunge Merlino:
Non tutti Sannazzari ed Ariosti,
non tutti son Boiardi ed altri eletti,
li cui sonori accenti fur composti
dell'alma Clio negli ederati tetti,
tetti si larghi a lor, a noi sì angosti,
e rari son pur troppo gli entro accetti!
Ho riportato questi versi come esempio. Era di scarsa coltura, e
lo chiamavano per istrazio il "grammatico",
che tanto è a dire quanto un puro asino;
e poco studioso della lingua chiamava chiacchieroni i toscani, che
accusavano lui di lombardismi e latinismi:
Tu mi dirai, lettor, ch'io son lombardo
e più sboccato assai di un bergamasco;
grosso nel profferir, nel scriver tardo,
però dal Tosco facilmente io casco.
Una lingua cruda, che è una miscela di voci latine,
lombarde, italiane e paesane senza gusto e armonia, uno stile
stecchito, asciutto, lordo e plebeo, spiegano la fredda
accoglienza di un pubblico così colto e artistico. Il
concetto è la difesa delle inclinazioni naturali contro le
restrizioni religiose, con pitture satiriche de' chierici, "qui
praedicant ieiunium ventre pleno". Vi penetrano alcune idee della
Riforma, come nella preghiera di Berta, non a' santi, dic'ella, ma
a Dio, e mescolate con invettive e buffonerie a spese de' frati o
"incappucciati", con bile e stizza di frate sfratato. Il che non
procede da fede intellettuale e non da indignazione di animo
elevato, ma da scioltezza di costumi e di coscienza. Veggasi ad
esempio il ritratto di Griffarrosto, allusione al priore del suo
convento, ritratto osceno e bilioso, tra il ringhio del cane e gli
attucci senza vergogna della scimmia. La sua caricatura de' tornei
cavallereschi, concepita con brio, eseguita in forma stentata e
grossolana, rivela una fantasia originale, a cui mancano
gl'istrumenti.
Riuscitogli male l'italiano, tentò un
poema in latino, e smise subito. In ultimo trovò il suo
istrumento, una lingua senza grammatiche e senza dizionari, e di
cui nessuno aveva a chiedergli conto, una lingua tutta sua,
trasformabile a sua posta secondo il bisogno del suo orecchio e
della sua immaginazione, dico la lingua maccaronica.
Il latino era allora lingua viva nelle classi
colte e diffusa. Sannazzaro, Vida, Fracastoro, Flaminio erano nomi
sonori più che il Berni o l'Ariosto o il Boiardo. Se in
Firenze l'italiano avea vinta la prova, nelle altre parti d'Italia
il latino aveva ancora la preminenza. In quella dissoluzione
generale di credenze, d'idee, di forme, la buffoneria
penetrò anche nelle due lingue, e ne uscì una terza
lingua, innesto delle due, possibile solo in Italia, dove esse
erano lingue note e affini. Avemmo adunque il pedantesco, un
latino italianizzato, e il maccaronico, un italiano latinizzato,
con mal definiti confini, sì che talora il pedantesco entra
nel maccaronico e il maccaronico nel pedantesco. Tentativi
infelici e dimenticati, quando nel 1521, cinque anni dopo
l'Orlando furioso, uscì in luce la Maccaronea di Merlin
Cocaio, e fece tale impressione, che in quattro anni se ne fecero
sei edizioni.
La Maccaronea nel principio è
l'Orlandino, mutati i nomi. A quel modo che Milone rapisce Berta e
poi la lascia, e Berta gli partorisce Orlando; Guido, discendente
di Rinaldo, rapisce Baldovina, figlia di Carlomagno, e fugge con
lei in Italia, accolti ospitalmente da un contadino di Cipada,
patria appunto del nostro Merlino. Guido lascia Baldovina,
cercando avventure, ed ella muore, dopo di aver partorito Baldo.
Fin qui l'Orlandino e la Maccaronea vanno insieme; ma qui
l'Orlandino finisce subito, e la trama è ripigliata e
continuata nella Maccaronea. Baldo, come Orlandino, ha molta forza
e coraggio, e si gitta a imprese arrischiate. Ha parecchi
compagni, tra' quali Fracasso, che ricorda Morgante, da cui
discende, e Cingar, che ricorda Margutte. Dicono che sotto questi
nomi si celino gl'irrequieti studenti di Bologna, capitanati da
quel Francesco mantovano, che sarebbe Baldo. Fatto è che,
date e ricevute molte busse, Baldo è messo in prigione.
Cingar, vestito da frate, lo libera. Eccoli tutti per terra e per
mare cavalieri erranti e compiono audaci imprese. Baldo distrugge
corsari, estermina le fate, ritrova Guido suo padre fatto romito,
che gli predice grandi destini; va in Africa, scopre le foci del
Nilo, scende nell'inferno. Giunto co' suoi in quella parte
dell'inferno, dove ha sede la menzogna e la ciarlataneria e dove
stanno i negromanti, gli astrologi e i poeti, Merlino trova
colà il suo posto e pianta i suoi personaggi e finisce il
racconto.
Abbandonarsi alla sua sbrigliata immaginazione
e accumulare avventure è a prima vista lo scopo di Merlino,
come di tutt'i romanzieri di quel tempo. Anzi di avventure ce
n'è troppe; e fra tanti intrighi l'autore pare talora
intricato e stanco. Ti senti sbalzato altrove prima che abbi
potuto ben digerire il cibo messoti innanzi. Molte avventure sono
reminiscenze classiche e cavalleresche, ma rifatte e trasformate
in modo originale; e il tutt'insieme è originalissimo.
Cominciamo con Carlomagno e i paladini, ma dopo alcuni libri o
canti ci troviamo in Cipada, con l'immaginazione errante fra
Mantova, Venezia, Bologna, e con innanzi l'Italia con la sua
scorza da medio evo penetrata da uno spirito cinico e dissolvente.
Le forme sono epiche, ma caricate in modo che si scopre l'ironia.
La caricatura non è un semplice sfogo d'immaginazione
comica e buffonesca, come le avventure non sono un semplice
stimolo di curiosità: ci è una intenzione che
penetra in quei fatti e in quelle forme e se li assoggetta, ci
è la parodia.
Baldo è l'ultimo di quella serie di
cavalieri erranti, che comincia con Aiace, Achille, Teseo,
continua con Bruto, Pompeo e gli altri eroi celebrati da Livio e
Sallustio, e va a finire in Orlando e Rinaldo, da cui discende
Baldo. La sua missione è di purgare la terra da' mostri,
dagli assassini e dalle streghe. La cavalleria è
l'istrumento divino contro Lucifero. Baldo vince i corsari,
atterra i mostri, uccide le streghe e debella l'inferno. Tutto
questo è raccontato con un suono di tromba così
romoroso, con un accento epico così caricato, che si ride
di buona voglia a spese di Baldo, di Fracasso, di Cingar, e degli
altri cavalieri.
Ma in quest'allegra parodia penetra
un'intenzione ancora più profonda, la satira delle
opinioni, delle credenze, delle istituzioni, de' costumi, delle
forme religiose e sociali. Il medio evo ne' suoi diversi aspetti
è in fuga, frustato a sangue dal terribile frate, rifatto
laico. Perchè infine i mostri, le streghe e l'inferno non
sono altro che forme religiose e sociali, i vizi, le lascivie e i
pregiudizi popolari. E come tutta questa dissoluzione non nasce da
nuova fede o da nuova coscienza, ma da compiuta privazione di
coscienza e di fede, la cavalleria, che in nome della giustizia e
della virtù debella l'inferno, è essa medesima una
parodia e l'impressione ultima è una risata sopra tutti e
sopra tutto. Qualche sforzo di un'aspirazione più seria ci
è; Leonardo che muore, per mantenere intatta la sua
verginità, è una bella immagine allegorica perduta
fra tante caricature. Hai una dissoluzione universale di tutte le
idee e di tutte le credenze, nella sua forma più cinica.
Lì dentro ci è la società italiana
còlta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte
assisa sulle rovine del medio evo, beffarda e vuota.
La lingua stessa è una parodia del
latino e dell'italiano, che si beffano a vicenda. Come i
maccheroni vogliono essere ben conditi di cacio e di butirro,
così la lingua maccaronica vuol essere ben mescolata.
Spesso vi apparisce per terzo anche il dialetto locale, e si fa un
intingolo saporitissimo. La lingua è in se stessa comica,
perchè quel grave latino epico, che intoppa tutt'a un
tratto in una parola italiana stranamente latinizzata, e talora
tolta dal vernacolo, produce il riso. La parodia che è
nelle cose scende nella lingua, la quale sembra un eroe con la
maschera di Pulcinella, un Virgilio carnascialesco. Alione
astigiano e qualche altro avevano già dato esempio di
questa lingua recata a perfezione da Merlino. Egli ne sa tutt'i
segreti e la maneggia con un'audacia da padrone, con un tale
sentimento di armonia, che par l'abbia già bella e formata
nell'orecchio. Come saggio, cito alcuni brani della sua
invocazione alla musa maccaronica:
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem...
Non mihi Melpomene, mihi non menchiona
Thalia,
Non Phoebus grattans chitarrinum carmina
dictent...
Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna,
Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam.
Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste muse plebee:
Credite quod giuro, neque solam dire bosiam
possem per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lacum suppae generant, pelagumque
guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates...
Sunt ibi costerae freschi tenerique botiri,
in quibus ad nubesfumant caldaria centum,
plena casoncellis, macaronibus atque foiadis.
Ipsae habitant nymphae super alti montis
aguzzum,
formaiumque tridant grataloribus usque foratis.
E non è meno originale il suo stile. Della nuova
letteratura i grandi "stilisti" sono il Boccaccio, il Poliziano,
l'Ariosto. Costoro narrando fanno quadri, ciò che
costituisce il periodo. Ti offrono le cose dipinte, sono
coloristi: Merlino dipinge le cose con altre cose, i suoi colori
non sono concetti o immagini, sono fatti. Ha poche reminiscenze
classiche: tra lui e la natura non ci è nulla di mezzo. La
sua immaginazione non rimane nella vaga generalità delle
cose, ma scende nel più minuto della realtà e ne
cava novità di paragoni e di colori. I fatti più
assurdi e fantastici sono narrati co' più precisi
particolari, ed hanno l'evidenza della storia, e ti rivelano un
raro talento di osservazione dell'uomo e della natura, non nelle
loro linee generali solamente, ma nelle singole e locali forme
della loro esistenza. Veggasi la descrizione della caverna di Eolo
e della tempesta, e le disperazioni di Cingar:
Solus ibi Cingar cantone tremebat in uno,
atque morire timens, cagarellam sentit
abassum...
Undique mors urget, mors undique cruda
menazzat.
Infinita facit cunctis vota ille beatis,
iurat, quod cancar veniat sibi, velle per omnem
pergere descalzus mundum, saccove dobatus.
Vult in Agrignano sanctum retrovare Danesum,
qui nunc vivit adhuc vastae sub fornice rupis,
fertque oculi cilios distesos usque genocchios.
Ad zocolos ibit, quos olim Ascensa ferebat:
quos in Taprobana gens portugalla catavit.
Hisque decem faciet per fratres dicere messas,
his quoque candelam tam grandem, tamque
pesentam
vult offerre simul, quam grandis quamque
pesentus
est arbor navis, prigolo si scampet ab isto.
Se stessum accusat multas robasse botegas,
sgardinasse casas et sgallinasse polaros:
at si de tanto travaio vadat adessum
liber speditus, vult esse Macharius alter,
alter heremita Paulus, spondetque Sepulchri
post visitamentum, vitam menare tapinam.
Talia dum Cingar trepido sub pectore pensat,
en ruptae sublimis aquae montagna ruinat,
quae superans altam gabiam strepitosa
trapassat,
nec pocas secum portavit in aequora gentes.
La stessa ricchezza di particolari trovi nella descrizione de'
venti, e nelle vicende della tempesta. Ci hai il carattere dello
stile di Merlino, un realismo animato da una immaginazione
impressionabile e da un umorismo inestinguibile. Non ha tutto la
stessa perfezione: ci è di molta ciarpa, la facilità
è talora negligenza; desideri l'ultima mano, desideri la
serietà artistica dell'Ariosto.
Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori, fa di
Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante,
salvo che Dante spesso ti fa degli schizzi, ed egli disegna e
compie tutto il fatto. Il suo continuatore e imitatore è
fuori d'Italia, è Rabelais, che ha la stessa maniera. In
Italia prevalse la rettorica, la cui prima regola è
l'orrore del particolare e la vaga generalità. Merlino al
contrario aborre le perifrasi, i concetti, le astrazioni e quel
colorire a vuoto per via di figure e d'immagini, e non pare che
lavori con la riflessione o con l'immaginazione, ma che stia
lì tutto attirato in mezzo a un mondo che si muove,
guardato e parodiato ne' suoi minimi movimenti. Baldovina e Guido
giungono affamati in casa di Berto, e cucinano essi medesimi il
pasto. Al poeta non fugge nulla, i cibi, il modo di
apparecchiarli, il desco, l'affaccendarsi di Berto, la fisonomia e
gli atti de' due suoi ospiti: e ne nasce una scena di famiglia
piena di allegria comica, il cui effetto è tutto ne'
particolari. Il piccolo Baldo va a scuola, e in luogo del Donato
studia romanzi. Hai innanzi la scuola di quel tempo, i libri alla
moda, i costumi de' maestri e degli scolari, ciascun particolare
con la sua fisonomia:
Beldovina tamen cartam comprarat et illam
letrarurm tolam, supra quam disceret "a, b".
Unde scholam Baldus nisi non spontaneus ibat,
nam quis erat tanti, seu mater, sive pedantus,
qui tam terribilem posset sforzare putinum?
Ipse tribus sic sic profectum fecerat annis,
ut quoscumque libros legeret, nostrique Maronis
terribiles guerras fertur recitasse magistro.
At mox Orlandi nasare volumina coepit,
non deponentum vacat ultra ediscere normas;
non speties, numeros, non casus atque figuras;
non Doctrinalis versamina tradere menti;
non hinc, non illinc, non hoc, non illoc et
altras
mille pedantorum baias, totidemque fusaras.
Fecit de cuius Donati deque Perotto
scartozzos ac sub prunis salcizza cosivit.
Orlandi tantum gradant, et gesta Rinaldi;
namque animum guerris faciebat talibus altum.
Legerat Ancroiam, Tribisondam, facta Danesi,
Antonnaeque Bovum, Antiforra, Realia Franzae,
innamoramentum Carlonis, et Aspera-montem,
Spagnam, Altobellum, Morgantis bella gigantis,
Meschinique provas, et qui "Cavalerius Orsae"
dicitur, et nulla cecinit qui laude Leandram.
Vidit ut Angelicam sapiens Orlandus amavit,
utque caminavit nudo cum corpore mattus,
utque retro mortam tirabat ubique cavallam,
utque asinum legnis caricatum calce ferivit,
illeque per coelum veluti cornacchia volavit.
Baldus in his factis nimium stigatur ad arma,
sed tantum quod sit piccolettus corpore
tristat.
È una scena di quel tempo, ispirata a Merlino dalla sua
vita studentesca di Ferrara e Bologna, quando Cocaio, il suo
pedagogo, gli metteva in mano Donato e il Porretto, ed egli ne
faceva "scartozzos", e leggeva romanzi, e sopra tutti l'Orlando
furioso. Non c'è una sola generalità: tutto è
cose, e ciascuna cosa è animata, come un uomo ha la sua
fisonomia e il suo movimento, determinato da forze interiori. Non
solo vedi quello che fa Baldo, ma quello che pensa e sente;
perchè la parola, se nel suo senso letterale esprime
un'azione, con la sua aria maccaronica e la sua giacitura e la sua
armonia te ne dà il sentimento, come è quel
"nasarat", e quel "volavit", e quel "piccolettus", e quell'"hinc,
illinc, hoc, illoc, et altras mille pedantorum baias".
La parte seria del racconto dovrebb'esser la
cavalleria, perchè essa è che fa guerra all'inferno,
cioè alla malvagità e al vizio. Ma la serietà
è apparente, e il fondo è una parodia scoperta, il
cui eroe più simpatico è il gigante Fracasso,
parodia di quella forza oltreumana che si attribuiva a' cavalieri
erranti. Dico "parodia scoperta", se guardiamo alla conclusione
ingegnosissima; perchè, giunti i cavalieri nella regione
infernale delle menzogne poetiche, Merlino te li pianta, e si
ferma colà come nella sua patria. Questa patria de' poeti,
de' cantanti, degli astrologi, de' negromanti, di tutti quelli
qui fingunt, cantant, dovinant somnia genti,
compluere libros follis vanisque novellis,
è una conchiglia, o piuttosto una immensa zucca, secca e
vuota, "mangiabilis, quando tenerina fuit", dove tremila barbieri
strappano i denti a' condannati. E Merlino esclama:
Zucca mihi patria est, opus est hic perdere
dentes,
tot quot in immenso posui mendacia libro.
E tronca il racconto, e dice addio a Baldo:
Balde, vale, studio alterius te denique lasso.
Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte, e di se
stesso, che ha composto un vero mostro oraziano, fuori di tutte le
regole, perduti i remi, mescolati l'austro co' fiori e i cignali
col mare:
Tange peroptatum, navis stracchissima, portum,
tange, quod amisi longinqua per aequora remos:
he heu, quid volui, misero mihi, perditus
Austrum
floribus, et liquidis immisi fontibus apros.
È il comico portato all'estremo dell'umore. La caricatura
del Boccaccio, la buffoneria del Pulci, l'ironia dell'Ariosto
è qui l'allegro e capriccioso umore di una negazione
universale e scoperta, nella forma più cinica.
In questa negazione universale la satira
penetra dappertutto, e attinge la società, come il medio
evo l'aveva costituita, in tutte le sue forme, religiose,
politiche, morali, intellettuali. La scolastica è messa
alla berlina: san Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionari
accanto agli astrologi e a' negromanti. Megera fa un terribile
ritratto di tutt'i disordini della Chiesa e de' papi, e Aletto
fulmina ugualmente guelfi e ghibellini, i seguaci della Francia e
i seguaci dell'Impero. I monaci sono il principale bersaglio di
questi strali poetici. Una delle pitture più comiche
è quel biricchino di Cingar vestito da francescano per
liberare Baldo dal carcere:
Iam non is Cingar, quia sanctus portat
amictus...
sub tunicis latitant sacris quam saepe ribaldi!
Notabile è la satira de' frati nell'ottavo libro:
Postquam giocarunt nummos borsamque vodarunt,
postquam pane caret cophinum, vinoque berillus
in fratres properant, datur his extemplo
capuzzus.
La moltiplicità de' conventi gli fa temere che un bel
dì rimanga la gente cristiana senza soldati e senza
contadini. Scherza su' motti del Vangelo. Fa una parodia della
confessione. I cavalieri erranti giungono alla porta dell'inferno,
dov'e parodiata la celebre scritta di Dante:
Regia Luciferi dicor, bandita tenetur
chors hic, intrando patet, ast uscendo seratur.
Ma non possono domare l'inferno, se prima non si confessano, e il
confessore è Merlino stesso, il poeta:
Nomine Merlinus dicor, de sanguine Mantus,
est mihi cognomen Cocaius maccaronensis.
Quale confessione i cavalieri possano fare a Merlino, soprattutto
Cingar, il lettore s'immagini. È una farsa. Tutta l'opera
è penetrata da uno spirito capriccioso e beffardo, che fa
di quel mondo in mezzo a cui si trova il suo aperto trastullo, e
gli dà forme carnascialesche.
Anche la Moscheide di Merlino è una
caricatura o un travestimento carnevalesco della cavalleria in uno
stile più corretto e uguale. La guerra finisce con la
sconfitta compiuta delle mosche, descritta co' tratti, da lui
caricati, dell'Ariosto e di altri poeti cavallereschi. Eccone
alcuni brani verso la fine:
Numquam facta fuit tam cruda baruffola mundo:
nil nisi per terram membra taiata micant.
Grandes mortorum vadunt ad sydera montes,
sydera, quae multo rossa cruore colant.
Pulmones, milzae, lardi, ventralia, membri
Saturni ad sphaeram foeda per astra volant.
Una corada Iovis mostazzum colsit, et uno
Sol ibi ventrazzo spinctus ab axe fuit.
Dumque dei coenant, puero Ganimede ministro,
multa super mensas ossa taiata cadunt.
Nunc brazzus Ragni, nunc gamba cruenta
Pedocchi,
nunc cor Moschini, nunc pulicina manus...
... trucidatis ducibus, Moschaea ruinat
tota, nec una quidem vivere Moschaea potest.
Formicae, Pulices, Ragni - Victoria! - clamant,
trombettae tararan iam frisolando sonant.
Il Rodomonte delle mosche è Siccaborone, sul quale da una
torre gittano un sasso enorme,
qui super elmettum schiazzavit Siccaboronem,
vitaque cum gemitu sub Phlegetonta fugit.
La Zanitonella o gli amori di Zanina e Tonello è un suo
poemetto bucolico in caricatura, dove si fa strazio delle immagini
e de' sentimenti petrarcheschi e idillici. Il Petrarca narra che
Amore colpì lui improvviso e disarmato. Il medesimo avviene
a Tonello:
Solus solettus stabam colegatus in umbra,
pascebamque meas virda per arva capras.
Nulla travaiabant vodam pensiria mentem,
nullaaue cogebat cura gratare caput,
cum mihi bolzoniger cor, oyme, Cupido, forasti,
nec tuns in fallum dardus alhora dedit...
More valenthominis schenam de-retro feristi:
o bellas provas quas, traditore, facis!
Guardando un po' addentro in questa caricatura universale del
mondo, si vedono qua e là spuntare alcuni lineamenti
confusi di un mondo nuovo. Ci si sente lo spirito della Riforma,
il dolore di un'Italia scissa tra Impero e Francia, essa che unita
aveva imperato sull'universo, l'indignazione di tanta licenza e
corruzione de' costumi nel secolo degl'ipocriti e delle
cortigiane, un disprezzo delle fantasticherie teologiche,
scolastiche e astrologiche, un sentimento del reale e dell'umano.
Ma sono velleità, immagini confuse e volubili, che si
affacciano appena e non hanno presa sul suo spirito vagabondo e
sulla sua capricciosa immaginazione.
XV
MACHIAVELLI
Dicesi che Machiavelli fosse in Roma, quando il 1515 uscì
in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non
celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto
nella lunga lista ch'egli stese nell'ultimo canto di poeti
italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il
secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e
conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro.
Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti
apparenti, è una fisonomia essenzialmente fiorentina ed ha
molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone, che
si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete
brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e
beffardo che vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in
Lorenzo e nel Berni. Poco agiato de' beni della fortuna, nel corso
ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra' tanti
stipendiati a Roma, o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma caduti
i Medici, ristaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe
parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò
molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli
uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la
quale non gli parve assai di sostenere la tortura, poi che
tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si
raffermò la sua tempra e si formò il suo spirito.
Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano
meditò su' fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze,
anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non
potesse mantenere la sua indipendenza, se non fosse unita tutta o
gran parte sotto un solo principe. E sperò che casa Medici,
potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l'impresa.
Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi, e trarlo
di ozio e di miseria. All'ultimo, poco e male adoperato da'
Medici, finì la vita tristamente, lasciando non altra
eredità a' figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: "Tanto
nomini nullum par elogium".
I suoi Decennali, arida cronaca delle "fatiche
d'Italia di dieci anni", scritta in quindici dì, i suoi
otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira de'
degeneri fiorentini, gli altri suoi capitoli dell'Occasione, della
Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione, i suoi canti
carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o
canzoni, sono lavori letterari su' quali è impressa la
fisonomia di quel tempo, alcuni tra il licenzioso e il beffardo,
altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta la
prosa; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni
sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato
appariscono i vestigi di un nuovo essere, una profondità
insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa:
soprabbonda lo spirito. Ci è il critico, non ci è il
poeta. Non ci è l'uomo nello stato di spontaneità
che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. Ci è
l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue
e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare
è un discorrere:
Io spero, e lo sperar cresce il tormento,
io piango, e 'l pianger ciba il lasso core;
io rido, e il rider mio non passa drento;
io ardo, e l'arsion non par di fuore;
io temo ciò ch'io veggo e ciò
ch'io sento,
ogni cosa mi dà nuovo dolore;
così sperando piango, rido e ardo,
e paura ho di ciò che io odo o guardo.
Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane
nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è
rimasto? Qualche verso ingegnoso, come ne' Decennali:
la voce d'un Cappon tra cento Galli,
e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De diavoli
o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo
dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e
ti fa pensoso. Nel poeta si sente lo scrittore del Principe e de'
Discorsi.
Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni
letterarie, secondo le idee che correvano in quella età.
Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche
alle confraternite, nella descrizione della peste, e ne' discorsi
che mette in bocca a' suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il
suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove
abbondano i lenocini della rettorica e gli artifici dello stile:
ciò che si chiamava eleganza.
Ma nel Principe, ne' Discorsi, nelle Lettere,
nelle Relazioni, ne' Dialoghi sulla milizia, nelle Storie,
Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con
l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre
appresso alle parole e a' periodi. Dove non pensò alla
forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla
trovò la prosa italiana.
È visibile in Niccolò Machiavelli
lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte
della borghesia italiana in quel tempo. E avea pure quel senso
pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese
Lorenzo eminente fra' principi, e che troviamo generalmente negli
statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a
Napoli, quando vivea Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto,
Ludovico il Moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti
così vivi e sagaci delle corti, presso le quali dimoravano.
Ci era l'arte, mancava la scienza. Lorenzo era l'artista.
Machiavelli doveva essere il critico.
Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì
ci erano ancora i lineamenti di un popolo, ci era l'immagine della
patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea
ghibellina e guelfa era spenta, ma ci era invece l'idea
repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che
fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle
memorie gloriose del passato, resisteva a' Medici. L'uso della
libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra
dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi,
Michelangiolo, Ferruccio, e l'immortale resistenza agli eserciti
papali imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e
l'amore della libertà erano forze morali fra quella
corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal
contrasto.
Machiavelli per la sua coltura letteraria, per
la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e
comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova
letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le
accetta tutte, e magnificando la morale in astratto vi passa sopra
nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e
rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli
ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. Ci
è lì dentro la libertà e l'indipendenza della
patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le
illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide
perduta la libertà, pensò all'indipendenza, e
cercò negli stessi Medici l'istrumento della salvezza.
Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima
tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio;
ma un'utopia, che rivelava la forza e la giovinezza della sua
anima e la vivacità della sua fede. Se Francesco
Guicciardini vide più giusto e con più esatto
sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua
coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del
Machiavelli è giunta a' posteri simpatica e circondata di
un'aureola poetica per la forte tempra, e la sincerità del
patriottismo e l'elevatezza del linguaggio e per quella sua aria
di virilità e di dignità fra tanta folla di
letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito.
Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi,
più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà,
la vita scorretta, le abitudini plebee e "fuori della regola",
come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli
aumentavano riputazione. Consapevole di sua grandezza, spregiava
quella esteriorità delle forme e que' mezzi artificiali di
farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì
facili a' mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima
nella posterità, e la sua fama si è ita sempre
ingrandendo fra gli odii degli uni e le glorificazioni degli
altri. Il suo nome è rimasto la bandiera, intorno alla
quale hanno battagliato le nuove generazioni nel loro
contraddittorio movimento ora indietro, ora innanzi.
Ci è un piccolo libro del Machiavelli,
tradotto in tutte le lingue il Principe, che ha gittato nell'ombra
le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo
libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore
logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato
che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla
turpe massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo loda
l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina. Molte
difese sonosi fatte di questo libro ingegnosissime, attribuendosi
all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole.
Così n'è uscita una discussione limitata e un
Machiavelli rimpiccinito.
Questa critica non è che una pedanteria.
Ed è anche una meschinità porre la grandezza di
quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo
costruire tutta intera l'immagine, e cercare ivi i fondamenti
della sua grandezza.
Niccolò Machiavelli è innanzi
tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che
nella sua spontaneità dal Petrarca e dal Boccaccio si
stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui
comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la
riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel
movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma,
passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso
sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi
dalla sua società, e interrogarla: - Cosa sei? Dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio
tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del
Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il
suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di
assimilarsi. Soprastava per coltura, per industrie, per ricchezze,
per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato
intellettivo in Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani, quando
ebbero gli stranieri in casa; ma vi si ausarono, e trescarono con
quelli, confidando di cacciarli via tutti con la
superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di
ammaestramento è vedere tra lanzi, svizzeri, tedeschi e
francesi e spagnuoli l'alto e spensierato riso di letterati,
artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti
italiane. Fino ne' campi i sonettisti assediavano i principi:
Giovanni de' Medici cadeva tra' lazzi di Pietro Aretino. Gli
stranieri guardavano attoniti le maraviglie di Firenze, di
Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi
regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa
indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia
era inchinata e studiata da' suoi devastatori, come la Grecia fu
da' romani.
Fra tanto fiore di civiltà e in tanta
apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto
Niccolò Machiavelli, e vide la malattia, dove altri
vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo
decadenza egli disse "corruttela", e base di tutte le sue
speculazioni fu questo fatto, la corruttela della razza italiana,
anzi latina, e la sanità della germanica.
La forma più grossolana di questa
corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime
nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e
di Caterina, ed ora messa in mostra ne' dipinti e negli scritti,
penetrata in tutte le classi della società e in tutte le
forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava
sapore alla vita. La licenza accompagnata con l'empietà e
l'incredulità avea a suo principal centro la corte romana,
protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di
quella corte che infiammò le ire di Savonarola e
stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.
Nondimeno il clero per abito tradizionale
tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva
sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto
nella vita pratica: il pensiero non era più la parola e la
parola non era più l'azione, non ci era armonia nella vita.
In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio
e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli.
Nessun italiano, parlando in astratto, poteva
trovar lodevole quella licenza, a' cui allettamenti pur non sapeva
resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva
non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della
coscienza. Sentimenti e desidèri vani, affogati nel rumore
di quei baccanali. Non ci era il tempo di piegarsi in sè,
di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e
desidèri che più tardi fruttificarono e agevolarono
l'opera del Concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medio evo, e ottenere la riforma de'
costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale
era stato già il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso
poi e purgato nel Concilio di Trento. Era il concetto più
accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I
volghi cercano la medicina a' loro mali nel passato.
Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel
carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di
vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo
in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora
nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse
di ricondurre indietro l'Italia e di ristaurare il medio evo,
concorse alla sua demolizione.
L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico
sono i tre concetti fondamentali, intorno a' quali si aggira la
letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è
la parodia più o meno consapevole. Anche nella faccia del
Machiavelli sorprendi un movimento ironico, quando parla del medio
evo, soprattutto allora che affetta maggior serietà. La
misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi.
Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col
Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa
razza, dalla quale era uscito Astarotte.
Ma la sua negazione non è pura
buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In
quella negazione ci è un'affermazione, un altro mondo sorto
nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è
seria ed eloquente.
Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo,
ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite
nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito
è sorto un nuovo edificio sociale e politico.
Le idee che generarono quelle istituzioni sono
morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza,
rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della
corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare, se
non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende
Machiavelli. Con l'una mano distrugge, con l'altra edifica. Da lui
comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la
ricostruzione.
Non è possibile seguire la sua dottrina
nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale.
Il medio evo riposa sopra questa base: che il
peccato è attaccarsi a questa vita, come cosa sostanziale,
e la virtù è negazione della vita terrena e
contemplazione dell'altra; che questa vita non è la
realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la
realtà è non quello che è, ma quello che dee
essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro
mondo. L'inferno. Il Purgatorio. Il Paradiso, il mondo conforme
alla verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita
teologico-etico uscì la Divina Commedia e tutta la
letteratura del Dugento e del Trecento.
Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme
naturali di questo concetto. La realtà terrena è
simbolica: Beatrice è un simbolo: l'amore è un
simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro
radice negli enti o negli universali, forze estramondane, che sono
la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il
particolare.
Tutto questo, forma e concetto, era già
dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di
sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e
licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del
peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo.
Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari:
conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal
mondo della Luna ariostesco. In teoria ci era una piena
indifferenza, e in pratica una piena licenza.
Machiavelli vive in questo mondo e vi
partecipa. La stessa licenza nella vita, e la stessa indifferenza
nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a
quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione.
Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di
enunciazioni scolastiche e teologiche. E a ogni modo non se ne
cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.
Nelle scienze naturali non sembra sia molto
innanzi, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso
delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più
vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo
della natura, è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno
oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.
L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha
la faccia estatica e contemplativa del medio evo, e non la faccia
tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna
dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo.
Ciascun uomo ha la sua missione su questa
terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco
d'immaginazione, e non è contemplazione Non è
teologia, e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua
serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita
terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze
interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua
attività: questo è lo spirito che aleggia in tutte
le opere del Machiavelli.
È negazione del medio evo, e insieme
negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa
così poco, come la contemplazione artistica. La coltura e
l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e
possano costituire lo scopo della vita. Combatte l'immaginazione,
come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in
immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la
malattia che si ha a curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna
giudicar le cose come sono, e non come debbono essere.
Quel "dover essere", a cui tende il contenuto
nel medio evo e la forma nel Risorgimento, dee far luogo
all'"essere", o com'egli dice, alla verità "effettuale".
Subordinare il mondo dell'immaginazione, come
religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto
dall'esperienza e dall'osservazione, questa è la base del
Machiavelli.
Risecati tutti gli elementi sopraumani e
soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria. La
missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è
il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della
patria.
Nel medio evo non ci era il concetto di patria:
ci era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini
nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti
di Dio; l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della
società. Intorno a questi due "Soli" stavano gli astri
minori, re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in
antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era
privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per
la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e
spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e
pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze
Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il dritto di
rappresentarlo e interpretarlo. È un tratto che illumina
tutte le idee di quel tempo.
Ci era ancora il papa e ci era l'imperatore; ma
l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non ci era
più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e
l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio, il papa,
ingrandito di territorio, diminuito di autorità,
l'imperatore debole e impacciato a casa.
Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini
non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della
cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo
rimanevano avanzi in Italia il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale
non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il
principale pericolo dell'Italia. Democratico, combatte il concetto
di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini,
reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima
cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e
propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale
Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri
combatte gli ultimi vestigi del medio evo.
La "patria" del Machiavelli è
naturalmente il comune libero, libero per sua virtù e non
per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti
nell'interesse di tutti.
Ma, osservatore sagace, non gli
può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si
erano formati in Europa, e come il comune era destinato anch'esso
a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo
comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare
dirimpetto a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si
chiamavano "Stati" o "Nazioni". Già Lorenzo, mosso dallo
stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che
assicurasse l'"equilibrio" tra' vari Stati e la mutua difesa, e
che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo
ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione di un
grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo
straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non
è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione.
L'Italia nell'utopia dantesca è il "giardino dell'impero";
nell'utopia del Machiavelli è la "patria", nazione autonoma
e indipendente.
La "patria" del Machiavelli è una
divinità, superiore anche alla moralità e alla
legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in
sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano
gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che
nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita
pubblica. "Ragion di Stato" e "salute pubblica" erano le formole
volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto della patria,
superiore ad ogni dritto. La divinità era scesa di cielo in
terra e si chiamava la "patria", ed era non meno terribile. La sua
volontà e il suo interesse era "suprema lex". Era sempre
l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo
essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà
di un solo o di pochi, avevi la servitù. Libertà era
la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa
pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della
libertà. L'uomo non era un essere autonomo, e di fine a se
stesso: era l'istrumento della patria, o ciò che è
peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si
comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato
sull'arbitrio di un solo. Patria era dove tutti concorrevano
più o meno al governo, e se tutti ubbidivano, tutti
comandavano: ciò che dicevasi "repubblica". E dicevasi
"principato", dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma,
repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre
l'individuo assorbito nella società, o, come fu detto poi,
l'onnipotenza dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli, non
come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga
tradizione ammesse, e fortificate dalla coltura classica. Ci
è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la
sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le
immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte
e nella letteratura, ma ancora nello Stato.
La patria assorbisce anche la religione. Uno
Stato non può vivere senza religione. E se il Machiavelli
si duole della corte romana, non è solo perchè a
difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli
stranieri, ma ancora perchè co' suoi costumi disordinati e
licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della
religione. Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano
del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto
il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico
negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la
generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la
sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga
bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non istrumenti,
ma ostacoli, gli spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della
religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma ci
odori un po' di rettorica, che spicca più in quel fondo
ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in
nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale
schietto e semplice.
Noi che vediamo le cose di lontano, troviamo in
queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia, e
diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva,
e l'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni,
ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e
l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità
in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non ci è alcun
vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche
è "vox populi", il consenso di tutti. E il fondamento de'
principati è la forza, o la conquista legittimata e
assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa ci
entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli
nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e
attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le
virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che
hanno "disarmato il cielo e effeminato il mondo" e che rendono
l'uomo più atto a "sopportare le ingiurie che a
vendicarle". "Agere et pati fortia romanum est". Il cattolicismo
male interpretato rende l'uomo più atto a patire che a
fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e
contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende
gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la
libertà e l'indipendenza della patria. La virtù
è da lui intesa nel senso romano, e significa "forza",
"energia", che renda gli uomini atti a' grandi sacrifici e alle
grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore;
anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosi: manca
l'educazione o la disciplina o, come egli dice, "i buoni ordini e
le buone armi", che fanno gagliardi e liberi i popoli.
Alla virtù premio è la gloria.
"Patria", "virtù", "gloria", sono le tre parole sacre, la
triplice base di questo mondo.
Come gl'individui hanno la loro missione in
terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria,
senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, "numerus
fruges consumere nati". E parimente ci sono nazioni oziose e
vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo.
Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio
nell'umanità, o, come dicevasi allora, nel genere umano,
come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi
le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia
intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza
morale. Ma come gl'individui, così le nazioni hanno la loro
vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono
nella coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo
fugge loro dalle mani e passa ad altre nazioni.
Il mondo non è regolato da forze
soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede
secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato
storico non è la provvidenza, e non la fortuna, ma la
"forza delle cose", determinata dalle leggi dello spirito e della
natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed
immortale nella sua produzione.
Perciò la storia non è
accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione
necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe
in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli
uomini.
La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della
moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e
nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze
che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.
La grandezza e la caduta delle nazioni non sono
dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno
le loro cause nella qualità delle forze che le movono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono.
E a governare, quelli che stanno solo in sul
lione, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe, o la
prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio
delle forze che muovono gli Stati.
Come gl'individui, così le nazioni hanno
legami tra loro, dritti e doveri. E come ci è un dritto
privato, così ci è un dritto pubblico, o dritto
delle genti, o, come dicesi oggi, dritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi.
Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non
muore mai. Eternamente giovane, passa di una nazione in un'altra,
e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere
umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella
nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale e logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La
storia del genere umano non è che la storia dello spirito o
del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto "filosofia
della storia".
Di questa filosofia della storia e di un dritto
delle genti non ci è nel Machiavelli che la semplice base
scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato
a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la
storia.
Questi concetti non sono nuovi. I concetti
filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci
si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande
movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo
l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e
fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E a'
contemporanei non parvero nuovi, nè audaci, veggendo ivi
formulato quello che in tutti era sentimento vago.
L'influenza del mondo pagano è visibile
anche nel medio evo, anche in Dante Roma è presente allo
spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la
Roma di Cesare, e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi
è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese
della repubblica "miracoli della provvidenza", come preparazione
all'impero: dove pel Machiavelli non ci sono miracoli, o i
miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla
fortuna, la dà principalissima alla virtù. Di lui
è questo motto profondo: "I buoni ordini fanno buona
fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle
imprese". Il classicismo adunque era la semplice scorza, sotto
alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto
al classicismo di Dante ci è il misticismo e il
ghibellinismo; la corteccia è classica, il nocciolo
è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli ci
è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso.
Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove "non è cosa
alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e
vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi
e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura".
Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare
quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e
in molte sentenze senti i vestigi di quell'antica sapienza. Da
Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una
certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel
pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci
troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino
equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio evo,
profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua
veste romana è vero borghese moderno, sceso dal
piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla
naturale. È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con
lineamenti molto precisi de' tempi moderni.
Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi,
religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo
negazione vuota. È affermazione, è il verbo. Di
contro a ciascuna negazione sorge un'affermazione. Non è la
caduta del mondo, è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla
teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra
l'impero e la città o il feudo, le due unità
politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la Nazione, alla
quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi, la
razza, la lingua, la storia, i confini. Tra le repubbliche e i
principati spunta già una specie di governo medio o misto,
che riunisca i vantaggi delle une e degli altri, e assicuri a un
tempo la libertà e la stabilità, governo che
è un presentimento de' nostri ordini costituzionali, e di
cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto
per la riforma degli ordini politici in Firenze. È tutto un
nuovo mondo politico che appare. Si vegga, fra l'altro, dove il
Machiavelli tocca della formazione de' grandi Stati, e soprattutto
della Francia.
Anche la base religiosa è mutata. Il
Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità,
e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una
descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell'ironia. La religione ricondotta nella sua
sfera spirituale è da lui considerata, non meno che
l'educazione e l'istruzione, come istrumento di grandezza
nazionale. È in fondo l'idea di una Chiesa nazionale,
dipendente dallo Stato, e accomodata a' fini e agl'interessi della
nazione.
Altra è pure la base morale. Il fine
etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il
mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se
biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è
meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è
Rachele, ma è Lia, non è la vita contemplativa, ma
la vita attiva. E perciò la virtù è per lui
la vita attiva, vita di azione, e in servigio della patria. I suoi
santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che
agl'iscritti nel calendario romano. O per dir meglio, il nuovo
tipo morale non è il santo, ma è il patriota.
E si rinnova pure la base intellettuale.
Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la
verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa,
e quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto.
Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale,
vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del
pensiero o dello spirito umano, fattore della storia. Questo
è già tutta una rivoluzione. È il famoso
"cogito", nel quale s'inizia la scienza moderna. È l'uomo
emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo
Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza, e prende
possesso del mondo.
E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non
riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non
riconosce autorità di nessuno, come criterio del vero. Di
teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale, mondi
d'immaginazione, fuori della realtà. La verità
è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla
è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio
intelligente de' fatti. Tutto il formolario scolastico va
giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni
astratte dell'intelletto incardinate nella pretesa esistenza degli
universali sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e
naturale. Le proposizioni generali, le "maggiori" del sillogismo,
sono capovolte e compariscono in ultimo come risultati di una
esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo
hai la "serie", cioè a dire concatenazione di fatti, che
sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio:
"Avendo la città di Firenze
... perduta parte dell'imperio suo, fu necessitata a fare guerra a
coloro che lo occupavano, e perchè chi l'occupava era
potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun
frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze, dalle
gravezze infinite querele del popolo; e perchè questa
guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini, ...
l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello
che fosse cagione e della guerra e delle spese di essa."
Qui i fatti sono schierati in modo che si
appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una
complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima che ti dà la causa
apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina
ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una
sicurezza, che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti
saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e
nell'uomo, non vi senti alcuno artificio. Ma è
un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla
riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo
valore di causa o di effetto, ha il suo ufficio in tutta la
catena: il fatto non è solo fatto, o accidente, ma è
ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela
l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine
condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico
vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono
anch'essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si
contenta di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla
storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e
presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi
fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca
di tutti, com'è quel "ritirare le cose a' loro
princìpi", o quell'ironia de' "profeti disarmati", o "gli
uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono", o "gli
uomini bisogna carezzarli o spegnerli". Di queste sentenze o
pensieri ce ne sono raccolte. E sono un intero arsenale, dove
hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie. Come
esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata
e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la
forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo.
Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica
dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e
dalle sue idee medie, ciò che dicevasi dimostrazione, se la
materia era intellettuale, o descrizione, se la materia era di
puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni,
ripudiato ogni corteggio; non descrive e non dimostra, narra o
enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo
uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma,
e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità
riconosciuta. Appunto perchè ha piena la coscienza di un
nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma
è nulla. O, per dire più corretto, la forma è
essa medesima la cosa nella sua verità effettuale,
cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale.
Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia
ragionevole, o morale, o bella, ma che la sia. Il mondo è
così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed
è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La
base della vita, e perciò del sapere, è il "Nosce te
ipsum", la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il
fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono
frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa
di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con
uno sguardo superiore, il suo motto è: "Nil admirari". Non
si maraviglia e non si appassiona, perchè comprende, come
non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe
la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le
amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi
e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la
via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e
non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di
proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli
accidenti, e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che "non
curat de minimis", di un uomo occupato in cose gravi, che non ha
tempo, nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua
rapidità, quel suo condensare non è un artificio,
come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati, ma
è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili
tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno
per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme
pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di
riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto
piacciono a' cervelli oziosi. La sua semplicità talora
è negligenza; la sua sobrietà talora è
magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli
che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di
pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi,
slegature, scorrezioni e simili negligenze.
La prosa del Trecento manca di organismo, e
perciò non ha ossatura, non interna coesione: vi abbonda
l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella
prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione
dell'ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma
l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di
congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la
dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma
nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro
intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli
argomenti più frivoli sono trattati con la stessa
serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza
è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o
frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta
formale e perciò rettorica: l'animo vi rimane profondamente
indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo
quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno, salvo
che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì
è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il
Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come
rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta
al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il
Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne'
costumi e ne' modi. Anche l'intelletto, in quella sua
virilità ozioso, poneva la principale importanza della
composizione ne' costumi e ne' modi, ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve
convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui
l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano
ancora smesse le loro forme scolastiche, i poeti
petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo, poetico
e rettorico, con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia
era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del
cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. Ci
era lo scrittore, non ci era l'uomo. E fin d'allora fu considerato
lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che
dicevasi "forma letteraria", nella piena indifferenza dell'animo:
divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare
di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli,
presentimento della prosa moderna.
Qui l'uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci
è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori
che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta
moda o convenzione. Talora ci si prova, e ci riesce maestro; ed
è, quando vuol fare il letterato anche lui. L'uomo è
in lui tutto. Quello che scrive è una produzione immediata
del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro, cose e
impressioni spesso condensate in una parola. Perchè
è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e
riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa,
non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le
impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente
colorita, traversata d'ironia, di malinconia, d'indignazione, di
dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza
plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma
un marmo qua e là venato. È la grande maniera di
Dante che vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti
al medio evo ne' nomi delle cose e degli uomini, finisce
così: "e i Cesari e i Pompei Pietri, Mattei e Giovanni
diventarono". Qui non ci è che il marmo, la cosa ignuda; ma
quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte
da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari
e Pompei, il disprezzo per quei Pietri e Mattei, lo sdegno di quel
mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica de' nomi, al loro
collocamento in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed
energico "diventarono", che accenna a mutamenti non solo di nomi,
ma di animi. Questa prosa asciutta, precisa e concisa, tutta
pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto
emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il
supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il
fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del
mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le
sue origini, il mondo è quello che è, un attrito di
forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che
dicesi "fato", non è altro che la logica, il risultato
necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni,
fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo
spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è
l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato
era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto,
l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato
è scienza. - Bisogna amare -, dice Dante. - Bisogna
intendere -, dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è
il cuore: l'anima del mondo machiavellico e il cervello. Quel
mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è
essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo
significato. Non è sentimento morale, ma è
semplicemente forza o energia, la tempra dell'animo; e Cesare
Borgia è virtuoso, perchè avea la forza di operare
secondo logica, cioè di accettare i mezzi, quando aveva
accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai
una prosa che è tutta e sola cervello.
Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle
sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa
è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore
commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto
offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come
in Dante, nel Mussato, in tutt'i trecentisti. Ma ciò che
interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle
forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di
filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non
sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto
dell'azione: non è una storia drammatica. L'autore non
è sulla scena, nè dietro la scena; ma è nella
sua camera, e mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne
i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di
filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro
intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. È
l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a'
moti convulsi e nervosi delle passioni.
Ne' Discorsi ci è maggior vita
intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna, per
attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno
a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno,
ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia
il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne
spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento
insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio
intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che
a' volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una schiera
ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori, a turbarvi
l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della
produzione tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti
annunzia la fermentazione come avviene talora anche a' più
grandi pensatori. È l'intelletto pieno di gioventù e
di freschezza, tranquillo nella sua forza, e in sospetto di tutto
ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti
paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni, tutto
è sbandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e
generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate
da una logica inflessibile. Tutto è profondo, ed è
così chiaro e semplice, che ti par superficiale.
Il fondamento de' Discorsi è questo, che
gli uomini "non sanno essere nè in tutto buoni, nè
in tutto tristi", e perciò non hanno tempra logica, non
hanno virtù. Hanno velleità, non hanno
volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni,
superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò "stanno"
volentieri "in sull'ambiguo", e scelgono le "vie di mezzo", e
"seguono le apparenze". Ci è nello spirito umano uno
stimolo o appetito insaziabile che lo tiene in continua opera e
produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono
tranquilli, e salgono di un'ambizione in un'altra, e prima si
difendono, e poi offendono, e più uno ha, più
desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e
ne' mezzi sono perplessi e incerti.
Quello che degl'individui, si può dire
anche dell'uomo collettivo, come famiglia, o classe. Nelle
società non ci è in fondo che due sole classi, degli
"abbienti" e de' "non abbienti", de' ricchi e de' poveri. E la
storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha.
Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono
liberi, quando hanno a fondamento l'"equalità".
Perciò libertà non può essere, dove sono
"gentiluomini" o classi previlegiate.
È chiaro che una scienza o arte politica
non è possibile, quando non abbia per base la conoscenza
della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo
come individuo e come classe. Perciò una gran parte di
questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle
plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi,
de' tedeschi, degli spagnuoli, d'individui e di popoli. Sono
ritratti finissimi per originalità di osservazione ed
evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il "carattere",
cioè quelle forze che movono individui e popoli o classi ad
operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto
di una esperienza propria e immediata; e perciò
freschissime e vive anche oggi.
Poichè il carattere umano ha questa base
comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole
ed esitante è la virtù del conseguirli, hai
disproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le
oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza
politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base
la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa
consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi
gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo.
Questo punto di vista logico, preponderante
nella storia, comunica all'esposizione una calma intellettuale
piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il
cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa, e
più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che
l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello che
vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e
dalle sue passioni: com'è proprio del volgo.
Un'applicazione di questa implacabile logica
è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per
fraude o per forza tolgono la libertà a' popoli. Ma, avuto
lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo
non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del
principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo
allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse.
Libertà non può dare, ma può dare buone leggi
che assicurino l'onore, la vita, la sostanza de' cittadini. Dee
mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in
freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi,
non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli, "non ingannato
da loro, ma ingannando loro". Come stanno alle apparenze, il
principe dee darsi tutte le buone apparenze, e non volendo essere,
parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e
degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli
uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in
loro ha più efficacia è la paura: perciò il
principe miri a farsi temere più che amare. Soprattutto
eviti di rendersi odioso o spregevole.
Chi legge il trattato De regimine principum di
Egidio Colonna vi troverà un magnifico mondo etico, senza
alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del
Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato
sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è come
natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non
secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che
gli si dee domandare non è se quello che egli fa sia buono
o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra'
mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come
forza, ma dalla forza come intelligenza. L'Italia non ti potea
dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo
logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto;
e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato
dalle passioni e dalle immaginazioni.
Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto
punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà
intellettuale, cioè la precisione dello scopo e la
virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca
e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o
estranei. La chiarezza dell'intelletto non intorbidato da elementi
soprannaturali o fantastici o sentimentali è il suo ideale.
E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui
che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi
istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e
se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la
voce e protestare in nome del genere umano. Veggasi il capitolo
decimo, una delle proteste più eloquenti che sieno uscite
da un gran cuore. Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è
senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La
responsabilità morale è nello scopo, non è
ne' mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel
non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza.
Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per
fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della
tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice
che pur bisogna andare.
Quando Machiavelli scrivea queste cose,
l'Italia si trastullava ne' romanzi e nelle novelle, con lo
straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno
disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo
straniero, a tutti "puzzava il barbaro dominio"; ma erano
velleità. E si comprende come il Machiavelli miri
principalmente a ristorare la tempra attaccando il male nella sua
radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà,
virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si
rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica
la tempra anche nel male. Innanzi a lui è più uomo
Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè
destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di
galantuomo, ma "anima sciocca", che per la sua incapacità e
la sua fiacchezza perdette la repubblica.
Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo
spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base
della vita l'essere "uomo", iniziando l'età virile della
forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico
dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era
appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e
senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia,
era ridicolo per questo, che si presentava all'immaginazione come
un esercizio incomposto di una forza gigantesca senza
serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta
la forza ne' fini più seri e più frivoli: ciò
che rende così comici Morgante, Mandricardo, Fracasso.
Ci erano certo i fini cavallereschi, come la
tutela delle donne, la difesa degli oppressi, ma che parevano a
quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che
quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire
di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano quello che
Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per
una spada e uno scudo quello avea fatto per impossessarsi di lei:
- Non fu amore che ti mosse, "fu naturale ferita di core" - Lo
spirito italiano adunque da una parte metteva in caricatura il
medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra
gittava la base di una nuova età su questo principio
virile, che la forza è intelligenza, serietà di
scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò
che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva
l'Europa di un secolo.
Ma in Italia c'era l'intelligenza e non ci era
la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di
potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta,
svegliatissima, ma astratta, una logica formale nella piena
indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come
l'arte per l'arte. Nella coscienza non ci era più uno
scopo, nè un contenuto. E quando la coscienza è
vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca anche
nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello
spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani
era più facile ridere delle forze indisciplinate che
disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che
mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro
superiorità intellettuale e della loro decadenza morale.
Mancava non la forza fisica, e non il coraggio che ne è la
conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad
una idea, e risoluti a vivere e a morire per quella.
Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di
questa decadenza, o, com'egli diceva, "corruttela":
"Qui, - scrive - è virtù grande
nelle membra, quando la non mancasse ne' capi. Specchiatevi ne'
duelli e ne' congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano
superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno."
Pure l'Italia era corrotta, perchè
difettiva di forze morali, e perciò di un degno scopo, che
riempisse di sè la coscienza nazionale Di lui è
questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i
danari, nè le fortezze, nè i soldati, ma le forze
morali, o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di
quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento
religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero
era il comento:
"La ... religione, se ne' princìpi della
repubblica cristiana si fosse mantenuta secondo che dal fondatore
di essa fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche
più felici e più unite ch'elle non sono. Nè
si può fare altra maggiore coniettura della declinazione
d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono
più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione
nostra, hanno meno religione. Chi considerasse i fondamenti suoi e
vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli,
giudicherebbe esser propinquo o la rovina o il flagello."
Certo, non è ufficio grato dire dolorose
verità al proprio paese, ma è un dovere, di cui
l'illustre uomo sente tutta la grandezza:
"Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia
divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di
biasimare i tempi suoi."
Per lui è questo una sacra
missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta
la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in
Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' Franchi,
il regno de' Turchi, quello del soldano, e le geste della "setta
saracina", e le virtù "de' popoli della Magna" al tempo
suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in
gente e vi mostra la sua virtù. E quando gitta l'occhio
sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle
pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di
Venezia, di altre città italiane in tanto fiorire degli
Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli
sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e
stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare
ufficio d'uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà
alle sue parole una grande elevatezza morale:
"Se la virtù che allora regnava e il
vizio che ora regna non fossero più chiari del sole, andrei
nel parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa sì
manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi
tempi, acciocchè gli animi de' giovani che questi miei
scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar
quelli... Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel
bene, che per la malignità dei tempi e della fortuna non ha
potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, sendone
molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa
operarlo."
Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di
Dante.
Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con
severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che
ha scritto. Nè è più indulgente verso i
principi:
"Questi nostri principi, che erano stati molti
anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la
fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne'
tempi quieti pensato che possono mutarsi, ... quando poi vennero i
tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi."
Degli avventurieri scrive:
"Il fine delle loro virtù è stato
che [Italia] è stata corsa da Carlo, predata da Luigi,
forzata da Ferrando e vituperata da' svizzeri; ... tanto che essi
han condotto Italia schiava e vituperata."
Nè è meno severo verso i gentiluomini, avanzi
feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura:
"Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi
vivono de' proventi delle loro possessioni abbondantemente,
senz'avere alcuna cura o di coltivare o di alcuna altra necessaria
fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni provincia: ma
più perniciosi sono quelli che oltre alle predette fortune
comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di
queste due sorte di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra
di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle
provincie non è stato mai alcuno vivere politico,
perchè tali generazioni di uomini sono nemici di ogni
civiltà."
Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine
dell'uomo è il lavoro, e che il maggior nemico della
civiltà è l'ozio: principio che ha gittato
giù i conventi, ed ha rovinato dalla radice non solo il
sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale,
fondato su questo fatto: che l'ozio de' pochi vivea del lavoro de'
molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota
tutte le cause della decadenza italiana, potea ben dire,
accennando a Savonarola:
"Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu
lecito a pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne
erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano
già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati."
Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna. Anche
allora de' mali d'Italia accagionavano la mala sorte. Machiavelli
scrive:
"La fortuna dimostra la sua potenza, dove non
è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta i suoi
impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini e i ripari a
tenerla. E se voi considererete l'Italia che è la sede di
queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete
essere una campagna senza argini e senza alcun riparo."
Essendo l'Italia in quella corruttela,
Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che come
Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a
riordinare uno Stato si richieda l'opera di un solo, a governarlo
l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un
dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede
altro scampo che nella dittatura:
"Cercando un principe la gloria del mondo,
dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non
per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come
Romolo."
Di Cesare scrive un giudizio originale rimasto celebre:
"Nè sia è alcuno che s'inganni
per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli
scrittori; perchè questi che lo lodano sono corrotti dalla
fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale,
reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori
pèarlassero liberamente di lui. Ma chi vuol conoscere
quello che gli scrittori liberi ne direbbero, vegga quello che
dicono di Catilina. E tanto è più detestabile
Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha
fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga pure con
quante laudi celebrano Bruto; talchè non potendo biasimare
quello per la sua potenza, e' celebrano il nimico suo... E
conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia, il
mondo abbia con Cesare."
Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con
la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia
ordinarlo:
"Considerino quelli a chi i cieli dànno
tale occasione, come sono loro proposte due vie: l'una che li fa
vivere sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi; l'altra li fa
vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di se una
sempiterna infamia."
Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo,
che sani l'Italia dalle sue ferite, "e ponga fine ... a' sacchi di
Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la
guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo
infistolite". È l'idea tradizionale del Redentore o del
Messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro. Se non
che il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo,
perchè la sua Italia era il giardino dell'impero; dove il
salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano,
perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto
ciò che era fuori di lei era straniero, barbaro,
"oltramontano". Chi vuol vedere il progresso dello spirito
italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica
Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno
ne' concetti e nella forma. L'idea del Machiavelli riuscì
un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile
assegnarne le cagioni. "Patria", "libertà", "Italia",
"buoni ordini", "buone armi", erano parole per le moltitudini,
dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione.
Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra
ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate
dagl'interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno
patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva
la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli
stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e de'
modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la
sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani, perduta
libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi per bocca
de' loro poeti signori del mondo, e a ricordare le avite glorie.
Odio contro gli stranieri ce ne era, ed anche buona volontà
di liberarsene. Ma ci era così poca fibra, che di una
redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso
Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di
serio per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un
magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del
suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un
nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono
illusioni. Vedeva l'Italia un po' a traverso de' suoi
desidèri. Il suo onore, come cittadino, e di avere avuto
queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di
avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della
società moderna e della nazione italiana, destinati a
svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale
egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la
verità del futuro.
Non è maraviglia che il Machiavelli con
tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione abbia
avuto illusioni, perchè nella sua natura ci entrava molto
del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un
mugnaio, con due fornaciari a "picca" e a "tric trac":
"E ... nascono molte contese e molti dispetti
di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte per
un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San
Casciano."
Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico
nel comento appostovi:
"Rinvolto in quella viltà, traggo il
cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia
sorte, sendo contento che mi calpesti per quella via, per vedere
se la se ne vergognasse."
Vedilo tutto solo pel bosco con un Petrarca o
con un Dante "libertineggiare" con lo spirito, fantasticare,
abbandonato alle onde dell'immaginazione.
"Venuta la sera, mi ritorno a casa
ed entro nello scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste
contadina piena di fango e di loto, e mi metto abiti regali e
curiali, e vestito decentemente entro nelle antiche corti degli
antichi uomini; da' quali ricevuto amorevolmente, mi pasco del
cibo che solum è mio; e non mi vergogno di parlar con loro
e domandarli delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi
rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia,
sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi
sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro."
Quel "trasferirsi in loro", quel
"libertineggiare" sono frasi energiche di uno spirito
contemplativo, estatico, entusiastico. Ci è una parentela
tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo
de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa
della "divina Commedia", e cerca la commedia in questo mondo.
Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito,
poetica e divinatrice. Ecco: il principe leva la bandiera, grida:
- Fuori i barbari! - A modo di Giulio. Il poeta è
lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione:
"Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli
gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe?
quale italiano gli negherebbe l'ossequio?"
E finisce co' versi del Petrarca:
Virtù contra al furore
prenderà l'armi, e fia il combatter
corto:
chè l'antico valore
negl'italici cor non è ancor morto.
Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine
di un mondo morale e civile, e di un popolo virtuoso e
disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa
eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo
poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo
è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte
parti a' suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non
è l'entusiasmo, è l'ironia. La sua aria beffarda
congiunta con la sagacia dell'osservazione lo chiariscono uomo del
Risorgimento De' principi ecclesiastici scrive:
"Costoro soli hanno Stati e non gli difendono,
hanno sudditi e non gli governano, e gli Stati per essere indifesi
non sono lor tolti, ed i sudditi per non essere governati non se
ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro.
... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente
umana non aggiunge, lascerò il parlarne; perchè,
essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo
temerario e presuntuoso il discorrerne."
In tanta riverenza di parole non è
difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio
ironico che trovi ne' contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti
per l'originalità e vivacità dell'osservazione. De'
francesi e spagnuoli scrive:
"Il francese ruberia con l'alito, per
mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi ha
rubato: natura contraria dello spagnuolo, che di quello che ti
ruba, mai ne vedi nulla."
Da questo profondo ed originale talento di
osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola,
l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi
disinganni.
Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si
era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scrivea
per la corte di Ferrara; il cardinale di Bibbiena scrivea per le
corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta
magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano
fanciulli.
"Fu pur troppo nuova cosa, - scrive il
Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella
gravità, quelli gesti così severi, [simular]
parasiti e ciò che fece mai Menandro."
Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o
intromesse erano le "moresche", balli mimici. Le decorazioni
magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino
vedevi
"un tempio, ... tanto ben finito, -
dice il Castiglione - che non saria possibile a credere che fosse
fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie
bellissime: finte le finestre di alabastro, tutti gli architravi e
le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino, ... figure intorno
tonde finte di marmo, colonnette lavorate... Da un de' capi era un
arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la storia
delli tre Orazi, bellissima... In cima dell'arco era una figura
equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che
ferìa con un'asta un nudo, che gli era a' piedi."
L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue
arti, architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte
nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una "moresca di
Iasón" o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno,
un carro di Giunone. La prima intromessa è così
descritta dal Castiglione:
"La prima fu una moresca di Iasón, il
quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica,
bello, con la spada e una targa bellissima dall'altro furon visti
in un tratto due tori tanto simili al vero, che alcuni
pensàrno che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca.
A questi si accostò il buon Iasón, e feceli arare,
posto loro il giogo e l'aratro, e poi seminò i denti del
dracone: e nacquero appoco appoco dal palco uomini armati
all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi
ballarono una fiera moresca, per ammazzare Iasón; e poi
quando furono all'entrare, si ammazzavano ad uno ad uno, ma non si
vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e
subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente, e questo era il Moro, e questa fu la prima
intromessa."
Finita la commedia nacque sul palco all'improvviso un Amorino, che
dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse.
Poi
"si udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono
una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad
Amore: e così fu finita la festa, con grande satisfazione e
piacere di chi la vide."
dice sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe
non piccola parte ad ordinarla.
Cosa era questa Calandria, nella cui
rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed
eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile di
Calandrino, il marito sciocco, motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca
il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi.
L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di
figura, che vestiti or da uomo, or da donna generano equivoci
curiosissimi. Dov'è lo sciocco ci è anche il furbo,
e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa
il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni.
Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio, il
pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come
si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del
Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno.
Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche
novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto
è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e
del Lasca, l'alito di Lorenzo de' Medici. È uno sguardo
allegro e superficiale gittato sul mondo. I caratteri vi sono
appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza
sviluppo, più simili a' balli mimici delle intromesse che a
vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero
tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la loro vita fosse
esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata
tutta nelle gole de' cantanti e nelle gambe delle ballerine.
Queste erano le commedie dette "d'intreccio", sullo stesso stampo
delle novelle.
A prima vista ti pare alcuna cosa di simile la
Mandragola. Anche ivi è grande varietà d'intreccio,
con accidenti i più comici e più strani. Ma niente
è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia,
come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco
di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono
condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è
perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il
protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino
o Calandro è il dottor Nicia, uomo istrutto e che sa di
latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina di
lui, ma più pratica del mondo. Ci è già qui
un concetto assai più profondo che non è in
Calandro: si sente il gran pensatore. L'obbiettivo dell'azione
comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna,
vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con
l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia
romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e
lascia Parigi, e torna in Firenze sua patria, risoluto di farla
sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il
mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto
Nicia.
Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver
commedie?
Scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare il suo tristo tempo più soave;
perchè altrove non ave
dove voltare il viso;
chè gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altre virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.
Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di
malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e
Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore, il
cardinale da Bibbiena, "assassinato di amore", e il Bembo
esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolani e
l'altro la Calandria, e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo,
consigliando, e non udito e non curato, fece come gli altri,
scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i
cardinali.
Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa
all'impresa Ligurio, un parasito che usava in casa Nicia. Lo
sciocco è Nicia, il furbo è Ligurio, l'amico di
casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa
movere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro
carattere, ciò che li move.
Ligurio è un essere destituito d'ogni
senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha
bisogno di essere Iago, perchè Nicia non è Otello. E
un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe
ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo d'uomo che
abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è
più allegro e più spiritoso, perciò
più tollerabile. Ciò che move Ligurio e gli aguzza
lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma
questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura
ti riesce volgare e fredda.
Un altro associato di Callimaco è il suo
servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato.
Ode tutto, vede tutto, capisce tutto, ed ha aria di non udire, non
vedere e non capire: fa l'asino in mezzo a' suoni. Ma questo lato
comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo.
Ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria.
Colui che è dietro la scena e fa ballare
i suoi figurini è Ligurio. E sembra che l'ambizione di
questo furfante sia di nascondere sè, e mettere in vista
tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri
nella sua opera, e perdi lui di vista.
Callimaco è un innamorato: per aver la
sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata
sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i delirii. Non è
amore petrarchesco, e non è cinica volgarità:
è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una
esagerazione e una bonomia che lo rende comico.
"... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su;
perchè d'ogni parte m'assalta tanto desio d'essere una
volta con costei, ch'io mi sento dalle piante de' piè al
capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono,
il cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la
lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi
gira."
Ma queste sono figure secondarie. L'interesse
è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco,
sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole
dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale.
L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra
il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi
più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità
è accompagnata con tanta prosunzione di saviezza e con
tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce.
E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre
la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle
ultime scene ci è una forza e originalità comica che
ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno.
Il difficile non era gabbare Nicia, ma
persuadere Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a
Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate
profondità. Gl'istrumenti adoperati a vincer Lucrezia sono
il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza
superstiziosa dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare,
qui è terribilmente ignudo, scopre senza pietà quel
putridume Sostrata, la madre, in poche pennellate è
ammirabilmente dipinta. È una brava donna, ma di poco
criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore.
Alle ragioni della figliuola risponde: - Io non ti so dire tante
cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti
dirà, e farai quello che tu di poi sarai consigliata da
lui, da noi e da chi ti vuol bene -. E non si parte mai di
là, è la sua idea fissa, la sua sola idea: - T'ho
detto e ridicoti che se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico
di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi -. Il confessore sa
perfettamente che madre è questa. "... È ... una
bestia, - dice - e sarammi un grande aiuto a condurre Lucrezia
alle mie voglie". -
Il carattere più interessante è
fra Timoteo, il precursore di Tartufo, meno artificiato, anzi
tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del
purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega
rende poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che
non sanno mantenere la riputazione dell'immagine miracolosa della
Madonna:
"Io dissi mattutino, lessi una Vita de' santi
padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai
il velo a una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a
questi frati che la tengano pulita? E si maravigliano poi che la
divozione manca. Oh quanto poco cervello e in questi mia frati!"
Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato:
còlto sul fatto in un dialogo con una sua penitente,
pittura di costumi profonda nella sua semplicità. Sta
spesso in chiesa, perchè "in chiesa vale più la sua
mercanzia". È di mediocre levatura, buono a uccellar donne:
"... Madonna Lucrezia è savia e buona.
Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne
hanno poco cervello, e come n'e una che sappia dire due parole, e'
se ne predica; perchè in terra di ciechi chi ha un occhio
è signore."
Conosce bene i suoi polli:
"Le più caritative persone che sieno son
le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i
fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi
insieme. Ed è vero che non è il mele senza le
mosche."
Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del
mestiere con la facilità indifferente e meccanica
dell'abitudine. A Ligurio che, promettendo larga limosina, lo
richiede che procuri un aborto, risponde: - Sia col nome di Dio,
facciasi ciò che volete, e per Dio e per carità sia
fatta ogni cosa. ... Datemi ... cotesti danari, da poter
cominciare a far qualche bene -. Parla spesso solo, e si fa il suo
esame, e si dà l'assoluzione, sempre che glie ne venga
utile:
"Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da
ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa
conviene che stia segreta, perché l'importa così a
loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento."
Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia:
"Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona:
stavami nella mia cella, diceva il mio ufficio, intratteneva i
miei divoti. Capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi
fece intignere il dito in un errore, donde io vi ho messo il
braccio e tutta la persona, e non so ancora dov'io m'abbia a
capitare. Pure mi conforto che quando una cosa importa a molti,
molti ne hanno aver cura."
Questo è l'uomo, a cui la madre conduce la figliuola. Il
frate spiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa
coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della
storia sacra.
"Io son contenta, - conchiude
Lucrezia - ma non credo mai esser viva domattina".
E il frate risponde:
"Non dubitare, figliuola mia, io
pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiolo
Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a
questo misterio, che si fa sera. - Rimanete in pace, padre -"
dice la madre, e la povera Lucrezia, che non è ben
persuasa, sospira:
"Dio m'aiuti e la nostra Donna che
non càpiti male".
Quel fatto il frate lo chiama un "misterio", e il mezzano è
l'angiol Raffaello!
Queste cose movevano indignazione in Germania e
provocavano la Riforma. In Italia facevano ridere. E il primo a
ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso
dappertutto e così ordinario che se ne ride, è
cancrena, e non ha rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era
buffoneria, passatempo. Nel riso di Machiavelli ci è alcun
che di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura, e nuoce
all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con
Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne
sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca,
volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito, non
è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici.
Lo stile nudo e naturale ha aria più di discorso che di
dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore
e ritrattista.
Appunto perciò la Mandragola è
una commedia che ha fatto il suo tempo. È troppo
incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di
più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle
impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La
depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e
sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue: non
possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti
lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua
grazia, e mi assimiglia piuttosto un anatomico, che nuda le carni
e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione non ci
è il riso e non ci è l'indignazione al cospetto di
Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale
ritrae il principe, o l'avventuriere o il gentiluomo. Sono come
animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e
descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle
impressioni.
La Mandragola è la base di tutta una
nuova letteratura. È un mondo mobile e vivace, che ha
varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo
governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si
nascondono le più profonde combinazioni della vita
interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali,
inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi, per
indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una
conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere,
nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui
vince. Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono
detronizzati. Succede il carattere. Quello che Machiavelli
è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte.
Si distinsero due specie di commedie,
"d'intreccio" e "di carattere". "Commedia d'intreccio" fu detta,
dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano
tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si
cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli
accidenti. Commedia di carattere fu detta, dove l'azione è
mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni
viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo
d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa povertà
d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua
commedia è una vera e propria azione, vivacissima di
movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci
stanno come forze o istrumenti, e non come fini o risultati. Il
carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non
come qualità astratta. Ciò che di più
profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più
allegre e più corpulente fino della più volgare e
cinica buffoneria, come è il "Don Cuccù", e la
"palla di aloè". Ci è lì tutto Machiavelli,
l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo
scrittoio.
Di ogni scrittore muore una parte. E anche del
Machiavelli una parte è morta, quella per la quale e venuto
a trista celebrità. È la sua parte più
grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente
è tenuta parte sua vitale, così vitale che è
stata detta il "machiavellismo" Anche oggi, quando uno straniero
vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e
di Savonarola e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo
chiamarci "figli di Machiavelli". Tra il grande uomo e noi ci
è il machiavellismo. È una parola, ma una parola
consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa
come fosse l'orco.
Del Machiavelli è avvenuto quello che
del Petrarca. Si è chiamato "petrarchismo" quello che in
lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori.
E si è chiamato "machiavellismo" quello che nella sua
dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato
quello che vi è di assoluto e di permanente. Così
è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato
solo e dal meno interessante. È tempo di rintegrare
l'immagine.
Ci è nel Machiavelli una
logica formale e c'è un contenuto.
La sua logica ha per base la serietà
dello scopo, ciò ch'egli chiama "virtù". Proporti
uno scopo, quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da
femmina. Essere uomo significa "marciare allo scopo". Ma nella
loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno
l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da
sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi
e deboli quelli che stimano le cose, come le paiono e non come le
sono: a quel modo che fa la plebe. Cacciar via dunque tutte le
vane apparenze, e andare allo scopo con lucidità di mente e
fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver
la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un
cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori
dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò a
che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo
ciò a che mira è rifare le radici alla pianta "uomo"
in declinazione. In questa sua logica la virtù è il
carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura,
l'oscillazione.
Si comprende che in questa generalità ci
è lezioni per tutti, pe' buoni e pe' birbanti, e che lo
stesso libro sembra agli uni il codice de' tiranni, e agli altri
il codice degli uomini liberi. Ciò che vi s'impara è
di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la
storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da
forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello
scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o
individuo, non è degno di questo nome, se non sia anch'esso
una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa
base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente
all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo
chiaro e serio, e con mezzi precisi.
Questo è il concetto fondamentale,
l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e
ozioso: ci è un contenuto, che abbiamo già delineato
ne' tratti essenziali.
La serietà della vita terrestre, col suo
istrumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo
principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo
morale, la nazione, col suo fattore, lo spirito o il pensiero
umano, immutabile ed immortale, col suo organismo, lo Stato,
autonomo e indipendente, con la disciplina delle forze, con
l'equilibrio degl'interessi, ecco ciò che vi è di
assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è
di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano,
ed è di base la virtù o il carattere, "agere et pati
fortia".
Il fondamento scientifico di questo
mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e
l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono
così perniciosi nella scienza, come nella vita. Muore la
scolastica, nasce la scienza.
Questo è il vero machiavellismo, vivo,
anzi giovane ancora. È il programma del mondo moderno,
sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E
sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siamo
dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla
alcuna parte dell'antico edificio. E gloria a lui, quando si
fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le
campane suonano a distesa, e annunziano l'entrata degl'Italiani a
Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il "viva"
all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli.
Scrittore, non solo profondo, ma simpatico.
Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre le
sue vere inclinazioni. Antipapale, antimperiale, antifeudale,
civile, moderno e democratico. E quando, stretto dal suo scopo,
propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi
aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi
corrotti; e se i mezzi son questi, e il mondo è fatto
così, la colpa non è mia. -
Ciò che è morto del Machiavelli
non è il sistema, è la sua esagerazione. La sua
"patria" mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe
in sè religione, moralità, individualità. Il
suo "Stato" non è contento di essere autonomo esso, ma
toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello
Stato: mancano i dritti dell'uomo. La "ragione di Stato" ebbe le
sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la "salute
pubblica" le sue mannaie. Fu stato di guerra e in quel furore di
lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo
moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte
uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del
potere civile e più tardi la libertà e la
nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi,
vogliate chiamare anche machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono
relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini
rimangono eterni. Gloria del Machiavelli è il suo
programma, e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia
indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò
conformi alla logica del mondo. Fu più facile il
biasimarli, che sceglierne altri. Dura lex, sed ita lex.
Certo, oggi il mondo è migliorato in
questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati, e
produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva
Machiavelli, allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico,
il tradimento, la frode, le sette, le congiure sono mezzi che
tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più
umani e civili, dove non sieno più possibili la guerra, il
duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la
salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni
saranno confederate, e non ci sarà altra gara che
d'industrie, di commerci e di studi.
È un bel programma. E quantunque sembri
un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce,
presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e
nell'avvenire.
Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche
da' nostri tempi. E non è co' criteri di un mondo nascosto
ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e
condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: -
Crudele è la logica della storia; ma quella è. -
Nel machiavellismo ci è una parte
variabile nella qualità e nella quantità, relativa
al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni
morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è
molto mutata, e muterà in tutto, quando la società
sia radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è
assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità
immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa
quella teoria, è questo, che i mezzi debbono avere per base
l'intelligenza e il calcolo delle forze che movono gli uomini.
È chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il
relativo, e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutt'i grandi
pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto,
anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
Il machiavellismo, in ciò che ha di
assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un
essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i
suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua
grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società.
Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze
sociali. Gl'inizi della scienza sono ritratti, discorsi,
osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza
grande, e un intelletto chiaro e libero. Questo è il
machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero
moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il
machiavellismo su' rottami del medio evo abbozza un mondo
intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti
dell'uomo politico, un mondo fondato sulla patria, sulla
nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul
lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo.
In letteratura, l'effetto immediato del
machiavellismo è la storia e la politica emancipate da
elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma
razionale; è il pensiero volto agli studi positivi
dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni
teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della
scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma
spedita e naturale della conversazione e del discorso. È
l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa
via incontriamo prima Francesco Guicciardini con tutti gli
scrittori politici della scuola fiorentina e veneta, poi Galileo
Galilei con la sua illustre coorte di naturalisti.
Francesco Guicciardini, ancorche di pochi anni
più giovane di Machiavelli e di Michelangiolo, già
non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di
una generazione più fiacca e più corrotta, della
quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse
aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero.
Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a
modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si
avvicina a' presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono
semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.
"Tre cose, - scrive - desidero vedere innanzi
alla mia morte, ma dubito, ancora che vivessi molto, non ne vedere
alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella città
nostra, Italia liberata da tutt'i barbari, e liberato il mondo
della tirannide di questi scelerati preti."
Una libertà bene ordinata,
l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del
laicato, ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento
del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta
la parte liberale e civile europea.
Si può credere che questi fossero i
desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori
platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di
quella società è il Guicciardini, che scrive:
"Conoscere non è mettere in atto". Altro è
desiderare, altro è fare. La teoria non è la
pratica. Pensa come vuoi, ma fa come ti torna. La regola della
vita è "l'interesse proprio", "il tuo particolare".
Il Guicciardini biasima "l'ambizione,
l'avarizia e la mollizie de' preti" e il dominio temporale
ecclesiastico; ama Martino Lutero, "per vedere ridurre questa
caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o
senza vizi o senza autorità"; ma "per il suo particolare"
è necessitato "amare la grandezza de' pontefici" e servire
a' preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in
molte parti; ma non ci si mescola, lui, "non combatte con la
religione, nè con le cose, che pare che dependono da Dio;
perchè questo obbietto ha troppa forza nella mente delli
sciocchi". Ama la gloria e desidera di fare "cose grandi ed
eccelse", ma a patto che non sia "con suo danno o
incomodità". Ama la patria, e, se perisce, glie ne duole,
non per lei, perchè "così ha a essere", ma per
sè, "nato in tempi di tanta infelicità". È
zelante del ben pubblico, ma "non s'ingolfa tanto nello Stato" da
mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà,
ma quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni,
perchè "mutano i visi delle persone, non le cose, e non
puoi fare fondamento sul populo", e quando la vada male, ti tocca
"la vita spregiata del fuoruscita". Miglior consiglio è
portarsi in modo che quelli che "governano non ti abbiano in
sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti". Quelli che
altrimenti fanno, sono uomini "leggieri". Molti, è vero,
gridano libertà, ma "in quasi tutti prepondera il rispetto
dell'interesse suo". Essendo il mondo fatto così, hai a
pigliare il mondo com'è, e condurti di guisa che non te ne
venga danno, anzi la maggiore comodità possibile.
Così fanno gli uomini "savi".
La corruttela italiana era appunto in questo,
che la coscienza era vuota, e mancava ogni degno scopo alla vita.
Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la
patria, la nazione, la libertà. Non ci è più
il cielo per lui, ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini
ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e
desiderabili, ma li ammette sub conditione, a patto che sieno
conciliabili col tuo "particulare", come dice, cioè col tuo
interesse personale. Non crede alla virtù, alla
generosità, al patriottismo, al sacrificio, al
disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e
mette se francamente tra questi più, che sono i savi: gli
altri li chiama "pazzi", come furono i fiorentini, che "vollero
contro ogni ragione opporsi", quando "i savi di Firenze avrebbono
ceduto alla tempesta", e intende dell'assedio di Firenze,
illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano
Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela
italiana, e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un
nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti
fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si
rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel
Guicciardini comparisce una generazione già rassegnata. Non
ha illusioni. E perchè non vede rimedio a quella
corruttela, vi si avvolge egli pure, e ne fa la sua saviezza e la
sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata
e innalzata a regola della vita.
Il dio del Guicciardini è il suo
particolare. Ed è un dio non meno assorbente che il Dio
degli ascetici, o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali
scompariscono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene
insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del
mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro
tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale
si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e
inculcata, è l'arte della vita.
Il Guicciardini si crede più savio del
Machiavelli, perchè non ha le sue illusioni. Quel venir
fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo
motto sanguinoso:
"Quanto s'ingannano coloro che ad ogni parola
allegano i romani! Bisognerebbe avere una città
condizionata com'era la loro, e poi governarsi secondo quello
esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionate
è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno
asino facesse il corso di un cavallo."
In questo concetto della vita il Guicciardini
è di così buona fede, che non sente rimorso, e non
mostra la menoma esitazione, e guarda con un'aria di
superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il
che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo,
ma "per debolezza di cervello", avendo offuscato lo spirito dalle
apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle
passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito
italiano, già adulto e progredito, che caccia via
l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo
cervello, o, come dice il Guicciardini, "ingegno positivo".
Perchè l'ingegno sia positivo si
richiede la "prudenza naturale", la "dottrina" che dà le
regole, l'"esperienza" che dà gli esempli, e il "naturale
buono", tale cioè che stia al reale, e non abbia illusioni.
E non basta. Si richiede anche la "discrezione" o il
discernimento, perchè è "grande errore parlare delle
cose del mondo indistintamente e assolutamente e per dire
così per regola, perchè quasi tutte hanno
distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si
trovano scritte in su' libri, ma bisogna lo insegni la
discrezione". Il vero libro della vita è dunque "il libro
della discrezione", a leggere il quale si richiede da natura
"buono e perspicace occhio". La dottrina sola non basta, e non
è bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni
cosa "volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo
che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri
con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi
più similitudine a una fatica di facchini che di dotti".
L'uomo positivo vede il mondo altro da quello
che "a' volgari" pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, a'
filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura, o che
non si veggono, "e dicono mille pazzie: perchè in effetti
gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha
servito e serve più a esercitare gl'ingegni che a trovare
la verità".
Questa base intellettuale è quella
medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto
e lo "speculare" o l'osservare. Nè altro è il
sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli
nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che il
Machiavelli ammette. Ma è più logico e più
conseguente. Poichè la base è il mondo com'è,
crede un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe
di cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e
vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento.
Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è
nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di
regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e
voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè
"gli uomini si riscontrano". Stai con chi vince, perchè "te
ne viene parte di lode e di premio". "Abbi appetito della roba",
perchè la ti dà riputazione, e la povertà
è spregiata. Sii schietto, perchè, "quando sia il
caso di simulare, più facilmente acquisti fede". Sii
stretto nello spendere, perchè "più onore ti fa uno
ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi". Studia
di "parere buono", perchè "il buon nome vale più che
molte ricchezze". Non meritarti nome di sospettoso, ma,
perchè più sono i cattivi che i buoni, "credi poco e
fidati poco", Questo è il succo dell'arte della vita
seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia,
come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice,
fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza, e sull'interesse
individuale. È il codice di quella borghesia italiana,
tranquilla, scettica, intelligente e positiva, succeduta a' codici
d'amore e alle regole della cavalleria.
Ma il Guicciardini con tutta la sua saviezza
trovò un altro più savio di lui, e volendo usare
Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo.
Così finì la vita, come il Machiavelli, nella
solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i
suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità,
perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua
villa d'Arcetri, usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia.
Se guardiamo alla potenza
intellettuale, è il lavoro più importante che sia
uscito da mente italiana. Ciò che lo interessa non è
la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro
esercizii rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli
altri storici. I fatti più maravigliosi o commoventi sono
da lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne
ha viste assai e non si maraviglia e non si commove più di
nulla. Non ha simpatie e antipatie, non ha tenerezze e
indignazioni, e neppure ha programmi e preconcetti intorno a'
risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo
intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non
vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. È
l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo
notate, e che in lui sono egregie, la prudenza naturale, la
dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.
Maravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non
riconoscere princìpi, nè regole assolute, e
giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua
individualità, quel complesso di circostanze sue proprie,
che lo fanno esser quello e non un altro: dov'è la vera
distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste
disposizioni è naturale che lo interessa meno la scena che
il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio
perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo della
superficie, di ciò che si vede e si dice il parere, e lo
studio dell'essere, di ciò che è al di sotto, e che
non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la
loro genesi e la loro preparazione, li vedi nascere e svilupparsi.
I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la
stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò
che l'interessa non è il carattere etico o morale di
quelli, ma la loro azione su' fatti. Il motivo determinante
è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagazione non
meno degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e
sono interessi di re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro
ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più
nobili, come la gloria, l'onore, la libertà,
l'indipendenza, fini che escono in mezzo, quando si vuol cattivare
i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una
specie di rettorica, ad usum delphini, voglio dire ad uso de'
volgari, che non guardano nel fondo, e si lasciano trarre alle
belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come
istrumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li
movono con la violenza e con l'astuzia, e li usano a' fini loro.
Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua
prosa, massime ne' Ricordi, ha la precisione lapidaria di
Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e
perfetta evidenza, che l'avvicina agli esempli più finiti
della prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la
lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad
un grado di perfezione che non è stato più avanzato.
Ma il Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento
de' fatti umani, avea de' preconcetti in letteratura, opinioni
ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo
scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la
traduzione del parlare e del discorso naturale in un certo
meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse
allora per la prima volta le sue prove. Molti uomini mediocri,
quali il Casa, o il Castiglione, o il Salviati, o lo Speroni, vi
riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed
educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua
rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri
avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici
diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le
sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta
sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E
sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue
orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione
e di sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto
di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura
solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto
come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un
corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi
recessi da un intelletto superiore.
La Storia d'Italia è in venti libri e si
stende dal 1494 al 1532 Comincia con la calata di Carlo ottavo,
finisce con la caduta di Firenze. Apparisce in ultimo, come un
funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della
Inquisizione e del Concilio di Trento. Questo periodo storico si
può chiamare la "tragedia italiana", perchè in
questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi cesse in
potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore
dell'unità e del significato di questa tragedia; e il
protagonista non è l'Italia e non è il popolo
italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità
che colpiscono gl'individui, le arsioni, le prede, gli stupri,
tutt'i mali della guerra. Avvolto fra tanti "atrocissimi
accidenti", sagacissimo a indagarne i più riposti motivi
nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli
fugge. La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e
Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di
Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia
definitivamente smembrata e soggetta, questi fatti generali
preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più
oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che
studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro
struttura interna e la loro fisiologia, che li fa essere
così o così. L'uomo vi apparisce come un essere
naturale, che operi così fatalmente come un animale,
determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua
natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale
è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente
dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo modo, lo
storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e
indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni
naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse;
anzi Malatesta è più interessante, perchè la
sua azione è meno spiegabile e attira più la sua
attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della
storia, che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero,
è determinato da motivi interni, o dal suo carattere, e si
può calcolare quello che farà e come riuscirà
quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale.
Perciò chi perde, ha sempre torto, dovendo recarne la
cagione a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle
degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa
gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di
macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe, a noi poco
interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo
l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse
è concentrato nello studio dell'ingegno.
Il Machiavelli va più in là. Egli
intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un
complesso di leggi che regolano non solo gl'individui, ma la
società e il genere umano. Perciò patria,
libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per
lui fatti non meno interessanti che le passioni, gl'interessi, le
opinioni, le forze che movono gl'individui. E se vogliamo trovare
lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo ad
imparare nelle sue opere. Indi è che, come carattere
morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie
in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là
della scorza nel fondo delle sue dottrine, e come forza
intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una
virtù sintetica, una larghezza di vista, che manca in
quello. Lui, è un punto di partenza nella storia, destinato
a svilupparsi; l'altro è un bel quadro, finito e chiuso in
sè.
XVI
PIETRO ARETINO
Il mondo teologico-etico del medio evo tocca l'estremo della sua
contraddizione in questo mondo positivo del Guicciardini, un mondo
puramente umano e naturale, chiuso nell'egoismo individuale,
superiore a tutt'i vincoli morali che tengono insieme gli uomini.
Il ritratto vivente di questo mondo nella sua forma più
cinica e più depravata è Pietro Aretino. L'immagine
del secolo ha in lui l'ultima pennellata.
Pietro nacque nel 1492 in uno spedale di Arezzo
da Tita, la bella cortigiana, la modella scolpita e dipinta da
parecchi artisti. Senza nome, senza famiglia, senza amici e
protettori, senza istruzione. "Andai alla scuola, quanto intesi la
santa croce, componendo ladramente merito scusa, e non quegli che
lambiccano l'arte de' greci e de' latini." A tredici anni
rubò la madre e fuggì a Perugia, e si allogò
presso un legatore di libri. A diciannove anni attirato dalla fama
della corte di Roma e che tutti vi si facevano ricchi, vi giunse
che non aveva un quattrino, e fu ricevuto domestico presso un
ricco negoziante, Agostino Chigi, e poco poi presso il cardinale
di San Giovanni. Cercò fortuna presso papa Giulio, e non
riuscitogli, vagando e libertineggiando per la Lombardia, da
ultimo si fe' cappuccino in Ravenna. Salito al pontificato Leone
decimo, e concorrendo a quella corte letterati, buffoni, istrioni,
cantori, ogni specie di avventurieri, gli parve lì il suo
posto, smise l'abito e corse a Roma, e vestì la livrea del
papa, divenne suo valletto. Spiritoso, allegro, libertino,
sfacciato, mezzano, in quella scuola compì la sua
educazione e la sua istruzione. Imparò a chiudere in
quattordici versi le sue libidini e le sue adulazioni e le sue
buffonerie, e ne fe' traffico e ne cavò di bei quattrini.
Ma era sempre un valletto, e poco gli era a sperare in una corte,
dove s'improvvisava in latino. Armato di lettere di
raccomandazione, va a Milano, a Pisa, a Bologna, a Ferrara, a
Mantova, e si presenta a principi e monsignori sfacciatamente, con
aria e prosunzione di letterato. Studia come una donna l'arte di
piacere, e aiuta la ciarlataneria con la compiacenza. "A Bologna
mi fu cominciato a essere donato; il vescovo di Pisa mi fe' fare
una casacca di raso nero ricamata in oro, che non fu mai la
più superba; presso il signor Marchese di Mantova sono in
tanta grazia, che il dormir e il mangiar lascia per ragionar meco,
e dice non avere altro piacere, ed ha scritto al cardinale cose di
me che veramente onorevolmente mi gioveranno, e son io regalato di
trecento scudi. Tutta la corte mi adora, e par beato chi
può avere uno de' miei versi, e quanti mai feci, il signore
li ha fatti copiare, e ho fatto qualcuno in sua lode. E sto qui, e
tutto il giorno mi dona, e gran cose, che le vedrete ad Arezzo."
Gli dànno del messere e del signore; il valletto è
un gentiluomo, e torna a Roma "tra paggi di taverna, e vestito
come un duca", compagno e mezzano de' piaceri signorili, e con a
lato gli Estensi e i Gonzaga che gli hanno familiarmente la mano
sulla spalla. Continua il mestiere così bene incominciato.
Una sua "laude" di Clemente settimo gli frutta la prima pensione;
sono versacci:
Or queste sì che saran lodi, queste
lodi chiare saranno, e sole e vere,
appunto come il vero e come il sole.
Il suo spirito, il suo umore gioviale, l'estro libidinoso gli
acquistarono tanta riputazione, che fuggito di Roma per i suoi
sedici sonetti illustrativi de' disegni osceni di Giulio Romano,
fu cercato come un buon compagnone da Giovanni de' Medici, capo
delle Bande Nere, detto il gran diavolo. Aveva poco più che
trent'anni. Giovanni e Francesco primo se lo disputano. Giovanni
voleva fare signore di Arezzo il suo compagno di orgie e di
libidini, quando una palla tedesca gli troncò il disegno e
la vita. Pietro avea coscienza oramai della sua forza. E lasciando
le corti, riparò in Venezia come in una rocca sicura, e di
lì padroneggiò l'Italia con la penna. Udiamo lui
stesso, come si dipinge nelle sue lettere: "Dopo ch'io mi rifugiai
sotto l'egida della grandezza e delle libertà veneziane,
non ho più nulla da invidiare. Nè il soffio
dell'invidia, nè l'ombra della malizia non potranno
offuscare la mia fama, nè togliere la possanza della mia
casa. - Io sono un uomo libero per la grazia di Dio. - Non mi
rendo schiavo de' pedanti. - Non mi si vede percorrere le tracce
nè del Petrarca nè di Boccaccio. Bastami il genio
mio indipendente. Ad altri lascio folleggiar la purezza dello
stile, la profondità del pensiero; ad altri la pazzia di
torturarsi, di trasformarsi, mutando sè stessi. Senza
maestro, senz'arte, senza modello, senza guida, senza luce, io
avanzo, e il sudore de' miei inchiostri mi fruttano la
felicità e la rinomanza. Che avrei di più a
desiderare? - Con una penna e qualche foglio di carta me ne burlo
dell'universo. Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana;
ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l'anima di un re. Io
vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice. -
Le mie medaglie sono composte d'ogni metallo e di ogni
composizione. La mia effigie è posta in fronte a' palagi.
Si scolpisce la mia testa sopra i pettini, sopra i tondi, sulle
cornici degli specchi, come quella di Alessandro, di Cesare, di
Scipione. Alcuni vetri di cristallo si chiamano vasi aretini. Una
razza di cavalli ha preso questo nome, perchè papa Clemente
me ne ha donato uno di quella specie. Il ruscello che bagna una
parte della mia casa è denominato l'Aretino. Le mie donne
vogliono esser chiamate Aretine. Infine si dice stile aretino. I
pedanti possono morir di rabbia prima di giungere a tanto onore."
E non erano ciarle. L'Ariosto dice di lui: "il flagello de'
principi, il divin Pietro Aretino". Un pedante, parlando delle
lettere dell'Aretino e del Bembo, diceva al Bembo: "Chiameremo voi
il nostro Cicerone, e lui il nostro Plinio." "Purchè Pietro
se ne contenti", rispose il Bembo. E non se ne contentava. A
Bernardo Tasso, che vantava le sue lettere, scrive: "Stimando di
troppo le proprie vostre opere, e non abbastanza le altrui, voi
avete messo in compromesso il vostro giudizio. Nello stile
epistolare voi siete l'imitator mio, e voi camminate dietro di me
a piè nudi. Voi non potete imitare nè la
facilità delle mie frasi, nè lo splendore delle mie
metafore. Son cose che si veggono languire nelle vostre carte, e
che nascono vigorose nelle mie. Convengo che voi avete qualche
merito, una certa grazia di stile angelico e di armonia celeste,
che risuona gradevolmente negl'inni, nelle odi e negli epitalami.
Ma tutte queste dolcitudini non convengono alle Epistole, che
hanno d'uopo di espressione e di rilievo, non di miniatura e di
artifizio. È colpa del vostro gusto che preferisce il
profumo de' fiori al sapore de' frutti. Ma non sapete chi son io?
Non sapete quante lettere ho pubblicate, che sonosi trovate
maravigliose? Io non mi starò qui a fare il mio elogio, il
quale finalmente non sarebbe che verità. Non vi dirò
che gli uomini di merito dovrebbero riguardare siccome un giorno
memorabile il dì della mia nascita: io che, senza seguire e
senza servir le corti, ho costretto tutto quanto vi ha di grande
sulla terra, duchi, principi e monarchi, a diventar tributarii del
mio ingegno! Per quanto è lungo e largo il mondo, la fama
non si occupa che di me. Nella Persia e nell'India trovasi il mio
ritratto e vi è stimato il mio nome. Finalmente io vi
saluto, e statevi ben certo, che se molte persone biasimano il
vostro modo di scrivere, ciò non è per invidia - e
se qualche altre lo lodano, egli e per compassione." Tale si
teneva e tale lo teneva il mondo. Fu creduto un grand'uomo sulla
sua fede. Non mirava alla gloria; dell'avvenire se ne infischiava;
voleva il presente. E l'ebbe, più che nessun mortale.
Medaglie, corone, titoli, pensioni, gratificazioni, stoffe d'oro e
d'argento, catene e anella d'oro, statue e dipinti, vasi e gemme
preziose, tutto ebbe che la cupidità di un uomo potesse
ottenere. Giulio III lo nominò cavaliere di San Pietro. E
per poco non fu fatto cardinale. Avea di sole pensioni
ottocentoventi scudi. Di gratificazioni ebbe in diciotto anni
venticinquemila scudi. Spese durante la sua vita più di un
milione di franchi. Gli vennero regali fino dal corsaro Barbarossa
e dal sultano Solimano. La sua casa principesca è affollata
di artisti, donne, preti, musici, monaci, valletti, paggi, e molti
gli portano i loro presenti, chi un vaso d'oro, chi un quadro, chi
una borsa piena di ducati, e chi abiti e stoffe. Sull'ingresso
vedi un busto di marmo bianco coronato di alloro: è Pietro
Aretino. Aretino a dritta, Aretino a manca; guardate nelle
medaglie d'ogni grandezza e d'ogni metallo sospese alla
tappezzeria di velluto rosso: sempre l'immagine di Pietro Aretino.
Morì a sessantacinque anni, il 1557, e di tanto nome non
rimase nulla. Le sue opere poco poi furono dimenticate, la sua
memoria è infame; un uomo ben educato non pronunzierebbe il
suo nome innanzi a una donna.
Chi fu dunque questo Pietro, corteggiato dalle
donne, temuto dagli emuli, esaltato dagli scrittori, così
popolare, baciato dal papa, e che cavalcava a fianco di Carlo
quinto? Fu la coscienza e l'immagine del suo secolo. E il suo
secolo lo fece grande.
Machiavelli e Guicciardini dicono che
l'appetito è la leva del mondo. Quello che essi pensarono,
Pietro fu.
Ebbe da natura grandi appetiti e forze
proporzionate. Vedi il suo ritratto, fatto da Tiziano. Figura di
lupo che cerca la preda. L'incisore gli formò la cornice di
pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo assai simile di
struttura sta sopra alla testa dell'uomo. Occhi scintillanti,
narici aperte, denti in evidenza per il labbro inferiore
abbassato, grossissima la parte posteriore del capo, sede degli
appetiti sensuali, verso la quale pare che si gitti la testa,
calva nella parte anteriore. "Figlio di cortigiana, anima di re",
dice lui. Legatore di libri, valletto del papa, miserie! I suoi
bisogni sono infiniti. Non gli basta mangiare; vuole gustare; non
gli basta il piacere; vuole la voluttà; non gli basta il
vestire; vuole lo sfarzo; non gli basta arricchire; vuole
arricchire gli altri, spendere e spandere. E a chi se ne
maraviglia risponde: "Ebbene, che farci a questo? Se io son nato
per vivere così, chi m'impedirà di vivere
così?" I suoi sogni dorati sono vini squisiti, cibi
delicati, ricchi palagi, belle fanciulle, belli abiti. Di
ciò che appetisce, ha il gusto. E nessuno è giudice
più competente in fatto di buoni bocconi e di godimenti
leciti e illeciti. È in lui non solo il senso del piacere,
ma il senso dell'arte. Cerca ne' suoi godimenti il magnifico, lo
sfarzoso, il bello, il buon gusto, l'eleganza.
Ed ha forze proporzionate a' suoi appetiti, un
corpo di ferro, una energia di volontà, la conoscenza e il
disprezzo degli uomini, e quella maravigliosa facoltà che
il Guicciardini chiama discrezione, il fiuto, il da fare caso per
caso. Sa quello che vuole. La sua vita non è scissa in
varie direzioni: uno è lo scopo, la soddisfazione de' suoi
appetiti, o, come dice il Guicciardini, il suo particolare. Tutti
i mezzi sono eccellenti, e li adopera secondo i casi. Ora è
ipocrita, ora è sfacciato. Ora è strisciante, ora
è insolente. Ora adula, ora calunnia. La credulità,
la paura, la vanità, la generosità dell'uomo sono in
mano sua un ariete per batterlo in breccia ed espugnarlo. Ha tutte
le chiavi per tutte le porte. Oggi un uomo simile sarebbe detto un
camorrista, e molte sue lettere sarebbero chiamate ricatti. Il
maestro del genere è lui. Specula soprattutto sulla paura.
Il linguaggio del secolo è officioso, adulatorio; il suo
tono è sprezzante e sfrontato. Le calunnie stampate erano
peggio che pugnali; cosa stampata voleva dir cosa vera; e lui
mette a prezzo la calunnia, il silenzio e l'elogio. Non gli
spiacea aver nome di mala lingua, anzi era parte della sua forza.
Francesco primo gl'inviò una catena d'oro composta di
lingue incatenate e con le punte vermiglie, come intinte nel
veleno, con sopravi questo esergo: "Lingua eius loquetur
mendacium". Aretino gli fa mille ringraziamenti. Quando non gli
conviene dir male delle persone, dice male delle cose, tanto per
conservarsi la reputazione, come sono le sue intemerate contro gli
ecclesiastici, i nobili, i principi. Così l'uomo abbietto
fu tenuto un apostolo, e fu detto flagello de' principi. Talora
trovò chi non aveva paura. Achille della Volta gli die' una
pugnalata. Nicolò Franco, suo segretario, gli scrisse carte
di vitupèri. Pietro Strozzi lo minaccia di ucciderlo, se si
attenta a pronunziare il suo nome. È bastonato,
sputacchiato. È lui allora che ha paura, perchè era
vile e poltrone. Sir Howel lo bastona, ed egli loda il Signore che
gli accorda la facoltà di perdonare le ingiurie. Giovanni,
il gran diavolo, morendo gli disse: "Ciò che più mi
fa soffrire è vedere un poltrone." Ma in generale amavano
meglio trattarlo come Cerbero, e chiudergli i latrati, gittandogli
un'offa. Le sue lettere sono capilavori di malizia e di
sfrontatezza. Prende tutte le forme e tutti gli abiti, dal buffone
e dal millantatore sino al sant'uomo calunniato e disconosciuto.
Come saggio, ecco una sua lettera alla piissima e petrarchesca
marchesa di Pescara, che lo aveva esortato a cangiar vita e a
scrivere opere pie:
"Confesso che non sono meno utile al mondo e
meno gradevole a Gesù, spendendo le mie veglie per cose
futili, che se le impiegassi in opere di pietà. Ma quale ne
è la causa? La sensualità altrui e la mia
povertà. Se i principi fossero così divoti, come io
sono bisognoso, la mia penna non traccerebbe che miserere.
Illustrissima madonna, tutti al mondo non possedono l'ispirazione
della grazia divina. Il fuoco della concupiscenza divora la
maggior parte; ma Voi, voi non ardete che di fiamma angelica. Per
noi musiche e commedie sono quel che è per voi la preghiera
e la predica. Voi non rivolgereste gli occhi per vedere Ercole
nelle fiamme o Marsia scorticato; noi altrettanto per non
riguardare san Lorenzo sulla graticola o san Bartolomeo spoglio
della sua pelle. Vedete un po': io ho un amico, per nome Brucioli,
il quale dedicò la sua Bibbia al Re Cristianissimo. Dopo
cinque anni non ne ebbe tampoco risposta. La mia commedia, invece,
la Cortigiana, acquistossi dal medesimo re una ricca collana. Di
guisa che la mia cortigiana si sentirebbe tentata a beffarsi del
Vecchio Testamento, se non fosse cosa troppo indecorosa.
Accordatemi mille scuse, Signora, per le baie che vi ho scritte,
non per malizia, ma per vivere. Che Gesù v'ispiri di farmi
tenere da Sebastiano da Pesaro il resto della somma, sulla quale
ho già ricevuto trenta scudi, e di cui vi sono
anticipatamente debitore."
All'ultimo una stoccata, come si direbbe oggi.
È una lettera tirata giù di un fiato da un genio
infernale. Con che bonomia si beffa della pia donna, avendo aria
di farne l'elogio! Con che cinismo proclama le sue speculazioni
sulla libidine e sulla oscenità umana, come fossero la cosa
più naturale di questo mondo! Specula pure sulla divozione,
e con pari indifferenza scrive libri osceni e vite di santi, il
Ragionamento della Nanna e la Vita di santa Caterina da Siena, la
Cortigiana errante e la Vita di Cristo. E perchè no? Posto
che traeva guadagno di qua e di là. Scrisse di ogni
materia, e in ogni forma, dialoghi, romanzi, epopee, capitoli,
commedie, e anche una tragedia, l'Orazia. Immagina quali eroi
possono essere gli Orazii, quale eroina l'Orazia, e che specie di
popolo romano può uscire dall'immaginazione di Pietro. Pure
è il solo lavoro che abbia intenzioni artistiche, fatto
ch'era già vecchio e sazio e cupido più di gloria
che di danari. Gli riuscì una freddura, un mondo astratto e
pedestre, di cui non comprese la semplicità e la grandezza.
Negli altri suoi lavori senti lui nella verità della sua
natura, dedito a piacere al suo pubblico, a interessarlo, a
guadagnarselo, a fare effetto. Ci è innanzi a lui una
specie di mercato morale: conosce qual è la merce
più richiesta, più facile a spacciare e a più
caro prezzo. Si fa una coscienza e un'arte posticcia, variabile
secondo i gusti del suo padrone, il pubblico. Perciò fu lo
scrittore più alla moda, più popolare e meglio
ricompensato. I suoi libri osceni sono il modello di un genere di
letteratura, che sotto nome di racconti galanti invase l'Europa.
L'oscenità era una salsa molto ricercata in Italia dal
Boccaccio in poi; qui è essa l'intingolo. Le vite di santi
sono veri romanzi, dove ne sballa di ogni sorta, solleticando la
natura fantastica e sentimentale delle pinzochere. Fabbro di versi
assai grossolano, senti ne' suoi sonetti e capitoli la bile e la
malignità congiunta con la servilità. Così,
alludendo alla munificenza di Francesco primo, dice a Pier Luigi
Farnese:
Impara tu, Pier Luigi ammorbato,
impara, ducarel da tre quattrini,
il costume da un Re tanto onorato.
Ogni signor di trenta contadini
e d'una bicoccazza usurpar vuole
le cerimonie de' culti divini.
Pietro non è un malvagio per natura. È malvagio per
calcolo e per bisogno. Educato fra tristi esempi, senza religione,
senza patria, senza famiglia, privo di ogni senso morale, con i
più sfrenati appetiti e con molti mezzi intellettuali per
soddisfarli, il centro dell'universo è lui, il mondo pare
fatto a suo servizio. Su questa base, la sua logica e uguale alla
sua tempra. Ha una chiara percezione de' mezzi, e nessuna
esitazione o scrupolo a metterli in atto. E non lo dissimula, anzi
se ne fa gloria, è lì la sua forza, e vuole che
tutti ne sieno persuasi. Il mondo era un po' a sua immagine, molti
erano che avrebbero voluto imitarlo, ma non avevano il suo
ingegno, la sua operosità, la sua penetrazione, la sua
versatilità, il suo spirito. Perciò l'ammiravano.
Fra tanti avventurieri e condottieri, di cui l'Italia era
ammorbata, gente vagabonda senza princìpi, senza
professione e in cerca di una fortuna a qualunque costo, il
principe, il modello era lui. Tiziano lo chiama il condottiero
della letteratura. E lui non se ne offende, se ne pavoneggia.
Lasciato alla sua spontaneità, quando non lo preme il
bisogno, e non opera per calcolo, scopre buone qualità.
È allegro, conversevole, liberale, anzi magnifico, amico a
tutta prova, riconoscente, ammiratore de' grandi artisti, come di
Michelangiolo e di Tiziano. Aveva la logica del male e la
vanità del bene.
Pietro come uomo è un personaggio
importante, il cui studio ci tira bene addentro ne' misteri della
società italiana, della quale era immagine in quella sua
mescolanza di depravazione morale, di forza intellettuale e di
sentimento artistico. Ma non è meno importante come
scrittore.
La coltura tendeva a fissarsi e a
meccanizzarsi. Non si discuteva più se si aveva a scrivere
in volgare o in latino. Il volgare aveva conquistato oramai il suo
dritto di cittadinanza. Ma si discuteva se il volgare si avesse a
chiamare toscano o italiano. E non era contesa di parole, ma di
cose. Perchè molti scrittori pretendevano di scrivere come
si parlava dall'un capo all'altro d'Italia, e non erano disposti
di andare a prender lezione in Firenze. Amavano meglio latinizzare
che toscaneggiare Riconoscevano come modelli il Boccaccio e il
Petrarca, ma non davano alcuna autorità alla lingua viva.
Lingua viva era per loro il linguaggio comune, che atteggiavano
alla latina e alla boccaccevole. Questo meccanismo era accettato
generalmente; se non che in Firenze il fondo della lingua non era
il linguaggio comune, mescolato di elementi locali, siculi,
lombardi, veneti, ma l'idioma toscano, così com'era stato
maneggiato dagli scrittori. E Firenze, esaurita la produzione
intellettuale, alzò le colonne di Ercole nel suo
vocabolario della Crusca, e disse: non si va più oltre. Il
Bembo e più tardi il Salviati fissarono le forme
grammaticali. E le regole dello scrivere in tutt'i generi furono
fissate nelle rettoriche, traduzioni o raffazzonamenti di
Aristotile, Cicerone e Quintiliano. Si giunse a questo, che Giulio
Camillo pretendea d'insegnare tutto il sapere mediante un suo
meccanismo. Tendenza al meccanizzare: che è fenomeno
costante in tutte le età che la produzione si esaurisce, e
la coltura si arresta, e si raccoglie nelle sue forme e si
cristallizza.
Pietro, di mediocrissima coltura, considera
tutte queste regole come pedanteria. La sua vita interiore
così spontanea e piena di forza produttiva mal vi si
può adagiare. Il pedantismo è il suo nemico e lo
combatte corpo a corpo. E chiama pedantismo quel veder le cose non
in sè stesse e per visione diretta, ma a traverso di
preconcetti, di libri e di regole. Quegl'inviluppi di parole e di
forme gli sono così odiosi, come l'ipocrisia, quel
"covrirsi della larva di un'affettata modestia, invilupparsi nella
pelle della volpe e predicar l'umiltà e la decenza senza
valer meglio degli altri." Non ascoltate quest'ipocriti," scrive
al cardinale di Ravenna "pedanti comentatori di Seneca, i quali,
dopo di aver passata la lor vita nell'assassinare i morti, non
sono contenti se non quando crocifiggono i vivi. Sì,
monsignore, egli è il pedantismo, che ha avvelenato i
Medici; è il pedantismo che ha ucciso il duca Alessandro;
è il pedantismo che ha prodotto tutt'i mali di questo
mondo; è desso che per la bocca del pedante Lutero ha
provocata l'eresia e l'ha armata contro la nostra santa fede.
Lorenzino si fe' assassino per pedanteria, e per pedanteria si fe'
eretico Lutero, cioè a dire operarono per preconcetti,
secondo i libri, e senza nessuna intelligenza de' tempi loro." Non
è meno implacabile verso il pedantismo letterario. Al Dolce
scrive: "Andate pur per le vie che al vostro studio mostra la
natura. Il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da chi esprime i
concetti suoi con la dolcezza e con la leggiadria con cui
dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo i loro, e non
da chi gli saccheggia, non pur de' "quinci", de' "quindi", de'
"soventi" e degli "snelli", ma de' versi interi. Il pedante che
voglia imitare, "rimoreggia" dell'imitazione, e mentre ne
schiamazza negli scartabelli, la trasfigura in locuzione,
ricamandola con parole tisiche in regola. O turba errante, io ti
dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo della natura
nelle sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e
mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e
un campanile senza campane, per la qual cosa chi vuol comporre e
non trae cotal grazia dalle fasce è un zugo infreddato.
Imparate ciò ch'io favello da quel savio pittore, il quale,
nel mostrare a colui che il dimandò, chi egli imitava, una
brigata d'uomini col dito, volle inferire che dal vivo e dal vero
toglieva gli esempi, come gli tolgo io parlando e scrivendo. La
natura di cui son secretario mi detta ciò ch'io compongo.
È certo ch'io imito me stesso, perchè la natura
è una compagnona badiale, e l'arte una piattola che bisogna
che si appicchi; sicchè attendete a esser scultore di sensi
e non miniator di vocaboli." Parecchi scrivevano allora
così alla naturale, e basta citare fra tutti il Cellini,
tutto vita e tutto cose. Ma il Cellini si teneva un ignorante, e
voleva che il Varchi riducesse la sua Vita nella forma de' dotti,
dove l'Aretino si teneva superiore a tutti gli altri, e dava
facilmente del pedante a quelli che lambiccavano le parole. Ci
è in lui una coscienza critica così diritta e
decisa, che in quel tempo ci dee parere straordinaria. La stessa
libertà e altezza di giudizio portò nelle arti, di
cui aveva il sentimento. A Michelangiolo scrive: "Ho sospirato di
sentirmi sì piccolo e di saper voi così grande". Il
suo favorito è il suo amico e compare Tiziano, il cui
realismo così pieno e quasi sensuale si affà alla
sua natura. Preso di febbre, si appoggia alla finestra, e guarda
le gondole e il Canal grande di Venezia, e rimane pensoso e
contemplativo, lui, Pietro Aretino! La vista della bella natura lo
purifica, lo trasforma. E scrive al Tiziano: "Quasi uomo che fatto
noioso a se stesso non sa che farsi della mente, non che de'
pensieri, rivolgo gli occhi al cielo, il quale, da che Dio lo
creò, non fu mai abbellito da così vaga pittura di
ombre e di lumi, onde l'aria era tale, quale vorrebbono esprimerla
coloro che hanno invidia a voi, per non esser voi. I casamenti,
benchè sien pietre vere, parevano di materia artificiata. E
di poi scorgete l'aria, ch'io compresi in alcun luogo pura e viva,
in altra parte torbida e smorta. Considerate anche la maraviglia
ch'io ebbi de' nuvoli, i quali nella principal veduta mezzi si
stavano vicini a' tetti degli edificii, e mezzi nella penultima,
perocchè la diritta era tutta di uno sfumato pendente in
bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si
dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco
solare, e i più lontani rosseggiavano d'un ardore di minio
non così bene acceso. O con che belle tratteggiature i
pennelli naturali spingevano l'aria in là, discostandola
da' palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de'
paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri
un azzurro veramente composto dalle bizzarrie della natura maestra
de' maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava
in maniera, che io, che so come il vostro pennello è
spirito dei suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: - O
Tiziano, dove sete mo? - Per mia fe' che, se voi aveste ritratto
ciò ch'io vi conto, indurreste gli uomini nello stupore che
confuse me." È notabile che questo sentimento della natura
vivente, de' suoi colori e de' suoi chiaroscuri, non produce nella
sua anima alcuna impressione o elevatezza morale, ma solo una
ammirazione o stupore artistico, come in un italiano di quel
tempo. Vede la natura a traverso il pennello di Tiziano e del
paesista Vecellio, ma la vede viva, immediata, e con un sentimento
dell'arte che cerchi invano nel Vasari. Fra tante opere
pedantesche di quel tempo intorno all'arte e allo scrivere, le sue
lettere artistiche e letterarie segnano i primi splendori di una
critica indipendente, che oltrepassa i libri e le tradizioni, e
trova la sua base nella natura.
Quale il critico, tale lo scrittore. Delle
parole non si dà un pensiero al mondo. Le accoglie tutte,
onde che vengano e quali che sieno, toscane, locali e forestiere,
nobili e plebee, poetiche o prosaiche, aspre e dolci, umili e
sonore. E n'esce uno scrivere, che è il linguaggio parlato
anche oggi comunemente in Italia dalle classi colte. Abolisce il
periodo, spezza le giunture, dissolve le perifrasi, disfà
ripieni ed ellissi, rompe ogni artificio di quel meccanismo che
dicevasi forma letteraria, s'accosta al parlar naturale. Nel
Lasca, nel Cellini, nel Cecchi, nel Machiavelli ci è la
stessa naturalezza, ma ci senti l'impronta toscana, tutta grazia.
Questi è un toscano ineducato, figlio della natura, vivuto
fuori del suo paese, e che parla tutte le lingue fra le quali
esercita le sue speculazioni. Fugge il toscaneggiare, come una
pedanteria; non cerca la grazia, cerca l'espressione e il rilievo.
La parola è buona, quando gli renda la cosa atteggiata come
è nel suo cervello, e non la cerca, gli viene innanzi cosa
e parola, tanta e la sua facilità. Non sempre la parola
è propria, e non sempre adatta, perchè spesso
scarabocchia, e non scrive, abusando della sua facilità. Il
suo motto è: "Come viene, viene", e nascono grandi
ineguaglianze. Di Cicerone e del Boccaccio non si dà
fastidio, anzi fa proprio l'opposto, cercando non magnificenza e
larghezza di forme, nelle quali si dondola un cervello indolente,
ma la forma più rapida e più conveniente alla
velocità delle sue percezioni. E neppure affetta
brevità, come il Davanzati, cervello ozioso, tutto alle
prese con le parole e gl'incisi, perchè la sua attenzione
non è al di fuori, è tutta al di dentro. Abbandona i
procedimenti meccanici, non cura le finezze e le lascivie della
forma. Ha tanta forza e facilità di produzione, e tanta
ricchezza di concetti e d'immagini, che tutto esce fuori con
impeto e per la via più diritta. Non ci è intoppo,
non ci è digressione o distrazione: pronto e deciso nello
stile, come nella vita. Mai non fu così vero il detto, che
lo stile è l'uomo. Come il suo io è il centro
dell'universo, è il centro del suo stile. Il mondo che
rappresenta non esiste per sè, ma per lui, e lo tratta e lo
maneggia come cosa sua, con quel capriccio e con quella
libertà che il Folengo tratta il mondo della sua
immaginazione. Se non che nel Folengo si sviluppa l'umore,
perchè il suo mondo è immaginario, e lo tratta
senz'alcuna serietà, solo per riderne; dove il mondo di
Pietro è cosa reale, e ne ha una perfetta conoscenza, e lo
tratta per sfruttarlo, per cavarne il suo utile. Perciò non
rispetta il suo argomento, non si cala e non si obblia in esso; ma
ne fa il suo istrumento, i suoi mezzi, anche a costo di profanarlo
indegnamente. Tratta Gesù Cristo come un cavaliere errante,
e "che importa" dice "la menzogna che io mescolo a queste opere?
Dacchè io parlo de' Santi, che sono il nostro rifugio
celeste, le mie parole diventano parole di evangelio". Di santa
Caterina scrive che "Io non avrei fatto sei pagine di tutto, se
avessi voluto attenermi alla tradizione e alla storia. Le mie
spalle hanno assunto tutto il peso dell'invenzione; perchè
infine queste cose tornano alla più gran gloria di Dio".
Talora si secca per via, il cervello è vuoto, e ammassa
aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria, che rivela il
ciarlatano: "Come lodare il religioso, il chiaro, il grazioso, il
nobile, l'ardente, il fedele, il veridico, il soave, il buono, il
salutare, il santo e il sacro linguaggio della giovane Caterina,
vergine, sacra, santa, salutare, nobile, graziosa, chiara,
religiosa e facile?" Sembra una campana che ti assorda, e ti turi
le orecchie. Questo dicevasi stile fiorito, e l'Aretino te ne
regala, quando non ha di meglio. Talora vuol pur dire, ma non ha
vena, e non sentimento, ed esce nelle più sbardellate
metafore e nelle sottigliezze più assurde, massime ne' suoi
elogi, che gli erano così ben pagati. "Essendo i meriti
vostri" scrive al duca d'Urbino "le stelle del Ciel della Gloria,
una di loro, quasi pianeta dell'ingegno mio, lo inclina a
ritràrvi con lo stil delle parole la imagine dell'anima,
acciocchè la vera faccia delle sue virtù, desiderata
dal mondo, possa vedersi in ogni parte; ma il poter suo, avanzato
dall'altezza del subbietto, non ostante che sia mosso da cotale
influsso, non può esprimere in qual modo la bontà,
la clemenza e la fortezza di pari concordia vi abbiano concesso,
per fatal decreto, il vero nome di Principe." È un periodo
alla boccaccevole, stiracchiato ne' concetti e nella forma. Qui
non ci è il "come viene, viene"; ma ci è il non
voler venire e il farlo venire per forza. I suoi panegirici sono
tutti rettorici, metaforici, miniati, falsamente pomposi, gonfiati
sino all'assurdo, e sembrano quasi caricature ironiche sotto forma
di omaggi. Il dir bene non era per lui cosa tanto facile, quanto
il dir male, dove spiega tutto il vigore della sua natura cinica e
sarcastica. Assume un tuono enfatico, e cerca peregrinità
di concetti e di modi, un linguaggio prezioso, composto tutto di
perle, ma di perle false: preziosità passata in Francia con
Voiture e Balzac e castigata da Molière, e che in Italia
dovea divenire la fisonomia della nostra letteratura. Ecco alcune
di queste perle false, messe in circolazione dall'Aretino: "Io
pesco nel lago della mia memoria con l'amo del pensiero. - Il mio
merito risplende della vernice della vostra grazia. - Il chiodo
della riconoscenza conficca il nome de' miei amici nel mio cuore.
- Non seppellite le mie speranze nella tomba delle vostre false
promesse. - La vostra grandezza ascende le scale del cielo con
istupor delle genti. - La vostra eloquenza si move dal natural
dell'intelletto con tanta facondia, che si riman confusa nella
maraviglia la lingua che le proferisce i concetti e l'orecchie che
l'ascoltano. - Tòrre a Solimano, in servigio della
Cristianità, l'animo dall'anima, l'anima dal corpo, e il
corpo dalle armi. - Raccogliete l'affezione mia in un lembo della
vostra pietà. - Mi dono a voi, padri de' vostri popoli,
fratelli de' vostri servi, erarii della caritade e subbietti della
clemenza. - La faccia della liberalità ha per ispecchio il
cuore di coloro a cui si porge. - La vostra Eccellenza ricerca da
me qualche ciancia per farne ventaglio del caldo grande che arde
questi dì." Questo stile fiorito o prezioso è
traversato a quando a quando da lampi di genio: paragoni
originali, immagini splendide, concetti nuovi e arditi, pennellate
incisive, e trovi pure, quando è abbandonato a sè e
non cerca l'effetto, verità di sentimento e di colorito,
come in questa lettera così commovente nella sua
semplicità: "Le scarpe azzurro-turchine, ricamate in oro,
che ho ricevute insieme con la vostra lettera, m'han fatto tanto
piangere, quanto m'hanno arrecato di piacere. La giovinetta che
doveva adornarsene, questa mattina ha ricevuto gli olii santi, ed
io non posso scrivervene di più, tanto sono commosso." La
dissoluzione del meccanismo letterario è una forma di
scrivere più vicina al parlare, libera da ogni preconcetto
e immediata espressione di quel di dentro, uno stile ora fiorito,
ora prezioso, che sono le due forme della declinazione dell'arte e
delle lettere, ecco ciò che significa Pietro Aretino, come
scrittore. La sua influenza non fu piccola. Aveva attorno
secretari, allievi e imitatori della sua maniera, come il Franco,
il Dolce, il Landi, il Doni, e altri mestieranti. "Io vivo di
Kirieleison" scrive il Doni. "I miei libri sono scritti prima di
esser composti, e letti prima di esser stampati". La sua Libreria
si legge ancora oggi per un certo brio e per curiose notizie.
Ma Pietro ha ancora una certa importanza, come
scrittor di commedie. C'era un mondo comico convenzionale, la cui
base era Plauto e Terenzio, con accessorii cavati dalla vita
plebea e volgare di quel tempo. La base erano equivoci,
riconoscimenti, viluppi di accidenti, che tenessero viva la
curiosità. Intorno vi si schieravano caratteri divenuti
convenzionali, il parassito, il servo ghiottone, la cortigiana, la
serva furba e mezzana, il figliuolo prodigo, il padre avaro e
burlato, il poltrone che fa il bravo, il sensale, l'usuraio. Lo
studio de' nostri comici è interessante, chi voglia
conoscer bene addentro i misteri di quella corruttela italiana.
Vedrà i legami di famiglia sciolti, e figli scioperati
accoccarla a' padri, zimbello essi medesimi di usurai, cortigiani
e mezzani, tra le risa del rispettabile pubblico. Codesto mondo
era la commedia, con sue forme fisse alla latina, sparsa di lazzi
e di lubricità. Il più fecondo scrittor comico fu il
Cecchi, morto il 1587, che in meno di dieci giorni improvvisava
commedie, farse, storie e rappresentazioni sacre. Ha il brio e la
grazia fiorentina comune col Lasca, ma ha meno spirito e
movimento, anzi talora ti par di stare in una morta gora. Il suo
mondo e i suoi caratteri sono come un repertorio già noto e
fissato, e la furia gl'impedisce di darvi il colore e la carne. Ti
riesce non di rado scarno e paludoso. Pietro dà dentro in
tutto questo meccanismo, e lo disfà. Non riconosce regole e
non tradizioni e non usi teatrali. "Non vi maravigliate", dice nel
prologo della Cortigiana "se lo stil comico non si osserva con
l'ordine che si richiede, perchè si vive d'un'altra maniera
a Roma, che non si vivea in Atene". Fra le regole c'era questa,
che i personaggi non potevano comparire più di cinque volte
in iscena. Pietro se ne burla con molto spirito: "Se voi vedessi
uscire i personaggi più di cinque volte in iscena, non ve
ne ridete, perchè le catene, che tengono i molini sul
fiume, non terrebbono i pazzi di oggidì". Mira all'effetto;
tronca gl'indugi, sgombra gl'intoppi; evita le preparazioni, gli
episodi, le descrizioni, le concioni, i soliloqui spessi; cerca in
tutto l'azione e il movimento, e ti gitta fin dal principio nel
bel mezzo di quel suo mondo furfantesco vivamente
particolareggiato. Non ha la sintesi del Machiavelli,
quell'abbracciare con sicuro occhio un vasto insieme, e legarlo e
svilupparlo con fatalità logica, come fosse
un'argomentazione. Non è ingegno speculativo, è uomo
d'azione, e lui stesso personaggio da commedia. Perciò non
ti dà un'azione bene studiata e ordita come è la
Mandragola; gli fugge l'insieme, il mondo gli si presenta a pezzi
e a bocconi. Ma come il Machiavelli, egli ha una profonda
esperienza del cuore umano e grande conoscenza de' caratteri, i
quali si sviluppano ben rilevati e sporgenti tra la varietà
degli accidenti, e dominano la scena, e generano invenzioni e
situazioni piccanti. Come ci gode questo furfante fra tante
bricconate che mette in iscena! Perchè infine quel mondo
comico è il suo mondo, quello dove ha fatto tante prove di
malizia e di ciarlataneria. Il concetto fondamentale è che
il mondo è di chi se lo piglia, e perciò è
de' furbi e degli sfacciati, e guai agli sciocchi! Tocca ad essi
il danno e le beffe, perchè sono loro abbandonati alle risa
del pubblico, sono loro la materia comica. L'Ipocrita è
l'apoteosi di un furfante, che a furia d'intrighi e di malizia
diviene ricco, proprio come l'Aretino. La Talanta è una
cortigiana che l'accocca a tutt'i suoi amanti, e finisce ricca,
stimata e maritata a un suo antico e fedele amante, alla barba
degli altri. Il Filosofo, mentre studia Platone e Aristotile, se
la fa fare dalla moglie, e poi il buon uomo si riconcilia con
essa. Nella Cortigiana messer Maco, che vuol divenire cardinale, e
Parabolano che in grazia delle sue ricchezze crede di avere a'
suoi piedi tutte le donne, sono per tutta la commedia zimbello di
cortigiane, di mezzani e di furfanti. Il Marescalco o grande
scudiere, per non far dispiacere al duca di Mantova, suo signore,
consente a sposarsi con una donna, che non ha mai visto, lui
nemico delle donne e del matrimonio. Nè questo è un
mondo immaginario e subbiettivo, anzi è proprio quella
società lì, co' suoi costumi egregiamente
rappresentati nel più fino e nel più minuto. Pietro
vi gavazza entro, come nel suo elemento, lanciando satire, elogi,
epigrammi, bricconerie e laidezze, con un brio e un ardore di
movenze, come fossero fuochi artificiali. Alcuni caratteri sono
rimasti celebri, e tutti son vivi e veri. Il suo Marescalco ha
ispirato Rabelais e Shakespeare, ed è uno scherzo
originalissimo. Il suo Parabolano è rimasto l'appellativo
degli uomini fatui e vani. Messer Maco è il tipo, da cui
usciva il Pourceaugnac. Il suo ipocrita è un Tartufo
innocuo e messo in buona luce. Il suo filosofo, che egli chiama
Plataristotile, è una caricatura de' Platonici di quel
tempo. A sentirlo sentenziare è savissimo, ma non ha
pratica del mondo, e il servo la sa più lunga di lui, e
più lunga del servo la sa Tessa, la moglie. Questo
filosofo, a cui la moglie gliela fa sul naso, pronunzia sentenze
bellissime sulle donne, mentre il servo, che sa tutto, gli fa la
boccaccia:
"Plataristotile - La femmina è guida del male e maestra
della scelleratezza.
Servo - Chi lo sa, nol dica.
Plataristotile - Il petto della femmina è corroborato
d'inganni.
Servo - Tristo per chi non la intende.
Plataristotile - Solo quella è casta che da nessuno
è pregata.
Servo - Questo sì ch'io stracredo.
Plataristotile - Chi sopporta la perfidia della moglie, impara a
perdonare le ingiurie.
Servo - Bella ricetta per chi è polmone."
E il servo conchiude: "Vostra Saviezza pigli quello che vi potria
intervenire in buona parte, e non si lasci tanto andar dietro agli
speculamenti dottrineschi, che il diavolo non vi lasciasse poi
andare per i canneti".
"Tu parli da eloquente, " risponde il filosofo;
"ma non ci son per considerar sopra, per lo appetito della gloria
che conseguisco filosofando".
Il suo Boccaccio è uno di quei merli
capitati nelle unghie di una cortigiana e scorticati vivi. La sua
serva tende l'imboscata:
"Boccaccio - Che cosa move la tua madonna a voler parlare a me,
che son forestiere?
Lisa - Forse la grazia ch'è in voi; maffe sì ch'ella
c'è, or via.
Boccaccio - Tu ti diletti da ben dire.
Lisa - Mi venga la morte, se non ispasima di favellarvi.
Boccaccio - Chi è gentile, il dimostra.
Lisa - Nel vederla manderete a monte le bellezze d'ogni altra...
State saldo, fermatevi, e mirate il sole, la luna e le stelle, che
si levano là su quell'uscio.
Boccaccio - Che brava appariscenzia!
Lisa - Il vostro giudizio ha garbo.
Boccaccio - Purch'io sia l'uom ch'ella cerca. I nomi alle volte si
strantendono.
Lisa - Il vostro è sì dolce che si appicca alle
labbra. Eccola corrervi incontro a braccia aperte."
Le cortigiane sono il suo tema favorito. La sua
Angelica è il tipo di tutte le altre. E la sua Nanna
è la maestra del genere.
Questa è la commedia che poteva produrre
quel secolo, l'ultimo atto del Decamerone, un mondo sfacciato e
cinico, i cui protagonisti sono cortigiani e cortigiane, e il cui
centro è la corte di Roma, segno a' flagelli dell'uomo, che
nella sua rocca di Venezia erasi assicurata l'impunità.
Secondo una tradizione popolare molto
espressiva Pietro morì di soverchio ridere, come
morì Margutte, e come moriva l'Italia.
XVII
TORQUATO TASSO
L' Ariosto, il Machiavelli, l'Aretino sono le tre forme dello
spirito italiano a quel tempo un'immaginazione serena e artistica,
che si sente pura immaginazione e beffa se stessa; un intelletto
adulto, che dà bando alle illusioni dell'immaginazione e
del sentimento, e t'introduce nel santuario della scienza, nel
mondo dell'uomo e della natura; una dissoluzione morale, senza
rimorso, perchè senza coscienza, perciò sfacciata e
cinica. Intorno all'Ariosto si schierano gl'innumerabili
novellieri, romanzieri e comici, pasto avido di popolo colto e
ozioso, che vive di castelli incantati, perchè non prende
più sul serio la vita reale. Intorno al Machiavelli si
stringono tutta una schiera d'illustri statisti e storici, come il
Guicciardini, il Giannotti, il Paruta, il Segni, il Nardi, e
tutt'i grandi pensatori, che cercano la redenzione nella scienza.
Attorno all'Aretino si move tutto il mondo plebeo de' letterati,
istrioni, buffoni, cortigiani, speculatori e mestieranti.
L'Ariosto spinge l'immaginazione fino al punto che provoca
l'ironia. Il Machiavelli spinge la sua realtà e la logica a
tal segno che produce il raccapriccio. E l'Aretino spinge il suo
cinismo a tal grado che produce il disgusto. Queste tre forme
dello spirito si riflettono in loro ingrandite e condensate.
Quello era il tempo che i grandi Stati d'Europa
prendevano stabile assetto, e fondavano ciascuno la "patria" di
Machiavelli, cioè una totalità politica fortificata
e cementata da idee religiose, morali e nazionali. E quello era il
tempo che l'Italia non solo non riusciva a fondare la patria, ma
perdeva affatto la sua indipendenza, la sua libertà, il suo
primato nella storia del mondo.
Di questa catastrofe non ci era una coscienza
nazionale, anzi ci era una certa soddisfazione. Dopo tante
calamità venivano tempi di pace e di riposo, e il nuovo
dominio non parve grave a popoli stanchi di tumulti e di lotte,
avvezzi a mutare padroni, e pazienti di servitù, che non
toccava le leggi, i costumi, le tradizioni, le superstizioni, e
assicurava le vite e le sostanze. Alcun moto di plebe ci fu, come
a Napoli per l'Inquisizione e per la gabella de' frutti, cagionato
da poca abilità ne' governanti, anzi che da elevatezza di
sentimenti ne' sudditi. Quanto alle classi colte, ritirate da gran
tempo nella vita privata, negli ozi letterari e ne' piaceri della
città e della villa, niente parve loro mutato in Italia,
perchè niente era mutato nella lor vita. Contenti anche i
letterati, a' quali non mancava il pane delle corti e l'ozio delle
accademie. Questa Italia spagnuola-papale aveva anche un aspetto
più decente. A forza di gridare che il male era nella
licenza de' costumi, massime fra gli ecclesiastici, il Concilio di
Trento si diede a curare il male riformando i costumi e la
disciplina. "Si non caste, tamen caute." Al cinismo successe
l'ipocrisia. Il vizio si nascose; si tolse lo scandalo. E non fu
più tollerata tutta quella letteratura oscena e satirica;
Niccolò Franco, l'allievo e poi il rivale di Pietro
Aretino, predicatosi da sè "flagello del flagello de'
principi", finì impiccato per un suo epigramma latino. Il
riso del Boccaccio morì sulle labbra di Pietro Aretino. La
censura preventiva, stabilita già dal Concilio lateranense,
fu applicata con severità; fu costituita la Congregazione
dell'Indice. Sorsero nuovi ordini religiosi per la riforma de'
costumi e l'educazione della gioventù, i teatini, i
somaschi, i barnabiti, i padri dell'oratorio, i gesuiti. Si
composero poesie sacre, che si cantavano nelle chiese e nelle
processioni. San Filippo Neri introdusse gli "oratorii", drammi e
commedie sacre. L'istruzione cadde in mano a' preti e a' frati.
Spirava un odore di santità!
Questa fu la riforma fatta dal Concilio di
Trento, e che il Sarpi chiama "difformazione". Il tema prediletto
de' poeti italiani e de' protestanti erano gli scandali della
corte romana. Roma, la "meretrice" di Dante, la "Babilonia" del
Petrarca, era stata assalita da' protestanti nel suo lato
più debole, e più efficace sulle grossolane
moltitudini, nella sua scostumatezza. Il Concilio spezzò
quest'arma antica di guerra in mano agli avversari, riformando la
disciplina e dando in questo ragione al vecchio Savonarola.
Rimosso lo scandalo, il Concilio credea di aver tolta alla Riforma
protestante la sua ragion di essere, e stimò possibile una
conciliazione. Ma la licenza de' costumi era il pretesto, e non la
cagion vera e intima della Riforma germanica e della
incredulità italiana, che era l'intelletto già
adulto e libero, che non voleva riconoscere autorità di
sorta e reclamava la libertà di esame. Ora il Concilio non
dava a questo alcuna soddisfazione, come sarebbe stato un
accostare la gerarchia a forme democratiche e lasciare alcuna
larghezza di opinione in certe quistioni; anzi fece proprio
l'opposto, rafforzò l'autorità papale a spese de'
vescovi, atteggiando la gerarchia a monarchia assoluta, e
definì tutte le quistioni di domma e di fede, negando la
competenza della ragione e della coscienza individuale.
Così la scissione divenne definitiva, e l'Europa cristiana
fu divisa in due campi: dall'un lato la Riforma, dall'altro il
romanismo e il papismo. La Riforma avea per bandiera la
libertà di coscienza e la competenza della ragione
nell'interpretazione della Bibbia e nelle quistioni teologiche; il
romanismo avea per contrario a fondamento l'autorità
infallibile della Chiesa, anzi del papa, e l'ubbidienza passiva,
il "credo quia absurdum". Questa lotta tra la fede e la scienza,
l'autorità e la libertà, è antica, coeva alle
origini stesse della religione, ma si manifestava in quistioni
parziali intorno a questo o a quel dogma, e solo allora se ne
acquistò coscienza, e la differenza fu elevata a principio.
In questa coscienza più chiara sta l'importanza della
Riforma e del Concilio di Trento. Innanzi di questo tempo, ci era
in Italia una specie di ecletismo, per il quale filosofia e
teologia andavano insieme, senza troppo saper come, a quel modo
che classicismo e cristianesimo, e le idee più ardite si
facevano largo, quando erano accompagnate con la clausola: "salva
la fede". Era una specie di compromesso tacito, per il quale il
mondo, bene o male, andava innanzi, senza troppi urti. Ora non
sono più possibili gli equivoci, le cautele e ipocrisie
oratorie: le due parti sanno quello che vogliono, e stanno a
fronte nemiche. La Chiesa, anzi il papa si proclama solo e
infallibile interprete della verità, e dichiara eretica non
questa o quella proposizione solamente, ma la libertà e la
ragione, il dritto di esame e di discussione. Da questa lotta esce
il concetto moderno della libertà. Presso gli antichi
"libertà" era partecipazione de' cittadini al governo, nel
qual senso è intesa anche dal Machiavelli. Presso i moderni
accanto a questa libertà politica è la
libertà intellettuale, o, come fu detto, la "libertà
di coscienza", cioè a dire la libertà di pensare, di
scrivere, di parlare, di riunirsi, di discutere, di avere una
opinione e divulgarla e insegnarla: libertà sostanziale
dell'individuo, dritto naturale dell'uomo, e indipendente dallo
Stato e dalla Chiesa. Di qui viene questa conseguenza, che
interpretare e bandire la verità è dritto naturale
dell'uomo, e non privilegio di prete: sicchè proprio della
Riforma fu il secolarizzare la religione. Il concetto opposto
fondato sull'onnipotenza della Chiesa o dello Stato è il
dritto divino, la teocrazia, il cesarismo, assorbimento
dell'individuo nell'essere collettivo, come si chiami, o Chiesa, o
Stato, o papa, o imperatore.
Il Concilio di Trento portava conseguenze non
solo religiose, ma politiche. Da esso usciva la consacrazione
della monarchia assoluta sulle rovine de' privilegi feudali e
delle franchigie comunali. Papa e re si diedero la mano. Il re
prestava al papa il braccio secolare, e il papa lo consacrava, lo
legittimava, gli dava i suoi inquisitori e i suoi confessori. La
monarchia fu ordinata a modo della gerarchia ecclesiastica, e
fondata sullo stesso principio dell'autorità e della
ubbidienza passiva. Trono e altare furono del pari inviolabili, e
indiscutibili. E fu atto di ribellione pensare liberamente di papa
o di re, anzi venne su il motto: "De Deo parum, de rege nihil".
Così la religione divenne un istrumento politico, il
dispotismo religioso divenne il sussidio naturale del dispotismo
politico.
Ma l'autorità e la fede sono di quelle
cose che non si possono imporre. E in Italia era così
difficile restaurare la fede, come la moralità. Ciò
che si potè conseguire fu l'ipocrisia, cioè a dire
l'osservanza delle forme in disaccordo con la coscienza. Divenne
regola di saviezza la dissimulazione e la falsità nel
linguaggio, ne' costumi, nella vita pubblica e privata:
immoralità profonda, che toglieva ogni autorità alla
coscienza, ed ogni dignità alla vita. Le classi colte
incredule e scettiche si rassegnarono a questa vita in maschera
con la stessa facilità che si acconciarono alla
servitù e al dominio straniero. Quanto alle plebi,
vegetavano, e fu cura e interesse de' superiori lasciarle in
quella beata stupidità.
Non mancarono resistenze individuali. Molti
uomini pii, e anche ecclesiastici, amarono meglio ardere su' roghi
o esulare che mentire alla coscienza. Intere famiglie
abbandonarono l'Italia, e portarono altrove le loro industrie.
Uomini egregi di virtù e di scienza onorarono il paese
natio scrivendo, predicando nella Svizzera, nell'Inghilterra, in
Germania. Operosissimo fra tutti il Socino, da Siena, da cui
presero nome i sociniani. Il suo merito è di avere avuto
della Riforma una coscienza assai più chiara, che non
Lutero e non Calvino, facendo fede quanto l'intelletto italiano
era innanzi in queste speculazioni. Perchè il Socino,
uscendo dalle quistioni parziali intorno a questo o a quel
pronunziato teologico, sulle quali battagliavano Lutero, Melantone
e Calvino, proclama la ragione sola competente, negando ogni
elemento soprannaturale, e fa centro dell'universo l'uomo nel suo
libero arbitrio, negando l'onniscienza divina e la
predestinazione. Ci si vede subito l'italiano, il concittadino di
Machiavelli.
A questi esempi e a questi martìri
l'Italia rimaneva indifferente. Quistioni che insanguinavano mezza
Europa, non la toccavano. Ed erano quistioni, dalle quali sciolte
nell'uno o nell'altro modo, dipendeva l'avvenire della
civiltà e la sorte delle nazioni. Rimase romana tutta la
gente latina, Spagna, Francia, Italia. Ma in Francia e nella
Spagna non fu, se non dopo accanite persecuzioni, che resero
indimenticabile il Tribunale della inquisizione e la giornata di
san Bartolomeo. In quelle lotte lo spirito nazionale si
ritemprò, e si svegliarono gl'intelletti; e il sentimento
religioso esaltato dagl'interessi politici e dal fanatismo delle
plebi fu fattore di civiltà, accentrò le forze
intorno alla monarchia assoluta, costituì fortemente
l'unità nazionale e impresse alla vita intellettuale un
moto più celere. La Spagna di Carlo quinto e di Filippo
secondo ebbe il suo Cervantes, il suo Lopez e il suo Calderon, e
la Francia ebbe il suo secolo d'oro, co' suoi poeti, filosofi e
oratori, ebbe Cartesio, Malebranche e Pascal, ebbe Bossuet e
Fènelon, Corneille, Racine, e Molière Le due nazioni
uscirono dalla lotta potenti, prospere, e saldamente unificate.
In Italia non ci fu lotta, perchè non ci
fu coscienza, voglio dire convinzioni e passioni religiose, morali
e politiche. Le altre nazioni entravano pure allora in via; essa
giungeva al termine del suo cammino, stanca e scettica. Rimase
papale con una coltura tutta pagana ed antipapale. Il suo
romanismo non fu effetto di rinnovamento religioso negli spiriti,
come tentò di fare frate Savonarola, fu inerzia e
passività; mancava la forza e di combatterlo e di
accettarlo Piacque quella maggiore castigatezza e correzione nelle
forme, stucchi della licenza, nè dispiaceva quel nuovo
splendore del papato, e non avendo patria, si fabbricavano
volentieri una patria universale o cattolica, col suo centro a
Roma. Venne in voga predicare contro gli eretici, e celebrare le
vittorie cattoliche sopra i turchi, come quella di Lepanto, e
più tardi quella di Vienna. Papa e Spagna imperavano,
nessuno riluttante. Ma se Filippo secondo o Luigi decimoquarto
potevano dire: - Lo Stato son io -; Spagna e papa non potevano
dire: - L'Italia siamo noi. - Mancavano loro que' gagliardi
consensi che vengono dal di dentro e formano il vincolo nazionale.
Lo spirito italiano ubbidiva inerte e non scontento, ma rimaneva
al di fuori, non s'immedesimava in loro. Le idee vecchie non erano
credute più con sincerità, e mancavano idee nuove,
che formassero la coscienza e rinvigorissero la tempra: indi quel
consenso superficiale ed esteriore, quello stato di acquiescenza
passiva e di sonnolenza morale. L'intelletto in quella sua
virilità non apparteneva a loro, era contro di loro. E se
vogliamo trovare i vestigi di una nuova Italia, che si vada
lentamente elaborando, dobbiamo cercarli nell'opposizione fatta a
Spagna e papa. La storia di questa opposizione è la storia
della vita nuova.
Il primo fenomeno di questa sonnolenza italiana
fu il meccanismo, una stagnazione nelle idee, uno studio di
fissare e immobilizzare le forme. Si arrestò ogni movimento
filosofico e speculativo. Il Concilio di Trento avea poste le
colonne d'Ercole, avea pensato esso per tutti. La scienza fu presa
in sospetto. Permesso appena il platonizzare. I grandi problemi
della destinazione umana, etici, politici, metafisici, furono
messi da parte, ed al pensiero non rimase altro campo che lo
studio della natura ne' limiti della Bibbia. Crebbe invece lo
studio delle forme.
Fu allora che si formò l'Accademia della
Crusca, e fu il Concilio di Trento della nostra lingua. Anch'essa
scomunicò scrittori e pose dommi. E ne venne un arruffio
concepibile solo in quell'ozio delle menti.
La nostra lingua avea già una forma
stabile e sicura in tutta Italia. Il toscano era "il fiore della
lingua italiana", così dice Speron Speroni. Ci era dunque
una lingua italiana, vale a dire un fondo comune di vocaboli con
una comune forma grammaticale, atteggiato variamente e colorito
secondo le varie parti d'Italia. Allora, come ora, si sentiva
nello scrittore l'italiano e anche il toscano, il lombardo, o il
veneziano, o il napolitano. Questa varietà di atteggiamento
e di colorito, questo elemento locale era la parte viva della
lingua, che lo scrittore attingeva dall'ambiente in cui era. Se
Firenze fosse stata un centro effettivo d'Italia, come Parigi, la
lingua fiorentina sarebbe rimasta lingua viva di tutti gli
scrittori italiani, che ivi avrebbero avuto la loro naturale
attrazione. Ma Firenze era allora per gli italiani un museo, da
studiarsi nei suoi monumenti, voglio dire ne' suoi scrittori.
L'Accademia della Crusca considero la lingua come il latino, vale
a dire come una lingua compiuta e chiusa in sè, di modo che
non rimanesse a fare altro, se non l'inventario. Chiamò
puri tutt'i vocaboli contenuti nel suo dizionario e usati da
questo o da quello scrittore, e scomunicò tutti gli altri.
Fece una scelta degli scrittori, e di sua autorità
creò gli eletti ed i reprobi. Così la lingua,
segregata dall'uso vivente, divenne un cadavere, notomizzato,
studiato, riprodotto artificialmente, e gl'italiani si avvezzarono
a imparare e scrivere la loro lingua, come si fa il latino o il
greco. Il Petrarca e il Boccaccio diventarono modelli così
inviolabili come la Bibbia, e il "non si può" venne in moda
anche per le parole, tanto che mancò pazienza fino al
gesuita Bartoli. A mostrare in qual modo studiassero i nostri
letterati, cito ad esempio un uomo coltissimo e d'ingegno non
ordinario, Speron Speroni:
"Io veramente fin da' primi anni, desiderando
oltramodo di parlare e di scrivere volgarmente i concetti del mio
intelletto, e questo non tanto per dovere essere inteso, il che
è cosa degna da ogni volgare, quanto a fine che il nome mio
con qualche laude tra' famosi si numerasse, ogni altra cura
posposta, alla lezion del Petrarca e delle Cento novelle con sommo
studio mi rivolgei: nella qual lezione con poco frutto non pochi
mesi per me medesimo esercitatomi, ultimamente da Dio ispirato
ricorsi al nostro messer Trifon Gabriele; dal quale benignamente
aiutato, vidi e intesi perfettamente quei due autori, li quali,
non sapendo che notar mi dovessi, avea trascorso più
volte."
Questo è un solo periodo! E che affanno! E domando se vi
par lingua viva. Ecco ora in iscena Trifone, uno de' grammatici e
critici più riputati e chiamato il Socrate di quella
età:
"Questo nostro buon padre primieramente mi fece
noti i vocaboli, poi mi die' regole da conoscere le declinazioni e
coniugazioni de' nomi e verbi toscani, finalmente gli articoli, i
pronomi, i participi, gli adverbi e le altre parti dell'orazione
distintamente mi dichiarò: tanto che accolte in uno le cose
imparate, io ne composi una mia grammatica, con la quale,
scrivendo, io mi reggeva... Poichè a me parve d'esser fatto
un solenne gramatico, ... io mi diedi al far versi: allora pieno
tutto di numeri, di sentenzie e di parole petrarchesche o
boccacciane, per certi anni fei cose a' miei amici meravigliose;
poscia parendomi che la mia vena si cominciasse a seccare
(perciocchè alcune volte mi mancava i vocaboli, e non
avendo che dire in diversi sonetti, uno istesso concetto m'era
venuto ritratto), a quello ricorsi che fa il mondo oggidì,
e con grandissima diligenzia feci un rimario o vocabolario
volgare, nel quale per alfabeto ogni parola, che già
usarono questi due, distintamente riposi: oltre di ciò in
un altro libro i modi loro del descriver le cose, giorno, notte,
ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza siffattamente
raccolsi, che nè parole, nè concetto usciva di me,
che le novelle e i sonetti loro non ne fossero esempio... Era
d'opinione che la nostra arte oratoria e poetica altro non fosse
che imitar loro ambidue, prosa e versi a lor modo scrivendo."
Adunque la lingua, la "testura delle parole", i loro "numeri" e la
loro "concinnità", frasi del tempo, si studiavano nel
Boccaccio e nel Petrarca, e se ne cavarono grammatiche, dizionari
e repertorii di frasi e di concetti. Così insegnava Trifone
Gabriele, detto Socrate, e così praticava Speron Speroni,
riuscito con questa scuola a scrivere in quel gergo artificiale e
convenzionale, che si e visto. Così la lingua, fatta
classica e pura, rimase immobile e cristallizzata, come lingua
morta, e il suo studio divenne difficilissimo. Si voleva non solo
che la parola fosse pura, ma che fosse numerosa ed elegante. Si
formo una scienza de' numeri non pure in verso, ma in prosa. Il
periodo divenne un artificio complicatissimo. Eccone un saggio
nello Speroni:
"... come la composizione della prosa è
ordinanza delle voci delle parole, così i numeri sono
ordini delle sillabe loro; con li quali dilettando le orecchie, la
buona arte oratoria comincia, continua e finisce l'orazione;
perciocchè ogni clausola, come ha principio, così ha
mezzo e fine: nel principio si va movendo, e ascende; nel mezzo
quasi stanca della fatica stando in pie si posa alquanto; poi
discende e vola al fine per acquetarsi... La prosa alcuna volta
ben compone le parole non belle, e altra volta le belle malamente
va componendo; e può occorrere che, siccome nella musica
bene e spesso le buone voci discordano, e le non buone o per
usanza o per arte sono tra loro concordi; così i pari, i
simili e i contrari, cose tutte per lor natura ben risonanti,
qualche volta con voce aspra e difforme, qualche volta
scioccamente e a bocca aperta, va esplicando la orazione.
Finalmente molte fiate intravviene che la prosa perfettamente
composta, quasi fiume del proprio corso appagandosi, non si cura
non che di giungere al fine, ma di posarsi per lo cammino, e va
sempre, e se 'l fiato non le mancasse, continuamente tutta sua
vita camminerebbe: però a' numeri ricorriamo, li quali,
attraversando la strada piacevolmente con lusinghe e con vezzi, a
rinfrescarsi e albergare con loro la invitino, e non volendo la
cortesia, vogliono usare le forze e per ben suo, mal suo grado,
con violenzia l'arrestino."
Con questi criteri non è maraviglia che
a lungo andare si sia giunto a tale, che un predicatore componeva
i suoi periodi a suon di musica. E si comprende anche che lo
Speroni fabbricasse a questo modo i suoi periodi, e quanta
ammirazione dovessero destare i periodi con tanto artificio
congegnati del Bembo, del Casa o del Castiglione. La parola ebbe
una sua personalità, fu isolata dalla cosa; e ci furono
parole pure e impure, belle e brutte, aspre e dolci, nobili e
plebee. Nella scelta delle parole stava il segreto della eleganza.
Si cercava non la parola propria, ma la parola ornata, o la
perifrasi; la ripetizione era peccato mortale, e se la cosa era la
stessa, dovea cercarsi una diversa parola, tacere i nomi propri e
"ogni cosa delle altrui voci adornare", come lo Speroni nota del
Petrarca, il quale chiamò "la testa 'oro fino' e 'tetto
d'oro'; gli occhi 'soli', 'stelle', 'zaffiri', 'nido' e 'albergo
d'amore'; le guance or 'neve e rose', or 'latte e foco'; 'rubini'
i labbri; 'perle' i denti; la gola e il petto ora 'avorio', ora
'alabastro'". Una lingua viva è sempre propria,
perchè la parola ti esce insieme con la cosa; una lingua
morta è necessariamente impropria, perchè la trovi
ne' dizionari e negli scrittori bella e fatta, mutilata di tutti
quegli accessorii che il popolo vi aggiungeva, e che determinavano
il suo significato e il suo colore. Così la nostra lingua,
giunta a un alto grado di perfezione, che pure allora nella Eneide
del Caro e nel Tacito del Davanzati mostrava la sua potenza, si
arresto nel suo sviluppo, a quel modo che la vita italiana, e
disputavano come si avesse a chiamare, o "toscana" o "fiorentina"
o "italiana," quando era già bella e imbalsamata, ben
rinchiusa e coperchiata nel dizionario della Crusca.
Il medesimo era della grammatica. Si
cercò il criterio non nella natura e nel significato delle
cose, e non nella logica necessità, ma nell'uso
variabilissimo degli scrittori. Indi regole arbitrarie e
più arbitrarie eccezioni, e quella folla di significati
attribuiti a una sola parola, e tante inutilità decorate
col nome di "ripieno", e sottigliezze infinite su di una lettera o
una sillaba. Onde nacque una ortografia in molte parti campata in
aria e tentennante, una sintassi complicata e incerta, un
guazzabuglio di particelle, pronomi, generi, casi, alterazioni e
costruzioni, una grammatica che anche oggi è una delle meno
precise e semplici. Avemmo una lingua senza proprietà e una
grammatica senza precisione; perchè lingua e grammatica
furono considerate non in rispetto alle cose, ma per se stesse,
come forme vacue e arbitrarie.
L'attenzione era tutta al di fuori, sulla
superficie. La letteratura fu un artificio tecnico, un meccanismo.
E si cercò il suo fondamento non nelle ragioni intrinseche
di ciascuna forma messa in relazione con le cose, ma nell'esempio
degli scrittori. Come del periodo, così immaginarono uno
schema artificiale e immobile di composizione, la cui base fu
posta in una certa concordanza del tutto e delle parti, come in un
orologio, e questo chiamavano scrivere classico. Smarrito il
sentimento dell'arte e della poesia, non rimase che un concetto
prosaico di perfezione meccanica, la regolarità e la
correzione. Davano una importanza straordinaria alla lingua, alla
grammatica, all'elocuzione, al periodo, alla composizione: e qui
erano le colonne di Ercole, qui finiva la critica. Gli scrittori
giudicati secondo questi criteri erano più o meno lodati
secondo che più o meno si avvicinavano al modello. Si
vantavano le commedie e le tragedie di quel tempo per la loro
conformità alle regole. E come un effetto bisognava
ottenere sugli spettatori, e quella regolarità
ammiratissima era pur la più noiosa cosa di questo mondo,
cercavano l'effetto ne' mezzi più grossolani e caricati, a
cui sogliono ricorrere gli uomini mediocri. Le commedie erano
buffonerie, le tragedie erano orrori, e tra le più
insopportabili era appunto la Canace dello Speroni. Una sola cosa
mancava all'Italia, il genere eroico, e lo Speroni è tutto
sconsolato di non trovarne l'esempio nel Petrarca: "Quasi nuovo
alchimista, lungamente mi faticai per trovare l'eroico, il qual
nome niuna guisa di rima dal Petrarca tessuta non è degna
di appropriarsi." Il Trissino era mal riuscito. L'Orlando furioso
era fuori regola, e gli si perdonava, perchè era "romanzo"
e non poema. Il problema era di "trovare l'eroico", come diceva lo
Speroni. Ciascun vede quanto Pietro Aretino entrasse innanzi per
ingegno critico a tutti costoro.
Conforme a quei criteri era la pratica. Comenti
al Boccaccio e al Petrarca infiniti. Molte traduzioni di classici,
tra le quali il Livio del Nardi, la Rettorica e l'Eneide del Caro,
le Metamorfosi dell'Anguillara, il Tacito del Davanzati.
Grammatiche e rettoriche tutte ad uno stampo dal Bembo al
Buommattei, detto "messer Ripieno", anzi sino al Corticelli.
Imitazioni, anzi contraffazioni classiche in uno stile
artificiato, che tirava a sè anche i più robusti
ingegni, anche il Guicciardini. E le accademie che moltiplicavano
sotto i nomi più strani, dove, finiti i baccanali,
regnavano vuote cicalate e dispute grammaticali. Come
contrapposto, non mancavano gli eccentrici, che cercavano fama per
via opposta, come il Lando, che chiamava "imbecille" il Boccaccio
e "animalaccio" Aristotile, e solleticava l'attenzione pubblica
co' suoi Paradossi.
Nella prima metà del secolo la
libertà, anzi la licenza dello scrivere gittava in mezzo a
quell'aspetto uniforme e pedantesco della letteratura la vivezza,
la grazia, la mordacità, la lubricità, la
personalità dello scrittore. Dirimpetto al classico ci era
l'avventuriere.
Ultimo di questi avventurieri fu Benvenuto
Cellini, morto nel 1570, Natura ricchissima, geniale e incolta,
compendia in sè l'italiano di quel tempo, non modificato
dalla coltura. Ci è in lui del Michelangiolo e dell'Aretino
insieme fusi, o piuttosto egli è l'elemento greggio,
primitivo, popolano, da cui usciva ugualmente l'Aretino e
Michelangiolo.
Artista geniale e coscienzioso, l'arte è
il suo dio, la sua moralità, la sua legge, il suo dritto.
L'artista, secondo lui, è superiore alla legge, e "gli
uomini, come Benvenuto, unici nella loro professione, non hanno ad
essere obbligati alle leggi". Cerca la sua ventura di corte in
corte, armato di spada e di schioppetto, e si fa ragione con le
sue armi e con la lingua non meno mortale, che "fora e taglia". Se
incontra il suo nemico, gli tira una stoccata, e se lo ammazza,
suo danno; perchè "li colpi non si dànno a patti".
Se lo mettono prigione, gli pare uno scandalo e gli fanno uno
"scellerato torto". È divoto, come una pinzochera, e
superstizioso come un brigante. Crede a' miracoli, a' diavoli,
agl'incantesimi, e, quando ne ha bisogno, si ricorda di Dio e de'
santi, e canta salmi e orazioni, e va in pellegrinaggio. Non ha
ombra di senso morale, non discernimento del bene e del male, e
spesso si vanta di delitti che non ha commessi. Bugiardo,
millantatore, audace, sfacciato, pettegolo, dissoluto,
soverchiatore, e sotto aria d'indipendenza, servitore di chi lo
paga. È contentissimo di sè e non si tiene al di
sotto di nessuno, salvo il "divinissimo" Michelangiolo.
Potentissimo di forza e di vita interiore, questo cavaliere
errante dettò egli medesimo la sua vita, e si ritrasse con
tutte queste belle qualità, sicurissimo di alzare a
sè un monumento di gloria. Queste qualità vengon
fuori con la spontaneità della natura ed il brio della
forza in uno stile evidente e deciso, come il suo cesello.
Nella seconda metà del secolo questa
vita ricca e licenziosa è compressa, e la
personalità scompare sotto il compasso dell'accademia e del
Concilio di Trento. Rimangono stizze, passioncelle, denuncie,
calunnie, furori grammaticali, la parte più grossolana e
pedantesca di quella vita. In quel tempo l'Inghilterra avea il suo
Shakespeare; Rabelais e Montaigne, pieni di reminiscenze italiane,
preludevano al gran secolo; Cervantes scrivea il suo Don
Chisciotte, e Camoens le sue Lusiadi. E i nostri critici
scrivevano gli Avvertimenti grammaticali e i Dialoghi sull'Amore
platonico, Sulla Rettorica, Sulla Storia, sulla Vita attiva e
contemplativa, e cercavano e non trovavano il genere eroico.
Tra queste preoccupazioni e miserie venne in
luce la Gerusalemme Liberata. L'Italia avea il suo poema eroico,
non so che "simile" all'Iliade e all'Eneide, e i critici dovevano
essere soddisfatti. Il giovane Pellegrini annunziò la buona
novella a suon di tromba, con l'entusiasmo dell'età.
La Gerusalemme intoppava in un mondo non
più poetico, ma critico. Il sentimento dell'arte era
esausto, l'ispirazione e la spontaneità nel comporre e nel
giudicare era guasta da ragionamenti fondati sopra concetti
critici, generalmente ammessi e tenuti come vangelo. L'Ariosto si
pose a scrivere come gli era dettato dentro, e non guardava altro.
Il suo argomento divenne innanzi al suo genio un vero mondo, con
la sua propria maniera di essere e con le sue regole. Il Tasso,
come Dante, era già critico prima di esser poeta, aveva
già innanzi a sè tutta una scuola poetica.
Ciò che sta avanti a lui non è il suo argomento, ma
certi fini, certe preoccupazioni certi modelli, e Orazio e
Aristotile, e Omero e Virgilio. A diciotto anni è
già una maraviglia di dotto, e conosce Platone e Aristotile
e sviluppa a maraviglia tesi di filosofia, di rettorica e di
etica. Scrive il Rinaldo, e, come aveva imparato il "simplex et
unum", studia all'unità dell'azione e alla
semplicità della composizione, e ne chiede scusa al
pubblico. Ma il pubblico, avvezzo alle larghe e magnifiche
proporzioni dell'Orlando e dell'Amadigi, trova il pasto un po'
magro e ne torce la bocca. Lasciò allora da parte il poema
cavalleresco, o, come dicevano, il romanzo, e pensò di dare
all'Italia quel poema eroico, che tutti cercavano. Esitò
sulla scelta dell'argomento, avea pronti quattro o cinque temi, e
rimise l'elezione, dicesi, al duca Alfonso, suo mecenate. In somma
cominciò la Gerusalemme. Volle fare un poema "regolare",
come dicevano, secondo le regole. L'argomento rispondeva a' tempi
pel suo carattere religioso e cosmopolitico, e vi poteva senza
sforzo introdurre un eroe estense, e, come l'Ariosto, far la sua
corte al duca. Si die' una cura infinita delle proporzioni e delle
distanze, per conservare l'unità e la semplicità
della composizione. Guardò al verisimile, per dare al suo
mondo un aspetto di naturale e di credibile. Introdusse un'azione
seria, intorno a cui tutto convergesse, e fece del pio Goffredo un
protagonista effettivo, un vero capo e re a uso moderno. Soppresse
i cavalieri erranti, e cavò l'intreccio non dallo spirito
di avventura, ma dall'azione celeste e infernale, come in Omero.
Umanizzò il soprannaturale, rendendolo spiegabile e quasi
allegorico, e come una semplice esteriorità degl'istinti e
delle passioni. Nobilitò i caratteri, sopprimendo il
volgare, il grottesco e il comico, e sonò la tromba dal
primo all'ultimo verso. Tolse molta parte al caso e alla forza
brutale, e molta ne die' all'ingegno, alla forza morale, alle
scienze, come ne' suoi duelli e battaglie. Mirò a dare al
suo racconto un'apparenza di storia e di realtà. Si
consigliava spesso con i critici, e dava loro a leggere il poema
canto per canto, e mutava e correggeva, docilissimo. Tra questi
critici consultati era Speron Speroni.
Il Tasso voleva fare un poema seriamente
eroico, animato da spirito religioso, possibilmente storico e
prossimo al vero o verisimile, di un maraviglioso naturalmente
spiegabile, e di un congegno così coerente e semplice, che
fosse vicino ad una logica perfezione. Questo era il suo ideale
classico, che cercò di realizzare, e che spiegò ne'
suoi scritti sul poema eroico e sulla poesia, ne' quali
mostrò che ne sapeva più de' suoi avversari.
Il poema fu accolto con quello spirito che fu
composto. Letto prima a bocconi; quando uscì tutto intero,
scorretto e senza saputa dell'autore, si destò un vespaio.
I critici lo combatterono con le sue armi. - Se volevate fare un
poema religioso, - diceva l'Antoniano - dovevate darci un poema
che potesse andar nelle mani anche delle monache. - Gli uomini
pii, che allora davano il tuono, mostravano scandalo di quegli
amori rappresentati con tanta voluttà, malgrado che il
povero Tasso ne chiedesse perdono alla Musa "coronata di stelle
fra' beati cori". E per farli tacere, costruì un'allegoria
postuma e particolareggiata, che fosse di passaporto a quei
diletti profani. Come arte, il poema fu esaminato nella
composizione, nella elocuzione, nella lingua e fino nella
grammatica: che era la materia critica di quel tempo. Trovavano la
composizione difettosa, soprattutto per l'episodio di Olindo e
Sofronia, lasciati lì e dimenticati nel rimanente
dell'azione. Parea loro che la vera e seria azione comprendesse
pochi canti, e il resto fosse un tessuto di episodi e avventure
legate non necessariamente con quella. L'elocuzione giudicavano
artificiata e pretensiosa, la lingua impura e impropria, e non
abbastanza osservata la grammatica. Facevano continui confronti
con l'Eneide e con l'Iliade, e disputavano sottilmente e
futilmente sul genere eroico e sulle sue regole. Sorsero confronti
stranissimi tra l'Orlando e la Gerusalemme, e chi facea primo
l'Ariosto e chi il Tasso. La contesa occupò per qualche
tempo l'oziosa Italia, e oscurò ancora più il senso
poetico, e non fe' dare un passo alla critica. Si rimase come in
un pantano. Fra tanti opuscoli merita attenzione quello di un
giovane, chiamato a grandi destini, Galileo Galilei, che ne
scrisse con un gran buon senso, con molto gusto e con un retto
sentimento dell'arte.
L'Accademia della Crusca ebbe molta parte in
questa contesa. E si comprende. Mancava alla lingua del Tasso il
sapore toscano, quel non so che schietto e natio, con una vivezza
e una grazia che è un amore. Ma il Salviati rese pedantesca
l'accusa, facendo il pedagogo e notando i punti e le virgole.
L'esagerazione dell'accusa suscitò l'entusiasmo della
difesa, e il libro fu più noto e desiderato. Oggi, in tanto
silenzio e indifferenza pubblica, un autore si terrebbe fortunato
di svegliare tanta attenzione. Ma il Tasso ne venne malato del
dispiacere, e, quasi fossero assalti personali, trattò i
suoi critici come nemici. In verità, il principal suo
nemico era lui stesso. Si difendeva, ma con cattiva coscienza,
perchè, professando i medesimi princìpi critici,
sentiva in fondo di aver torto. E venne nell'infelice idea di
rifare il suo poema, e dare soddisfazione alla critica.
Così uscì la Gerusalemme Conquistata. Purgò
la lingua, ubbidì alla grammatica. Le "armi" cessarono di
essere "pietose" e non divennero "pie"; il "capitano" divenne il
"cavalier sovrano"; il "gran sepolcro" sparve del tutto, e il
sublime "io ti perdón" fu trasformato nel prosaico
"perdón io". Le correzioni sono quasi tutte infelici, di
seconda mano, fatte a freddo. Non ci è più il poeta,
ci è il grammatico e il linguista, co' suoi terribili
critici dirimpetto. Corresse anche l'elocuzione, rifiutò i
lenocini, cercò una forma più grave e solenne, che
ti riesce fredda e insipida. Peggior guasto nella composizione.
Soppresse Olindo e Sofronia, e vi sostituì una fastidiosa
rassegna militare. Cacciò via Rinaldo, come reminiscenza
cavalleresca, e vi ficcò un Riccardo, nome storico delle
crociate, divenuto un Achille, a cui die' un Patroclo in Ruperto.
Trasformò Argante in un Ettore, figliuolo del re, di
Aladino divenuto Ducalto. Fe' di Solimano un Mezenzio, e lo
regalò di un figliuolo per imitare in sulla fine la
leggenda virgiliana. Troncò le storie finali di Armida e di
Erminia mutata in Nicea. Anticipò la venuta degli egizi, e
moltiplicò le azioni militari, per occupare il posto
lasciato vuoto dagli episodi abbreviati o soppressi. E gli parve
così di aver rafforzata l'unità e la
semplicità dell'azione, resa più coerente e logica
la composizione, e dato al poema un colorito più storico e
reale. Ma non parve al pubblico, che non potè risolversi a
dimenticare Armida, Rinaldo, Erminia, Sofronia, le sue più
care creazioni e più popolari. E dimenticò piuttosto
la Gerusalemme conquistata, che oggi nessuno più legge.
La poetica del Tasso è nelle sue basi
essenziali conforme a quella di Dante. Lo scopo della poesia
è per lui il "vero condito in molli versi", come era per
Dante il "vero sotto favoloso e ornato parlare ascoso". Il
concetto religioso è anche il medesimo, la lotta della
passione con la ragione. Passione e ragione sono in Dante inferno
e paradiso, e nel Tasso Dio e Lucifero, e i loro istrumenti in
terra Armida e la celeste guida di Ubaldo e Carlo. L'intreccio
è tutto fondato su questo antagonismo, divenuto il luogo
comune de' poeti italiani. L'Armida del Tasso è l'Angelica
del Boiardo e dell'Ariosto, salvo che il Boiardo affoga il
concetto nella immensità della sua tela, e l'Ariosto se ne
ride saporitamente, dove il Tasso ne fa il centro del suo
racconto. Questo, che i critici chiamavano un "episodio", era il
concetto sostanziale del poema. Omero canta l'ira di Achille,
cioè canta non la ragione, ma la passione, nella quale si
manifesta la vita energicamente. Le sue divinità sono
esseri appassionati, Giove stesso non è la ragione, ma la
necessità delle cose, il fato. Virgilio s'accosta al
concetto cristiano, togliendo il pio Enea agli abbracciamenti di
Didone. Pure, poeticamente ciò che desta il maggiore
interesse non è il pio Enea, ma l'abbandonata Didone. Nella
leggenda cristiana il paradiso perduto e il peccato di Adamo sono
argomenti epici, ne' quali erompe la vita nella violenza de' suoi
istinti e delle sue forze. Nella passione e morte di Cristo
l'interesse poetico giunge al suo più alto effetto tragico,
perchè è il martirio della verità. In Dante
questo concetto preso nella sua logica perfezione produce
l'astrazione del paradiso e l'intrusione dell'allegoria; come nel
Tasso produce l'astrazione del Goffredo. Si confondeva il vero
poetico, che è nella rappresentazione della vita, col vero
teologico o filosofico, che è un'astrazione mentale o
intellettuale della vita. L'Ariosto se la cava benissimo,
perchè canta la follia di Orlando, e quando viene la volta
della ragione, volge il fatto a una soluzione comica e piccante,
mandando Astolfo a pescarla nel regno della Luna. Il Tasso vuol
restaurare il concetto nella sua serietà, e mirando a
quella perfezione mentale, gli esce l'infelice costruzione del
Goffredo e la fredda allegoria della "donna celeste".
Non è meno errato il suo concetto della
vita epica. Ciò che lo preoccupa è la verità
storica, il verisimile o il nesso logico, e una certa
dignità uguale e sostenuta. E non vede che questo è
l'esterno tessuto della vita, o il meccanismo, il semplice
materiale con appena la sua ossatura e il suo ordine logico. Il
suo occhio critico non va al di là, e quando il poeta
morì e sopravvisse il critico, esagerando questi concetti
astratti e superficiali, guastò miserabilmente il suo
lavoro, e ci die' nella Gerusalemme conquistata di quella ricca
vita il solo scheletro, il quale, perchè meglio congegnato
e meccanizzato, gli parve cosa più perfetta.
Ma il Tasso, come Dante, era poeta, ed aveva
una vera ispirazione. E la spontaneità del poeta
supplì in gran parte agli artifici del critico.
Torquato Tasso, educato in Napoli da' gesuiti,
vivuto nella sua prima gioventù a Roma, dove spiravano
già le aure del Concilio di Trento, era un sincero
credente, ed era insieme fantastico, cavalleresco, sentimentale,
penetrato ed imbevuto di tutti gli elementi della coltura
italiana. Pugnavano in lui due uomini: il pagano e il cattolico,
l'Ariosto e il Concilio di Trento. Mortagli la madre che era ancor
giovinetto, lontano il padre, insidiato da' parenti, confiscati i
beni, tra' più acuti bisogni della vita, non dimentica mai
di essere un gentiluomo. Serve in corte e si sente libero; vive
tra' vizi e le bassezze, e rimane onesto; domanda pietà con
la testa alta e con aria d'uomo superiore e in nome de'
princìpi più elevati della dignità umana.
Ha una certa somiglianza col Petrarca. Tutti e
due furono i poeti della transizione, gl'illustri malati, che
sentivano nel loro petto lo strazio di due mondi, che non poterono
conciliare. La musa della transizione è la malinconia. Ma
la malinconia del Petrarca era superficiale: rimaneva nella
immaginazione, non penetrò nella vita. Era una malinconia
non priva di dolcezza, che si effondeva e si calmava negli studi,
e lo tenne contemplativo e tranquillo fino alla più tarda
età. La malinconia del Tasso è più profonda,
lo strazio non è solo nella sua immaginazione, ma nel suo
cuore, e penetra in tutta la vita. Sensitivo, impressionabile,
tenero, lacrimoso. Prende sul serio tutte le sue idee, religiose,
filosofiche, morali, poetiche, e vi conforma il suo essere.
Entusiasta sino all'allucinazione, perde la misura del reale e
spazia nel mondo della sua intelligenza, dove lo tiene alto
sull'umanità l'elevatezza e l'onestà dell'animo. Gli
manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico della vita, che
abbonda a' mediocri. La sua immaginazione è in continuo
travaglio, e gli corona e trasforma la vita non solo come poeta,
ma come uomo. Immaginatevelo nell'Italia del Cinquecento e in una
di quelle corti, e presentirete la tragedia. All'abbandono, alla
confidenza, all'espansione della prima giovinezza succede tutto il
corteggio del disinganno, la diffidenza, il concentramento, la
malinconia, l'umor nero e l'allucinazione: stato fluttuante tra la
sanità e la pazzia, e che potè far credere, non che
ad altri, ma a lui stesso di non avere intero il senno. In luogo
di medici e di medicine gli era bisogno un ritiro tranquillo, co'
suoi libri, e vicina una madre, o una sorella, o amici resi
intelligenti dall'affetto. Invece ebbe il carcere e la sterile
compassione degli uomini, lui supplicante invano a tutt'i principi
d'Italia. Libero, trovò una sorella ed un amico, che se
valsero a raddolcire, non poterono sanare un'immaginazione da
tanto tempo disordinata. E quando ebbe un primo riso della
fortuna, il giorno della sua incoronazione fu il giorno della sua
morte.
Guardate in viso il Petrarca e il Tasso. Tutti
e due hanno la faccia assorta e distratta, gli occhi gittati nello
spazio e senza sguardo, perchè mirano al di dentro. Ma il
Petrarca ha la faccia idillica e riposata di uomo che ha
già pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il
Tasso ha la faccia elegiaca e torbida di uomo che cerca e non
trova. E nell'uno e nell'altro non vedi i lineamenti accentuati ed
energici della faccia dantesca.
Manca al Tasso, come al Petrarca, la forza con
la sua calma olimpica e con la sua risoluta volontà.
È un carattere lirico, non è un carattere eroico. E
come il Petrarca, è natura subbiettiva, che crea di se
stesso il suo universo.
Se fosse nato nel medio evo, sarebbe stato un
santo. Nato fra quello scetticismo ipocrita e quella coltura
contraddittoria, vive tra scrupoli e dubbi, e non sa diffinire
egli medesimo se gli è un eretico o un cattolico,
più crudele inquisitore di sè che il tribunale
dell'Inquisizione. Cominciò molto vicino all'Ariosto col
suo Rinaldo. E gli parve che non se ne fosse discostato abbastanza
con la sua Gerusalemme Liberata. Scrupoli critici e religiosi lo
condussero alla Gerusalemme conquistata, ch'egli chiamava la "vera
Gerusalemme", la "Gerusalemme celeste". E non parsogli ancora
abbastanza, scrisse le Sette giornate della creazione.
Se in Italia ci fosse stato un serio movimento
e rinnovamento religioso, la Gerusalemme sarebbe stato il poema di
questo nuovo mondo, animato da quello stesso spirito che senti
nella Messiade o nel Paradiso perduto. Ma il movimento era
superficiale e formale, prodotto da interessi e sentimenti
politici più che da sincere convinzioni. E tale si rivela
nella Gerusalemme Liberata.
Il Tasso non era un pensatore originale,
nè gittò mai uno sguardo libero su' formidabili
problemi della vita. Fu un dotto e un erudito, come pochi ce
n'erano allora, non un pensatore. Il suo mondo religioso ha de'
lineamenti fissi e già trovati, non prodotti dal suo
cervello. La sua critica e la sua filosofia è cosa
imparata, ben capita, ben esposta, discorsa con argomenti e forme
proprie, ma non è cosa scrutata nelle sue fonti e nelle sue
basi, dove logori una parte del suo cervello. Ignora Copernico, e
sembra estraneo a tutto quel gran movimento d'idee che allora
rinnovava la faccia di Europa, e allettava in pericolose
meditazioni i più nobili intelletti d'Italia. Innanzi al
suo spirito ci stanno certe colonne d'Ercole, che gli vietano
andare innanzi; e quando involontariamente spinge oltre lo
sguardo, rimane atterrito e si confessa al padre inquisitore, come
avesse gustato del frutto proibito. La sua religione è un
fatto esteriore al suo spirito, un complesso di dottrine da
credere e non da esaminare, e un complesso di forme da osservare.
Nel suo spirito ci è una coltura letteraria e filosofica
indipendente da ogni influenza religiosa, Aristotile e Platone,
Omero e Virgilio, il Petrarca e l'Ariosto, e più tardi
anche Dante. Nel suo carattere ci è una lealtà e
alterezza di gentiluomo, che ricorda tipi cavallereschi anzi che
evangelici. Nella sua vita ci è una poesia martire della
realtà; vita ideale nell'amore, nella religione, nella
scienza, nella condotta, riuscita a un lungo martirio coronato da
morte precoce. Fu una delle più nobili incarnazioni dello
spirito italiano, materia alta di poesia, che attende chi la
sciolga dal marmo, dove Goethe l'ha incastrata, e rifaccia uomo la
statua.
Che cosa è dunque la religione nella
Gerusalemme? È una religione alla italiana, dommatica,
storica e formale: ci è la lettera, non ci è lo
spirito. I suoi cristiani credono, si confessano, pregano, fanno
processioni: questa è la vernice; quale è il fondo?
È un mondo cavalleresco, fantastico, romanzesco e
voluttuoso, che sente la messa e si fa la croce. La religione
è l'accessorio di questa vita, non ne è lo spirito,
come in Milton o in Klopstok. La vita è nella sua base,
quale si era andata formando dai Boccaccio in qua, col suo ideale
tra il fantastico e l'idillico, aggiuntavi ora un'apparenza di
serietà, di realtà e di religione.
Il tipo dell'eroe cristiano è Goffredo,
carattere astratto, rigido, esterno e tutto di un pezzo.
Ciò che è in lui di più intimo è il
suo sogno, che è pure imitazione pagana, reminiscenza del
sogno di Scipione. Il concetto religioso è manifestato in
Armida, la concupiscenza o il senso, e in Ubaldo, voce della
"donna celeste" o della ragione. Ma "la ragione parla, e il senso
morde", come dice il Petrarca, e l'interesse poetico è
tutto intorno ad Armida. La ragione usa una rettorica più
pagana che cristiana, e mostra aver pratica più con Seneca
e con Virgilio che con la Bibbia: il fonte della sua morale non
è il paradiso, ma la gloria. La ragione parla, e Armida
opera, circondata di artifici e di allettamenti. E l'autore qui si
trova nel campo suo, e s'immerge in fantasie ariostesche, profane,
idilliche, che crede trasformate in poesia religiosa,
perchè in ultimo vi appicca la verga aurea immortale di
Ubaldo, e la sua rettorica. Rinaldo, il convertito, non ha una
chiara personalità, perchè quello che è e
quello che diviene non si sviluppa nella sua coscienza, e non par
quasi opera sua, ma influsso di potenze malefiche e benefiche, le
quali se lo contendono. Il dramma è tutto esterno, e rimane
d'assai inferiore alla confessione di Dante, penetrata da spirito
religioso. Quanto al rimanente, Rinaldo è una reminiscenza
del Rinaldo o Orlando ariostesco in proporzioni ridotte, come
Argante è una reminiscenza di Rodomonte con faccia
più seria. Più tardi Rinaldo, trasformato in
Riccardo, divenne una reminiscenza di Achille; Sveno, mutato in
Ruperto, fu reminiscenza di Patroclo, e Solimano divenne Mezenzio,
e Argante Ettore. Reminiscenze cavalleresche, reminiscenze
classiche, più vivaci e fresche le prime, come più
vicine e ancora sonanti nello spirito italiano.
Il Tasso sentiva confusamente che il poema non
gli era venuto così conforme al suo tipo religioso,
com'egli aveva in mente. E nella Gerusalemme conquistata
cercò supplirvi. Ma cosa fece? Accentuò qualche
allegoria, diluì il sogno di Goffredo, appiccò al
bel viaggio al di là dell'Oceano, sola ispirazione moderna
e degna di Camoens, un viaggio sotterraneo assai stentato di
concetto e di forma, e vi aggiunse una storia anteriore delle
crociate, dipinta nella tenda di Goffredo. Rese il poema
più pesante, ma non più religioso, perchè la
religione non è nel dogma, non nella storia e non nelle
forme, ma nello spirito. E lo spirito religioso, come qualunque
fenomeno della vita interiore, non è cosa che si possa
mettere per forza di volontà.
Volea fare anche un poema serio. Ma la sua
serietà è negativa e meccanica, perchè da una
parte consiste nel risecare dalla vita ariostesca ogni elemento
plebeo e comico, e dall'altra in un ordito più logico e
più semplice, secondo il modello classico. E sente pure di
non esservi riuscito, e nella Gerusalemme rifatta usa colori
ancora più oscuri, e cerca un meccanismo più
perfetto. Gitta tutt'i personaggi nello stesso stampo, e, per far
seria la vita, la fa monotona e povera. Cerca una serietà
della vita in tempi di transizione, oscillanti fra tendenze
contraddittorie, senza scopo e senza dignità. Cerca
l'eroico, quando mancavano le due prime condizioni di ogni vera
grandezza, la semplicità e la spontaneità. La sua
serietà è come la sua religione, superficiale e
letteraria.
E voleva soprattutto dare al suo poema un
aspetto di credibilità e di realtà. Sceglie i suoi
elementi dalla storia; cerca esattezza di nomi e di luoghi; guarda
ad una connessione verisimile d'intreccio; e, come uno scultore,
ingrandisce i suoi personaggi con tale uguaglianza di proporzioni,
che sembrano tolti dal vero. Chiude in limiti ragionevoli i
miracoli della forza fisica; nè la forza e il coraggio sono
i soli fattori del suo mondo, ma anche l'esperienza, la saggezza,
l'abilità e la destrezza. Rifacendo la Gerusalemme,
accentuò ancora questa sua intenzione, cercando maggiore
esattezza storica e geografica. Nelle sue tendenze critiche e
artistiche si vede già un'anticipazione di quella scuola
storica e realista che si sviluppò più tardi. Ma
sono tendenze intellettuali, cioè puramente critiche, in
contraddizione con lo stato ancora fantastico dello spirito
italiano e con la sua natura romanzesca e subbiettiva. Gli manca
la forza di trasferirsi fuori di sè, non ha il divino
obblio dell'Ariosto, non attinge la storia nel suo spirito e nella
sua vita interiore, attinge appena il suo aspetto materiale e
superficiale. Ciò che vive al di sotto è lui stesso:
cerca l'epico, e trova il lirico, cerca il vero o il reale, e
genera il fantastico, cerca la storia, e s'incontra con la sua
anima.
La Gerusalemme conquistata, di aspetto
più regolare e di un meccanismo più severo, è
un ultimo sforzo per effettuare un mondo poetico, dal quale egli
sentiva esser rimasto molto lontano nella prima Gerusalemme. La
base di questo mondo dovea essere la serietà di una vita
presa dal vero, colta nella sua realtà storica e animata da
spirito religioso. Rimase in lui un mondo puramente intenzionale,
un presentimento di una nuova poesia, uno scheletro che rimpolpato
e colorito e animato da vita interiore si chiamerà un
giorno I Promessi Sposi.
Come in Dante, così nel Tasso questo
mondo intenzionale penetrato in un fondo estraneo vi rimane
appiccaticcio. Ci è qui come nel Petrarca un mondo non
riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si
trasformano, gli altri ancora in formazione. Il di fuori è
assai ben congegnato e concorde; ma è una concordia
meccanica e intellettuale, condotta a perfezione nella seconda
Gerusalemme. Sotto a quel meccanismo senti il disorganismo, un
principio di vita molto attivo nelle parti, che non giunge a
formare una totalità armonica. Il fenomeno è stato
avvertito da' critici, a' quali è parso che l'interesse sia
maggiore negli episodi che nell'insieme; e questi episodi, Olindo
e Sofronia, Rinaldo e Armida, Clorinda ed Erminia sono i soli
rimasti vivi nel popolo, giudice inappellabile di poesia. Ma
ciò che si chiama "episodio" è al contrario il fondo
stesso del racconto, la sua sostanza poetica; perchè il
poema, sotto una vernice religiosa e storica, è nella sua
essenza un mondo romanzesco e fantastico, conforme alla natura
dello scrittore e del tempo.
Il fantastico è per lungo tempo la
condizione di un popolo, che non ha l'intelligenza e la pratica
della vita terrestre e non la prende sul serio. La vita di quelle
plebi superstiziose e di quelle borghesie oziose e gaudenti era il
romanzo, il maraviglioso delle avventure prodotte da combinazioni
straordinarie di casi o da forze soprannaturali. Il Tasso stesso
era di un carattere romanzesco, insciente e aborrente delle
necessità della vita pratica. Il suo viaggio per gli
Abruzzi in veste da contadino, e il suo presentarsi alla sorella
non conosciuto, e la scena tenera che ne fu effetto, è
tutto un romanzo. Aggiungi le impressioni letterarie che gli
venivano dalla lettura dell'Ariosto e dell'Amadigi, e la gran voga
de' romanzi e il favore del pubblico, e ci spiegheremo come la
prima cosa che uscì dal suo cervello fu il Rinaldo, e come
questo mondo romanzesco si conserva invitto attraverso le sue
velleità religiose, storiche e classiche.
L'intreccio fondamentale del poema è un
romanzo fantastico a modo ariostesco, un'Angelica che fa perdere
il senno a Orlando, e un Astolfo che fa un viaggio fantastico per
ricuperarglielo. Hai Armida che innamora Rinaldo, e Ubaldo che
attraversa l'Oceano per guarirlo con lo specchio della ragione.
Angelica e Armida sono maghe tutt'e due, e istrumenti di potenze
infernali, ma sono donne innanzi tutto, e la loro più
pericolosa magia sono i vezzi e le lusinghe. Come Angelica,
così Armida si tira appresso i guerrieri cristiani e li
tien lontani dal campo; nè vi manca l'altro mezzo
ariostesco, la discordia, che produce la morte di Gernando,
l'esilio volontario di Rinaldo e la cattività di Argillano.
Da queste cause, le quali non sono altro che le passioni sciolte
da ogni freno di ragione e svegliate da vane apparenze, escono le
infinite avventure dell'Ariosto e le poche del Tasso annodate
intorno alla principale, Armida e Rinaldo. La selva incantata, che
ricorda la selva dantesca, è la selva degli errori e delle
passioni, o delle vane apparenze, nè i cristiani possono
entrare in Gerusalemme, se non disfacciano quegl'incanti,
cioè a dire, se non si purghino delle passioni. Questo
è il concetto allegorico di Dante, divenuto tradizionale
nella nostra poesia, smarrito alquanto nel pelago di avventure del
Boiardo e dell'Ariosto, e ripescato dal Tasso con un'apparenza di
serietà, che non giunge a cancellare l'impronta ariostesca,
cioè quel carattere romanzesco, che gli avevano dato il
Boiardo e l'Ariosto. Intorno a questo centro fantastico
moltiplicano duelli e battaglie: materia tanto più
popolare, quanto meno in un popolo è sviluppato un serio
senso militare. Il popolo italiano era il meno battagliero di
Europa, e si pasceva di battaglie immaginarie. Vanamente cerchiamo
in questo mondo fantastico un senso storico e reale,
ancorachè il poeta vi si adoperi. Mancano i sentimenti
più cari della vita. Non ci è la donna, non la
famiglia, non l'amico, non la patria, non il raccoglimento
religioso, nessuna immagine di una vita seria e semplice. Gildippe
e Odoardo riesce una freddura. La "pietà" di Goffredo e la
"saviezza" di Raimondo sono epiteti. L'amicizia di Sveno e Rinaldo
e nelle parole. Unica corda è l'amore, e spesso riesce
artificiato e rettorico, com'è ne' lamenti di Tancredi e di
Armida, ed anche in Erminia con quelle sue battaglie tra l'onore e
l'amore. Nessuna cosa vale tanto a mostrare il fondo frivolo e
scarso della vita italiana, quanto questi sforzi impotenti del
Tasso a raggiungere una serietà alla quale pur mirava.
Volere o non volere, rimane ariostesco, e di gran lunga inferiore
a quell'esempio. Gli manca la naturalezza, la semplicità,
la vena, la facilità e il brio dell'Ariosto: tutte le
grandi qualità della forza. Quella vita romanzesca,
così ricca di situazioni e di gradazioni, così piena
di movimenti e di armonie, con una obbiettività e una
chiarezza che sforza il tuo buon senso e ti tira seco come sotto
l'influsso di una malia, se ne è ita per sempre.
Su quel fondo romanzesco il Tasso edifica un
nuovo mondo poetico, e qui è la sua creazione, qui sviluppa
le sue grandi qualità. È un mondo lirico, subiettivo
e musicale, riflesso della sua anima petrarchesca, e, per dirlo in
una parola, è un mondo sentimentale.
È un sentimento idillico ed elegiaco che
trova nella natura e nell'uomo le note più soavi e
più delicate. Già questo sentimento si era
sviluppato al primo apparire del Risorgimento nel Poliziano e nel
Pontano, deviato e sperduto fra tanto incalzare di novelle, di
commedie e di romanzi. L'idillio era il riposo di una
società stanca, la quale, mancata ogni serietà di
vita pubblica e privata, si rifuggiva ne' campi, come l'uomo
stanco cercava pace ne' conventi. Sopravvennero le agitazioni e i
disordini dell'invasione straniera; e quando fine della lotta fu
un'Italia papale e spagnuola, perduta ogni libertà di
pensiero e di azione, e mancato ogni alto scopo della vita,
l'idillio ricomparve con più forza, e divenne l'espressione
più accentuata della decadenza italiana. Solo esso è
forma vivente fra tante forme puramente letterarie.
L'idillio italiano non è imitazione, ma
è creazione originale dello spirito. Già si annunzia
nel Petrarca, quale si afferma nel Tasso, un dolce fantasticare
tra' mille suoni della natura. L'anima ritirata in sè
è malinconica e disposta alla tenerezza, e senti la sua
presenza e il suo accento in quel fantasticare. La natura diviene
musicale, acquista una sensibilità, manda fuori con le sue
immagini mormorii e suoni, voci della vita interiore. Prevale
nell'uomo la parte femminile, la grazia, la dolcezza, la
pietà, la tenerezza, la sensibilità, la
voluttà e la lacrima; tutto quel complesso di amabili
qualità che dicesi il "sentimentale". I popoli, come
gl'individui, nel pendio della loro decadenza diventano nervosi,
vaporosi, sentimentali. Non è un sentimento che venga dalle
cose, ciò che è proprio della sanità, ma
è un sentimento che viene dalla loro anima troppo sensitiva
e lacrimosa. Manca la forza epica di attingere la realtà in
se stessa, e questa vita femminile è un tessuto di tenere o
dolci illusioni, nelle quali l'anima effonde la sua
sensibilità. Il sentimento è perciò
essenzialmente lirico e subbiettivo. Come il lavoro è tutto
al di dentro, ci si sente l'opera dello spirito, non so che
manifatturato, la cosa non colta nella naturalezza e
semplicità della sua esistenza, ma divenuta un fantasma e
un concetto dello spirito.
Il Tasso cerca l'eroico, il serio, il reale, lo
storico, il religioso, il classico, e si logora in questi
tentativi fino all'ultima età. Sarebbe riuscito un
Trissino; ma la natura lo aveva fatto un poeta, il poeta inconscio
d'un mondo lirico e sentimentale, che succedeva al mondo
ariostesco. A quest'ufficio ha tutte le qualità di poeta e
di uomo. L'uomo è fantastico, appassionato, malinconico, di
una perfetta sincerità e buona fede. Il poeta è
tutto musica e spirito, concettoso insieme e sentimentale. La sua
immaginazione non è chiusa in sè, come in un ultimo
termine, a quel modo che dal Boccaccio all'Ariosto si rivela nella
poesia, ma è penetrata di languori, di lamenti, di concetti
e di sospiri, e va diritto al cuore. L'Ariosto dice:
in sì dolci atti, in sì dolci
lamenti,
che parea ad ascoltar fermare i venti.
Il sentimento appena annunziato si scioglie in una immagine
fantastica. Il Tasso dice:
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave,
ch'al cor gli serpe ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lacrimar gl'invoglia e sforza.
Nella forma ariostesca ci è una virtù espansiva, che
rimane superiore all'emozione e cerca il suo riposo non nel
particolare, ma nell'insieme: qualità della forza. Nella
forma del Tasso ci è l'impressionabilità, che turba
l'equilibrio e la serenità della mente, e la trattiene
intorno alla sua emozione: l'immagine si liquefà e diviene
un "non so che", annunzio dell'immagine che cessa e dell'emozione
che soverchia:
e un non so che confuso instilla al core
di pietà, di spavento e di dolore.
Anche tra' furori delle battaglie la nota prevalente è
l'elegiaca, come nella ottava:
Giace il cavallo al suo signore appresso.
Ne' casi di morte gli riesce meglio l'elegiaco che l'eroico.
Aladino, che cadendo morde la terra ove regnò, è
grottesco. Solimano, che
... ... gemito non spande,
nè atto fa se non altero e grande,
ti offre un'immagine indistinta. Argante muore come Capaneo, ma la
forma è concettosa e insieme vaga, e quelle voci e que'
moti "superbi, formidabili, feroci" non ti dànno niente di
percettibile avanti all'immaginazione. L'idea in queste forme
rimane intellettuale, non diviene arte. Al contrario precise, anzi
pittoresche, sono le immagini di Dudone, di Lesbino, de' figli di
Latino, di Gildippe ed Odoardo, dove le note caratteristiche sono
la grazia e la dolcezza. Così è pure nella morte di
Clorinda; ispirazione petrarchesca con qualche reminiscenza di
Dante. Clorinda è Beatrice nel punto che parea dire: - Io
sono in pace -; ma è una Beatrice spogliata de' terrori e
degli splendori della sua divinità. Il sole non si oscura,
la terra non trema, e gli angioli non scendono come pioggia di
manna. La religione del Tasso è timida, ci è innanzi
a lui il ghigno del secolo, mal dissimulato sotto l'occhio
dell'inquisitore. L'elemento religioso era ammesso come macchina
poetica, a quel modo che la mitologia: tale è l'angiolo di
Tortosa, e Plutone, messi insieme. È una macchina insipida
in tutt'i nostri epici, perchè convenzionale, e non
meditata nelle sue profondità. Gli angioli del Tasso sono
luoghi comuni, e il suo Plutone, se guadagna come scultura,
è superficialissimo come spirito, e parla come un maestro
di rettorica. La parte attiva e interessante è affidata
alla magia, ancora in voga a quel tempo, dalla quale il Tasso trae
tutto il suo maraviglioso. La morte di Clorinda non è una
trasfigurazione, come quella di Beatrice, e si accosta al
carattere elegiaco e malinconico di quella di Laura, nel cui bel
volto "morte bella parea". Qui tutto è preciso e
percettibile, il plastico è fuso col sentimentale, il
riposo idillico col patetico, e l'effetto è un
raccoglimento muto e solenne di una pietà senz'accento,
come suona in questa immagine nel suo fantastico così umana
e vera e semplice, perchè rispondente alle reali
impressioni e parvenze di un'anima addolorata:
... ... in lei converso
sembra per la pietate il cielo e il sole.
La stessa ispirazione petrarchesca è nelle ultime parole di
Sofronia:
Mira il ciel com'è bello, e mira il sole
che a sè par che ne inviti e ne console.
Movimento lirico, che ricorda immagini simili di Dante e del
Petrarca, accompagnate nel Tasso da un tono alquanto pedantesco,
quando vuol darvi uno sviluppo puramente dottrinale e religioso,
come nelle prime parole di Sofronia, che hanno aria di una
riprensione amorevole fatta da un confessore a un condannato a
morte, o nelle parole di Piero a Tancredi, che hanno aria di
predica. La sua anima candida e nobile la senti più nelle
sue imitazioni petrarchesche e platoniche, che in ciò che
tira dal fondo dottrinale e tradizionale religioso. Sofronia, che
fa una lezione a Olindo, ricorda Beatrice che ne fa una simile e
più aspra a Dante; ma Beatrice è nel suo carattere,
è tutta l'epopea di quel secolo, ci è in lei la
santa, la donna, ed anche il dottore di teologia; Sofronia
è rigida, tutta di un pezzo, costruzione artificiale e
solitaria in un mondo dissonante,
perciò appunto esagerata nelle sue tinte religiose, a
cominciare da quella "vergine di già matura
verginità" per finire in quel bruttissimo:
... ... ella non schiva,
poi che seco non muor, che seco viva.
In questa eroina, martire della fede, non ci è la santa con
le sue estasi e i suoi ardori oltremondani, e non ci penetra il
femminile con la sua grazia e amabilità. È uscita
dal cervello concetto cristiano con reminiscenze pagane e
platoniche. Colui che l'ha concepita, pensava a Eurialo e Niso, a
Beatrice e a Laura. La creatura è rimasta nel suo
intelletto, e non ha avuto la forza di penetrare nella sua
coscienza e nella sua immaginazione così com'era, nel suo
immediato. Il che avviene quando la coscienza e l'immaginazione
sono già preoccupate, e non conservano nella loro
verginità le concezioni dell'intelletto. Se è vero
che, concependo Sofronia, il Tasso pensasse a Eleonora, è
una ragione di più, che ci spiega l'artificio e la durezza
di questa costruzione. Perciò Sofronia è la meno
viva e la meno interessante fra le donne del Tasso, e non è
stata mai popolare. Ma Sofronia è umanizzata da Olindo, il
femminile, in un episodio dove l'uomo è Sofronia: Olindo
diviene eroe per amore, come altri diviene eroe per paura. Il suo
carattere non è la forza, qualità estranea al tempo
ed al Tasso, e che senti così bene in quel sublime: "Me me,
adsum qui feci, in me convertite ferrum", imitato qui a rovescio e
rettoricamente. Il carattere di questo timido amante, "o mal
visto, o mal noto, o mal gradito", presentato a' lettori in una
forma artificiosa e sottile, è l'eco del Tasso,
un'anticipazione del Tancredi, la stampa di quel tempo e di quel
poeta, un elegiaco spinto sino al gemebondo, un idillico spinto
sino al voluttuoso. Il vero eroe del poema è Tancredi, che
è il Tasso stesso miniato: personaggio lirico e
subbiettivo, dove penetra il soffio di tempi più moderni,
come in Amleto. Tancredi è gentiluomo, cioè
cavalleresco nel senso più delicato e nobile, gagliardo e
destro più che gigantesco di corpo, malinconico, assorto,
flebile, amabile, consacrato da un amore infelice. La sua Clorinda
è una Camilla battezzata, tradizione virgiliana che al
momento della morte si rivela dantesca e petrarchesca. Carattere
muto, diviene intelligibile e umano in morte, come Beatrice e
Laura. La sua apparizione a Tancredi ricorda quella di Laura, ed
è una delle più felici imitazioni. La formazione
poetica della donna non fa in Clorinda alcun passo: rimane
reminiscenza petrarchesca. E se vuoi trovare l'ideale femminile
compiutamente realizzato nella vita in quel suo complesso di
amabili qualità, dèi cercarlo non nella donna, ma
nell'uomo, nel Petrarca e nel Tasso, caratteri femminili nel senso
più elevato, e in questa simpatica e immortale creatura del
Tasso, il Tancredi. Si è detto che l'uomo nella sua
decadenza tenda al femminile, diventi nervoso, impressionabile,
malinconico. Il simile è de' popoli. E lo spirito italiano
fa la sua ultima apparizione poetica tra' languori e i lamenti
dell'idillio e dell'elegia, divenuto sensitivo e delicato e
musicale. Il sentimento è il genio del Tasso, che gli fa
rompere la superficie ariostesca, e gli fa cavare di là
dentro i primi suoni dell'anima. L'uomo non è più al
di fuori, si ripiega, si raccoglie. Lo stesso Argante è
colpito da questo sublime raccoglimento innanzi alla caduta di
Gerusalemme, come il poeta innanzi alle rovine di Cartagine, o
quando nell'immensità dell'oceano concepisce e comprende
Colombo. Qui è l'originalità e la creazione del gran
poeta, che sorprende Solimano nelle sue lacrime e Tancredi nella
sua vanagloria. Vita intima, della quale dopo Dante e il Petrarca
si era perduta la memoria.
Con l'elegiaco si accompagna l'idillico.
L'immagine sua più pura e ideale è l'innamorata
Erminia, che acqueta le cure e le smanie nel riposo della vita
campestre. Quella scena è tra le più interessanti
della poesia italiana. Erminia è comica nel suo
atteggiamento eroico, e fredda e accademica nelle sue discussioni
tra l'onore e l'amore; ma quando si abbandona all'amore, si
rivelano in lei di bei movimenti lirici, come:
Oh belle agli occhi miei tende latine!
Nella sua anima ci è l'impronta malinconica e pensosa del
Tasso, una certa dolcezza e delicatezza di fibra, che la tien
lontana dalla disperazione, e la dispone alla pace e alla
solitudine campestre, della quale un pastore gli fa un quadro tra'
più finiti della nostra poesia. Erminia errante pe' campi
con le sue pecorelle, tutta sola in compagnia del suo amore,
pensosa e fantastica e lacrimosa, espande le sue pene con una
dolcezza musicale, il cui segreto è meno nelle immagini che
nel numero. Trovi reminiscenze petrarchesche e luoghi comuni in
una musica nuova, piena di misteri o di "non so che" nella sua
melodia. Un traduttore può rendere il senso, ma non la
musica di quelle ottave. L'anima del poeta non è nelle
cose, ma nel loro suono, a cui è sacrificata alcuna volta
la proprietà, la precisione, la sobrietà, tutte le
alte qualità dello stile, che rendono ammirabile il
Petrarca, suo ispiratore: pur non te ne avvedi sotto la malia di
quell'onda musicale, che non è un artifizio esteriore e
meccanico, ma è il non so che del sentimento, che viene
dall'anima e va all'anima.
L'idillico non è in questa o quella
scena, ma è la sostanza del poema, il suo significato. La
base ideale del poema è il trionfo della virtù sul
piacere, o della ragione sulle passioni. Un lato di questa base
rimane intellettuale e allegorico, e si risolve poeticamente in
esortazioni paterne, come:
Signor, non sotto l'ombra o in piaggia molle,
tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
ma in cima all'erto e faticoso colle
della virtù riposto è il nostro
bene.
Contrapposto alla virtù è il piacere, e qui si
sviluppano tutte le facoltà idilliche del poeta. In Erminia
l'idea idillica è la pace della vita campestre, farmaco del
dolore vòlto in dolce melanconia. Qui l'idea idillica
è il piacere della bella natura spinto sino alla
voluttà e alla mollezza, come ozio di anima e contrapposto
alla virtù e alla gloria: ciò che il poeta chiude
nel motto: "quel che piace, ei lice", traduzione del dantesco:
"libito fe' licito". Questa idea è sviluppata nel canto
della ninfa e nel canto dell'uccello, che sono due veri inni al
Piacere:
Solo chi segue ciò che piace è
saggio.
Il primo canto è di una esecuzione così perfetta per
naturalezza e semplicità, che soggioga anche il severo
Galilei, e gli fa dire che qui il Tasso si accosta alla
divinità dell'Ariosto. L'altro canto è fondato su
questo concetto maneggiato così spesso da Lorenzo e dal
Poliziano: "Amiamo, chè la vita è breve". L'immagine
è anche imitata dal Poliziano: è la descrizione
della rosa, fatta pure dall'Ariosto; ma, dove nel Poliziano ci
è il puro sentimento della bellezza, qui si sviluppa un
elemento sentimentale o elegiaco: l'impressione non è la
bellezza della rosa, ma la sua breve vita, e ne nasce un canto
immortale, penetrato di piacere e di dolore, il cui complesso
è una voluttà resa più intensa da immagini
tenere, fatti la morte e il dolore istrumenti del piacere e
dell'amore. Il protagonista di questo mondo idillico è
Armida, anzi questo mondo è il suo prodotto, perchè
essa è la maga del piacere che gli dà vita. Armida e
Rinaldo ricordano Alcina e Ruggiero, e il concetto stesso del
guerriero tenuto negli ozi lontano dalla guerra risale ad Achille
in Sciro, come l'idea dell'amore sensuale che trasforma gli uomini
in bestie è già tutta intera nella maga Circe. Di
questa lotta tra il piacere e la virtù si trovano vestigi
poetici in tutte le nazioni. Il Tasso con un senso di poesia
profondo ha fatto di Armida una vittima della sua magia. La donna
vince la maga, e come Cupido finisce innamorato di Psiche,
cioè a dire di divino si fa umano, Armida finisce donna che
obblia Idraotte e l'inferno e la sua missione, e pone la sua magia
a' servigi del suo amore. Questo rende Armida assai più
interessante di Alcina, e le dà un nuovo significato.
È l'ultima apparizione magica della poesia, apparizione
entro la quale penetra e vince l'uomo e la natura. È il
soprannaturale domato e sciolto dalle leggi più forti della
natura. È la donna uscita dal grembo delle idee platoniche
e delle allegorie, che si rivela co' suoi istinti nella pienezza
della vita terrena. Già in Angelica apparisce la donna; ma
la storia di Angelica finisce appunto allora, e allora appunto
comincia la storia di Armida. Angelica, terminando le sue
avventure nella prosa idillica del suo matrimonio con un "povero
fante", è salutata e accomiatata dal poeta con quel suo
risolino ironico. Il concetto, ripigliato dal Tasso, diviene una
interessante storia di donna, a cui l'arte magica dà il
teatro e lo scenario. Così la maga Armida è l'ultima
maga della poesia e la più interessante nella chiarezza e
verità della sua vita femminile. Vive anche oggi nel popolo
più che Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perchè
unisce tutti gli splendori della magia con tutta la realtà
di un povero core di donna. La sua riabilitazione è in
quell'ultimo motto tolto alla Madonna: - Ecco l'ancilla tua -;
conclusione piena di senso: molto le è perdonato,
perchè ha molto amato. Ed è l'amore che uccide in
lei la maga e la fa donna. Trasformazione assai più poetica
che non è lo scudo di Ubaldo e la donna celeste:
ond'è che Rinaldo nella sua conversione t'interessa assai
meno che Armida in questa sua trasfigurazione, perchè
quella conversione nasce da cause esterne e soprannaturali, e
questa trasfigurazione è il logico effetto di movimenti
interni e naturali.
In Erminia e in Armida si compie la donna, non
quale uscì dalla mente di Dante e del Petrarca, di cui si
trovano le orme in Sofronia e in Clorinda, non il tipo divino,
eroico e tragico della donna, ma un tipo più umano,
idillico ed elegiaco. La forza di Erminia è nella sua
debolezza. Senza patria e senza famiglia, sola sulla terra, vive
perchè ama, e, perchè ama, opera, ma le sue vere
azioni sono discorsi interiori, visioni, estasi, illusioni,
lamenti e lacrime, tutto un mondo lirico, che si effonde con una
dolcezza melanconica tra onde musicali. Erminia pastorella
è la madre di tutte le Filli e Amarilli che vennero poi,
lontanissime dal modello. Nè tra le creature idilliche del
Boccaccio, del Poliziano, del Molza, del Sannazzaro c'è
nessuna che le si avvicini. In Armida si sviluppa tutto il romanzo
di un amore femminile con le sue voluttà, con i suoi ardori
sensuali, con le sue furie e le sue gelosie e i suoi odii. Nessuno
aveva ancora colta la donna con un'analisi così fina
nell'ardenza e nella fragilità de' suoi propositi, nelle
sue contraddizioni. La lingua dice: - Odio -, e il cuore risponde:
- Amo; - la mano saetta, e il cuore maledice la mano:
e mentre ella saetta, Amor lei piaga.
Si dirà che tutto questo non è eroico, e non
tragico; e appunto per questo elle sono creature viventi, figlie
non dell'intelletto, ma di tutta l'anima, con l'impronta sulla
fisonomia del poeta e del secolo.
Il mondo idillico, figlio della mente d'Armida,
è il palazzo e il giardino incantato, cioè la bella
natura campestre resa artistica, trasformata dall'arte in
istrumento di voluttà, sì che pare che "imiti
l'imitatrice sua". Nell'Odissea, nelle Georgiche, nelle Stanze,
ne' giardini ariosteschi la bella natura è sostanzialmente
campestre o idillica, e il suo ideale umano è la vita
pastorale: l'età dell'oro attinge anche di là le sue
immagini. Il quadro abituale della poesia classica e italiana
è il verde de' campi, i fiori, gli alberi, il riso della
primavera, le fresche ombre, gli antri, le onde, gli uccelli, le
placide aurette, quadro decorato dall'arte con le sue statue e i
suoi intagli. Questa vista della natura si allarga innanzi al
secolo di Colombo e di Copernico, e ne senti l'impressione
nell'immensità dell'oceano, dove il Tasso trova alcune
belle ispirazioni. Ma alla fine del viaggio, toccando le isole
Fortunate, soggiorno di Armida, ricasca nel solito quadro, e vi
pone l'ultima mano. Qui vedi raccolto come in un bel mazzetto
tutto ciò che di vezzoso e di leggiadro avea trovato
l'immaginazione poetica da Omero all'Ariosto; ma è
nell'ultima sua forma, raffinata o artificiosa. Come Dante crea
una natura oltremondana, il Tasso crea una natura oltrenaturale,
una natura incantata, il paradiso della voluttà. Non
è la natura còlta nell'immediato della sua
esistenza, ma natura artefatta, lavorata e trasformata da un
artista, che ha fini e mezzi suoi, e l'artista è Armida,
maestra di vezzi e di artifici, che crea intorno a sè una
natura meretricia e voluttuosa. Questa forma testamentaria della
natura classica è portata a un alto grado di perfezione da
un poeta che a un sentimento musicale sviluppatissimo aggiungeva
tutte le finezze dello spirito.
Abbiamo anche una selva incantata, cioè
una selva artefatta, e accomodata ad uno scopo a lei estraneo.
L'incanto ne' romanzi cavallereschi è così
arbitrario come la natura, e non è altro che combinazione
straordinaria di apparenze, che déstino curiosità e
maraviglia. Qui, come è concepito dal Tasso, l'incanto
è ragionevole, e perciò intelligibile, è la
natura rimaneggiata dall'arte e indirizzata ad uno scopo. Come il
giardino e il palazzo incantato, così la selva incantata
è opera di artista che l'atteggia a suo modo e secondo i
suoi fini. Il concetto non è nuovo: è la nota selva
delle false apparenze, la selva degli errori e delle passioni; ma
l'esecuzione è originalissima, e ti offre il microcosmo del
Tasso, il suo mondo elegiaco-idillico condensato e accentuato. Ci
è lì fuso insieme Erminia e Armida, Tancredi e
Rinaldo, tutta l'anima poetica del Tasso, ciò che di
più tenero ha l'elegia e ciò che di più molle
ha l'idillio, ne' loro accenti più musicali.
Questo è il vero mondo poetico della
Gerusalemme, un mondo musicale, figlio del sentimento, che dalla
più intima malinconia va digradando fino al più
molle e voluttuoso di una natura meridionale. Ingegno napolitano,
manca al Tasso la grazia e la vivezza toscana, e la decisione e
chiarezza lombarda così ammirabile nell'Ariosto, ma gli
abbonda quel senso della musica e del canto, quel dolce
fantasticare dell'anima tra le molli onde di una melodia
malinconica insieme e voluttuosa, che trovi nelle popolazioni
meridionali, sensibili e contemplative.
Questo mondo del sentimento è insieme il
mondo dei "concetti". Come il Petrarca, così il Tasso
è disposto meno a rinnovare un vecchio repertorio che ad
abbigliarlo a nuovo. Dottissimo, la sua materia poetica è
piena di reminiscenze, e non coglie il mondo nel suo immediato, ma
a traverso i libri. Lavora sopra il lavoro, raffina, aguzza
immagini e concetti: la qual forma nella sua esteriorità
meccanica egli la chiama il "parlare disgiunto", ed è un
"lavoro di tarsie", come diceva il Galilei. Cercando l'effetto non
nell'insieme, ma nelle parti, e facendo di ogni membretto un mondo
a sè, raffinato e accentuato, le giunture si scompongono,
l'organismo del periodo si scioglie, e vien fuori una specie di
parallelismo, concetti e immagini a due a due, posti di fronte in
guisa che si dieno rilievo a vicenda. Il fondo di questo
parallelismo è l'antitesi, presa in un senso molto largo,
cioè una certa armonia che nasce da oggetti simili o
dissimili posti dirimpetto, come:
Molto egli oprò col senno e colla mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto:
e invan l'inferno a lui s'oppose, e invano
si armò d'Asia e di Libia il popol
misto.
Quel "molto" e quell'"invano" sono il ritornello di una cantilena
chiusa in se stessa ed esaurita nell'espressione di un rapporto
tra due oggetti. Naturalmente, cercando l'effetto in quel
rapporto, l'intelletto vi prende parte più che non si
convenga a poeta, e riesce nel raffinato e nel concettoso, come:
Oh di par con la man luci spietate!
Essa le piaghe fe', voi le mirate.
Questo parallelismo, fondato sopra ritornelli di parole,
ravvicinamenti di oggetti, e straordinarietà di rapporti,
non è un accidente è il carattere di questa forma
con gradazioni più o meno spiccate. E non attinge solo i
pensieri, ma anche le immagini, come:
... ... e par che porte
lo spavento negli occhi e in man la morte.
L'immaginazione nelle sue contemplazioni ha sempre a' fianchi un
pedagogo, che analizza e distingue con logica precisione, come:
Sparsa è d'armi la terra, e l'armi
sparte
di sangue, e il sangue col sudor si mesce.
Cerca troppo il poeta lo stacco e il rilievo, dare un significato
anche all'insignificante, e cerca il significato ne' rapporti
intellettuali anche tra la maggiore evidenza della
rappresentazione e la concitazione più violenta
dell'affetto, come:
O sasso amato ed onorato tanto,
che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto!
Con questi giuochi di parole e di pensieri si lagna Tancredi e
infuria Armida, la quale anche nella disperazione del suicidio fa
un discorsetto alle sue armi assai ingegnoso, e finisce:
sani piaga di stral piaga d'amore,
e sia la morte medicina al core.
È ciò che fu detto "orpello del Tasso" o maniera,
propria de' poeti subiettivi, una forma artificiosa di
rappresentazione, dove l'interessante non è la cosa, ma il
modo di guardarla. In questo caso la forma non è la cosa,
ma lo spirito, con le sue attitudini facilmente classificabili ne'
loro caratteri esteriori, e divenute maniera o abitudine nella
rappresentazione, com'è il petrarchismo o il marinismo.
Essendo il proprio di questa maniera una cantilena breve e chiusa,
che ha il suo valore non solo nel rimanente della clausola, ma in
se stessa, vi si sviluppa l'elemento cantabile e musicale, una
enfasi sonora, un suono di tromba perpetuo e monotono, con certe
pause, con certi trilli, con certe ripigliate, con un certo
sopratuono come di chi gridi e non parli, che non comporta la
semplice recitazione, come si può in molti passi di Dante,
del Petrarca e dell'Ariosto, ma ti costringe alla declamazione. Ci
è un "arma virumque cano" dal principio all'ultimo, un
accento sollevato e teso, come di chi si trovi in uno stato
cronico di esaltazione. Indi, scelta di parole sonanti, riempiture
di epiteti e di avverbi, nobiltà convenzionale di
espressione, povertà di parole, di frasi, di costruzioni e
di gradazioni. Con questa forma declamatoria si accompagna
naturalmente la rettorica, che è quel tenersi su' generali,
e ravvivare luoghi comuni o concettosi con un calore tutto
d'immaginazione, tra uno scoppiettio di apostrofi, epifonemi,
ipotiposi, interrogazioni ed esclamazioni: il che gli avviene
massime quando mira alla forza di concitate passioni, come sono i
lamenti di Tancredi e i furori di Armida. Questa è la
"maniera" del Tasso, per entro alla quale penetra il potente
soffio d'un sentimento vero, che spesso gli strappa accenti nella
loro energia pieni di semplicità. Nelle ultime parole di
Clorinda ci è un sì e un no in battaglia, "al corpo
no, all'anima sì"; ma, salvo questo, che affetto e quanta
semplicità in quell'affetto ! Togliete quel fiato al
Petrarca e al Tasso, cosa rimane? La maniera, il petrarchismo e il
marinismo, il cadavere de' due poeti.
La Gerusalemme non è un mondo esteriore,
sviluppato ne' suoi elementi organici e tradizionali, come
è il mondo di Dante o dell'Ariosto. Sotto le pretensiose
apparenze di poema eroico è un mondo interiore, o lirico, o
subbiettivo, nelle sue parti sostanziali elegiaco-idillico, eco
de' languori, delle estasi e de' lamenti di un'anima nobile,
contemplativa e musicale. Il mondo esteriore ci era allora, ed era
il mondo della natura, il mondo di Copernico e di Colombo, la
scienza e la realtà. Anche il Tasso ne ha un bagliore, e
visibili sono qui le sue intenzioni storiche, reali e
scientifiche, rimaste come presentimenti di un mondo letterario
futuro. L'Italia non era degna di avere un mondo esteriore, e non
l'aveva. Perduto il suo posto nel mondo, mancato ogni scopo
nazionale della sua attività, e costretta alla ripetizione
prosaica di una vita, di cui non aveva più l'intelligenza e
la coscienza, la sua letteratura diviene sempre più una
forma convenzionale separata dalla vita, un gioco dello spirito
senza serietà, perciò essenzialmente frivolo e
rettorico anche sotto le apparenze più eroiche e più
serie. Di questa tragedia Torquato Tasso è il martire
inconscio, il poeta appunto di questa transizione; mezzo tra
reminiscenze e presentimenti, fra mondo cavalleresco e mondo
storico; romanzesco, fantastico, tra le regole della sua poetica,
la severità della sua logica, le sue intenzioni realiste e
i suoi modelli classici; agitantesi in un mondo contraddittorio
senza trovare un centro armonico e conciliante; così scisso
e inquieto e pieno di pentimenti nel suo mondo poetico, come nella
vita pratica. Miserabile trastullo del suo cuore e della sua
immaginazione, fu là il suo martirio e la sua gloria.
Cercando un mondo esteriore ed epico in un repertorio già
esaurito, vi gittò dentro se stesso, la sua
idealità, la sua sincerità, il suo spirito
malinconico e cavalleresco, e là trovò la sua
immortalità. Ivi si sente la tragedia di questa decadenza
italiana. Ivi la poesia prima di morire cantava il suo lamento
funebre, e creava Tancredi, presentimento di una nuova poesia,
quando l'Italia sarà degna di averla.
XVIII
MARINO
Questo mondo lirico, che nella Gerusalemme si trova mescolato con
altri elementi, apparisce in tutta la sua purezza idillica ed
elegiaca nell'Aminta. Ivi il Tasso incontra il vero mondo del suo
spirito e lo conduce a grande perfezione.
L'Aminta non è un dramma pastorale e
neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica
è un poemetto lirico, narrazione drammatizzata, anzi che
vera rappresentazione, com'erano le tragedie e le commedie e i
così detti drammi pastorali in Italia. Citerò la
Virginia dell'Accolti, resa celebre dall'imitazione di
Shakespeare. Essa è in fondo una novella allargata a
commedia, di quel carattere romanzesco che dominava
nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che
è il Ruffo, la cui volgarità fa contrasto con la
natura cavalleresca de' due protagonisti, Virginia e il principe
di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con
magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice
occasione a monologhi e capitoli, dove paion fuori i sentimenti
dei personaggi misti alla narrazione. Di tal genere erano anche le
egloghe o commedie pastorali, iniziate fin da' tempi del Boiardo
nella corte di Ferrara, e giunte allora a una certa perfezione
d'intreccio e di meccanismo nel Sacrificio del Beccari,
nell'Aretusa del Lollio e nello Sfortunato dell'Argenti. Queste
ecloghe, che dalla semplicità omerica e virgiliana erano
state condotte fino ad un serio viluppo drammatico, furono dette
senza più "favole boscherecce". E anche commedie pastorali.
L'Aminta è un'azione fuori del teatro,
narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le
passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella
narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui
concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore:
"s'ei piace, ei lice". Il motivo è lirico, sviluppo di
sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di avvenimenti.
Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze,
movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di
grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima.
Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile,
che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza, con una
sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo.
Ed è perciò semplicità meccanica e
manifatturata, che dà un'apparenza pastorale a un mondo
tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la
stessa semplicità è un raffinamento. A'
contemporanei parve un miracolo di perfezione, e certo non ci
è opera d'arte così finamente lavorata.
Tentò il Tasso anche la tragedia
classica, e ad imitazione di Edipo re scrisse il suo Torrismondo.
Ma l'Italia non avea più la forza di produrre nè
l'eroico, nè il tragico, e lì non ci è di
vivo se non quello solo di vivo che era nel poeta e nel tempo,
l'elemento elegiaco, massime ne' cori. I contemporanei credettero
di avere il poema eroico nella Gerusalemme, e non molto
soddisfatti del Torrismondo aspettavano ancora la tragedia
classica.
Delle sue rime sopravvive qualche sonetto e
qualche canzone, effusione di anima tenera e idillica. Invano vi
cerco i vestigi di qualche seria passione. Repertorio vecchio di
concetti e di forme con i soliti raffinamenti. Dipinge bella donna
così:
Chè del latte la strada
ha nel candido seno,
e l'oro delle stelle ha nel bel crine,
ne' lumi ha la rugiada.
Il suo dolore esprime a questo modo:
Fonti profonde son d'amare vene
quelle ond'io porto sparso il seno e 'l volto;
è 'nfinito il dolor, che dentro accolto
si sparge in caldo pianto e si mantene:
nè scema una giammai di tante pene,
perch'il mio core in dolorose stille
le versi a mille a mille.
I sentimenti umani sono petrificati nell'astrazione di mille
personificazioni, come l'amore, la pietà, la fama, il
tempo, la gelosia, e nel gelo di dottrine platoniche e di forme
petrarchesche.
Quel che sieno le sue prose, si può
immaginare. Dottissime, irte di esempi e di citazioni, in istil
grave, in andamento sostenuto, ma non inceppato, sfolgoranti di
nobili sentimenti. Quando esprime direttamente i moti del suo
animo, mostra un affetto rilevato da una forma cavalleresca e di
gentiluomo anche nell'abiezione della sua sorte, com'è in
alcune sue lettere. Quando specula, come ne' Dialoghi, senti
ch'è fuori della vita, e sta in quistioni astratte, o
formali. Ci è un libro che volontariamente ha chiuso, ed
è il libro della libera investigazione. Nella sua
giovinezza l'autore del Rinaldo, dedito a furtivi e disordinati
amori, era anche infetto dalla peste filosofica. La gran quistione
era qual fosse superiore, la fede o la religione, la
volontà o l'intelletto. I filosofi moderni rivendicano,
egli dice, la sovranità dell'intelletto, e sostengono che
l'uomo non può credere a quello che ripugna all'intelletto.
Tratto dalla corrente, il giovine Tasso non crede
all'incarnazione, nè all'immortalità dell'anima, e
di quei suoi costumi e di queste opinioni i suoi avversari gli
fecero carico presso la corte, quand'egli era già pentito e
confesso e animato da zelo religioso. La sua religione è
messa d'accordo con la sua filosofia su questo bel ragionamento,
che l'intelletto non può spiegare tante cose che pure
esistono, e che perciò esistono anche le verità
della fede, ancorchè l'intelletto non sia giunto a
spiegarle. Indi è che ti riesce più erudito e dotto
che filosofo, e rimane segregato da tutto quel movimento
intellettuale intorno alla natura e all'uomo che allora ferveva
anche in Italia, abbandonandosi al suo naturale discorso
timidamente, e non senza aggiungere che se cosa gli vien detta non
pia e non cattolica, sia per non detta. Odia a morte i luterani,
ha in sospetto i filosofi "moderni", e cerca un rifugio negli
antichi, massime in Platone, più affine alla sua natura
contemplativa e religiosa. De' suoi dubbi, delle sue
ansietà, della sua vita intellettuale interiore non
è rimasto un pensiero, non un grido. Ci è qui
l'anima di Pascal o di sant'Agostino, cristallizzata in
quell'atmosfera inquisitoriale nelle forme classiche e negli studi
platonici. Uno de' suoi più interessanti dialoghi è
quello che prende il nome del Minturno, scrittore napolitano, che
fra l'altro die' fuori una Poetica. Ivi il poeta investiga la
natura del bello, confutando tutte le definizioni volgari, e
conchiude che il bello è la natura angelica, ovvero l'anima
"in quanto si purga", che è appunto il concetto della sua
Gerusalemme. Evidentemente, confonde il bello col vero e colla
perfezione morale, intravede l'ideale, e non lo coglie, e si
discosta dalla poesia quanto più si accosta a quel
concetto, come nella Conquistata e nelle Sette giornate. Il
dialogo è platonico nel concetto e nell'andamento, ma vi
desideri la grazia e la freschezza di quel divino.
Il secolo comincia con l'Arcadia del
Sannazzaro, e finisce con l'Arcadia del Guarini, detta il Pastor
fido. L'idillio, attraversato nel suo cammino dalla moda
cavalleresca, ripiglia forza e resta padrone del campo,
sviluppandosi a forma drammatica.
L'idillico e il comico erano generi viventi
insieme col romanzesco, e rappresentavano quella parte di vita
poetica rimasta all'Italia. Il tragico e l'eroico erano pura
imitazione. Perciò il comico e l'idillico si sprigionano in
parte dalle forme classiche e prendono un aspetto più
franco.
Il comico sviluppato in una moltitudine di
novelle e di commedie lasciava quel fondo convenzionale di Plauto
e Terenzio, e produceva caratteri freschi e vivi, e per piacere si
accostava alle forme della vita popolare e anche a quel
linguaggio, ora mescolando con l'italiano il dialetto, ora
scrivendo tutto in dialetto. Le farse napolitane accennavano
già a questo genere. Ne scrisse anche di simili Beolco, o
il Ruzzante, detto il "famosissimo". Gli attori cominciarono a
contentarsi del canavaccio, o del semplice ordito, come si fa ne'
balli teatrali, e improvvisavano il linguaggio, a quel modo che
facevano gli antichi novellieri. Compagnie di rapsodi, o
improvvisatori, si sparsero in Italia, e anche più tardi a
Parigi e a Londra, traendosi appresso un repertorio, dove
attinsero molti soggetti e pensieri e situazioni drammatiche
Shakespeare e Molière. Come ci era un fondo comune
d'invenzione, così ci erano caratteri fissi e determinati,
che comparivano in maschera, e alcuni anche senza, come Pantalone,
Brighella, Arlecchino, Pulcinella, il Dottore bolognese, il
capitan Spavento, o il capitano Matamoros, il servo sciocco, come
Trappola, e simili. Rappresentazioni, che ricordavano le atellane
dell'antica Roma, e si chiamavano "commedie a soggetto", dove non
ci era altro di espresso che il soggetto. Gli attori erano anche
autori, e spesso rappresentavano prima una commedia "erudita", e
poi per far piacere al pubblico improvvisavano una commedia a
soggetto, o "dell'arte". Intrighi amorosi, combinazioni
straordinarie della vita e certe parti episodiche convenute, certi
caratteri tradizionali, come lo sciocco, il buffo, il discolo, il
pedante, la mezzana, l'usuraio, sono il fondo di questi repertorii
popolari, a' quali si avvicinano molto le commedie dell'Aretino.
Ivi si trovano i secreti della vita e del carattere italiano,
assai più che in tutte le imitazioni classiche. Una storia
della commedia e della novella in tutte le sue forme sarebbe un
lavoro assai istruttivo, e se ne caverebbero elementi preziosi per
la storia della società italiana. Un ricco repertorio di
soggetti sceneggiati ci ha lasciato nelle sue Cinquanta giornate
Flaminio Scala, autore e attore così famoso come il
"famosissimo" Ruzzante, e Andrea Calmo, "stupore e miracolo delle
scene". Flaminio rappresentava la parte dell'innamorato, e fu il
capo di quella compagnia comica che aprì il primo teatro
italiano a Parigi nel 1577, sotto Enrico terzo. Celebre attrice fu
sua moglie Orsola, e più celebre fu Isabella di Padova,
sposata a Francesco Andreini, che rappresentava la parte del
capitan Spavento. Isabella, celebrata dal Tasso, dal Castelvetro,
dal Campeggi, dal Chiabrera, morì a Lione, e nella scritta
posta al suo sepolcro è detta "Musis amica et artis
scaenicae caput". Pari a lei di fama e di genio e di virtù
fu Vincenza Armani, di Venezia, scrittrice e attrice, che ne'
drammi pastorali rappresentava la parte di Clori. La parte del
Dottore fu resa celebre dal Graziano, e Arlecchino ebbe il suo
grande interprete in Giovanni Ganassa, da Bergamo, che nel 1570
introdusse nella Spagna la commedia dell'arte, come Flaminio aveva
fatto a Parigi e a Londra. Il Roscio del secolo fu il Verato, di
Ferrara, celebrato dal Tasso e dal Guarini, che intitolò
dal suo nome un'apologia del suo dramma. La commedia dell'arte non
era altro se non la stessa commedia erudita tolta di mano agli
accademici e rinfrescata nella vita popolare, maneggiata da
scrittori meno dotti, ma più pratici del teatro e
più intelligenti del gusto pubblico: perciò
più svelta e vivace nel suo andamento, e rallegrata da
quello spirito che viene dall'improvviso e dall'uso del dialetto,
non senza cadere a sua volta nel vizio opposto alla pedanteria,
ne' lazzi sconci degli Arlecchini. Di essa non sono rimasti che
gli scheletri: tutto ciò che vi aggiungeva l'immaginazione
improvvisatrice vive solo nell'ammirazione de' contemporanei.
Accanto al comico e al romanzesco si sviluppava
il sentimento idillico, con tanto più forza quanto la
società era più artificiata e raffinata. L'idillio
si presentava come contrasto tra l'onore e l'amore, tra la
città e la villa, tra le leggi sociali e le leggi della
natura. Naturalmente è l'amore o la natura che vince. La
felicità, posta nell'età dell'oro, cioè a
dire fuori de' travagli e delle agitazioni della vita reale, nel
riposo o tranquillità dell'anima; la vita rustica con
quelle bellezze della natura, con quella vita di godimenti
semplici, con quella spontaneità e ingenuità di
sentimenti, era quel naturale contrapposto di un mondo
convenzionale, che senti nell'Aminta e nel "pastore" di Erminia.
L'ideale poetico posto fuori della società in un mondo
pastorale rivelava una vita sociale prosaica, vuota di ogni
idealità. La poesia incalzata da tanta prosa si rifuggiva,
come in un ultimo asilo, ne' campi, e là gli uomini di
qualche valore attingevano le loro ispirazioni, di là
uscirono i versi del Poliziano, del Pontano e del Tasso. Come la
commedia a soggetto era il pascolo della plebe, il dramma
pastorale era il grato trattenimento delle corti, che ci trovavano
un linguaggio più castigato e predicatore di virtù
fuori di ogni applicazione alla vita pratica. Perciò, come
la commedia divenne sempre più licenziosa e plebea, il
dramma pastorale prese aria cortigiana, e quel mondo semplice
della natura si manifestò con una raffinatezza degna delle
nobili principesse spettatrici. Questo carattere già
visibile nell'Aminta diviene spiccatissimo nel Pastor fido.
Giambattista Guarini fu poeta di occasione e cortigiano di natura,
dove il Tasso fu tutto l'opposto: cortigiano per bisogno e per
istinto poeta. Il Guarini era nobile e ricco, e non lo strinse
alla vita di corte che la sua natura irrequieta e ambiziosa.
Passò il tempo errando di corte in corte, e dopo i
disinganni correva dietro a nuovi inganni. Aveva molto ingegno,
non comune coltura, assai pratica della vita e degli uomini, mente
chiarissima, grande attività. Compagno negli studi col
Tasso a Padova, fu a Ferrara suo emulo, e quando il Tasso
capitò in prigione, prese il suo posto e fu battezzato
poeta di corte. Disgustato a sua volta degli Estensi, si
ritirò in una sua bellissima villa, e vi concepì e
vi scrisse il Pastor fido, acclamato da tutta Italia. Anche lui
ebbe le sue intenzioni critiche. Volle fare una tragicommedia,
mescolanza di elementi tragici e comici in un ordito largo e
ricco, dove fossero innestate più azioni. Questo parve
eresia a' critici, tenaci al "simplex et unum", e che non
concepivano l'arte se non come un ideale tragico o comico. Si
ravvivarono adunque quelle polemiche letterarie, che dal
Castelvetro e dal Caro in qua mettevano in moto tante accademie.
Il Guarini si difese assai bene nell'Apologia, e mostrò
coscienza chiarissima della sua opera. Forse il teatro spagnuolo
non fu senza influenza sulla sua critica, ma, come tutto si
diffiniva con l'autorità de' classici, difese quell'innesto
di azioni e quella mescolanza di caratteri con Aristotile alla
mano e con l'Andria di Terenzio. Oggi gli si fa gloria di quello
che allora si reputava peccato. Si dice ch'egli abbia intraveduto
il dramma moderno, e non solo lo intravide, ma lo concepì
con l'esattezza di un critico odierno. La poesia dee rappresentare
la vita così com'è, con le sue mescolanze e i suoi
sviluppi: questo è il concetto ch'esce chiaramente dal suo
discorso. Ma quello che in Shakespeare e in Calderon è
sentimento dell'arte sviluppato naturalmente in una vita
nazionale, ricca e piena, in lui è visione intellettuale e
solitaria, è concetto di critico, non sentimento di
artista; concepiva il dramma quando del dramma mancavano tutte le
condizioni in Italia, principalmente una vita seria e sostanziale.
La sua critica fa onore all'intelletto italiano, allora nel fiore
del suo sviluppo, e rivela insieme la decadenza della
facoltà poetica.
Il Pastor fido, come meccanismo ed esecuzione
tecnica, è ciò che di più perfetto offriva la
poesia. Due azioni entranti naturalmente l'una nell'altra e
magnificamente innestate, caratteri ben trovati e ben disegnati e
perfettamente fusi nella loro mescolanza, una superficie levigata
con l'ultima eleganza, una versificazione facile, chiara e
musicale fanno di questo poemetto, per ciò che si attiene a
costruttura e ad abilità tecnica, un gioiello. Tutto
ciò che chiarezza d'intelletto e industria di stile e di
verso può dare, è qui dentro. Il concetto, come
nell'Aminta, è il trionfo della natura, con la quale il
destino, in lotta apparente, si riconcilia da ultimo, mediante le
solite agnizioni. Il poema è un'apoteosi della vita
pastorale e dell'età dell'oro, contrapposta alla corruzione
e alle agitazioni della città, e invocata spesso da'
personaggi con senso d'invidia nella stretta delle loro passioni.
Abbondano invocazioni, preghiere, sentenze morali e religiose; ma
il fondo è sostanzialmente pagano e profano, è il
naturalismo, la natura scomunicata e condannata come peccato, che
qui, dopo lunga lotta, si scopre non essere altro che la stessa
legge del destino. La conclusione è: "Omnia vincit amor",
riconciliato col destino e divenuto virtù, con tanto
più sapore, con quanto più dolore:
Quello è vero gioire,
che nasce da virtù dopo il soffrire.
Ma la virtù è nome, e la cosa è il godimento
amoroso sotto forme così voluttuose, che il Bellarmino ebbe
a dire aver fatto più male con quel suo libro il Guarini
che non i luterani. Dal concetto nasce tutto l'intrigo. Corisca e
il satiro sono l'elemento comico e plebeo: l'una è la donna
corrotta della città, tornata a' campi e divenuta il mal
genio di questa favola, l'altro è l'ignoranza e la
grossolanità della vita naturale ne' suoi cattivi istinti,
e tutti e due sono la macchina poetica, l'istrumento che annoda
gli avvenimenti e produce la catastrofe. I protagonisti sono
Mirtillo e Amarilli, che si amano senza speranza, essendo Amarilli
fidanzata a Silvio, il quale, come la Silvia dell'Aminta, è
dedito alla caccia, ed ha il core chiuso all'amore, invano amato
da Dorinda, invano fidanzato ad Amarilli. Mirtillo ed Amarilli per
inganno di Corisca e per la bestialità del satiro sono
dannati a morte, mentre Silvio per errore ferisce Dorinda,
travestita e scambiata per lupo. All'ultimo, Silvio s'intenerisce
e sposa Dorinda, e Mirtillo, scopertosi esser egli il vero Silvio,
figlio di Montano, che dovea essere fidanzato ad Amarilli, la
sposa. Così la natura, posta d'accordo co' responsi
dell'oracolo trionfa; e tutti contenti, la natura e il destino,
gli dei e gli uomini. Certo, qui ci sono tutti gli elementi di un
dramma, e "dramma" lo chiamano i critici per l'innesto delle
azioni, per la mescolanza de' caratteri, e per la parte data al
destino secondo la tragedia greca: cose non lodevoli e non
biasimevoli, che possono essere e non essere in un dramma. Il
valore di una poesia bisogna cercarlo non in queste condizioni
esterne del suo contenuto, ma nella sua forma, cioè nella
sua vita intima. Il Pastor fido è così poco un
dramma, come l'Aminta, ancorchè ne abbia maggiore apparenza
nel suo meccanismo. Ma la sua vita organica è quella
medesima dell'Aminta, suo specchio e sua reminiscenza, e tutti e
due sono poemi lirici, narrazioni, descrizioni, canti, non
rapprese ella scena, e non te ne giunge sul teatro che l'eco
lirica. Vedi sfilare i personaggi l'uno appresso l'altro, e non
è ragione che venga l'uno prima, e l'altro poi, e ci
narrano i loro guai: parlano, non operano. Indi monologhi e
narrazioni interminabili. Hanno operato o vogliono operare, e ci
raccontano quello che hanno fatto o son disposti a fare,
aggiungendovi le loro riflessioni e impressioni. L'azione è
un'occasione all'effusione lirica. Abbondano i cori, ma ciascun
personaggio fa esso medesimo ufficio di coro, perchè non
opera, ma discorre, riflette, effonde i suoi dolori e le sue
gioie. Non manca al Guarini un ingegno drammatico, e lo mostra
nella scena tra il satiro e Corisca, o tra Silvio e Dorinda, o
dove Dorinda ferita s'incontra con Silvio. Ciò che gli
manca è la serietà di un mondo drammatico, non
essendo questo suo mondo che un prodotto artificiale e meccanico
di combinazioni intellettuali. Manca a lui e manca all'Italia un
mondo epico e drammatico, e perciò non ci è epica, e
non ci è dramma. Quel suo mondo dell'Arcadia era per lui
cosa così poco seria, come il mondo cavalleresco era
all'Ariosto, salvo che l'Ariosto se ne ride, e lui lo prende sul
serio, a quel modo che il Tasso. Cosa n'esce? Sotto pretensioni
drammatiche esce un mondo lirico, come di sotto alle pretensioni
eroiche del Tasso usciva un poema lirico. Il secolo era vuoto di
passione e di azione, e vuoto di coscienza, nè il Concilio
trentino potè dargliene altro che l'apparenza ipocrita.
"Questo è un secolo di apparenza, - scrive il Guarini, - e
si va in maschera tutto l'anno". Ma egli pure andava in maschera,
e fu col secolo, non fuori e non sopra di esso. Rimaneva
l'idolatria della letteratura, considerata come un bel discorso
nella eleganza delle sue forme, condimento di una vita molle tra
le feste e le pompe e gli ozi idillici delle corti. E questa
è la vita che ti dà il Guarini, bei discorsi lirici
e musicali, per entro ai quali spira un'aria molle e voluttuosa.
Questa è la vita intima del Pastor fido, come dell'Aminta,
e se vogliamo gustarlo, lasciamo lì il dramma co' suoi
innesti, le sue mescolanze e il suo destino, e mettiamoci a questo
punto di vista.
Manca al Guarini l'ispirazione, la malinconia,
la concentrazione fantastica, il profondo sentimento del Tasso, e
come poeta gli è di gran lunga inferiore. Parla sempre di
amore, ma non lo sente. E non sente la vita pastorale, quella
inclinazione alla solitudine e alla pace idillica, lui che
ambizione e cupidigia tenea distratto tra le più prosaiche
occupazioni della vita. La virtù, la religione, il destino,
tutto ciò che la vita ha di più elevato, è
nella sua mente, non è nella sua coscienza. O, per dir
meglio, coscienza non ha: quel focolare interno, dove convivono e
si raffinano tutte le potenze dell'anima, condizionandosi a
vicenda; dove si genera il filosofo, il poeta, l'uomo di Stato, il
gran cittadino, centro di vita, da cui solo esce la vita. E
perchè questo centro di vita gli manca, il Guarini ha
immaginazione e non ha fantasia, ha spirito e non ha sentimento,
ha orecchio musicale e non ha l'armonia che nell'anima si sente.
Lo diresti un gran poeta in potenza, a cui sia fallita la
formazione per la distrazione delle forze interiori. Perciò
non ha la produzione geniale del poeta, ma la mirabile costruzione
di un artista consumato: della quale si può dire quello che
il coro dice della chioma finta di Corisca, che gli è un
"cadavere d'oro". Splende e non scalda, lusinga l'orecchio e i
sensi, e non lascia alcun vestigio nell'anima: tutti quei
personaggi vestiti di oro e di porpora sono morti con esso
Mirtillo e Amarilli. Ma quali splendori! qual maraviglia di
costruzione! Fra tanti costruttori il primo posto tocca al
Guarini, a cui stanno prossimi il Caro e il Monti. La sua ricca
immaginazione si spande al di fuori come iride nella pompa de'
suoi più smaglianti colori; il suo spirito chiaro e acuto
profonde con brio e facilità i concetti più
ingegnosi, più delicati e più fini; il suo verso ti
sembra nato insieme con que' colori e con que' concetti:
così è duttile, molle, vezzoso ed elegante. Se ci
è lì dentro un sentimento, è una
sensualità raffinata, la poesia della libidine. È lo
stesso mondo del Tasso con le stesse qualità, esagerate
dall'emulo, che pretendea di far meglio: un mondo plasmato nelle
corti e ritratto della coltura. Quel mondo, che nel Tasso
apparisce malinconico e contraddittorio tra gli strazi e le
confuse aspirazioni della transizione, eccolo qui sfacciato e a
bandiera spiegata. È il naturalismo del Boccaccio nella sua
ultima forma, purgato e castigato, involto in apparenze morali e
religiose, un naturalismo con licenza de' superiori, o "in
maschera", come direbbe il Guarini. Non basta la licenza; il nudo
disgusta e non alletta; la sensualità intorpidita ha
bisogno degli stimoli dell'immaginazione e dello spirito. Il
cavallo di battaglia per i poeti platonici erano gli occhi: qui
è il bacio. Già il Tasso avea fatto qualche
allusione al gioco del bacio. Il Guarini ne fa una pittura
voluttuosissima, e il bacio preso per furto diviene il luogo
comune dell'Arcadia. Quanti raffinamenti sul bacio! Odasi il
Guarini:
... quello è morto bacio a cui
la baciata beltà bacio non rende.
Ma i colpi di due labbra innamorate,
quando a ferir si va bocca con bocca...
son veri baci, ove con giuste voglie
tanto si dona altrui, quanto si toglie.
Baci pur bocca curiosa e scaltra
o seno, o fronte, o mano: unqua non fia
che parte alcuna in bella donna baci,
che baciatrice sia,
se non la bocca, ove l'un'alma e l'altra
corre e si bacia anch'ella, e con vivaci
spiriti pellegrini
dà vita al bel tesoro
de' bacianti rubini:
sicchè parlan tra loro
quegli animati e spiritosi baci
gran cose in picciol suono...
Tal gioia amando prova, anzi tal vita
alma con alma unita:
e son come d'amor baci baciati
gl'incontri di due cori amanti amati.
Poesia splendida, dove lo spirito è così raffinato
ne' suoi concetti, com'è la sensuale immaginazione ne' suoi
colori. Non è la vita in atto; è vita lirica,
narrata, descritta, sentenziata. Anche Corisca e il satiro si
esprimono sentenziando, anche il coro. Uno spirito sottile trova i
più ingegnosi rapporti, che l'immaginazione condensa in
versi felicissimi. E poichè si tratta di baci, ecco una
sentenza di Amarilli:
Bocca baciata a forza,
se 'l bacio sputa, ogni vergogna ammorza.
La soverchia facilità rompe ogni misura.
Ciascuna situazione diviene un tema astratto, sul quale
l'immaginazione intesse i più preziosi ricami. I discorsi,
dialoghi o monologhi, sono vere canzoni, dove riccamente è
sviluppato qualche sentimento, divenuto un'astrazione dello
spirito. La canzone spesso si sveste la maestà e
solennità petrarchesca, e divenuta elegiaca e idillica
anche nella sua esteriorità, ti si presenta innanzi
spezzata in sè, intramessa di versetti e di rime, in brevi
periodetti, tutta vezzi e languori e melodie, assai vicina al
madrigale concettoso e galante, dove il Guarini era maestro.
Bellissimo esempio sono le canzonette, che cantano le ninfe
intorno ad Amarilli nel giuoco della "cieca".
Il secolo si chiude sotto le più belle
apparenze di progresso letterario. La sua vita interna è il
naturalismo in viva opposizione con l'ascetismo. Vi si sviluppa
l'idillico, il comico, il romanzesco, portandosi appresso come
parti morte il petrarchismo e il classicismo. Questa vita nuova
s'inizia nel Boccaccio, ritratto sintetico del secolo, dove
commedia, idillio e romanzo fanno la loro prima comparsa.
L'idillio, tranquillo riposo dell'anima nel seno della natura,
ideale di felicità contrapposto all'inquieto ideale
ascetico, attinge la sua perfezione estetica nelle Stanze, e fa
sentire i suoi susurri tra le fantasie ariostesche. L'idillio
è il sentimento della natura vivente e delle belle forme,
che si scioglie dal soprannaturale; è un naturalismo, non
è ancora umanismo, e accosta l'arte alla natura, e nella
maggior finitezza del disegno, de' contorni e delle figure
raggiunge l'idealità della bella forma, e produce i
miracoli dell'arte e della poesia italiana. Il comico ha
già nel Boccaccio il suo grande poeta. È il riso
della nuova generazione, che fa la parodia del passato ne' suoi
diversi aspetti, religioso, etico, dottrinale, in novelle,
capitoli e commedie: onde si sviluppa una ricca letteratura,
buffonesca, ironica, licenziosa, umoristica. E come il comico non
chiude in sè alcuna affermazione, anzi viene da
indifferenza e da scetticismo, ha tutt'i segni di una dissoluzione
morale, di cui la più sfacciata espressione sono le
commedie dell'Aretino, e riesce in ultimo superficiale e frivolo.
L'immaginazione in quella insipidezza della vita interiore, in
quella poca serietà della vita esteriore si gitta al
romanzesco, e vi si trastulla colla coscienza superiore di un
intelletto adulto, con la coscienza che gli è un giuoco e
un passatempo: situazione che attinge la sua bellezza artistica
nel mondo armonico dell'Ariosto, e si scioglie nell'umorismo del
Folengo. E quando, giunta la licenza al suo ultimo segno ne'
costumi e nello scrivere, vi si volle porre un rimedio e
sopravvenne la reazione ascetica e platonica, quando si volle
imporre alla coscienza italiana un'affermazione, e alla
letteratura un ideale, risorse l'idillio, l'ideale del
naturalismo, e fu la sola forza viva fra tanti ideali religiosi,
morali, platonici, con visibile contrasto tra i concetti platonici
e religiosi, e la sensualità dell'idillio. La letteratura
prende un'apparenza religiosa e morale, epica e tragica; e la
pompa delle sentenze, il lusso de' colori, la grandiloquenza
rettorica, la finezza de' concetti rivelano la poca serietà
di quelle tendenze. Sotto a quelle apparenze vive ne' più
seducenti colori un mondo lirico idillico; il naturalismo
condannato nelle parole è la vera vita organica, che vien
fuori in una forma di apparenze meno licenziose, ma più
raffinata e voluttuosa. Il sentimento di questa transizione nelle
sue contraddizioni e nella sua sincerità si riflette nella
nobile anima del Tasso, e ne cava suoni malinconici, elegiaci,
voluttuosi, musicali, che sono l'ultimo raggio della poesia. Quel
mondo idillico fra tanta pompa di sentenze morali e d'intenzioni
platoniche si afferma nella sua nudità presso il Guarini, e
diviene il motivo della nuova generazione poetica. Il Seicento non
è una premessa, è una conseguenza.
La letteratura italiana era allora così
popolare in Europa, come prima fu la provenzale, e poi la
francese. In verità, quanto alla parte tecnica, giungeva
allora all'ultima perfezione. I più mediocri scrivono con
piena osservanza delle regole grammaticali, con un nesso logico
più severo, e con un fare più spedito. Si vede una
letteratura già formata, quando le altre erano allora in
uno stato di formazione. Critici, retori, grammatici, professori,
accademici pullulavano dappertutto, fra una turba di poeti e di
prosatori in tutt'i generi. L'Italia del Seicento non solo non ha
coscienza della sua decadenza, ma si tiene ed è tenuta
principe nella coltura letteraria. Nessuno le contende il primato,
e le altre nazioni cercano ne' suoi novellieri, ne' suoi epici,
ne' suoi comici le loro invenzioni e le loro forme.
Dicono che nel Seicento si sviluppò una
rivoluzione letteraria, e che tutti cercavano novità. Il
che prova appunto che la letteratura avea già presa la sua
forma fissa, e compiuto il suo circolo. Le novità non si
cercano, ma si offrono, quando la letteratura comincia a
svilupparsi: allora tutto è fresco, tutto è nuovo.
Cercavano novità, perchè si sentivano innanzi ad una
letteratura esaurita nel suo repertorio e nelle sue forme,
divenuta tradizionale, meccanica, e già materia comica
nella Secchia rapita e nello Scherno degli dei, poemi comici
comparsi al principio del secolo, dove sono volte in ridicolo le
forme mitologiche ed epiche. Ma è comico vuoto e negativo,
perchè gli manca il rilievo nel contrasto di altre forme, e
nulla di positivo è nello spirito de' due autori, il
Tassoni e il Bracciolini. Nel loro spirito quelle forme son morte,
e perciò ridicole, ma invano cerchi quali altre forme
vivessero nel loro secolo e nella loro coscienza: ond'è che
quel comico cade nel vuoto e rimane insipido. Al contrario il Don
Chisciotte è opera di eterna freschezza, perchè ivi
lo spirito cavalleresco si dissolve nella immagine di una nuova
società, che gli sta dirimpetto, e con la sua presenza lo
rende comico. Il Tassoni volge in ridicolo anche le forme liriche
petrarchesche, e censura non solo il petrarchismo, ma esso il
Petrarca. Parla in nome della semplicità, del buon senso, e
del verisimile: gli ripugna tutto ciò che è
raffinato e concettoso. Critica caduta nel vuoto, perchè
quella semplicità di vita, quel sentimento del reale non
era nel secolo, e nella sua coscienza era un'astrazione
dell'intelletto: un buon gusto naturale, privo di un mondo
plastico, in cui si potesse esplicare. Perciò tutti quelli
che scrivono con semplicità e naturalezza, malgrado certe
vivezze e certe grazie di stile, riescono insipidi, come il
Tassoni e più tardi il Redi. Mancava loro la vita
interiore, e l'esteriorità, in mezzo a cui stavano, era
affatto insipida, quando non era pretensiosa. Del Tassoni
sopravvive il ritratto del conte di Culagna:
filosofo, poeta e bacchettone,
che era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Dico il ritratto, perchè nella rappresentazione è
così sbiadito e insipido, come gli altri personaggi. Del
Redi è rimasto il Bacco in Toscana, che ricorda le baccanti
dell'Orfeo, e per brio e calore d'immaginazione, per naturalezza
di movenze, per artificio di verso è di piacevole lettura.
Non solo la letteratura nelle sue forme e nel
suo contenuto, ma è anche esaurita la vita religiosa,
morale e politica, quantunque ce ne fosse una seria apparenza
comandata e servile, via alla fortuna. La storia ha condannato a
un giusto obblio le opere servili, frondose e adulatorie, e serba
grata memoria di quelle dove spira alcuna libertà di
pensiero, perchè, quando anche non possa ammirare lo
scrittore, trova degno d'ammirazione l'uomo. Certo all'uomo
è inferiore lo scrittore, perchè la sua critica
è negativa, e non move dalla chiara coscienza di una nuova
società, ma da un semplice sentimento di resistenza e di
opposizione. Anche nel Cinquecento la critica è negativa,
ma è negazione universale, col consenso e fra le risa di
tutti, non è il pensiero solitario dell'artista. Questo
spiega il Berni, spiega la Mandragola, le satire dell'Ariosto, le
commedie dell'Aretino, i poemi cavallereschi ironici e umoristici.
La scienza può esser solitaria: l'arte dee avere a sua
materia un mondo plastico e vivente, di cui è la voce. In
quel secolo la negazione era libera, ammessa, desiderata,
applaudita, ci era comunione simpatica fra l'autore e i lettori; e
ci era pure in fondo a quella negazione la coscienza di un mondo
nuovo, di un rinnovamento o risorgimento, di un mondo dell'arte e
della natura, che succedeva alla barbarie del medio evo. Anche nel
Trecento Dante avea con sè il secolo, e lo fuse in tutte le
sue direzioni in un mondo plastico, che era appunto il mondo del
medio evo, l'altro mondo. Ora ci è un mondo ipocrita e
inquisitoriale, dove la vita religiosa e sociale fuori della
coscienza è meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e
inviolabili. L'arte intisichisce, priva di un mondo libero intorno
a se. Chi vuol comprendere la differenza de' secoli, legga i
Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, l'ardito comentatore di
Tacito, caduto sotto il pugnale spagnuolo. Il suo Parnaso, che
succede al mondo ariostesco e al dantesco, è di
nessunissima serietà, e rimane una semplice occasione, una
cornice, dove inquadra pensieri, stizze, frizzi, allusioni e
allegorie, senz'altra unità o centro che il suo ghiribizzo.
È un mondo sciolto in atomi, senza vita e coesione interna.
La critica, priva di un mondo serio, in cui si possa incorporare,
si svapora in sentenze, esortazioni, sermoni, prediche,
declamazioni e generalità rettoriche, tanto più
biliosa, quanto meno artistica. Così apparisce nelle Satire
di Salvator Rosa, che pure sono salvate dall'obblio per la maschia
energia di un'anima sincera e piena di vita, che incalora la sua
immaginazione e gli fa trovare novità di espressioni e di
forme pittoriche felicemente condensate.
Come suole avvenire, nessun secolo sonò
così spesso la tromba epica, quanto questo secolo
così poco eroico. Alcuni seguirono le orme del Tasso, come
il Graziani nel Conquisto di Granata. Il Chiabrera scrisse il
Foresto, la Gotiade, la Firenze, l'Amadeide, il Ruggiero, tutti
poemi eroici, oltre ventidue poemetti profani e quattordici sacri.
Il Villafranchi, lo Stigliani e altri cantarono la scoperta
dell'America, e anche il Tassoni avea preso a scrivere sullo
stesso argomento il suo Oceano, quando con miglior consiglio e con
più chiara coscienza delle sue attitudini si volse a fare
nella Secchia rapita la parodia delle forme eroiche. Di tanti
poemi epici non uno solo è rimasto. Ce n'è di tutti
gli argomenti, sacri e profani, cavallereschi, eroici, mitologici,
perchè erano capricci individuali, e mancava l'argomento
del secolo. Novissimo e popolarissimo argomento era la scoperta
dell'America, che ispirò al Tasso la più geniale
delle sue concezioni, il viaggio alle isole Fortunate. Ma fu
trattato col solito bagaglio classico, e il mondo nuovo apparve
stanca e vieta reminiscenza di un mondo poetico già
decrepito.
Il mondo eroico di quel secolo era stato
fabbricato dal Concilio di Trento. Ed era una ristaurazione del
mondo cattolico alle prese co' turchi, e vincitore meno per
virtù propria che per la grazia di Dio. Questo argomento di
tutt'i poemi cavallereschi, sciolto nella buffoneria del Pulci e
nell'ironia dell'Ariosto, purgato e nobilitato dal Tasso, era
divenuto l'accento "ufficiale" del secolo. Il poeta di questa
ristaurazione fu Gabriello Chiabrera, che compiuti i suoi studi a
Roma, educato da' gesuiti, guidato da Speron Speroni, ritiratosi
nella nativa Savona pieno il capo di testi greci e latini e d'arti
poetiche, verseggiò instancabilmente, sino alla tarda
età di ottantasei anni, fra le ammirazioni de' principi e
de' letterati. In tre volumi di liriche non ti è facile
incontrare un pensiero o una immagine che ti arresti, e avendo a
mano argomenti nobilissimi o affettuosissimi, niente è che
ti mova o t'innalzi. Non ci è quasi avvenimento di qualche
importanza che non sia da lui celebrato, come le vittorie su'
pirati delle galee toscane, la battaglia di Lepanto, le fazioni
de' veneziani in Grecia. Lodi di principi abbondano, ma non
mancano lodi di grandi capitani, e soprattutto di santi, come di
Pietro, Paolo, Cecilia, Maria Maddalena, Stefano, Agata, e simili,
a cominciare dalla Vergine. Vi s'inframmettono satire di eretici,
come Lutero, Calvino e Beza, che sono vere invettive personali.
Naturalmente non mancano anche gli amori, temi astratti, ne' quali
spuntano già le Filli, le Amarilli e le Cloe, che
più tardi invasero l'Arcadia. Che più? Quando manca
l'argomento vivo e presente, si esercita, come i collegiali, sopra
generalità astratte, come il verno, le stelle, Muzio
Scevola, il ratto di Proserpina, il diluvio, Golia, Giuditta e
simili. Canzoni e canzonette, ditirambi ed epitaffi, sonetti e
poemi, trovi qui ogni varietà di forme, come ogni
varietà di contenuto. Ora fa l'eroe, ora fa il cascante, e
suona con la stessa facilità la tromba, la cetra, la lira e
la zampogna, ora scimieggiando Pindaro, ora Anacreonte. Le feste
principesche gli forniscono materia di favole boscherecce e di
drammi musicali. Ma tutto è a uno stampo, e tratta di
argomenti commoventissimi e presenti con la stessa indifferenza
che scrive di Proserpina o di Chirone. In luogo di chiudersi nel
suo argomento e cercarne le latebre, divaga in fatti mitologici o
in generalità rettoriche, e riesce vuoto e freddo. Dee far
le lodi di san Francesco? Ed eccoti una tirata sulla fame
dell'oro. Gli manca ogni talento pittorico, ogni movimento di
affetto o d'immaginazione, e non ha alcuna esaltazione o
entusiasmo lirico. C'è più poesia nelle Vite del
Cavalca, che in queste sue insipide Maddalene Lucie Cecilie,
Stefani e Sebastiani. Dante in pochi tratti ti fissa nella memoria
santo Stefano assai meglio che non fa in sette strofe il
Chiabrera, errante tra reminiscenze sacre e profane, e affatto
incapace di cogliere l'individuo nella sua personalità. In
qualche strofa di fra Iacopone senti la Vergine; ma non la trovi
nelle cento strofe che le sono qui consacrate. Il martirio di san
Sebastiano è materia pietosissima. In mano al Chiabrera
diviene ampollosa e fredda rettorica. Dove non è insipido,
riesce pretensioso, come quando, esortando le muse a cantare il
santo trafitto, dice:
tendete, arciere d'ammirabil canto,
musici dardi al saettato Santo.
Se guardi alla materia, ci è qui tutto il mondo eroico,
morale e religioso del cristianesimo, ma non ce n'è lo
spirito, nè poteva infonderlo co' suoi decreti il Concilio
di Trento. La letteratura religiosa è una moda, anzi che un
sentimento; lo spirito vi rimane estraneo, e si conserva classico
e letterario quanto alle forme, nell'indifferenza del contenuto.
Che cosa move davvero o interessa il Chiabrera? Nulla,
perchè nella sua coscienza nulla ci è, non fede, non
moralità, non patria, e non amore, e non arte,
ancorchè di tutto questo tratti. Certo, il Chiabrera
è un bravissimo uomo, sinceramente pio e onesto, natura
soave e tranquilla. Ma perchè un contenuto sia poetico, non
basta sia nell'animo come un mondo abituale e tradizionale, a quel
modo che era nel Chiabrera: dee essere passione, che stimoli
l'immaginazione e svegli la meditazione Una passione l'ha il
Chiabrera, e non è pel contenuto, a lui indifferente, quale
esso sia, ma per le forme. Dico "forme", e non "forma",
perchè a lui manca pure quel senso della bellezza e della
forma, che fa grandi i nostri artisti del Cinquecento.
Perciò gli fa difetto ogni qualità di poeta e di
artista, la fede del contenuto e il senso della forma. Ha pure in
grado mediocrissimo quel senso musicale, che natura concede
così facilmente a italiani, sgraziato nell'intreccio delle
rime e nella combinazione de' suoni, e talora dà in
dissonanze e stonature. La sua idea fissa è di trovare,
come Colombo, un mondo nuovo, e parve a' contemporanei ci fosse
riuscito, sì che Urbano scrisse sulla sua tomba: "novos
orbes poëticos invenit". Mondi nuovi poetici ci erano allora,
ed erano i mondi che creavano Camoens, Cervantes, Montaigne,
Shakespeare e Milton. Ma in Italia, mancata ogni vita interiore,
la novità era nelle forme, ed esausto il mondo latino, il
Chiabrera si mise a cercar novità nel mondo greco:
"thebanos modos fidibus hetruscis adaptare primus docuit", dice
Urbano. I quali modi tebani sono le strofe, l'antistrofe e
l'epodo, accozzamenti di parole fuor dell'usato, costruzioni
artificiali, una certa moralità astratta e volgare, una
sobrietà e semplicità di colori. Forme meccaniche,
le quali non vengono da virtù interiore, ma sono pura
imitazione. Anzi niente è più lontano dallo spirito
del Chiabrera che la bellezza greca, quel candore, quella grazia,
e quella semplicità; e spesso la sua semplicità
è aridità, il suo candore è volgarità,
e la sua grazia è cascaggine; affettato e pretensioso in
quei modi e in quelle forme, che presso i greci sono vezzi natii:
veggasi il suo ditirambo. Del resto, più che nell'eroico,
riesce nel grazioso, e se oggi alcuna cosa si legge pure di lui,
sono alcune sue canzonette. Ma chi ricordi l'Aminta,
giudicherà queste canzonette assai povera cosa. Anche il
Gravina studiò alla greca semplicità, come medicina
al secolo tronfio e manierato, e sforzandosi di esser semplice,
riuscì insipido, freddo e volgare. Gli è che
l'imitazione greca, dopo tanto latineggiare, era il naturale
sviluppo di un fatto puramente letterario e meccanico, non animato
da alcuna vita interiore di poeta o di secolo.
Un altro poeta eroico fu il senatore Vincenzo
Filicaia, di cui rimangono le canzoni per la liberazione di
Vienna. Prende volentieri accento di profeta, e si dà tutta
l'apparenza di un sacro furore. Sembra non parli, ma canti, anzi
urli, col pugno teso, gli occhi stralunati, gli atti convulsi.
Ammassa esclamazioni, interrogazioni ripetizioni, con un grande
rimbombo di suoni e di frasi. Pomposa rettorica, nella quale si
scopre la simulazione della vita. Non è in lui alcun
sentimento del reale, ma un calore d'immaginazione, un orecchio
musicale, ed una non mediocre abilità nella fattura del
verso, che gli assegna un posto tra' poeti di second'ordine.
Il Chiabrera e il Filicaia furono anche poeti
nazionali. L'uno lamenta la vita molle de' guerrieri italiani, o,
com'egli dice, la leggiadria dell'italica gente:
... ... E dove
calzar potrassi una gentil scarpetta,
un calcagnetto sì polito? ...
Lungo fora a narrar come son gai
per trapunto i calzoni, e come ornate
per entro la casacca in varie guise
serpeggiando sen van bottonature.
Splendono soppannati i ferraiuoli
bizzarramente; e sulla coscia manca
tutti d'argento arabescati e d'oro
ridono gli elsi della bella spada.
Dell'altro è il verso celebre:
O fossi tu men bella, o almen più forte!
Ma l'Italia era per loro un sentimento così superficiale
come la religione, un tema a sonetti e canzoni, come le Vendemmie
o le Lodi di Cristina. Quando il Filicaia domanda all'Italia
dov'è il suo braccio, e perchè si serve dell'altrui,
e ricorda che gli stranieri sono tutti nemici nostri, e furono
nostri servi, senti ch'è a mille miglia lontano dalla
realtà, che vagheggia un'Italia di tradizione e di
reminiscenza, di cui non è più vestigio neppure
nella sua coscienza, ch'egli medesimo non prende sul serio le sue
maraviglie e i suoi furori, e che le sue parole sono ebollizioni e
ciance rettoriche. I contemporanei erano pure fatti così; e
ammiravano quel bel sonetto tirato giù con un solo impeto
tra mille splendori di una calda immaginazione, come ammiravano
una bella predica, salvo a far tutto il contrario di quello che
diceva il Vangelo e il predicatore.
Questa è la vita morale, religiosa e
nazionale italiana a quel tempo: un mondo tradizionale tornato in
moda, favorito dagl'interessi, mantenuto nelle sue apparenze,
rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non ventilato
e rinnovato, non contrastato e non difeso, non realtà e non
idealità, cioè a dire non praticato nella vita, e
non scopo o tendenza della vita. Il tarlo della società era
l'ozio dello spirito, un'assoluta indifferenza sotto quelle forme
abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perchè mere
forme o apparenze, erano pompose e teatrali. La passività
dello spirito, naturale conseguenza di una teocrazia autoritaria,
sospettosa di ogni discussione, e di una vita interiore esaurita e
impaludata, teneva l'Italia estranea a tutto quel gran movimento
d'idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni di Europa; e
fin d'allora ella era tagliata fuori del mondo moderno, e
più simile a museo che a società di uomini vivi.
La letteratura era a quell'immagine, vuota
d'idee e di sentimenti, un gioco di forme, una semplice
esteriorità. Si frugava nel vecchio arsenale classico, si
giravano e rigiravano quei pensieri e quelle forme. Il mondo greco
appena libato era corso in tutte le direzioni, e dava un certo
aspetto di novità alle forme letterarie. La poesia italiana
nella sua lunga durata avea messo in circolazione un repertorio
oramai fatto abituale e vuoto di affetto; e non ci essendo la
forza di rinnovare il contenuto, tutti eran dietro ad aguzzare,
assottigliare, ricamare, manierare, colorire un mondo invecchiato
che non dicea più niente allo spirito. Meno il contenuto
era vivo, e più le forme erano sottili, pretensiose,
sonore. Nacque una vita da scena, con grande esagerazione e
abbondanza di frasi un eroismo religioso, patriottico, morale a
buon mercato, perchè dietro alle parole non ci era altro.
Di questo eroismo rettorico il più bel saggio è la
Fortuna del Guidi, il quale trovò modo di rendere ridicola
e millantatrice la Fortuna di Dante: tanto si era perduto il senso
del vero e del semplice. E ne uscì quella maniera preziosa
e fiorita, della quale dava già esempio l'Aretino, quando
la sua mente non era abbastanza solleticata dall'argomento. Uno
degl'ingegni meno guasti fu il Chiabrera: pur sentasi questo suo
epitaffio a Raffaello:
Per abbellir le immagini dipinte,
alle vive imitar pose tal cura,
che a belle far le vere sue Natura
oggi vuole imitar le costui finte.
E il prezioso non è solo ne' concetti, ma nelle forme,
cercandosi i modi più disusati in dir cose le più
semplici. Ecco un esempio di queste forme preziose nella Fortuna
del Guidi:
Questa è la man che fabbricò sul
Gange
i regni agl'Indi, e sull'Oronte avvolse
le regie bende dell'Assiria a' crini;
pose le gemme a Babilonia in fronte,
recò sul Tigri le corone al Perso,
espose al piè di Macedonia i troni.
Tra' verseggiatori più preziosi e affettati è da
porre il Lemene, e tra' più civettuoli e fioriti
Giovambattista Zappi. La degenerazione del genere si vede nel
Frugoni, il più vuoto e il più pretensioso.
Spettacolo assai istruttivo è questo di
un popolo che per parecchie generazioni spende tutta la sua
attività intorno a quistioni di forme, ed erge a suo
obbiettivo la parola in se stessa, staccata da ogni contenuto. Che
è divenuta Firenze, la madre di Dante, di Michelangiolo e
di Machiavelli? Eccola, quale è vantata dal Filicaia:
Qui del puro natio dolce idioma
l'oro s'affina; e se non è a' dì
nostri
spenta la gloria de' toscani inchiostri,
forse invidia ne avranno Atene e Roma...
Qui d'ogni voce il peso, il senso, il suono
a rigoroso esame ognor si chiama,
e il reo si purga e si trasceglie il buono.
Onde l'alto lavor fregia e ricama
la gran maestra del parlar, che trono
erge a se stessa, ed a se stessa è fama.
Firenze è la gran maestra della parola. Là è
il suo trono e la sua fama. E qual maraviglia che gli uomini di
qualche ingegno, trovando insipida e invecchiata la parola,
l'ornano, l'aguzzano, l'imbellettano, e, come dice il Filicaia, vi
fanno intorno fregi e ricami? Nè ci è coscienza che
tanto liscio al di fuori, con tanta insipidezza e vacuità
nel fondo, è un'ultima forma della decadenza; anzi
abbondano i Pindari e gli Anacreonti, moltiplicano i poeti in
tutt'i canti d'Italia, e co' poeti le accademie, e si tengono
primi in tutta Europa, della quale ignorano la coltura.
Possiamo ora spiegarci come l'Arcadia
acquistò l'importanza di un grande avvenimento, sì
che per parecchie decine di anni occupò l'attenzione
pubblica. Si videro uomini dottissimi e gravissimi fanciulleggiare
tra quei pastori e pastorelle, e dettar le leggi dell'accademia
con una solennità, come fossero le leggi delle dodici
tavole. Parea che a restaurare la poesia e il buon gusto bastasse
l'osservanza di alcune regole, e moltiplicarono i medici, quando
il malato era morto. Gli arcadi, rimasti proverbiali, come di
gente dotta e insieme frivola, per correggere l'eroico si
gettarono nel pastorale, come se trasportando la vita ne' campi e
tra' pastori, trovassero quella naturalezza e semplicità
che non è nella materia, ma nell'anima dello scrittore.
Furono aridi, insipidi, leziosi, affettati, falsi.
Il re del secolo, il gran maestro della parola,
fu il cavalier Marino, onorato, festeggiato, pensionato, tenuto
principe de' poeti antichi e moderni, e non da plebe, ma da'
più chiari uomini di quel tempo. Dicesi che fu il
corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che
il secolo corruppe lui, o, per dire con più esattezza, non
ci fu corrotti, nè corruttori. Il secolo era quello, e non
potea esser altro, era una conseguenza necessaria di non meno
necessarie premesse. E Marino fu l'ingegno del secolo, il secolo
stesso nella maggior forza e chiarezza della sua espressione.
Aveva immaginazione copiosa e veloce, molta facilità di
concezione, orecchio musicale, ricchezza inesauribile di modi e di
forme, nessuna profondità e serietà di concetto e di
sentimento, nessuna fede in un contenuto qualsiasi. Il problema
per lui, come pe' contemporanei, non era il che, ma il come.
Trovava un repertorio esausto, già lisciato e profumato dal
Tasso e dal Guarini, i due grandi poeti della sua giovanezza. Ed
egli lisciò e profumò ancora più,
adoperandovi la fecondità della sua immaginazione e la
facilità della sua vena. La moda era alle idee religiose e
morali, e il Murtola scriveva il Mondo creato, il Campeggi le
Lagrime della Vergine, e il Marino la Strage degl'innocenti, e le
sue stesse poesie erotiche inviluppava in veli allegorici. Ma la
vita era in fondo materialista, gaudente, volgare, pettegola,
licenziosa; il naturalismo viveva nella sua forma più
grossolana sotto a quelle pretensioni religiose. Le prime poesie
del Marino furono sfacciatamente lubriche, come la prima sua
giovinezza; e quando venne a età più matura,
cercò non la correzione, ma la decenza esteriore, decorando
i suoi furori erotici di un ammanto allegorico.
Nelle tradizioni della poesia ci è un
concetto, che mette capo in Circe ed Ulisse, ed è
l'imbestiamento dell'uomo per opera dell'amore, e la sua
liberazione per opera della ragione. Questo concetto diviene un
episodio importante in tutte le nostre poesie romanzesche ed
eroiche, ed è anche la Musa che ispira Dante e il Petrarca.
Angelica, Alcina, Armida sono le Circi italiane, co' loro
giardini, co' loro palagi e castelli incantati, co' loro viaggi
attraverso lo spazio. Questo è l'episodio più
interessante, anzi è il concetto fondamentale della
Gerusalemme Liberata. L'episodio del Tasso incastrato fra elementi
religiosi ed eroici diviene ora esso solo il poema, diviene
l'Adone.
La storia del naturalismo poetico incomincia
nell'Amorosa visione, e finisce nell'Adone. I due poemi sono assai
simili di concetto. L'amore, principio della generazione, è
anima del mondo, è la corona della natura e dell'arte, in
esso s'inizia, in esso si termina il circolo della vita. Venere e
Adone è la congiunzione non solo spirituale, ma corporale
del divino e dell'umano; è l'amore sensuale che investe
tutta la natura, cielo e terra. Nel paradiso teologico di Dante il
corpo si solve nello spirito; ma in questo paradiso mitologico lo
spirito ha la sua perfezione e la sua vita nell'amore sensuale. Un
senso tragico si aggiunge a questa commedia terrena. L'uomo
è mortale, e i suoi piaceri sono lievi e fugaci; e la
conclusione è la morte di Adone fra il compianto
degl'immortali.
La base è l'amore sensuale rappresentato
in tutt'i suoi gradi nel giardino del Piacere, uno di quei
giardini d'amore già celebri nelle rime del Poliziano,
dell'Ariosto e del Tasso, qui diviso in cinque giardini
corrispondenti a' cinque sensi, sì che questa sola
descrizione prende già buona parte del poema. Nel giardino
del Tatto Adone gode gli ultimi diletti, e s'indìa,
è rapito in cielo, attinge la felicità. Il cielo o
il paradiso del Marino non comprende che la Luna, Mercurio e
Venere, tutto l'universo dell'amore. La Luna è la sede
della natura, Mercurio è la sede dell'arte, e sede
dell'amore è Venere. È tutto il cielo della vita,
simile a' diversi gradi dell'Amorosa visione. Ma l'apoteosi e il
trionfo dell'amore è di breve durata, e Venere non ha il
tempo di rendere immortale il suo amato. Adone muore, vittima
della gelosia di Marte, e gli ultimi canti narrano la morte di
Adone, il compianto di Venere e degli dei, e le sue esequie.
È inutile dire che tutte queste
combinazioni non hanno pel Marino alcun valore effettivo ed
intrinseco, e che esse sono una materia qualunque arricchita di
moltissime favole mitologiche, buona a sviluppare le sue forze
poetiche, il solito macchinismo fantastico dell'amore ne' poemi
italiani. I concetti e le passioni sono insulse personificazioni,
come l'amore, l'arte, la natura, la filosofia, la gelosia, la
ricchezza ed altre figure allegoriche. Dico insulse, perchè
a quelle personificazioni manca e la profondità del
significato e la serietà della vita. È lo scheletro
de' poemi italiani, aggiuntivi anche certi episodi ingegnosi per
far la corte alle famiglie principesche d'Italia e alla casa di
Francia. Ma è un puro scheletro, dove non penetra per
alcuno spiraglio la vita. E poichè quello solo c'interessa
che vive, questo poema non c'ispira nessuno interesse. Non
c'è un solo personaggio che attiri l'attenzione e lasci di
sè un vestigio nella memoria; non una sola situazione
drammatica o lirica di qualche valore. La vita è
materializzata e allegorizzata, tutta al di fuori, ne' suoi
accidenti, contrasti e simiglianze esteriori; e come le
simiglianze o i contrasti esterni sono infiniti, nascono rapporti
capricciosi, arbitrari tra le cose, che sono veri, quanto a questa
o a quella apparenza, ma ridicoli e falsi per rispetto alla
totalità della vita. Abbiamo veduto in che modo la rosa
è rappresentata nel Poliziano, nell'Ariosto e nel Tasso.
Sono pochi particolari che lumeggiano la rosa nella sua
individualità, e non alterano la sua natura. Sentite ora la
rosa del Marino:
Rosa, riso d'amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
della Terra e del Sol vergine figlia,
d'ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor dell'odorifera famiglia;
tu tien d'ogni beltà le palme prime,
sopra il vulgo de' fior donna sublime.
Quasi in bel trono imperatrice altera
siedi colà su la nativa sponda;
turba d'aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia d'intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto,
porti d'or la corona e d'ostro il manto.
Porpora de' giardin, pompa de' prati,
gemma di primavera, occhio d'aprile,
di te le grazie e gli amoretti alati
son ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra, o zeffiro gentile,
dài lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
chè ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle;
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra ed egli rosa in cielo.
E ben saran tra voi conformi voglie:
di te fia 'l sole, e tu del sole amante.
Ei delle insegne tue, de le tue spoglie
l'aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne' crini e nelle foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
e per ritrarlo ed imitarlo a pieno,
porterai sempre un picciol sole in seno.
Evidentemente, qui non ci è il sentimento della natura, e
non la schietta impressione della rosa. Hai combinazioni astratte
e arbitrarie dello spirito, cavate da somiglianze accidentali ed
esterne, che adulterano e falsificano le forme naturali, e creano
enti mostruosi che hanno esistenza solo nello spirito. La vita
pastorale già nel Tasso ha i suoi ricami, che però
fregiano forse un po' troppo, ma non adulterano gli oggetti e i
sentimenti. Ed anche l'Adone ha il suo pastore, che vuole imitare,
anzi oltrepassare il pastore di Erminia, e conchiude così:
Lunge da' fasti ambiziosi e vani,
mi è scettro il mio baston, porpora il
vello,
ambrosia il latte, a cui le proprie mani
servon di coppa, e nèttare il ruscello.
Son ministri i bifolci, amici i cani,
sergente il toro e cortigian l'agnello,
musici gli augelletti e l'aure e l'onde,
piume l'erbette, e padiglion le fronde.
Queste lambiccature e finezze di spirito egli le chiama in una sua
lettera a Claudio Achillini "ricchezze di concetti preziosi", e
ivi pone l'eccellenza della poesia:
È del poeta il fin la maraviglia:
parlo dell'eccellente e non del goffo;
chi non sa far stupir, vada alla striglia.
La novità e la maraviglia non è nel repertorio, che
è vecchissimo, un rimpasto di elementi e motivi per lungo
uso divenuti ottusi; ciò che è ripulito e messo a
nuovo è lo scenario, o lo spettacolo, vecchio anch'esso, ma
lustrato e inverniciato. Il qual lustro gli viene non dalla sua
intima personalità più profondamente esplorata o
sentita, ma da combinazioni puramente soggettive, ispirate da
simiglianze o dissonanze accidentali, e perciò tendenti al
paradosso e all'assurdo: di che nasce quello stupore in che il
Marino pone il principale effetto della poesia. Nè queste
combinazioni artificiali sono solo intorno alle cose, come
giardini, campi, fiori, ma anche intorno alle persone allegoriche,
come la gelosia, l'amore, e intorno agli atti, come il riso, il
bacio. Il Marino confessa di avere innanzi un zibaldone, dove avea
scritto per ordine di materia quello che di più piccante e
maraviglioso avea trovato ne' poeti greci, latini e italiani e
anche spagnuoli; e ammassa e concentra tutti quei tesori di
concetti preziosi in un punto solo. Ma non è un freddo
imitatore e raccoglitore. La sua immaginazione si avviva tra
quelle ricchezze, e diviene attiva, si fa alleata dello spirito,
trasforma quelle combinazioni e quei rapporti in immagini, e le
immagini hanno il loro finimento nella facile e briosa
vocalità de' suoni. Talora i concetti stessi spariscono; ma
rimane sempre un'onda melodiosa, la cantilena:
Adone, Adone, o bell'Adon, tu giaci,
nè senti i miei sospir, nè miri
il pianto;
o bell' Adone, o caro Adon, tu taci,
nè rispondi a colei che amasti tanto!
Lasciami, lascia imporporare i baci,
anima cara, in questo sangue alquanto;
arresta il volo, aspetta tanto almeno
che il mio spirto immortal ti mora in seno.
La poesia italiana in quest'ultimo momento della sua vita non
è azione, e neppure narrazione, è spettacolo
vocalizzato, descrizione a tendenze liriche, tra lo scoppiettio
de' concetti, il lustro delle immagini, e la sonorità delle
frasi e delle cadenze, e i vezzi delle variazioni. Il suo ideale
è l'idillio, una vita convenzionale, mitologica, amorosa,
allegrata dal riso del cielo e della terra. L'Adone è esso
medesimo un idillio inviluppato in un macchinismo mitologico, come
l'Euridice, la Proserpina. Un idillio del Marino, di colorito
freschissimo e moderno, tutto impregnato di ardente
sensualità, è la sua Pastorella. Chi ricordi la
pastorella di Guido Cavalcanti, così sobria e semplice
nella sua maniera, può misurare fino a qual grado di
ricercatezza nello sviluppo e nelle determinazioni di queste
situazioni liriche era giunta la poesia. Pure la sensualità
era ancora quello che rimaneva di vivo in questi poeti
seicentistici, esalata in tenerezze, languori, voluttà,
galanterie e dolcitudini.
Un ideale frivolo e convenzionale, nessun senso
della vita reale, un macchinismo vuoto, un repertorio logoro, in
nessuna relazione con la società, un assoluto ozio interno,
un'esaltazione lirica a freddo, un naturalismo grossolano sotto
velo di sagrestia, il luogo comune sotto ostentazione di
originalità, la frivolezza sotto forme pompose e solenni,
l'inezia collegata con l'assurdo e il paradosso, la vista delle
cose superficiale e leggiera, la superficie isolata dal fondo e
alterata con relazioni artificiali, la parola isolata dall'idea e
divenuta vacua sonorità, questi sono i caratteri comuni a
tutt'i poeti della decadenza, messa la differenza degl'ingegni.
Questi caratteri sono più o meno comuni
a tutte le forme dello scrivere, tragedie, commedie, poemi,
idilli, canzoni, discorsi, prefazioni, descrizioni, narrazioni,
orazioni, panegirici, quaresimali, epistole, verso e prosa.
Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli,
fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi, di
uno stile insieme prezioso e fiorito. È stato in ogni
angolo quasi della terra; ha fatto migliaia di descrizioni e
narrazioni: non si vede mai che la vista di tante cose nuove gli
abbia rinfrescate le impressioni. Retore e moralista astratto,
pieno il capo di mitologia e di sacra Scrittura copiosissimo di
parole e di frasi in tutto lo scibile, colorista brillante,
credè di poter dir tutto, perchè tutto sapeva ben
dire. La natura e l'uomo non è per lui altro che stimolo e
occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario.
Altro scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della
coltura europea e a tutte le lotte del pensiero, stagnato in un
classicismo e in un cattolicismo di seconda mano, venutogli dalla
scuola, e non frugato dalla sua intelligenza, il suo cervello
rimane ozioso non meno che il suo cuore; e la sua attenzione
è tutta intorno alla parte tecnica e meccanica
dell'espressione. Tratta la lingua italiana, come greco o latino,
come lingua morta, già fissata, e da lui pienamente
posseduta. Sferza i pedanti col suo Torto e Dritto del non si
può. Fugge le smancene toscane, e ricorda la risposta fatta
a certi messi toscaneggianti, che domandavano qualche sussidio per
rifare il ponte della loro città:
Qualor, talor, e quinci e quindi, e guari,
rifate il ponte co' vostri danari.
La sua lingua spedita, colorita, elegante, copiosa ha quel
carattere di lingua classica italiana già così
spiccato nel Tasso, nel Guarini e nel Marino e in quasi tutt'i
seicentisti. Il toscano parlato ha poca presa anche su moltissimi
uomini colti della Toscana, e rimane stazionario in bocca al
volgo. La lingua classica nella sua fattura esterna e grammaticale
tocca in lui un alto grado di perfezione per copia e scelta di
vocaboli, per regolarità di costruzione, per speditezza di
giunture e movimenti musicali. Ama starsi nel minuto, notomizzare,
descrivere, e vi spiega tutte le ricchezze del dizionario.
Descrive lungamente e con infiniti particolari le chiocciole, e
conchiude:
"Eccovene in prima vestite di uno schietto
drappo: argentine, bianche lattate, grigie, nericate, morate,
purpuree, gialle, bronzine, dorate, scarlattine, vermiglie. Poi,
le addogate con lunghe strisce e liste di più colori a
divisa, e quali se ne vergano per lo lungo, quali per lo traverso,
alcune diritto, altre più vagamente a onda. Ma certe in
vero maravigliose, lavorate a modo d'intarsiatura, con minuzzoli
di più colori bizzarramente ordinati, o d'un musaico di
scacchi, l'un bianco e l'altro nero, quanto alla figura
formatissimi, e alle giunture non isfumati punto, ma con una
division tagliente, come appunto fossero alabastro e paragone,
strettamente commessi. Le più sono dipinte a capriccio, o
granite, gocciolate, moscate, altre qua e là tócche
con certe leggerissime leccature di minio, di cinabro, d'oro, di
verdazzurro, di lacca; altre pezzate con macchie più
risentite e grandi; altre o grandinate di piastrelli o sparse di
rotelle, o minutissimo punteggiate; altre corse di vene come i
marmi, con un artificio senz'arte, o spruzzate di sangue in mezzo
ad altri colori, che le fan parere diaspri."
E segue ancora per un pezzo su questo andare. L'immaginazione
rimane smarrita fra tante ricchezze, e perchè tutto
è rilievo, manca il rilievo. Non ci è senso di arte,
nè di natura, e chi vuol sentire la differenza, ricordi la
descrizione che fa l'Aretino del cielo di Venezia, così
trepida d'impressioni e movimenti interni. E non ha neppur senso
d'uomo, nè di tante sue situazioni affettuose, nè di
tanti suoi ritratti di personaggi ideali o storici alcuna cosa
è rimasta viva. Eccolo in Terra Santa. Che impressioni e
che affetti non dee destare quella vista in un buon cristiano,
com'era il Bartoli! Ma se ne sbriga così:
"Lagrime di dolore e baci di pietoso affetto
unitamente si debbono a questo venerabile terreno, che col
piè scalzo e in atto non di curioso geografo, ma di
pellegrino divoto, calchiamo."
E attendiamo gli ardori estatici del pellegrino. Ma è un
cominciare con Plinio e un finire con Lucano, con intramessa di
fredde amplificazioni rettoriche.
Stessa coltura e stesso contenuto nel padre
Segneri. Non ha altra serietà che letteraria, ornare e
abbellire il luogo comune con citazioni, esempli, paragoni e
figure rettoriche: perciò stemperato superficiale, volgare
e ciarliero. Si loda il suo esordio alla predica del paradiso: "Al
cielo, al cielo!". Il concetto è questo: - La terra non
offre un bene perfetto; miriamo dunque al cielo. E noi abbiamo
conosciuto già questo mondo, già l'abbiamo
sperimentato, ed ancora tolleriam di rimanerci. Eh! Al cielo, al
cielo! - Ora la prima parte non ha bisogno di dimostrazione,
perchè ammessa da tutti. Ma qui si accaneggia il Segneri, e
intorno a questo luogo comune intesse tutt'i suoi ricami. E se
avesse veramente il sentimento della terrena infelicità e
delle gioie celesti, non mancherebbe ai suoi colori novità,
freschezza, profondità. Ma non è che uno spasso
letterario, un esercizio rettorico. Luogo comune il concetto;
luoghi comuni gli accessorii. Non mira efficacemente a convertire,
a persuadere l'uditorio; non ha fede, nè ardore apostolico,
nè unzione; non ama gli uomini, non lavora alla loro salute
e al loro bene. Ha nel cervello una dottrina religiosa e morale di
accatto, ed ereditaria, non conquistata col sudore della sua
fronte, una grande erudizione sacra e profana: ivi niente si move,
tutto è fissato e a posto. La sua attività è
al di fuori, intorno al condurre il discorso e distribuire le
gradazioni, le ombre e la luce e i colori. Gli si può dar
questa lode negativa, che se spesso stanca, non annoia l'uditorio,
che tien sospeso e maravigliato con un "crescendo" di gradazioni e
sorprese rettoriche; e talora piacevoleggia e bambineggia per
compiacere a quello. Ancora è a sua lode, che si mostra
scrittore corretto, e non capita nelle stramberie del Panigarola,
o nelle sdolcinature e affettazioni de' suoi successori.
Si può ora scorgere il cammino della
letteratura, iniziata nel Boccaccio, reazione all'ascetismo,
negativa e idillica. La negazione percorse tutta la scala delle
forme comiche dalla caricatura del Boccaccio all'umorismo del
Folengo, e si sciolse nello sfacciato cinismo di Pietro Aretino:
fu essa vita e anima delle novelle, delle commedie, de' capitoli,
de' poemi romanzeschi. Semplice negazione, finì nella
sensualità, nella licenza delle idee e delle forme, in un
pretto materialismo. Accanto a questo elemento negativo ci era
l'idillio, un ritiro dell'anima dalle astrazioni teologiche e
dalle agitazioni politiche nella semplicità e nella quiete
della natura, un naturalismo spiritualizzato dal sentimento della
forma o della bellezza, che produsse i miracoli della poesia e
della pittura. La grazia, l'eleganza, la finitezza delle forme, la
misura e l'armonia nell'insieme e nelle parti sono l'impronta di
quest'aurea età. Ma questa letteratura portava in sè
il germe della dissoluzione, ed era la sua tendenza accademica,
letteraria e classica, per la poca serietà del suo
contenuto e la sua separazione da tutt'i grandi interessi morali,
politici e sociali che allora commovevano e ringiovanivano molta
parte di Europa. Giunta l'arte a quella perfezione, aveva bisogno
di un nuovo contenuto per trasformarsi e rinsanguarsi. E se la
reazione tridentina ci avesse dato questo nuovo contenuto, sarebbe
stata la benvenuta. Avremmo avuto una seria ristaurazione
religiosa e letteraria. Ma fu ristaurazione delle forme, non della
coscienza. Agli stessi riformatori mancava nella loro opera la
serietà della coscienza, come vedrà chi studi bene
la storia del Concilio di Trento non dico nel Sarpi, ma nello
stesso Pallavicino, voce leziosa e affettata di quei padri
riformatori. Di che nacque l'ultimo pervertimento del carattere
nazionale. L'idea che a salvare l'anima bastasse andare a messa e
portare addosso uno scapolare, e che l'assoluzione del confessore
fosse sufficiente a lavare tutte le macchie, salvo a tornar da
capo, diede alle plebi italiane quell'impronta grottesca di
bassezza, immoralità e divozione, che anche oggi in molti
luoghi non si è cancellata. Quanto alle classi colte, la
vita era menzogna, una vita ostentatrice di sentimenti religiosi e
morali senza alcuna radice nella coscienza. Tale la vita, tale la
letteratura. Quella sua tendenza accademica e letteraria divenne
la sua forma definitiva. Fu rettorica, cioè a dire
menzogna, espressione pomposa di sentimenti convenzionali. Il pio
Torquato prese sul serio quel nuovo contenuto, e vagheggiò
un mondo eroico e religioso, che naufragò tra gli elementi
che lo accompagnavano idillici e fantastici. Come sotto lo
scapolare batteva il core del brigante, sotto a quelle forme
pompose viveva invitto il naturalismo lirico, fantastico, idillico
del vecchio contenuto. L'Armida divenne l'Adone, e l'Aminta il
Pastorfido. Fra tante vite di santi e rappresentazioni sacre, fra
tante liriche eroiche, morali e patriottiche, ciò che ancor
vive è il naturalismo, una certa ebbrezza musicale de'
sensi, che fa cantare a' marinai napolitani le stanze di Armida e
i lubrici versi del Marino. Tutti si sentivano innanzi a un mondo
poetico invecchiato, e volevano rinnovarlo, e non vedevano che
bisognava innanzi tutto rinnovare la coscienza. Aguzzarono
l'intelletto, gonfiarono le frasi, e non potendo esser nuovi,
furono strani L'attività si concentrò intorno alla
frase, e il mondo letterario segregato dalla vita, e vuoto di ogni
scopo serio, divenne un esercizio accademico e rettorico.
La parola come parola, fine a se stessa,
è il carattere della forma letteraria o accademica. Nel
secolo scorso aveva un aspetto ciceroniano e boccaccevole; ora,
divenuta l'essenza stessa della letteratura, vi si aggiunge
un'aria preziosa, cioè a dire una ostentazione di
peregrinità nella sottigliezza del concetto o nel giro
della frase. Citammo già alcuni esempi di Pietro Aretino.
Ora ci è in tutti anche ne' più semplici, un po' di
Pietro Aretino. E quando questo sforzo dello spirito pareva
soverchia fatica, gli scrittori rimanevano senza più
semplici parolai o frasaiuoli: ciò che si diceva "stile
fiorito". Queste sono le due forme della decadenza, di cui si
vedono già i vestigi in Pietro Aretino, e che ora tengono
il campo nelle accademie letterarie. Gli accademici s'incensano,
si batton le mani, si decretano l'immortalità. Abbiamo gli
Ardenti, i Solleciti, gl'Intrepidi, gli Olimpici, i Galeotti, gli
Storditi, gl'Insipidi, gli Ottusi, gli Smarriti. Acquistano
un'importanza artificiale, molti vi pigliano il battesimo di
grandi uomini, come fu del Salvini, dotto uomo ma d'ingegno assai
inferiore alla fama. Corona di questa letteratura frivola sono gli
acrostici, gl'indovinelli, gli anagrammi, e simili giuochi di
spiriti oziosi.
La parola, come parola, può per qualche
tempo avere un'esistenza artificiale nelle accademie, ma non
potrà mai formare una letteratura popolare, perchè
la parola, se come espressione è potentissima, come
semplice sensibile è inferiore a tutti gli altr'istrumenti
dell'arte. La parola è potentissima, quando viene
dall'anima, e mette in moto tutte le facoltà dell'anima ne'
suoi lettori; ma quando il di dentro è vuoto, e la parola
non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa. Allora la
vista materiale, il colore, il suono, il gesto sono ben più
efficaci alla rappresentazione che quella morta parola. Si
comprende adunque come i parolai con tutto il loro spirito e la
loro eleganza mantennero la loro influenza in un circolo sempre
più ristretto di lettori, e come al contrario presero il
sopravvento gli attori, i musici e i cantanti, divenuti
popolarissimi in Italia e fuori. Le accademiche commedie del
Fagiuoli doveano piacer meno che le commedie a soggetto, venute
sempre più in voga, dove il fondo monotono e tradizionale
era ringiovanito dagli accessorii improvvisati e dall'abile
mimica. D'altra parte nella parola si sviluppava sempre più
l'elemento cantabile e musicale, già spiccatissimo nel
Tasso, nel Guarini, nel Marino. La sonorità o la melodia
era divenuta principal legge del verso o della prosa, e si
fabbricavano i periodi a suon di musica: ciascuno aveva
nell'orecchio un'onda melodiosa. Parte di rettorica era la
declamazione, cioè a dire un modo di recitare solenne e
armonioso. La parola non era più una idea, era un suono; e
spesso recitavasi a controsenso, per non guastare il suono. Questo
movimento musicale della nuova letteratura già visibile nel
Petrarca e nel Boccaccio, pure armonizzato con le idee e le
immagini, ora in quella insipidezza di ogni vita interiore diviene
esso il principale regolatore di tutti gli elementi della
composizione: tutto il solletico è nell'orecchio. E si
capisce come, giunte le cose a questo punto, la letteratura muore
d'inanizione, per difetto di sangue e di calore interno, e
divenuta parola che suona, si trasforma nella musica e nel canto,
che più direttamente ed energicamente conseguono lo scopo.
Perciò fra tanta letteratura accademica il melodramma o il
dramma musicale è il genere popolare, dove lo scenario, la
mimica, il canto e la musica opera sull'immaginazione ben
più potentemente che la parola insipida, vacua
sonorità, rimasta semplice accessorio.
La letteratura moriva, e nasceva la musica.
Già la musica non fu mai scompagnata
dalla poesia. Liriche sacre e profane erano cantate e musicate, e
ancora tutta la varietà delle canzoni popolari. Nel teatro
i cori e gl'intermezzi erano cantati. Ma quando il dramma divenne
insulso, e la parola perdette ogni efficacia, si cercò
l'interesse nella musica, e tutto il dramma fu cantato. E come la
musica non bastasse, si ricorse a tutt'i mezzi più efficaci
su' sensi e sull'immaginativa, magnificenza e varietà di
apparati scenici, combinazioni fantastiche di avvenimenti,
allegorie e macchine mitologiche. Fu da questa corruzione e
dissoluzione letteraria che uscì il melodramma, o
l'"opera", serbata a sì grandi destini.
Il primo tipo del melodramma è l'Orfeo.
Il Tasso, il Guarini, il Marino sono scrittori melodrammatici. La
lirica seicentistica è in gran parte melodrammatica. E
quelle canzonette, tutti quei languori di Filli e Amarilli sono i
preludi del Metastasio. I trilli, le cadenze, le variazioni, i
parallelismi, le simmetrie, le ripigliate, tutt'i congegni della
melodia musicale, appariscono già nella poesia. La parola,
non essendo altro più che musica, avea perduta la sua
ragion d'essere, e cesse il campo alla musica e al canto.
XIX
LA NUOVA SCIENZA
La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della
coscienza nazionale. Come negazione, ebbe vita splendida, che si
chiuse col Folengo e l'Aretino. Arrestato quel movimento negativo
dal Concilio di Trento, nacque un'affermazione ipocrita e
rettorica, sotto alla quale senti una delle forme più
deleterie della negazione, l'indifferenza. In quella stagnazione
della vita pubblica e privata, non rimane alla letteratura altro
di vivo che un molle lirismo idillico, il quale si scioglie nel
melodramma, e dà luogo alla musica.
Ma quel movimento non era puramente negativo.
Vi sorgeva dirimpetto l'affermazione del Machiavelli, una prima
ricostruzione della coscienza, un mondo nuovo in opposizione
dell'ascetismo, trovato e illustrato dalla scienza. È in
questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il suo
contenuto, il suo motivo, la sua novità. Accettarlo o
combatterlo era lo stesso. Ma bisognava ad ogni costo avere una
fede, lottare, poetare, vivere, morire per quella.
I princìpi furono favorevoli. Insieme
con la nuova letteratura si era sviluppata un'agitazione
filosofica nelle università e nelle accademie, indipendente
dalla teologia cattolica o riformista, o piuttosto in opposizione
mascherata alla teologia e all'aristotelismo dominante ancora
nelle scuole. I liberi pensatori eran detti "filosofi moderni" o i
"nuovi filosofi", come predicatori di nuove dottrine, e vedemmo
come il Tasso nella sua giovinezza soggiacque alla loro
autorità. Tra questi nuovi filosofi, che proclamavano
l'autonomia della ragione, e la sua indipendenza da ogni
autorità di teologo e di filosofo, disputando soprattutto
contro Aristotile, era Bernardino Telesio, dell'Accademia
Cosentina, nel quale è già spiccata la tendenza
all'investigazione de' fatti naturali e al libero filosofare
lasciate da parte le astrazioni e le forme scolastiche. Tra questi
"uomini nuovi", come li chiama Bacone, ebbe qualche fama il
Patrizi, e Mario Nizzoli da Modena, che combattè ugualmente
Aristotile e Platone, fuggì il gergo scolastico, e fu detto
dal Leibnitz "exemplum dictionis philosophiae reformatae". Gli
uomini nuovi chiamavano pedanti gli avversari, e come portavano i
tempi, alternavano le villanie con gli argomenti. Il carattere di
questo nuovo filosofare era l'indipendenza della filosofia
dirimpetto la fede e l'autorità, il metodo sperimentale, e
la riabilitazione della materia o della natura, risecato dalla
investigazione tutto ciò che è soprannaturale e
materia di fede. Filosofia e letteratura andavano di pari passo;
il Machiavelli e l'Ariosto s'incontravano sullo stesso terreno,
ciascuno co' suoi mezzi. L'ironia dell'Ariosto ha il suo comento
nella logica del Machiavelli. Come negazione, la nuova filosofia
era troppo radicale, perchè non solo negava il papato, ma
il cattolicismo, e non solo il cattolicismo, ma il cristianesimo,
e non solo il cristianesimo, ma l'altro mondo, e non solo l'altro
mondo, ma Dio stesso. Non è che queste cose apertamente si
negassero, anzi il linguaggio era pieno di cautele e di ossequi,
maestro il Machiavelli; ma co' più umili inchini le
mettevano da parte, come materia di fede, e vi sostituivano la
"natura", il "mondo", la "forza delle cose", la "patria", la
"gloria", altri elementi ed altri fini. Era in fondo l'umanismo e
il naturalismo, appoggiato alla ragione e all'esperienza, che
prendeva il suo posto nel mondo. Questo grande movimento dello
spirito che segna l'aurora de' tempi moderni, e che si può
ben chiamare il Rinnovamento, avea nell'intelletto italiano la sua
posizione più avanzata. Tutte le idee religiose, morali e
politiche del medio evo erano parte affievolite, parte affatto
cancellate nella coscienza degli uomini colti, anche de' preti,
anche de' papi: l'indifferenza pubblica aveva la sua espressione
nell'ironia, nel cinismo, nell'umorismo letterario. Ora questa
negazione e indifferenza universale non potea produrre un
organismo politico e sociale, anzi era indizio più di
dissoluzione, che di nuova formazione. La negazione non era
effetto di una energica affermazione, come fu per la Riforma,
reazione contro il paganesimo e il materialismo della Corte romana
prodotta da un vivace sentimento spiritualista, religioso e
morale, secondato da passioni e interessi politici. La Riforma
riuscì, perchè fu limitata nella sua negazione e
nelle sue conclusioni, perchè avea a sua base lo spirito
religioso e morale delle classi colte, e perchè,
combattendo il papa e sostenendo i principi nella loro lotta
contro l'imperatore, seppe metter dalla sua gl'interessi e le
ambizioni. Presso noi, la negazione era un fatto puramente
intellettuale, e quanto più assolute le conclusioni
dell'intelletto, tanto più era debole la volontà e
la forza di effettuarle. L'ideale stava a troppa distanza dal
reale. La stessa utopia ne' suoi voli d'immaginazione rimaneva
inferiore a quella posizione così avanzata dell'intelletto.
Rimasero dunque conclusioni accademiche, temi rettorici,
investigazioni solitarie nell'indifferenza pubblica. Le stesse
audacie del Machiavelli passarono inosservate. La libertà
del pensiero non era scritta in nessuna legge, ma ci era nel
fatto, e si filosofava e si disputava sopra qualsivoglia materia
senz'altro pericolo che degli emuli e invidiosi, che talora
concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il movimento
avesse potuto svilupparsi liberamente, non è dubbio che
avrebbe trovato il suo limite nelle applicazioni politiche e
sociali, fermandosi in quelle idee medie, che meno sono lontane
dalla realtà, e che si trovano già delineate nel
Machiavelli, il più pratico e positivo di quegli uomini
nuovi. Avremmo forse avuto la "patria" del Machiavelli, una chiesa
nazionale, una religione purgata di quella parte grottesca e
assurda, che la rende spregevole agli uomini colti, e una
educazione civile dell'animo e del corpo. Ma appunto allora
l'Italia perdette la sua indipendenza politica e la sua
libertà intellettuale; anzi la vittoria della Riforma in
molte parti di Europa rese timidi e sospettosi i governanti, e
cominciò feroce persecuzione contro gli uomini nuovi,
eretici e filosofi, e più gli eretici, come più
pericolosi. Avemmo il Concilio di Trento e l'Inquisizione, e, cosa
anco peggiore, l'educazione gesuitica, eunuca e ipocrita. I
più arditi esularono; e venne su la nuova generazione, con
apparenze più corrette, e con una dottrina ufficiale che
non era lecito mettere in discussione. Salvar le apparenze era il
motto, e bastava. E ne uscì una società scredente,
sensuale, indifferente, rettorica nelle forme, insipida nel fondo,
con letteratura conforme. Religione, patria, virtù,
educazione, generosità, sono temi poetici e oratorii
frequentissimi, con esagerazioni spinte all'ultimo eroismo,
perchè in nessuna relazione con la serietà e la
pratica della vita.
Ma nè l'Inquisizione co' suoi terrori,
nè poi i gesuiti co' loro vezzi poterono arrestare del
tutto quel movimento intellettuale, che avea la sua base nel
naturale sviluppo della vita italiana. Poterono bene ritardarlo
tanto e impedirlo nel suo cammino, che ci volle più di un
secolo, perchè acquistasse importanza sociale.
La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma
la differenza era in questo, che ne' suoi uomini era stagnata ogni
attività intellettuale ed ogni vigore speculativo, volto il
lavoro della mente agli accidenti e alle forme, più che
alla sostanza, com'era pure de' letterati; dove negli altri hai un
serio progresso intellettuale, vivificato dalla fede, e stimolato
dalla passione. La reazione avea vinto pienamente, avea seco tutte
le forze sociali, e l'opposizione cacciata via dalle accademie e
dalle scuole, frenata dall'Inquisizione e dalla censura, toltale
ogni libertà e forza di espansione, era una infima
minoranza appena avvertita nel gran movimento sociale.
Perciò alla reazione mancò la lotta, dove si affina
l'intelletto e si accendono le passioni, e per difetto di alimento
rimase stazionaria e arcadica. L'attività intellettuale e
l'ardore della fede rimase privilegio dell'opposizione, sì
che dove trovi movimento intellettuale, ivi trovi opposizione
più o meno pronunziata, e spesso involontaria e quasi senza
saputa dello scrittore. La storia di questa opposizione non
è stata ancora fatta in modo degno. Pure, là sono i
nostri padri, là batteva il core d'Italia, là
stavano i germi della vita nuova. Perchè infine la vita
italiana mancava per il vuoto della coscienza, e la storia di
questa opposizione italiana non è altro se non la storia
della lenta ricostituzione della coscienza nazionale. Cosa ci era
nella coscienza? Nulla. Non Dio, non patria, non famiglia, non
umanità, non civiltà. E non ci era più
neppure la negazione, che anch'essa è vita, anzi ci era una
pomposa simulazione de' più nobili sentimenti con la
più profonda indifferenza. Se in questa Italia arcadica
vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e
perciò una vita, cioè a dire che abbiano fede,
convinzioni, amore degli uomini e del bene, zelo della
verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi
uomini nuovi di Bacone, in questi primi santi del mondo moderno,
che portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova
letteratura.
E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno.
Cominciò poeta, fu grande ammiratore del Tansillo. Aveva
molta immaginazione e molto spirito, due qualità che
bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati;
nè altre ne avea il Tansillo, e più tardi il Marino
e gli altri lirici del Seicento. Ma Bruno avea facoltà
più poderose, che trovarono alimento ne' suoi studi
filosofici. Avea la visione intellettiva, o, come dicono,
l'intuito, facoltà che può esser negata solo da
quelli che ne son senza, e avea sviluppatissima la facoltà
sintetica, cioè quel guardar le cose dalle somme altezze e
cercare l'uno nel differente. Non era di ugual forza nell'analisi,
dove non mostra pazienza e sagacia d'investigazione, ma
quell'acutezza sofistica d'ingegno, che fa di lui l'ultimo degli
scolastici nelle argomentazioni, e il precursore de' marinisti ne'
colori. Supplisce all'analisi con l'immaginazione, fantasticando,
dove non giunge la sua visione, saltando le idee medie, e
sforzandosi divinare quello che per lo stato allora della
cognizione non può attingere. Spesso le sue idee sono
immagini, e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie. Ci era
nel suo petto un dio agitatore, che sentono tutt'i grand'ingegni;
ed era un dio filosofico, attraversato e avviluppato di forme
poetiche, che gli guastano la visione e lo dispongono più a
costruire lui il mondo, che a speculare sulla costruzione di
quello. Con queste forze e con queste disposizioni si può
immaginare qual viva impressione dovettero fare sul suo spirito
gli studi filosofici. La sua cultura è ampia e seria: si
mostra dimestico non solo de' filosofi greci, ma de'
contemporanei. Ha una speciale ammirazione verso il "divino"
Cusano e molta riverenza pel Telesio. Il suo favorito è
Pitagora, di cui afferma invidioso Platone. Alla sua natura
contemplativa e poetica dovea riuscire sommamente antipatico
Aristotile, e ne parla con odio, quasi nemico. Cosa dovea parere a
quel giovine tutto quell'edifizio
teologico-scolastico-aristotelico sconquassato dagli uomini nuovi,
ma saldo ancora nelle scuole, sul quale s'innestava una
società corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo
spirito fu negativo e polemico, fu la negazione delle opinioni
ricevute, accompagnata con un amaro disprezzo delle istituzioni e
de' costumi sociali. Era il tempo delle persecuzioni. I migliori
ingegni emigravano, regnava l'Inquisizione. E Bruno era frate, e
frate domenicano. Come uscì dal convento, e perchè
esulò, s'ignora. Ma a quel tempo bastava poco ad essere
battezzato eretico: ricordiamo i terrori del povero Tasso.
Fuggì Bruno in Ginevra, dove trovò un papa anche
più intollerante. Fuggì a Tolosa, a Lione, a Parigi,
dove ebbe qualche tregua, e pubblicò il suo primo lavoro.
Era il 1582. Aveva una trentina di anni.
Cosa è questo primo lavoro? Una
commedia, il Candelaio. Bruno vi sfoga le sue qualità
poetiche e letterarie. La scena è in Napoli, la materia
è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l'eterna
lotta degli sciocchi e de' furbi, lo spirito è il
più profondo disprezzo e fastidio della società, la
forma è cinica. È il fondo della commedia italiana
dal Boccaccio all'Aretino, salvo che gli altri vi si spassano,
massime l'Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al di sopra.
Chiamasi "accademico di nulla accademia, detto il Fastidito". Nel
tempo classico delle accademie il suo titolo di gloria è di
non essere accademico. Quel "fastidito" ti dà la chiave del
suo spirito. La società non gl'ispira più collera;
ne ha fastidio, si sente fuori e sopra di essa. Si dipinge
così:
"L'autore, sì lo conosceste, ... have
una fisonomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle
pene dell'inferno; ... un che ride sol per far comme fan gli
altri. Per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro."
Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze, senza conclusione.
E il risultato della sua commedia è "in tutto non esser
cosa di sicuro; ma assai di negozio, difetto abbastanza, poco di
bello e nulla di buono". Nessuno interesse può destare la
scena del mondo a un uomo, che nella dedica conchiude così:
"Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni
cosa si muta, nulla si annichila, è un solo, che non
può mutarsi, un solo è eterno e può
perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa
filosofia l'animo mi s'ingrandisce, e me si magnifica
l'intelletto."
Ma non gli s'ingrandisce il senso poetico, il quale è
appunto nel contrario, nel dar valore alle più piccole
rappresentazioni della natura, e prenderci interesse. Un uomo
simile era destinato a speculare sull'uno e sul medesimo, non
certo a fare un'opera d'arte. Non si mescola nel suo mondo, ma ne
sta da fuori e lo vede nelle sue generalità. Ecco in qual
modo dipinge l'innamorato:
"Vedrete in un amante sospiri, lacrime,
sbadacchiamenti, tremori, sogni, rizzamenti e un cuor rostito nel
fuoco d'amore; pensamenti, astrazioni, collere, malinconie,
invidie, querele, e men sperar quel che più si desia."
E continua di questo passo, ammassando tutt'i luoghi topici della
rettorica e tutte le frasi della moda:
"cuor mio", "mio bene", "mia vita",
"mia dolce piaga" e "morte", "dio", "nume", "poggio", "riposo",
"speranza", "fontana", "spirito", "tramontana stella", ed "un bel
sol che all'alma mai tramonta", ... "crudo core", "salda colonna",
"dura pietra", "petto di diamante", ... "cruda man che ha le
chiavi del mio core", "mia nemica", "mia dolce guerriera",
"bersaglio sol di tutt'i miei pensieri", e "bei son gli amor miei,
non quei d'altrui". È il vecchio frasario de' petrarchisti,
venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci è il
critico, non ci è il poeta comico che ci viva dentro e ci
si trastulli. Fino il titolo, il Candelaio, lo mena a questa
considerazione filosofica: che è la candela destinata a
illuminare le "ombre delle idee". Perciò costruisce il suo
mondo comico a quel modo che costruisce il suo universo, guardando
nelle apparenze l'essenza e la generalità:
"Eccovi avanti agli occhi oziosi
princìpi, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze,
scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presuppositi,
alienazioni di mente, poetici furori, offuscamento di sensi,
turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d'intelletto, fede
sfrenata, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive, e
gloriosi frutti di pazzia."
Con queste disposizioni non individua, come fa l'artista, ma
generalizza, mette insieme le cose più disparate,
perchè nelle massime differenze trova sempre il simile e
l'uno, e profonde antitesi, similitudini, sinonimi, con una copia,
un brio, una novità di relazioni che testimoniano
straordinaria acutezza di mente. Chi legge Bruno si trova
già in pieno Seicento, e indovina Marino e Achillini. Ecco
un periodo alla sua donna:
"Voi, coltivatrice del campo dell'animo mio,
che dopo di avere attrite le glebe della sua durezza, e
assotigliatogli il stile, acciocchè la polverosa nebbia
sollevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di
questo e quello, con acqua divina, che dal fonte del vostro
spirito deriva, m'abbeveraste l'intelletto."
Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino, che ne facea mercato.
Il difetto penetra anche nella rappresentazione, essendo i
caratteri concepiti astrattamente, perciò tesi e crudi,
senza ombre e chiaroscuri, con una cinica nudità, resa
anche più spiccata da una lingua grossolana, un italiano
abborracciato e mescolato di elementi napolitani e latini.
In questo mondo comico i tre protagonisti, che
sono i tre sciocchi beffardi e castigati, abbracciano la vita
nelle sue tre forme più spiccate, la letteratura, la
scienza e l'amore nella loro comica degenerazione. La letteratura
è pedanteria, la scienza è impostura, l'amore
è bestialità. Il personaggio meglio riuscito
è il pedante, che finisce sculacciato e rubato. E il
pedante sotto vari nomi diviene parte sostanziale anche del suo
mondo filosofico, diviene il suo elemento negativo e polemico.
Dirimpetto alla sua speculazione ci è sempre il pedante
aristotelico, che rappresenta il senso comune o le opinioni
volgari, ed è messo alla berlina. La speculazione si
sviluppa in forma di dialogo, dove il pedante rappresenta la parte
del buffone resa più piccante dalla solennità
magistrale. A questo elemento comico aggiungi un altro elemento
letterario, l'allegorico e il fantastico, che lo dispone a
inviluppare i suoi concetti sotto immagini e finzioni,
com'è nel suo Asino cillenico e nello Spaccio della bestia
trionfante. Qui arieggia Luciano, come in altri dialoghi
più severamente speculativi arieggia Platone. Il suo
dialogo Degli eroici furori ricorda la Vita nuova di Dante, una
filza di sonetti, ciascuno col suo comento, il quale nella sua
generalità è una dottrina allegorica intorno
all'entusiasmo e alla ispirazione. Il contenuto nel Bruno è
in molta parte nuovo, ma le sue forme letterarie non nascono dal
contenuto, sono appiccate a quello, e sono forme invecchiate e
corrotte dal lungo uso, perciò senza grazia e
semplicità, e senza calore intimo. Se non disgustano e non
annoiano, si dee al suo acuto spirito e alla sua attività
intellettuale, che non ti fa mai stagnare, e ti sorprende di
continuo con sali, frizzi, antitesi, bizzarrie, concetti e
finezze, che è il cattivo gusto degli uomini d'ingegno.
Ma quest'uomo così inviluppato in forme
tradizionali e già guaste, che accennavano già ad
una prossima dissoluzione della letteratura italiana, era nella
sua speculazione perfettamente libero, e costruiva un nuovo
contenuto, da cui dovea uscire più tardi una nuova critica
e una nuova letteratura. La sua filosofia è la condanna
più esplicita delle sue forme e de' suoi pregiudizi
letterari.
Non vo' già analizzare il suo sistema
filosofico: chè non fo storia di filosofia. Ma debbo notare
le idee e le tendenze che ebbero una decisa influenza sul
progresso umano.
Ne' suoi primi scritti, tutti in latino, si
vede il giovane, a cui si apre tutto il mondo della cognizione, e
cerca riassumerlo, costruire l'albero enciclopedico. Raimondo
Lullo avea già tentata questa sintesi, come aiuto della
memoria. Bruno rifà il suo lavoro, stabilisce categorie e
distinzioni, note mnemoniche, o idee generali, intorno a cui si
aggruppino i particolari, come "cielo", "albero", "selva". Queste
note le chiama "suggelli", a cui è aggiunto "sigillus
sigillorum", cioè le idee prime, da cui discendono le
altre. Il suo entusiasmo per quest'"architettura lulliana", titolo
di un suo scritto, è tale, che la chiama "arte delle arti",
perchè vi si trova "quidquid per logicam, metaphysicam,
cabalam, naturalem magiam, artes magnas atque breves theoretice
inquiritur". Bruno non avea attinto che il meccanismo della
scienza, perchè queste categorie o distribuzioni per capi e
per materia sono distinzioni formali e arbitrarie, e rassomigliano
un dizionario fatto per categorie a soccorso della memoria. Il
volgo ci dà molta importanza e crede, imparando quelle
categorie, di avere imparato a così buon mercato tutte le
scienze. Dicesi che molti gli stessero attorno per aver da lui il
secreto di diventar dottori in qualche mese, e che beffati gliene
volessero: anzi a queste inimicizie plebee si attribuisce la sua
fuga da Parigi e la sua andata a Londra. Ivi continuò i
suoi studi lulliani e pubblicò Explicatio triginta
sigillorum, con una introduzione intitolata: Recens et completa
ars reminiscendi. In questi studi meccanici e formali si rivela
già un principio organico, che annunzia il gran pensatore.
L'arte del ricordarsi si trasforma innanzi alla sua mente
speculativa in una vera arte del pensare, in una logica che
è ad un tempo una ontologia. Ci è un libro
pubblicato a Parigi nel 1582, col titolo: De umbris idearum, e lo
raccomando a' filosofi, perchè ivi è il primo germe
di quel mondo nuovo, che fermentava nel suo cervello. Ivi tra
quelle bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto
capitalissimo, che le serie del mondo intellettuale corrispondono
alle serie del mondo naturale, perchè uno è il
principio dello spirito e della natura, uno è il pensiero e
l'essere. Perciò pensare è figurare al di dentro
quello che la natura rappresenta al di fuori, copiare in sè
la scrittura della natura. Pensare è vedere, ed il suo
organo è l'occhio interiore, negato agl'inetti.
Ond'è che la logica non è un argomentare, ma un
contemplare, una intuizione intellettuale non delle idee, che sono
in Dio, sostanza fuori della cognizione, ma delle ombre o riflessi
delle idee ne' sensi e nella ragione. Bruno parla con disprezzo
dantesco del volgo, a cui è negato il lume interno, la
visione del vero e del buono riflesso nella ragione e nella
natura; e premette al suo libro questa protesta:
Umbra profunda sumus, ne nos vexetis, inepti;
non vos, sed doctos tam grave quaerit opus.
Che vuol dire in buono italiano: - Chi non ci vede, suo danno, e
non ci stia a seccare. -
Questo concetto rinnovava la scienza nella sua
sostanza e nel suo metodo. Il dualismo teologico-filosofico del
medio evo, da cui scaturiva il dualismo politico, papa e
imperatore, dava luogo all'unità assoluta. E il formalismo
meccanico aristotelico-scolastico cedeva il campo a un metodo
organico, cioè a dire derivato dall'essenza stessa della
scienza. Il nuovo concetto era la chiave della speculazione di
Bruno.
A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema
di Copernico, lungamente da lui narrata e con colori molto comici
nella Cena delle ceneri, cioè del primo dì di
quaresima. Poi sviluppò più ampiamente le sue idee
nel dialogo della Causa, principio e uno, e nell'altro
dell'Infinito, universo e mondi, pubblicati a Londra nel 1584.
Quei tre libri sono la sua metafisica.
Ciò che ti colpisce dapprima in questa
speculazione è la riabilitazione, anzi l'indiamento della
materia scomunicata, chiamata "peccato". Bruno ha chiara coscienza
di ciò che fa. Perchè mette in bocca al pedante
aristotelico le opinioni volgari che correvano intorno alla
materia. Il pedante è Polinnio, ed è descritto
così:
"Questo è un di quelli che, quando ti
arràn fatta una bella costruzione, prodotta una elegante
epistolina, scroccata una bella frase da la popina ciceroniana,
qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive
Salustio; qua è un Argo che vede ogni lettera, ogni
sillaba, ogni dizione... Chiamano all'essamina le orazioni, fanno
discussione de le frasi, con dire: - Queste sanno di poeta, queste
di comico, queste di oratore! Questo è grave, questo
è lieve, quello è sublime, quell'altro è
"humile dicendi genus". Questa orazione è aspera, sarebbe
lene, se fusse formata cossì. Questo è un infante
scrittore, poco studioso dell'antiquità, non redolet
arpinatem, desepit Latium. Questa voce non è tosca, non
è usurpata da Boccaccio, Petrarca e altri probati autori...
- Con questo trionfa, si contenta di sè, gli piaceno
più ch'ogn'altra cosa i fatti suoi: è un Giove che
da l'alta specula rimira e considera la vita degli altri uomini
suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie e fatiche inutili.
Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando
contempla la sua divinità nello specchio di uno spicilegio,
un dizionario, un Calepino, un lessico, un Cornucopia, un
Nizzolio... Se avvien che rida, si chiama Democrito; se avvien che
si dolga, si chiama Eraclito; se disputa, si chiama Crisippo; se
discorre, si nome Aristotile; se fa chimere, si appella Platone;
se mugge un sermoncello, se intitula Demostene; se construisce
Virgilio, lui è il Marone. Qua corregge Achille, approva
Enea, riprende Ettore, esclama contro Pirro, si condole di Priamo,
arguisce Turno, scusa Didone, comenda Acate, e infine mentre
"verbum verbo reddit" e infilza salvatiche sinonimie "nihil
divinum a se alienum putat", e così borioso smontando de la
sua catedra, come colui c'ha disposti i cieli, regolati i senati,
domati gli eserciti, riformati i mondi, è certo che se non
fosse l'ingiuria del tempo, farebbe con gli effetti quello che fa
con l'opinione. O tempora o mores! Quanti son rari quei che
intendeno la natura dei participi, degli adverbi, delle
coniunczioni !
Polinnio sarebbe immortale, se fosse in azione così vivo e
vero, come è dipinto qui, ma l'artista è inferiore
al critico, nè il Polinnio che parla è uguale al
Polinnio descritto con così felice umore sarcastico.
Polinnio sa a mente tutto quello che è stato scritto
intorno alla materia, e tutto solo, "ita, inquam, solus ut minime
omnium solus", come fosse in cattedra, ti sciorina sulla materia
una lezione, anzi, come dice lui, una "nervosa orazione:"
"La materia... di peripatetici dal principe...,
non minus che dal Platon divino e altri, or "caos", or "hyle" or
"silva", or "massa", or "potenzia", or "aptitudine", or
"privationi admixtum", or "peccati causa", or "ad maleficium
ordinata", or "per se non ens", or "per se non scibile", or "per
analogiam ad formam cognoscibile", or "tabula rasa", or
"indepictum", or "subiectum", or "substratum", or
"substerniculum", or "campus", or "infinitum", or
"indeterminatum", or "prope nihil", or" neque quid, neoue quale,
neque quantum", tandem ... "femina" vien detta, tandem, inquam, ut
una complectantur omnia vocula, "foemina" ."
Ebbene, questa materia, che Polinnio per disprezzo chiama
"femmina", la "causa del peccato", la "tavola rasa", il "prope
nihil", il "neque quid, neque quale, neque quantum", è
proclamata da Bruno immortale e infinita. Passano le forme: la
materia resta immutabile nella sua sostanza:
"Nella natura, variandosi in infinito, e
succedendo l'una a l'altra le forme, è sempre una materia
medesma... Quello che era seme, si fa erba, e da quello che era
erba, si fa spica, da che era spica, si fa pane, da pane chilo, da
chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo,
da questo cadavero, da questo terra, da questo pietra... Bisogna
dunque che sia una medesima cosa, che da sè non è
pietra, non terra, non cadavere, non uomo, non embrione, non
sangue...; ma che dopo che era sangue, si fa embrione, ricevendo
l'essere embrione; dopo ch'era embrione, riceve l'essere uomo,
facendosi uomo."
E poichè tutte le forme passano, ed ella
resta, Democrito e gli epicurei "quel che non è corpo
dicono esser nulla: per conseguenza vogliono la materia sola
essere la sustanza delle cose, e anche quella essere la natura
divina", le forme non essendo "altro che certe accidentali
disposizioni della materia", come sostengono i cirenaici, cinici e
stoici. Bruno avea dapprima la stessa opinione, diffusa già
in molti contemporanei, soprattutto nei medici, parendogli che
quella dottrina avesse "fondamenti più corrispondenti alla
natura che quei di Aristotile". Cominciò dunque prettamente
materialista; ma considerata la cosa "più maturamente" non
potè confondere la potenza passiva di tutto e la potenza
attiva di tutto, chi fa e chi è fatto, la forma e la
materia: onde venne nella conclusione esserci nella natura due
sustanze, l'una ch'è forma, l'altra che è materia,
la "potestà di fare" e la "potestà di esser fatto".
Perciò nella scala degli esseri "c'è un intelletto,
che dà l'essere a ogni cosa, chiamato da'
pitagorici...'datore delle forme'; una anima e principio formale,
che si fa ed informa ogni cosa, chiamata da' medesimi 'fonte delle
forme'; una materia, della quale vien fatta e formata ogni cosa,
chiamata da tutti 'ricetto delle forme'.
Quanto all'intelletto, "primo e ottimo
principio", "non possiamo conoscer nulla, se non per modo di
vestigio, essendo la divina sostanza infinita e lontanissima da
quegli effetti che sono l'ultimo termine del corso della nostra
discorsiva facultade ". Dio dunque è materia di fede e di
rivelazione, e secondo la teologia e "ancora tutte riformate
filosofie" è cosa "da profano e turbolento spirito il voler
precipitarsi a ... definire circa quelle cose che son sopra la
sfera della nostra intelligenza". Dio "è tutto quello che
può essere"; in lui potenza e atto "son la medesima cosa",
possibilità assoluta, atto assoluto. "Lo uomo è quel
che può essere; ma non è tutto quel che può
essere... Quello, che è tutto quel che può essere,
è uno il quale nell'esser suo comprende ogni essere. Lui
è tutto quel che è e può essere." In lui ogni
potenza e atto è "complicato, unito e uno: nelle altre cose
è esplicato, disperso e moltiplicato". Lui è
"potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di
tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutto l'essere."
Perciò il Rivelatore lo chiama "Colui che è", il
"Primo" e il "Novissimo", poichè "non è cosa antica
e non è cosa nuova", e dice di lui: "Sicut tenebrae eius,
ita et lumen eius". "Atto absolutissimo" e "absolutissima potenza,
non può esser compreso dall'intelletto se non per modo di
negazione; non può ... esser capito, nè in quanto
può esser tutto", nè in quanto è tutto.
Ond'è che il sommo principio è escluso dalla
filosofia, e Bruno costruisce il mondo, lasciando da parte la
più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la
quale "a chi non crede è impossibile e nulla". Quelli che
non hanno il lume soprannaturale, stimano ogni cosa esser corpo, o
semplice, come lo etere, o composto, come gli astri, e non cercano
la divinità fuor de l'infinito mondo e le infinite cose, ma
dentro questo e in quelle". Questa è la sola differenza tra
il "fedele teologo" e il "vero filosofo". E Bruno conchiude: -
Credo che abbiate compreso quel che voglio dire. - Il medio evo
avea per base il soprannaturale e l'estramondano: Bruno lo ammette
come "fedele teologo", ma come "vero filosofo" cerca la
divinità non fuori del mondo, ma nel mondo. È in
fondo la più radicale negazione dell'ascetismo e del medio
evo.
Lasciando da parte la contemplazione del primo
principio, rimangono due sostanze: la forma che fa e la materia di
cui si fa, i due princìpi costitutivi delle cose.
La forma nella sua assolutezza è
l'"anima del mondo", la cui "intima, più reale e propria
facoltà e parte potenziale" è l'"intelletto
universale". Come il nostro intelletto produce le specie
razionali, così l'intelletto o l'anima del mondo produce le
specie naturali, "empie il tutto, illumina l'universo", come disse
il poeta: "...totamque infusa per artus / mens agitat molem, et
toto se corpore miscet". Questo intelletto, detto da' platonici
"fabro del mondo", e da Bruno "artefice interno", "infondendo e
porgendo qualche cosa del suo alla materia, ... produce il tutto".
Esso è la forma universale e sostanziale insita nella
materia, perchè non opera circa la materia e fuor di
quella, ma figura la materia da dentro, "come da dentro del seme o
radice" forma "il stipe, da dentro il stipe caccia i rami, da
dentro i rami le formate brance, da dentro queste ispiega le
gemme, da dentro forma, figura e intesse come di nervi le fronde,
li fiori e li frutti". La natura opra dal centro, per dir
così, del suo soggetto o materia. Sicchè la forma,
se come causa efficiente è estrinseca, perchè "non
è parte delle cose prodotte"; "quanto all'atto della sua
operazione", è intrinseca alla materia, perchè opera
nel seno di quella. È causa, cioè, fuori delle cose;
ed è insieme principio, cioè insito nelle cose. Non
ci è creazione, ci è generazione, o, come dice
Bruno, "esplicazione".
La forma è in tutte le cose, e
perciò tutte le cose hanno anima. Vivere è avere una
forma, avere anima. Tutte le cose sono viventi. "Se la vita si
trova in tutte le cose, l'anima" è "forma di tutte le
cose": presiede alla materia, "signoreggia nelli composti,
effettua la composizione e consistenza delle parti". Perciò
essa è immortale e una non meno che la materia. Ma "secondo
la diversità delle disposizioni della materia e secondo la
facultà de' princìpi materiali attivi e passivi,
viene a produr diverse figurazioni". Sono queste forme esteriori,
che solo si cangiano e annullano, "perchè non sono cose, ma
de le cose, non sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e
circostanze. Perciò dice il poeta: "Omnia mutantur, nihil
interit". E Salomone dice: "Quid est quod est? Ipsum, quod fuit.
Quid est quod fuit? Ipsum, quod futurum est. Nihil sub sole
novum". Vani dunque sono i terrori della morte, e più vani
i terrori dell'"avaro Caronte, onde il più dolce della
nostra vita ne si rape ed avvelena".
Machiavelli avea già parlato di uno
"spirito del mondo" immortale ed immutabile, fattore della storia
secondo le sue leggi costitutive. Quello spirito della storia
nella speculazione di Bruno è il "fabro del mondo", il suo
"artefice interno".
Dirimpetto alla forma assoluta è la
materia assoluta, cioè secondo sè, distinta dalla
forma. Come la forma esclude da sè ogni concetto di
materia, così la materia esclude da sè ogni concetto
di forma. La materia è "informe", potenza passiva "pura,
nuda, senz'atto, senza virtù e perfezione", "prope nihil":
è l'indifferente, lo stesso e il medesimo, il tutto e il
nulla. Appunto perchè è tutte le cose, non è
alcuna cosa. E perchè non è alcuna cosa, non
è corpo; "nullas habet dimensiones", è indivisibile,
soggetto di cose corporee e incorporee. Se avesse certe
dimensioni, certo essere, certa figura, certa proprietà,
certa differenzia, non sarebbe assoluta."
Ma forma e materia nella loro assolutezza, come
aventi vita propria, estrinseca l'una all'altra, sono non
distinzioni reali, ma vocali e nominali, sono distinzioni logiche
e intellettuali, perchè "l'intelletto divide quello che in
natura è indiviso", com'è vizio di Aristotile, e
degli scolastici, che popolarono il mondo di entità
logiche, quasi fossero sussistenze reali. Bruno si beffa in molte
occasioni di questi filosofi, che moltiplicarono gli enti,
immaginando fino la "socrateità" come l'essenza di Socrate,
la "ligneità" come essenza del legno. Questa distinzione
tra gli enti logici e gli enti reali è già un gran
progresso. Non che le distinzioni logiche sieno senza importanza,
anzi esse sono una serie corrispondente alla serie delle cose,
sono le generalità della natura; il torto è di
considerarle cose viventi e reali, e credere, per esempio, che
forma e materia sieno due sostanze distinte, appunto perchè
possiamo e dobbiamo concepirle distinte.
In natura o nella realtà forma e materia
sono una sola sostanza. L'una implica l'altra: porre l'una
è porre l'altra. La forma non può sussistere se non
aderente alla materia, una forma che stia da sè è
una astrazione logica Parimente la materia vuota e informe
è un'astrazione; essa è come una "pregnante che ha
già in sè il germe vivo". Non ci è forma che
non abbia in sè "un che materiale", e non ci è
materia che non abbia in sè il suo principio formale e
divino. Bruno dice: "Lo ente, logicamente diviso in quel che
è e può essere, fisicamente è indiviso,
indistinto e uno". Perciò la potenza coincide coll'atto, la
materia con la forma. Giove, "la essenzia per cui tutto quel
ch'è ha l'essere", è "intimamente" in tutto; onde
"s'inferisce che tutte le cose sono in ciascuna cosa, e tutto
è uno".
La materia non è dunque nulla, "prope
nihil", come vuole Aristotile; anzi ha in sè tutte le
forme, e le produce dal suo seno per opera della natura,
efficiente o artefice "interno e non esterno, come aviene nelle
cose artificiali". Se il principio formale fosse esterno, si
potrebbe dire ch'ella "non abbia in sè forma e atto
alcuno"; ma le ha tutte, perchè tutte le caccia "dal suo
seno". Perciò la materia non è "quello in cui le
cose si fanno", ma quello "di cui ogni specie naturale si
produce". Ciò che, oltre i pitagorici, Anassagora e
Democrito, comprese anche Mosè, quando disse: "'Produca la
terra li suoi animali',... quasi dicesse: 'Producale la materia'".
Adunque le "forme" ed "entelechie" di Aristotile e le "fantastiche
idee di Platone", i "sigilli ideali separati dalla materia ... son
peggio che mostri", sono "chimere e vane fantasie". La materia
è fonte dell'attualità, è non solo in
potenza, ma in atto; è sempre la medesima e immutabile, in
eterno stato, e non è quella che si muta, ma quella intorno
alla quale e nella quale è la mutazione. Ciò che si
altera è il composto, non la materia. Si dice stoltamente
che la materia appetisca la forma. Non può appetere "il
fonte delle forme che è in sé", perchè
nessuno appete ciò che possiede. E perciò, in caso
di morte, non si dee dire che "la forma fugge... o... lascia la
materia, ma più tosto che la materia rigetta quella forma"
per prenderne un'altra. Il povero Gervasio, che fa nel dialogo la
parte del senso comune e volgare, vedendo a terra non solo le
opinioni aristoteliche di Polinnio, ma tante altre cose, esce in
questa esclamazione: - "Or ecco a terra non solamente li castelli
di Polinnio, ma ancora d'altri che di Polinnio!". -
Adunque, se gl'individui sono innumerabili,
ogni cosa è uno, e il conoscere questa unità
è lo scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni
naturali, montando non al sommo principio, escluso dalla
speculazione, ma alla somma monade o atomo o unità, anima
del mondo, atto di tutto, potenza di tutto, tutta in tutto.
Questa sostanza unica è "l'universo,
uno, infinito, immobile". "Non è materia, perchè non
è figurato, nè figurabile..., non è forma,
perchè non informa, nè figura" sostanza particolare,
"atteso che è tutto, è massimo, è uno,
è universo... È talmente forma che non è
forma, è talmente materia che non è materia,
è talmente anima che non è anima; perchè
è il tutto indifferentemente, e però è uno,
l'universo è uno". In lui tutto è centro: il centro
è dappertutto e la circonferenza è in nessuna parte,
ed anche la circonferenza è dappertutto e in nessuna parte
il centro. Non c'è vacuo tutto è pieno: quello in
cui vi può essere corpo, e che può contenere qualche
cosa, e nel cui seno sono gli atomi. Perciò l'universo
è di dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La
causa finale del mondo è la perfezione, e agl'innumerabili
gradi di perfezione rispondono i mondi innumerabili: animali
grandi, co' loro organi e il loro sviluppo, de' quali uno è
la terra. Per la continenza di questi innumerabili si richiede uno
spazio infinito, l'eterea regione, dove si muovono i mondi,
perciò non affissi e inchiodati. Vano è cercare il
loro motore esterno, perchè tutti si muovono dal principio
interno, che è la propria anima.
Il punto di partenza è una reazione
visibile contro il soprannaturale e l'estramondano. Il mondo
popolato di universali nel medio evo è negato da Bruno in
nome della natura. Dio stesso, dice Bruno, se non è natura,
è natura della natura; se non è l'anima del mondo,
è l'anima dell'anima del mondo. E in questo caso è
materia di fede, non è parte della cognizione. La base
della sua dottrina è perciò l'intrinsechezza del
principio formale o divino della natura. Ciascuno ha Dio dentro di
sè. Il vero e il buono luce dentro di noi non per lume
soprannaturale, ma per lume naturale. Il naturalismo reagiva
contro il soprannaturale.
Quelli che hanno lume soprannaturale, come i
profeti, cioè a dire che ricevono il lume dal di fuori,
egli li chiama "asini" o "ignoranti", de' quali fa un ironico
panegirico nell'Asino cillenico, e tra questi e quelli che hanno
il lume naturale e vedono per virtù propria è la
stessa differenza che è "tra l'asino che porta i sacramenti
e la cosa sacra". Quelli sono vasi e strumenti; questi principali
artefici ed efficienti: quelli hanno più dignità,
perchè hanno la divinità; questi sono essi
più degni, e sono divini. L'asinità è la
condizione della fede: chi crede, non ha bisogno di sapere; e
l'asinità conduce alla vita eterna.
"- Forzatevi, forzatevi dunque ad
essere asini, o voi che siete uomini!... - grida Bruno con umore -
così, divoti e pazienti, sarete contubernali alle angeliche
squadre... E voi che siete già asini,... adattatevi a
proceder... di bene in meglio, afinchè perveniate... a
quella dignità che non per scienze ed opre,... ma per fede
s'acquista. Se... tali sarete..., vi troverete scritti nel libro
della vita, impetrerete la grazia in questa militante, ed
otterrete la gloria in quella trionfante ecclesia, nella quale
vive e regna Dio per tutt'i secoli de' secoli."
Questa tirata umoristica finisce
con un "molto pio" sonetto in lode degli asini, il cui concetto
è che "il gran Signor li vuol far trionfanti". Nè
solo è l'asino trionfante, ma l'ozio, perchè
l'eterna felicità s'acquista per "fede", non per "scienze",
e non per "opre". Anche dell'ozio hai un panegirico ironico, e per
saggio diamo il seguente sillogismo:
"Li dèi son dèi, perchè
son felicissimi; li felici son felici perchè son senza
sollecitudine e fatica; fatica e sollecitudine non han coloro che
non si muovono e alterano; questi son massime quei ch'han seco
l'ocio: dunque gli dèi son dèi, perchè han
seco l'ocio."
Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza. Momo, il
censore divino, ne resta intrigato, e dice che "per aver studiato
logica in Aristotile non aveva imparato di rispondere agli
argomenti in quarta figura". L'ozio fa naturalmente l'elogio
dell'età dell'oro, la sua età, il suo regno, e cita
i bei versi del Tasso:
... ... legge aurea e felice,
che natura scolpì: "S'ei piace, ei
lice".
E finisce con questa esortazione:
Lasciate le ombre, ed abbracciate il vero,
non cangiate il presente col futuro.
Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca.
Avviso non fu mai di saggio e scaltro,
perdere un ben per acquistarne un altro.
A che cercate sì lunge diviso,
se in voi stessi trovate il paradiso?
L'ozio e l'ignoranza sono i caratteri della vita ascetica e
monacale, della quale Bruno aveva avuto esperienza.
"[La libertade], - fa egli dire a Giove -
quando verrà ad essere ociosa, sarà frustratoria e
vana, come indarno è l'occhio che non vede, e mano che non
apprende. Ne l'età... dell'oro per l'ocio gli uomini non
erano più virtuosi, che sin al presente le bestie son
virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste."
Bruno rigetta quella vita oziosa, che fu detta "aurea", e ch'egli
chiama "scempia", fondata sulla passività dell'intelletto e
della volontà, e non può parlarne senz'aria di
beffa. Il soprannaturale è incalzato ne' suoi
princìpi e nelle sue conseguenze.
Secondo la morale di Bruno il lume naturale
viene destato nell'anima dall'amore del divino, o dal principio
formale aderente alla materia, e per il quale la materia è
bella. Amare la materia in quanto materia è cosa bestiale e
volgare, e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti,
lodatori di donne per ozio e per pompa d'ingegno, a quel modo che
altri "han parlato delle lodi della mosca, dello scarafone,
dell'asino, de Sileno, de Priapo, scimmie de' quali son coloro che
han poetato a' nostri tempi - dic'egli - delle lodi degli orinali,
della piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del
forno, del martello, della carestia, della peste". Obbietto
dell'amore eroico è il divino, o il formale: la bellezza
divina "prima si comunica alle anime, e... per quelle... si
comunica alli corpi; onde è che l'affetto ben formato
ama... la corporal bellezza, per quel che è indice della
bellezza del spirito. Anzi quello che n'innamora del corpo
è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la
qual si chiama 'bellezza', la qual non consiste nelle dimensioni
maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in
certa armonia e consonanza de membri e colori." L'amore sveglia
nell'anima il lume naturale, o la visione intellettiva, la luce
intellettuale, e la tiene in istato di contemplazione o di
astrazione, sì che pare insana e furiosa, come posseduta
dallo spirito divino. Questo è non il volgare, ma l'eroico
furore, per il quale l'anima si converte come Atteone in quel che
cerca, cerca Dio e diviene Dio, e avendo contratta in sè la
divinità, non è necessario che la cerchi fuori di
sè. "Però ben si dice il regno di Dio essere in noi,
e la divinitade abitare in noi per forza della visione
intellettuale. Non tutti gli uomini hanno la visione
intellettuale, perchè non tutti hanno l'amore eroico; ne'
più domina non la mente, che innalza a cose sublimi, ma
l'immaginazione, che abbassa alle cose inferiori; e questo volgo
concepisce l'amore a sua immagine:
fanciullo il credi, perchè poco intendi;
perchè ratto ti cangi, e' par fugace;
per esser orbo tu, lo chiami cieco.
L'amore eroico è proprio delle nature superiori, dette
"insane", non perchè non sanno, ma perchè
"soprasanno", sanno più dell'ordinario, e tendono
più alto, per aver più intelletto.
La visione o contemplazione divina non è
però oziosa ed estrinseca, come ne' mistici e ascetici: Dio
è in noi, e possedere Dio è possedere noi stessi. E
non ci viene dal di fuori, ma ci è data dalla forza
dell'intelletto e della volontà, che sono tra loro in
reciprocanza d'azione: l'intelletto, che, suscitato dall'amore,
acquista occhio e contempla; e la volontà che,
ringagliardita dalla contemplazione, diviene efficace, o doppiata:
ciò che Bruno esprime con la formola: "io voglio volere".
Dalla contemplazione esce dunque l'azione: la vita non è
ignoranza e ozio, anzi è "intelletto e atto mediante
l'amore", secondo la formola dantesca rintegrata da Bruno:
è intendere ed operare. Maggiori sono le contrarietà
e le necessità della vita, e più intensa è la
volontà, perchè amore è unità e
amicizia de' contrari, o degli oppositi, e nel contrasto cerca la
concordia. La mente è unità,;l'immaginazione
è moto, è diversità; la facultà
razionale è in mezzo, composta di tutto, in cui concorre
l'uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto con lo
stato, l'inferiore col superiore. Come gli dèi trasmigrano
in forme basse e aliene, o per sentimento della propria
nobiltà ripigliano la divina forma; così il furioso
eroico, innalzandosi per la conceputa specie della divina
beltà e bontà, con l'ale dell'intelletto e
volontà intellettiva s'innalza alla divinità,
lasciando la forma di soggetto più basso:
da soggetto più vil divegno un dio...
Mi cangio in Dio da cosa inferiore.
"Cangiarsi in Dio" significa levarsi dalla moltitudine all'uno,
dal diverso allo stesso, dall'individuo alla vita universale,
dalle forme cangianti al permanente, vedere e volere nel tutto
l'uno e nell'uno il tutto. O, per uscire da questa terminologia,
Dio è verità e bontà scritta al di dentro di
noi, visibile per lume naturale; e cercarla e possederla è
la perfezione morale, lo scopo della vita.
È stato notato che Bruno non ti offre un
sistema concorde e deciso. La filosofia è in lui ancora in
istato di fermentazione. Hai i vacillamenti dell'uomo nuovo, che
vive ancora nel passato e del passato. Combatte il soprannaturale,
ma il suo lume naturale, la sua "mens tuens", la sua intuizione
intellettiva, ne serba una confusa reminiscenza. Contempla Dio
nella infinità della natura, ma non sa strigarsi dal Dio
estramondano, e non sa che farsene, rimasto come un antecedente
inconciliato della sua speculazione. Ora quel Dio è
verità e sostanza, e noi siamo sua ombra, "umbra profunda
sumus"; ora quel Dio è proprio la natura, o, "se non
è natura, è natura della natura". Ci è in lui
confuso Cartesio, Spinosa e Malebranche. Combatte la scolastica, e
ne conserva in gran parte le abitudini. Odia la mistica, e talora,
a sentirlo, è più mistico di un santo padre. Rigetta
l'immaginazione, e ne ha tutt'i vizi e tutte le forme. Manca
l'armonia nel suo contenuto e nelle sue forme. E non è
maraviglia che anche oggi i filosofi si accapiglino nella
interpretazione del suo sistema.
Interessantissima è questa storia
interiore dello spirito di Bruno nelle sue distinzioni e
sottigliezze, e nelle oscillazioni del suo sviluppo; anzi è
questa la sua vera biografia. Niente è più
drammatico che la vita interiore di un grande spirito nella sua
lotta con l'educazione, co' maestri, con gli studi, col tempo, co'
pregiudizi, nelle sue imitazioni, fluttuazioni e resistenze. La
sua grandezza è appunto in questo, di vincere in quella
lotta, cioè che di mezzo a quelle fluttuazioni si stacchino
con maggior forza ed evidenza le sue tendenze predilette, che gli
danno un carattere ed una fisonomia. E questa fisonomia di Bruno
noi dobbiamo cercare, a traverso i suoi ondeggiamenti.
Innanzi tutto, Bruno ha sviluppatissimo il
sentimento religioso, cioè il sentimento dell'infinito e
del divino, com'è di ogni spirito contemplativo.
Leggendolo, ti senti più vicino a Dio. E non hai bisogno di
domandarti, se Dio è, e cosa è. Perchè lo
senti in te, e appresso a te, nella tua coscienza e nella natura.
Dio è "più intimo a te che non sei tu a te stesso".
Tutte le religioni non sono in fondo che il divino in diverse
forme. E sotto questo aspetto Bruno ti fa un'analisi assai
notevole delle religioni antiche e nuove. L'amore del divino, il
"furore eroico", è il carattere delle nobili nature. E
questo amore ci rende atti non solo a contemplare Dio come
verità, ma ancora a realizzarlo come bontà. Ivi ha
radice la scienza e la morale.
Questi concetti non sono nuovi, e di simili se
ne trovano nella Scrittura e ne' padri. Ma lo spirito n'è
nuovo. Non è solo questo, che "i cieli narrano la gloria di
Dio", ma quest'altro, che i cieli sono essi medesimi divini, e si
movono per virtù propria, per la loro intrinseca
divinità. È la riabilitazione della materia o della
natura, non più opposta allo spirito e scomunicata, ma
fatta divina, divenuta "genitura di Dio". È il finito o il
concreto che apparisce all'infinito, e lo realizza, gli dà
l'esistenza. O, come dicesi oggi, è il Dio vivente e
conoscibile che succede al Dio astratto e solitario. L'universo,
eterno ed infinito, è la vita o la storia di Dio.
Questo è ciò che fu detto il
"naturalismo di Bruno", o piuttosto del secolo, ed era il naturale
progresso dello spirito, che usciva dalle astrattezze scolastiche,
o, come dice Bruno, "dalle credenze e dalle fantasie", e cercava
la sua base nel concreto e nel finito era la prima voce della
natura che scopriva se stessa e si proclamava di essenza divina,
una e medesima che la divinità, "secondo che l'unità
è distinta nella generata e generante, o producente e
prodotta". Bruno nel suo entusiasmo per la natura divina dice che
lo spirito eroico
"vede l'anfitrite, il fonte di
tutti i numeri, di tutte specie, di tutti i raggioni, che è
la monade, vera essenza dell'essere di tutti, e, se non la vede in
sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura, che gli
è simile, che è la sua imagine: perchè dalla
monade, che è la divinitate, procede questa monade, che
è la natura, l'universo, il mondo, dove [ella] si contempla
e si specchia"
cioè dove s'intende ed è intelligibile.
Questa visione di Dio, privilegio dello spirito
eroico, non ha nulla a fare col lume soprannaturale, con la fede,
o la grazia, o l'estasi, o altro che dal di fuori piova
nell'anima. Dio, fatto conoscibile nel mondo, diviene materia
della cognizione, e l'anima effettua la sua unione con lui per un
atto della sua energia, per intrinseca virtù. La visione
è intellettiva, e il suo organo è la mente, dove
Dio, o la Verità, si rivela, come "in propria e viva sede",
a quelli che la cercano, "per forza del riformato intelletto e
volontà", cioè per la scienza.
L'amore del divino, spinto sino al "furore
eroico", lega Bruno co' mistici. Il naturalismo letterario era
pretto materialismo, che si sciolse nella licenza e nel cinismo, e
mise capo in ozio idillico snervante, peggiore dell'ozio ascetico.
Il naturalismo di Bruno era al contrario non il divino
materializzato, ma la materia divinizzata. La materia in se stessa
è volgare bestialità; essa ha valore come divina. Il
divino non è infuso o intrinseco, ma è insito e
connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il degno scopo della
vita. E non si rivela se non a quelli che lo cercano e lo
conquistano col lavoro della mente illuminata dall'amore eroico.
Ciò distingue i vulgari da' nobili spiriti. Molti sono i
chiamati, pochi gli eletti. "Molti rimirano, pochi vedono." Bruno
parla spesso con tale unzione e con tale esaltazione mistica, che
ti pare un Dante o un san Bonaventura.
Ma i mistici sono semplicemente contemplanti,
dove per Bruno non è contemplazione nella quale non sia
azione, e non è azione nella quale non sia contemplazione.
La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è
operare. Si vede l'uomo che esce dal convento ed entra nella vita
militante.
Folengo esce dal convento, rinnegando Dio e
sputando sul viso alla società. In lui il secolo scettico e
materialista ha la sua ultima espressione. Anche a Bruno abbonda
la satira e l'ironia; anche in lui ci è un lato negativo e
polemico, sviluppato con potenza e abbondanza d'immaginazione. Ma
questo lato rimane assorbito nella sua speculazione. Il suo scopo
è tutto positivo: è la restaurazione di Dio, e con
esso del sentimento religioso e della coscienza. Ciò che
Savonarola tentò con la fede e con l'entusiasmo, egli tenta
con la scienza. Non accetta Dio come gli è dato, nè
se ne rimette alla fede, perchè non è un credente.
Dio vuole cercarlo e trovarlo lui, con la sua attività
intellettuale, con l'occhio della mente. E questo Dio, da lui
trovato, e di cui sente l'infinita presenza in se stesso e
negl'infiniti mondi e in ciascun essere vivente, nel massimo e nel
minimo, non rimane astratta verità nella sua intelligenza,
ma scende nella coscienza e penetra tutto l'essere, intelletto,
volontà, sentimento e amore. Comincia scredente, finisce
credente. Ma è un "credo" generato e formato nel suo
spirito, non venutogli dal di fuori. Per questo "credo" non gli fu
grave morire ancor giovane sul rogo, dicendo a' suoi giudici le
celebri parole: "Maiori forsitan cum timore sententiam in me
dicitis, quam ego accipiam". Sembra che il suo maggior peccato
innanzi alla Chiesa sia stata la sua fede negl'infiniti mondi,
come traspare da questa malvagia ironia dello Scioppio: "Sic
ustulatus misere periit, renunciaturus credo, in reliquis illis,
quos finxit, mundis, quonam pacto homines blasphemi et impii a
romanis tractari solent".
Insisto su questo carattere entusiastico e
religioso di Bruno, o, com'egli dice, "eroico", che gli dà
la figura di un santo della scienza. Quante volte
l'umanità, stanca di aggirarsi nell'infinita
varietà, sente il bisogno di risalire al tutto ed uno,
all'assoluto, e cercarvi Dio, le si affaccia sull'ingresso del
mondo moderno la statua colossale di Bruno.
Il suo supplizio passò così
inosservato in Italia, che parecchi eruditi lo mettono in dubbio.
Nè le opere sue vi lasciarono alcun vestigio. Si direbbe
che i carnefici insieme col corpo arsero la sua memoria. Anche in
Europa il brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle
idee e delle dottrine era così violento, che il gran
precursore fu avvolto e oscurato nel turbinìo. Come Dante,
Bruno attendeva la sua risurrezione. E quando dopo un lungo lavoro
di analisi riappare la sintesi, Jacobi e Schelling sentirono la
loro parentela col grande italiano, e riedificarono la sua statua.
In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica
della scienza moderna, con le sue più spiccate tendenze, la
libera investigazione, l'autonomia e la competenza della ragione,
la visione del vero come prodotto dell'attività
intellettuale, la proscrizione delle fantasie, delle credenze e
delle astrazioni, un più intimo avvicinamento alla natura o
al reale. Dico "tendenze", perchè nel fatto l'immaginazione
e il sentimento soprabbondavano in lui, e gli tolsero quella calma
armonica di contemplazione, senza la quale riesce difettiva la
virtù organizzatrice, e quella pazienza di osservazione e
di analisi, senza la quale le più belle speculazioni
rimangono infeconde generalità.
Quanto alla sua sintesi, il Dio astratto ed
estramondano fatto visibile e conoscibile nella infinita natura,
l'unità e medesimezza di tutti gli esseri,
l'eternità e l'infinità dell'universo nella perenne
metempsicosi delle forme, il sentimento dell'anima o della vita
universale, l'infinita perfettibilità delle forme nella
loro trasformazione, la produttività della materia dal suo
intrinseco, l'azione dinamica della natura nelle sue combinazioni,
la libertà distinta dal libero arbitrio e rappresentata
come la stessa effettuazione del divino o della legge, la
moralità e la glorificazione del lavoro, sono concetti che,
svolti lungamente e variamente da Bruno in opere latine e
italiane, appaiono punti luminosi nella speculazione moderna, e ne
trovi i vestigi in Cartesio, in Spinosa, in Leibnitz, e più
tardi in Schelling, in Hegel e ne' presenti materialisti. Se
dovessi con una sola formola caratterizzare il mondo di Bruno, lo
chiamerei il "mondo moderno ancora in fermentazione".
Roma bruciava Bruno, Parigi bruciava Vanini. I
loro carnefici li dissero atei. Pure Dio non fu mai cosa sì
seria, come nel loro petto.
- Andiamo a morir da filosofo -
disse Vanini, avvicinandosi al rogo. Eran detti anche "novatori",
titolo d'infamia, che è divenuto il titolo della loro
gloria.
Nel 1599. Bruno era già nelle mani
dell'Inquisizione, e Campanella nelle mani spagnuole. Nel primo
anno del Seicento Bruno periva sul rogo, e Campanella aveva la
tortura. Così finiva l'un secolo, così cominciava
l'altro. "Tu, asinus, nescis vivere", dicevano a Campanella amici
e nemici: "ne loquaris in nomine Dei". E lui prendeva ad insegna
una campana, con entrovi l'epigrafe: "Non tacebo". Anche Bruno
diceva di sè: "Dormitantium animorum excubitor". La nuova
scienza sorge come una nuova religione, accompagnata dalla fede e
dal martirio. "Philosophus" diceva il Pomponazzi per esperienza
propria "ab omnibus irridetur, et tamquam stultus et sacrilegus
habetur; ab inquisitoribus prosequitur, fit spectaculum vulgi:
haec igitur sunt lucra philosophorum, haec est eorum merces". Pure
questi uomini nuovi derisi, perseguitati, spettacolo del volgo,
avevano una fede invitta nel trionfo delle loro dottrine.
L'accademia cosentina di Telesio avea per impresa la luna
crescente, col motto: "Donec totum impleat orbem". Bruno,
perseguitato dal suo secolo, diceva: - La morte in un secolo fa
vivo in tutti gli altri. - Campanella paragona il filosofo al
Cristo, che il terzo giorno, spezzando la pietra, risorge. Il
carattere era pari all'ingegno. Dietro al filosofo ci era l'uomo.
Telesio è detto da Bacone il "primo
degli uomini nuovi". Ma la novità era già antica di
un secolo, e Telesio che avea fatto i suoi studi a Padova, a
Milano, a Roma, professato a Napoli, quando, stanco di lotte e di
persecuzioni, deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza, vi
portò il motto del pensiero italiano, la "filosofia
naturale", fondata sull'esperienza e sull'osservazione. Il suo
merito è di avere esercitata una seria influenza
intellettuale tra' suoi concittadini e di aver fondata sotto nome
di "accademia" una vera scuola filosofica. Come Machiavelli,
così egli non segue altro che l'osservazione e la natura:
"poichè la sapienza umana è arrivata alla più
alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si
presenta a' sensi, e ciò che può esser dedotto per
analogia dalle percezioni sensibili". Sincero, modesto, d'ingegno
non grande ma di grandissima giustezza di mente e di sano
criterio, fu benemerito meno per le sue dottrine, che per il
metodo ed il linguaggio. E in verità, la grande e utile
novità era allora il metodo. Il suo maggiore elogio lo ha
fatto Campanella in queste parole: "Telesius in scribendo stylum
vere philosophicum solus servat, iuxta verum naturam sermones
significantes condens, facitque hominem potius sapientem quam
loquacem". L'obbiettivo era sciogliere il pensiero dalla
servitù di Aristotile, "tiranno degl'ingegni", e metterlo
in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero, ciò
che con una precisione uguale alla concisione dice Campanella nel
suo famoso sonetto a Telesio:
Telesio, il telo della tua faretra
uccide de' sofisti in mezzo al campo
degl'ingegni il tiranno senza scampo:
libertà dolce alla verità
impetra.
L'impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte
mediocrità, tutto quel complesso di uomini e d'istituzioni
che l'Aretino chiamava "la pedanteria", i "Polinnii" di Bruno
spalleggiati da francescani, domenicani e gesuiti, e spesso
l'ultimo argomento era il rogo, il carcere, l'esilio. Dir cose
nuove era delitto non solo alla Chiesa, ma a' principi venuti in
sospetto di ogni novità nelle scuole: pure la fede di un
rinnovamento era universale, e "Renovabitur" fu il motto del
Montano, discepolo di Telesio, nel compendio che scrisse della sua
dottrina. Si era fino allora pensato col capo d'altri: gli uomini
volevano ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E fu
così irresistibile, che la novità usciva anche da'
segreti del convento. Fu là che si formò ne' forti
studi libera e ribelle l'anima di Bruno. E là, in un
piccolo convento di Calabria, si educava a libertà
l'ingegno di Tommaso Campanella. Assai presto oltrepassò
gli studi delle scuole, e, fatto maestro di sè, lesse
avidamente e disordinatamente tutti quei libri che gli vennero
alle mani. Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il
giovine raccolse immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo
idolo era Telesio, il gran novatore; il suo odio era Aristotile
con tutto il suo seguito, e, come Bruno, preferiva gli antichi
filosofi greci, massime Pitagora. Venuto in Cosenza, i suoi frati,
che già conoscevano l'uomo, non vollero permettergli di
udire, nè di veder Telesio: ciò che infiammò
il desiderio e l'amore. Il giorno che Telesio morì, fu
visto in chiesa accanto alla bara il giovine frate, che dovea
continuarlo. I cosentini, sentendolo nelle dispute, dicevano che
in lui era passato lo spirito di Telesio. La scuola telesiana o
riformatrice, come era detta, gli fu tutta intorno, il Bombino, il
Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col maestro. Il suo
primo lavoro fu una difesa di Telesio contro il napoletano Marta.
Venuto a Napoli per la stampa dell'opera, attirò
l'attenzione per il suo ardore nelle dispute, per l'agilità
e la presenza dello spirito, per la franchezza delle opinioni, e
per l'immenso sapere. E gl'invidiosi dicevano: - Come sa di
lettere costui, che mai non le imparò? - E recavano a
magia, a cabala, a scienza occulta ciò che era frutto di
studi solitari. Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli,
onde il buon Telesio avea dovuto andar via per le molte
inimicizie. Anche il Porta ci stava a disagio, e dovea con le
commedie far perdonare alla sua filosofia. Naturalmente, si
strinse un legame tra Campanella e l'autore della Magia naturale e
della Fisionomia. Disputavano, leggevano, conferivano i loro
lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu rerum,
a cui successe l'altro: De investigatione. Ivi si stabilisce per
qual via si giunga a ragionare "col solo senso e colle cose che si
conoscono pe' sensi": ciò che è il metodo
sperimentale, base della filosofia naturale. Ci si vede
l'influenza di Telesio, di Porta e di tutta la scuola
riformatrice.
Porta potè esser tollerato a Napoli,
perchè era non solo gentiluomo e assai riverito, ma uomo di
spirito, e amabilissimo. Ma Campanella non sapea vivere, come
dicevano i suoi emuli. Era tutto di un pezzo, e alla naturale,
veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola. E venne in uggia
a moltissimi, e anche ai suoi frati, che non gli potevano
perdonare l'odio contro Aristotile. Come Bruno, lasciò il
convento, e indi a non molto Napoli, e con in capo già una
nuova metafisica tutta abbozzata, fu a Roma, poi a Firenze, dove
il destino faceva incontrare i due grandi ingegni di quel tempo,
Campanella e Galilei.
Michelangiolo moriva, e tre giorni prima, il 15
febbraio del 1564, nasceva in Pisa Galileo Galilei. Tutto gli rise
nel principio, levato maraviglioso grido di sè per le sue
invenzioni della misura del tempo per mezzo del pendolo, del
termometro, del compasso geometrico, del telescopio. Con questo
potente istrumento iniziò le sue speculazioni astronomiche,
che rinnovavano il cielo biblico e tolemaico. Parecchi fatti,
divinati da Bruno, acquistavano certezza, come ciò che si
vede e si tocca. Il suo Nunzio sidereo appariva così
maraviglioso, come il viaggio di Colombo. Le montuosità
della luna, le fasi di Venere e di Marte, le macchie del sole, i
satelliti di Giove erano tali scoperte a breve distanza, che
spoltrivano gli animi oziosamente cullati ne' romanzi e nelle
oscenità letterarie. La filosofia naturale vinceva oramai
le ultime resistenze nella pubblica opinione. Non si trattava
più d'ipotesi e di astratti ragionamenti. I fatti erano
là, e parlavano più alto che i sillogismi de'
teologi e degli scolastici. La cosa effettuale di Machiavelli, il
lume naturale di Bruno, il metodo sperimentale di Telesio, la
libertà dolce alla verità di Campanella avevano il
loro riscontro nelle belle parole di Galileo: - "Ah viltà
inaudita d'ingegni servili, farsi spontaneamente mancipio!" -. Il
buon Simplicio, il pedante aristotelico, come Polinnio, risponde:
- "Ma, quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta
nella filosofia?" -. E Galileo replica pacatamente: - "...I ciechi
solamente hanno bisogno di guida.. Ma chi ha gli occhi nella
fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta" -.
Il lume soprannaturale, la scienza occulta, il mistero, il
miracolo scompariva innanzi allo splendore di questo lume naturale
dell'occhio e della mente: la magia, l'astrologia, l'alchimia, la
cabala sembravano povere cose innanzi a' miracoli del telescopio.
Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo cielo. Sulle
rovine delle scienze occulte sorgevano l'astronomia, la geografia,
la geometria, la fisica, l'ottica, la meccanica, l'anatomia. E
tutto questo era la filosofia naturale, il naturalismo. - "La
filosofia - diceva Galileo - è scritta nel libro
grandissimo della natura." - E stupendamente diceva Campanella:
Il mondo è il libro, dove il Senno
eterno
scrisse i propri concetti.
Campanella nacque il 1568, quattro anni dopo Galileo. Si videro a
Firenze: Galileo già famoso, in grazia della Corte,
professore, con un concetto dell'universo e della scienza chiaro,
intero, ben circoscritto: Campanella, oscuro, conscio del suo
ingegno, di concetti molti e arditi e smisurati, in aria di
avventuriere che cerchi fortuna, più che di un savio
tranquillo e riposato nella scienza. Cercò una cattedra. -
Chi è costui? - E il Granduca chiese le informazioni al
generale di San Domenico, il quale rispose: "Alquanto differente
relazione tengo io del padre fra Tommaso Campanella di quella
è stata fatta a Vostra Altezza... io farò prova del
valore e sufficienza sua". Le raccomandazioni di Galileo non
valsero contro l'ira domenicana. Campanella non riuscì, e
la ragione è detta da Baccio Valori:
"Procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire
la filosofia del Telesio, con colore che la pregiudichi alla
teologia scolastica fondata in Aristotile da lui così
riprovato, corre qualche risico conseguente [Tommaso Campanella]
della medesima scuola, e per avventura il più terribile per
eccellenza de' suoi concetti, che veramente sono e alti e nuovi."
Campanella aveva allora ventiquattro anni.
L'indomabile giovane si vendicò, scrivendo una nuova difesa
di Telesio. Aveva già scritto un trattato De sphaera
Aristarchi, dove sostiene l'opinione copernicana del moto della
terra. Vagheggiava una scienza universale, col titolo De
universitate rerum, che diventò più tardi la sua
Philosophia realis. A lui dovea parere molto modesto Galileo, che
lasciava da banda teologia e metafisica ed ogni costruzione
universale, contento ad esplorar la natura ne' suoi particolari. E
gli scriveva: "Invero non si può filosofare, senza un vero
accertato sistema della costruzione de' mondi, quale da lei
aspettiamo: e già tutte le cose sono poste in dubbio, tanto
che non sapemo se il parlare è parlare". Domandava egli a
Galileo una riforma dell'astronomia e della matematica sublime,
una vera filosofia naturale. "Scriva pel primo" diceva "che questa
filosofia è d'Italia, da Filolao e Timeo in parte, e che
Copernico la rubò da' predetti e dal ferrarese suo maestro;
perchè è gran vergogna che ci vincan le nazioni che
noi avemo di selvagge fatte domestiche". Ma Galileo rimase fermo
nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri e le sue ipotesi;
ma gli parea che il vero filosofo naturale dovesse lasciare il
verisimile, e attenersi a ciò che è
incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella ch'ei non volea
"per alcun modo, con cento e più proposizioni apparenti
delle cose naturali, screditare e perdere il vanto di dieci o
dodici sole da lui ritrovate, e che sapeva per dimostrazione esser
vere". Stavano a fronte la saviezza fiorentina e l'immaginazione
napoletana, o, per dir meglio, due culture, la cultura toscana,
già chiusa in sè e matura, e veramente positiva, e
la cultura meridionale, ancor giovane e speculativa, e in tutta
l'impazienza e l'abbondanza della giovanezza. In Galileo si sente
Machiavelli; e in Campanella si sente Bruno. Vedi la differenza
anche nello scrivere. Chi legge le lettere, i trattati, i dialoghi
di Galileo, vi trova subito l'impronta della coltura toscana nella
sua maturità, uno stile tutto cosa e tutto pensiero, scevro
di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e
propria, in che è l'ultima perfezione della prosa. Usa i
modi servili del tempo senza servilità, anzi tra' suoi
baciamano penetra un'aria di dignità e di
semplicità, che lo tiene alto su' suoi protettori. Non
cerca eleganza, nè vezzi, severo e schietto, come uomo
intento alla sostanza delle cose, e incurante di ogni lenocinio.
Ma se causa le esagerazioni e gli artifici letterari, non ha la
forza di rinnovare quella forma convenzionale, divenuta modello.
Avvolto in quel fraseggiare d'uso, frondoso e monotono, trovi
concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall'abitudine,
pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto. Al
contrario in Bruno e in Campanella la forma è scorretta,
rozza, disuguale, senza fisonomia; ma ne' suoi balzi e nelle sue
disuguaglianze, viva, mobile, nata dalle cose. Ivi ti par di avere
innanzi un bel lago, anzi che acqua corrente; non una formazione
organica e conforme al contenuto, ma una forma già fissata
innanzi e riprodotta, spesso priva di movimenti interni, sola
esteriorità: qui vedi una lingua ancora mobile e in
formazione, con elementi già nuovi e moderni. Alcune pagine
di Bruno sembrano scritte oggi.
Ma saviezza fiorentina e immaginazione
napoletana erano del pari sospette a Chiesa e Spagna. Il libro
della natura era libro proibito, e chi vi leggeva era eretico o
ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia, a Padova, a
Bologna, a Roma, co' suoi manoscritti appresso, e scrivendo sempre
per sè e per altri, in verso e in prosa, in latino e in
italiano, trattati, orazioni, discorsi, dispute. A Bologna gli
furono rubati i manoscritti. E che importa? Rifaceva, rinnovava,
con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma, torna a
Napoli, e va a prender fiato a Stilo sua patria. Ivi sperava
riposo; ma "accadde a me quello che dice Salomone: quando l'uomo
avrà finito, allora comincerà; quando
riposerà, sarà affaticato". Ivi cominciarono i suoi
guai. Avvolto in una cospirazione, fu come reo di maestà
condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di
un'accusa, se ne suscitava un'altra, perchè "gl'iniqui non
cercavano il delitto, ma farmi comparir delinquente". - Come sai
tu le lettere, se non le imparasti mai? Forse hai addosso il
demonio. - "Ma io - rispose il prigioniero - ho consumato
più d'olio che voi di vino." - Lo si fece autore del libro
De tribus impostoribus, Mose, Christo et Mahumed, stampato
trent'anni prima ch'ei nascesse. Fu detto che voleva fondar la
repubblica con l'aiuto de' turchi, e che era un eretico, e aveva
dottrina pericolosa, e non credeva a Dio. Invano scrisse Della
monarchia, e l'Ateismo vinto, e la Disputa antiluterana. Fu
condannato da Roma e da Spagna, ribelle ed eretico, e tenuto in
prigione ventisette anni, sottoposto alla tortura sette volte.
"Mi fur rotte le vene e le arterie; e il
cruciato dell'eculeo mi lacerò le ossa..., e la terra bevve
dieci libbre del mio sangue...: risanato dopo sei mesi, in una
fossa fui seppellito, ove non è nè luce, nè
aria, ma fetore e umidità e notte e freddo perpetuo. "
Dopo dodici anni di tali martìri fa
questo triste inventario de' suoi mali:
Sei e sei anni che in pena dispenso
l'afflizion d'ogni senso,
le membra sette volte tormentate,
le bestemmie e le favole de' sciocchi,
il sol negato agli occhi,
i nervi stratti, l'ossa scontinuate,
le polpe lacerate,
i guai dove mi corco,
li ferri, il sangue sparso e il timor crudo
e il cibo poco e sporco.
Fra tanti tormenti scriveva, scriveva sempre, versi e prose.
I tempi si facevano più scuri. Copernico
era uomo piissimo, chiuso ne' suoi studi matematici; era un
matematico, non un filosofo, dicea Bruno, che di quel sistema avea
saputo fare un così terribile uso col suo ingegno libero e
speculativo. Il sistema era presentato come una pura ipotesi e
spiegazione de' fenomeni celesti e naturali, e i filosofi avevano
sempre cura di aggiungere: "salva la fede". Così il libro
di Copernico, dedicato a Paolo terzo, fu tenuto innocuo per
ottanta anni. Ma la sua dottrina si diffondeva celeremente,
propugnata da Bruno, da Campanella, da Galileo e da Cartesio, che
si preparava a farne una dimostrazione matematica. Il libro di
Copernico parve allora cosa eretica, e fu condannato, essendo cosa
più facile scomunicare che confutare. Cartesio pose a
dormire la sua dimostrazione. Il povero Galileo, processato e
torturato, dovette confessare che "Terra stat et in aeternum
stabit", ancorchè la sua coscienza rispondesse: - Eppur si
muove. - E la sua scrittura sulla mobilità della terra
mandò al Granduca con queste parole, ritratto de' tempi:
"Perchè io so quanto convenga obbedire e
credere alle determinazioni de' superiori, come quelli che sono
scorti da più alte cognizioni, alle quali la bassezza del
mio ingegno per se stesso non arriva, reputo questa presente
scrittura che gli mando, come quella che è fondata sulla
mobilità della terra, ovvero che è uno degli
argomenti che io produceva in sostegno di essa mobilità, la
reputo, dico, come una poesia, ovvero un sogno, e per tale la
riceva l'Altezza Vostra."
Altrove la chiama una "chimera", un "capriccio
matematico", e nasconde la verità, come fosse un delitto o
una vergogna. Di quest'accusa e di questo processo giunse notizia
a Tommaso Campanella, e fra' tormenti del carcere scrisse
l'apologia di Galileo.
Galileo fu lasciato vivere solitario in
Arcetri, già rifugio del Guicciardini, dove i dispiaceri e
le malattie prima gli tolsero la vista e poi la vita. Morì
nel 1642, l'anno stesso che nacque Newton. L'anno dopo Torricelli,
suo allievo, trovava il barometro. Tre anni prima moriva
Campanella in Francia dov'erasi rifuggito, e dove potè
pubblicare la sua filosofia.
A Galileo chiusero gli occhi i discepoli. Le
sue scoperte ed osservazioni diedero un impulso straordinario alle
scienze, e formarono attorno a lui una scuola di filosofi
naturali, Castelli, Cavalieri, Torricelli, Borelli, Viviani,
illustri non solo per valore scientifico, ma per bontà di
scrivere. Veniva il mondo, di cui erano stati precursori
incompresi e perseguitati Alberto Magno e Ruggiero Bacone: Galileo
ripigliava la bandiera con miglior fortuna. E l'Italia, maestra di
Europa nelle lettere e nelle arti, aveva ancora il primato nelle
scienze positive, o, come dicevasi, nella "filosofia naturale".
Qui venivano ad imparare gli stranieri; qui Copernico imparava il
moto della terra, e qui imparava Harvey la circolazione del
sangue. Qui sorgeva l'accademia del Cimento, dove "provando e
riprovando" si studiava la natura. Geografia, astronomia,
anatomia, medicina, botanica, ottica, meccanica, geometria,
algebra ebbero qui i loro primi cultori e propagatori. Tra gli
scrittori giova mentovare Francesco Redi, in cui fa la sua ultima
comparsa il toscano, già finito e chiuso in sè, e
Lorenzo Magalotti, di una limpidezza già vicina alla forma
moderna.
Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno,
è un naturalista, e crede che la filosofia non si possa
fondare che su' fatti. Onde Galileo tirava questa conseguenza, che
dunque bisognava prima studiare i fatti. In tanta scarsezza di
fatti naturali, morali, sociali ed economici, in tante lacune
delle scienze positive filosofare significava foggiarsi un mondo a
modo degli antichi filosofi greci, con l'immaginazione
divinatrice, ed avere per risultato l'ipotetico e il probabile,
anzi che il certo e il vero. Questo, pensava Galileo, non è
scienza. Pure è chiaro che una certa idea del mondo
l'avevano anche i filosofi naturali, e che quel medesimo porre le
fondamenta della scienza sull'osservazione, e tagliarne fuori le
credenze e le fantasie, era già mettere in vista un mondo
metafisico tutto nuovo, il naturalismo, la natura fatta centro di
gravità dello scibile a spese del Dio astratto, o, per
parlare secondo quei tempi, Dio fatto visibile e conoscibile nella
natura, un Dio intimo e vivo. Questo era il significato stesso di
quel movimento che tirava gli spiriti dalle astrazioni scolastiche
alla investigazione de' fatti naturali; e Bruno e Campanella non
fecero che dare a quel movimento la sua coscienza metafisica e
fondarvi sopra tutta una filosofia. Se necessario fu Galileo, non
fu meno necessario Bruno e Campanella. Un nuovo mondo si formava,
una nuova filosofia era in vista all'orizzonte con lineamenti
abbozzati appena e vacillanti. Era quella sintesi poetica e
provvisoria, preludio della scienza, il presentimento e la
divinazione dell'ultima sintesi, risultato di una lunga analisi, e
corona della scienza. Quella prima sintesi te la dànno
Bruno e Campanella, appassionatissimi degli antichi filosofi
greci, a cui rassomigliavano.
È una sintesi inorganica e
contraddittoria. E la contraddizione è ancora più
accentuata in Campanella che in Bruno. Trovi in lui scienze
occulte e scienze positive, soprannaturale e naturale, medio evo e
Rinascimento, tradizione e ribellione, assolutismo e
libertà, cattolicismo e razionalismo, e mentre combatte,
come Bruno, le credenze e le fantasie, nessuno più di lui
dommatizza e fantastica. Pongono in opera tutto quel materiale che
hanno innanzi, mancando ancora quel lavoro di eliminazione e di
analisi, senza il quale è impossibile la composizione.
Hanno fede nell'ingegno, e si mettono all'opera con l'ardore di
una speciale vocazione, si sentono attirati da una forza fatale
verso quelle alte regioni, verso l'infinito o il divino, a rischio
di perdervisi. Ciò che ispira a Bruno, o all'anonimo
autore, questo sublime sonetto:
Poi che spiegate ho l'ali al bel desio
quanto più sott'il piè l'aria mi
scorgo
più le veloci penne all'aria porgo,
e spregio il mondo e verso il ciel m'invio.
Nè del figliuol di Dedalo il fin rio
fa che giù pieghi, anzi via più
risorgo:
ch'i' cadrò morto a terra, ben mi
accorgo;
ma qual vita pareggia al viver mio?
La voce del mio cor per l'aria sento:
- Ove mi porti, temerario? China,
chè raro è senza duol troppo
ardimento.
- Non temer - rispond'io - l'alta ruina:
fendi sicur le nubi, e muor' contento,
se il ciel si illustre morte ne destina. -
Anche Campanella è poeta, e si sente la stessa vocazione.
Si chiama "luce tra l'universale ignoranza", "fabbro di un mondo
nuovo", "Prometeo che rapisce il fuoco sacro a Giove":
Con vanni in terra oppressi al ciel men' volo
in mesta carne d'animo giocondo;
e se talor m'abbassa il grave pondo,
l'ale pur m'alzan sopra il duro suolo.
Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo che si andava
formando, e ci vedea in fondo, ultimo termine, una rediviva
età dell'oro, l'attuazione del divino sulla terra, il regno
di Dio, invocato nel "paternostro", quel mondo della pace e della
giustizia appresso al quale sospirava Dante e molti nobili
intelletti Bruno rimane nelle generalità metafisiche.
Campanella abbraccia l'universo nelle sue più varie
apparizioni, e ti delinea tutto quel mondo ideale, di cui spera
l'effettuazione.
Nel suo sistema trovi complicati e combinati
senza intima fusione tutti gl'indirizzi percorsi dalla moderna
filosofia. Il punto di partenza è la coscienza di
sè, "io, che penso, sono", divenuto la base del sistema
cartesiano. Questa è la sola cognizione innata, occulta:
tutto il resto è cognizione acquisita per mezzo de' sensi.
Qui si sviluppa il sensismo di Telesio non solo come metodo, ma
come contenuto. Tutte le cose sono animate; il mondo stesso
è "animal grande e perfetto". In ciascuna cosa è la
divina Trinità, i tre princìpi o "primalità",
com'egli dice, potenza, sapienza e amore. Ciascuna cosa che
è, può essere: ama il suo essere, e lo ama
perchè lo conosce, ne ha una certa notizia. Perciò
tutte le cose hanno senso. Lo spirito stesso è carne.
L'animale pensa come l'uomo; ha fino la facoltà
dell'universale. Ci si vede in germe Locke e tutto il sensismo
moderno. Ma ci è una facoltà propria dell'uomo, e
negata all'animale, il sentimento religioso. Perciò, quando
il corpo è formato, vi entra l'anima, che esce "fanciulla
dalle mani di Dio", come dice Dante. L'anima è la
facoltà del divino, o, come si direbbe oggi, dell'assoluto.
Ella ti dà la contemplazione di Dio. Non è ragione o
dialettica questa facoltà dell'assoluto, e nemmeno discorso
o processo intellettivo (ciò che entra nella mente o
visione di Bruno) ma è intuito, estasi, fede, un ponte
fatto alla rivelazione e alla teologia, uno studio di
conciliazione tra il medio evo e il mondo moderno. Qui vedi
spuntare la moderna filosofia dell'assoluto nel suo doppio
indirizzo, razionalista e neocattolico. Tutte le idee e tutti
gl'indirizzi, che anche oggi agitano le coscienze, fermentano nel
suo cervello.
Come Bruno, Campanella non ha il senso del
reale e del naturale; e neppure ha il senso psicologico,
ancorchè parli spesso di coscienza e di esperienza, e le
faccia basi del suo filosofare. Aveva al contrario quella seconda
vista propria degli uomini superiori, facoltà da lui non
scrutata, non compresa e non disciplinata, ch'egli confonde con
l'estasi e col puro intuito, e che lo gitta in braccio alla
teologia, al soprannaturale e alle scienze occulte. Cerca una
conciliazione tra' due uomini che pugnavano in lui, l'uomo di
Telesio e l'uomo di san Tommaso, e vi logora le sue forze, senza
riuscire ad altro che a mettere in maggior lume la contraddizione.
Perciò il suo metodo rimane scolastico, cumulo di argomenti
astratti, e la sua filosofia partendo da Telesio riesce a san
Tommaso. Attendendo da Galileo la costruzione del mondo,
provvisoriamente crede all'astrologia e alla magia, e oggi gli
spiritisti e i magnetisti lo chiamano loro precursore.
Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo
è atto della volontà di Dio: atto conforme al
disegno o all'idea del mondo preordinato nella sua mente,
perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo,
e per esso il papa che lo rappresenta in terra, e il cui braccio
è l'imperatore. Qui siamo con san Tommaso nel più
puro medio evo, ancora più indietro di Dante e di
Machiavelli, perchè l'elemento laico è sottoposto
all'ecclesiastico. E si concepisce come il nostro filosofo se la
prenda fra tutti col Machiavelli, uomo "senz'alcuna specie di
scienza e di filosofia, semplice storico o empirico", che voleva
fare della religione uno strumento dello Stato. Ma Campanella non
si accorge ch'egli è più Machiavelli del
Machiavelli, perchè nessuno ha spinto così avanti
l'annichilamento dell'individuo e l'onnipotenza dello Stato nella
sua doppia forma, ecclesiastica e laica. In quel tempo che la
monarchia assoluta si sviluppava nella Spagna e nella Francia col
favore e l'appoggio del papato, egli era la voce dell'assolutismo
europeo, e ci mettea una sola condizione: che quell'assolutismo
fosse il potere esecutivo del papa, il braccio del papato. Hai il
vecchio quadro del medio evo, con tinte ancora più decise.
Egli dice a Filippo: - I re sieno tuoi sudditi, e la terra sia
tua, a patto che tu sii veramente "il cattolico", primo suddito
della Chiesa. - Questa è la carta di alleanza fra il trono
e l'altare. L'Italia ha perduto l'imperio del mondo, nè ci
si può più pensare, perchè il passato non
torna più; ma l'Italia si consolerà, perchè
ha nel suo seno il papato, e per esso dominerà ancora il
mondo. Che cosa è l'individuo in questo sistema? Nulla.
Egli ha doveri, non ha dritti. Non ha il dritto di scegliersi la
sua donna, di crearsi la sua proprietà, di educare ed
istruire la sua prole, di mangiare, di dormire, di vivere a suo
gusto, di esaminare, discutere, accettare o rigettare: non
può dire: - Questo è mio -; e non può dire: -
No. - Il dritto è nella società, e per essa nel papa
e nell'imperatore. Hai per risultato il comunismo, l'assolutismo
della società e l'ubbidienza passiva dell'individuo. Il
comunismo è in fondo a tutte queste teorie di monarchia
universale e assoluta, di dritto divino, e Campanella va sino in
fondo. Il che sempre avviene quando l'unità è posta
fuori dell'umanità in una volontà a lei estrinseca,
e quando l'unità rimane astratta, e tiene non in sè,
ma dirimpetto a sè il vario e il molteplice. In questa
unità va a naufragare ogni particolare, l'individuo, la
famiglia, la nazione. Or questa è la filosofia sua, questa
è la sua "città del sole", la sua rediviva
età dell'oro. Il quadro è vecchio, ma lo spirito
è nuovo. Perchè Campanella è un riformatore,
vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non
solo di nome ma di fatto, perchè la ragione governa il
mondo. Dio è il Senno eterno; il sovrano dee essere anche
lui il sapientissimo di tutti. Non è re chi regge, ma chi
più sa. Il vero sovrano è la scienza. E l'obbiettivo
della scienza è il progresso e il miglioramento dell'uomo.
Si maraviglia come si studi a migliorare la razza cavallina o
bovina, e si lasci al caso e al capriccio individuale la razza
umana. Egli ha fede nel miglioramento non solo morale, ma fisico
dell'uomo, per mezzo della scienza, applicata da un governo
intelligente e paterno. E suggerisce provvedimenti sociali,
politici, etici, economici, che sono un primo schizzo di scienza
sociale nelle sue varie diramazioni ancora confuse, guidato da una
rettitudine e buon senso naturale, con uno sguardo delle cose non
nella loro degenerazione, "come fecero Aristotile e Machiavelli",
ma nella loro origine e purezza natia, "come fecero Platone e gli
stoici". E balzan fuori idee, utopie, ipotesi, speranze, aforismi,
che sono in parte veri presentimenti e divinazioni del mondo
nuovo.
Con tante novità in capo, la
società in mezzo a cui si trovava non gli dovea parere una
bella cosa. Accetta le istituzioni, ma a patto che le si
trasformino e diventino istrumento di rigenerazione. Vuole un
papato ed un monarcato progressista; ed è chiaro che a
Filippo di Spagna poco garbasse trar di prigione un così
pericoloso alleato, un nuovo marchese di Posa.
Accanto alla sua ricostruzione ci è
dunque un elemento negativo, una critica della società,
com'era costituita. Il suo punto di mira sono sofisti, ipocriti e
tiranni, come contraffattori e falsificatori delle tre
primalità, sapienza, amore e potenza, "di tre dive eminenze
falsatori":
Io nacqui a debellar tre mali estremi,
tirannide, sofismi, ipocrisia...
che nel cieco amor proprio, figlio degno
d'ignoranza, radice e fomento hanno:
dunque a diveller l'ignoranza io vegno.
Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla storia del
mondo, foggiata dall'amor proprio:
Credulo il proprio amor fe' l'uom pensare
non aver gli elementi nè le stelle
(benchè fusser di noi più forti e
belle)
senso ed amor, ma sol per noi girare:
poi tutte genti barbare ed ignare,
fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle:
poi il restringemmo a que' di nostre celle;
sè solo alfine ognun venne ad amare,
e per non travagliarsi il saper schiva;
poi visto il mondo a' suoi voti diverso,
nega la provvidenza, o che Dio viva.
Qui stima senno le astuzie: e perverso,
per dominar fa nuovi dèi, poi arriva
a predicarsi autor dell'universo.
Se tutt'i mali sono frutto dell'ignoranza, si comprende il suo
entusiasmo per la scienza e per la sua missione. Il savio è
invitto, perchè vince, anche se tu l'uccidi:
S'e' vive, perdi, e s'ei muore, esce un lampo
di deità dal corpo per te scisso,
che le tenebre tue non han più scampo.
I guai più spandono suo nome e gloria, e ucciso è
adorato per santo; nè è sventura eh'ei sia nato di
vil progenie e patria, perchè illustra egli le sue sorti.
Più è calpesto, e più s'innalza:
E il fuoco più soffiato, più
s'accende:
poi vola in alto e di stelle s'infiora.
La sua vita è antica quanto il mondo:
Ben seimila anni in tutto 'l mondo io vissi:
fede ne fan le istorie delle genti,
ch'io manifesto agli uomini presenti
co' libri filosofici ch'io scrissi.
Il mondo è un teatro, dove le anime mascherate de' corpi
di scena in scena van, di coro in coro,
si veston di letizia e di martoro,
dal comico fatal libro ordinate.
In questa commedia universale l'uomo spesso segue più il
caso che la ragione:
chè gli empi spesso fur canonizzati,
gli santi uccisi, ed i peggior tra noi
principi finti contro i veri armati.
Principi veri sono i savi:
Neron fu re per sorte in apparenza,
Socrate per natura in veritate...
Non nasce l'uom con la corona in testa,
come il re delle bestie...
E se non fossero i savi, che sarebbe il mondo?
Se a' lupi i savi, che 'l mondo riprende,
fosser d'accordo, e' tutto bestia fòra.
La vera nobiltà nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:
In noi dal senno e dal valor riceve
esser la nobiltade, e frutta e cresce
col bene oprare...
Il savio è re, è nobile; il savio è libero.
La plebe è serva per la sua ignoranza:
Il popolo è una bestia varia e grossa
che ignora le sue forze...
Tutto è suo, quanto sta fra cielo e
terra:
ma nol conosce; e se qualche persona
di ciò l'avvisa, e' l'uccide ed atterra.
Quest'apoteosi della scienza è congiunta con un vivo
sentimento del divino, anzi la scienza non è che il divino,
il senno eterno, che comunica alla natura i suoi attributi o
primalità, la potenza, la sapienza e la bontà, della
quale segno esteriore è la bellezza. Tale era la natura
nell'età dell'oro, e tale ritornerà:
Se fu nel mondo l'aurea età felice,
ben essere potrà più ch'una
volta;
chè si ravviva ogni cosa sepolta,
tornando il giro ov'ebbe la radice...
Se in fatti di mio e tuo sia il mondo privo
nell'util, nel giocondo e nell'onesto,
cangiarsi in paradiso il veggo e scrivo;
e 'l cieco amore in occhiuto e modesto,
l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e 'n fratellanza l'imperio funesto.
Base dell'età dell'oro è la fratellanza e
uguaglianza umana, l'amor comune sostituito all'amor proprio:
... chi all'amor del comun Padre ascende,
tutti gli uomini stima per fratelli,
e con Dio di lor beni gioia prende.
Buon Francesco, che i pesci anche e gli uccelli
"frati appelli"; oh beato chi ciò
intende!
È ciò che direbbesi oggi "democrazia cristiana", un
ritorno alla Chiesa primitiva di Lino e di Callisto, a' puri tempi
evangelici, vagheggiati da Dante e da Campanella, quando si
mangiava in carità, e non ci era ricco nè povero,
non mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose nella loro origine e non
nella loro degenerazione, il sogno di Campanella è che il
mondo "nel suo giro torni là ov'ebbe radice". Il progresso
è la ristaurazione del buon tempo antico. Bruno spregia
l'età dell'oro, stato d'innocenza, alla quale contrappone
la virtù. Innocenza è ignoranza, virtù
è sapienza. Ed è sapienza non infusa e comunicata
dal di fuori, ma prodotto della libera attività
individuale. In questo sistema la libertà è
sostanziale; l'ideale è il progresso per mezzo della
libertà. In questi due grandi italiani spuntano già
le due vie dello spirito moderno, vedi il razionalista e il
neocattolico. L'uno volge le spalle al passato, l'altro cerca di
trasformarlo e farsene leva per il progresso
Attendendo l'età dell'oro, Campanella
vede il mondo nella sua degenerazione, grazie a' tiranni, a'
sofisti e agl'ipocriti. Tra' sofisti pone i poeti, seminatori di
menzogne:
In superbia il valor, la santitate
passò in ipocrisia, le gentilezze
in cerimonie, e 'l senno in sottigliezze,
l'amor in zelo, e 'n liscio la beltate,
mercè vostra, poeti, che cantate
finti eroi, infami ardor, bugie e sciocchezze,
non le virtù, gli arcani e le grandezze
di Dio, come facea la prisca etate.
Altrove li rampogna che, in luogo di cantare Colombo e gli alti
fatti moderni, stieno impaludati nelle favole antiche. Nè
gli è caro che sciupino l'ingegno in argomenti futili.
Bellezza è segno del bene: bella ogni cosa è dove
serve e quando, e brutta dov'è inutile, o mal serve, e
più s'annoia:
Il bianco, che del nero è ognor
più bello,
più brutto è nel capello...
pur bello appar, se prudenza rassembra.
Belle in Socrate son le strane membra,
note d'ingegno nuovo; ma in Aglauro
sarian laide: e negli occhi il color giallo,
di morbo indicio, e brutto, è bel
nell'auro,
ch'ivi dinota finezza, e non fallo.
Ci s'intravvede la nuova critica, che richiama gli spiriti dalle
forme alle sostanze, dalle parole alle cose, dal di fuori al di
dentro. Di che esempio è lui stesso, che scrive cose nuove
e alte nel più assoluto disprezzo della forma. La sua
poesia nervosa, rilevata, succosa, e insieme rozza e aspra,
è l'antitesi di quella letteratura vuota, sofistica, e
leziosa, venuta su col Marino.
Campanella scrisse infiniti volumi, e de
omnibus rebus. Nessuna parte dello scibile gli è ignota,
scienze occulte e naturali, teologia, metafisica, astronomia,
fisica, fisiologia. È un primo schizzo di enciclopedia, un
primo albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo, vede o
intravede cose nuove. Notabile è soprattutto l'interesse
che prende per l'educazione e il benessere del popolo. La scienza
fino allora è stata aristocratica, religiosa e politica,
rimasta nelle alte cime, più intenta al meccanismo sociale
che al miglioramento dell'uomo. In lui si vede accentuata questa
tendenza, che i mutamenti politici sono vani, se non hanno per
base l'istruzione e la felicità delle classi più
numerose. A questo scopo si riferiscono i suoi più bei
concetti: la riforma delle imposte, sì che non gravassero
principalmente sugli artigiani e i villani, toccando appena i
cittadini o borghesi, e niente i nobili; l'imposta sul lusso e su'
piaceri; i ricoveri per gli invalidi; gli asili per le figliuole
de' soldati; i prestiti gratuiti a' poveri sopra pegni, le banche
popolari, gli impieghi accessibili a tutti, un codice uniforme,
l'uniformità delle monete, l'incoraggiamento delle
industrie nazionali, "più proficue che le miniere".
Lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche,
malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo
studio del reale per migliorare le condizioni sociali, questa
è l'ultima parola di Campanella. La prima opera del
filosofo, egli dice, è comporre la storia de' fatti. Ci
è già la nuova società che si andava formando
sulle rovine del regime feudale. Ci è tutto un rinnovamento
sociale, accompagnato, quanto a' suoi procedimenti, da questo
motto profondo: che i moti umani durevoli "son fatti prima dalla
lingua e poi dalla spada"; o, in altri termini, che la forza non
può fondare niente di durevole, quando non sia preceduta e
accompagnata dal pensiero.
Ugual soffio spirava da Venezia. Centro
già di lettere e di coltura con Pietro Bembo, ora diveniva
il centro italiano del libero pensiero. Celebre era la scuola
materialista di Padova. La stessa indipendenza si sviluppava in
materia politica. Di là all'Italia serva giungevano i
liberi accenti di Paolo Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano
scritti politici sotto i nomi di Tesoro politico, Principe
regnante, Segretario, Chiave del gabinetto, Ambasciatore, Ragion
di Stato, guazzabuglio di luoghi comuni e di erudizione indigesta.
I fatti più tristi vi sono giustificati, la notte di san
Bartolomeo e le stragi del duca d'Alba. Il che non toglie che
tutti non se la prendano col Machiavelli, accusandolo e insieme
rubandogli i concetti. Fra gli altri è degno di nota il
Botero nella sua Ragion di Stato, dove combatte il Machiavelli, e
segue i suoi precetti, applicandoli contro i novatori e gli
eretici. Quel libro è il codice de' conservatori. A lui
sembra che tutto sta benissimo come sta, e che non rimane che a
prender guardia contro le novità: "bonum est sic esse".
Nacque nel 1540, lo stesso anno che nasceva Paolo Paruta, il
più vicino di spirito e di senno a Nicolò
Machiavelli. Mentre l'Italia sonnacchiava tra l'assolutismo papale
e spagnuolo, e si fondavano in Europa le monarchie assolute, lo
storico veneto scriveva che "tolta la libertà, ogni altro
bene è per nulla, anzi la stessa virtù si rimane
oziosa e di poco pregio"; che il vero monarca è la legge; e
che "chi commette il governo della città alla legge, lo
raccomanda ad un Dio; chi lo dà in mano all'uomo, lo lascia
in potere di una fiera bestia". "Nascere e vivere in città
libera", è per lui l'ideale della felicità. Ne' suoi
Discorsi politici trovi il successore di Machiavelli e il
precursore di Montesquieu, il senso pratico veneziano e l'acume
fiorentino. Il sentimento politico era in lui contrastato dal
sentimento religioso. Il dispotismo papale e spagnuolo, base della
restaurazione cattolica, parevagli minaccioso alla libertà
veneziana, e non guardava senza speranza nel moto germanico, dove
gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era
più profonda nella sua intelligenza, dove ragione e fede
contendevano senza possibilità di conciliazione. Nel suo
Soliloquio s'intravedono quegli strazi interiori, che
amareggiarono ancora i primi anni del Tasso. La qual
contraddizione non risoluta lo tiene in una certa mezzanità
di spirito, e gli toglie quella fisonomia di originalità e
di sicurezza, propria degli uomini nuovi. Non altre erano le
condizioni morali dello spirito veneto in quel tempo di
transizione. Erano buoni cattolici, ma gelosi della loro
libertà, avversi alla Curia e soprattutto a' gesuiti,
già temuti per la loro abile ingerenza nelle faccende
politiche, nè erano disposti a tener vangelo tutte le
massime della Chiesa, specialmente in fatto di disciplina. Con
queste disposizioni gli animi doveano essere accessibili alle
dottrine della Riforma, nè senza speranza i luterani aveano
scelto Venezia come loro base di operazione per la diffusione
dello scisma in Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in
favore e contro; nè le dispute religiose poterono esser
frenate dall'Inquisizione, che in città così
difficile procedea mite e rispettiva. Alle contensioni religiose
si mescolavano contenzioni di giurisdizione tra il governo e il
papa, per le quali non dubitò Paolo V di fulminare
l'interdetto su tutta la città, che sortì un effetto
contrario al suo intento, rese ancora più viva e più
tenace la lotta.
Il personaggio, intorno a cui si raccoglie
tutto questo movimento, è Paolo Sarpi, l'amico di Galileo e
di Giambattista Porta, e della stessa scuola. Teologo, filosofo e
canonista sommo, non era meno versato nelle discipline naturali,
fisica, astronomia, architettura, geometria, algebra, meccanica,
anatomia; a lui si attribuisce la scoperta della circolazione del
sangue. Mescolato nella vita attiva, non specula, come Bruno e
Campanella, e non inventa, come il Galileo, ma scende nella lotta
tutto armato, e mette le sue cognizioni in servigio del suo
patriottismo. Sceglie le sue armi con la sagacia dell'uomo
politico, anzi che con la passione del filosofo e del riformatore;
perchè il suo scopo non è puramente filosofico o
scientifico, ma è pratico, indirizzato a raggiungere certi
effetti. Mira a interessare nella lotta i principi, come facevano
i protestanti, sostenendo la loro indipendenza verso il potere
ecclesiastico. Continuando Dante e Machiavelli, nega al papa ogni
potestà su' principi, e vuole al contrario ricondurre i
chierici sotto il dritto comune, non altrimenti che semplici
cittadini. Emancipare lo Stato, secolarizzarlo, assicurargli la
sua libertà dirimpetto alla corte di Roma, questo era un
terreno comune, dove spesso s'incontravano principi e riformatori.
Paolo Sarpi ebbe il buon senso di mantenervisi, con una chiarezza
e fermezza di scopo assai rara in scrittore italiano. D'ingegno
sveltissimo e di amplissima coltura, non lascia tralucere delle
sue idee se non quello solo che può avere un effetto
pratico a quel tempo e in quella società, usando una
moderazione di concetti e di forme più terribile che non
l'aperta violenza. Taglia nel vivo con un'aria d'ingenuità
e di semplicità, come chi ti faccia una carezza. Cinque
volte si tentò di ammazzarlo; e all'ultima, colpito dal
ferro assassino, esclamò: - Conosco lo stile della romana
curia. -
La sua Storia del Concilio di Trento è
il lavoro più serio che siasi allora fatto in Italia. Quel
concilio era la base della restaurazione cattolica, o piuttosto
reazione, e delle pretese della corte romana. Vi fu consacrato il
potere assoluto del papa e la sua supremazia sul potere laicale.
Ivi aveano radice i diritti giurisdizionali, che curia e gesuiti
cercavano di far valere negli Stati, concitando contro di
sè non solo i protestanti, ma i principi cattolici. Era il
medio evo rammodernato nella superficie, di apparenze più
corrette e meno rozze. Scrivere la storia di quel concilio, e
dimostrare la sua mondanità, cioè a dire i fini, le
passioni e gl'interessi mondani, che resero possibili quei
decreti, e prevalenti le opinioni estreme e violente, era un
attaccare il male nella sua base. A questa impresa si accinse il
Sarpi. E se la passione politica fosse in lui soprabbondata,
tirandolo a violenza d'idee e di espressioni, e a volontarie
alterazioni e mutilazioni di fatti, il suo scopo sarebbe mancato.
La sua forza è nella sua moderazione e nella sua
sincerità. Nè questo egli fa solo per sagacia di
uomo politico, ma per naturale probità e per serietà
di storico e letterato. La storia nelle sue mani non è solo
un istrumento politico: è un sacro ufficio, che egli non sa
prostituire alle passioni contemporanee, e al quale si prepara con
ogni maniera di studi e d'investigazioni. E qui è
l'interesse di questo libro. Ha voluto scrivere una storia
imparziale con sincerità e gravità di storico, e
riesce parzialissimo, perchè l'uomo con le sue passioni,
con le sue simpatie e antipatie, co' suoi fini politici, con le
sue opinioni traspare da ogni parte e si fa valere. La
parzialità non è volontaria, e non è nella
materialità de' fatti, ma è nello spirito nuovo che
vi penetra, non solo nella sua generalità dottrinale, ma
nelle sue più concrete determinazioni politiche ed etiche.
Non ci è autorità che tenga; Sarpi studia tutto,
sente tutti; ma decide lui. L'autorità legittima è
nella sua ragione. Il suo ideale è la Chiesa primitiva e
evangelica, sgombra di ogni temporalità, e non di altro
sollecita che d'interessi spirituali. Condanna soprattutto la
gerarchia, "nata di ambizione papale e d'ignoranza de' principi".
Nè per questo fra Paolo si crede men cattolico del papa,
anzi è lui che vuole una vera restaurazione cattolica,
riconducendo la religione nella prisca sincerità e
bontà, e rendendo possibile quella conciliazione fra tutte
le confessioni, che dovea essere procurata, e fu impedita dal
Concilio. Perciò chiama il Concilio l'"Iliade del secolo"
per i mali effetti che ne uscirono, e la sua opera giudica non una
riforma, ma una "difformazione". Qual era la riforma da lui
desiderata, traspare da' concetti che attribuisce a quel buon papa
di Adriano sesto, "uomo germano, e pertanto sincero, che non
trattava con arti e per fini occulti", il quale confessava il male
esser nato dagli abusi e dalle usurpazioni della monarchia romana,
e prometteva piena riforma, "quando anche avesse dovuto ridursi
senza alcun dominio temporale, e anco alla vita apostolica".
Grande è in questo libro l'armonia tra
il contenuto e la forma. Il concetto fondamentale del contenuto
è questo, che come la verità è nella sostanza
delle cose, non nei loro accidenti e apparenze, così la
religione ha la sua essenza nella bontà delle opere, e non
nella osservanza delle forme o nelle concessioni e grazie
pontificie, e parimente non è la diligente narrazione de'
peccati, ma il proposito di mutar vita, che assicura efficacia
alla confessione. Questo è lo stesso concetto dello spirito
nuovo, che, già adulto, dalla moltiplicità delle
forme e degli accidenti saliva all'unità e alla sostanza
delle cose. È lo spirito che animava Machiavelli, Bruno,
Campanella e Galileo e Sarpi, e che in questa Storia penetra anche
nella forma letteraria. Perchè qui la forma non è
niente per sè, e non è altro che la cosa stessa,
liberata da ogni elemento fantastico e rettorico, è il
positivo e il reale, proprio l'opposto della letteratura in voga.
Il Pallavicino, che per commissione della Curia scrisse una storia
del Concilio in confutazione di questa, dice: "Il fuoco delle
ribellioni non si smorza se non o col gielo del terrore o con la
pioggia del sangue". Dice cosa gravissima con lo spirito distratto
dalla forma, cercando metafore. Qui la forma non è
espressione, ma ostacolo; nè da questi lisci può
venire la grave impressione che pur dee fare sullo spirito un
pensiero così feroce, base dell'Inquisizione. Sarpi fa dire
il medesimo a papa Adriano; nella forma vi penetra una energia e
una precisione di colorito, che ti rende la cosa nella sua
crudeltà e insieme nella sua ragionevolezza. Ci è la
cosa come sentimento e come idea.
"Se non potranno con le dolcezze - dice Adriano
a' principi tedeschi - ridur Martino e i suoi seguaci nella dritta
via, vengano a' rimedi aspri e di fuoco, per risecare dal corpo i
membri morti."
Si vede nel Pallavicino la vanità della forma nella
indifferenza del contenuto; si vede nel Sarpi l'importanza del
contenuto nella indifferenza della forma, una forma che è
il contenuto stesso nel suo significato e nella sua impressione.
Trovi in lui una elevatezza d'ingegno, che gli fa spregiare i
lenocini e gli artifizi letterari, una viva preoccupazione delle
cose, una chiarezza intellettiva accompagnata con un vigore
straordinario d'analisi, e quel senso della misura e del reale che
lo tien sempre nel vivo e nel vero. Aggiungi l'assoluta padronanza
della materia, la conoscenza de' più intimi secreti del
cuore umano, la chiara intuizione del suo secolo e della
società in mezzo a cui viveva ne' suoi umori, nelle sue
tendenze e ne' suoi interessi, e si può comprendere come
sia venuta fuori una prosa così seria e così
positiva. L'attenzione volta al di dentro, e non curante della
superficie, ti forma un'ossatura solida, una viva logica,
maravigliosa per precisione e rilievo, ma scabra e ruvida.
Manca a questa prosa quell'ultima finitezza, che viene dalla
grazia, dalla eleganza, dalle qualità musicali. È il
difetto della sua qualità più spiccato in lui, non
toscano e con l'orecchio educato più alla gravità
latina che alla sveltezza del dialetto natio.
Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, Sarpi
non erano esseri solitari. Erano il risultato de' tempi nuovi, gli
astri maggiori, intorno a cui si movevano schiere di uomini
liberi, animati dallo stesso spirito. Cosa volevano? Cercare
l'essere dietro il parere, come dicea Machiavelli; cercare lo
spirito attraverso alle forme, come dicea la Riforma; cercare il
reale e il positivo, e non ne' libri, ma nello studio diretto
delle cose, come dicea Galileo; o, come diceano Bruno e
Campanella, cercare l'uno attraverso il molteplice, cercare il
divino nella natura. Sono formole diverse di uno stesso concetto.
Riformati e filosofi nelle loro tendenze s'incontravano su di un
terreno comune. Camminavano con disugual passo; molti erano
innanzi troppo; altri restavano a mezza via; ma per tutti la via
era quella. Volevano squarciar le forme addensate dalla
superstizione e dalla fantasia e fatte venerabili, e guardare le
cose svelate nella loro sostanza o realtà, guardarle col
proprio sguardo, col lume naturale. La lotta contro Aristotile e
gli scolastici, contro le forme e le dottrine ecclesiastiche,
contro le "intrusioni umane" nella Chiesa, contro i simboli, le
fantasie, i dogmi, il soprannaturale, era il lato negativo di
questo movimento. Lato positivo era il reale, come metodo e come
contenuto: l'uomo e la natura studiati direttamente
dall'intelletto, prendendo per base l'esperienza e l'osservazione.
Paolo Sarpi trasportava la lotta dalle generalità
filosofiche in mezzo agl'interessi, dove potea aver favorevoli i
principi e i popoli: perciò fu più temuto, ed ebbe
più influenza.
Se la ristaurazione cattolica fosse stata vera
e ragionevole restaurazione, cioè a dire conciliazione,
come volea il Sarpi, e come fantasticava il Campanella, si sarebbe
assimilato il nuovo in ciò che era pratico e compatibile.
Ma la storia non si fa co' "se", nè col senno di poi. Il
movimento era ancora nella sua forma istintiva, nel suo stato
violento e contraddittorio. D'altra parte la Chiesa più che
da sentimenti e convinzioni religiose era mossa da interessi
mondani e da passioni politiche. Perciò la restaurazione si
chiarì un'aperta reazione. Nessuno di queste condizioni
morbose ha avuto una intelligenza più chiara che Paolo
Sarpi. Ecco alcuni brani delle sue pitture:
"Le pene canoniche erano andate in disuso,
perchè, mancato il fervore antico, non si potevano
più sopportare... Il presente secolo non era simile a'
passati, ne' quali tutte le deliberazioni della Chiesa erano
ricevute senza pensarci più oltre, là dove nel
presente ognuno vuol farsi giudice ed esaminar le ragioni... Il
rimedio è appropriato al male, ma supera le forze del corpo
infermo, ed in luogo di guarirlo sarebbe per condurlo a morte e
pensando di riacquistar la Germania, farebbe perdere l'Italia, ed
alienare quella maggiormente."
Così parlava il cardinale Pucci, per dissuadere Adriano
sesto, che voleva a forza di pene canoniche sradicare le idee
nuove, e ricondurre
"l'aureo secolo della Chiesa
primitiva, nel quale i prelati avevano assoluto governo sopra i
fedeli, non per altro se non perchè erano tenuti in
continuo esercizio colle penitenze; dove ne' tempi che corrono,
fatti oziosi, vogliono scuotersi dall'ubbidienza".
Del qual parere era anche il
cardinale fra Tommaso da Gaeta, a cui il Sarpi fa dire:
"Il popolo germanico, che sepolto nell'ozio
presta orecchio a Martino che predica la libertà cristiana,
se fosse con penitenze tenuto in freno, non penserebbe a questa
novità."
Oltre a questo rimedio delle penitenze, il buono Adriano voleva
una seria riforma, quando anche dovesse lasciare il potere
temporale. Ma contro gli ragiona il cardinale Soderino in questo
modo:
"Non esservi speranza di confondere ed
estirpare i luterani colla correzione de' costumi della Corte;
anzi questo essere un mezzo di aumentare a loro molto più
il credito. Imperocchè la plebe, che sempre giudica dagli
eventi, quando per l'emenda seguita resterà certificata che
con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche parte, si
persuaderà facilmente che anco le altre novità
proposte abbiano buoni fondamenti... In tutte le cose umane
avviene che il ricevere soddisfazione in alcune richieste
dà pretensione di procacciarne altre e di stimare che sieno
dovute. Nissuna cosa far perire un governo maggiormente che il
mutare i modi di reggerlo; l'aprire vie nuove e non usate essere
un esporsi a gravi pericoli, e sicurissima cosa essere camminare
per li vestigi de' santi pontefici. Nissuno avere mai estinto
l'eresie con le riforme, ma con le crociate e con eccitare i
prencipi e popoli all'estirpazione di quelle."
Quel bravo cardinale ammette che ci è del cattivo; ma non
bisogna toccarvi, per non dar ragione agli avversari. E all'ultimo
riserba il più prezioso, la ragione più efficace:
"Nissuna riforma potersi fare, la quale non
diminuisca notabilmente l'entrate ecclesiastiche; le quali avendo
quattro fonti, uno temporale, le rendite dello Stato
ecclesiastico, gli altri spirituali, le indulgenze, le dispense e
la collazione de' beneficii, non si può otturare alcuno di
questi che le entrate non restino troncate in un quarto."
Adriano conchiuse che farebbe le riforme passo a passo: il qual
sistema moderato non piacque a' tedeschi, i quali rispondevano
motteggiando che da un passo all'altro sarebbe corso un secolo. Si
può immaginare quale impressione dovessero fare su'
contemporanei queste rivelazioni di Paolo Sarpi, che metteva in
tanta evidenza i motivi mondani e politici della ristaurazione
cattolica.
La quale, essendo aperta reazione, fondavasi
sopra idee e tendenze affatto opposte alle altre. Questi
proclamavano l'indipendenza e la forza della ragione, quelli la
sua incompetenza e la sua debolezza. Questi celebravano la coltura
e la scienza, quelli stavano con la pura fede, co' poveri di
spirito e con i semplici di cuore. Gli uni si fondavano
sull'esperienza e sull'osservazione; gli altri sulla rivelazione e
sull'autorità di Aristotile, degli scolastici, de' santi
Padri e de' dottori. Gli uni facevano centro de' loro studi la
natura e l'uomo; gli altri sottilizzavano sugli attributi di Dio,
sulla predestinazione e sulla grazia. Gli uni volevano togliere
alla Chiesa ogni temporalità, e semplicizzare le forme ed
il culto; gli altri volevano mantenere inviolate tutte le forme,
anche le assurde e le grottesche, e non che rinunziare al
temporale, ma volevano dilatare la loro ingerenza e il loro
dominio, prendendo a base il potere assoluto del papa e la sua
supremazia anche nelle cose temporali. Fin d'allora valse il
motto: "Aut sint ut sunt, aut non sint"; o vivere così, o
morire.
Questa reazione così cieca sarebbe
durata poco, se non fosse stata sorretta dalla tenace
abilità de' gesuiti, la milizia del papa. I quali, doma
l'aperta ribellione co' terrori dell'Inquisizione, vollero
guadagnare alla restaurazione anche le volontà e le
coscienze, mostrando in questo assunto una conoscenza degli uomini
e del secolo e un'arte di governo, che li resero degni
continuatori della politica medicea. Persuasi che governa il mondo
chi più sa, coltivarono gli studi e si sforzarono di
mantenere il primato del clero nella coltura. Non potendo
estirpare in tutto il nuovo, accettarono la superficie, e
vestirono la società a nuovo per meglio conservare il
vecchio. Presero dunque aria di uomini colti e liberali, scossero
da sè la polvere scolastica, e per meglio vincere il
laicato presero ne' modi e ne' tratti apparenze più laicali
che fratesche, confidandosi di abbatterlo con le sue armi.
Divenuti amici e protettori de' letterati e fautori della coltura,
apersero scuole e convitti, e presero nelle loro mani l'istruzione
e l'educazione pubblica. Non mancarono i teatrini, le commedie, le
accademie, altre imitazioni degli usi laicali. La superficie era
la stessa, lo spirito era diverso. Perchè, dove gli uomini
nuovi miravano a tirare l'attenzione dal di fuori al di dentro,
dagli accidenti e dagli accessorii al sostanziale, dalle forme
allo spirito, essi miravano a coltivare la memoria, ad allettare i
sensi e l'immaginazione più che l'intelletto, a trattenere
l'attenzione sulla superficie, sì che l'intelligenza fra
tante cognizioni empiriche rimaneva passiva e vuota: onde usciva
una coltura mezzana e superficiale, più simile ad
erudizione che a scienza. Al che si accomodava facilmente la
tempra fiacca de' più, contenti di quello spolvero, che
dava loro un'aria di nuovo, l'aria del secolo e così a buon
mercato. I gesuiti vennero in moda, sfogandosi i mali umori del
secolo sopra gli altri ordini religiosi, come restii ad ogni
novità. Il loro successo fu grande, perchè in luogo
di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono la scienza agli
uomini, lasciando le plebi nell'ignoranza e le altre classi in
quella mezza istruzione, che è peggiore dell'ignoranza.
Parimente, non potendo alzare gli uomini alla purità del
Vangelo, abbassarono il Vangelo alla fiacchezza degli uomini, e
costruirono una morale a uso del secolo, piena di scappatoie, di
casi, di distinzioni, un compromesso tra la coscienza e il vizio,
o, come si disse, una doppia coscienza. E nacque la dottrina del
"probabilismo", secondo la quale un "doctor gravis" rende
probabile un'opinione, e l'opinione probabile basta alla
giustificazione di qualsiasi azione, nè può un
confessore ricusarsi di assolvere chi abbia operato secondo
un'opinione probabile. Un giudice, dice un dottore, può
decidere la causa a favore dell'amico, seguendo un'opinione
probabile, ancorchè contraria alla sua coscienza. Un
medico, dice un altro dottore, può con lo stesso criterio
dare una medicina, ancorchè egli opini che farà
danno. Richiedono sola cautela che non ci sia scandalo, e non
già perchè la cosa sia in sè cattiva, ma per
il pregiudizio che ne può venire.
Questa morale rilassata era favorita da
un'altra teoria, "directio intentionis", formulata a questo modo,
che un'azione cattiva sia lecita quando il fine sia lecito.
È la massima che il fine giustifica i mezzi, applicata non
solo alle azioni politiche, ma alla vita privata. Non è
peccato annegare in un fiume un fanciullo eretico, per
battezzarlo. Uccidi il corpo, ma salvi l'anima. Non è
peccato uccidere la donna, che ti ha venduto l'onore, quando puoi
temere che svelando il fatto noccia alla tua riputazione.
E all'ultimo viene la dottrina "reservatio et
restrictio mentalis". Il giuramento non ti lega, se tu usi parole
a doppio senso, rimanendo a te l'interpretazione, o se aggiungi a
bassa voce qualche parola che ne muti il senso. Non è
bugia, dice un dottore, usare parole doppie che tu prendi in un
senso, ancorchè gli altri le prendano in un senso opposto.
E non è bugia dire una cosa falsa, quando nel tuo pensiero
intendi altro. Hai ammazzato il padre; pure puoi dire francamente:
- Non l'ho ammazzato -, quando dentro di te pensi a un altro che
realmente non hai ammazzato, o ci aggiungi qualche riserva
mentale, come: - Prima ch'egli nascesse, non l'ammazzai di certo.
- Questa scaltrezza, aggiunge il dottore, è di grande
utilità, porgendoti modo di nascondere senza bugia quello
che hai a nascondere.
Vedi quante scappatoie! E ce n'era per tutt'i
casi. In quell'arsenale trovi come puoi senza peccato non andare
talora a messa, o spendervi poco tempo, o durante la messa
conversare, o andando a messa guardare le donne con
desidèri amorosi. Se vuoi rimanere in buon concetto presso
il tuo confessore, scegli un altro, quando abbi commesso qualche
peccato grave. E se ti pesa il dirlo, usa parole doppie, o fa una
confessione generale per gittarlo così alla rinfusa nella
moltitudine de' peccati vecchi.
Ciascuno immagina, con quella facile scienza,
con quella più facile morale, che seguito e che favore
dovettero avere i gesuiti, maestri, confessori, predicatori,
missionari, scrittori, uomini di mondo e di chiesa. Seppero
conoscere il secolo, e lo dominarono. E mantennero il dominio con
l'energia e la logica della loro volontà. Salirono a tanta
potenza che ingelosirono i principi, e posero talora in sospetto
anche i papi. Prendendo a base l'ubbidienza passiva, di modo che
l'uomo dirimpetto al suo superiore fosse "perinde ac cadaver",
stabilirono la monarchia assoluta. Ma volevano che il papa
dominasse i principi, e volevano loro dominare il papa.
I principi si difendevano, offendendo, e
cercando fino un sostegno nelle idee nuove. Così Paolo
Sarpi difendeva la libertà di Venezia. La lotta era
disuguale, perchè alle armi spirituali era scemata la
riputazione, e i principi avevano guadagnata tutta quella forza,
ch'era mancata a' feudi ed a' comuni. I gesuiti allora, non
trasandando le armi puramente ecclesiastiche, operarono
principalmente come un corpo politico, e seppero maneggiare le
armi mondane con una tenacità uguale alla destrezza.
Presero aria di democratici, e cercarono forza ne' popoli contro i
principi. Fin dal 1562 Lainez, il secondo generale de' gesuiti,
sosteneva nel Concilio di Trento che la Chiesa ha le sue leggi da
Dio, ma la società ha il dritto di scegliersi essa il suo
governo. Il cardinale Bellarmino sostiene che il potere politico
è da Dio; ma il dritto divino è non ne' singoli
uomini, ma nella intera società, non ci essendo nessuna
buona ragione che uno o molti debbano comandare agli altri; che
monarchia, aristocrazia, repubblica sono forme che derivano dalla
natura dell'uomo; e che perciò, quando ci è alcuna
legittima ragione, può il popolo mutare la sua forma di
governo, come fecero i romani. Ecco già spuntare la
"sovranità del popolo", e il "dritto dell'insurrezione".
Mariana vuole la monarchia, ma a patto che ubbidisca al consiglio
de' migliori cittadini raccolti in senato. Era spagnuolo, e
scriveva sotto Filippo terzo, che tenea Campanella nelle prigioni
di Napoli. Non ammette il dritto ereditario, "nato dalla troppa
possanza de' re e dalla servilità de' popoli", e causa di
tanti mali, non ci essendo niente più mostruoso che
"commettere le sorti di un popolo a fanciulli ancora in culla e al
capriccio di una donna". Re che offende i dritti de' popoli e
disprezza la religione è come una bestia feroce, e
"ciascuno gli può metter le mani addosso". I dritti di
successione non possono esser mutati che col consenso del popolo;
perchè "dal popolo viene il dritto della signoria". Il re
ha il suo potere dal popolo; perciò "non è signore
dello Stato o de' singoli individui, ma un primo magistrato,
pagato da' cittadini". Il re non può da solo porre le
tasse, fare leggi, scegliersi il successore; perchè "le son
cose che interessano non solo il re, ma anche il popolo". Il re
è sottoposto alle leggi, e quando le viola, il popolo ha il
dritto "di deporlo e punirlo con la morte". Queste erano le
risposte che davano a' principi i gesuiti. Ma erano armi a doppio
taglio. Perchè si potea loro rispondere che se il dritto di
signoria è non ne' singoli individui, ma nella
universalità de' cittadini, quel dritto nelle faccende
ecclesiastiche è non nel papa, ma nella Chiesa o
universalità de' fedeli, e per essa nel concilio, che
può perciò deporre e anche punire il papa. Che cosa
diveniva allora il loro papa, il vicario di Dio? Essi erano
repubblicani dirimpetto allo Stato, ed assolutisti dirimpetto alla
Chiesa. E, per dire la verità, si mostravano repubblicani
per meglio dominare i principi, ed erano assolutisti per avere
tutto il potere nelle loro mani. Nè voglio dir già
che i loro scrittori erano di mala fede, anzi moltissimi erano
sinceri, credenti e patrioti, primo fra tutti Mariana. Parlo de'
capi, più uomini politici che uomini di fede.
Dicono che corruppero e infiacchirono i popoli.
Il che è così poco giusto, come dire che Marino
corruppe il gusto. Furono effetto e causa. Furono il cattolicismo
rammodernato, accomodato possibilmente a' nuovi tempi per meglio
conservarlo nella sua sostanza; furono l'intelletto che succede
alla fede e all'immaginazione, e si affida più nell'arte
del governo che nelle passioni e nella violenza, l'intelletto
spinto sino alla sua ultima depravazione, sofistico e
seicentistico; nacquero da quello stesso spirito che portò
sulla scena del mondo Machiavelli. Perciò furono un
progresso, un naturale portato della storia. La loro
responsabilità è questa, che, trovando nel secolo
fiacchezza e ignoranza, non lavorarono a combatterla per
migliorare l'uomo, anzi la favorirono e se ne fecero piedistallo.
Torto di tutte le reazioni. Vollero una coltura con licenza de'
superiori, e stretta in pochi. E quando la coltura, rotte le
dighe, si diffuse, finì il loro regno.
La diffusione della coltura era visibile in
Italia. E non parlo solo delle scienze esatte e naturali, dove i
gesuiti si mostrarono valentissimi, seguendo anche loro la via
aperta da Galileo, ma pur delle scienze storiche e sociali.
L'abbondanza dell'oro per la scoperta dell'America e la crisi
monetaria die' occasione a' primi scritti di economia, il Discorso
sopra le monete e la vera proporzione fra l'oro e l'argento di
Gaspare Scaruffi, che propugnava, come Campanella,
l'uniformità monetaria; e il trattato sulle Cause che
possono fare abbondare i regni di oro e d'argento di Antonio Serra
di Cosenza, scritto alla Vicaria, dove l'autore, come complice di
Campanella, era tenuto prigione. Moltiplicarono i trattati di
giurisprudenza, massime nella seconda metà del secolo.
Alberico Centile nel suo libro De iure belli fa già
presentire Grozio, e gli è vicino per forza speculativa
Alessandro Turamini, che scrisse De Pandectis. Tra gl'interpreti
del dritto romano sono degni di nota l'Alciato, l'Averani, il
Farinaccio, il Fabro. Fondatori della storia del dritto furono il
"gran" Carlo Sigonio, come lo chiama Vico, e il Panciroli, maestro
del Tasso.
Pubblicarono lavori non dispregevoli di
cronologia l'Allacci, il Riccioli, il Vecchietti. Comparivano
storie venete, napolitane, piemontesi, pisane, il Nani, il
Garzoni, il Summonte, il Capecelatro, il Tesauro, il Roncioni:
cronache più che storie, volgari di sentimento e di stile.
In Roma naturalmente si sviluppava l'archeologia. Il Fabretti di
Urbino scrivea degli Acquidotti romani e della Colonna traiana, e
pubblicava in otto serie quattrocentotrenta iscrizioni dottamente
illustrate. Moltiplicavano le compilazioni, le raccolte, come
sussidio agli studiosi. Il Zilioli scrisse l'Indice di tutt'i
libri di dritto pontificio e cesareo, e il Ziletti in ventotto
volumi il trattato Iuris universi. Avevi già annali,
giornali, biblioteche, cataloghi, e simili mezzi di diffusione.
Vittorio Siri aveva pubblicato il Mercurio politico e le Memorie
recondite, l'Avogadro il Mercurio veridico. Il Nazzari
cominciò a Roma nel 1668, il Giornale de' letterati, e il
Cinelli pubblicava la Biblioteca volante, una specie di storia
letteraria. Comparivano gli Annali del Baronio, le Vite de'
pàpi e cardinali del Ciacconio, la Storia generale de'
concili di monsignor Battaglini, la Storia delle eresie del
Bernini, la Napoli sacra di Cesare Caracciolo e la Sicilia sacra
del Pirro, liste e notizie di vescovi, la Miscellanea italica
erudita del padre Roberti, la Bibliotheca selecta e l'Apparatus
sacer del gesuita Possevino, il Mappamondo storico del padre
Foresti, continuato da Apostolo Zeno, un primo tentativo di storia
universale. Aggiungi relazioni come la Descrizione della Moscovia
del Possevino, i viaggi del Carreri napolitano, che nel 1698
compì a piedi il giro del mondo, la Relazione dello Zani
bolognese, che fu in Moscovia, le Lettere del Negri da Ravenna,
che giunse fino al capo Nord, la descrizione delle Indie del
fiorentino Sassetti, che primo die' notizia della lingua
sanscrita. Si conoscea meglio il mondo, e meglio i popoli
stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante latino
delle Indie orientali, il Falletti ferrarese della Lega di
Smalcalda, il Bentivoglio in lingua artificiata e falsamente
elegante delle Guerre di Fiandra, il Davila con semplicità
trascurata delle Guerre civili di Francia, il padre Strada
prolissamente delle cose belgiche. A questa coltura empirica e di
mera erudizione partecipavano tutti, laici e chierici, uomini
nuovi e uomini vecchi, e i gesuiti vi si mostravano operosissimi:
si pensava poco, ma s'imparava molto e da molti. La coltura
guadagnava di estensione, ma perdeva di profondità. Chi
avesse allora guardata l'Italia con occhio plebeo, potea dirla una
terra felice. Rivoluzione e guerra aveano abbandonato le sue
contrade: piena pace, tranquilli gli spiriti, in riposo il
cervello. Le piccole cose vi erano avvenimenti: l'Inghilterra
aveva Cromwell, ella avea Masaniello. L'Europa camminava senza di
lei e fuori di lei, tra guerre e rivoluzioni nelle quali si
elaborava e si accelerava la nuova civiltà. Lei giaceva
beata in quel dolce ozio idillico, che era il sospiro e la musa
de' suoi poeti. Dalle guerre di Alemagna usciva la libertà
di coscienza, dalle rivoluzioni inglesi usciva la libertà
politica, dalle guerre civili di Francia usciva la potente
unità francese e il secolo d'oro, la monarchia di Carlo
quinto e di Filippo secondo si andava ad infrangere contro la
piccola nazionalità olandese. L'Italia assisteva a questi
grandi avvenimenti senza comprenderli. Davila e Bentivoglio ci
pescavano intrighi e fattarelli curiosi, la parte teatrale. E
sì che tra quegli avvenimenti ci erano pure grandi attori
italiani, Caterina de' Medici, Mazzarino, Eugenio di Savoia,
Montecuccoli, il cui trattato della guerra è una delle
opere più serie scritte a quel tempo. Si combatteva non
solo con la spada, ma con la penna: le quistioni più
astratte interessavano ed infiammavano le moltitudini;
dall'attrito scintillavano nuovi problemi e nuove soluzioni; era
una generale fermentazione d'idee e di cose. Ciò che
fermentava nel cervello solitario di Bruno e di Campanella,
fluttuante, contraddittorio, lì era pensiero, stimolato
dalla passione, affinato dalla lotta, pronto all'applicazione, in
un gran teatro, fra tanta eco, con una chiarezza e precisione di
contorni, come fosse già cosa. Questa chiarezza è
già intera in Bacone e in Cartesio, dove il mondo moderno
si scioglie da tutti gli elementi scolastici e mistici, da tutti i
preconcetti, e si afferma in forme nette e recise. Perciò
Galileo, Bacone, Cartesio sono i veri padri del mondo moderno, la
coscienza della nuova scienza. Il metodo, che Galileo applicava
alle scienze naturali, diviene nelle mani di Bacone il metodo
universale e assoluto, la via della verità in tutte le sue
applicazioni: l'induzione caccia via il sillogismo, e l'esperienza
mette in fuga il soprannaturale. Cartesio col suo "de omnibus
dubitandum" riassume il lato negativo del nuovo movimento,
togliendo ogni valore all'autorità e alla tradizione - e
col suo "cogito, ergo sum" pone la prima pietra alla costruzione
dell'edificio, inizia l'affermazione. Come la Riforma, così
Cartesio pone a fondamento della coscienza il senso individuale; e
come Galileo stabilisce il mondo naturale su' fatti, così
egli stabilisce il mondo metafisico su di un fatto, "io penso".
All'esperienza esterna si aggiunge l'esperienza interna, l'analisi
psicologica. L'ente, ch'era il primo filosofico, qui è un
prodotto della coscienza, un "ergo". L'evidenza innanzi a' sensi e
innanzi alla coscienza, il senso interno, è il criterio
della verità. Cartesio, che era un matematico, introduce
nella filosofia la forma geometrica, credendo che in virtù
della forma entrasse nel mondo metafisico quella evidenza ch'era
nel mondo matematico. Era un'illusione, il cui benefizio fu di
cacciar via definitivamente le forme scolastiche e aprire la
strada a quella forma naturale di discorso, di cui Machiavelli
avea dato esempio, ed egli medesimo nel suo ammirabile Metodo.
Queste idee non erano nuove in Italia, anzi erano volgari a tutti
gli uomini nuovi; ma, naufragate in vaste sintesi immature e senza
eco, rimanevano sterili. Qui le vedi a posto, staccate, rilevate,
formulate con chiarezza ed energia, e parvero una rivelazione.
D'altra parte Cartesio ebbe cura di non rompere con la fede, e di
accentuare la natura spirituale dell'anima e la sua distinzione
dal corpo, base della dottrina cristiana, sì che dicea
parergli meno sicura l'esistenza del corpo che quella dello
spirito; oltre a ciò, con le sue idee innate lasciava
aperto un varco alla teologia e al soprannaturale. Così
egli ti dava la prima filosofia nuova che sembrasse conciliabile
con la religione, in un tempo che per l'infanzia della critica e
della coscienza non era facile pesare tutte le sue conseguenze.
Perciò, come la Riforma religiosa, la sua riforma
filosofica ebbe un gran successo; perchè le riforme
efficaci son quelle che prendono una forma meno lontana dal
passato e dallo stato reale degli spiriti. Aggiungi la sua
superficialità, l'estrema chiarezza, la forma accessibile,
quel presentar poche idee e nette innanzi alle moltitudini: si
rivelava già lo spirito francese volgarizzatore e popolare.
La conseguenza naturale della riforma era questa, che l'uomo
rientrava in grembo della natura, diveniva una parte della storia
naturale. Posto che la filosofia ha la sua base nella coscienza,
lo studio della coscienza o de' fatti psicologici diveniva la
condizione preliminare di ogni metafisica, come lo studio della
natura diveniva l'antecedente di ogni cosmologia. Il mondo usciva
dalle astrazioni degli universali ed entrava in uno studio serio
dell'uomo e della natura, nello studio del reale. Per questa via
modesta e concludente si era messo Galileo; di là uscivano
i grandi progressi delle scienze positive. Cartesio applicava alla
metafisica gli stessi procedimenti della filosofia naturale,
togliendola di mezzo al soprannaturale, al fantastico,
all'ipotetico, e dandole una base sicura nell'esperienza e
nell'osservazione. Ma i fatti psicologici erano ancora troppo
scarsi e superficiali, perchè ne potesse uscire una
soluzione de' problemi metafisici, e l'Europa era ancora troppo
giovane, troppo impregnata di teologia e di metafisica, di misteri
e di forze occulte, perchè potesse aver la pazienza di
studiare i dati de' problemi prima di accingersi a risolverli. Le
"idee innate" e i "vortici" di Cartesio, la "visione di Dio" di
Malebranche, la "sostanza unica" di Spinosa, l'"armonia
prestabilita" di Leibnizio erano teodicee ipotetiche e
provvisorie, che appagavano il pensiero moderno abbandonato a se
stesso, e attestavano il suo vigore speculativo. Ma l'impulso era
dato, e fra quelle immaginazioni progrediva la storia naturale
dell'intelletto umano, la scienza dell'uomo. Le meditazioni di
Cartesio, i maravigliosi capitoli di Malebranche
sull'immaginazione e sulle passioni, i Pensieri di Pascal, dove
l'uomo in presenza di se stesso si sente ancora un enigma,
preludevano al Saggio sull'intelletto umano di Giovanni Locke,
l'erede di Bacone, di una grandezza eguale alla sua modestia. Ivi
la riforma cartesiana aveva la sua ultima espressione, il suo
punto di fermata; ivi la filosofia trovava il suo Galileo,
realizzava l'ideale del suo risorgimento, al quale fra molti
ostacoli tendevano gli uomini nuovi, acquistava la sua base
positiva, fondata sull'esperienza e sull'osservazione, sulla "cosa
effettuale", come dicea Machiavelli, e col "lume naturale", come
dicea Bruno, con la scorta dell'occhio del corpo e della mente,
come dicea Galileo, e leggendo nel libro della natura, come dicea
Campanella. Cadevano insieme forme scolastiche e forme
geometriche; la filosofia usciva dal suo tempo eroico ed entrava
nella sua età umana; agli oracoli dottrinali succedevano
forme popolari, e vi si affinavano le moderne lingue. La
semplicità, la chiarezza, l'ordine, la naturalezza
divenivano le qualità essenziali della forma, e n'era un
primo e stupendo esempio il Saggio di Locke. Così la
filosofia nella sua linea divergente dalla teologia giungeva sino
all'opposto, dal soprannaturale e dal soprasensibile giungeva al
puro naturale ed al puro sensibile, giungeva al motto: "Niente
è nell'intelletto che non sia stato prima nel senso". E non
era già un concetto astratto e solitario, era lo spirito
nuovo, penetrato in tutto lo scibile, e che ora, come ultimo
risultato, faceva la sua apparizione in filosofia. Anche la morale
si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico, e cercava la
sua base nella natura dell'uomo, e non dell'uomo quale l'avea
formato la società, ma nell'integrità e
verginità del suo essere. Comparve un dritto naturale, come
era comparsa una filosofia naturale; ed entrano in iscena Grozio,
Hobbes, Puffendorfio. A quel modo che Campanella e Sarpi con tutti
i riformati vagheggiavano la Chiesa primitiva nella purità
delle sue istituzioni, e in nome di quella attaccavano come
alterazione e falsificazione l'opera posteriore de' papi, i
filosofi vagheggiavano l'uomo primitivo, nello stato di natura, e
combattevano tutte le istituzioni sociali, che non erano di
accordo con quello. Il movimento religioso diveniva anche politico
e sociale; l'idea era una, che si sentiva ora abbastanza forte per
dilatare le sue conseguenze anche negli ordini politici. Sorge uno
spirito di critica e d'investigazione, che non tien conto di
nessun'autorità e tradizione, e fa valere il suo
scetticismo in tutti i fatti e i princìpi tenuti fino a
quel punto indiscutibili, come un assioma. Bayle è
là, con la sua ironia, col suo dubbio universale. Come
Locke realizzava il "cogito", egli realizzava il "de omnibus
dubitandum". E chi paragoni il suo Dizionario con le Raccolte
italiane, può vedere dov'era la vita e dov'era la morte.
Che faceva l'Italia innanzi a quel
colossale movimento di cose e d'idee? L'Italia creava l'Arcadia.
Era il vero prodotto della sua esistenza individuale e morale. I
suoi poeti rappresentavano l'età dell'oro, e in quella
nullità della vita presente fabbricavano temi astratti e
insipidi amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati,
lasciando correre il mondo per la sua china, si occupavano del
mondo antico e scrutavano in tutti i versi le reliquie di Roma e
di Atene; e poichè le idee erano date e non discutibili, si
occupavano de' fatti, e non potendo essere autori, erano
interpreti, comentatori ed eruditi. Letteratura e scienza erano
Arcadia, centro Cristina di Svezia, povera donna, che non
comprendendo i grandi avvenimenti, de' quali erano stati tanta
parte i suoi Gustavo e Carlo, si era rifuggita a Roma co' suoi
tesori, e si sentiva tanto felice tra quegli arcadi, ch'ella
proteggeva, e che con dolce ricambio chiamavano lei "immortale e
divina". Felice Cristina! E felice Italia!
L'inferiorità intellettuale degli
italiani era già un fatto noto nella dotta Europa, e ne
attribuivano la cagione al mal governo papale-spagnuolo. Gli
stessi italiani aveano oramai coscienza della loro decadenza, e
non avvezzi più a pensare col capo proprio, attendevano con
avidità le idee oltramontane, e mendicavano elogi da'
forestieri. Giovanni Leclerc scriveva anno per anno la sua
Biblioteca, una specie d'inventario ragionato delle opere nuove. E
come si tenea fortunato quell'italiano, che potea averci là
dentro un posticino! La lingua francese era divenuta quasi comune,
e prendeva il posto della latina. Un movimento d'importazione
c'era, lento, e impedito da molti ostacoli, e vivamente combattuto
nelle accademie e nelle scuole, dove regnava Suarez e Alvarez, tra
interpreti e comentatori. La Fisica di Cartesio penetrò in
Napoli settanta anni dopo la sua morte, e quando già era
dimenticata in Francia, e non si aveva ancora notizia del suo
Metodo e delle sue Meditazioni. Grozio girava per le mani di
pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo nome faceva orrore. Di
Giovanni Locke appena qualche sentore. Un movimento si annunziava
negli spiriti, quel non so che di vago, quel bisogno di cose nuove
che testimonia il ritorno della vita. Pareva che il cervello, dopo
lungo sonno, si svegliasse. I renatisti penetravano nelle scuole
co' loro "metodi strepitosi", come li chiamava Vico, promettitori
di scienza facile e sicura. Definizioni, assiomi, problemi,
teoremi, scolii, postulati cacciavano di sede sillogismi, entimemi
e soriti. Il "quod erat demonstrandum" succedeva all'"ergo".
Chiamavano "pedanti" i peripatetici, e questi chiamavano loro
"ciarlatani". Sempre così. Il vecchio è detto
"pedanteria", ed il nuovo "ciarlataneria". E qualche cosa di vero
c'è. Perchè il vecchio nella sua decrepitezza e
stagnazione ha del pedante, e il nuovo nella sua giovanile
esagerazione ha del ciarlatano. Ciascuno ha il suo lato debole,
che non può nascondere all'occhio acuto e appassionato
dell'avversario.
La riforma cartesiana in Italia non produsse
alcun serio progresso scientifico, com'è d'ogni scienza
importata e non uscita da una lenta elaborazione dello spirito
nazionale. Fu utile come mezzo di diffusione delle idee nuove. Le
quali, cacciate d'Italia co' roghi, con gli esili, con le torture
e coi pugnali, vi rientrarono sotto la protezione delle idee
cristiane. La riforma era detta il "platonismo cartesiano", ed
aveva aria di ribenedire la religione in nome della filosofia.
L'Inquisizione, in quel movimento rapidissimo d'idee, preoccupata
di Spinosa, aperto nemico, lasciava passare il nuovo Platone, che
almeno non toccava i dogmi. I peripatetici invocarono
l'Inquisizione contro i novatori, e i novatori rispondevano
proclamando Aristotile nemico della religione. Così il
movimento ricominciava in Italia, col permesso o almeno la
tolleranza di Roma. Ed era movimento arcadico, confinato nelle
astrattezze e rispettoso verso tutte le istituzioni. Il movimento
rimaneva superficiale; ma si diffondeva, guadagnava gli animi alle
novità, sopraffaceva i peripatetici, s'infiltrava nella
nuova generazione, la metteva in comunione coll'Europa, preparava
la trasformazione dello spirito nazionale.
Il serio movimento scientifico usciva di
là, dove s'era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione.
Lo studio del passato era come una ginnastica intellettuale, dove
lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte successero le
illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito
d'investigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale
usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spirito nuovo
inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monumenti. Già non
erano più semplici eruditi, erano critici. In Europa la
critica usciva dal libero esame e dalla ribellione: era roba
eretica. In Italia era parte di Arcadia, un esercizio
intellettuale sul passato, e li lasciavano fare. Il critico di
Europa era Bayle; il critico d'Italia era Muratori. Le sue vaste e
diligenti raccolte, Rerum italicarum scriptores, Antiquitates
medii aevi, Annali d'Italia, Novus thesaurus inscriptionum, la
Verona illustrata e la Storia diplomatica di Scipione Maffei, le
Illustrazioni del Fabretti segnano già questo periodo, dove
la scienza è ancora erudizione, e nella erudizione si
sviluppa la critica. Non è ancora filosofia, ma è
già buon senso, fortificato dalla diligenza della ricerca,
e dalla pazienza dell'osservazione. Muratori è assai vicino
a Galileo per il suo spirito positivo e modesto, e pel giusto
criterio. E anche egli osò. Osò combattere il potere
temporale, osò porre in guardia gl'italiani contro gli
errori e le illusioni della fantasia. Se non gliene venne
condanna, fu tolleranza intelligente di Benedetto decimoquarto, il
quale disse che "le opere degli uomini grandi non si proibiscono",
e che la quistione del potere temporale "era materia non dogmatica
nè di disciplina".
Anche il Maffei parve incredulo al Tartarotti, perchè
negava la magia, e parve eretico al padre Concina, perchè
scrivea De' teatri antichi e moderni; ma quel buon papa
decretò "non doversi abolire i teatri, bensì cercare
che le rappresentazioni siano al più possibile oneste e
probe". L'Italia papale era più papista del papa.
Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina, tutto
Grecia e Roma, tutto papato e impero, fra testi e comenti, con le
spalle vòlte all'Europa. Dommatico e assoluto, sentenzia e
poco discute, in istile monotono e plumbeo. È ancora il
pedante italiano, sepolto sotto il peso della sua dottrina, senza
ispirazione, nè originalità, e così vuoto di
sentimento, come d'immaginazione. Pure già senti che siamo
verso la fine del secolo. Già non hai più innanzi
l'erudito che raccoglie e discute testi, ma il critico che si vale
della storia e della filosofia per illustrare la giurisprudenza, e
si alza ad un concetto del dritto, e ne cerca il principio
generatore. Anche la sua Ragion poetica, se non mostra gusto e
sentimento dell'arte, colpa non sua, esce da' limiti empirici
della pura erudizione, e ti dà riflessioni d'un carattere
generale.
Ecco un altro uomo d'ingegno, Francesco
Bianchini, veronese. A che pensa costui? Pensa agli assiri, a'
medi e a' troiani. Non raccoglie, ma pensa, cioè a dire
scruta, paragona, giudica, congettura, arzigogola e costruisce. I
monumenti non rimangono più lettera morta: parlano,
illustrano la cronologia e la storia. Per mezzo di essi si
stabiliscono le date, le epoche, i costumi, i pensieri, i simboli,
si rifà il mondo preistorico. In questa geologia della
storia i fatti e gli uomini vacillano, si assottigliano, diventano
favole, e le favole diventano idee. Comparve la sua Storia nel
1697, Vico aveva ventinove anni.
L'erudizione generava dunque la critica. In
Italia si svegliava il senso storico e il senso filosofico. E si
svegliava non sul vivo, ma sul morto, nello studio del passato.
Questo era il carattere del suo progresso scientifico. Quelli che
si occupavano del presente a loro rischio, erano cervelli
spostati. E tra questi cervelli balzani c'era il milanese Gregorio
Leti, che pose in luce la cronaca scandalosa dell'età in
uno stile che vuol essere europeo e non è italiano, e
Ferrante Pallavicino nel suo Corriere svaligiato, una specie di
satira-omnibus, dove ce n'è per tutti. In quel vacuo
dell'esistenza sciupavano l'ingegno in argomenti grotteschi, e in
forme che parevano ingegnose ed erano freddure, un seicentismo
arcadico. Il canonico Garzoni scrivea il Teatro de' cervelli
mondani, L'Ospedale de' pazzi incurabili, la Sinagoga
degl'ignoranti, il Serraglio degli stupori del mondo. Sono
discorsi accademici, infarciti d'erudizione indigesta, più
curiosa che soda. I quali erano la vera piaga d'Italia, e
attestavano una coltura verbosa e pedantesca senz'alcuna
serietà di scopo e di mezzi. Il più noto di questi
dotti, e ce n'erano moltissimi, è Anton Maria Salvini,
cervello ingombro, cuore fiacco e immaginazione povera, vita
vuota. E volle tradurre Omero.
Fra tanta erudizione cresceva Vico.
Studiò la filosofia in Suarez, la grammatica in Alvarez, il
dritto in Vulteio. Pedagogo in casa della Rocca in Vatolla, un
paesello nel Cilento, si chiuse per nove anni nella biblioteca del
convento, e vi si formò come Campanella. Quando, compiuto
il suo ufficio, tornò in Napoli, era già un uomo
dotto, come poteva essere un italiano, e ce n'erano parecchi anche
tra' gesuiti. Era il tempo del Muratori, del Fontanini, dell'abate
Conti, del Maffei, del Salvini. "dottissimo, eruditissimo" era
Lionardo da Capua, e Tommaso Cornelio "latinissimo": così
li qualifica Vico. Il quale conosceva a fondo il mondo greco e
latino, Aristotile e Platone con tutta la serie degl'interpreti
fino a quel tempo; ammirava nel Cinquecento quello stesso mondo
redivivo ne' Ficini, ne' Pico, ne' Mattei Acquaviva, ne' Patrizi,
ne' Piccolomini, ne' Mazzoni; di letteratura, di archeologia, di
giurisprudenza peritissimo; il medio evo gli era giunto con la
scolastica e con Aristotile, il Cinquecento con Platone e
Cicerone; de' fatti europei sapeva quanto era possibile in Italia.
Era un dotto del Rinnovamento, che scoteva da sè la polvere
del medio evo e cercava la vita e la verità nel mondo
antico. Il suo sapere era erudizione, la forma del suo pensiero
era latina, e il suo contenuto ordinario era il dritto romano.
Avvocato senza clienti, fece il letterato e il maestro di scuola.
Passati erano i bei tempi di Pietro Aretino. La letteratura senza
l'insegnamento era povera e nuda, come la filosofia. Andava per le
case insegnando, facea canzoni, dissertazioni, orazioni, vite, a
occasione o a richiesta. Lo conobbe don Giuseppe Lucina, "uomo di
una immensa erudizione greca, latina e toscana in tutte le spezie
del sapere umano e divino", e lo fe' conoscere a don
Niccolò Caravita, un avvocato primario e "gran
favoreggiatore de' letterati". Vico, parte merito, parte
protezione, fu professore di rettorica all'università. Vita
semplice e ordinaria, dal 1668 al 1744. Vita accademica,
tranquilla, di erudito italiano, formatosi nelle biblioteche e
fuori del mondo, rimasto abbarbicato al suolo della patria. Il
movimento europeo gli giunse a traverso la sua biblioteca, e gli
giunse nella forma più antipatica a' suoi studi e al suo
genio. Gli venne addosso la fisica di Gassendi, e poi la fisica di
Boyle, e poi la fisica di Cartesio. - La gran novità -
pensava il nostro erudito. - Ma l'hanno già detto, questo,
Epicuro e Lucrezio. - E per capire Gassendi si pose a studiare
Lucrezio. Ma la novità piacque. - Fisica, fisica vuol
essere, - diceva la nuova generazione - macchine; non più
logica scolastica, ma Euclide; sperimenti, matematiche; la
metafisica bisogna lasciarla ai frati. - Che diveniva Vico con la
sua erudizione e col suo dritto romano? Reagì, e
cercò la fisica non con le macchine e con gli sperimenti,
ma ne' suoi studi di erudito. Le scienze positive entravano appena
nel gran quadro della sua cultura, e di matematiche sapeva non
oltre di Euclide, stimando "alle menti già dalla metafisica
fatte universali non... agevole quello studio proprio degli
ingegni minuti". Cercò dunque la fisica fuori delle
matematiche e fuori delle scienze sperimentali, la cercò
fra i tesori della sua erudizione, e la trovò nei "numeri"
di Pitagora, ne' "punti" di Zenone, nelle "idee divine" di
Platone, nell'antichissima sapienza italica. L'Europa aveva Newton
e Leibnizio; e a Napoli si stampava De antiquissima italorum
sapientia. Erano due colture, due mondi scientifici che si
urtavano. Da una parte era il pensiero creatore, che faceva la
storia moderna, dall'altra il pensiero critico che meditava sulla
storia passata. Chiuso nella sua erudizione, segregato nella sua
biblioteca dal mondo de' vivi, quando Vico tornò in Napoli,
trovò nuova cagione di maraviglia. L'aveva lasciata tutto
fisica; la trovava tutto metafisica. Le Meditazioni e il Metodo di
Cartesio avevano prodotto la nuova mania. Vico sentì
disgusto per una città che cangiava opinione da un
dì all'altro "come moda di vesti". E vi si sentì
straniero, e vi stette per alcun tempo straniero e sconosciuto.
Vedeva il movimento attraverso i suoi studi e i suoi preconcetti.
Quelle fisiche atomistiche gli pareva non poter
condurre che all'ateismo e alla morale del piacere, e le accusava
di falsa posizione, perchè l'atomo, il loro principio, era
corpo già formato, perciò era principiato e non il
principio, e andava cercando il principio al di là
dell'atomo, ne' numeri e ne' punti. Soffiava in lui lo stesso
spirito di Bruno e di Campanella. Si sentiva concittadino di
Pitagora e discepolo dell'antica sapienza italica. Quanto al
metodo geometrico, rifiutava di ammetterlo come una panacea
universale: era buono in certi casi, e si potea usarlo senza quel
lusso di forme esteriori, dove vedea ambizione, pretensione e
ciarlataneria. Il "cogito"gli pareva così poco serio, come
l'atomo. Era anch'esso principiato e non principio; dava fenomeni,
non dava la scienza. Giudicava Cartesio uomo ambiziosissimo ed
anche un po' impostore, e quel suo "metodo", dove, annullando la
scienza con la bacchetta magica del suo "cogito", la fa
ricomparire a un tratto, gli pareva un artificio rettorico. Quel
suo de omnibus dubitandum lo scandalizzava. Quella tavola rasa di
tutto il passato, quel disprezzo di ogni tradizione, di ogni
autorità, di ogni erudizione, lo feriva nei suoi studi,
nella sua credenza e nella sua vita intellettuale, e si difendeva
con vigore, come si difende dal masnadiero la roba e la vita. La
diffusione della coltura, la moltiplicità dei libri, quei
metodi strepitosi abbreviativi, quella superficialità di
studi con tanta audacia di giudizi, fenomeni naturali di ogni
transizione, quando un mondo se ne va e un altro viene, movevano
la sua collera. Avvezzo ai severi e profondi studi, a pensare co'
sapienti ed a scrivere pei sapienti, gli spiacea quella tendenza a
vulgarizzare la scienza, quella rapida propagazione d'idee
superficiali e cattive. E se la pigliava con la stampa. Si
gloriava di non appartenere a nessuna setta. E lì era il
suo punto debole. Posto tra due secoli, in quel conflitto di due
mondi che si davano le ultime battaglie, non era nè con gli
uni, nè con gli altri, e le cantava a tutti e due. Era
troppo innanzi pe' peripatetici, pe' gesuiti e per gli eruditi;
era troppo indietro per gli altri. Questi trovavano ridicoli i
suoi "punti metafisici"; quelli trovavano avventate le sue
etimologie e sospetta la sua erudizione. Era da solo un terzo
partito, come si direbbe oggi, la ragione serena e superiore, che
nota le lacune, le contraddizioni e le esagerazioni, ma ragione
ancora disarmata, solitaria, senza seguaci, fuori degl'interessi e
delle passioni, perciò in quel fervore della lotta appena
avvertita e di nessuna efficacia. Se dietro al critico ci fosse
stato l'uomo, un po' di quello spirito propagatore e apostolico di
Bruno e Campanella, sarebbe stato vittima degli uni e degli altri.
Ma era un filosofo inoffensivo, tutto cattedra, casa e studio, e
guerreggiava contro i libri, rispettosissimo verso gli uomini.
Oltrechè le sue ubbie rimanevano nelle altissime regioni
della filosofia e della erudizione, dove pochi potevano seguirlo,
e fu lasciato vivere fra le nubi, stimato per la sua dottrina,
venerato per la sua pietà e bontà. Conscio e
scontento della sua solitudine, vi si ostinò, benedicendo
"non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse giurato", e
ringraziando "quelle selve, fra le quali dal suo buon genio
guidato, aveva fatto il maggior corso de' suoi studi". Il latino
veniva in fastidio, ed egli pose da canto greco e toscano, e fu
tutto latino. Veniva in moda il francese: e' non volle apprendere
il francese. La letteratura tendeva al nuovo, ed egli accusava
questa letteratura "non... animata dalla sapienza greca..., o
invigorita dalla grandezza romana". Nella medicina era con Galeno
contro i moderni, divenuti scettici "per le spesse mutazioni de'
sistemi di fisica". Nel dritto biasimava gli eruditi moderni, e se
ne stava con gli antichi interpreti. Vantavano l'evidenza delle
matematiche; ed egli se ne stava tra' misteri della metafisica.
Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la
tradizione, la voce del genere umano. Gli uomini popolari, i
progressisti di quel tempo, erano Lionardo di Capua, Cornelio,
Doria, Calopreso, che stavano con le idee nuove, con lo spirito
del secolo. Lui era un retrivo, con tanto di coda, come si direbbe
oggi. La coltura europea e la coltura italiana s'incontravano per
la prima volta, l'una maestra, l'altra ancella. Vico resisteva.
Era vanità di pedante? era fierezza di grande uomo?
Resisteva a Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri
erano "lumi sparsi", a Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui
Saggio era la "metafisica del senso". Resisteva, ma li studiava
più che non facessero i novatori. Resisteva come chi sente
la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi,
combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co' suoi
metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura italiana,
che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma
resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo
moderno. Era il retrivo che guardando indietro e andando per la
sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli
che lo precedevano. Questa era la resistenza di Vico. Era un
moderno, e si sentiva e si credeva antico, e resistendo allo
spirito nuovo, riceveva quello entro di sè.
Bacone gli aveva fatta una grande impressione.
Era il suo uomo, dopo Platone e Tacito. Quel suo libro, De
augumentis scientiarum, gli faceva dire: - Roma e Grecia non hanno
avuto un Bacone. - Trovava in lui congiunto il senso ideale di
Platone, il senso pratico di Tacito, la "sapienza riposta"
dell'uno, la sapienza volgare dell'altro. E poi, gli apriva nuovi
orizzonti. Avea studiato tanto, e la sua scienza non era
più un libro chiuso, ci era tanto da aggiungere, tanto da
riformare. Voleva egli pure conferire del suo "nella somma che
costituisce l'universal repubblica delle lettere". Non è
più un erudito immobilizzato nel passato, è un
riformatore, un investigante. Critica, dubita, esamina,
approfondisce. Sente il morso dello spirito nuovo. Ne' suoi studi
dell'antica sapienza italica, vedi già il disdegno delle
"etimologie grammaticali", il dispregio dell'erudizione volgare,
l'uomo che tenta nuove vie, intravvede nuovi orizzonti, cerca tra
i particolari le alte generalità.
Più tardi gli capitò Grozio. E
divenne il suo "quarto autore". Grozio gli completa Bacone. Costui
vide "tutto il saper umano e divino doversi supplire in ciò
che non ha, ed emendare in ciò che ha; ma intorno alle
leggi..., non s'innalzò troppo all'universo delle
città ed alla scorsa di tutt'i tempi, nè alla
distesa di tutte le nazioni". Grozio gli dà un dritto
universale, in cui "è sistemata tutta la filosofia e
teologia". Il comentatore del dritto romano si sente alzare a
filosofo. Cerca una filosofia del dritto con Grozio, e si fa il
suo annotatore: poi riflette che è un eretico, e lascia
stare.
La materia della sua coltura è sempre
quella, dritto romano, storia romana, antichità. La sua
fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia e l'ente,
l'uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'"unum
simplicissimum" di Ficino. L'uomo e la natura sono le sue ombre, i
suoi fenomeni. La scienza è conoscere Dio, "perdere se
stesso" in Dio. E vien su il Dio di Campanella, l'eterno lume, il
senno eterno, con le sue primalità, "nosse, velle, posse".
Fin qui Vico è un luogo comune. La sua erudizione e la sua
filosofia camminano in linea parallela, e non s'incontrano. Manca
l'attrito. Ci è l'ascetico, il teologo, il platonico,
l'erudito, ci è l'italiano di quel tempo nello stato
ordinario delle sue credenze e della sua cultura.
Dentro a questa cultura e contro a queste
credenze venne ad urtare Cartesio. - La cultura non ha valore; del
passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io
farò il mondo. Il vero te lo dà la coscienza ed il
senso. - Cosa diveniva l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la
metafisica di Vico? Cosa divenivano le "idee divine" di Platone? E
il "simplicissimum" di Ficino cosa diveniva? E il dritto romano,
la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica,
non era più buona a nulla? Nella violenta contraddizione
Vico sviluppò le sue forze. Uscì del vago e del
comune, trovò un terreno, un problema, un avversario. La
sua erudizione si spiritualizzava. La sua filosofia si concretava.
E si compivano l'una nell'altra.
Già non si perde negli accessorii; vede
e investe subito la dottrina avversaria nella sua base. Vuole
atterrare Cartesio, e con lo stesso colpo atterra tutta la nuova
scienza, e non andando indietro, ma andando più avanti. La
sua confutazione di Cartesio è completa, è l'ultima
parola della critica. Ma la sua critica non è solo
negativa: è creatrice; la negazione si risolve in
un'affermazione più vasta, che tirasi appresso, come
frammenti di verità, le nuove dottrine, e le alloga, le
mette a posto. La nuova scienza, la scienza degli uomini nuovi,
trova nella Scienza nuova il suo limite, e perciò la sua
verità.
La nuova scienza, uscita da lotta religiosa e
politica, è in uno stato di guerra contro il passato, e lo
combatte sotto tutte le sue forme. La tradizione,
l'autorità, la fede è il suo nemico, e cerca riparo
nella forza e nell'indipendenza della ragione individuale; gli
"universali", gli "enti", le "quiddità" lo infastidiscono
della metafisica, e cerca la sua base nella psicologia, nella
coscienza; il soprannaturale, il sopramondano offende il suo
intelletto adulto, e vi oppone lo studio diretto della natura, la
fisica nel suo senso più generale, le scienze positive; al
gergo scolastico cerca un antidoto nella precisione delle
matematiche, nel metodo geometrico; ai misteri, alle cabale, alle
scienze occulte, alle astrazioni oppone l'esperienza rischiarata
dall'osservazione, la percezione chiara e distinta, l'evidenza
della coscienza e del senso; alla società in quello stato
di corruzione oppone l'uomo integro e primitivo, la natura
dell'uomo, dalla quale cava i princìpi della morale e del
dritto. Questo è lo spirito della nuova scienza:
naturalismo e umanismo, fisica e psicologia. Cartesio in maschera
di Platone porta la bandiera.
Ma non inganna Vico, che gli strappa la
maschera. - Tu non sei che un epicureo. La tua fisica è
atomistica, la tua metafisica è sensista, il tuo trattato
Delle passioni par fatto più per i medici che per i
filosofi; segui la morale del piacere. - Combattendo Cartesio, la
quistione gli si allarga, attinge nella sua essenza tutto il nuovo
movimento. Anch'esso è un'astrazione. È un'ideologia
empirica, idea vuota, e vuoto fatto. L'importante non è di
dire "io penso" (la grande novità!), ma è di
spiegare come il pensiero si fa. L'importante non è di
osservare il fatto, ma di esaminare come il fatto si fa. Il vero
non è nella sua immobilità, ma nel suo divenire, nel
suo "farsi". L'idea è vera, colta nel suo farsi. Il
pensiero è moto che va da un termine all'altro, è
idea che si fa, si realizza come natura, e ritorna idea, si
ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò "verum et factum",
vero e fatto sono convertibili, nel fatto vive il vero, il fatto
è pensiero, è scienza; la storia è una
scienza, e come ci è una logica per il moto delle idee, ci
è anche una logica per il moto de' fatti, una "storia
ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni".
Ecco ribenedetta tradizione, autorità e
fede; ecco filologia, storia, poesia, mitologia, tutta
l'erudizione rientrata in grembo della scienza. La storia è
fatta dall'uomo, come le matematiche, e perciò è
scienza non meno di quelle. È il pensiero che fa quello che
pensa, è la "metafisica della mente umana", la sua
"costanza", il suo processo di formazione secondo le leggi fisse
del pensiero umano. Perciò la sua base non è nella
coscienza individuale, ma nella coscienza del genere umano, nella
ragione universale. I nuovi filosofi vogliono rifare il mondo coi
loro princìpi assoluti, co' loro dritti universali. Ma non
sono i filosofi che fanno la storia, e il mondo non si rifà
con le astrazioni. Per rifare la società non basta
condannarla: bisogna studiarla e comprenderla. E questo fa la
"Scienza nuova".
A Vico non basta porre le basi; mette mano alla
costruzione. Se la storia ha la sua costanza scientifica, se
è fatta dal pensiero, com'e fatta? Qual è il suo
processo di formazione? Che la storia sia una scienza, non era
cosa nuova nella filosofia italiana. Alla storia formata
dall'arbitrio divino e dal caso Machiavelli avea già
contrapposta la "forza delle cose", lo spirito della storia eterno
e immutabile. L'"intelletto universale" di Bruno, la "ragione che
governa il mondo" di Campanella rientrano nella stessa idea.
Platone con le sue "idee divine" porgeva già il filo a
Vico. L'importante era di eseguire il problema, il cui dato era
già posto, era il trovar le leggi di questo spirito della
storia, era il "probare per causas", il generare la storia come
l'uomo genera le matematiche, il fare la storia della storia,
ciò che era fare una scienza nuova. Di questa storia ideale
egli "ritrova le guise dentro le modificazioni della nostra
medesima mente umana", cerca la base nella natura dell'uomo,
doppio com'è, spirito e corpo. È una psicologia
applicata alla storia. Stabilisce alcuni canoni psicologici,
ch'egli chiama "degnità", o "princìpi". Il concetto
è questo: che l'uomo, come essere naturale, opera per
istinti, sotto la pressura dei suoi bisogni, interessi e passioni;
ma ivi appunto si sviluppa come essere pensante, come Mente,
sì che nelle sue opere più grossolane e corpulente
ce n'è come un'immagine velata, il sentore. La quale
immagine si fa più chiara, secondo che "la mente più
si spiega", insino a che il pensiero si manifesta nella sua
propria forma, opera come riflessione o filosofia. Questo, che
è il corso naturale della vita individuale, è anche
il corso naturale e la storia di tutte le nazioni, quando non ci
sia interruzione o deviazione per violenza di casi estrinseca,
come fu per Numanzia oppressa nel suo fiorire da' romani.
Perciò nelle nazioni ci è tre età, la divina,
l'eroica e la umana. Precede lo stato selvaggio o di mera
barbarie, dove l'uomo è servo del corpo, e come una "fiera
vagante nella gran selva della terra". La libertà è
il "tenere in freno i moti della concupiscenza, che viene dal
corpo, e dar loro altra direzione, che viene dalla mente ed
è propria dell'uomo". Secondo che la mente si spiega, o si
fa più intelligente, si sviluppa la libertà, prevale
la ragione o l'"umanità". La prima età ragionevole o
socievole, l'età divina, sorse co' matrimoni e
l'agricoltura, quando, "a' primi fulmini dopo l'universal
diluvio", gli uomini "si umiliarono ad una forza superiore che
immaginarono essere Giove, e tutte le umane utilità e tutti
gli aiuti porti nelle loro necessità immaginarono essere
dei". Allora, rinunziando alla vaga venere, ebbero certe mogli,
certi figli e certe dimore, sorsero le famiglie governate da'
padri con "famigliari imperii ciclopici". In questi regni
famigliari, divenuti sicuro asilo contro i selvaggi o vaganti,
riparavano i deboli e gli oppressi, che furono ricevuti in
protezione, come clienti o famoli. Così si ampliarono i
regni famigliari, e si spiegarono le "repubbliche erculee" sopra
ordini naturalmente migliori per virtù eroiche, la
pietà verso gl'iddii, la prudenza, o il consigliarsi co'
divini auspìci, la temperanza, onde i concubiti umani e
pudichi co' divini auspìci, la fortezza, uccider fiere,
domar terreni, la magnanimità, il soccorrere a' deboli e a'
pericolanti. In questi primi ordini naturali comincia la
libertà, e il primo spiegarsi della mente. Nacque la
corruzione. I padri, lasciati grandi per la religione e
virtù de' loro maggiori e per le fatiche de' clienti,
tralignarono, uscirono dall'ordine naturale, che è quello
della giustizia, abusarono delle leggi di protezione e di tutela,
tiranneggiarono: indi la ribellione de' clienti. Allora padri
delle famiglie si unirono con le loro attinenze in ordini contro
di quelli, e per pacificarli, con la prima legge agraria
concessero il "dominio bonitario", ritenendosi essi il "dominio
ottimo", o "sovrano famigliare": onde nacquero le prime
città sopra "ordini regnanti di nobili", e l'"ordine
civile". Finirono i regni divini: cominciarono gli eroici. La
religione fu custodita negli ordini eroici, e perciò gli
auspìci e i matrimoni, e per essa religione furono de' soli
eroi tutt'i diritti e tutte le ragioni civili. Ma "spiegandosi le
umane menti", i plebei intesero essere di egual natura umana co'
nobili, e vollero entrare anch'essi negli ordini civili delle
città, essere sovrani nelle città. Finisce
l'età eroica, comincia l'età umana, l'età
della eguaglianza, la "repubblica popolare", dove comandano gli
ottimi non per nascita, ma per virtù. In questo stato della
mente agli uomini non è più necessario fare le
azioni virtuose per "sensi di religione", perchè la
filosofia fa intendere le "virtù nella loro idea"; in forza
della quale riflessione, quando anche gli uomini non abbiano
virtù, almeno si vergognano de' vizi. Nasce la filosofia e
l'eloquenza, insino a che l'una è corrotta dagli scettici,
l'altra da' sofisti. Allora, corrompendosi gli stati popolari,
viene l'anarchia, il totale disordine, la peggiore delle
tirannidi, che è la sfrenata libertà de' popoli
liberi. I quali o cadono in servitù di un monarca, che
rechi in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza
delle armi; o diventano schiavi per "diritto natural delle genti",
conquistati con armi da nazioni migliori, essendo giusto che chi
non sa governarsi da sè si lasci governare da altri che il
possa, e che nel mondo governino sempre i migliori; o, abbandonati
a sè, in quella folla di corpi vivendo in una solitudine
d'animi e di voleri, seguendo ognuno il suo piacere e capriccio,
con disperate guerre civili vanno a fare selve delle città,
e delle selve covili d'uomini, e in lunghi secoli di barbarie
vanno ad "irrugginire le malnate sottigliezze degl'ingegni
maliziosi". Con questa "barbarie della riflessione" si ritorna
allo stato selvaggio, alla "barbarie del senso", e ricomincia con
lo stess'ordine una nuova storia, si rifà lo stesso corso.
Questa è la "storia ideale eterna", la
logica della storia, applicabile a tutte le storie particolari.
È in fondo la storia della mente nel suo spiegarsi, come
dice Vico, dallo stato di senso, in cui è come dispersa,
sino allo stato di riflessione, in cui si riconosce e si afferma.
L'operazione con la quale l'intelletto giunge alla verità
è la stessa operazione con la quale l'intelletto fa la
storia. Locke aveva il suo complemento in Vico. La teoria della
conoscenza aveva il suo riscontro nella teoria della storia. Era
una nuova applicazione della psicologia. Gli uomini operano
secondo i loro impulsi e fini particolari; ma "i risultati sono
superiori a' loro fini", sono risultati mentali, il successivo
progredire della mente nel suo spiegarsi. Perciò le
passioni, gl'interessi, gli accidenti, i fini particolari sono non
la storia, ma le occasioni, e gl'istrumenti della storia;
perciò una scienza della storia è possibile.
Machiavelli e Hobbes ti dànno la storia occasionale, non la
storia finale e sostanziale. La loro storia è vera, ma non
è intera, è frammento di verità. La
verità è nella totalità, nel vedere "cuncta
ea, quae in re insunt, ad rem sunt affecta", l'idea nella pienezza
del suo contenuto e delle sue attinenze. Machiavelli è non
meno di Vico un profondo osservatore de' fatti psicologici,
è un ritrattista, ma non è un metafisico. La
psicologia di Vico entra già nelle regioni della
metafisica, ti dà le prime linee della nuova metafisica,
fondata non sull'immobilità dell'ente guardato nei suoi
attributi, ma sul suo moto o divenire; perciò non
descrizione o dimostrazione, come te la dava Aristotile e Platone,
ma vero dramma, la storia dello spirito nel mondo. In questo
dramma tutto ha la sua spiegazione, tutto è allogato, la
guerra, la conquista, la rivoluzione, la tirannide, l'errore, la
passione, il male, il dolore, fatti necessari e strumenti del
progresso. Ciascuna età storica ha la sua guisa di nascere
e di vivere, la sua natura, onde procede la forza delle cose, la
sapienza volgare del genere umano, il senso comune delle genti, la
forza collettiva. Non è l'individuo, è questa forza
collettiva, che fa la storia; e spesso i più celebrati
individui non sono che simboli e immagini, "caratteri poetici" di
quella forza, come Zoroastro, Ercole, Omero, Solone. Cerchi un
individuo, e trovi un popolo; cerchi un fatto, e trovi un'idea.
Fabbro della storia è "l'umano arbitrio regolato con la
sapienza volgare".
Rimaneva a dare la dimostrazione di questa
storia ideale: dimostrare cioè che tutte le storie
particolari sono, secondo quella, regolate da uno stesso corso
d'idee, ubbidienti a un solo tipo. La prova poteva cercarla a
priori nella logica stessa dello spirito nel suo spiegarsi. Lo
spirito si estrinseca in conformità della sua natura, in
che è la sua logica, la legge del suo divenire, e quel
divenire è appunto la storia. Ma Vico, appena adombrate le
prime linee della nuova metafisica, si arresta sulla soglia, e
ritorna erudito, e cerca la prova a posteriori, consultando tutte
le storie, e cercando in tutte il suo corso, il suo sistema, e non
solo nelle grandi linee, ma ne' più minuti accidenti.
Impresa titanica di erudizione e critica italiana. E s'immerge
tra' "rottami dell'antichità", e raccoglie i minimi
frammenti, e li anima: "intus legit", li fa corpi interi,
ricostituisce la storia reale a immagine della sua storia ideale.
È il mondo guardato da un nuovo orizzonte, ricreato dalla
critica e dalla filosofia, e con la sua originalità
scolpita in quella potente forma, lapidaria e metaforica, come una
legge delle dodici tavole. Cerca tra quei rottami la prova della
"scienza nuova", e scopre per via nuove scienze. Lingua,
mitologia, poesia, giurisprudenza, religioni, culti, arti,
costumi, industrie, commercio, non sono fatti arbitrari, sono
fatti dello spirito, le scienze della sua Scienza. Cronologia,
geografia, fisica, cosmografia, astronomia, tutto si rinnova sotto
questa nuova critica. Ad ogni passo senti il grido trionfale del
gran creatore: - Ecco una nuova scoperta! - Alla metafisica della
mente umana, filosofia dell'umanità o delle idee umane,
onde scaturisce una giurisprudenza, una morale e una politica del
genere umano, corrisponde la logica, "fas gentium", una scienza
dell'espressione di esse idee, la filologia. Ecco dunque una
scienza delle lingue e de' miti e delle forme poetiche, una lingua
del genere umano, una teoria dell'espressione ne' miti, ne' versi,
nel canto, nelle arti. E come teoria e scienza non è che
"natura delle cose", e la natura delle cose è nelle "guise
di lor nascimenti"; l'uomo ardito, sgombro lo spirito d'ogni idea
anticipata e fidato al solo suo intendere; si addentra nelle
origini dell'umanità, guaste dalla doppia "boria" "delle
nazioni e de' dotti", e tu assisti alla prima formazione delle
società, de' governi, delle leggi, de' costumi, delle
lingue, vedi nascere la storia di entro la mente umana, e
svilupparsi logicamente da' suoi elementi o princìpi,
"religione, nozze, sepolture", svilupparsi sotto tutte le forme,
come governo, come legge, come costume, come religione, come arte,
come scienza, come fatto, come parola. La sua grande erudizione
gli porge infiniti materiali, che interpreta, spiega, alloga,
dispone, secondo i bisogni della sua costruzione, audace nelle
etimologie, acuto nelle interpretazioni e ne' confronti,
sicurissimo ne' suoi procedimenti e nelle sue conclusioni, e con
l'aria di chi scopre ad ogni tratto nuovi mondi, tenendo sotto i
piedi le tradizioni e le storie volgari. Così è nata
questa prima storia dell'umanità, una specie di Divina
Commedia, che dalla "gran selva della terra" per l'inferno del
puro sensibile si va realizzando tra via sino all'età umana
della riflessione o della filosofia; irta di forme, di miti, di
etimologie, di simboli, di allegorie, e non meno grande che
quella; pregna di presentimenti, di divinazioni, d'idee
scientifiche, di veri e di scoperte: opera di una fantasia
concitata dall'ingegno filosofico e fortificata dall'erudizione,
che ha tutta l'aria di una grande rivelazione.
È la Divina Commedia della scienza, la
vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta
ancora ingombra di vecchi frantumi dominati da uno spirito nuovo.
Platonico e cristiano, continuatore di Ficino e di Pico, uno di
spirito con Torquato Tasso, Vico non comprende la Riforma, e non i
tempi nuovi, e vuol concordare la sua filosofia con la teologia, e
la sua erudizione con la filosofia, costruire un'armonia sociale
come un'armonia provvidenziale. La sua metafisica ha sotto i pie
il globo, e gli occhi estatici in su verso l'occhio della
provvidenza, onde le piovono i raggi delle divine idee. Vuole la
ragione, ma vuole anche l'autorità, e non certo degli
"addottrinati", ma del genere umano; vuole la fede e la
tradizione; anzi fede e tradizione non sono che essa medesima la
ragione, "sapienza volgare". Tale era l'uomo formato nella
biblioteca di un convento; ma, entrando nel mondo de' viventi, lo
spirito nuovo l'incalza, e combattendo Cartesio, subisce
l'influenza di Cartesio. Era impossibile che un uomo d'ingegno non
dovesse sentirsi trasformare al contatto dell'ingegno. Tutto
dietro a costruir la sua scienza, gli si affaccia il "de omnibus
dubitandum" ed il "cogito":
"... in meditando i princìpi di questa
Scienza, dobbiamo... ridurci in uno stato di una somma ignoranza
di tutta l'umana e divina erudizione, come se per questa ricerca
non vi fussero mai stati per noi nè filosofi, nè
filologi, e chi si vuol profittare, egli in tale stato si dee
ridurre, perché nel meditarvi non ne sia egli turbato e
distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni."
Parole auree, che sembrano tolte da una pagina
del Metodo. E in questa ignoranza cartesiana, qual è
l'"unica verità", che fra tante dubbiezze non si può
mettere in dubbio, ed è perciò la "prima di siffatta
Scienza"? È il "cogito", è la mente umana.
"Poiché... il mondo delle gentili
nazioni... è stato... fatto dagli uomini, i di lui
princìpi si debbono ritruovare dentro la natura della
nostra mente umana e nella forza del nostro intendere."
La provvidenza e la metafisica, che
guarda in lei, sono nel gran quadro un semplice antecedente, o,
com'egli dice, un'"anticipazione", un convenuto e non dimostrato:
il quadro è la mente umana nella natura e nell'ordine della
sua esplicazione, la mente umana delle nazioni, la storia delle
umane idee. La provvidenza regola il mondo, assistendo il libero
arbitrio con la sua grazia, ed oltrepassando ne' suoi risultati i
fini particolari degli uomini; ma questi risultati provvidenziali
non sono più miracolo, sono scienza umana, sono lo
"schiarire delle idee", lo "spiegarsi della mente". Come Bruno,
Vico canta la provvidenza e narra l'uomo: non è più
teologia, è psicologia. Provvidenza e metafisica sono di
lontano, come sole o cielo, nello sfondo del quadro: il quadro
è l'uomo, e la sua luce, la sua scienza è in lui
stesso, nella sua mente. La base di questa scienza è
moderna, ci è Cartesio col suo scetticismo e col suo
"cogito". Ben talora, portato dall'alto ingegno speculativo,
spicca il volo verso la teologia e la metafisica, ma Cartesio
è là che lo richiama, e lo tiene stretto ne' fatti
psicologici. Nel quale studio del processo della mente
negl'individui e ne' popoli fa osservazioni così profonde e
insieme così giuste, che ben si sente il contemporaneo di
Malebranche, di Pascal, di Locke, di Leibnizio, il più
affine al suo spirito, e ch'egli chiama "il primo ingegno del
secolo". Nè solo è moderno nella base, ma nelle
conclusioni, mostrando nell'ultimo spiegarsi della mente
vittoriosi i princìpi de' nuovi filosofi. Perchè
corona della sua epopea storica è lo spiritualizzarsi delle
forme, il trionfo della filosofia, o della mente nella sua
"riflessione", la fine delle aristocrazie, e perciò de'
feudi e della servitù, la libertà e l'uguaglianza di
tutte le classi, come stato delle società "ingentilite e
umane", come ultimo risultato della coltura. È la teocrazia
e l'aristocrazia conquise dalla democrazia per il naturale
spiegarsi della mente, è l'affermazione e la glorificazione
dello spirito nuovo. Ma qui appunto Vico se ne spicca e rimane
solo in mezzo al suo secolo. Posto tra il mondo della sua
biblioteca, biblico-teologico-platonico, e il mondo naturale di
Cartesio e di Grozio, due assoluti, e impenetrabili come due
solidi, e che si scomunicavano l'un l'altro, cerca la
conciliazione in un mondo superiore, l'idea mobilizzata o storica,
e in una scienza superiore, la critica, l'idea analizzata e
giustificata ne' momenti della sua esistenza, la scienza uscita
dall'assolutezza e rigidità del suo dommatismo, e
mobilizzata come il suo contenuto. La critica è rifare con
la riflessione quello che la mente ha fatto nella sua
spontaneità. È la mente "spiegata e schiarita", che
si riflette sulla sua opera e vi trova se stessa nella sua
identità e nella sua continuità; è la
coscienza dell'umanità. In questo mondo superiore tutto si
move e tutto si riconcilia e si giustifica; i princìpi, che
i nuovi filosofi predicavano assoluti e perciò applicabili
in ogni tempo e in ogni luogo, e co' quali dannavano tutto il
passato, si riferiscono a stati sociali di certe epoche e di certi
luoghi; ed i princìpi contrari, appunto perchè in
certi tempi hanno governato il mondo e sono stati "comportevoli",
sono veri anch'essi, come anticipazioni e vestigi de'
princìpi nuovi. Perciò il criterio della
verità non è l'idea in sè, ma l'idea come si
fa o si manifesta nella storia della mente, il senso comune del
genere umano, ciò ch'egli chiama la "filosofia
dell'autorità". Qui Vico avea contro di sè Platone e
Grozio, il passato e il presente. La malattia del secolo era
appunto la condanna del passato in nome di princìpi
astratti, come il passato condannava esso in nome di altri
princìpi astratti. Vico era come chi, vivuto solitario nel
suo gabinetto, scenda in piazza d'improvviso, e vegga gli uomini
concitati, co' pugni tesi, pronti a venire alle mani. A lui quegli
uomini debbono sembrare de' pazzi da catena. - A che tanto furore
contro il passato? Il quale, appunto perchè è stato,
ha avuto la sua ragion d'essere. E poniamo pure sia tutto cattivo,
credete di poter distruggere con la forza l'opera di molti secoli?
I vostri princìpi! Ma credete voi che la storia si fa da'
filosofi e co' princìpi? La vostra ragione! Ma ci è
anche la ragione degli altri, uomini come voi, e che sanno
ragionare al pari di voi. E poi, un po' di rispetto, io credo, si
dee pure all'autorità. E non parlo di tanti dottori, ne'
quali non avete fede: parlo dell'autorità del genere umano,
al quale, se uomini siete non potete negar fede. Un po' meno di
ragione, e un po' più di senso comune. - Un discorso simile
sarebbe parsa una stranezza a quegli uomini pieni di odio e di
fede. E qualcuno poteva rispondergli: - Fàtti in là,
e sta' fra le tue nuvole, e non venire fra gli uomini, chè
non te ne intendi. Il passato tu lo hai studiato su' libri:
è la tua erudizione. Ma il passato è per noi cosa
reale, di cui sentiamo le punture ad ogni nostro passo. Il fuoco
ci scotta, e tu ci vuoi provare che, perchè è, ha la
sua ragion di essere. Lascia prima che noi lo spengiamo, e poi ci
parla della sua natura. Quando ci avremo tolto di dosso codesto
passato, nostro martirio e de' padri nostri, forse allora potremo
essere giusti anche noi e gustar la tua critica. - Vico rimase
solo nel secolo battagliero; e quando la lotta ebbe fine si
alzò come iride di pace la sua immagine su' combattenti, e
comunicò la parola del nuovo secolo: "critica". Non
più dommatismo, non più scetticismo: critica.
Nè altro è la storia di Vico che una critica
dell'umanità: l'idea vivente fatta storia e, nel suo eterno
peregrinaggio seguita, compresa, giustificata in tutt'i momenti
della sua vita. I princìpi, come gl'individui e come la
società, nascono, crescono e muoiono, o piuttosto,
poichè niente muore, si trasformano, pigliando forme sempre
più ragionevoli, più conformi alla mente, più
ideali. Indi la necessità del progresso, insita nella
stessa natura della mente, la sua fatalità. La teoria del
progresso è per Vico come la terra promessa. La vede, la
formula, stabilisce la sua base, traccia il suo cammino, diresti
che l'indica col dito, e quando non gli resta a fare che un passo
per giungervi, la gli fugge dinanzi, e riman chiuso nel suo
cerchio e non sa uscirne. Poneva le premesse e gli fuggiva la
conseguenza. Gli è perchè, profondo conoscitore del
mondo greco-romano, non seppe spiegarsi il medio evo, e non
comprese i tempi suoi, parendogli indizio di decadenza e di
dissoluzione quella vasta agitazione religiosa e politica, in cui
era la crisi e la salute. D'altra parte lui, che negava
l'esistenza di Omero, non osò sottoporre alla sua critica
il mito di Adamo e le tradizioni bibliche e il dogma della
provvidenza e la missione del cristianesimo, lasciando grandi
ombre nelle sue pitture. Vedi la coscienza moderna rilucere nel
mondo pagano, ardita nelle sue negazioni e nelle sue spiegazioni,
e, quando sta per entrare nel mondo inquieto e appassionato de'
vivi, chiudere gli occhi per non vedere. Ciò che è
proprio de' grandi pensatori; aprire le grandi vie, stabilire le
grandi premesse, e lasciare a' discepoli le facili conseguenze.
Come Cartesio, Vico non indovinò i formidabili effetti che
doveano uscire dalle sue speculazioni. Cartesio avrebbe rinnegati
per suoi Spinosa e Locke, e Vico Condorcet, Herder ed Hegel.
Poichè si occupa più degli antichi che de' moderni,
più de' morti che de' vivi, i vivi lo dimenticarono. La sua
Scienza parve più una curiosa stranezza di erudito, che una
profonda meditazione di filosofo, e non fu presa sul serio.
Intanto il secolo camminava con passo sempre
più celere, tirando le conseguenze dalle premesse poste nel
secolo decimosettimo. La scienza si faceva pratica, e scendeva in
mezzo al popolo. Non s'investigava più: si applicava, e si
divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica, e diveniva
letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi del
latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie,
lettere, racconti, articoli, dialoghi, aneddoti; forme scolastiche
e forme geometriche davano luogo al discorso naturale, imitatore
del linguaggio parlato. La scienza prendeva aria di conversazione,
anche negli scrittori più solenni come Buffon e
Montesquieu, conversazione di uomini colti in sale eleganti. Per
dirla con Vico, la "sapienza riposta" diveniva "sapienza volgare",
e, scendendo nella vita, prendeva le passioni e gli abiti della
vita: ora amabile e spiritosa, come in Fontenelle, ora limpida,
scorrevole, facile, come in Condillac e in Elvezio; ora rettorica
e sentimentale, come in Diderot. Il "dritto naturale" di Grozio
generava il Contratto sociale, la società era dannata in
nome della natura, e l'erudita dissertazione di Grozio ruggiva
nella forma ardente e appassionata di Rousseau. Lo scetticismo un
po' impacciato di Bayle, velato fra tante cautele oratorie, si
apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire. L'erudizione e
la dimostrazione gittavano le loro armi pesanti e divenivano un
amabile senso comune. La scienza diveniva letteratura, e la
letteratura a sua volta non era più serena contemplazione,
era un'arma puntata contro il passato. Tragedie, commedie,
romanzi, storie, dialoghi, tutto era pensiero militante che dalle
alte cime della speculazione scendeva in piazza tra gli uomini, e
si propagava a tutte le classi e si applicava a tutte le
quistioni. Le sue forme, filosofia, arte, critica, filologia,
erano macchine di guerra e la macchina più formidabile fu
l'Enciclopedia. Condorcet proclamava il progresso. Diderot
proclamava l'ideale. Elvezio proclamava la natura. Rousseau
proclamava i dritti dell'uomo. Voltaire proclamava il regno del
senso comune. Vattel proclamava il dritto di resistenza. Smith
glorificava il lavoro libero. Blackstone rivelava la Carta
inglese. Franklin annunziava la nuova "carta" all'Europa. La
società sembrava un caos, dove la filosofia dovea portare
l'ordine e la luce. Una nuova coscienza si formava negli uomini,
una nuova fede. Riformare secondo la scienza istituzioni, governi,
leggi e costumi, era l'ideale di tutti, era la missione della
filosofia. I filosofi acquistarono quella importanza che ebbero al
secolo decimosesto i letterati. Maggiore era la fede in questo
avvenire filosofico, e più viva era la passione contro il
presente. Tutto era male, e il male era stato tutto opera
maliziosa di preti e di re, nell'ignoranza de' popoli.
"Superstizione", "pregiudizio", "oppressione" erano le parole, che
riassumevano innanzi alle moltitudini tutto il passato.
"Libertà, uguaglianza, fraternità umana" erano il
verbo, che riassumeva l'avvenire. Tutto il moto scientifico dal
secolo decimosesto in qua aveva acquistata la semplicità di
un catechismo. La rivoluzione era già nella mente.
Che cosa era la rivoluzione? Era il
Rinnovamento che si scioglieva da ogni involucro classico e
teologico, e acquistava coscienza di sè, si sentiva tempo
moderno. Era il libero pensiero che si ribellava alla teologia.
Era la natura che si ribellava alla forza occulta, e cercava ne'
fatti la sua base. Era l'uomo che cercava nella sua natura i suoi
dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza, il popolo, che
sorgeva sulle rovine del papato e dell'impero. Era una nuova
classe, la borghesia, che cercava il suo posto nella
società sulle rovine del clero e dell'aristocrazia. Era la
nuova "carta", non venuta da concessioni divine o umane, ma
trovata dall'uomo nel fondo della sua coscienza, e proclamata in
quella immortale Dichiarazione de' dritti dell'uomo. Era la
libertà del pensiero, della parola, della proprietà
e del lavoro, l'eguaglianza de' dritti e de' doveri. Era la fine
de' tempi divini ed eroici e feudali, il rivelarsi di quella
"età umana", così ammirabilmente descritta da Vico.
Il medio evo finiva: cominciava l'evo moderno.
E che cosa era questa vecchia società,
soprapposta a tutto il resto? Ci era alla cima il papato assoluto
e la monarchia assoluta, che si pretendevano amendue di dritto
divino, ed erano stampati sullo stesso modello. Il papato
pretendea ancora al dominio universale, ma in parola e conscio
della scemata possanza. Pur si facea valere mediante i gesuiti, e
mantenea vigorosamente la sua influenza e la sua giurisdizione in
tutti gli Stati. Come re, il papa governava in modi così
assoluti come tutti i monarchi. L'assolutismo dominava in tutta
Europa. Quello che era la corte romana al Cinquecento, erano
allora tutte le corti: scostumatezza, dissipazione, ignoranza. I
conventi screditati, chiamati "covi del vizio", "asilo dell'ozio e
dell'ignoranza". Il clero, scemato di coltura e di riputazione,
aumentato di numero e di ricchezza. I vescovi, adulatori in corte,
tiranni nelle diocesi, signori feudali. I nobili, a' piedi del
trono, e co' piedi sopra i vassalli. Altare e trono, appoggiati
sul clero e sulla nobiltà: lì era la libertà,
lì era il dritto; tutto il resto era poco o meno che cosa,
e valeva assai poco. La fonte del dritto era nella concessione
papale o sovrana: era investitura, privilegio, immunità,
esenzione. Le leggi erano un caos. Leggi romane, longobarde,
canoniche, feudali, usi, costumanze. Un altro caos erano le
imposte. Ce n'erano del papa, del clero, de' baroni, del re, sotto
molti nomi e molte forme. Che cosa era il popolo? Materia
"taillable et corvèable a merci". Nessuna sicurezza per le
proprietà e le persone, nessuna protezione nelle leggi,
nessuna guarentigia nei giudizi, secrete le procedure,
sproporzionate e arbitrarie le pene. Si può dire di quella
vecchia società quello che allora già si diceva
della proprietà feudale. Era manomorta, l'uomo così
immobilizzato, come la terra. La palude non era solo nel
territorio, era nel cervello.
Dirimpetto a queste classi privilegiate,
cristallizzate dal dommatismo, cioè a dire da un complesso
d'idee ammesse per tradizione e fuori di ogni discussione, sorgeva
lo scetticismo della borghesia, che tutto ponea in dubbio, di
tutto facea discussione. La borghesia faceva in grandi proporzioni
quello che prima compirono i comuni italiani. Era il "medio ceto",
avvocati, medici, architetti, letterati, artisti, scienziati,
professori, prevalenti già di coltura, che non si
contentavano più di rappresentanze nominali, e volevano il
loro posto nella società. Non è già che si
affermassero anch'essi come classe, e volessero privilegi.
Volevano libertà per tutti, uguaglianza di dritti e doveri,
parlavano in nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel
fatto erano essi la classe predestinata, e in buona fede, parlando
per tutti, lavoravano per sè. La loro arma di guerra era lo
scetticismo. Alla fede e all'autorità opponevano il dubbio
e l'esame. Oggi è moda declamare contro lo scetticismo.
Pure non dobbiamo dimenticare che di là uscì
l'emancipazione del pensiero umano. Esso cancellò
l'intolleranza religiosa, la credulità scientifica, e la
servilità politica.
Il movimento, che usciva dalle fila della
borghesia, non era solo popolare, cioè nelle sue idee e
nelle sue tendenze comune a tutte le classi, ma era ancora
cosmopolitico, o, come si dice oggi, "internazionale". L'accento
era umano, più che nazionale. L'America e l'Europa si
abbracciavano in un linguaggio che esprimeva idee e speranze
comuni; lo svizzero, l'olandese, il francese, il tedesco,
l'inglese parevano nati nello stesso paese, educati alle stesse
idee. Il movimento era universale nel suo obbiettivo e nel suo
contenuto. L'obbiettivo erano tutte le classi e tutte le nazioni.
Il contenuto era non solo una riforma religiosa, politica, morale
e civile, ma un radicale mutamento nelle stesse condizioni
economiche della società, ciò che oggi direbbesi
"riforma sociale", correndo nel suo lirismo sino alla comunione
de' beni. Nato dal costante lavoro di tre secoli, il movimento per
la sua universalità contenea in idea o in germe tutta la
storia futura del mondo pel corso di molti secoli. Pure,
ciò che era appena un principio, sembrava esser la fine:
tanto parea cosa facile effettuare di un colpo tutto il programma.
Dove il movimento si mostrava più
energico e concentrato, e di natura assolutamente cosmopolitica,
era in Francia. Ed essendo la lingua francese già molto
divulgata, la propaganda era irresistibile. Nelle altre nazioni
appariva appena, e nelle sue forme più modeste.
La forma più temperata di questo
movimento era l'antica lotta tra papato e impero, divenuta lotta
giurisdizionale tra la corte romana e le monarchie. In questo
terreno i novatori avevano per sè i principi, e all'ombra
loro spandevano le nuove idee. I giureconsulti stavano per antica
tradizione coi principi, e difendevano i loro dritti contro la
Chiesa con una dottrina ed un acume non scevro di sottigliezza
sofistica: erano i liberali di quel tempo, e fu loro opera che le
nuove idee si dilatassero nella classe colta. Nel campo avverso
erano i gesuiti, inframmettenti, intolleranti, che invelenivano la
lotta e ne allargavano le proporzioni. Erano essi lo sprone che
stuzzicava l'ingegno. In quel contrasto si formò Paolo
Sarpi; da quel contrasto uscirono le Provinciali di Pascal, e il
giansenismo e la scuola di Portoreale e le libertà
gallicane, preludi di quel movimento, che prendeva allora in
Francia proporzioni così vaste. Ma in Italia il movimento
iniziato con tanta larghezza e ardire nel Cinquecento, arrestato e
snaturato dalla reazione trentina, si manteneva ancora in quella
forma, era lotta giurisdizionale tra papa e principi. Il pensiero
era ito molto innanzi, ma in pochi o tra pochi: ci erano fantasie
solitarie; mancava l'eco, non ci era ancora la moltitudine. Ma il
movimento in quella forma così circoscritta guadagnava
terreno, e costituiva un vero partito politico, intorno al quale
stava schierata tutta la borghesia. Era un liberalismo a buon
mercato, via a fortuna e favori principeschi, quando rimaneva in
quei limiti, e, attaccando curia e gesuiti, si mostrava riverente
al papa e alla Chiesa. In Napoli la coltura avea preso questo
aspetto, e mentre il buon Vico fantasticava una storia
dell'umanità e andava col pensiero così lungi,
fervea la lotta giurisdizionale, dov'erano principali attori
giureconsulti eminenti, Capasso, D'Andrea, D'Aulisio, Argento,
Pietro Giannone. I gesuiti cercavano appoggio nell'ignoranza
popolare, e li predicavano empi e nemici del papa. L'avevano
principalmente contro il Giannone, e tanto gli aizzarono contro il
minuto popolo, che fu più volte a rischio della vita.
Scomunicato dall'arcivescovo, per aver lasciato stampar la sua
Storia senza il suo permesso, riparò a Vienna, nè
osò più tornare a Napoli, ancorchè
l'arcivescovo ci avesse avuto torto, e fosse stata ritrattata la
scomunica. I giureconsulti sostenevano bastare per la stampa la
licenza regia, non avere alcun valore la proibizione
ecclesiastica, ed essere invalide le scomuniche senza fondamento
di ragione. Era il libero esame applicato alla giurisdizione e
agli atti ecclesiastici. E ci era sotto altro, lo spirito laico
che si ridestava, e lo spirito borghese che si annunziava, il
medio ceto, che all'ombra del principe, interessato anche lui
nella lotta, si facea valere così contro la nobiltà,
come e più contro il clero.
Da questa lotta uscì la Storia civile
del regno di Napoli, e più tardi il Triregno, di Pietro
Giannone. La Storia per la sua universalità fu tradotta in
molte lingue, riguardando principalmente la quistione
giurisdizionale, ardente in tutti gli Stati cattolici. Giannone
lasciò gli argomenti e venne a' fatti, prendendo il potere
temporale fino nelle origini, e seguendolo ne' suoi ingrandimenti
e nelle sue usurpazioni. È una requisitoria, tanto
più formidabile, quanto maggiore è la calma
dell'esposizione istorica e l'imparzialità continuamente
ostentata dell'erudizione e della dottrina. Non mancano sarcasmi e
punture, ma protesta sempre che è contro gli abusi e le
esorbitanze, e affetta il maggior rispetto verso le istituzioni.
Vedi prominente l'universalità della Chiesa, tutta la
comunione dei fedeli, insino a che sorge usurpatore l'episcopato,
assorbito a sua volta dal papato. Il concetto è questo, che
il dritto è nella universalità de' fedeli: è
la democrazia applicata alla Chiesa. Ma il concetto democratico
è annacquato in quest'altro, che i principi, come capi
della società laica, hanno ereditato i suoi dritti. Il
popolo sparisce, ed entra in iscena Cesare con quel famoso motto:
"Date a Cesare quel che è di Cesare". I gesuiti ritorcevano
l'argomento, sostenendo che la fonte del dritto non è ne'
principi, ma ne' popoli. Così democratizzavano i gesuiti
per difendere il papato, e democratizzavano i giannonisti per
combattere il papato. Erano inconseguenti gli uni e gli altri, e
la vera conseguenza doveva tirarla il popolo contro il papato e la
monarchia assoluta. S'immagini quale propaganda inconscia
facevano. Era facile conchiudere, che se la fonte del dritto
è nel popolo, sovrana legittima è la democrazia,
l'universalità de' fedeli e l'universalità de'
cittadini. Il vero padrone mettea il capo fuori, salutando gesuiti
e giannonisti come suoi precursori, benemeriti tutti e due,
perchè lavoravano gli uni a scalzare il principato
assoluto, gli altri a scalzare il papato assoluto. Erano
"istrumenti della provvidenza", avrebbe dettoVico, la quale tirava
dall'opera loro risultati superiori a' loro fini.
Si era sempre parlato dell'età primitiva
della Chiesa. Una immagine confusa ne rimanea alle moltitudini,
come dell'età dell'oro Dante, Machiavelli, Sarpi,
Campanella richiamavano la Chiesa a quei tempi evangelici,
più conformi alla purità del Vangelo. Quello era
anche il cavallo di battaglia per gli eretici. Ecco quella
età divenuta storia particolareggiata, accertata e in buono
e chiaro volgare nelle pagine del Giannone. I primi tre secoli
della Chiesa sono descritti coll'immaginazione vòlta alla
Chiesa di quel tempo. Scrittore e lettore facevano il paragone. Di
mezzo alla narrazione germogliava l'allusione, la confutazione,
l'epigramma. Allora la gerarchia era molto semplice, e non ci
erano che vescovi, preti, e diaconi, e i preti non erano soggetti
a' vescovi, ma erano il loro senato, i loro consiglieri, e alla
cima non ci era nessuno che comandasse: comandava il sinodo,
l'assemblea de' vescovi. La legge era la sacra Scrittura; i
provvedimenti presi nei sinodi erano semplici regolamenti per
l'amministrazione delle chiese, e non ci era la ragion canonica,
"la quale, col lungo correr
degli anni, emula della ragion civile, maneggiata da' romani
pontefici, ardì non pur pareggiare, ma interamente
sottomettersi le leggi civili".
La Chiesa non avea alcuna giurisdizione: la sua
giustizia era chiamata "notio", "iudicium", "audientia", non
"iurisdictio"; ed era censura di costumi, e arbitrato volontario.
Clero e popolo eleggevano i vescovi, e anche nell'elezione de'
preti e de' diaconi clero e popolo vi avevano lor parte. La Chiesa
vivea di offerte volontarie, non avea stabili, e non decime
Ciò che soverchiava, si dava a' poveri. Tale era la Chiesa
primitiva:
"ma assai mostruosa e con
più strane forme sarà mirata nell'età meno a
noi lontane, quando, non bastandole d'avere in tante guise
trasformato lo stato civile e temporale de' principi, tentò
anche di sottoporre interamente l'imperio al sacerdozio."
I monaci erano pochi, solitari, e religiosi, ma
la corruzione venne subito, e
" non senza stupore scorgerassi
come in queste nostre provincie abbiano potuto germogliar tanti e
sì vari ordini, fondandovi sì numerosi e magnifici
monasteri, che ormai occupano la maggior parte della repubblica e
de' nostri averi, formando un corpo tanto considerabile, che ha
potuto mutar lo stato civile e temporale di questo nostro reame."
Come non avea la Chiesa giustizia contenziosa
nè giurisdizione, così non avea foro, nè
territorio; perchè ciò "non dipende dalle chiavi,
nè è di diritto divino, ma più tosto di
diritto umano e positivo, procedendo dalla concessione o
permissione de' principi temporali, ai quali solamente "Dio ha
dato in mano la giustizia", come dice il Salmista: "Deus iudicium
suum regi dedit". Nè avea potere d'imponer pene afflittive
di corpo, d'esilio, e molto meno di mutilazione di membra o di
morte; e ne' delitti più gravi di eresia toccava a'
principi di punire con temporali pene i delinquenti. Degli abusi
della Chiesa spettava il rimedio a' principi, che facevano leggi
per porvi un freno, specialmente per gli acquisti de' beni
temporali; e "i padri della Chiesa", come sant'Ambrogio e san
Girolamo, "non si dolevano di tali leggi, nè che i principi
non potessero stabilirle, nè lor passò mai per
pensiero che per ciò si fosse offesa l'immunità o
libertà della Chiesa". Federico secondo proibì
l'acquisto de' beni stabili alle chiese, monasteri, templari ed
altri luoghi religiosi.
"Ma essendosi nel tempo degli
Angioini introdotte presso di noi altre massime, che persuasero
non potere il principe rimediare a questi abusi, e riputata
perciò la costituzione di Federico empia ed ingiuriosa
all'immunità delle chiese si ritornò a' disordini di
prima. E se la cosa fosse stata ristretta a que' termini, sarebbe
stata comportabile; ma da poi si videro le chiese e i monasteri
abbondare di tanti stati e ricchezze, ed in tanto numero, che
piccola fatica resta loro d'assorbire quel poco ch'è rimaso
in potere de' secolari."
Il potere temporale "appartiene allo Stato in
corpo"; ma i principi hanno guadagnata e ottenuta la signoria in
tutt'i paesi del mondo. E, se il romano pontefice e i prelati
della Chiesa hanno "potere temporale", non è già
"perchè fosse stato prodotto
dalla sovranità spirituale, e fosse una delle sue
appartenenze necessarie, ma si è da loro acquistato di
volta in volta per titoli umani, per concessioni di principi, o
per prescrizioni legittime, non già apostolico iure, come
dice san Bernardo: "Nec enim ille tibi dare quod non habebat,
potuit".
Questo quadro della Chiesa primitiva
accompagnato con tali riscontri ti dà come in iscorcio
tutto il processo della storia. La lotta tra le leggi canoniche e
le civili è come il centro di un vasto ordito, che
abbraccia tutta la storia della legislazione, illuminata dalla
storia de' governi e delle mutazioni politiche. Vico e Giannone
erano contemporanei. Giannone era di otto anni più giovane.
Ma non parlano l'uno dell'altro, come non si conoscessero. Pure
lavoravano su di un fondo comune, le leggi, e riuscivano per
diversa via alle stesse conclusioni. L'uno era il filosofo,
l'altro lo storico del mondo civile. Tutti e due avvocati
mediocri, profondi giureconsulti. Vico si tenea alto nelle sue
speculazioni filosofiche e nelle sue origini, e non scendeva in
mezzo agl'interessi e alle passioni, e passò inosservato.
Ma grandissima fu la fama e l'influenza dell'altro, perchè
scende nelle quistioni più delicate di quel tempo, ed
è scrittore militante, animato dallo stesso spirito de'
combattenti. Parla ardito, e già con quel motteggio, che
era proprio del secolo: sente dietro di sè tutta la sua
classe, e tutti gli uomini colti. La persecuzione fece di lui un
eroe, lo confermò nella sua via, lo spinse fino al
Triregno, la più radicale negazione del papato e dello
spiritualismo religioso, a volerne giudicare da' sunti. Il
manoscritto fu seppellito negli archivi dell'Inquisizione. Il suo
motto era: - Bisogna demolire il regno celeste -. Non gli basta
più la polizia ecclesiastica: vuole colpire il papato nella
sua radice, rompendo il legame che stringe gli uomini al cielo. Fa
perciò una storia del regno celeste, come prima avea fatto
una storia delle leggi ecclesiastiche; e, come questa è il
centro di un quadro più vasto, quella è il centro di
un quadro che abbraccia tutta l'umanità. Mostrare i dogmi
nella loro origine, nelle loro alterazioni, nella loro negazione,
scuotere la fede nel dogma della risurrezione degli uomini: questo
fa con grande erudizione e con sottili considerazioni. Ma
l'ambiente in Italia non era ancora tale, che vi potessero trovar
favore idee così radicali, elaborate a Vienna e a Ginevra.
La coltura avea sviluppato l'ingegno, ma non avea ancora formato
il carattere. In Giannone stesso l'uomo era inferiore allo
scrittore. Nè i tempi erano così feroci nella
persecuzione, e così assoluti nella proibizione, che
rendessero possibili le disperate resistenze sino al martirio. Ci
era una mezza libertà, e perciò una mezza
opposizione. Ci era il liberalismo del medio ceto, rivolto contro
i baroni e i chierici, favorito dal sovrano, e perciò in
certi limiti cortigiano, ipocrita, e, come si dice oggi, in guanti
gialli. Un saggio delle idee di quel tempo e di questo modo di
opposizione ce lo dà il seguente brano di uno scrittore
napolitano di quella età:
"La giusta idea che fossero i chierici ministri
del regno del cielo gli aveva esentati da tutt'i pesi del regno
della terra; e la cura destinata loro delle anime e del culto
divino gli ha oltre misura arricchiti di beni e privilegi in
questo mondo. Non è già nostra intenzione di
diminuire in nulla la vantaggiosa opinione del clero presso il
popolo: quEi ministri della religione li rispettiamo nel fondo del
cuore. La religione è una delle prime leggi fondamentali
dello Stato; e il senso di tali leggi non deve mai formare
l'oggetto della discussione del semplice cittadino. Al consiglio
del sovrano appartiene il decidere delle loro inutilità e
vantaggi; siccome la sua suprema potestà ne crea o depone i
ministri, ne fissa o sospende l'esercizio, i riti, le funzioni, ne
spiega o vela le dottrine, o le vendica, altera ed abroga,
conformemente a' lumi che su di ciò la divinità, di
cui è il rappresentante, gl'ispira. Dico la
"divinità", perchè altrimenti che significherebbe
quel "Dei gratia rex"? Ascoltare e ubbidire, ecco in questo caso
il dovere del suddito. Ma la religione, e soprattutto la vera
religione, ordina agli uomini di amarsi, vuole che ciaschedun
popolo abbia le migliori leggi politiche, le migliori leggi
civili. Ella impone a' suoi ministri l'osservanza di queste leggi.
Essi devono dare l'esempio: la loro condotta è la base
della purità delle coscienze de' popoli. Ma, parlando a
cuore aperto, hanno eglino da più secoli mai dato, o danno
tuttora un tale esempio? Le loro immunità personali,
l'esenzione de' loro beni da' tributi, le giurisdizioni usurpate,
gl'immensi acquisti sorpresi, la maniera rigogliosa con la quale
hanno sempre sostenuto tali giurisdizioni ed acquisti, le dottrine
bizzarre da loro insegnate a tal fine, e tanti altri loro pretesi
privilegi, dritti e riguardi non sono nel fondo tante manifeste
infrazioni delle leggi politiche e civili? Essi sono troppo
ragionevoli onde volere sottrarsi all'evidenza di questo
argomento. Noi non parliamo a' sacerdoti di Cibele o di Bacco, e
molto meno ai preti di Hume e di Rousseau: noi ci lusinghiamo di
ragionare co' ministri della vera religione, e fra questi
soprattutto con quei d'Italia, li quali si son quasi sempre
distinti per l'affabilità e dolcezza del loro carattere,
non meno che per l'aborrimento pel bigottismo e l'intolleranza.
Non vi ha una contea, baronia o altro simile feudo, non vi ha una
rendita stabile e fissa, un'abitazione comoda e decorosa destinata
a compensare i sudori di un ministro di Stato, di un presidente,
di un consigliere o di un generale; dove tanti guardiani, priori,
vescovi ed abati possedono sotto questo titolo de' pingui feudi e
rendite fisse intatte da' pesi de' sovrani ed intangibili, e le
loro abitazioni fanno scorno a quelle de' principi. I frati,
comechè giurino solennemente di osservare una maggior
povertà del clero secolare, sono andati più oltre
nell'accumulare, e han tolto a' poveri secolari i mezzi da potere
sussistere. In coscienza potrebbono essi occupare
nell'università le cattedre, nella Corte le cariche, nelle
parrocchie i pulpiti, e fino nelle case l'intendenza degli affari
domestici? Potrebbero senz'arrossire far da speziale, da mercante
e da banchiere? In quanto al loro numero, è divenuto
così eccessivo, che, se i principi non vi mettono presto
rimedio, il loro vortice inghiottirà l'intiero Stato. Onde
viene che il minimo villaggio d'Italia debba esser retto da
cinquanta o sessanta preti, senza contare gl'iniziati di altro
rango. Le città vi pullulano di campanili e i conventi
fanno ombra al sole. Vi ha in qualcheduna di esse venticinque
conventi di frati o suore di san Domenico, sette collegi di
gesuiti, altrettante case di teatini, una ventina o trentina di
monasteri di frati francescani, forse cinquanta altri di diversi
ordini religiosi di ambi i sessi, e più di quattro o
cinquecento altre chiese e cappelle di minor conto; ma non vi sono
all'incontro che trentasei smilze parrocchie, verun osservatorio
astronomico, verun'accademia di pittura, di scoltura, di
architettura, di chirurgia, di agricoltura e di altre arti e
scienze, veruna buona fabbrica di panni o di tele, veruna buona
manifattura di seta o di cotone, veruna biblioteca appartenente al
pubblico, verun orto botanico o gabinetto di curiosità
naturali o teatro anatomico, veruna cura per rendere i porti
netti, le strade comode ed agiate, gli alberghi propri e le
città illuminate, il commercio più vivo. Pensano i
chierici di dover sempre sentire i comodi della società
senza mai sentirne alcun peso? che la bilancia penderà
sempre a lor favore? che non vi sarà mai da sperar
l'equilibrio?"
Pittura viva di quel tempo nelle sue idee e nel
suo linguaggio Si sente a mille miglia il laico, il borghese e
l'avvocato. Il sovrano è per lui l'infallibile. Dovere del
suddito è "ascoltare" e "ubbidire". Rispetta la religione;
ha il maggiore ossequio verso i suoi ministri; li accarezza anche;
e fra tante dolcezze che botte da orbo! Il suo dispetto è
che quelli sieno così ricchi; e lui, cioè loro, fra
tante strettezze. Se anche loro avessero un feudo, passi. Ci si
vede l'effetto della coltura. Il confronto fra tante chiese e
conventi, e tanta negligenza di scienze, arti, industrie e
commerci, è eloquente. Si sente il progresso dello spirito
con un carattere ancora volgare. L'animo è ancora servile,
lo spirito si è emancipato. Tali erano i giureconsulti, da'
quali usciva il movimento liberale, in quella forma un po'
grottesca, tra l'insolenza verso il prete e la servilità
verso il sovrano. Pure, teneri com'erano delle leggi, doveano
essere portati naturalmente, per necessità della loro
professione, a combattere l'arbitrio non solo ne' chierici, ma
anche ne' laici, e a promovere una monarchia non più
assoluta, ma legale, se non liberale. Questa tendenza è
già manifesta in Giannone. Adora le leggi romane, ma adora
innanzi tutto la legge, ed è inesorabile verso l'arbitrio:
"Fin da' primi tempi - egli dice - della
repubblica niente altro bramavasi dalla licenziosa gioventù
romana, salvo che non esser governati dalle leggi, ma che dovesse
al re ogni cosa rimettersi ed al suo arbitrio, Né
ciò per altra ragione se non per quella che... vien
rapportata da Livio: "Regem hominem esse, a quo impetres, ubi ius,
ubi iniuria opus sit. Leges rem surdam, inexorabilem esse".
Sentimenti pur troppo licenziosi e dannevoli. Meglio sarà
che nella repubblica abbondino le leggi, che rimetter tutto
all'arbitrio de' magistrati."
Così la quistione ecclesiastica si
allargava, e diveniva quistione legale, combattere l'arbitrio
sotto ogni forma. Le usurpazioni de' nobili e de' chierici erano
contrastate come illegittime, contrarie alle leggi politiche e
civili. E del pari erano biasimati gli atti arbitrari nelle
autorità secolari, e anche nel monarca. In questo pendio si
andava molto innanzi. Arbitrio erano non solo gli atti fuori delle
leggi, ma le leggi stesse non conformi a giustizia ed
equità. Gli scrittori cominciarono a notare tutt'i
disordini e abusi nelle leggi civili e criminali, e i principi
lasciavano dire, perchè non si toccava della forma de'
governi, nè era messa in dubbio la loro potestà,
anzi si facea loro appello per isradicare gli abusi. Il moto
liberale in Italia non veniva dalla filosofia o da "ragioni
metafisiche", come dicea Giannone, ma da un intimo sentimento di
legalità e di giustizia. Al Cinquecento il motto de'
riformatori era la "corruttela de' costumi". Allora fu
l'"ingiustizia delle leggi". Quel moto era religioso ed etico,
questo era politico, quello stesso moto sviluppato nelle sue
premesse e allargato nelle sue conseguenze.
Il movimento, rimasto in gran parte speculativo
e senza immediate applicazioni in Bruno, in Campanella, in Vico,
quasi ancora un'utopia, allargandosi nella classe colta, si
concretava nello scopo e ne' mezzi, per opera principalmente de'
giureconsulti. Scopo era combattere i privilegi ecclesiastici e
feudali in nome dell'eguaglianza, combattere l'arbitrio in nome
della legge, e riformare la legge in nome della giustizia e
dell'equità. La leva era il principato civile, elemento
laico, legale e riformatore, sul quale si appoggiavano le speranze
de' novatori. Le idee erano sviluppate con grande erudizione, con
molta sottigliezza d'interpretazioni e di argomentazioni, come di
gente avvezzata alle dispute forensi. In Germania il movimento era
appena spuntato, rimasto nelle alte regioni della speculazione. Il
sensismo di Locke avea generato lo scetticismo di Hume, e n'era
nata una nuova speculazione sull'intelletto umano, una filosofia o
una critica dell'intelletto, del quale Locke avea scritta la
storia. Kant e poi Fichte concentravano lo spirito in quegli ardui
problemi, e attendevano a gittare profonde le radici prima di
alzare l'albero; pensavano alla base, sulla quale dovea sorgere la
civiltà nazionale. Di questi filosofi in Italia era appena
penetrato Locke, e in una traduzione mutilata dalla censura. Il
movimento, come si andava sviluppando nell'Inghilterra e in
Germania, aveva appena qualche eco in Italia, anzi anche
colà penava a farsi via, dominato dagl'influssi francesi.
La Francia era la grande volgarizzatrice delle idee dal secolo
anteriore elaborate: era non la dimostrazione, ma l'epilogo; non
la ricerca, ma la formola; non la speculazione, ma l'applicazione;
la scienza già assodata ne' suoi princìpi e divenuta
catechismo, in una forma letteraria e popolare, che rendeva la
propaganda irresistibile. La negazione giungeva all'ultima sua
efficacia nell'ironia bonaria di Voltaire, con tanto buon senso
sotto tanta malizia. L'affermazione giungeva alla precisione di un
catechismo in Rousseau, che combatteva quella società
convenzionale in nome della società naturale, dalla quale
scaturivano i dritti dell'uomo, il suffragio universale e la
sovranità del popolo. Già la sua non era quasi
più una speculazione filosofica: era una bibbia, filosofia
divenuta sentimento, e calata nell'immaginazione. Montesquieu
sollevava i più ardui problemi di politica e di
legislazione, in una forma incisiva, la quale, più che
scienza, era sapienza condensata e formolata. Intorno a questi
centri si aggruppavano gli enciclopedisti, e una moltitudine di
scrittori diversi d'ingegno e di coltura, ma tenuti tutti a quel
tempo grandi uomini. Ben presto non ci fu più uomo colto in
Italia che non li leggesse avidamente.
Abbondarono i "filosofi", i "filantropi" e gli
"spiriti forti", i nuovi nomi de' liberali o degli uomini nuovi, o
novatori. I filosofi erano filantropi o amici dell'uomo, o
umanitari, e insieme spiriti forti o liberi pensatori, che in nome
della ragione o della scienza condannavano tutto ciò che
nelle idee o ne' fatti se ne allontanava. La loro azione pubblica
era avvalorata dalle associazioni secrete de' franchi muratori,
mossi dagli stessi fini e dagli stessi sentimenti. Emancipare il
pensiero e l'azione da ogni ostacolo esteriore, religioso o
sociale, uguagliare giuridicamente le classi, provvedere
all'istruzione e al benessere delle classi inferiori, queste erano
le basi del nuovo edificio che si voleva costruire. Credevasi che
tutto questo si potesse ottenere con articoli di leggi, a quel
modo che avevano fatto Solone, Licurgo, Numa. E blandivano i
sovrani, e li predicavano istrumenti provvidenziali per il
rinnovamento del mondo. Si formò una pubblica opinione, il
cui centro era Parigi, la cui voce erano i filosofi. Seguire la
pubblica opinione, fare alcune riforme secondo i dettami de'
filosofi era un mezzo di governo, un modo di acquistarsi fama e
popolarità a buon mercato, come era nel secolo decimosesto
il proteggere letterati e artisti. Il gran delitto del secolo, il
violento attentato alla nazionalità polacca rimase
seppellito sotto quel nembo di fiori che i filosofi sparsero sulla
memoria di Elisabetta e Caterina seconda, di Maria Teresa e
Giuseppe secondo e di Federico secondo, i cortigiani e i
corteggiati di Voltaire, di D'Alembert, di Raynal, e degli
enciclopedisti. Nè voglio già dire che fossero
riformatori solo per calcolo: chè sarebbe calunniare la
natura umana. Riforme benefiche, e non pericolose alla loro
autorità, anzi buone a rafforzarla, le facevano volentieri,
cospirando insieme l'utile proprio e l'interesse pubblico: il
calcolo si accompagnava col desiderio del bene, col piacere delle
lodi, e con l'intima persuasione, imbevuti com'erano delle stesse
idee. Il simile avveniva in Italia. I principi gareggiarono nelle
riforme, Carlo terzo e Ferdinando quarto, Maria Teresa e Giuseppe
secondo, Leopoldo, Carlo Emmanuele, e fino papa Ganganelli, che
alla pubblica opinione offerse in olocausto i gesuiti. I filosofi,
domandando in nome della libertà e della uguaglianza
l'abolizione di tutt'i privilegi feudali, ecclesiastici, comunali,
provinciali, e di ogni distinzione di classi, o di ordini sociali,
avevano seco i principi, che lottavano appunto da gran tempo per
conseguire questo scopo, fondando il loro potere assoluto sulla
soppressione di ogni libertà o privilegio locale. Fin qui
filosofia e monarchia assoluta andavano di conserva. Lo stesso
accordo era per le riforme economiche, amministrative e
giuridiche, come semplicizzare le imposte, unificare le leggi,
svincolare la proprietà, promovere l'industria e il
commercio e l'agricoltura, assicurare contro l'arbitrio la vita e
le sostanze de' cittadini. I principi ci stavano, e qual
più, qual meno erano innanzi in quella via. Pensavano che,
fiaccato il clero e la nobiltà, sciolte le maestranze,
rimosse tutte le resistenze locali, sarebbe rimasta nelle loro
mani la signoria assoluta, assicurata da' due nuovi ordigni che
succedevano a quella compagine disfatta del medio evo, la
burocrazia e l'esercito. E non pensavano che i princìpi da
cui movevano quelle riforme, e che costituivano la pubblica
opinione, menavano a conseguenze più lontane, essendo
impossibile che abolendo i privilegi rimanesse salvo il privilegio
più mostruoso, ch'era la monarchia assoluta e di dritto
divino, e che, frenando l'arbitrio ne' preti, ne' baroni e ne'
magistrati, potessero essi governare a lungo co' biglietti regi e
i motupropri. Erano conseguenze inevitabili, che presto o tardi
avrebbero condotta la rivoluzione anche se la Francia non ne
avesse dato l'esempio. Ma per allora nessuno ci badava, e si
procedeva allegramente nelle riforme, persuasi tutti che
bastassero ministri "illuminati" e principi "paterni" per potere
pacificamente e per gradi rinnovare la società. Gli
scrittori non impediti, anzi incoraggiati e protetti, lasciavano
le speculazioni astratte, e trattavano i problemi più
delicati e di applicazione immediata con quella sicurezza che
veniva e dall'applauso pubblico e dalla benevolenza de' principi,
"direttori della pubblica felicità". Beccaria dice:
"I grandi monarchi, i benefattori
dell'umanità, che ci reggono, amano le verità
esposte dall'oscuro filosofo,... e i disordini presenti... sono la
satira e il rimprovero delle passate età, non già di
questo secolo e de' suoi legislatori."
E Filangieri con entusiasmo meridionale
così conchiude il libro secondo della sua Scienza della
legislazione:
"Il filosofo dee essere l'apostolo della
verità e non l'inventore de' sistemi. Il dire che "tutto si
è detto" è il linguaggio di coloro che non sanno
cosa alcuna produrre, o che non hanno il coraggio di farlo.
Finchè i mali che opprimono l'umanità non saranno
guariti; finchè gli errori e i pregiudizi che li perpetuano
troveranno de' partigiani; finchè la verità
conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla
maggior parte del genere umano; finchè apparirà
lontana da' troni; il dovere del filosofo è di predicarla,
di sostenerla, di promuoverla, d'illustrarla. Se i lumi ch'egli
sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo
saranno sicuramente per un altro paese. Cittadino di tutti i
luoghi, contemporaneo di tutte le età, l'universo è
la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi
contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli."
La filosofia è già oltrepassata.
Non la si dimostra più, è un antecedente
generalmente ammesso. Lo scopo non è fare una filosofia,
inventare un sistema. Lo scopo è un apostolato, propagare e
illustrare la filosofia, cioè la verità conosciuta
da pochi uomini privilegiati. È la verità annunziata
con tuono di oracolo, col calore della fede, come facevano gli
apostoli. È una nuova religione. Ritorna Dio tra gli
uomini. Si rifà la coscienza. Rinasce l'uomo interiore. E
rinasce la letteratura. La nuova scienza già non è
più scienza: è letteratura.
XX
LA NUOVA LETTERATURA
L' uomo che rappresenta lo stato di transizione tra la vecchia e
la nuova letteratura è Metastasio. L'antica letteratura,
non essendo oramai più che forma cantabile e musicabile, ha
come ultima espressione il dramma in musica, dove non è
più fine, ma mezzo: è melodia, e serve alla musica.
Ma non vi si rassegna, e vuol conservare la sua importanza,
rimanere letteratura. Quest'ultima forma della vecchia letteratura
è Metastasio.
La sua vita si stende dal 1698 al 1782.
Vincenzo Gravina che l'educò, a quel modo che richiamava lo
studio delle leggi alle fonti romane illustrandole, e tentando una
prima filosofia del dritto, voleva ritirare l'arte alla greca
semplicità, purgandola della corruzione seicentistica, e
scrisse tragedie a modo di Sofocle, e tentò una teoria
dell'arte che chiamò Ragion poetica. Il buon uomo vedea il
male, ma non le sue cause e non i suoi rimedi. La
semplicità è la forma della vera grandezza, di una
grandezza inconscia e divenuta natura. Niente era più
contrario al secolo, manierato e pretensioso al di fuori, vacuo al
di dentro. Per combattere il manierismo, Gravina soppresse il
colorito e vi supplì con la copia delle sentenze morali e
filosofiche. L'intenzione era buona; parea volesse dire: - Cose e
non parole -. Nè altra è la tendenza della sua
Ragion poetica, dove il vero è rappresentato come sostanza
dell'arte, e il vero ignudo, non "condito in molli versi".
Così, volendo esser semplice, riuscì arido. La
teoria non era nuova, anzi era la vecchia teoria di Dante
ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova in un tempo che lo sforzo
dell'ingegno era tutto intorno alla frase. Metastasio fu educato
secondo queste idee. Il severo pedagogo gli proibì la
lettura del Tasso e de' poeti posteriori, lo ammaestrò di
buon'ora nel greco e nel latino, e lo volse allo studio delle
leggi, vagheggiando se stesso redivivo in un Metastasio
giureconsulto e letterato. Ma il giovine era poeta nato. E morto
il Gravina, si gettò avidamente sul frutto proibito, e la
Gerusalemme Liberata, l'Aminta, il Pastorfido, soprattutto
l'Adone, furono il suo cibo. Quella prima educazione classica non
gli fu inutile, perchè lo avvezzò alla naturalezza e
alla semplicità, e lo nutrì di buoni esempi e di
solida dottrina. Ma, lasciato a sè medesimo, si
sviluppò in lui, come in tutti quelli che hanno ingegno, il
senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico
a uso greco, o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua
vocazione, e l'autore del Giustino preferì Ovidio a
Sofocle, e, come era moda, fece la sua comparsa trionfale in
Arcadia con sonetti, canzonette, idilli, i cui eroi d'obbligo
erano Cloe, Nice, Fille, Tirsi, Irene e Titiro. Il Sogno della
gloria è l'ultimo lavoro a uso Gravina, ammassato di
sentenze che sono luoghi comuni, e pieno di reminiscenze classiche
e dantesche. Il Ritorno della primavera, scritto l'anno appresso,
1719, ti mostra già i vestigi dell'Aminta e dell'Adone,
facilmente impressi in quell'anima ricca di armonie e d'immagini.
L'ideale del tempo era l'idillio, il riposo e l'innocenza della
vita campestre, in antitesi alla vita sociale, così come
l'avevano sviluppato il Tasso, il Guarini e il Marino. L'idillio
era un certo equilibrio interiore, uno stato di pace e di
soddisfazione a cui il dolore serviva come di salsa. L'Arcadia,
volendo riformare il gusto, avea tolto all'idillio quella tensione
intellettuale che si chiamava il "seicentismo", sì che la
forma era rimasta una pura effusione musicale dell'anima
beatamente oziosa, cullata da molli cadenze tra l'elegiaco e il
voluttuoso: ciò che dicevasi "melodia". La musica penetrava
già in questa forma così apparecchiata a riceverla,
e la canzone diveniva la canzonetta la cantata e l'arietta, e il
dramma pastorale diveniva il dramma in musica. Le canzonette del
Rolli erano in molta voga, ma già si disputava quale ne
facesse di migliori, o il Metastasio o il Rolli. Sciupata
l'eredità del Gravina, il nostro Metastasio, visto che
l'Arcadia non gli dava pane, ricordò i consigli del
maestro, e andò a Napoli col proposito di far l'avvocato.
Ma Napoli era già il paese della musica e del canto. E le
sue arringhe furono cantate ed epitalami. In occasione di nozze
prima si scrivevano sonetti e canzoni: allora erano in voga
epitalami, cantate e feste teatrali. Il Metastasio fu poeta di
nozze, e restano di lui tre epitalami, storie mitologiche e
idilliche, dove è visibile l'imitazione del Tasso e del
Marino. Canta le nozze di Antonio Pignatelli e Anna de' Sangro,
evocando gli amori di Venere e Marte, a' quali intreccia gli amori
degli sposi, e naturalmente Anna è Venere, e Antonio
è Marte. Vi trovi il monte dell'Amore, che ricorda il
giardino di Armida, e tutto il vecchio repertorio mitologico,
immagini e concetti. Ecco come descrive Anna:
Se in giro in liete danze il passo mena,
se tace o ride, o se favella o canta,
porta in ogni suo moto Amore accolto,
Pallade in seno e Citerea nel volto.
Vicino al lato suo siedono al paro
con la dolce consorte il genitore,
coppia gentil d'illustre sangue e chiaro,
vivi esempli di senno e di valore:
alme che prima in ciel si vagheggiaro,
e poi quaggiù le ricongiunse Amore:
e dier tal frutto, che non vede il sole
più nobil pianta e più leggiadra
prole.
Sono ottave mediocrissime e poco limate, ma dove già trovi
facilità di verso e di rima e molta chiarezza. Un'ottava,
dove descrive Anna che canta, rivela nell'evidenza e nel brio del
colorito una certa genialità:
La voce pria nel molle petto accolta,
con maestra ragion spigne o sospende;
ora in rapide fughe e in groppi avvolta,
velocissimamente in alto ascende;
ora in placido corso e più disciolta,
soavissimamente in giù discende;
i momenti misura, annoda e parte,
e talor sembra fallo, ed è tutt'arte.
Qui lascia le solite generalità, entra nel vivo de'
particolari, e vi mostra la forza di chi sa già tutto dire
e nel modo più felice. Gli epitalami non sono in fondo che
idilli, col solito macchinismo, Amore, Venere, Marte, Diana,
Minerva, Vulcano. Nè altro sono le prime sue azioni
teatrali, rappresentate in Napoli, come la Galatea, l'Endimione,
gli Orti Esperidi, l'Angelica. Diamo un'occhiata all'Angelica. Di
rincontro a' protagonisti, Angelica e Orlando, stanno Licori e
Tirsi. C'è il solito antagonismo tra la città e la
campagna, la scaltrezza di Angelica e l'ingenuità di
Licori: onde nasce un intrighetto che riesce nel più
schietto comico. Le furie di Orlando non possono turbare la pace
idillica diffusa su tutto il quadro, e lo stesso Orlando finisce
idillicamente:
Torna, torna ad amarmi e ti perdono.
Aurette leggiere
che intorno volate,
tacete, fermate,
chè torna il mio ben.
Angelica lascia per sempre quegli ameni soggiorni con
quest'arietta:
Io dico all'antro - Addio! -
ma quello al pianto mio
sento che, mormorando:
- Addio! - risponde.
Sospiro, e i miei sospiri
ne' replicati giri
Zeffiro rende a me
da quelle fronde.
La canzonetta di Licori, penetrata di una malinconia dolce e
molle, è già canto e musica, una pura esalazione
melodica, una espressione sentimentale rigirata in se stessa, come
un ritornello:
Ombre amene,
amiche piante,
il mio bene,
il caro amante
chi mi dice ove ne andò?
Zeffiretto lusinghiero
a lui vola messaggiero.
di' che torni e che mi renda
quella pace che non ho.
Concetti e immagini oramai comunissime, senza più alcun
valore letterario, e rimaste interessanti solo come combinazioni
melodiche. L'effetto non è nelle idee, ma in quel canto di
due amanti a una certa lontananza e nascosti tra le fronde;
perchè, mentre Licori cerca Tirsi, Tirsi cerca Licori con
la stessa melodia:
La mia bella
pastorella,
chi mi dice ove ne andò?
È notabile che in questa cheta atmosfera idillica penetra
una cert'aria di buffo, un certo movimento vivace e allegro, come
è la dichiarazione amorosa di Licori a Orlando, ascoltatore
non visto Tirsi.
La Bulgarelli, celebre cantante, che negli Orti
Esperidi rappresentava la parte di Venere, prese interesse al
giovane autore, e lo addestrò in tutt'i misteri del teatro.
Il maestro Porpora gl'insegnò la musica. Questa fu la
seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua
vocazione. Roma ne avea fatto un arcade. Napoli ne fece un poeta.
La Didone abbandonata, scritta sotto l'ispirazione e la guida
della Bulgarelli, fissò l'opinione, e Metastasio prese
posto d'un tratto accanto ad Apostolo Zeno, che tenea il primato,
poeta cesareo alla corte di Vienna. Più tardi, a proposta
dello stesso Zeno, occupò egli quell'ufficio, e menò
a Vienna vita pacifica e agiata, universalmente stimato, e tenuto
senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita
fu un idillio, e se questo è felicità, visse
felicissimo sino alla tarda età di ottantaquattro anni.
Vivo ancora, fu divinizzato. Lo chiamarono il "divino Metastasio".
Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma
è congegnato a quel modo che avea già mostrato
Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice
ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e
le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del
melodramma, di cui lo Zeno era stato l'architetto.
La sua idea fissa fu di costruire il melodramma
come una tragedia, tale cioè che anche senz'accompagnamento
musicale avesse il suo effetto. E la sua ambizione fu di lasciare
le basse regioni dell'idillio e del buffo, e tentare i più
alti e nobili argomenti del "genere tragico", come se la
nobiltà fosse nell'argomento. Questo si vede già
nella Didone e nel Catone in Utica. Più tardi volle
gareggiare co' grandi poeti francesi, e il Cinna di Corneille ebbe
il suo riscontro nella Clemenza di Tito, e l'Atalia di Racine nel
Gioas. Su questa via porse il fianco alla critica, e sorsero
dispute se e fino a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed
ecco in mezzo l'inevitabile Aristotele e le famose quistioni delle
unità drammatiche. Metastasio si mescolò nella
contesa, e nell'Estratto dell'"Arte poetica" di Aristotile addusse
indirettamente argomenti in suo favore. La critica era ancora
così impastoiata nell'esterno meccanismo, che molti
seriamente domandarono come potesse esser tragedia un dramma, che
aveva soli tre atti. A Metastasio pareva quasi una degradazione
scendere dall'alto seggio di poeta tragico, ed essere rilegato
fra' melodrammatici. Pregiudizio instillatogli dal Gravina, che
non vedea di là dalla tragedia classica. La Merope del
Maffei, che allora levava molto rumore, l'offuscava, e nol
lasciava dormire la gloria di Corneille e di Racine. Ranieri de'
Calsabigi, celebre per la polemica ch'ebbe poi con Alfieri intorno
al Filippo, sosteneva che quei drammi fossero proprie e vere
tragedie. E nella medaglia, che dopo la sua morte i Martinez
fecero incidere in suo onore, si leggeva questo motto: "Sophocli
Italo". Ma il pubblico, che lo idolatrava, si ostinò a
chiamare le sue opere teatrali non tragedie, e neppur melodrammi,
ma drammi, come quelli che avevano un valore in sè, anche
fuori della musica. E il pubblico avea ragione. Sono una poesia
già penetrata e trasformata dalla musica, ma che si fa
ancora valere come poesia. Stato di transizione, che dà una
fisonomia al nostro "Sofocle". Più tardi, quei drammi, come
letteratura paiono troppo musicali, e ne nasce la reazione di
Alfieri; come musica paiono troppo letterari, e ne nasce la
reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere che
perciò appunto quei drammi sono cosa imperfetta, troppo
musicali come poesia, e troppo poetici come musica: perciò
abbandonati dalla musica, e offuscati dalla nuova letteratura. Il
che avviene facilmente a chi sta tra due e non ha chiara coscienza
di quello che vuol fare.
Pure è certo che quei drammi ebbero al
lor tempo un successo maraviglioso, e che anche oggi, in una
società così profondamente mutata, producono il loro
effetto. È noto l'entusiasmo di Rousseau e l'ammirazione di
Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un breve
armeggiare, gli s'inchinarono, tratti dall'onda popolare. Certi
luoghi, che fanno sorridere il critico, movono oggi ancora il
popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato
così popolare, come il Metastasio, nessuno è
penetrato così intimamente nello spirito delle moltitudini.
Ci è dunque ne' suoi drammi un valore assoluto, superiore
alle occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del
secolo decimonono.
Gli è che quella sua oscura coscienza,
quel distacco tra quello che vuol fare e quello che fa, quella
poesia che non è ancora musica e non è più
poesia, è non capriccio, pregiudizio o pedanteria
individuale, ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo.
Perciò non è costruzione artificiosa, come la
tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma è
composizione piena di vita, che nella sua spontaneità
produce risultati superiori alle intenzioni del compositore.
Ciò ch'egli vi mette con intenzione e con coscienza, non
è il pregio, ma il difetto del lavoro. E intorno a questo
difetto arzigogolavano lui e i critici.
Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo.
Non domandiamo cosa ha voluto fare, ma cosa ha fatto, e
abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni. Anche il
critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua
spontaneità, come l'artista.
Prendiamo il primo suo dramma, la Didone. Volea
fare una tragedia. Studiò l'argomento in Virgilio, e
più in Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con quell'uomo
e con quella società. Non capiva che a quella
società e a lui stesso mancava la stoffa da cui può
uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli
consigliera, con maestro Porpora direttore, con quel Sarro
compositore, e col pubblico dell'Angelica e degli Orti Esperidi, e
in presenza della sua anima elegiaca, idillica, melodica,
impressionabile e superficiale, come il suo pubblico! Ne
uscì non una tragedia, che sarebbe stata una pedanteria
nata morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita che era in
lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con avidità
da un capo all'altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le
reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e
contemporanee. Sotto nome di "Didone" qui vedi l'Armida del Tasso,
messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca cede il posto
alla donna terrena, come l'ha abbozzata il Tasso in questa tra le
sue creature la più popolare, dalla quale scappan fuori i
più vari e concitati moti della passione femminile, le sue
smanie e le sue furie. Ma è un'Armida col comento della
Bulgarelli, alla cui ispirazione appartengono i movimenti comici
penetrati in questa natura appassionata, com'è nella scena
della gelosia, applauditissima alla rappresentazione. Una Didone
così fatta non ha niente di classico, qui non ci è
Virgilio, e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è
contemporaneo. La passione non ha semplicità e non ha
misura, e nella sua violenza rompe ogni freno, perde ogni decoro.
Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore, la
dignità di regina, l'amore de' suoi, la pietà verso
gl'iddii, se in lei fosse più accentuata l'eroina, il
contrasto sarebbe drammatico, altamente tragico. Ma l'eroina
c'è a parole, e la donna è tutto: la passione, unica
dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica e sfrontata
sino al grottesco, e scende dritta la scala della vita sino alle
più basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte danno
fastidio alcuni tratti comici, e non vede che sotto forme tragiche
la situazione è sostanzialmente comica sicchè, se in
ultimo Enea si potesse rappattumare con l'amata, sarebbe il
dramma, con lievi mutazioni, una vera commedia. E non già
una commedia costruita artificialmente, ma colta dal vero,
perchè è la donna come poteva essere concepita in
quel tempo, ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico
nell'anima conforme del poeta, e contro le sue intenzioni, e senza
sua coscienza.
A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire che aveva
partorito una commedia in forma tragica, sarebbe stato come dire
una bestemmia. Il comico è in quei sì e no della
passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili, che
scoppiano improvvisi e contro l'aspettazione, nell'irragionevole,
spinto sino all'assurdo, negl'intrighi e nelle scaltrezze, di
bassa lega, più da donnetta che da regina, e tutto
così a proposito, così naturale, con tanta
vivacità, che il pubblico ride e applaude, come volesse
dire: - È vero. - Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti
rimasero proverbiali, come:
Temerario! Ch'ei venga!
Quando allora allora avea detto:
mai più non mi vedrà quell'alma
rea.
O come:
Passato è il tempo, Enea,
che Dido a te pensò.
La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto che gli
aveva promessa la sua mano, quel cacciar via da sè Osmida e
Selene nella cecità del suo furore, le sue
credulità, le sue dissimulazioni, le sue astuzie, tutto
ciò è tanto più comico, quanto è meno
intenzionale, contemperato co' moti più variati di un'anima
impressionabile e subitanea: sdegni che son tenerezze, e minacce
che sono carezze. C'è della Lisetta e della Colombina sotto
quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Iarba con
le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia
popolare; Selene, ch'è l'"Anna, soror mea", rappresenta la
parte della "patita", con molta insipidezza; e il pio Enea nella
sua parte di amoroso attinge il più alto comico, massime
quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo stesso
dell'azione ha l'aria di un intrigo di bassa commedia, co' suoi
equivoci e i suoi incontri fortuiti.
La Didone fece il giro de' teatri italiani. E
dappertutto piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico, e
trovava se stesso. Quel suo dramma, a superficie tragica, a fondo
comico, coglieva la vita italiana nel più intimo, quel suo
contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di
dentro. Il tragico non era elevazione dell'anima, ma una semplice
fonte del maraviglioso, così piacevole alla plebe, come
incendii, duelli, suicidii. Il comico riconduceva quelle
magnifiche apparenze di una vita fantastica nella prosaica e
volgare realtà, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze,
braverie. Concordare elementi così disparati, fondere
insieme fantastico e reale, tragico e comico, sembra poco meno che
impossibile: pure qui è fatto con una facilità piena
di brio e senz'alcuna coscienza, com'è la vita nella sua
spontaneità. L'illusione è perfetta. Una vita
così fatta pare un'assurdità: pure è
là, fresca, giovane, vivace, armonica, e t'investe e ti
trascina. Il povero Metastasio, inconscio del grande miracolo, si
difendeva con Aristotile e con Orazio; alle vecchie critiche si
aggiunsero le nuove. Oggi la ragione e l'estetica condannano
quella vita, come convenzionale e incoerente. Ma essa è
là, nella sua giovanezza immortale, e le basta rispondere:
- Io vivo. - E, se l'estetica non l'intende, tanto peggio per
l'estetica.
Metastasio aveva tutte le qualità per
produrre quella vita. Brav'uomo, buon cristiano, nel suo mondo
interiore ci erano tutte le virtù, ma in quel modo
tradizionale e abituale ch'era possibile allora, senza fede, senza
energia, senza elevatezza d'animo, perciò senza musica e
senza poesia. Così erano Vico e Muratori, bonissima gente,
ma senza quella fiamma interiore, dove si scalda il genio del
filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici, veneranda
immagine di una società tranquilla e prosaica. Vico agitava
i più grandi problemi sociali con la calma di un erudito. E
si comprende come la poesia si cercasse in quel tempo fuori della
società, nell'età dell'oro e nella vita pastorale.
Ma nessuno può fuggire alla vita che lo circonda. Patria,
religione, onore, amore, libertà operavano in quella vita
posticcia, come in quella pacifica società, con perfetto
riposo ed equilibrio dell'anima. Metastasio, che cercava la
tragedia con la testa, era per il carattere un arcade, tutto Nice
e Tirsi, tutto sospiri e tenerezze. Da questa natura idillica
poteva uscire l'elegia, non la tragedia. Aveva, come il Tasso,
grande sensibilità, molta facilità di lacrime, ma
superficiale sensibilità, che poteva increspare, non
turbare il suo mondo sereno. Non si può dir che la sua
sensibilità fosse malinconia, la quale richiede una certa
durata e consistenza: era emozione nata da subitanei moti interni,
e che passava con quella stessa facilità che veniva. Questo
difetto di analisi e di profondità nel sentimento manteneva
al suo mondo il carattere idillico, non lo trasformava, ma lo
accentuava e lo coloriva nel suo movimento; perchè
l'idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione non
penetrata dalla serietà di un mondo interiore, appena
ventilata dal sentimento, scorre leggiera su questo mondo
idillico, e vi annoda e snoda una folla di accidenti, che gli
danno varietà e vivacità. Sembrano sogni che
svaniscono appena formati, ma con tale chiarezza plastica ne'
sentimenti e nelle immagini, che vi prendi la più viva
partecipazione. Il poeta vi s'intenerisce, vi si trastulla, vi si
dimentica:
Sogni e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole e sogni orno e disegno,
in lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.
Di sogni e favole ce n'era tutto un arsenale
nelle nostre infinite commedie e novelle, dove attingevano anche i
forestieri, e dove attinge Metastasio. Ciò a cui mira
è sorprendere, fare un colpo di scena, guidato dalla sua
grand'esperienza del teatro e del pubblico. Ingegno svegliato e
rapido, non perde mai di vista lo scopo, non s'indugia per via,
divora lo spazio, sopprime, aggruppa, combina, producendo effetti
subitanei e perciò irresistibili. Combinazioni drammatiche,
che appunto perchè mirano a uno scopo meramente teatrale,
mancano di serietà interiore, e spesso hanno aria
d'intrighi comici, con que' viluppi, con quegli equivoci, con quei
parallelismi. Nè solo il comico è nella logica
stessa di quelle combinazioni, ma nella natura de' fatti, che
spesso sono episodi della vita comune nella sua forma più
pettegola e civettuola. Così un eroico puramente idillico
andava a finire ne' bassi fondi della commedia. Cesare sonava il
violino e faceva all'amore. Tale era Metastasio, e tale era il suo
tempo, idillico, elegiaco e comico, vita volgare in abito eroico,
vellicata dalle emozioni dell'elegia e idealizzata nell'idillio.
Si può ora comprendere il meccanismo del
dramma metastasiano. Sta in cima l'eroe o l'eroina, Zenobia o
Issipile, Temistocle o Tito. L'eroe ha tutte le perfezioni che la
poesia ha collocate nell'età dell'oro, e sveglia l'eroismo
intorno a sè, rende eroici anche i personaggi secondari.
Più l'età è prosaica, più esagerato
è l'eroismo, abbandonato a una immaginazione libera, che
ingrandisce le proporzioni a arbitrio, con non altro scopo che di
eccitare la maraviglia. Il maraviglioso è in questo, che
l'eroe è un'antitesi accentuata e romorosa alla vita
comune, offrendo in olocausto alla virtù tutt'i sentimenti
umani, come Abramo pronto a uccidere il figlio. Così Enea
abbandona Didone per seguire la gloria, Temistocle e Regolo vanno
incontro a morte per amor della patria, Catone si uccide per la
libertà, Megacle offre la vita per l'amico, e Argene per
l'amato. Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali,
che regolano la vita comune, era detta "generosità" o
"magnanimità", "forza" o "grandezza di animo", com'è
il perdono delle offese, il sacrificio dell'amore, o della vita.
Situazione tragica se mai ce ne fu, anzi il fondamento della
tragedia. Ma qui rimane per lo più elegiaca, feconda di
emozioni superficiali, momentanee e variate, che in ultimo
sgombrano a un tratto e lasciano il cielo sereno. La
generosità degli uni provoca la generosità degli
altri, l'eroismo opera come corrente elettrica, guadagna tutt'i
personaggi, e tutto si accomoda come nel migliore de' mondi, tutti
eroi e tutti contenti. Di questa superficialità che resta
ne' confini dell'idillio e dell'elegia, e di rado si alza alla
commozione tragica, la ragione è questa, che la
virtù vi è rappresentata non come il sentimento di
un dovere preciso e obbligatorio per tutti, corrispondente alla
vita pratica, ma come un fatto maraviglioso, che per la sua
straordinarietà tolga il pubblico alla contemplazione della
vita comune. Perciò è una virtù da teatro, un
eroismo da scena. Più le combinazioni sono straordinarie,
più le proporzioni sono ingrandite, e più cresce
l'effetto. I personaggi posano, si mettono in vista, sentenziano,
si atteggiano, come volessero dire: - Attenti! Ora viene il
miracolo. - Temistocle dice:
... ... Sentimi, o Serse;
Lisimaco, m'ascolta; udite, o voi,
popoli spettatori,
di Temistocle i sensi; e ognun ne sia
testimonio e custode.
In questo meccanismo trovi sempre la collisione, il contrasto tra
l'eroismo e la natura. L'eroismo ha la sua sublimità nello
splendore delle sentenze. La natura ha il suo patetico nelle
tenere effusioni dei sentimenti. Ne nasce un urto vivace di
sentimenti e di sentenze, con alterna vittoria e con crescente
sospensione, come nel soliloquio di Tito; insino a che natura ed
eroismo fanno la loro riconciliazione in un modo così
inaspettato e straordinario, com'è tutto l'intrigo. Tito fa
condurre Sesto all'arena, deliberato già di perdonargli:
non basta la virtù, vuole lo spettacolo e la sorpresa.
Questa, che a noi pare una moralità da scena, era a quel
tempo una moralità convenuta, ammessa in teoria, ammirata,
applaudita, a quel modo che le romane battevano le mani ai
gladiatori che morivano per i loro begli occhi. Si direbbe che
Tito facesse il possibile per meritarsi gli applausi del pubblico.
Appunto perchè questo eroismo non aveva una vera
serietà di motivi interni e non veniva dalla coscienza,
quel mondo atteggiato all'eroica aveva del comico, ed era
possibile che vi penetrasse senza stonatura la società
contemporanea nelle sue parti anche buffe e volgari. Prendiamo
l'Adriano. Vincitore de' Parti, proclamato imperatore, Adriano si
trova in una delle situazioni più strazianti, promesso
sposo di Sabina, amante di Emirena figlia del suo nemico, e rivale
di Farnaspe, l'amato di Emirena. Situazione molto avviluppata, e
che diviene intricatissima per opera di un quarto personaggio,
Aquilio, confidente di Adriano, amante secreto di Sabina, e che
perciò fomenta la passione del suo padrone. Emirena per
salvare il padre offre la mano ad Adriano. La generosità di
Emirena eccita la generosità di Sabina, che scioglie
Adriano dalla data fede. La generosità di Sabina eccita la
generosità di Adriano, che libera il padre di Emirena,
rende costei al suo amato, e sposa Sabina. E tutti felici, e il
coro intuona le lodi di Adriano. Ma guardiamo in fondo a questi
personaggi eroici. Adriano è una buona natura d'uomo,
tutt'altro che eroica, voltato in qua e in là dalle
impressioni, mobile, superficiale, credulo, in somma un buon uomo
che rasenta l'imbecille. Non è lui che opera: egli è
il paziente, anzi che l'agente del melodramma, e come colui che
dà ragione a chi ultimo parla, dà sempre ragione
all'ultima impressione. Si trova eroe per occasione, un eroe
così equivoco, che impedisce ad Emirena di baciargli la
mano, tremando di una nuova impressione. Maggiori pretensioni
all'eroismo ha Osroa, il re de' Parti, reminiscenza di Iarba. Un
patriota, che appicca l'incendio alla reggia, che uccide un
creduto Adriano, che è condannato a morte, che supplica la
figlia di ucciderlo, sarebbe un carattere interessantissimo, se
nel pubblico e nel poeta ci fosse il senso del patriottismo. Ma
Osroa ha più dell'avventuriere che dell'eroe, e di un
avventuriere sciocco e avventato, che non sa proporzionare i mezzi
allo scopo, e nelle situazioni più appassionate della vita
discute, sentenzia. A Emirena, la sua figlia, che ricusa di
ucciderlo, risponde:
Non è ver che sia la morte
il peggior di tutt'i mali:
è il sollievo de' mortali
che son stanchi di soffrir.
È una caricatura di Iago, un basso e sciocco intrigante da
commedia. Sabina, Emirena, Farnaspe sono nature superficialissime,
incalzate dagli avvenimenti, senza intima energia negli affetti, e
tratte ad atti generosi per impeti subitanei. Se dunque ci
approfondiamo in questo mondo eroico, vediamo con quanta
facilità si sdrucciola nel comico e come, sotto un
contrasto apparente, in verità questa vita eroica è
in se stessa di quella mezzanità, che può accogliere
nel suo seno il volgare e il buffo della società
contemporanea. Di tal natura è la scena in cui Emirena
finge di non riconoscere il suo innamorato, che rimane lì
stupido e col naso allungato; o l'altra in cui Aquilio insegna ad
Emirena l'arte della cortigiana, ed Emirena, botta e risposta, gli
fa il ritratto del cortigiano; o quando Adriano si fa menare pel
naso da Osroa, o l'arrivo improvviso di Sabina da Roma, e
l'imbarazzo di Adriano, o quando Adriano giura di non vedere
più Emirena, e gli si annunzia: - Vieni Emirena. - Tutto
questo, che in fondo è comico, non è sviluppato
comicamente, nè c'è l'intenzione comica;
perciò non c'è stonatura: è la società
contemporanea nel suo spirito, nella sua volgarità e
mezzanità, vestita di apparenze eroiche. Se Metastasio
avesse il senso dell'eroico, e lo rappresentasse seriamente e
profondamente, la mescolanza sarebbe insopportabile, anzi
mescolanza non ci sarebbe; ma concepisce l'eroico come era
concepito e sentito in quella volgarità contemporanea. Il
poeta è in perfetta buona fede; non sente ciò che di
basso e di triviale è sotto quell'apparato eroico, uno di
spirito e di carattere col suo pubblico. Ben ne ha una coscienza
confusa, e non è proprio contento, e tenta talora alcun che
di più elevato, come nel Regolo e nel Gioas, senza
riuscirvi: si scopre l'antico Adamo. E fu ventura, perchè
così non ci die' costruzioni artificiose e imitazioni
aliene dalla sua natura, ma riuscì artista originale e
geniale, l'artista indimenticabile di quella società.
Questa vita così assurda nella sua
profondità ha tutta l'illusione del vero nella sua
superficie. Approfondire i sentimenti, sviluppare i caratteri,
graduare le situazioni sarebbe una falsificazione. La
superficialità è la sua condizione di esistenza.
È una vita, di cui vedi le punte e ignori tutto il processo
di formazione, una specie di vita a vapore, che nella rapida corsa
divora spazi infiniti e non ti mostra che i punti di arrivo.
Sbucciano sentimenti e situazioni così di un tratto, e
spesso ti trovi di un balzo da un estremo all'altro. Sei in un
continuo flutto d'impressioni variatissime, di poca durata e
consistenza, libate appena, con sentimenti vivacissimi, penetranti
gli uni negli altri, come onde tempestose. Scusano questa
superficialità con la musica, quasi che la musica potesse o
compiere, o sviluppare, o approfondire i sentimenti; ma la musica
metastasiana non era se non il prolungamento e l'eco del
sentimento, il semplice trillo della poesia, il suo
accompagnamento, perchè quella poesia è già
in sè musica e canto. Una vita così superficiale non
può essere che esteriore. È vita per lo più
descritta, come già si vede nel Guarini e nel Marino. I
personaggi nella maggior violenza de' loro sentimenti si
descrivono, si analizzano, com'è proprio di una
società adulta, in cui la riflessione e la critica ti segue
nel momento stesso dell'azione. Ti trovi nel più acuto
della concitazione; e quando alla fine ti aspetti quasi un
delirio, ti sopraggiunge un'analisi, una sentenza, un paragone,
una descrizione psicologica. Licida snuda il brando; vuole
uccidere il suo offensore; poi lo volge in sè, e si
arresta, e fa la sua analisi:
Rabbia, vendetta,
tenerezza, amicizia,
pentimento, pietà, vergogna, amore
mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
anima lacerata
da tanti affetti e sì contrari. Io
stesso
non so come si possa
minacciando tremare, arder gelando,
piangere in mezzo all'ire,
bramar la morte e non saper morire.
Il drammatico va a riuscire in un sonetto petrarchesco. Aristea
così si descrive a Megacle:
Caro, son tua così,
che per virtù d'amor
i moti del tuo cor
risento anch'io.
Mi dolgo al tuo dolor,
gioisco al tuo gioir,
ed ogni tuo desir
diventa il mio.
E Megacle, seguendo l'amico Licida nella sua sventura, esce in
questo bel paragone:
Come dell'oro il fuoco
scopre le masse impure,
scoprono le sventure
de' falsi amici il cor.
Questi riposi musicali sono come l'arpa di David, che calmava le
furie di Saul: rinfrescano l'anima e la tengono in equilibrio fra
passioni così concitate. E sono sopportabili, appunto
perchè mescolati co' moti più vivaci, con la
più impetuosa spontaneità del sentimento, offrendoti
lo spettacolo della vita nelle sue più varie apparenze.
Argene che sfida la morte per salvare l'amato, e si sente alzare
su di sè, come invasata da un iddio, è sublime:
Fiamma ignota nell'alma mi scende;
sento il nume; m'inspira, mi accende,
di me stessa mi rende maggior.
Ferri, bende, bipenni, ritorte,
pallid 'ombre, compagne di morte,
già vi guardo, ma senza terror.
Commovente è la gioia quasi delirante di Aristea nel
rivedere l'amato. Di un elegiaco ineffabile è il
cànto di Timante, quando la madre gli presenta il suo
bambino:
Misero pargoletto,
il tuo destin non sai.
Ah! Non gli dite mai
qual era il genitor.
Come in un punto, o Dio,
tutto cambiò d'aspetto!
Voi foste il mio diletto,
voi siete il mio terror.
Alcuni motti tenerissimi sono rimasti proverbiali, come:
Ne' giorni tuoi felici ricordati di me.
Questa vita nei suoi moti alterni di spontaneità e di
riflessione così equilibrata, essendo superficiale ed
esteriore, ha per suo carattere la chiarezza, è visibile e
plastica. Le gradazioni più fine, i concetti più
difficili sono resi con una estrema precisione di contorni, e
perciò non hanno riverbero: appagano e saziano lo sguardo,
lo tengono sulla superficie, non lo gittano nel profondo. Questa
chiarezza metastasiana, tanto vantata e così popolare
perchè il popolo è tutto superficie, è la
forma nell'ultimo stadio della sua vita, quando a forza di
precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia
letteratura vi raggiunge l'ultima perfezione; l'espressione perde
ogni trasparenza, e non è che se stessa e sola, e vi si
appaga, come un infinito. Stato di petrificazione, che oggi dicesi
"letteratura popolare", come se la letteratura debba scendere al
popolo, e non il popolo debba salire a lei. Metastasio vi spiega
un talento miracoloso. Quella vecchia forma prima di morire manda
gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie
morta, ma è la vita nella sua superficie, paga e contenta
della sua esteriorità, con una facilità e una
rapidità, con un giuoco pieno di grazia e di brio. Il
periodo perde i suoi giri, la parola perde le sue
sinuosità, liscia, scorrevole, misurata come una danza,
accentuata come un canto, melodiosa come una musica. Le
impressioni che te ne vengono, sono vivaci, ma labili, e ti
lasciano contento, ma vuoto, come dopo una festa brillante che ti
ha divertito, e a cui non pensi più.
Il mondo metastasiano può parere assurdo
innanzi alla filosofia, come innanzi alla filosofia pareva assurda
la società ch'esso rappresentava. Come arte, niente
è più vero per coerenza, per armonia, per interna
vivacità. È il ritratto più finito di una
società vicina a sciogliersi, le cui istituzioni erano
ancora eroiche e feudali, materia vuota dello spirito che un tempo
l'animò, e che sotto quelle apparenze eroiche era
assonnata, spensierata, infemminita, idillica, elegiaca e plebea.
Guardatela. Essa è tutta profumata, incipriata, col suo
codino, col suo spadino, cascante, vezzosa, sensitiva come una
donna, tutta "idolo mio", "mio bene", e "vita mia". La poesia di
Metastasio l'accompagna con la sua declamazione, con la sua
cantilena; la parola non ha più niente a dirle; essa
è il luogo comune, che acquista valore trasformata in
trillo, con le sue fughe e le sue volate, co' suoi bassi e i suoi
acuti; non è più un'idea, è un suono
raddolcito dagli accenti, dondolato dalle rime, attenuato in quei
versetti, ridotto un sospiro. Una poesia che cerca i suoi mezzi
fuori di sè, che cerca i motivi e i suoi pensieri nella
musica, abdica già, pronunzia la sua morte. Ben presto
Metastasio sembra troppo poeta al maestro di musica, nè il
pubblico sa più che farsi della parola, e non domanda cosa
dice, ma come suona. La parola, dopo di avere tanto abusato di
sè, non val più nulla, e la stessa parola
metastasiana, così leggiera, così rapida, non
può essere sopportata. La parola è la nota, e i
nuovi poeti si chiamano Pergolese, Cimarosa, Paisiello.
Così terminava il periodo musicale della vecchia
letteratura, iniziato nel Tasso, sviluppato nel Guarini e nel
Marino, giunto alla sua crisi in Pietro Metastasio. Oramai si
viene a questo, che prima si fa la musica, e poi Giuseppe secondo
dice al suo nuovo poeta cesareo, all'abate Casti: - Ora fatemi le
parole. -
In seno a questa società in dissoluzione
si formava laboriosamente la nuova società. E che ce ne
fosse la forza, si vedeva da questo: che non teneva più
gran conto della forma letteraria, stata suo idolo, e che cercava
nuove impressioni nel canto e nella musica. Il letterato, che
aveva rappresentata una parte così importante, cade in
discredito. I nuovi astri sono Farinello e Caffarello, Piccinni,
Leo, Iommelli. La musica ha un'azione benefica sulla forma
letteraria, costringendola ad abbreviare i suoi periodi, a
sopprimere il suo cerimoniale e la sua solennità, i suoi
aggettivi, i suoi ripieni, le sue perifrasi, i suoi sinonimi, i
suoi parallelismi, le sue trasposizioni, tutte le sue dotte
inutilità, e a prendere un'aria più spedita e
andante. Gli orecchi, avvezzi alla rapidità musicale non
possono più sopportare i periodi accademici e le tirate
rettoriche. E se Metastasio è chiamato "divino", è
per la musicalità della sua poesia, per la chiarezza, il
brio e la rapidità dell'espressione. Il pubblico
abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta a
seguire il pubblico. E il pubblico non è più
l'accademia, ancorchè di accademie fosse ancora grande il
numero, prima l'Arcadia. E non è più la corte,
ancorchè i principi avessero ancora intorno istrioni e
giullari sotto nome di "poeti". La coltura si è distesa, i
godimenti dello spirito sono più variati: i periodi e le
frasi non bastano più. Compariscono sulla scena filosofi e
filantropi, giureconsulti, avvocati e scienziati, musici e
cantanti. La parola acquista valore nell'ugola e nella nota, ed
è più interessante nelle pagine di Beccaria, o di
Galiani, che ne' libri letterari. Oramai non si dice più
"letterato", si dice "bell'ingegno" o "bello spirito". Il
"letterato" diviene sinonimo di parolaio, e la parola come parola
è merce scadente. La parola non può ricuperare la
sua importanza, se non rifacendosi il sangue, ricostituendo in
sè l'idea, la serietà di un contenuto. E questo
volea dire il motto che era già in tutte le labbra: "Cose e
non parole".
Già nella critica vedi i segni di questa
grande rigenerazione. Rimasta fino allora nel vuoto meccanismo e
tra regole convenzionali, la critica si mette in istato di
ribellione, spezza audacemente i suoi idoli. Mentre ferveva la
lotta giurisdizionale tra papa e principi, e i filosofi
combattevano il passato nelle sue idee e nelle sue istituzioni,
essa apre il fuoco contro la vecchia letteratura, battezzandola
senz'altro "pedanteria". L'obbiettivo de' filosofi e de' critici
era comune. Combattevano entrambi la forma vacua, gli uni nelle
istituzioni, gli altri nell'espressione letteraria,
ancorchè senza intesa.
E come i filosofi, così i critici erano
avvalorati e riscaldati nella loro lotta dagli esempi francesi e
inglesi. Il Baretti veniva da Londra tutto Shakespeare;
l'Algarotti, il Bettinelli, il Cesarotti, il Beccaria, il Verri
erano in comunione intima con Voltaire e con gli enciclopedisti.
Locke, Condillac, Dumarsais avevano allargate le idee, e
introdotto il gusto delle grammatiche ragionate e delle rettoriche
filosofiche. Si vede la loro influenza nella Filosofia delle
lingue del Cesarotti e nello Stile del Beccaria. Cosa dovea parere
il Crescimbeni, o il Mazzuchelli, o il Quadrio, cosa lo stesso
Tiraboschi, il Muratori della nostra letteratura, dirimpetto a
questi uomini, che pretendevano ridurre a scienza ciò che
fino allora era sembrato non altro che uso e regola? E non si
contentarono i critici de' trattati e de' ragionamenti, ma vollero
accostarsi un po' più al pubblico, usando forme spigliate e
correnti, che preludevano ai nostri giornali. Tali erano le
Lettere virgiliane del Bettinelli, la Difesa del Gozzi, la Frusta
letteraria, il Caffè, l'Osservatore. Così la nuova
critica dava a un tempo l'esempio di una nuova letteratura,
gittando in circolazione molte idee nuove in una forma rapida,
nutrita, spiritosa, vicina alla conversazione, in una forma che
prendea dalla logica il suo organismo e dal popolo il suo tuono.
Certo questi critici non si accordavano fra loro, anzi si
combattevano, come facevano anche i filosofi; ma erano tutti
animati dalla stessa tendenza, uno era lo spirito. E lo spirito
era l'emancipazione dalle regole o dall'autorità, la
reazione contro il grammaticale, il rettorico, l'arcadico e
l'accademico, e, come in tutte le altre cose, così anche
qui non ammettere altro giudice che la logica e la natura. Secondo
il solito la critica passò il segno, e nella sua foga
contro le superstizioni letterarie toccò anche il sacro
Dante: onde venne la bella Difesa che ne scrisse Gaspare Gozzi. Ma
la critica veniva dalla testa, e non aveva radice nell'educazione
letteraria ch'era stata anzi tutto l'opposto. Il che spiega come i
critici, giudici ingegnosi de' vivi e de' morti, volendo essere
scrittori, facevano mala prova, dando un po' di ragione a' retori
e a' grammatici, i quali, chiamati da loro "pedanti", chiamavano
loro "barbari". Posti tra il vecchio, che censuravano, ed un nuovo
modo di scrivere, chiaro nella loro testa, ma affatto personale,
estraneo allo spirito nazionale, e non preparato, anzi
contraddetto nella loro istruzione, si gittarono alla maniera
francese, sconvolsero frasi, costrutti, vocaboli, e, come fu detto
poi, "imbarbarirono la lingua". Gaspare Gozzi tenne una via
mezzana, e facendo buona accoglienza in gran parte alle nuove
idee, non accettò sotto nome di libertà la licenza,
e si studiò di tenersi in bilico tra quella pedanteria e
quella barbarie, usando un modo di scrivere corretto, puro,
classico, e insieme disinvolto. Ma il buon Gozzi, misurato,
elegante, savio, rimase solo, come avviene a' troppo savi nel
fervore della lotta, quando la via di mezzo non è ancora
possibile, standosi di fronte avversari appassionati, confidenti
nella loro forza e disposti a nessuna concessione. Stavano nell'un
campo i puristi, che non potendo invocare l'uso toscano,
intorbidato anch'esso dall'imitazione straniera, invocavano la
Crusca e i classici, e, come non era potuta più tollerare
la prolissità vacua del Cinquecento, rimettevano in moda il
Trecento, quale esempio di scrivere semplice, conciso e succoso;
onde venne quel motto felice: "Il Trecento diceva, il Cinquecento
chiacchierava". Costoro erano, il maggior numero, cruscanti,
arcadi, accademici, puri letterati, tutti brava gente, che avevano
in sospetto ogni novità, e non volevano essere turbati
nelle loro abitudini. Nell'altro campo erano i filosofi, che non
riconoscevano autorità di sorta e tanto meno quella della
Crusca; che invocavano la loro ragione, e vagheggiavano una nuova
Italia così in letteratura, come nelle istituzioni e in
tutti gli ordini sociali. I critici rappresentavano la parte della
filosofia nelle lettere, senza occuparsi di politica; anzi spesso
la loro insolenza letteraria era mantello alla loro
servilità politica, come fu del gesuita Bettinelli e del
Cesarotti. In prima fila tra' contendenti erano l'abate Cesari e
l'abate Cesarotti. Il Cesari nella sua superstizione verso i
classici cancellò in sè ogni vestigio dell'uomo
moderno. Il Cesarotti, di molto più spirito e coltura,
nella sua irreligione verso gli antichi andò così
oltre, che volle fare il pedagogo a Omero e Demostene, e
andò in cerca di una nuova mitologia nelle selve calidonie.
Quando comparve l'Ossian, girò la testa a tutti: tanto eran
sazii di classicismo. Il bardo scozzese fu per qualche tempo in
moda, e Omero stesso si vide minacciato nel suo trono. Si sentiva
che il vecchio contenuto se ne andava insieme con la vecchia
società, e in quel vuoto ogni novità era la
benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi in tanto cozzo di spade
scintillanti tra le nebbie fecero dimenticare i Frugoni, gli
Algarotti e i Bettinelli. Cominciava una reazione contro
l'idillio, espressione di una società sonnolenta e annoiata
in grembo a Galatea e a Clori, e piacevano quei figli della spada,
quelle nebbie e quelle selve, e quei signori de' brandi, e quelle
vergini della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma il pubblico
applaudiva. Per vincere Cesarotti non bastava gridargli la croce:
bisognava fare e piacere al pubblico. Ora l'attività
intellettuale era tutta dal canto de' novatori: chi aveva un po'
d'ingegno, "si gittava al moderno", come si diceva, nelle dottrine
e nel modo di scrivere, e si acquistava nome di "bello spirito",
dispregiando i classici, come di "spirito forte", dispregiando le
credenze. La vecchia letteratura, come la vecchia credenza, era
detta pregiudizio, e combattere il pregiudizio era la divisa del
secolo illuminato, del secolo della filosofia e della coltura. Chi
ricorda l'entusiasmo letterario del Rinascimento, può avere
un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico del secolo
decimottavo. I fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava
"barbarie" il medio evo; ora si chiama "barbarie" medio evo e
Rinascimento. Lo stesso impeto negativo e polemico è ne'
due movimenti, foriero di guerre e di rivoluzioni. E ci erano le
stesse idee, maturate e sviluppate oltralpe, strozzate presso di
noi e rivenuteci dal di fuori. Anzi il movimento non è che
un solo, prolungatosi per due secoli con diverse vicissitudini
nelle varie nazioni, procedente sempre attraverso alle più
sanguinose resistenze, e ora accentrato e condensato sotto nome di
"filosofia", fatto della letteratura suo istrumento. Questo volea
dire il motto: "Cose e non parole". Volea dire che la letteratura,
stata trastullo d'immaginazione, senza alcuna serietà di
contenuto, e divenuta perfino un semplice giuoco di frasi, dovea
acquistare un contenuto, essere l'espressione diretta e naturale
del pensiero e del sentimento, della mente e del cuore: onde
nacque più tardi il barbaro vocabolo "cormentalismo". Messa
la sostanza nel contenuto, quell'ideale della forma perfetta,
gloria del Rinascimento, e rimasto visibile nelle stesse opere
della decadenza, come nel Pastor fido, nell'Adone, nel dramma di
Metastasio, cesse il posto alla forma naturale, non convenzionale,
non manifatturata, non tradizionale, non classica, ma nata col
pensiero e sua espressione immediata. Perciò il Cesarotti,
rispondendo al libro del conte Napione Sull'uso e su' pregi della
lingua italiana, sostenea nel suo Saggio sulla filosofia delle
lingue che la lingua non è un fatto arbitrario, e regolato
unicamente dall'uso e dall'autorità, ma che ha in sè
la sua ragion d'essere; che la sua ragion d'essere è nel
pensiero, e quella parola è migliore che meglio renda il
pensiero, ancorchè non sia toscana e non classica, e sia
del dialetto, o addirittura forestiera con inflessione italiana.
Cosa era quel Saggio? Era l'emancipazione della lingua
dall'autorità e dall'uso in nome della filosofia e della
ragione, come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la
ragione, il senso logico, che penetrava nella grammatica e nel
vocabolario; era lo spirito moderno, che violava quelle forme
consacrate e fossili, logore per lungo uso, e dava loro un'aria
cosmopolitica, l'aria filosofica, a scapito del colore locale e
nazionale. Aggiungendo l'esempio al precetto, il Cesarotti
pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza
domandar loro onde venivano, e, come era uomo d'ingegno, e avea
mente chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi
stranieri e indigeni della conversazione italiana una lingua
animata, armonica, vicina al linguaggio parlato, intelligibile
dall'un capo all'altro d'Italia. Gli scrittori, intenti più
alle cose che alle parole, e stufi di quella forma in gran parte
latina che si chiamava "letteraria", screditata per la sua
vacuità e insipidezza, si attennero senza più
all'italiano corrente e locale, così com'era, mescolato di
dialetto e avvivato da vocaboli e frasi e costruzioni francesi:
lingua corrispondente allo stato della coltura. Così si
scriveva nelle parti settentrionali e meridionali d'Italia, a
Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: così
scrivevano Baretti, Beccaria, Verri, Gioia, Galiani, Galanti,
Filangieri, Delfico, Mario Pagano. Resistenza ci era, massime a
Firenze, patria della Crusca, e a Roma, patria dell'Arcadia:
schiamazzi di letterati e di accademici abbandonati dal pubblico.
Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le qualità opposte
a quelle che costituivano la forma letteraria. Si voleva
rapidità, naturalezza e brio. Tutto ciò che era
finimento, ornamento, riempitura, eleganza, fu tagliato via come
un ingombro. Non si mirò più ad una perfezione
ideale della forma, ma all'effetto, a produrre impressioni sul
lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltà
intellettive. I secreti dello stile furono chiesti alla
psicologia, a uno studio de' sentimenti e delle impressioni, base
del Trattato dello stile del Beccaria. Al vuoto meccanismo,
dottamente artificioso, solletico dell'orecchio, detto "stile
classico", e ridotto oramai un frasario pesante e noioso,
succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale, vispo,
rotto, ineguale, pieno di movimenti, imitazione del linguaggio
parlato. Tipo dell'uno era il trattato; tipo dell'altro era la
gazzetta. Il principio da cui derivava quella rivoluzione
letteraria, era l'imitazione della natura, o, come si direbbe, il
realismo nella sua verità e nella sua semplicità,
reazione alla declamazione e alla rettorica, a quella maniera
convenzionale, che si decorava col nome d'"ideale" o di "forma
perfetta". La vecchia letteratura era assalita non solo nella sua
lingua e nel suo stile, ma ancora nel suo contenuto. L'eroico,
l'idillico, l'elegiaco, che ancora animava quelle liriche, quelle
prediche, quelle orazioni, quelle tragedie, non attecchiva
più, se n'era sazii sino al disgusto. L'eroico era
esagerazione; l'idillio era noia; l'elegia era insipidezza;
pastori e pastorelle, eroi romani e greci, erano giudicati un
mondo convenzionale, già consumato come letteratura, buono
al più a esser messo in musica, come facea Metastasio. Si
volea rinnovare l'aria, rinfrescare le impressioni, si cercava un
nuovo contenuto, un'altra società, un altro uomo, altri
costumi. Vennero in moda i turchi, i cinesi, i persiani. Si
divoravano le Lettere persiane di Montesquieu. L'Ossian era
preferito all'Iliade. Comparve l'uomo naturale, l'uomo selvaggio,
l'uomo di Hobbes e di Grozio, l'uomo che fa da sè, Robinson
Crusoè. Il cavaliere errante divenne il borghese
avventuriere, tipo Gil Blas. E ci fu anche la donna errante, la
filosofessa, la "lionne" di oggi, che stimava pregiudizio ogni
costume e decoro femminile. Ci fu l'uomo collocato in
società, in lotta con essa in nome delle leggi naturali, e
spesso sua vittima, come donne maritate o monacate a forza o
sedotte, figli naturali calpestati da' legittimi, poveri oppressi
dai ricchi, scienza soverchiata da ciarlatani, le Clarisse, le
Pamele, gli Emilii, i Chatterton. Questo nuovo contenuto, conforme
al pensiero filosofico che allora investiva la vecchia
società in tutte le sue direzioni, veniva fuori in romanzi,
novelle, lettere, tragedie, commedie, una specie di repertorio
francese, che faceva il giro d'Italia. Il concetto fondamentale
era la legge di natura in contrasto con la legge scritta, la
proclamazione sotto tutte le forme de' dritti dell'uomo dirimpetto
la società che li violava. I capiscuola erano Rousseau,
Voltaire, Diderot. Seguiva la turba. Tra questi Mercier ebbe molto
séguito in Italia, e vi furono rappresentati i suoi drammi:
il Disertore, l'Amor Familiare, il Jevenal, l'Indigente. Nel
Disertore hai un giovine virtuoso e amabile, che per soccorrere il
padre e per amore lascia il suo reggimento, ed è dannato a
morte: è il grido della natura contro la legge scritta.
Nell'Amor familiare è descritta con vivi colori
l'oppressione degli eretici ne' paesi cattolici. Jeneval è
il contrario della Clarissa: è un don Giovanni femmina, una
Rosalia, che seduce il giovine e inesperto Jeneval fino al
delitto. Nell'Indigente è vivo il contrasto tra il ricco
ozioso, libidinoso, corteggiato e potente, che fa mercato di
tutto, anche del matrimonio; e il povero operoso e virtuoso,
disprezzato e oppresso. A contenuto nuovo nomi nuovi. Commedia e
tragedia parve l'uomo mutilato e ingrandito, veduto da un punto
solo ed oltre il naturale. La critica da' bassi fondi della lingua
e dello stile si alzava al concetto dell'arte, alla sua materia e
alla sua forma, al suo scopo e a' suoi mezzi. Iniziatore di
quest'alta critica, che fu detta "estetica", era Diderot. Da lui
usciva l'affermazione dell'ideale nella piena realtà della
natura, che è il concetto fondamentale della filosofia
dell'arte. L'ideale scendeva dal suo piedistallo olimpico, e non
era più un di là, si mescolava tra gli uomini,
partecipava alle grandezze e alle miserie della vita; non era un
iddio sotto nome di uomo, era l'uomo; non era tragedia e non
commedia, era il dramma. La poesia era storia, come la storia era
poesia. L'ideale era la stessa realtà, non mutilata, non
ingrandita, non trasformata, non scelta; ma piena, concreta,
naturale, in tutte le sue varietà, la realtà
vivente. La tragedia ammetteva il riso, e la commedia ammetteva la
lacrima; s'inventò la "commedia lacrimosa", e la "tragedia
borghese". Il nuovo ideale non era l'idillio o l'eroe de' tempi
feudali: era il semplice borghese in lotta con la vita e con la
società, e che sente della lotta tutt'i dolori e le
passioni. Come il bambino entra nel mondo tra le lacrime,
così l'ideale uscendo dalla sua astrazione serena entrava
nella vita lacrimoso, era patetico e sentimentale. Le Notti di
Young ispiravano ad Alessandro Verri le Notti romane. Rousseau col
suo sentimentalismo rettorico faceva una impressione così
profonda, come col suo naturalismo filosofico. Questi concetti e
questi lavori, frutto di una lunga elaborazione presso i francesi,
giungevano a noi tutt'in una volta, come una inondazione, destando
l'entusiasmo degli uni, le collere degli altri. Le quistioni di
lingua e di stile si elevavano, divenivano quistioni intorno allo
stesso contenuto dell'arte: in breve tempo la critica meccanica
diveniva psicologica, e la critica psicologica si alzava
all'estetica. La vecchia letteratura, combattuta ne' suoi mezzi
tecnici, era ancora contraddetta nella sua sostanza, nel suo
contenuto. Ritrarre dal vero era la demolizione dell'eroico,
com'era concepito e praticato fra noi: cosa divenivano gli eroi di
Metastasio? Il patetico e il sentimentale era la condanna di
quegl'ideali oziosi, sereni, noiosi, che costituivano l'idillio:
cosa diveniva l'Arcadia? Il teatro, si diceva, non è un
passatempo, è una scuola di nobili sentimenti e di forti
passioni: cosa divenivano le commedie a soggetto? Tutto era
riforma. L'abate Genovesi, Verri, Galiani davano addosso al
vecchio sistema economico; la vecchia legislazione era combattuta
da Beccaria; tutti gli ordini sociali erano in quistione;
Filangieri, andando alla base, proponeva la riforma
dell'istruzione e dell'educazione nazionale; principi e ministri,
sospinti dalla opinione, iniziavano riforme in tutt'i rami
dell'azienda pubblica. La vecchia letteratura non poteva durare
così: ci voleva anche per lei la riforma. Già non
produceva più, non destava più l'attenzione: tutto
era canto e musica, tutto era filosofia. Si concepisce in questo
stato degli spiriti il maraviglioso successo de' romanzi e delle
commedie dell'abate Chiari, che per sostentare la vita adulava il
pubblico e gli offriva quell'imbandigione che più
desiderava. Sarebbe interessante un'analisi delle infinite opere,
già tutte dimenticate, del Chiari, perchè
mostrerebbe qual era il genio del tempo. Donne erranti,
filosofesse, gigantesse, figli naturali, ratti di monache, scontri
notturni, finestre scalate, avvenimenti mostruosi, caratteri
impossibili, un eroico patetico e un patetico sdolcinato, una
filosofia messa in rettorica, un impasto di vecchio e di nuovo, di
ciò che il nuovo avea di più stravagante, e di
ciò che il vecchio avea di più volgare: questo era
il cibo imbandito dal Chiari. Il Martelli aveva inventato il verso
alla francese, come prima si era inventato il verso alla latina.
Parve cosa stupenda al Chiari, e ne fece molto uso, e fino la
Genesi voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore
del Chiari è l'immagine di un tempo, che la vecchia
letteratura se ne andava, e la nuova fermentava appena in quella
prima confusione delle menti; sicchè egli ha tutt'i difetti
del vecchio e tutte le stranezze del nuovo. Ben presto si
trovò fra' piedi Carlo Goldoni, costretto dalle stesse
necessità della vita a servire e compiacere al pubblico.
Per qualche tempo si accapigliarono i partigiani del Chiari e del
Goldoni. E tra' due contendenti sorse un terzo, che die' addosso
all'uno e all'altro: dico Carlo Gozzi, fratello di Gaspare.
Uscì a Parigi la Tartana degl'influssi, caricatura di due
comici:
Il primo si chiamava "Originale",
ed il secondo "Saccheggio" s'appella...
I partigiani ogni giorno crescevano,
chi vuole Originale e chi Saccheggio;
tutto il paese a romore mettevano...
Il parlar mozzo e lo stare intra due
niente vale per trarsi di tedio:...
dir bisognava: - Saccheggio è migliore,
-
ovvero: - Originale è più
dottore. -
Gozzi avea maggior coltura del Chiari e del Goldoni, era d'ingegno
svegliatissimo, avea fatto buoni studi, come il fratello,
apparteneva all'accademia de' Granelleschi, che si proponeva di
ristaurare la buona lingua, della quale quei due si mostravano
ignorantissimi. Tutto quel mondo nuovo letterario, predicato con
tanta iattanza e venuto fuori con tanta stravaganza, non gli parea
una riforma, gli parea una corruzione, e non solo letteraria, ma
religiosa, politica e civile:
Usciti son certi autorevol dotti,
con un tremuoto di nuova scienza,
che han tutti gli scrittori mal condotti.
Tratto il lor, di saper non ci è
semenza,
dicono che gli autor morti fur cotti,
e condannano i vivi all'astinenza...
Leggonsi certe nuove "Marianne",
certi "baron", certe "marchese" impresse,
certe fraschette buse come canne,
e le battezzan poi "filosofesse",
che il mal costume introducono a spanne:
credo il dimonio al torchio le mettesse.
Chi dice: - Egli è un comporre alla
francese. -
Certo è peggior del mal di quel paese.
La sua Marfisa è una caricatura de' nuovi romanzi, alla
maniera del Chiari. Carlo magno e i paladini diventano oziosi e
vagabondi; Bradamante una spigolistra casalinga; Marfisa,
l'eroina, guasta da' libri nuovi, vaporosa, sentimentale,
isterica, bizzarra, e finisce tisica e pinzochera. La mira era
alle donne del Chiari e de' romanzi in voga. Gli parea che quel
predicar continuo "dritti naturali", "leggi naturali", "religione
naturale", "uguaglianza", "fratellanza", dovesse render gli uomini
cattivi sudditi, ammaestrandoli di troppe cose, e avvezzandoli a
guardare con invidia al di sopra della loro condizione. Questo
pericolo era più grave, quando massime tali fossero
predicate in teatro, che non era una scola, ma un passatempo; e
invocava contro i predicatori di così nuova morale la
severità dei governi. Il povero Chiari non ci capiva nulla.
Goldoni, che era un puro artista, come il Metastasio, buon uomo e
pacifico, e che di tutto quel movimento del secolo non vedeva che
la parte letteraria, dovea trasecolare a sentirsi dipingere poco
meno che un ribelle, un nemico della società. Vi si
mescolarono gl'interessi delle compagnie comiche, che si
disputavano furiosamente gli scarsi guadagni. Gozzi difendeva la
compagnia Sacchi, tornata di Vienna, e trovato il suo posto preso
dalle compagnie Chiari e Goldoni. Il Sacchi era l'ultimo di quei
valenti improvvisatori comici, che giravano l'Europa e mantenevano
la riputazione della commedia italiana a Vienna, a Parigi, a
Londra. Musici, cantanti e improvvisatori erano la merce italiana
che ancora avea corso di là dalle Alpi. La commedia a
soggetto, alzatasi sulle rovine delle commedie letterarie,
accademiche e noiose, era padrona del campo a Roma, a Napoli, a
Bologna, a Milano, a Venezia. Era della vecchia letteratura il
solo genere vivo ancora, considerato gloria speciale d'Italia, e
solo che ricordasse ancora in Europa l'arte italiana. Gli attori
venuti in qualche fama andavano a Parigi, dov'erano meglio
retribuiti. Ma, come a Parigi Molière fondava la commedia
francese, combattendo le commedie a soggetto italiane; così
a Venezia Goldoni, vagheggiando a sua volta una riforma della
commedia, l'avea forte con le maschere e con le commedie a
soggetto. Questo pareva al Gozzi quasi un delitto di lesa-nazione,
un attentato ad una gloria italiana. La contesa oggi sembra
ridicola, e pare che potevano vivere in buon'amicizia l'uno e
l'altro genere. Ma ci era la passione, e ci era l'interesse, e i
sangui si scaldarono, e molte furono le dispute, insino a che
Goldoni, cedendo il campo, andò a Parigi. La sua fama
s'ingrandì, e impose silenzio al Baretti e rispetto al
Gozzi, soprattutto quando Voltaire lo ebbe messo accanto a
Molière. Da tutto quell'arruffio non uscì alcun
progresso notabile di critica, essendo i Ragionamenti del Gozzi
pieni più di bile che di giudizio, e vuote e confuse
generalità, come di uomo che non conosca con precisione il
valore de' vocaboli e delle quistioni. Ma ne uscirono i primi
tentativi della nuova letteratura, le commedie del Goldoni e le
fiabe del Gozzi, la commedia borghese e la commedia popolana.
Carlo Goldoni era, come Metastasio, artista
nato. Di tutti e due se ne volea fare degli avvocati. Anzi Goldoni
fece l'avvocato con qualche successo. Ma alla prima occasione
correva appresso agli attori, insino a che il natural genio vinse.
Tentò parecchi generi, prima di trovare se stesso. Zeno e
Metastasio erano le due celebrità del tempo; il dramma in
musica era alla moda. Scrisse l'Amalasunta, il Gustavo, l'Oronte,
più tardi il Festino e qualche altro melodramma buffo;
scrisse anche tragedie, la Rosmonda, la Griselda, l'Enrico, e
tragicommedie, come il Rinaldo. Poeta stipendiato di compagnie
comiche, costretto in ciascuna stagione teatrale di dare parecchie
opere nuove, e in una stagione ne die' sedici, saccheggiò,
raffazzonò, tolse di qua e di là ne' repertori
italiani e francesi, e anche ne' romanzi. Non ci era ancora il
poeta, ci era il mestierante; ci era Chiari, non ci era ancora
Goldoni. Trattava ogni maniera di argomento secondo il gusto
pubblico, commedie sentimentali, commedie romanzesche, come la
Pamela, Zelinda e Lindoro, la Peruviana, la Bella selvaggia, la
Bella georgiana, la Dalmatina, la Scozzese, l'Incognita, l'Ircana,
raffazzonamenti la più parte e imitazioni francesi. Scrisse
anche commedie a soggetto, come il Figlio di Arlecchino perduto e
ritrovato, le Trentadue disgrazie di Arlecchino. Si rivelò
a se stesso e al pubblico nella Vedova scaltra. Cominciarono le
critiche, e cominciò lui ad avere una coscienza d'artista.
La vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo e l'arcadico,
il gonfio e il volgare. Goldoni nelle sue Memorie dice:
"I miei compatriotti erano accostumati da lungo
tempo alle farse triviali e agli spettacoli giganteschi. La mia
versificazione non è mai stata di stil sublime; ma ecco
appunto quel che bisognava per ridurre a poco a poco nella ragione
un pubblico accostumato alle iperboli, alle antitesi, ed al
ridicolo del gigantesco e romanzesco."
Per sua ventura gli capitò una buona
compagnia.
"- Ora, - diceva io a me medesimo - ora sto
bene, e posso lasciare il campo libero alla mia fantasia. Ho
lavorato quanto basta sopra vecchi soggetti. Avendo presentemente
attori che promettono molto, convien creare, conviene inventare.
Ecco forse il momento di tentare quella riforma, che ho in vista
da così lungo tempo. Convien trattare soggetti di
carattere: essi sono la sorgente della buona commedia; ed è
appunto con questi che il gran Molière diede principio alla
sua carriera, e pervenne a quel grado di perfezione, che gli
antichi ci avevano soltanto indicato, e che i moderni non hanno
ancor potuto eguagliare. -"
Goldoni conosceva pochissimo Plauto e Terenzio;
faceva di cappello a Orazio e Aristotile; rispettava per
tradizione le regole; ma dice: "Non ho mai sacrificata una
commedia che poteva esser buona ad un pregiudizio che la poteva
render cattiva". Ciò che chiama "pregiudizio" è
l'unità di luogo. La sua scarsa coltura classica avea
questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro da ogni elemento
che non fosse moderno e contemporaneo. Ciò ch'egli
vagheggia non è la commedia dotta, regolata, letteraria,
alla latina o alla toscana, di cui ultimo esempio dava il
Fagiuoli; ma la buona commedia, com'egli la concepiva: "La
commedia essendo stata la mia tendenza, la buona commedia dee
esser la mia meta." E il suo concetto della buona commedia
è questo: "Tutta l'applicazione che ho messa nella
costruzione delle mie commedie, è stata quella di non
guastar la natura". Carattere idillico, superiore a' pettegolezzi
e alle invidiuzze provinciali del letterato italiano, pigliandosi
la buona e la cattiva fortuna con eguaglianza d'animo, quest'uomo
che visse i suoi bravi ottantasei anni e morì a Parigi
pochi anni dopo il Metastasio, morto a Vienna, dice di sè:
"Il morale da me è analogo al fisico;
non temo nè il freddo nè il caldo e non mi lascio
infiammar dalla collera, nè ubbriacar dalla gioia."
Con questo temperamento più di
spettatore che di attore, mentre gli altri operavano, Goldoni
osservava e li coglieva sul fatto. La natura bene osservata gli
pareva più ricca che tutte le combinazioni della fantasia.
L'arte per lui era natura, era ritrarre dal vero. E riuscì
il Galileo della nuova letteratura. Il suo telescopio fu
l'intuizione netta e pronta del reale, guidata dal buon senso.
Come Galileo proscrisse dalla scienza le forze occulte,
l'ipotetico, il congetturale, il soprannaturale, così egli
volea proscrivere dall'arte il fantastico, il gigantesco, il
declamatorio e il rettorico. Ciò che Molière avea
fatto in Francia, lui voleva tentare in Italia, la terra classica
dell'accademia e della rettorica. La riforma era più
importante che non apparisse; perchè, riguardando
specialmente la commedia, avea a base un principio universale
dell'arte, cioè il naturale nell'arte, in opposizione alla
maniera e al convenzionale. Goldoni avea da natura tutte le
qualità che si richiedevano al difficile assunto: finezza
di osservazione e spirito inventivo, misura e giustezza nella
concezione, calore e brio nella esecuzione. La Mandragola,
capitatagli ch'era giovanissimo, gli avea fatta molta impressione.
Il Misantropo, l'Avaro, il Tartufo, le Preziose, e simili commedie
di Molière compirono la sua educazione. Il fondamento della
commedia italiana era l'intreccio; la buona commedia, come la
concepiva lui, dovea avere a fondamento il carattere. - Voi avete
la commedia d'intreccio; io voglio darvi la commedia di carattere
- diceva Goldoni. E commedia di carattere era tirare l'effetto non
dalla moltiplicità di avvenimenti straordinari, ma dallo
svolgimento di un carattere nelle situazioni anche più
ordinarie della vita. Era tutt'un altro sistema, e non solo nella
commedia, ma nello scopo e ne' mezzi dell'arte. Il protagonista
nel primo sistema è il caso o l'accidente, le cui bizzarre
combinazioni generano il maraviglioso. Gli uomini ci stanno come
figure o comparse, appena schizzati, avvolti nel turbine degli
avvenimenti. La vita è nella superficie: l'interno è
occulto. In questa superficialità ottusa si era consunta la
vecchia letteratura, ed, esaurite tutte le forme del maraviglioso,
non bastava più a conseguire l'effetto con mezzi propri,
senza il sussidio del canto, della musica, del ballo, della
mimica, della declamazione. La parola non era più il
principale: era l'accessorio, il semplice tema, l'occasione. Anche
la commedia si credea inetta a conseguire il suo effetto senza il
sussidio delle maschere, senza quell'improvviso de' lazzi degli
Arlecchini, de' Truffaldini, de' Brighella e de' Pantaloni. Ora
l'idea fissa di Goldoni era che la commedia potea per sè
sola interessare il pubblico, e che non le era necessario a
ciò lo spettacoloso, il gigantesco, il maraviglioso in
maschera e senza maschera. La sua riforma era in fondo la
restaurazione della parola, la restituzione della letteratura nel
suo posto e nella sua importanza, la nuova letteratura. E vide
chiaramente che a ristaurare la parola bisognava non lavorare
intorno alla parola, ma intorno al suo contenuto, rifare il mondo
organico o interiore dell'espressione. Questo vide nella commedia,
e mirò a instaurarvi non gli elementi formali e meccanici,
ma l'interno organismo, sopra questo concetto, che la vita non
è il gioco del caso o di un potere occulto, ma è
quale ce la facciamo noi, l'opera della nostra mente e della
nostra volontà. Concetto del Machiavelli, dal quale usciva
la Mandragola. Perciò il protagonista è l'uomo, con
le sue virtù e le sue debolezze, che crea o regola gli
avvenimenti, o cede in balìa di quelli. Manca a Goldoni non
la chiarezza, ma l'audacia della riforma, obbligato spesso a
concessioni e a mezzi termini per contentare il pubblico, la
compagnia e gli avversari. E, come era il suo carattere, vinse
talora più con la pazienza o la destrezza, che con la
risoluta tenacità de' propositi. Di queste concessioni
trovi i vestigi nelle sue migliori commedie, dove non rifiuta
certi mezzi volgari e grossolani di ottenere gli applausi della
platea. E mi spiego come insino all'ultimo continuò nel
romanzesco, nel sentimentale e nell'arlecchinesco: le
necessità del mestiere contrastavano alle aspirazioni
dell'artista. D'altra parte, intento all'interno organismo della
commedia, neglesse troppo l'espressione, e per volerla naturale la
fece volgare, sì che le sue concezioni si staccano vigorose
da una forma più simile a pietra grezza che a marmo.
Ciò che in lui rimane è quel mondo interno della
commedia, tolto dal vero e perfettamente sviluppato nelle
situazioni e nel dialogo. Il centro del suo mondo comico è
il carattere. E questo non è concepito da lui come un
aggregato di qualità astratte, ma è còlto
nella pienezza della vita reale, con tutti gli accessorii. Base
è la società veneziana nella sua mezzanità,
più vicina al popolo che alle classi elevate: ciò
che dà più presa al comico per quei moti improvvisi,
ineducati, indisciplinati, che son propri della classe popolana,
alla quale si accostava molto la borghesia veneta, non giunta
ancora a quel raffinamento e delicatezza di forme, che sono come
l'aria della civiltà. I caratteri, come il maldicente, il
bugiardo, l'avaro, l'adulatore, il cavalier servente, inviluppati
in quest'atmosfera, escono fuori vivi, coloriti, originali, nuovi,
vi contraggono la forma della loro esistenza. Ci è nel loro
impasto del grossolano e dell'improvviso; anzi qui è la
fonte del comico. Cadendo in nature di uomini non disciplinate
dall'educazione, paion fuori in modo subitaneo, e senza freno o
ritegno o riguardo, in tutta la loro forza primigenia, e producono
con quella loro improvvisa grossolanità la più
schietta allegria, tipo il Burbero benefico. Non essendo
concezioni subbiettive e astratte, ma studiate dal vero e colte
nel movimento della vita, il comico non si sviluppa per via di
motti, riflessioni e descrizioni (ciò che dicesi
propriamente "spirito", e appartiene a una società
più colta e raffinata) ma erompe nella brusca
vivacità delle situazioni e dei contrasti. Il Goldoni
è felicissimo a trovare situazioni tali che il carattere vi
possa sviluppare tutte le sue forze. La situazione è per lo
più unica, semplice, naturalissima, sobriamente variata,
messa in rilievo da qualche contrasto, di rado complicata o
inviluppata, graduata con un crescendo di movimenti drammatici, e
ti porta rapidamente alla fine tra la più viva allegria.
Indi viene la superiorità del suo dialogo, che è
azione parlata, di rado interrotta o raffreddata per soverchio uso
di riflessioni e di sentenze. La situazione non è mai
perduta di vista, non digressioni, non deviazioni, rari intermezzi
o episodi; nessuna parte troppo accarezzata o rilevata; onde
è che l'interesse è nell'insieme, e di rado se ne
stacca un personaggio, una scena, un motto. Tutto è
collegato saldamente con tutto: la situazione è il
carattere stesso in posizione, nelle sue determinazioni; l'azione
è la stessa situazione nel suo sviluppo; il dialogo
è la stessa azione ne' suoi movimenti. Questo mondo poetico
ha il difetto delle sue qualità: nella sua
grossolanità è superficiale, e nella sua naturalezza
è volgare. In quel suo correre diritto e rapido il poeta
non medita, non si raccoglie, non approfondisce; sta tutto al di
fuori, gioioso e spensierato, indifferente al suo contenuto, e
intento a caricarlo quasi per suo passatempo, e con l'aria
più ingenua, senza ombra di malizia e di mordacità:
onde la forma del suo comico è caricatura allegra e
smaliziata, che di rado giunge all'ironia. Nel suo studio del
naturale e del vero trascura troppo il rilievo, e, se ha il brio
del linguaggio parlato, ne ha pure la negligenza; per fuggire la
rettorica, casca nel volgare. Gli manca quella divina malinconia,
che è l'idealità del poeta comico e lo tiene al di
sopra del suo mondo, come fosse la sua creatura che accarezza con
lo sguardo e non la lascia che non le abbia data l'ultima
finitezza. Attribuiscono il difetto alla sua ignoranza della
lingua ed alla soverchia fretta; il che, se vale a scusare le sue
scorrezioni, non è bastante a spiegare il crudo e lo
sciacquo del suo colorito.
La nuova letteratura fa la sua prima
apparizione nella commedia del Goldoni, annunziandosi come una
ristaurazione del vero e del naturale nell'arte. Se la vecchia
letteratura cercava ottenere i suoi effetti, scostandosi
possibilmente dal reale, e correndo appresso allo straordinario o
al maraviglioso nel contenuto e nella forma, la nuova cerca nel
reale la sua base, e studia dal vero la natura e l'uomo. La
maniera, il convenzionale, il rettorico, l'accademico, l'arcadico,
il meccanismo mitologico, il meccanismo classico, l'imitazione, la
reminiscenza, la citazione, tutto ciò che costituiva la
forma letteraria, è sbandito da questo mondo poetico, il
cui centro è l'uomo, studiato come un fenomeno psicologico,
ridotto alle sue proporzioni naturali, e calato in tutte le
particolarità della vita reale. Vero è che la
realtà è appena lambita, e le sue profondità
rimangono occulte. Ma la via era quella, e in capo alla via trovi
Goldoni.
A Carlo Gozzi parea che quel vero e quel
naturale fosse la tomba della poesia; e quando il successo del
Goldoni gl'impose rispetto, parlando pure con riguardo
dell'avversario, non potè risolversi ad accettare per buona
la sua riforma. Il romanzesco, il gigantesco, l'arlecchinesco, o,
in altri termini, il mirabile e il fantastico, gli parevano
elementi essenziali della poesia; quel ritrarre dal reale gli
pareva una volgarità. D'altra parte non vedea senza
rincrescimento assalita da ogni parte la commedia a soggetto, che
gli sembrava una gloria italiana. Dicevano che l'era oramai un
vecchio repertorio, che l'era ridotta a mero meccanismo, che l'era
una scuola d'immoralità, di scurrilità, roba da
trivio, "goffe buffonate, fracidumi indecenti in un secolo
illuminato". C'era esagerazione nelle accuse, ma un fondamento di
verità c'era. La commedia improvvisa, dell'arte o a
soggetto, era isterilita, come tutt'i generi della vecchia
letteratura, e tutti quei lazzi che tanto divertivano erano con
poca varietà un vecchiume trasmesso da una generazione
all'altra: si viveva sul passato, i nuovi attori riproducevano gli
antichi; la parte improvvisata era così poco nuova e
improvvisa, come la parte scritta. Piaceva più che la
commedia letteraria, perchè ci era sempre maggior comunione
col pubblico; ma oramai quel Dottor bolognese e Truffaldino
stancavano, come un professore che ripeta ogni anno lo stesso
corso. I letterati e i fautori delle commedie regolate ne
pigliavano argomento per dichiarar guerra alle maschere e volevano
proscrivere addirittura quel genere di commedia, "indecente in un
secolo illuminato". Gozzi che l'avea contro quei lumi, e vedea di
mal occhio tutte quelle novità che ci venivano d'oltralpe,
se ne fece paladino, e scese in campo co' ragionamenti e
coll'esempio, scrivendo sotto nome di "fiabe" commedie con le
maschere, e perciò con una parte improvvisata, le quali
ebbero successo grandissimo, e oggi sono quasi dimenticate. Gozzi
parea a quel tempo un retrivo, e Goldoni era il riformatore; pure
avrei desiderato a Goldoni un po' di quella fibra rivoluzionaria
ch'era in quel retrivo: chè così sarebbe proceduto
più ardito e conseguente nella sua riforma. Il "taciturno
solitario" Gozzi, come lo chiamavano, era uomo d'ingegno; e
perciò penetrato della vita contemporanea, e trasformato
senza saperlo da quelle stesse idee nuove, che gli movevano la
bile. Volendo ristaurare il vecchio, si chiarì novatore e
riformatore, e correndo dietro alla commedia a soggetto,
s'incontrò nella commedia popolana, e ne fissò la
base. Grande confusione era nella sua testa, come si vede da' suoi
ragionamenti; indi la sua debolezza. Goldoni sa quello che vuole,
ha la chiarezza dello scopo e dei mezzi, e va diritto e sicuro:
perciò la sua influenza rimase grandissima. Ma Gozzi non ha
chiaro lo scopo, e vuole una cosa e fa un'altra, e procede a
balzi, tirato da varie correnti. Vuole favorire le maschere; vuole
parodiare gli avversari; vuole rifare Pulci e Ariosto, ristaurando
il fantastico; vuole toscaneggiare, e vuole insieme essere
popolare e corrente; vuol ricostruire il vecchio e comparir nuovo.
Fini transitorii, i quali poterono interessare i contemporanei,
dargli vinta la causa nella polemica e nel teatro, e che oggi sono
la parte morta del suo lavoro. Queste intenzioni penetrano in
tutta la composizione, come elementi perturbatori, e rimasti
inconciliati. Ciò che resta di lui è il concetto
della commedia popolana, in opposizione alla commedia borghese. Le
maschere, cioè certi caratteri o caricature tipiche del
popolo, come Tartaglia, Pantalone, Truffaldino, Brighella,
Smeraldina, rimangono nella sua composizione come elementi di
obbligo e convenzionali, accessorii spesso grotteschi e insipidi
per rispetto al contenuto, innestati e soprapposti. Il contenuto
è il mondo poetico com'è concepito dal popolo, avido
del maraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso
e al pianto. La sua base è il soprannaturale, nelle sue
forme, miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo
dell'immaginazione tanto più vivo, quanto meno l'intelletto
è sviluppato, è la base naturale della poesia
popolana sotto le sue diverse forme, conti, novelle, romanzi,
storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era
impadronita; ma per demolirlo, per gittarvi entro il sorriso
incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua
ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il
sangue giovine e nuovo della commedia a soggetto, questo
osò Gozzi in presenza di una borghesia scettica e nel
secolo de' lumi, nel secolo degli "spiriti forti" e de' "belli
spiriti". E riuscì a interessarvi il pubblico,
perchè quel mondo ha un valore assoluto, e risponde a certe
corde che, maneggiate da abile mano d'artista, suonano sempre
nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del
fanciullo e del popolo. E poichè il pubblico s'interessava
ancora alla commedia del Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le
conclusioni ragionevoli fossero possibili in mezzo alla disputa,
che tutti e due i generi erano conformi al vero, l'uno
rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura,
e l'altro il popolo nelle sue credulità e ne' suoi stupori.
E tutti e due erano una riforma della commedia ne' due suoi
aspetti, la commedia dotta e la commedia improvvisa: era
l'apparizione della nuova letteratura. Ma questo che fece Gozzi
non era precisamente quello che credeva di fare. Ci si messe per
picca e per occasione, disprezzava il pubblico che l'applaudiva,
non prendeva sul serio la sua opera, e perchè Goldoni
imitava dal vero, s'innamorò lui del romanzesco e del
fantastico. Ora l'arte non è un capriccio individuale, e
perchè Shakespeare ti piace, non ne viene che tu possa
rifare Shakespeare, quando anche avessi forza da ciò.
L'arte, come religione e filosofia, come istituzioni politiche ed
amministrative, è un fatto sociale, un risultato della
coltura e della vita nazionale. Gozzi volea rifare un mondo
dell'immaginazione, quando egli medesimo segnava la dissoluzione
di quel mondo nella Marfisa, quando la parte colta e intelligente
della nazione era mossa da impulsi affatto contrari, e quando il
popolo, ebete nella sua miseria, stava come una massa inerte, e
non dava segno di vita letteraria. Se Gozzi fosse sceso in mezzo
al popolo, e vi avesse attinte le sue ispirazioni, potea forse
fare opera viva. Ma Gozzi era aristocratico, odiava tutte quelle
novità, che sentivano troppo di democrazia, e viveva co'
suoi Granelleschi in un ambiente puramente letterario. Rimase
perciò un letterato, non divenne un poeta. Oltre a
ciò, un fatto letterario in quel tempo non potea sorgere di
mezzo al popolo, divenuto acqua stagnante; un movimento c'era, e
veniva dalla borghesia, e con quelle tendenze si sviluppava la
vita nazionale in tutt'i suoi indirizzi. Creare un mondo
d'immaginazione, quando la guerra era appunto contro
l'immaginazione in nome della scienza e della filosofia, era un
andare a ritroso. Gozzi nacque troppo presto. Venne il tempo che
la borghesia, spaventata da quelle esagerazioni che stomacavano
Gozzi, si riafferrò a quel mondo soprannaturale, come a
tavola di salute. Quello era il tempo di Gozzi; e Gozzi ci fu, e
si chiamò Manzoni. Al suo tempo Gozzi fu un elemento
contraddittorio e perciò inconcludente; e la sua idea,
altamente estetica in astratto, riuscì un fatto letterario
e artificiale. Volea ristorare l'antico, odiava le novità,
e senza saperlo le portava nel suo seno: ond'è che tratta
quel suo mondo dell'immaginazione a quello stesso modo che il
forense Goldoni rappresenta la sua società borghese. Gli
manca il chiaroscuro, gli manca l'impressione e il sentimento del
soprannaturale, anzi il suo studio è di rappresentarlo con
tutte le apparenze della naturalezza, come fosse un fatto vulgare
e ordinario, a quel modo che andava predicando Goldoni.
Perciò il suo stile non ha rilievo, il suo colorito non ha
trasparenza, le sue tinte non sono fuse, e volendo esser naturale
spesso ti casca nell'insipido e nel volgare. La naturalezza di
questo mondo è nella ingenuità delle sue
impressioni, curiosità, maraviglia, sospensione, terrore,
collera, pianti, riso, com'è ne' racconti delle
società primitive. Questa ingenuità è
perduta, la naturalezza di Gozzi è negligenza e
volgarità.
Quelle apparizioni non hanno per lui
serietà, sono giochi e passatempi; perciò scherzi
abborracciati, e senza alcun valore proprio, che, aiutati dalla
mimica, da' lazzi, dallo scenario, potevano produrre effetto nella
rappresentazione, e alla lettura piacciono, senza che ti lascino
nell'animo alcun vestigio. Il Baretti predicava in lui un nuovo
Shakespeare, e quando gli fallì alla prova, se la prese con
lui furiosamente, come l'avesse tradito, e dovea prendersela con
sè medesimo, che andava sognando un Shakespeare nel secolo
decimottavo. Che avvenne? La commedia popolana ritornò nel
suo pantano, con le sue maschere, le sue indecenze e le sue
volgarità, e di Gozzi rimase una bella idea, presto
dimenticata. La società prendeva altra via, e seguiva
Goldoni.
Il movimento a Venezia rimase puramente letterario. C'era un
centro toscaneggiante nell'accademia de' Granelleschi, divenuta
presto ridicola, della quale erano anima i fratelli Gozzi; e c'era
dall'altra parte Goldoni con intenzioni più alte, che
attingevano l'organismo dell'arte. Il solo Carlo Gozzi
presentì il significato politico del movimento, e
sonò la campana a stormo; ma nessuno rispose, perchè
il nemico non si trovò. Goldoni anche a Parigi non ci
capiva nulla in quel vertiginoso rimescolio d'idee, e Rousseau non
era per lui che un fenomeno curioso, un magnifico carattere da
commedia, qualche cosa come il "burbero benefico". Questa sua
concentrazione in un punto solo e la sua perfetta innocenza in
tutto l'altro fu la sua forza e la sua debolezza. La sua idea
fissa, ch'era rappresentare dal vivo e dal vero e non guastar la
natura, era il principio rinnovatore della letteratura, negazione
dell'Arcadia, ricostituzione del contenuto e della forma,
incarnato in alcune commedie di esecuzione più o meno
perfetta, ma tutte indimenticabili per la chiarezza e la
verità della concezione, delle situazioni e de' caratteri:
qui fu la sua forza. E la sua debolezza fu il carattere meramente
letterario della sua riforma, che lo tiene nella superficie e gli
fa produrre un mondo locale e particolare, a cui la sua
indifferenza religiosa, filosofica, politica, morale, sociale, la
sua poca coltura, la scarsezza de' suoi motivi interni toglie
rilievo e vigore, toglie quella idealità, che viene da un
significato generale e permanente. Cosa manca a Goldoni? Non lo
spirito, non la forza comica, non l'abilità tecnica: era
nato artista. Mancò a lui quello che a Metastasio: gli
mancò un mondo interiore della coscienza, operoso,
espansivo, appassionato, animato dalla fede e dal sentimento.
Mancò a lui quello che mancava da più secoli a tutti
gl'italiani, e che rendeva insanabile la loro decadenza: la
sincerità e la forza delle convinzioni. Ciò che
attestava una possibile rigenerazione, era la riapparizione di
quel mondo interiore negli spiriti più eletti, che
rimetteva in moto il cervello, e svegliava il sentimento. Il
maggiore impulso veniva dal di fuori. Ma l'entusiasmo pubblico
mostrava che ci era la materia atta a riceverlo, e che l'Italia
dopo lungo riposo si rimetteva in via. Nel mezzodì
l'attività speculativa da Telesio a Coco non mancò
mai, e vi si era formata una scuola liberale, che avea per materia
la quistione giurisdizionale, e si andava allargando a tutte le
utili riforme nell'assetto dello Stato: quando le nuove idee vi si
affacciarono, trovarono gli spiriti educati e pronti a riceverle,
e se ne fecero interpreti eloquenti ed efficaci Filangieri, Pagano
e Galiani. Vi si andava così elaborando un nuovo contenuto
in una forma piena di spirito e di movimento, spesso ingegnosa e
appassionata, filosofia volgarizzata, col linguaggio vivo e
spiritoso della gazzetta. Farse, tragedie, commedie, orazioni,
dissertazioni, prediche, trattati, sonetti, tutt'i generi della
vecchia letteratura continuavano la loro vita solita e meccanica,
senza alcun segno di movimento nel loro interno organismo,
imitazioni, raffazzonamenti, contraffazioni, un mondo di
convenzione accolto con applausi di convenzione. Già
Salvator Rosa aveva a suon di tromba mosso guerra alla
declamazione e alla rettorica, senz'accorgersi che faceva della
rettorica anche lui. Un po' di rettorica c'era pure in alcuno di
quegli scrittori, massime in Filangieri, ma vivificata dalla
novità e importanza delle cose, e da quello spirito moderno
e contemporaneo che desta sempre la più viva
partecipazione. Il sentimento puramente letterario, errante in
quelle provincie tra il voluttuoso, l'ingegnoso e il sentimentale,
ciò che vi rendea così popolari il Tasso e il
Marino, stagnato il movimento letterario, s'era trasformato nel
sentimento musicale, e vi educava Metastasio, e vi apparecchiava
quella scuola immortale di maestri di musica, che furono i veri
padri di un'arte serbata a così grandi destini. La musica
sorgeva animata da quegli stessi impulsi che non trovavano
più soddisfazione nella imputridita forma letteraria,
sorgeva tutta melodia, piena di voluttà, di spirito e di
sentimento. Mentre l'attività speculativa e il sentimento
musicale si andava sviluppando nel mezzogiorno d'Italia, e Goldoni
tentava a Venezia la sua riforma della commedia, Milano diveniva
il centro intellettuale e politico della vita nuova, principali
motori Pietro Verri e Cesare Beccaria. A Venezia c'era l'accademia
de' Granelleschi, a Milano c'era l'accademia de' Trasformati.
Lì si concepiva la riforma, come una restaurazione degli
studi classici, e si combatteva il Goldoni, ch'era il vero
riformatore. Qui dominava sotto tutti gli aspetti lo spirito
nuovo, l'Enciclopedia vi era penetrata con tutto il corteggio
degli scrittori francesi, vi si elaboravano non frasi, ma idee, e
per maggior libertà si usava non di rado il dialetto e non
la lingua. Ci erano i due Verri, il Beccaria, il Baretti, il
Balestrieri, il Passeroni; ci era il fiore dell'intelligenza
milanese. Si chiamavano i Trasformati, e si può dire che
filosofia, legislazione, economia, politica, morale, tutto lo
scibile era già trasformato nelle loro menti, con
più o meno di chiarezza e di coscienza. La letteratura non
potea sfuggire a questa trasformazione, e alla solennità
classica succedeva una forma svelta e naturale, e ne' più
briosa e sentimentale alla francese. Si rideva a spese di
Alessandro Bandiera, che voleva insegnar lingua e stile al padre
Segneri, da lui tenuto non abbastanza boccaccevole, e di padre
Branda, che levava a cielo l'idioma toscano e scriveva
vitupèri del dialetto. Il Passeroni metteva in canzone
quella vecchia società nella Vita di Cicerone e nelle
Favole esopiane, e alla vuota turgidezza del Frugoni, ai lambicchi
dell'Algarotti, a' lezii del Bettinelli, che erano i tre poeti
alla moda, opponeva quel suo scrivere andante, alla buona, tutto
buon senso e naturalezza. Bravissimo uomo, senza fiele, senza
iniziativa, rideva saporitamente della società, in mezzo
alla quale viveva povero e contento. Metastasio, Goldoni e
Passeroni erano della stessa pasta, idillici e puri letterati.
Sono i tre poeti della transizione. Vedi in loro già i
segni di una nuova letteratura, una forma popolare, disinvolta,
rapida, liquida, chiara, disposta più alla negligenza che
all'artificio. Ma è sempre un giuoco di forma, alla quale
manca altezza e serietà di motivi; ci è il
letterato, manca l'uomo. Senti in questi riformatori il vecchio
uomo italiano, di cui era espressione letteraria l'arcade e
l'accademico. Combattevano l'Arcadia, ed erano più o meno
arcadi.
In questi tempi di nuove idee e di vecchi
uomini nacque Giuseppe Parini, il 22 maggio del 1729. Venuto dal
contado in Milano, cominciò i soliti studi classici sotto i
barnabiti, e il padre Branda fu suo maestro di rettorica. Il babbo
volle farne un prete per nobilitare il casato; ma sul più
bello fu costretto per le strettezze domestiche a troncare i suoi
studi e a ingegnarsi per trarre innanzi la vita. Fece il copista e
il pedagogo, e ne' dispregi e nella miseria si temprò il
suo carattere. Come Metastasio e come tutt'i poeti di quel tempo
cominciò arcade, e le sue prime rime le leggi in una
raccolta di poesie a cura di quegli accademici. Rivelò la
sua personalità, combattendo il padre Bandiera e il padre
Branda, di cui era stato un cattivo scolare. Pare che nella scuola
facesse poco profitto, impaziente soprattutto di quei giuochi di
memoria, che erano allora la sostanza degli studi. Padrone di
sè, ne' ritagli di tempo obbliava la sua miseria,
conversando con Virgilio, Orazio, Dante, Ariosto e Berni. E che
cosa dovea parergli il padre Branda col suo toscano, o il padre
Bandiera co' suoi periodi? Ma, se aveva a dispetto quella
pedanteria, non gli rincresceva meno quel francesizzare de'
più, divenuto moda nelle alte e basse classi. Usando per il
suo mestiere in case signorili, potè studiare dappresso
questa strana mescolanza di vecchio e di nuovo, che costituiva
allora la società italiana. Già questo pigliar
subito posizione, questo soprastare alla lotta e schivarne tutte
le esagerazioni mostra una spiccata personalità. Hai
innanzi un carattere.
Parini era uomo più di meditazione che
di azione. Non aveva il gusto de' piaceri, aveva pochi bisogni, e
nessuna cupidigia di onori e di ricchezze. La società non
avea presa su di lui: rimase indipendente e solitario,
inaccessibile alle tentazioni e a' compromessi, e, come Dante,
fece parte da sè. Quel mondo nuovo, che fermentava negli
spiriti, fondato sulla natura e sulla ragione, e in opposizione al
fattizio e al convenzionale del secolo, giuntogli attraverso
Plutarco e Dante più che per influssi francesi, rimase in
lui inalterato, puro di quelle macchie e ombre che vi
sovrappongono le vanità e le passioni e gl'interessi
mondani, perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in
lui una interna misura, quell'equilibrio delle facoltà, che
è la sanità dell'anima, quella compiuta possessione
di se stesso, che è l'ideale del savio, quella mente
rettrice, che sta sopra alle passioni e alle immaginazioni, e le
tiene nel giusto limite. La sua forza è più morale
che intellettuale; perchè la sua intelligenza si alza poco
più su del luogo comune, ed è notabile più
per giustezza e misura che per novità e profondità
di concetti. Lo alza su' contemporanei la sincerità e
vivacità del suo senso morale, che gli dà un
carattere quasi religioso, ed è la sua fede e la sua
ispirazione. Rinasce in lui quella concordia dell'intendere e
dell'atto mediante l'amore, che Dante chiamava sapienza: rinasce
l'uomo.
E l'uomo educa l'artista. Perchè Parini
concepisce l'arte allo stesso modo. Non è il puro
letterato, chiuso nella forma, indifferente al contenuto; anzi la
sostanza dell'arte è il contenuto, e l'artista è per
lui l'uomo nella sua integrità, che esprime tutto se
stesso, il patriota, il credente, il filosofo, l'amante, l'amico.
La poesia ripiglia il suo antico significato, ed è voce del
mondo interiore, chè non è poesia dove non è
coscienza, la fede in un mondo religioso, politico, morale,
sociale. Perciò base del poeta è l'uomo.
La poesia riacquista la serietà di un
contenuto vivente nella coscienza. E la forma si rimpolpa, si
realizza, diviene essa medesima l'idea, armonia tra l'idea e
l'espressione.
La base del contenuto è morale e
politica, è la libertà, l'uguaglianza, la patria, la
dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e
l'azione. È il vecchio programma di Machiavelli, divenuto
europeo e tornato in Italia. La base della forma è la
verità dell'espressione, la sua comunione diretta col
contenuto, risecata ogni mediazione. È la forma di Dante e
di Machiavelli riverginata con esso il contenuto.Il contenuto
è lirico e satirico. È l'uomo nuovo in vecchia
società.
L'uomo nuovo non è un concetto o un tipo
d'immaginazione; ha tutte le condizioni della realtà,
è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo mondo
lirico è Giuseppe Parini, che canta se stesso, esprime le
sue impressioni, si effonde, così com'è, nella
ingenuità della sua natura. Spariscono i temi astratti e
fattizi di religione, di amore, di moralità. Tutto è
contemporaneo e vivo e concreto, prodotto in mezzo al movimento
de' fatti e delle impressioni. Il poeta, ritirato nella pace della
natura e nella calma della mente, sta al di sopra del suo mondo, e
sente le sue agitazioni, i suoi piaceri e le sue punture, ma non
sì che giungano a turbare l'eguaglianza e la
serenità del suo animo. Ci è in questo uomo nuovo
una vena d'idillio e di filosofia, come di uomo solitario,
più spettatore che attore, avvezzo a vivere tranquillo con
sè, a conservare l'occhio puro e spassionato nel giudizio
delle cose. Ci è nel poeta un po' del pedagogo,
ammaestrando, librando con giusta misura i fatti umani. Ma il
pedagogo è trasfigurato nel poeta, e vi perde ogni lato
pedantesco e pretensioso. Il suo amore per la vita campestre non
è misantropia, anzi è accompagnato con la più
tenera sollecitudine per l'umanità. La sua rigidità
pel decoro e l'onestà femminile è raddolcita da un
vivo sentimento della bellezza. La sua dignità è
scevra di orgoglio, la sua severità è amabile, la
sua virtù è pudica, piena di grazia e di modestia.
Ne' suoi concetti e ne' suoi sentimenti ci è sempre il
limite, un'armonica temperanza, dov'è la sua perfezione
intellettuale e morale di uomo e di poeta. Quando leggi la Vita
rustica, la Salubrità dell'aria, il Pericolo, la Musa, la
Caduta e la sua Nice e la sua Silvia, provi una soddisfazione
più che estetica, senti in te appagate tutte le tue
facoltà.
La vecchia società è colta non
nelle sue generalità rettoriche, come nel Rosa, nel Menzini
e in altri satirici, ma nella forma sostanziale della sua
vecchiezza, che è la pompa delle forme nella insipidezza
del contenuto. Quelle forme così magnifiche, alle quali si
dà una importanza così capitale, sono un'ironia,
messe allato al contenuto. La Batracomiomachia è l'ironia
dell'lliade, la Moscheide è l'ironia dell'Orlando: sono
forme epiche applicate a un mondo plebeo. L'ironia è la
forma delle vecchie società, non ancora conscie della loro
dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da giovine, con
tanta più ostentazione nelle apparenze quanto più
meschina è la sostanza. Questo è il concetto
fondamentale del Giorno, fondato su di un'ironia che è
nelle cose stesse, perciò profonda e trista. Parini non vi
aggiunge di suo che il rilievo, una solennità di
esposizione che fa più vivo il contrasto. E perchè
sente in quelle mentite forme negato se stesso, la sua
semplicità, la sua serietà, il suo senso morale, non
ha forza di riderne e non gli esce dalla penna uno scherzo o un
capriccio. Ride di mala grazia, e sotto ci senti il disgusto e il
disprezzo. L'Italia avea riso abbastanza, e rideva ancora ne'
versi di Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla
superficie, sotto alla quale giace repressa e contenuta
l'indignazione dell'uomo offeso. La sua interna misura e
pacatezza, la sua mente rettrice gli dà la forza della
repressione, sì che il sentimento di rado erompe sulla
superficie, e l'ironia di rado piglia la forma del sarcasmo.
L'ironia de' nostri padri del Risorgimento era allegra e scettica,
come nel Boccaccio e nell'Ariosto, perchè era
rivendicazione intellettuale dirimpetto alle assurdità
teologiche e feudali, rivendicazione accompagnata con la
dissoluzione morale: era l'ironia della scienza a spese
dell'ignoranza, e l'ignoranza fa ridere. Ma qui l'ironia è
il risveglio della coscienza dirimpetto a una società
destituita di ogni vita interiore; lì era l'ironia del buon
senso, qui è l'ironia del senso morale. Senti che rinasce
l'uomo, e con esso la vita interiore.
La parola di quella vecchia società era
a sua immagine, cascante, leziosa, vuota sonorità, travolta
e seppellita sotto la musica. Qui risuscita la parola. E vien
fuori faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi e di
sottintesi. La parola scopre l'ironia, perchè è in
antitesi con quella società molle ed evirata che il poeta
finge di celebrare.
Togliete ora l'ironia, fate salire sulla
superficie in modo scoperto e provocante l'ira, il disgusto, il
disprezzo, tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo
dissimula sotto il suo riso, e avete Vittorio Alfieri. È
l'uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a'
contemporanei, statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso.
Alfieri si rivelò tardi a se stesso, e
per proprio impulso, e in opposizione alla società. Fino a
ventisei anni avea menata la vita solita di un signorotto
italiano, tra dissipazioni, viaggi, amori, cavalli, che non gli
empivano però la vita. De' primi studi non gli era rimasto
che l'odio allo studio. Ricco, nobile, non ambiva nè onori,
nè ricchezze, nè uffici: viveva senz'altro scopo che
di vivere. Vita vuota de' ricchi signori, che se ne contentano, e
a cui guardano con invidia i men favoriti dalla fortuna. Ma non se
ne contentava Alfieri, e spesso era tristo, e fra tanto inutile
affaccendarsi sentiva la noia. Era malattia italiana, propria di
tutt'i popoli in decadenza, l'ozio interno, la vacuità di
ogni mondo interiore. Alfieri aveva il sentimento di quel vuoto, e
quella sua vita puramente esteriore era per lui noia mal
dissimulata sotto il mondano rumore. Coloro che questa vita
esteriore debbono conquistarsela col sudore della fronte possono
nel loro travaglio trovare un certo lenitivo di quella noia. Ma
natura e fortuna aveano data ad Alfieri tutta fatta quella vita; i
suoi padri aveano lavorato per lui. Nato non a lavorare, ma a
godere, le sue forze interne poderosissime, soprattutto quella
tenace energia di carattere, atta a vincere ogni resistenza,
rimanevano inoperose, perchè tutto piegava innanzi a lui,
tutto gli era facile. Corse parecchie volte tutta Europa; e non vi
trovò altro piacere che il correre, simulacro dell'interna
irrequietezza non soddisfatta. Questo è ciò che
dicesi "dissipazione", una vita senza scopo e a caso, dove fra
tanto moto rimangono immobili le due forze proprie dell'uomo, il
pensiero e l'affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo, quel suo
correre l'avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che pur si
chiamano uomini. Ma si sentiva uomo, e stava tristo e annoiato, e
non sapeva perchè. Il perchè era questo, che, nato
gagliardissimo di pensiero e di affetto, non aveva trovato ancora
un centro, intorno a cui raccogliere ed esercitare quelle sue
facoltà. Una passione si piglia facilmente in quell'ozio, e
Alfieri ebbe i suoi amori e i suoi disinganni, e gli parve allora
di vivere. Ne' momenti più feroci della noia si
gittò a' libri. Di latino non intendeva più nulla, e
pochissimo d'italiano; parlava francese da dieci anni. Leggendo
per passatempo, tutto natura e niente educazione, lo stile
classico lo annoiava; Racine lo faceva dormire, e gittò per
la finestra un Galateo del Casa, intoppato in quel primo
"conciossiachè". Si die' a' romanzi come i giovanetti alle
Mille e una notte. Tutto il suo piacere era di seguire il racconto
e vederne la fine, e gli dispiacque l'Ariosto per le sue
interruzioni, e lesse Metastasio saltando le ariette, e non
potè leggere l'Henriade e l'Emilio per quel rettoricume,
che gli toglieva la vista del racconto. Aspettando i cavalli in
Savona, gli capitò un Plutarco. Qui sentì qualche
cosa di più che il racconto, gli battè il cuore,
quelle immagini colossali non lo sbigottivano, anzi suscitarono la
sua emulazione: - Non potrei essere anch'io come loro? - E il
potere c'era, perchè le sue forze non erano da meno. Una
notte, assistendo l'amata nella sua infermità,
sceneggiò una tragedia, la quale rappresentata poi a Torino
ebbe grandi applausi. - Perchè non potrei io essere
scrittore tragico? - Venutogli questo pensiero, ci si
fermò. Secondo le opinioni di quel tempo, l'Italia era
innanzi a tutte le nazioni in ogni genere di scrivere; ma le
mancava la tragedia. Quest'era l'idea fissa di Gravina, e
l'ambizione di Metastasio; a questo lavorarono il Trissino, il
Tasso, il Maffei. Ma la tragedia non c'era ancora, per sentenza di
tutti. E dare all'Italia la tragedia gli pareva il più alto
scopo a cui un italiano potesse tendere. Da' suoi viaggi avea
portata ingrandita l'immagine dell'Italia, non trovato nulla
comparabile a Roma, a Firenze, a Venezia, a Genova. Aggiungi la
maestà dell'antica Roma, le memorie di una grandezza non
superata mai. E quantunque l'Italia a quei dì fosse tanto
degenere, avea fermissima fede in una Italia futura, che
vagheggiava nel pensiero simile all'antica. Di questa nuova Italia
fondamento era il rifarvi la pianta "uomo", e gli parea che la
tragedia, rappresentazione dell'eroico, fosse acconcia a ritrarvi
questo nuovo uomo, che gli ferveva nella mente, ed era lui stesso.
Questi concetti erano del secolo, penetrati qua e là nelle
menti, e da lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui
passione, scopo unico e ultimo della vita, e vi pose tutte le sue
forze. Volle essere redentore d'Italia, il grande precursore di
una nuova era, e, non potendo con l'opera, co' versi. Così
trovò alla vita un degno scopo, che gli prometteva gloria,
lo ingrandiva nella stima degli uomini e di se stesso. Lo scopo
era difficilissimo, perchè tutto gli mancava ad ottenerlo.
E la difficoltà gli fu sprone, e glielo rese più
caro. Vi spiegò quella sua energia indomabile, esercitata
fino allora ne' cavalli e ne' viaggi. Per "disfrancesizzarsi" e
"intoscanirsi" visse il più in Toscana, ristudiò il
latino, si pose in capo i trecentisti, contento di "spensare per
pensare", fece suoi compagni indivisibili Dante, Petrarca, Ariosto
e Tasso. Copiò, postillò, tradusse,
"s'inabissò nel vortice grammaticale", e, non guasto dalla
scuola, e tutto lui, si fece uno stile suo. Scrisse come
viaggiava, correndo e in linea retta: stava al principio e l'animo
era già alla fine, divorando tutto lo spazio di mezzo. La
parola gli sembra non via, ma impedimento alla corsa, e sopprime,
scorcia, traspone, abbrevia; una parola di più gli è
una scottatura. Fugge le frasi, le circonlocuzioni, le
descrizioni, gli ornamenti, i trilli e le cantilene: fa antitesi a
Metastasio. Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di
lacerare i ben costrutti orecchi italiani, e a quelli che
strillano dà la baia:
Mi trovan duro?
Anch'io lo so:
pensar li fo.
Taccia ho d'oscuro?
Mi schiarirà poi libertà.
All'Italia del Frugoni e del Metastasio dice ironicamente:
Io canterò d'amor soavemente:
molle udirete il flauticello mio
l'aure agitare armoniosamente
per lusingare il vostro eterno oblio.
Ciò che parevano i suoi versi e ciò che ne pare a
lui, si vede da questo epigramma contro i pedanti:
Vi paion strani?
"Saran toscani."
Son duri duri,
disaccentati...
"Non son cantati."
Stentati, oscuri,
irti, intralciati.. .
"Saran pensati."
Pure Alfieri, discepolo di sè, non era ben sicuro del fatto
suo, e consultò Cesarotti, Parini, tutti quelli che
andavano per la maggiore. Voleva un modello di verso tragico, e un
barlume ne vedeva nell'Ossian. Ma voleva l'impossibile, e in
ultimo prese il miglior partito, fece da sè. "Osa,
contendi", gli diceva in un bel sonetto Parini. E lui a sudare
intorno a' suoi versi, tormentandoli in mille guise; ma
"Gira, volta, ei son francesi"
Gira, volta, ei son versi di
Alfieri, energicamente individuali, "carme più aguzzo
assai, che tondo". Questo ei chiamava "stile tragico". La forma
letteraria era vuota e sonora cantilena. Lui, vi oppone questo
stile, "pensato e non cantato", energico sino alla durezza e pieno
di senso. E non gli venne già da un preconcetto filosofico
intorno all'arte, gli venne dalla sua natura: perciò in
quelle sue asprezze è vivo e originale.
I critici biasimavano lo stile e lodavano tutto
il resto, quasi lo stile fosse un fenomeno arbitrario e isolato.
Non vedevano l'intima connessione che è tra quello stile e
tutto il congegno della composizione. Perchè Alfieri, come
sopprime periodi, ornamenti e frasi, con lo stesso impeto sopprime
confidenti, personaggi, episodi. Nasce una forma nervosa, tesa,
spesso convulsa, che risponde al suo modo di concepire e di
sentire: perciò non pedantesca, anzi viva, interessante,
sincera e calda espressione dell'anima. Se vogliamo conoscere il
segreto di questa forma, vediamo non com'è fatta, ma come
è nata.
Alfieri cercò la tragedia non nel mondo
vivo, ma nelle tragedie apparse. Trovò definizioni e
regole, e le accettò per buone senza esame. Questo fu non
il suo problema, ma il dato o l'antecedente. Poste quelle
definizioni e quelle regole, il suo problema fu di recare a
perfezione la tragedia. Conosceva poco la tragedia greca; avea
letto Seneca; gli erano familiari le tragedie italiane e francesi.
Ma di queste appunto facea poca stima, come prolisse e rettoriche,
e confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia
rappresentazione dell'eroico, la concepì come un conflitto
di forze individuali, dove l'eroe soggiace alla forza maggiore. In
Metastasio la forza maggiore è essa eroica, essa clemente e
benefattrice: il mondo prodotto dalla sua immaginazione musicale
è un riso, un canto, un inno, il mondo della misura e
dell'armonia glorificato e divinizzato. Qui la forza maggiore
è la tirannide, o l'oppressione, e la sua vittima è
l'eroismo o la libertà; è il mondo della violenza e
della barbarie condannato e marchiato a fuoco. Metastasio compiva
un ciclo, Alfieri ne cominciava un altro. I contemporanei
disputavano sullo stile dell'uno e dell'altro, e volevano
somiglianza di stile in tanta opposizione di concetto.
Ponendo la tragedia come conflitto di forze
individuali, Alfieri rimaneva nel quadro delle tragedie francesi.
Il secolo decimosettimo e decimottavo, come reazione al
soprannaturale, cercavano di spiegare la storia con mezzi umani e
naturali, e rappresentavano come azione de' caratteri e delle
passioni individuali quello che gli antichi chiamavano il
"destino", e Dante con tutto il mondo cristiano chiamava "ordine
provvidenziale". Un concetto scientifico della storia era nato in
Italia, dove il destino e l'"ordine provvidenziale" si era
trasformato nella "natura delle cose" di Machiavelli, nello
"spirito" di Bruno, nella "ragione" di Campanella, nel "fato" di
Vico. Ma il concetto era rimasto nelle alte sfere
dell'intelligenza, e appena avvertito, e fuori dell'arte.
Shakespeare con la profonda genialità del suo spirito avea
colto queste forze collettive e superiori che sono il fato della
storia. Ma lo spirito di Alfieri era superficiale, più
operativo che meditativo, più inteso alla rapidità e
al calore del racconto, che a scrutarne le profondità.
Rimase dunque ne' cancelli del secolo decimottavo. La tragedia fu
per lui lotta d'individui, e il fato storico fu la forza maggiore
o la tirannide, e la chiave della storia fu il tiranno. Più
tardi, ispirato dalla Bibbia, gli lampeggiò innanzi il Saul
e intravvide un ordine di cose superiore. Ma il suo Dio
inesorabile ci sta per figura rettorica ed esiste più
nell'opinione e nelle parole degli attori, che nel nesso degli
avvenimenti, tutti spiegati naturalmente. E come un tiranno ci ha
da essere, Dio è il tiranno, e tutto l'interesse è
per Saul, i cui moti sono inconsci, e determinati più dalla
malizia di Abner, che da malizia sua propria. Il suo Saul è
la Bibbia al rovescio, la riabilitazione di Saul, e i sacerdoti
tinti di colore oscuro.
Or questo concetto era la negazione
dell'Arcadia, anzi la sua aperta ed esagerata contraddizione. Al
mondo di Tasso, di Guarini, di Marino, di Metastasio succedeva la
tragedia, non accademica e letteraria, com'erano le tragedie
francesi e italiane, ma politica e sociale, fondata su di una idea
maneggiata allora in tutti gli aspetti dagli scrittori; ed era
questa, che la società apparteneva al più forte, e
che giustizia, virtù, verità, libertà
giacevano sotto l'oppressione di un doppio potere assoluto e
irresponsabile, la tirannide regia e la tirannide papale, il trono
e l'altare. Più tardi Alfieri vi aggiunse la tirannide
popolare. Or questa era tragedia viva, la tragedia del secolo
sotto nomi antichi, la lotta di un pensiero adulto e civile contro
un assetto sociale ancor barbaro, fondato sulla forza. Ma è
tragedia di puro pensiero, rimasta in regioni meramente
speculative, non divenuta storia. Anzi la società tra
quelle agitazioni speculative era ancora idillica e rettorica,
confidente in un progresso pacifico, concordi principi e popoli. A
quello stato sociale corrispondea la tragedia filosofica e
accademica, com'era quella di Voltaire. Alfieri vi aggiunse di suo
se stesso. La tragedia è lo sfogo lirico de' suoi furori,
de' suoi odii, della tempesta che gli ruggìa dentro. In
mezzo alla società imparruccata e incipriata, che
gioiosamente declamava tirannide e libertà, egli prende sul
serio la vita e non si rassegna a vivere senza scopo, prende sul
serio la morale, e vi conforma rigidamente i suoi atti, prende sul
serio la tirannide, e freme e si dibatte sotto alle sue strette,
imprecando e minacciando, prende sul serio l'arte e vagheggia la
perfezione. Le sue idee sono i suoi sentimenti; i suoi
princìpi sono le sue azioni. L'uomo nuovo che sente in
sè ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria
grandezza, e della solitudine si fa piedistallo, e vi si drizza
sopra col petto e colla fronte come statua ideale del futuro
italiano, come di "liber uomo esempio".
Giorno verrà, tornerà il giorno,
in cui
redivivi omai gl'Itali staranno
in campo audaci...
Al forte fianco sproni ardenti dui,
lor virtù prisca ed i miei carmi,
avranno;
Onde in membrar ch'essi già fur, ch'io
fui,
d 'irresistibil fiamma avvamperanno.
Gli odo già dirmi: - O vate nostro, in
pravi
secoli nato, eppur create hai queste
sublimi età che profetando andavi.
Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di vita,
che scolpisce le situazioni, infoca i sentimenti, fonde le idee,
empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci è
lì dentro l'uomo nuovo, solitario, sdegnoso verso i
contemporanei, e che pure s'impone a' contemporanei, sveglia
l'attenzione e la simpatia. Gli è che, se quest'uomo nuovo
non era ancora entrato ne' costumi e ne' caratteri, informava di
sè tutta la cultura, era vivo negl'intelletti: una
parentela c'era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo.
Perchè dunque Alfieri si sente solo? Perchè guarda
con occhio di nemico il suo secolo? Gli è per questo, che
il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato nella sua
potente individualità, divenuto non solo la sua idea, ma la
sua anima, tutta la vita, e che lo vede nella pratica manomesso e
contraddetto da quelli stessi, che pur con le parole lo
glorificavano. Perciò sente uno sdegno più vivo
forse verso i democratici "facitori di libertà", che verso
re e papi e preti, e fugge la loro compagnia, "vergine di lingua,
di orecchi e di occhi persino":
Non l'opra lor, ma il dir consuona al mio.
E muore tristo, maledicendo il secolo, e confidando nella
posterità:
Ma non inulta l'ombra mia, nè muta
starassi, no: fia de' tiranni scempio
la sempre viva mia voce temuta.
Nè lunge molto al mio cessar, d'ogni
empio
veggio la vil possanza al suol caduta,
me forse altrui di liber uomo esempio.
Tutta la sua compassione è per Luigi XVI, e tutta la sua
indegnazione è per l'Assemblea nazionale, per quei
"profumati barbari", balbettanti "una qualche non lor libera
idea", per quei ribaldi fortunati, contro i quali gitta l'ultimo
strale nel Misogallo:
Tiene 'l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni.
Eccolo dunque quest'Alfieri solitario, che serba in sè
inviolato e indiviso il suo modello, e se il cielo gli dà
torto, lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per
natura, risospinto dalla società ancora più in se
stesso, solo col suo modello, rimane nel mondo vago e illimitato
de' sentimenti e de' fantasmi, dove non ci è di concreto e
di compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi
sono più simili a concetti logici che a cose effettuali,
più a generi e specie che ad individui. Non sono
astrazioni, come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni destare
un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi appassionati,
ribollenti, sanguigni: non ci è vacuità, ci è
congestione di un sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e
comunicato. Senti nella tragedia la solitudine dell'uomo, che
armeggia con se stesso e produce la sua propria sostanza. Non ama
ciò che gli è estrinseco, la natura, la
località, la personalità, e non l'intende e non la
tollera, e la stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il calore
di una potentissima individualità non gli basta a infonder
la vita, e resta impotente alla generazione, perchè gli
manca l'amore, quel sentirsi due e cercar l'altro e obbliarsi in
quello. Impotenza per soverchio di attività, che gli toglie
la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle.
L'occhio torbido della passione non guarda intorno, non si
assimila gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione,
diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il
vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza e il riposo
dell'artista, quel divino riso, col quale segue in tutti i suoi
movimenti la sua creatura. Quel suo furore, del quale si vanta,
è il furore di Oreste, che gl'intorbida l'occhio, sì
che investendo il drudo uccide la madre; e gli fa scambiare i
colori, abbozzare le immagini, appuntare i sentimenti, dare al
tutto un aspetto teso e nervoso. Indi quella sceneggiatura e
quello stile, quel sopprimere gradazioni, chiaroscuri, quel
soverchio rilievo, quel dir molto in poco, come si vanta, quella
mutilazione e congestione, quell'abbreviazione tumultuosa della
vita, quel fondo oscuro e incolore della natura, quelle situazioni
strozzate, que' personaggi in abbozzo, che più fremono, e
meno li comprendi. Di che aveva Alfieri un sentore confuso, quando
scriveva:
Nulla di quanto l'uom scienza chiama
per gli orecchi mai giunto erami al core:
ira, vendetta, libertade, amore
sonava io sol, come chi freme ed ama.
E così è. La sua tragedia freme ira, vendetta,
libertà, amore. Ma non basta fremere, o sonare, e l'attica
dea, che gli dice: - O dormi o crea -, ha torto: non chi dorme, ma
chi studia e medita, è buono a creare. Non vale cuore
pieno, e "mente ignuda". Manca a lui la scienza della vita, quello
sguardo pacato e profondo, che t'inizia nelle sue ombre e ne' suoi
misteri, e te ne porge tutte le armonie. Perciò dalla
concitata immaginazione escon fuori punte arditissime, un certo
addensamento di cose e d'immagini, che par folgore, ma in cielo
scarno e povero, com'è il "Pace" di Nerone, il celebre -
Scegliesti? - Ho scelto -, e il "Vivi, Emon, tel comando", e il
"Fui padre", e il "Ribelli tutti. - E ubbidiran pur tutti": uno
stile a fazione di Tacito e di Machiavelli, con una ostentazione
che scopre l'artificio, una vita a lampi e salti, più
dialogo che azione, e sotto forme brevi spesso prolissa e
stagnante. Si succedono sentimenti crudi, aguzzi, senza riposi o
passaggi, e accumulati con una tensione intellettuale di poca
durata e che finisce nello scarno e nell'insipido. E si comprende
perchè fra tanto calore la composizione riesce nel suo
insieme fredda e monotona, perchè in quell'esaltazione
fittizia del discorso ti senti nel vuoto, e perchè fra
tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio,
uomo o donna che sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto
è maggiore negli eroi, soprattutto ne' rari casi che la
forza è con loro e sono essi i vincitori. Le loro
qualità eroiche, religione, patria, libertà, amore,
si esalano in frasi generiche, e non puoi mai coglierli nella loro
intimità e nella loro attività. Ci è il
patriottismo, e non la patria; ci è l'amore, e non
l'amante; ci è la libertà, e manca l'uomo: sembrano
personificazioni più che persone ne' contrasti, nelle
gradazioni, nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e
Isabella, Davide e Gionata, Icilio e Virginio, e i Bruti, gli
Agidi, i Timoleoni. Manca alla virtù ogni semplicità
e modestia, e nella concitata espressione senti la povertà
del contenuto. Maggior vita è ne' personaggi tirannici o
colpevoli, dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile, e l'odio
lo rende profondo. Uno de' personaggi da lui meno stimati e
più interessanti per ricchezza e profondità di
esecuzione è il suo Egisto nell'Agamennone; e la scena dove
l'iniquo con tanta abilità fa sorgere nella mente di
Clitennestra l'idea dell'assassinio, è degna di
Shakespeare.
Alfieri è l'uomo nuovo in veste
classica. Il patriottismo, la libertà, la dignità,
l'inflessibilità, la morale, la coscienza del dritto, il
sentimento del dovere, tutto questo mondo interiore oscurato nella
vita e nell'arte italiana gli viene non da una viva coscienza del
mondo moderno, ma dallo studio dell'antico, congiunto col suo
ferreo carattere personale. La sua Italia futura è l'antica
Italia, nella sua potenza e nella sua gloria, o, com'egli dice,
"il 'sarà' è l''è stato'". Risvegliare
negl'italiani la "virtù prisca", rendere i suoi carmi
"sproni acuti" alle nuove generazioni, sì che ritornino
degne di Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune con
Dante e col Petrarca. L'alto motivo che ispirò il
patriottismo de' due antichi toscani, divenuto a poco a poco un
vecchiume rettorico e messo in musica da Metastasio, ripiglia la
sua serietà nell'uomo nuovo che si andava formando in
Italia, e di cui Alfieri era l'espressione esagerata, a
proporzioni epiche. Perchè Alfieri, realizzando in
sè il tipo di Machiavelli, si avea formata un'anima
politica: la patria era la sua legge, la nazione il suo dio, la
libertà la sua virtù; ed erano idee povere di
contenuto, forme libere e illimitate, colossali come sono tutte le
aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro urto con
la vita pratica. Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente
tragico delle aspirazioni con la realtà, ne sarebbe uscito
un alto pathos, il vero motivo della tragedia moderna. Ma un
concetto così elevato del mondo era prematuro, e d'accordo
col suo secolo Alfieri non vede di tutta quella realtà che
il fenomeno più grossolano, la forza maggiore o il tiranno;
e non lo studia e non lo comprende, ma l'odia, come la vittima il
carnefice; l'odia di quell'odio feroce da giacobino, che non
potendo spiegarsi e assimilarsi l'ostacolo taglia il nodo con la
spada. Alfieri odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre
poetico, e se i giacobini avessero lette le sue tragedie, potevano
dirgli: - Maestro, da voi abbiamo imparato l'arte. - L'uomo che
glorificava il primo Bruto, uccisore de' figli, e l'altro Bruto,
uccisore di Cesare padre suo, l'uomo che non avea che parole di
dispregio per Carlo primo, vittima de' repubblicani inglesi, non
aveva nulla a dire a coloro che tagliarono la testa al decimosesto
Luigi. Ridotte le forze collettive e sociali a forza e arbitrio di
un solo individuo, era naturale che l'individuo prendesse
grandezza epica e colossale sotto il nome di tiranno, e che l'odio
contro di quello fosse proporzionato a quella grandezza. Ma in
questo caso, divenuta la tragedia un gioco di forze individuali,
eliminato ogni elemento collettivo e superiore, essa non
può avere per base che la formazione artistica
dell'individuo. Se non che il nostro tragico è più
preoccupato delle idee che mette in bocca a' suoi eroi, che della
loro anima e della loro personalità. Il contenuto politico
e morale non è qui semplice stimolo e occasione alla
formazione artistica, ma è la sostanza, e invade e guasta
il lavoro dell'arte. Il qual fenomeno ho già notato come
caratteristico della nuova letteratura. Il contenuto esce dalla
sua secolare indifferenza, e si pone come esteriore e superiore
all'arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un mezzo di
divulgarlo e infiammarne la coscienza, per modo che i carmi sieno
"sproni acuti". Il sentimento politico è troppo violento e
impedisce l'ingenua e serena contemplazione. Più è
vivo in Alfieri, e meno gli concede il godimento estetico.
Perciò le sue concezioni, i suoi sentimenti, i suoi colori
sono crudi e disarmonici, e per dar troppo al contenuto toglie
troppo alla forma. Egli è la nuova letteratura nella
più alta esagerazione delle sue qualità, più
simile a violenta reazione contro il passato, che a quella
tranquilla affermazione di sè, paga di un'ironia senza
fiele, così nobile in Parini. Nell'ironia pariniana senti
un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel
sarcasmo alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni.
Nè ci volea meno che quella esagerazione e quella violenza
per colpire le torpide e vuote immaginazioni.
Gli effetti della tragedia alfieriana furono
corrispondenti alle sue intenzioni. Essa infiammò il
sentimento politico e patriottico, accelerò la formazione
di una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di
un mondo interiore nella vita e nell'arte. I suoi epigrammi, le
sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali,
fecero parte della pubblica educazione. Declamare tirannide e
libertà venne in moda, spasso innocente allora, e
più tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione
politica piena di allusione a' casi presenti. I contemporanei,
applaudendo in teatro alle sue tirate, non credevano che quelle
massime dovessero impegnar la coscienza, e trovavano lui che ci
credeva selvatico ed eccentrico. Nè si maravigliavano della
esagerazione; perchè l'esagerazione era da un pezzo la
malattia dello spirito italiano, smarrito il senso della
realtà e della misura. Ma nelle nuove generazioni,
travagliate da' disinganni e impedite nella loro espansione,
quegl'ideali tragici così vaghi e insieme così
appassionati rispondevano allo stato della coscienza, e quei versi
aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti condensati come un
catechismo, ebbero non poca parte a formare la mente ed il
carattere. La sua fama andò crescendo con la sua influenza,
e ben presto parve all'Italia di avere infine il suo gran tragico
pari a' sommi. Ci era la tragedia, ma non c'era ancora il verso
tragico, a sentenza de' letterati. Chiedevano qualche cosa di
mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena di Metastasio. E
quando fu rappresentato l'Aristodemo, il problema parve sciolto.
Vedevano in quella tragedia la fierezza dantesca e la dolcezza
virgiliana, "di Dante il core e del suo duca il canto". E in
verità di Dante e di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo
Monti. Avea Dante nell'immaginazione e Virgilio nell'orecchio.
L'abate Monti, nato fra tanto fermento d'idee,
ne ricevè l'impressione, come tutti gli uomini colti. Ma
furono in lui più il portato della moda, che il frutto di
ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale
a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano "libertà",
bene inteso la "vera libertà", come la chiamavano? E in
nome della libertà glorificò tutt'i governi. Quando
era moda innocente declamare contro il tiranno, gittò sul
teatro l'Aristodemo, che fece furore sotto gli occhi del papa.
Quando la rivoluzione francese s'insanguinò, in nome della
libertà combattè la licenza, e scrisse la
Basvilliana. Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie
di Napoleone, e allora in nome della libertà cantò
Napoleone, e in nome anche della libertà cantò poi
il governo austriaco. Le massime eran sempre quelle, applicate a
tutt'i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello che i
diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli
avvenimenti. I suoi versi suonano sempre "libertà",
"giustizia", "patria", "virtù", "Italia". E non è
tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione, ivi le idee
pigliano calore e forma, sì che facciano illusione a lui
stesso e simulino realtà. Non aveva l'indipendenza sociale
di Alfieri, e non la virile moralità di Parini: era un buon
uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove,
tutte le opinioni, e dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla
maggioranza, e non gli piacea di fare il martire. Fu dunque il
segretario dell'opinione dominante, il poeta del buon successo.
Benefico, tollerante, sincero, buono amico, cortigiano più
per bisogno e per fiacchezza d'animo, che per malignità o
perversità d'indole, se si fosse ritratto nella
verità della sua natura, potea da lui uscire un poeta.
Orazio è interessante perchè si dipinge qual
è, scettico, cinico, poltrone, patriota senza pericolo,
epicureo. Monti raffredda perchè sotto la magnificenza di
Achille senti la meschinità di Tersite, e più alza
la voce, e più piglia aria dantesca, più ti lascia
freddo. Ci è quel falso eroico, tutto di frase e
d'immagine, qualità tradizionale della letteratura, e caro
ad un popolo fiacco e immaginoso, che aveva grandi le idee e
piccolo il carattere. Monti era la sua personificazione, e nessuno
fu più applaudito. La natura gli aveva largito le
più alte qualità dell'artista, forza, grazia,
affetto, armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi
la più consumata abilità tecnica, un'assoluta
padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica. Ma erano forze
vuote, macchine potenti prive d'impulso. Mancava la serietà
di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il
carattere, che è l'impulso morale. Pure i suoi lavori,
massime l'Iliade, saranno sempre utili a studiarvi i misteri
dell'arte e le finezze dell'elocuzione. E la conclusione dello
studio sarà, che non basta l'artista quando manchi il
poeta.
Monti, come Metastasio, fu divinizzato in vita.
Ebbe onori, titoli, forza, molto seguito. Un popolo così
artistico, come l'italiano, ammirava quel suo magistero a freddo,
quella facilità e quella felicità di armonie. Dopo
la sua morte ebbe gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro
Giordani. E l'esagerazione delle accuse rese cari quegli elogi,
quasi pio ufficio alla memoria di un uomo, in cui era più
da compatire che da biasimare.
Fondata la repubblica cisalpina, in quel primo
fervore di libertà Monti fu censurato per la sua
Basvilliana con lo stesso furore che l'avevano applaudito.Un
giovane scrisse la sua apologia. L'atto ardito piacque. E il
giovane entrava nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica.
Parlo di Ugo Foscolo, formatosi alla scuola di Plutarco, di Dante
e di Alfieri.
L'Italia, secondo il solito, se la contendevano
francesi e tedeschi. Ritornava la storia, ma con altri impulsi.
Non si trattava più di dritti territoriali. La sete del
dominio e dell'influenza era dissimulata da motivi più
nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano
"libertà e indipendenza nazionale": dietro alle loro
baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi
prima difensori del papa e ristoratori del vecchio, finivano
promettitori di vera libertà e di vera indipendenza. Le
idee marciavano appresso a' soldati e penetravano ne' più
umili strati della società. Propaganda a suon di cannoni,
che compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un
secolo. Il popolo italiano ne fu agitato ne' suoi più
intimi recessi: sorsero nuovi interessi, nuovi bisogni, altri
costumi. E quando dopo il 1815 parve tutto ritornato nel primo
assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo
profondamente trasformato da uno spirito nuovo, che ebbe, come il
vulcano, le sue periodiche eruzioni, finchè non fu
soddisfatto.
Quei grandi avvenimenti colsero l'Italia
immatura e impreparata. Non ancora vi si era formato uno spirito
nazionale, non aveva ancora una nuova personalità, un
consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena gli
alti monti. Nella stessa borghesia, ch'era la classe colta,
trovavi una confusione d'idee vecchie e nuove, niente di chiaro e
ben definito, audacie ed utopie mescolate con pregiudizi e
barbarie. Non erano sorti avvenimenti atti a stimolare le
passioni, a formare i caratteri. Privi d'iniziativa propria,
aspettavano prima tutto da' principi, poi tutto da' forestieri.
Fatti liberi e repubblicani senza merito loro, rimasero al
sèguito de' loro liberatori, come clientela messa lì
per batter le mani e far la corte al padrone magnanimo. E quando,
passata la luna di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e prese
aria di conquistatore e d'invasore, gittarono le alte grida, e
cominciò il disinganno.
I centri più attivi di questi
avvenimenti furono Napoli e Milano, colà dove le idee nuove
si erano mostrate più vive. Napoli, fatta repubblica e
abbandonata poco poi a se stessa, ebbe in pochi mesi la sua
epopea. Felici voi, Pagano, Cirillo, Conforti, Manthoné,
cui il patibolo cinse d'immortale aureola! La loro morte valse
più che i libri, e lasciò nel regno memorie e
desidèri non potuti più sradicare. Sfuggirono alla
strage alcuni patrioti, che ripararono a Milano, e tra gli altri
il Cuoco, che narrò gli errori e le glorie della breve
repubblica con una sagacia aguzzata dall'esperienza politica.
Milano divenne il convegno de' più illustri patrioti.
Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria erano morti da pochi
anni. Bettinelli, il Nestore, sopravviveva a se stesso. Alfieri,
che ne' primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell'America
e la presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della
rivoluzione, sdegnoso e vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle
Satire l'acre umore, e contraddetto dagli avvenimenti, si
seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e studiando il greco,
finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste. Cesarotti,
addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi ufficiali
e scriveva in verso panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in
ufficio, maturava con poca speranza progetti e riforme. La vecchia
generazione se ne andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo
Monti, professore, cavaliere, poeta di corte. I repubblicani a
Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere regie. E non
si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori
e gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto
strepito di armi.
Comparve Iacopo Ortis. Era il primo grido del
disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre
preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva
cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di una
insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava
l'eroe liberatore di Venezia, e l'eroe mutatosi in traditore
vendeva Venezia all'Austria. Da un dì all'altro Ugo Foscolo
si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue
illusioni, ramingo. Sfogò il pieno dell'anima nel suo
Iacopo Ortis. La sostanza del libro è il grido di Bruto: "O
virtù, tu non sei che un nome vano". Le sue illusioni, come
foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è
la sua morte, è il suicidio. A breve distanza hai l'ideale
illimitato di Alfieri con tanta fede, e l'ideale morto di Foscolo
con tanta disperazione. Siamo ancora nella gioventù, non ci
è il limite. Illimitate le speranze, illimitate le
disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù,
giustizia, gloria, scienza, amore, tutto questo mondo interiore
dopo sì lunga e dolorosa gestazione appena è
fiorito, e già appassisce. La verità è
illusione, il progresso è menzogna. Al primo riso della
fortuna ci era la follia delle speranze, al primo disinganno ci
è la follia delle disperazioni. Questo subitaneo trapasso
di sentimenti illimitati al primo urto della realtà rivela
quella agitazione d'idee astratte ch'era in Italia, venuta da'
libri e rimasta nel cervello, scompagnata dall'esperienza, e non
giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo Iacopo un
sentimento morboso, una esplosione giovanile e superficiale,
più che l'espressione matura di un mondo lungamente covato
e meditato, una tendenza più alla riflessione astratta, che
alla formazione artistica, una immaginazione povera e monotona in
tanta esagerazione de' sentimenti.
Il grido di Iacopo rimase sperduto fra il
rumore degli avvenimenti. Sorsero nuove speranze, si fabbricarono
nuove illusioni. Il romanzo, uscito anonimo, mutilato e
interpolato, pura speculazione libraria, destò
curiosità, fu il libro delle donne e de' giovani, che vi
pescavano un frasario amoroso. Ma non vi si die' importanza
politica nè letteraria, anzi molti, tratti da somiglianze
superficiali, lo dissero imitazione del Werther. Il fatto è
che non rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta da
così rapida vicenda di cose e di uomini, e quelle
disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.
Foscolo si mescolò alla vita italiana e
si sentì fiero della sua nuova patria, della patria di
Dante e di Alfieri. Le necessità della vita lo incalzavano.
E ancora più, uno spirito guerriero che gli ruggìa
dentro e non trovava espansione, una forza inquieta in ozio.
Giovane, pieno d'illusioni, appassionato, con tanto "furore di
gloria", con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio
di fare, e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco,
stimolato da Alfieri, quell'ozio forzato lo gitta violentemente in
sè, gli rode l'anima. È la malattia ch'egli chiama
nel suo Ortis con una energia piena di verità "consunzione
dell'anima". Lo vedi a Milano vagante, scontento, fremente, ora
rinselvarsi, fantasticare, scrivere se stesso in verso, ora
giocare, donneare, contendere, far baccano. Gli balena innanzi il
suicidio, ed ha appena venti anni:
Non son chi fui, perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e
pianto.
In questa malattia di languore s'intenerisce, pensa alla madre, al
fratello, alla sua lontana Zacinto, non senza certi ribollimenti,
che annunziano la vigoria di una forza ròsa, non doma.
Alfieri a venti anni si sfogava correndo Europa, Foscolo si
sfogava verseggiando. Le sue effusioni liriche sono la sua storia
da' sedici a' venti anni. Ricomparisce in quei versi una
intimità dolce e malinconica, di cui l'Italia avea perduta
la memoria. E gli veniva non solo dal Petrarca, ma dalla terra
materna, dal suo sentire greco, dalle "corde eolie maritate alla
grave itala cetra". Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi:
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra: a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
L'esercizio della vita guarì Foscolo. Soldato della
repubblica, combattè a Cento, alla Trebbia, a Novi, a
Genova. La vita militare gli ritornò il sapore della vita.
Nelle odi A Luigia Pallavicini e All 'amica risanata trovi un
mondo musicale e voluttuoso, dove l'anima guarita e gioiosa si
espande nella varietà della vita. La sua fama gli dà
il gusto delle lettere e della poesia; traduce la Chioma di
Berenice e vi appone un comento, dove fa sfoggio di una erudizione
peregrina; tenta una traduzione dell'Iliade, emulo di Monti;
scrive un'orazione pei comizi di Lione, con pomposo artificio di
stile e con gravità e arditezza d'idee.
I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo
alzarono accanto a' sommi. Fu chiamato per antonomasia "l'autore
de' Sepolcri". E in verità, questo carme è la prima
voce lirica della nuova letteratura, l'affermazione della
coscienza rifatta, dell'uomo nuovo.
Una legge della repubblica prescriveva
l'uguaglianza de' sepolcri, l'uguaglianza degli uomini innanzi
alla morte. Quel fasto de' sepolcri sembrava privilegio de' nobili
e de' ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione delle
classi, anche in quella forma. - Parini dunque giacerà
nella fossa comune accanto al ladro, - pensava Foscolo. Questa
logica rivoluzionaria spinta fino agli ultimi corollari gli
offuscava la poesia della vita, lo riconduceva nel mondo naturale
e ferino, non ancora abitato dall'uomo. Nè gli entrava quel
trattar l'uomo come un puro animale. Sentiva in sè offeso
il poeta e l'uomo. Mancava l'idea religiosa che abbellisce la
morte e mostra il paradiso sotto le oscure volte dell'obblio. Ma
vivo era il senso dell'umanità nel suo progresso e ne' suoi
fini, collegata con la famiglia, con la patria, con la
libertà, con la gloria Di là cava Foscolo le sue
armonie, una nuova religione de' sepolcri: il sublime di un mondo
naturale e ferino della morte è trasformato da' sentimenti
più delicati dell'umanità in un pantheon vivente,
perchè opera ancora su' vivi, desta ricordanze e illusioni,
accende a nobili fatti. Sono illusioni, senza dubbio; ma sono le
illusioni dell'umanità, eterne quanto essa, parte della sua
storia. Il carme è una storia dell'umanità da un
punto di vista nuovo, una storia de' vivi costruita da' morti.
Senti un'ispirazione vichiana in questo mondo, che dagli oscuri
formidabili inizi naturali e ferini la religione de' sepolcri alza
a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d'Italia; il doppio
mondo caro a Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Ilio e
Santa Croce. La storia è antica, ma il prospetto è
nuovo, e ne nasce originalità di forme e di colori. Ci
è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del
nulla e dell'infinito, e i sentimenti teneri e delicati di un
cuore d'uomo, il tutto in una forma solenne e quasi religiosa come
di un inno alla divinità.
La Rivoluzione sotto l'orrore de' suoi eccessi
rifaceva già la sua via. Sopravvenivano idee più
temperate; si sentiva il bisogno di una restaurazione religiosa e
morale. Il carme di Foscolo facea vibrare queste nuove corde. La
Musa non è più Alfieri. Si accostavano i tempi di
Vico.
Declamare contro i preti e contro la
superstizione era il tono del secolo. Aggiungi i tiranni, i
nobili, i privilegi, i monopoli. Si combatteva in nome della
filosofia, della libertà, dell'economia pubblica. Qui il
tono è altro.
Non può credere il poeta
all'immortalità dell'anima; pure vorrebbe crederci.
Sarà una illusione, ma è crudeltà togliere
illusioni che ci rendono felici, che ci abbelliscono la vita.
Così la via è aperta ad un ritorno delle idee
religiose, non in nome della verità, ma in nome
dell'umanità e della poesia. Senti già
Châteaubriand.
Ma se "purtroppo" è vero che il tempo
traveste ogni cosa, che la materia solo è immortale, e le
forme periscono, non è vero che la morte dell'uomo sia il
nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano
di lui gli scritti, le idee, le geste, la memoria; la Musa anima
il silenzio delle urne, e i viventi vi cercano ispirazioni e
conforti. La pietà de' defunti è la religione
dell'umanità, ove non si voglia che ricaschi nello stato
ferino. Non vogliamo credere a un essere superiore, dispensatore
del premio e della pena: sia pure, anzi pur troppo è
così: "vero è ben, Pindemonte!". Ma, uomini,
possiamo noi rifiutar fede all'umanità? e vogliamo proprio
togliere alla vita tutte le sue illusioni, tutta la sua poesia?
Foscolo protesta come uomo e come poeta. È in lui sempre il
secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi nel suo
lavoro di demolizione, e che si arretra, cercando un punto di
fermata ne' sentimenti umani, via a' sentimenti religiosi.
Queste cose Foscolo non le pensa solo, le
sente. Ci era già il patriota, il liber uomo: qui apparisce
l'uomo nella sua intimità, ne' delicati sentimenti della
sua natura civile. L'uomo nuovo s'integra, il mondo interiore
della coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa
profondità di sentire che sono uscite le più belle
ispirazioni della lirica italiana, il lamento di Cassandra, le
impressioni di Maratona, l'apoteosi di Santa Croce. Il punto di
vista è così elevato che lo spettacolo d'Italia
caduta così giù, materia di tanta rettorica, lo
trova rassegnato e meditativo sulle alterne vicende delle umane
sorti. Ci è vista di filosofo, cuore d'uomo e ispirazione
di poeta.
Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse
tócca una corda che vibrava in tutt'i cuori. E non fu
minore l'impressione su' letterati.
La nuova letteratura si era annunziata con la
soppressione della rima. Alla terzina e all'ottava succedeva il
verso sciolto. Era una reazione contro la cadenza e la cantilena.
La nuova parola, confidente nella serietà del suo
contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima: bastava ella
sola a se stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa, e non era
già una tragedia o un poema, era una composizione lirica,
alla quale egli osa togliere tutt'i mezzi cantabili e musicali
della metrica. Qui è pensiero nudo, acceso nella
immaginazione, e prorompente, caldo di se stesso, con le sue
consonanze e le sue armonie interne. Il verso, domato da tenace
lavoro, rotte le forme tradizionali e meccaniche, vien fuori
spezzato in sè, con nuove tessiture e nuovi suoni, e non
è artificio, è voce di dentro, è la musica
delle cose, la grande maniera di Dante. Anche il genere parve
nuovo. Al sonetto e alla canzone succedeva il carme, forma libera
di ogni esterno meccanismo. Era il poema lirico del mondo morale e
religioso, l'elevazione dell'anima nelle alte sfere
dell'umanità e della storia, una ricostruzione della
coscienza o dell'uomo interiore al di sopra delle passioni
contemporanee, era l'uomo intero, nella esteriorità della
sua vita di patriota e di cittadino e nella intimità de'
suoi affetti privati, era l'aurora di un nuovo secolo. Il carme
preludeva all'inno. Foscolo batteva alle porte del secolo
decimonono.
Entrato in questa via, mette mano ad altri
carmi, l'Alceo, la Sventura, l'Oceano. Ma non trova più la
prima ispirazione: compone a freddo, letterariamente, gli escono
frammenti, niente giunge a maturità. Comparvero ultime le
Grazie. Lavoro finissimo di artista, ma il poeta quasi non ci
è più.
Rimane un Foscolo in prosa. Hai innanzi la sua
Prolusione, le sue lezioni, i suoi scritti critici. Non è
prosa francese e non toscana, voglio dire che vi desideri la
grazia e la vivezza toscana, e la logica e il brio francese.
È una prosa personale, ancora in formazione, piena di
reminiscenze latine e oratorie, con una tendenza alla
maestà e alla forza. Mostra più calore
d'immaginazione che vigore d'intelletto.
Il concetto dominante di questa prosa è
l'uomo soprapposto al letterato. Foscolo ti dà la formola
della nuova letteratura. La sua forza non è al di fuori, ma
al di dentro, nella coscienza dello scrittore, nel suo mondo
interiore. Dante e Petrarca visti da questo aspetto risplendono di
nuova luce. Lo stile si scioglie dall'elocuzione e da ogni
artificio tecnico, e s'interna nel pensiero e nel sentimento. Lo
stesso Beccaria è oltrepassato. Ci avviciniamo
all'estetica. Non ci è ancora la scienza, ma ce n'è
il gusto e la tendenza.
E ci è ancora di più. Vi rinasce
il gusto delle investigazioni filologiche e storiche, tenute in
tanto disprezzo da un secolo che faceva tavola di tutto il
passato. L'Italia vi ripiglia le sue tradizioni, e si ricongiunge
a Vico e Muratori.
Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non
è dubbio che se il progresso umano avvenisse non in modo
tumultuario, ma in modo logico e pacifico, l'ultimo scrittore del
secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore del
secolo decimonono, il capo della nuova scuola. Ma quel progresso
vestiva aspetto di reazione, e in quella sua forma negativa e
violenta offendeva le idee e le forme di un secolo, del quale
Foscolo si sentiva complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra
mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato
se stesso. E quando avea già moderate molte sue opinioni
religiose e politiche, e s'era fatto della vita un concetto
più reale, e s'era spogliata gran parte delle sue
illusioni, quando stava già con l'un piè nel nuovo
secolo; calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo
flutto delle sue contraddizioni finì tristo, lanciando al
nuovo secolo, come una sfida le sue Grazie, l'ultimo fiore del
classicismo italiano.
Foscolo morì nel 1827. E già si
erano levati sull'orizzonte Pellico, Manzoni, Grossi, Berchet.
Comparsa era la scuola romantica l'audace scuola boreale.
Il 1815 è una data memorabile, come
quella del Concilio di Trento. Segna la manifestazione officiale
di una reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria,
iniziata già negli spiriti, come se ne veggono le orme
anche ne' Sepolcri, e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu
così rapida e violenta come la rivoluzione. Invano
Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni, e
cercando nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso
giunse a tale, che tutti gli attori della rivoluzione furono
mescolati in una comune condanna, giacobini e girondini,
Robespierre e Danton, Marat e Napoleone. Il "terrore bianco"
successe al "rosso".
Venne in moda un nuovo vocabolario filosofico,
letterario, politico. I due nemici erano il materialismo e lo
scetticismo, e vi sorse contro lo spiritualismo portato sino
all'idealismo e al misticismo. Al dritto di natura si oppose il
dritto divino, alla sovranità popolare la
legittimità, a' dritti individuali lo Stato, alla
libertà l'autorità o l'ordine. Il medio evo
ritornò a galla, glorificato come la culla dello spirito
moderno, e fu corso e ricorso dal pensiero in tutt'i suoi
indirizzi. Il cristianesimo, bersaglio fino a quel punto di tutti
gli strali, divenne il centro di ogni investigazione filosofica e
la bandiera di ogni progresso sociale e civile; i classici furono
per istrazio chiamati "pagani", e le dottrine liberali furono
qualificate senz'altro pretto paganesimo; gli ordini monastici
furono dichiarati benefattori della civiltà, e il papato
potente fattore di libertà e di progresso. Mutarono i
criteri dell'arte. Ci fu un'arte pagana, e un'arte cristiana, di
cui fu cercata la più alta espressione nel gotico, nelle
ombre, ne' misteri, nel vago e nell'indefinito, in un di là
che fu chiamato "l'ideale", in un'aspirazione all'infinito, non
capace di soddisfazione, perciò malinconica: la malinconia
fu battezzata, e detta qualità "cristiana", il sensualismo,
il materialismo, il plastico divenne il carattere dell'arte
"pagana": sorse il genere cristiano "romantico" in opposizione al
genere "classico". "Religione", "fede", "cristianesimo",
"l'ideale", "l'infinito", lo "spirito", "il trono e l'altare", "la
pace e l'ordine" furono le prime parole del nuovo secolo. La
contraddizione era spiccata. A Voltaire e Rousseau succedeva
Châteaubriand, Staël, Lamartine, Victor Hugo,
Lamennais. E proprio nel 1815 uscivano in luce gl'Inni sacri del
giovane Manzoni. Storia, letteratura, filosofia, critica, arte,
giurisprudenza, medicina, tutto prese quel colore. Avevamo un
neoguelfismo, il medio evo si drizzava minaccioso e vendicativo
contro tutto il Rinascimento.
Il movimento non era già fittizio e
artificiale, sostenuto da penne salariate, promosso dalle polizie,
suscitato da passioni e interessi temporanei. Era un serio
movimento dello spirito, secondo le eterne leggi della storia, al
quale partecipavano gl'ingegni più eminenti e liberi del
nuovo secolo. Movimento esagerato senza dubbio ne' suoi inizi,
perchè mirava non solo a spiegare, ma a glorificare il
passato, a cancellare dalla storia i secoli, a proporre come
modello il medio evo. Ma l'una esagerazione chiamava l'altra. La
dea Ragione e la comunione de' beni avea per risposta l'apoteosi
del carnefice e la legittimità dell'Inquisizione.
Ma l'esagerazione fu di corta durata, e la
reazione fallì ne' suoi tentativi di ricomposizione
radicale alla medio evo. Avea contro di sè infiniti nuovi
interessi venuti su con la Rivoluzione, interessi materiali,
morali, intellettuali. D'altra parte il nuovo ordine di cose
favoriva in gran parte la monarchia, che avea pure contribuito a
promuoverlo. Non era interesse de' principi restaurare le
maestranze, le libertà municipali, le classi privilegiate,
tutte quelle forze collettive sparite nella valanga
rivoluzionaria, nelle quali essi vedevano un freno al loro potere
assoluto. Rimase dunque in piedi quasi dappertutto e quasi intero
l'assetto economico-sociale consacrato da' nuovi codici, e la
monarchia assoluta uscì più forte dalla burrasca.
Perchè il clero e la nobiltà, un giorno suoi rivali,
divennero i suoi protetti e i suoi servitori sotto titoli pomposi,
e scomparse le forze collettive naturali, potè con
facilità riordinare la società sopra aggregazioni
artificiali necessariamente sottomesse alla volontà
sovrana, burocrazia, esercito e clero. La burocrazia interessava
alla conservazione dello Stato la borghesia, che si dava alla
caccia degl'impieghi, e centralizzando gli affari sopprimeva ogni
libertà e movimento locale, e teneva nella sua dipendenza
provincie e comuni. Una moltitudine d'impiegati invasero lo Stato
come cavallette, ciascuno esercitando per suo conto una parte del
potere assoluto, di cui era istrumento. L'esercito, divenuto
permanente, anzi una istituzione dello Stato, fu ordinato a modo
di casta, contrapposto ai cittadini, evirato dall'ubbidienza
passiva, e avvezzo a ufficio più di gendarme che di
soldato. Il clero, stretta l'alleanza fra il trono e l'altare, si
recò in mano l'educazione pubblica, vigilò scuole,
libri, teatri, accademie, osteggiò tutte le idee nuove,
mantenne l'ignoranza nelle moltitudini, trattò la coltura
come sua nemica. Motrice della gran mole era la polizia, penetrata
in tutte queste aggregazioni governative, divenuto spia
l'impiegato, il soldato e il prete. Ne uscì una corruzione
organizzata, chiamata "governo", o in forma assoluta, o in
maschera costituzionale.
Una reazione così fatta era in una
contraddizione violenta con tutte le idee moderne, e non potea
durare. Sopravvennero i moti di Spagna, di Napoli, di Torino, di
Parigi, delle Romagne; Grecia e Belgio conquistavano la loro
autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col
sentimento liberale. E il secolo decimottavo ripigliava il suo
cammino co' suoi dritti individuali, co' suoi princìpi
d'eguaglianza, con la sua "carta" dell'Ottantanove. I principi
legittimi caddero. La monarchia per vivere si trasformò, si
ammodernò, prese abiti borghesi, divise il suo potere con
le classi colte. E soddisfatta la borghesia, soddisfatti tutti. Il
terzo stato era niente; il terzo stato fu tutto.
Su questo compromesso visse l'Europa lunghi
anni. Le istituzioni costituzionali si allargarono. Il censo e la
capacità apersero la via a' più alti uffici, rotte
tutte le barriere artificiali. Continuò la guerra
più aspra al feudalismo, alla manomorta, a' privilegi. La
borghesia trovò largo pascolo alla sua attività e
alla sua ambizione ne' parlamenti, ne' consigli comunali e
provinciali, nella guardia nazionale, nel giurì, nelle
accademie, nelle scuole sottratte al clero. Le industrie e i
commerci si svilupparono; si apersero altre fonti alla ricchezza.
Un nuovo nome segnava la nuova potenza venuta su. Non si diceva
più "aristocrazia", si diceva "bancocrazia", alimentata
dalla libera concorrenza. Chi aveva più forza, vinceva e
dominava, forza di censo, d'ingegno e di lavoro. L'attività
intellettuale, stimolata in tutti i versi, fra tanta pubblica
prosperità faceva miracoli. All'ombra della pace e della
libertà fiorivano le scienze e le lettere. Anche dove gli
ordini costituzionali non poterono vincere, come in Italia, la
reazione allentò i suoi freni, la borghesia ebbe una parte
più larga alle pubbliche faccende, e vi s'introdusse un
modo di vivere meno incivile. A poco a poco il vecchio si
accostumava a vivere accanto al nuovo; il dritto divino e la
volontà del popolo si associavano nelle leggi e negli
scritti, formola del compromesso sul quale riposava il nuovo
edificio; e venne tempo che una conciliazione parve possibile non
solo fra il monarcato e il popolo, ma fra il papato e la
libertà.
Adunque, sedati i primi bollori, quel movimento
che aveva aria di reazione, era in fondo la stessa Rivoluzione,
che ammaestrata dalla esperienza moderava e disciplinava se
stessa. I disinganni, le rovine, tanti eccessi, un ideale
così puro, così lusinghiero, profanato al suo primo
contatto col reale, tutto questo dovea fare una grande impressione
sugli spiriti e renderli meditativi. La reazione era il passato
ancora vivo nelle moltitudini, assalito con una violenza, che
tirava in suo favore anche gl'indifferenti, e che ora rialzava il
capo con superbia di vincitore. L'esperienza ammaestrò che
il passato non si distrugge con un decreto, e che si richiedono
secoli per cancellare dalla storia l'opera de' secoli. E
ammaestrò pure che la forza allora edifica solidamente
quando sia preceduta dalla persuasione, secondo quel motto di
Campanella che "le lingue precedono le spade". Evidentemente la
Rivoluzione aveva errato, esagerato le sue idee e le sue forze, ed
ora si rimetteva in via con minor passione, ma con maggior senso
del reale, confidando più nella scienza che
nell'entusiasmo. Che cosa fu dunque il movimento del secolo
decimonono, sbolliti i primi furori di reazione? Fu lo stesso
spirito del secolo decimottavo, che dallo stato spontaneo e
istintivo passava nello stadio della riflessione, e rettificava le
posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il senso della
misura e della realtà, creava la scienza della rivoluzione.
Fu lo spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sè e
prendeva il suo posto nella storia. Châteaubriand,
Lamartine, Victor Hugo Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano
liberali non meno di Voltaire e Rousseau, di Alfieri e Foscolo.
Sono anch'essi figli del secolo decimosettimo e decimottavo, il
loro programma è sempre la "carta" dell'Ottantanove, il
"credo" è sempre "libertà, patria, uguaglianza,
dritti dell'uomo". Il sentimento religioso, troppo offeso si
vendica, offende a sua volta; pure non può sottrarsi alle
strette della Rivoluzione. Risorge, ma impressionato dello spirito
nuovo, col programma del secolo decimottavo. Ciò a cui
mirano i neo-cattolici non è di negare quel programma, come
fanno i puri reazionari, co' gesuiti in testa, ma è di
conciliarlo col sentimento religioso, di dimostrare anzi che
quello è appunto il programma del cristianesimo nella
purezza delle sue origini. È la vecchia tesi di Paolo
Sarpi, ripigliata e sostenuta con maggior splendore di parola e di
scienza. La Rivoluzione è costretta a rispettare il
sentimento religioso, a discutere il cristianesimo, a riconoscere
la sua importanza e la sua missione nella storia; ma d'altra parte
il cristianesimo ha bisogno per suo passaporto del secolo
decimottavo, e prende quel linguaggio e quelle idee, e odi parlare
di una "democrazia cristiana" e di un "Cristo democratico", a quel
modo che i liberali trasferiscono a significato politico parole
scritturali, come l'"apostolato delle idee", il "martirio
patriottico", la "missione sociale", la "religione del dovere". La
rivoluzione, scettica e materialista, prende per sua bandiera:
"Dio e popolo", e la religione, dommatica e ascetica, si fa valere
come poesia e come morale, e lascia le altezze del soprannaturale
e s'impregna di umanismo e di naturalismo, si avvicina alla
scienza prende una forma filosofica. Lo spirito nuovo raccoglie in
sè gli elementi vecchi, ma trasformandoli, assimilandoli a
sè, e in quel lavoro trasforma anche se stesso, si realizza
ancora più. Questo è il senso del gran movimento
uscito dalla reazione del secolo decimonono, di una reazione
mutata subito in conciliazione. E la sua forma politica è
la monarchia per la grazia di Dio e per la volontà del
popolo.
La base teorica di questa conciliazione
è un nuovo concetto della verità, rappresentata non
come un assoluto immobile a priori, ma come un divenire ideale,
cioè a dire secondo le leggi dell'intelligenza e dello
spirito. Onde nasceva l'identità dell'ideale e del reale,
dello spirito e della natura, o, come disse Vico, la "conversione
del vero col certo". Il qual concetto da una parte ridonava ai
fatti una importanza che era contrastata da Cartesio in qua, li
allogava, li legittimava, li spiritualizzava, dava a quelli un
significato e uno scopo, creava la filosofia della storia; d'altra
parte realizzava il divino, togliendolo alle strettezze mistiche e
ascetiche del soprannaturale, e umanizzandolo. Il concetto adunque
era in fondo radicalmente rivoluzionario, in opposizione ricisa
col medio evo, e con lo scolasticismo, quantunque apparisca una
reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e assoluto era
nel secolo decimottavo. Sicchè quel movimento in apparenza
reazionario dovea condurre a un nuovo sviluppo della Rivoluzione
su di una base più solida e razionale.
Il primo periodo del movimento fu detto
"romantico", in opposizione al classicismo. Ebbe per contenuto il
cristianesimo e il medio evo, come le vere fonti della vita
moderna, il suo tempo eroico, mitico e poetico. Il Rinascimento fu
chiamato "paganesimo", e quell'età che il Rinascimento
chiamava "barbarie", risorse cinta di nuova aureola. Parve agli
uomini rivedere dopo lunga assenza Dio e i santi e la Vergine e
quei cavalieri vestiti di ferro e i tempi e le torri e i crociati.
Le forme bibliche oscurarono i colori classici: il gotico, il
vaporoso, l'indefinito, il sentimentale liquefecero le immagini,
riempirono di ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo
contenuto e nuova forma. Il papato divenne centro di questo antico
poema ringiovanito, il cui storico era Carlo Troya, e l'artista
Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e Gregorio settimo ebbero ragione
contro Dante e Federico secondo. Cronisti e trovatori furono
disseppelliti; l'Europa ricostruiva pietosamente le sue memorie, e
vi s'internava, vi s'immedesimava, ricreava quelle immagini e quei
sentimenti. Ciascun popolo si riannodava alle sue tradizioni, vi
cercava i titoli della sua esistenza e del suo posto nel mondo, la
legittimità delle sue aspirazioni. Alle antichità
greche e romane successero le antichità nazionali,
penetrate e collegate da uno spirito superiore e unificatore,
dallo spirito cattolico. Si svegliava l'immaginazione, animata
dall'orgoglio nazionale e da un entusiasmo religioso spinto sino
al misticismo; e dal lungo torpore usciva più vivace il
senso metafisico e il senso poetico. Risorge l'alta filosofia e
l'alta poesia. Lirica e musica, poemi filosofici e storici sono le
voci di questo ricorso.
Ma il romanticismo, come il classicismo, erano
forme sotto alle quali si manifestava lo spirito moderno. Foscolo
e Parini nel loro classicismo erano moderni, e moderni erano nel
loro romanticismo Manzoni e Pellico. Invano cerchi il candore e la
semplicità dello spirito religioso: è un passato
rifatto e trasformato da immaginazione moderna, nella quale ha
lasciato i suoi vestigi il secolo decimottavo. Non ci sono
più le passioni ardenti e astiose di quel secolo, ma ci
sono le sue idee, la tolleranza, la libertà, la
fraternità umana, consacrata da una religione di pace e di
amore, purificata e restituita nella sua verginità, nella
purezza delle sue origini e de' suoi motivi. Una reazione
così fatta già non è più reazione,
è conciliazione, è la rivoluzione stessa vinta, che
non minaccia più, e lascia il sarcasmo, l'ironia,
l'ingiuria, e trasformatasi in apostolato evangelico prende abito
umile e supplichevole dirimpetto agli oppressori, e fa suo il
pergamo, fa suo Dio e Cristo, e la Bibbia diviene l'"ultima parola
di un credente". Lo spirito non rimane nelle vette del
soprannaturale e nelle generalità del dogma. Oramai conscio
di sè, plasma il divino a sua immagine, lo colloca e lo
accompagna nella storia. La "divina Commedia" è capovolta:
non è l'umano che s'india, è il divino che si
umanizza. Il divino rinasce, ma senti che già innanzi
è nato Bruno, Campanella e Vico.
La stella di Monti scintillava ancora cinta di astri minori;
Foscolo solitario meditava le Grazie; Romagnosi tramandava alla
nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel
1815, tra il rumore de' grandi avvenimenti, usciva in luce un
libriccino, intitolato Inni, al quale nessuno badò. Foscolo
chiudeva il suo secolo co' Carmi; Manzoni apriva il suo con
gl'Inni. Il Natale, la Passione, la Risurrezione, la Pentecoste
erano le prime voci del secolo decimonono. Natali, Marie e
Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia letteratura, materia
insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati. Mancata era
l'ispirazione, da cui uscirono gl'inni de' santi padri e i canti
religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i
templi de' nostri antichi artisti. Su quella sacra materia era
passato il Seicento e l'Arcadia, insino a che disparve sotto il
riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva
anche lei il suo "concordato". Ricompariva quella vecchia materia,
ringiovanita da una nuova ispirazione.
Ciò che move il poeta non è la
santità e il misterioso del dogma. Non riceve il
soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di
credente. Mira a trasportarlo nell'immaginazione, e, se posso dir
così, a naturalizzarlo. Non è più un "credo",
è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine poeta
ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di
presentare a' contemporanei le disusate immagini, se non
pomposamente decorate. Non gli basta che sieno sante; vuole che
sieno belle. L'idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte,
anzi come la sostanza dell'arte moderna, chiamata "romantica". La
critica entrava già per questa via, e fin d'allora sentivi
parlare di "classico" e di "romantico", di "plastico" e di
"sentimentale" di "finito" e d'"infinito". L'inno era poesia
essenzialmente religiosa, la poesia dell'infinito e del
soprannaturale. Sorgea come sfida a' classici per la materia e per
la forma. Pure il poeta, volendo esser romantico, rimane classico.
Invano si arrampica tra le nubi del Sinai; non ci regge, ha
bisogno di toccar terra; il suo spirito non riceve se non
ciò che è chiaro, plastico, determinato, armonioso;
le sue forme sono descrittive, rettoriche e letterarie, pur
vigorose e piene di effetto, perchè animate da
immaginazione fresca in materia nuova. Vi senti lo spirito nuovo,
che in quel ritorno delle idee religiose non abdica, e penetra in
quelle idee e se le assimila, e vi cerca e vi trova se stesso.
Perchè la base ideale di quegl'Inni è
sostanzialmente democratica, è l'idea del secolo battezzata
e consacrata sotto il nome d'"idea cristiana", l'eguaglianza degli
uomini tutti fratelli in Cristo la riprovazione degli oppressori e
la glorificazione degli oppressi; è la famosa triade,
"libertà, uguaglianza, fratellanza", vangelizzata; è
il cristianesimo ricondotto alla sua idealità e penetrato
dallo spirito moderno. Onde nasce una rappresentazione pacata e
soddisfatta, pittoresca nelle sue visioni, semplice e commovente
ne' suoi sentimenti, come di un mondo ideale riconciliato e
concorde, ove si armonizzano e si acquietano le dissonanze del
reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore, che nel suo
dolore pensò a tutt'i figli d'Eva; ivi è Maria, nel
cui seno regale la femminetta depone la sua spregiata lacrima; ivi
è lo Spirito, che scende, aura consolatrice ne' languidi
pensieri dell'infelice; ivi è il regno della pace, che il
mondo irride, ma che non può rapire; il povero, sollevando
le ciglia al cielo "che è suo", volge i lamenti in giubilo,
pensando a cui somiglia.
In questa ricostruzione di un mondo celeste
accanto a una lirica di pace e di perdono, alta sulle collere e
sulle cupidigie mondane, si sviluppa l'epica, quel veder le cose
umane dal di sopra con l'occhio dell'altro mondo. Questa
novità di contenuto, di forma e di sentimento rende
altamente originale il Cinque maggio, composizione epica in forme
liriche. L'individuo, grande ch'ei sia, non è che un'"orma
del Creatore", un istrumento "fatale". La gloria terrena, posto
pure che sia vera gloria, non è in cielo che "silenzio e
tenebre". Sul mondano rumore sta la pace di Dio. È lui che
atterra e suscita, che affanna e consola. La sua mano toglie
l'uomo alla disperazione, e lo avvia pe' floridi sentieri della
speranza. Risorge il "Deus ex machina", il concetto biblico
dell'uomo e dell'umanità. La storia è la
volontà imperscrutabile di Dio. Così vuole. A noi
non resta che adorare il mistero o il miracolo, "chinar la
fronte". Meno comprendiamo gli avvenimenti, e più siamo
percossi di maraviglia, più sentiamo Dio,
l'incomprensibile. La storia anche di ieri si muta in leggenda,
diviene poesia epica. Napoleone è un gran miracolo, un'orma
più vasta di Dio. A che fine? Per quale missione?
L'ignoriamo. È il secreto di Dio. Così volle. Rimane
della storia la parte popolare o leggendaria, quella che
più colpisce le immaginazioni; le battaglie, le vicende
assidue, gli avvenimenti straordinari, le grandi catastrofi, le
miracolose conversioni. Il motivo epico nasce non dall'altezza e
moralità de' fini, ma dalla grandezza e potenza del genio,
dallo sviluppo di una forza che arieggia il soprannaturale. Sono
nove strofe, di cui ciascuna per la vastità della
prospettiva è quasi un piccolo mondo, e te ne viene una
impressione, come da una piramide. A ciascuna strofa la statua
muta di prospetto, ed è sempre colossale. L'occhio profondo
e rapido dell'ispirazione divora gli spazi, aggruppa gli anni,
fonde gli avvenimenti, ti dà l'illusione dell'infinito. Le
proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto di prospettiva
nella maggior chiarezza e semplicità dell'espressione. Le
immagini, le impressioni, i sentimenti, le forme tra quella
vastità di orizzonti ingrandiscono anche loro, acquistano
audacia di colori e di dimensioni. Trovi condensata la vita del
grande uomo nelle sue geste, nella sua intimità, nella sua
azione storica, ne' suoi effetti su' contemporanei, nella sua
solitudine pensosa: immensa sintesi, dove precipitano gli
avvenimenti e i secoli, come incalzati e attratti da una forza
superiore in quegli sdruccioli accavallantisi, appena frenati
dalle rime.
Questo è il primo movimento,
epico-lirico, del secolo decimonono. Al macchinismo classico
succede il macchinismo teologico. Ma non è mero
macchinismo, semplice colorito o abbellimento. È un
contenuto redivivo nell'immaginazione che ricostruisce a sua
immagine la storia dell'umanità e il cuore dell'uomo.
È Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. Ritorna
la provvidenza nel mondo, ricomparisce il miracolo nella storia,
rifioriscono la speranza e la preghiera, il cuore si raddolcisce,
si apre a sentimenti miti: su' disinganni e sulle discordie
mondane spira un alito di perdono e di pace. Ciò che
intravedeva Foscolo, disegnò Manzoni con un entusiasmo
giovanile, riflesso di quell'entusiasmo religioso, che
accompagnava a Roma il papa reduce, ispirava ad Alessandro la
federazione cristiana, prometteva agli uomini stanchi un'era
novella di pace e riposo. La nuova generazione sorgeva tra queste
illusioni, e mentre il vecchio Foscolo fantasticava un paradiso
delle Grazie, allegorizzando con colori antichi cose moderne,
Manzoni ricostruiva l'ideale del paradiso cristiano e lo
riconciliava con lo spirito moderno. La mitologia se ne va, e
resta il classicismo; il secolo decimottavo è rinnegato, e
restano le sue idee. Mutata è la cornice, il quadro
è lo stesso. Guardate il Cinque maggio. La cornice è
una illuminazione artistica, una bell'opera d'immaginazione, da
cui non esce alcuna seria impressione religiosa. Il quadro
è la storia di un genio rifatta dal genio. L'interesse non
è nella cornice è nel quadro.
Ben presto il movimento teologico diviene
prettamente filosofico. Dio è l'assoluto, l'idea; Cristo
è l'idea in quanto è realizzata, l'idea
naturalizzata; lo Spirito è l'idea riflessa e consapevole
il Verbo; la trinità teologica diviene la base di una
trinità filosofica. Il Dio teologico è l'essere nel
suo immediato, il nulla, un Dio astratto e formale, vuoto di
contenuto. Dio nella sua verità è lo spirito che
riconosce se stesso nella natura. Logica, natura, spirito, sono i
tre momenti della sua esistenza, la sua storia, una storia dove
niente è incomprensibile e arbitrario, tutto è
ragionevole e fatale. Ciò che è stato, dovea essere.
La schiavitù, la guerra, la conquista, le rivoluzioni, i
colpi di Stato non sono fatti arbitrari, sono fenomeni necessari
dello spirito nella sua esplicazione. Lo spirito ha le sue leggi,
come la natura; la storia del mondo è la sua storia,
è logica viva, e si può determinare a priori.
Religione, arte, filosofia, dritto, sono manifestazioni dello
spirito, momenti della sua esplicazione. Niente si ripete, niente
muore: tutto si trasforma in un progresso assiduo, che è lo
spiritualizzarsi dell'idea, una coscienza sempre più chiara
di sè, una maggiore realtà.
In queste idee codificate da Hegel ricordi
Machiavelli, Bruno, Campanella, soprattutto Vico. Ma è un
Vico a priori. Quelle leggi, che egli traeva da' fatti sociali,
ora si cercano a priori nella natura stessa dello spirito. Nasce
un'appendice della Scienza nuova, la sua metafisica sotto nome di
"logica", compariscono vere teogonie, o epopee filosofiche, con le
loro ramificazioni. Hai la filosofia delle religioni, la storia
della filosofia, la filosofia dell'arte, la filosofia del dritto,
la filosofia della storia, illuminate dall'astro maggiore, la
logica, o, come dice Vico, la "metafisica". Tutto il contenuto
scientifico è rinnovato. E non solo nell'ordine morale, ma
nell'ordine fisico. Hai una filosofia della natura, come una
filosofia dello spirito. Anzi non sono che una sola e medesima
filosofia, momenti dell'Idea nella sua manifestazione.
Il misticismo, fondato sull'imperscrutabile
arbitrio di Dio e alimentato dal sentimento, dà luogo a
questo idealismo panteistico. Il sistema piace alla colta
borghesia, perchè da una parte, rigettando il misticismo,
prende un aspetto laicale e scientifico, e dall'altra, rigettando
il materialismo, condanna i moti rivoluzionari, come esplosioni
plebee di forze brute. Piace il concetto di un progresso
inoppugnabile, fondato sullo sviluppo pacifico della coltura: alla
parola "rivoluzione" succede la parola "evoluzione". Non si dice
più "libertà", si dice "civiltà",
"progresso", "coltura". Sembra trovato oramai il punto, ove
s'accordano autorità e libertà, Stato e individuo,
religione e filosofia, passato e avvenire. Anche le idee fanno la
loro pace, come le nazioni. E il sistema diviene ufficiale sotto
nome di "ecletismo". La rivoluzione gitta via il suo abito rosso,
e si fa cristiana e moderata sotto il vessillo tricolore,
vagheggiando, come ultimo punto di fermata, le forme
costituzionali, e tenendo a pari distanza i clericali col loro
misticismo, e i rivoluzionari col loro materialismo. Queste idee
facevano il giro di Europa e divennero il "credo" delle classi
colte. La parte liberale si costituì come un centro tra una
dritta clericale e una sinistra rivoluzionaria, che essa chiamava
i "partiti estremi". Luigi Filippo realizzò questo ideale
della borghesia, e l'ecletismo lo consacrò. Sembrò
dopo lunga gestazione creato il mondo. Il problema era sciolto, il
bandolo era trovato. Dio si poteva riposare. Chiusa oramai era la
porta alla reazione e alla rivoluzione. Regnava il progresso
pacifico e legale, governava la borghesia sotto nome di "partito
liberale-moderato". Teneva in iscacco la dritta, perchè, se
combatteva i gesuiti e gli oltramontani, onorava il cristianesimo,
divenuto nel nuovo sistema l'idea rifiessa e consapevole, lo
spirito che riconosce se stesso. Non credeva al soprannaturale, ma
lo spiegava e lo rispettava; non credeva a un Cristo divino, ma
alzava alle stelle il Cristo umano; e della religione parlava con
unzione, e con riverenza de' ministri di Dio. Così tirava
dalla sua i cristiani liberali e patrioti, e non urtava le plebi.
E teneva a un tempo in iscacco la sinistra rivoluzionaria,
perchè se respingeva i suoi metodi, se condannava le sue
impazienze e le sue violenze, accettava in astratto le sue idee,
confidando più nell'opera lenta, ma sicura, dell'istruzione
e dell'educazione, che nella forza brutale. Per queste vie la
rivoluzione sotto aspetto di conciliazione si rendeva accettabile
a' più, e si rimetteva in cammino.
Tra queste idee si formò la nuova
critica letteraria. Rimasta fra le vuote forme rettoriche empirica
e tradizionale, anch'ella gridò "libertà" nel secolo
scorso, e, perduto il rispetto alle regole e all'autorità,
acquistò una certa indipendenza di giudizio, illuminata ne'
migliori dal buon senso e dal buon gusto. L'attenzione
dall'esterno meccanismo si volse alla forza produttiva, cercando i
motivi e il significato della composizione nelle qualità
dello scrittore; l'arte ebbe il suo "cogito" e trovò la sua
formola nel motto: "Lo stile è l'uomo". Ma era una critica
d'impressioni più che di giudizi, di osservazioni
più che di princìpi. Con la nuova filosofia il bello
prese posto accanto al vero e al buono, acquistò una base
scientifica nella logica, divenne una manifestazione dell'idea,
come la religione, il dritto, la storia: avemmo una filosofia
dell'arte, l'estetica. Stabilito un corso ideale della
umanità, l'arte entrò nel sistema allo stesso modo
che tutte le altre manifestazioni dello spirito, e prese dalla
qualità dell'idea la sua essenza e il suo carattere.
Materia principale della critica fu l'idea col suo contenuto: le
qualità formali ebbero il secondo luogo. Avemmo l'idea
"orientale", l'idea "pagana" o "classica", l'idea "cristiana" o
"romantica" nella religione, nella filosofia, nello Stato,
nell'arte, in tutte le forme dell'attività sociale, uno
sviluppo storico a priori, secondo la logica o le leggi dello
spirito. La filosofia dell'idea divenne un antecedente obbligato
di ogni trattato di estetica, come di ogni ramo dello scibile; e
il problema fondamentale dell'arte fu cercare l'idea in ogni
lavoro dell'immaginazione, e misurarlo secondo quella. Rivenne su
il concetto cristiano-platonico dell'arte, espresso da Dante,
ristaurato dal Tasso. La poesia fu il vero "sotto il velo della
favola ascoso", o il "vero condito in molli versi". Divenuta la
favola un velo dell'idea, ritornavano in onore le forme mitiche e
allegoriche, e le concezioni artistiche si trasformavano in
costruzioni ideali: la Divina Commedia, materia d'infiniti comenti
filosofici, aveva il suo riscontro nel Faust. Venne in moda un
certo filosofismo nell'arte anche presso i migliori, anche presso
Schiller. E non solo la filosofia, ma anche la storia divenne il
frontispizio obbligato della critica, trattandosi di coglier
l'idea non nella sua astrattezza, ma nel suo contenuto, nelle sue
apparizioni storiche. Sorsero investigazioni accuratissime sulle
idee, sulle istituzioni, su' costumi, sulle tendenze dei secoli a
cui si riferivano le opere d'arte, sulla formazione successiva
della materia artistica; al motto antico: "Lo stile è
l'uomo", successe quest'altro: "La letteratura è
l'espressione della società". Ne uscì un doppio
impulso: sintetico e analitico. Posto che la storia non sia una
successione empirica e arbitraria di fatti, ma la manifestazione
progressiva e razionale dell'idea, una dialettica vivente, gli
spiriti si affrettarono alla sintesi, e costruirono vere epopee
storiche secondo una logica preordinata. La storia del mondo fu
rifatta, la via aperta da Vico fu corsa e ricorsa dal genio
metafisico, e in tutte le direzioni: religioni, arti, filosofie,
istituzioni politiche, leggi, la vita intellettuale, morale e
materiale de' popoli. Questo fu il momento epico di tutte le
scienze; nessuna potè sottrarsi al bagliore dell'idea; il
mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo morale.
Ma queste sintesi frettolose, queste soluzioni spesso arrischiate
de' problemi più delicati urtavano alcuna volta co' dati
positivi della storia e delle singole scienze, ed erano troppo
visibili le lacune, i raccozzamenti disparati, le interpretazioni
forzate, gli artifici involontari. Accanto a quelle vaste
costruzioni ideali sorse la paziente analisi; il metodo di Vico
parve più lungo e più arduo, ma più sicuro, e
si ricominciò il lavoro a posteriori, ingolfandosi lo
spirito nelle più minute ricerche in tutt'i rami dello
scibile. Il movimento di erudizione e d'investigazione, interrotto
in Italia dalla invasione delle teorie cartesiane e da' sistemi
assoluti del secolo decimottavo, tutti di un pezzo, tutti
ragionamento, con superbo disdegno di citazioni, di esempli, di
ogni autorità dottrinale, quasi avanzo della scolastica,
ora ripigliava con maggior forza in tutta la colta Europa, massime
in Germania: ritornavano i Galilei, i Muratori e i Vico, si
sviluppava lo spirito di osservazione e il senso storico, si
aggrandiva il campo delle scienze, e dal gran tronco del sapere
uscivano nuovi rami, soprattutto nelle scienze naturali, nelle
scienze sociali e nelle discipline filologiche. La materia della
coltura, stata prima poco più che greco-romana,
guadagnò di estensione e di profondità.
Abbracciò l'Oriente, il medio evo, il Rinascimento.
È con tale attività di ricerca e di scoperta, che lo
scibile ne fu rinnovato.
Stavano dunque di fronte due tendenze: l'una
ideale, l'altra storica. Gli uni procedevano per via di categorie
e di costruzioni; gli altri per via di osservazioni e d'induzioni.
E spesso s'incontravano. La scuola ontologica teneva molto conto
dei fatti, e proclamava che il vero ideale è storia,
è l'idea realizzata. Non rimaneva perciò al di sopra
della storia nel regno de' princìpi assoluti e immobili;
anzi la sua metafisica non è altro che un progressivo
divenire, la storia. Parimente la scuola storica era tutt'altro
che empirica, ed usciva dalla cerchia de' fatti, ed aveva
anch'essa i suoi preconcetti e le sue conietture. La più
audace speculazione si maritava con la più paziente
investigazione. Le due forze unite, ora parallele, ora in urto,
ora di conserva, posero in moto tutte le facoltà dello
spirito, e produssero miracoli nelle teorie e nelle applicazioni.
Al secolo de' lumi succedette il secolo del progresso. Il genio di
Vico fu il genio del secolo. E accanto a lui risorsero con fama
europea Bruno e Campanella. Il secolo riverì ne' tre grandi
italiani i suoi padri, il suo presentimento. E la Scienza nuova fu
la sua Bibbia, la sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano
condensate tutte le forze del secolo: la speculazione,
l'immaginazione, l'erudizione. Di là partiva quell'alta
imparzialità di filosofo e di storico, quella giustizia
distributiva ne' giudizi, che fu la virtù del secolo.
Passato e presente si riconciliarono, pigliando ciascuno il suo
posto nel corso fatale della storia. E contro al fato non val
collera, non giova dar di cozzo. Il dommatismo con la sua
infallibilità e lo scetticismo con la sua ironia cessero il
posto alla critica, quella vista superiore dello spirito
consapevole, che riconosce se stesso nel mondo, e non si adira
contro se stesso.
La letteratura non potea sottrarsi a questo
movimento. Filosofia e storia diventano l'antecedente della
critica letteraria. L'opera d'arte non è considerata
più come il prodotto arbitrario e subiettivo dell'ingegno
nell'immutabilità delle regole e degli esempi, ma come un
prodotto più o meno inconscio dello spirito del mondo in un
dato momento della sua esistenza. L'ingegno è l'espressione
condensata e sublimata delle forze collettive, il cui complesso
costituisce l'individualità di una società o di un
secolo. L'idea gli è data con esso il contenuto; la trova
intorno a sè, nella società dove è nato, dove
ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della vita
comune contemporanea, salvo che di quella è in lui
più sviluppata l'intelligenza e il sentimento. La sua forza
è di unirvisi in ispirito, e questa unione spirituale dello
scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il
contenuto non gli può dunque essere indifferente; anzi
è ivi che dee cercare le sue ispirazioni e le sue regole.
Mutato il punto di vista, mutati i criteri. La letteratura del
Rinascimento fu condannata come classica e convenzionale, e l'uso
della mitologia fu messo in ridicolo. Quegl'ideali tutti di un
pezzo, ch'erano decorati col nome di "classici", furono giudicati
una contraffazione dell'ideale, l'idea nella sua vuota astrazione,
non nelle sue condizioni storiche, non nella varietà della
sua esistenza. Cadde la rettorica con le sue vuote forme, cadde la
poetica con le sue regole meccaniche e arbitrarie, rivenne su il
vecchio motto di Goldoni: "Ritrarre dal vero, non guastar la
natura." Il più vivo sentimento dell'ideale si
accompagnò con la più paziente sollecitudine della
verità storica. L'epopea cesse il luogo al romanzo, la
tragedia al dramma. E nella lirica brillarono in nuovi metri le
ballate, le romanze, le fantasie e gl'inni. La naturalezza, la
semplicità, la forza, la profondità, l'affetto
furono qualità stimate assai più che ogni
dignità ed eleganza, come quelle che sono intimamente
connesse col contenuto. Dante, Shakespeare, Calderon, Ariosto,
reputati i più lontani dal classicismo, divennero gli astri
maggiori. Omero e la Bibbia, i poemi primitivi e spontanei,
teologici o nazionali, furono i prediletti. E spesso il rozzo
cronista fu preferito all'elegante storico, e il canto popolare
alla poesia solenne. Il contenuto nella sua nativa
integrità valse più che ogni artificiosa
trasformazione di tempi posteriori. Furono sbanditi dalla storia
tutti gli elementi fantastici e poetici, tutte quelle pompe
fattizie, che l'imitazione classica vi aveva introdotto. E la
poesia si accostò alla prosa, imitò il linguaggio
parlato e le forme popolari.
"Tutto questo fu detto "romanticismo",
"letteratura de' popoli moderni". La nuova parola fece fortuna. La
reazione ci vedeva un ritorno del medio evo e delle idee
religiose, una condanna dell'aborrito Rinascimento, soprattutto
del più aborrito secolo decimottavo. I liberali, non
potendo pigliarsela co' governi, se la pigliavano con Aristotele e
co' classici e con la mitologia: piaceva essere almeno in
letteratura rivoluzionario e ribelle alle regole. Il sistema era
così vasto e vi si mescolavano idee e tendenze così
diverse, che ciascuno potea vederlo con la sua lente e pigliarvi
ciò che gli era più comodo. I governi lasciavan
fare, contenti che le guerricciuole letterarie distraessero le
menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti
fenomeni della servitù: battaglie in favore e contro la
Crusca, quistioni di lingua, diverbii letterari, che finivano
talora in denunzie politiche. La Proposta e il Sermone
all'Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti che succedevano
alla battaglia di Waterloo. L'Italia risonò di puristi e
lassisti, di classici e romantici. Il giornalismo, mancata la
materia politica, vi cercò il suo alimento. Il centro
più vivace di quei moti letterari era sempre Milano, dove
erano più vicini e più potenti gl'influssi francesi
e germanici. Là s'inaugurava nel Caffè il secolo
decimottavo. E là s'inaugurava ora nel Conciliatore il
secolo decimonono. Manzoni ricordava Beccaria, e i Verri e i
Baretti del nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico, Giovanni
Berchet e gli ospiti di casa Manzoni, Tommaso Grossi e Massimo
d'Azeglio, divenuto sposo di Giulia Manzoni, e anello fra la
Lombardia e il Piemonte, dove sorgevano nello stesso giro d'idee
Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. La vecchia generazione
s'intrecciava con la nuova. Vivevano ancora, memorie del regno
d'Italia, Foscolo, Monti, Giovanni e Ippolito Pindemonte, Pietro
Giordani. Dirimpetto a Melchiorre Gioia vedevi Sismondi, italiano
di mente e di cuore; e mentre il vecchio Romagnosi scrivea la
Scienza della Costituzione, il giovane Antonio Rosmini pubblicava
il trattato Della origine delle idee. Spuntavano Camillo Ugoni,
Felice Bellotti, Andrea Maffei, il traduttore di Klopstock e di
Schiller. Dirimpetto a' poeti vedevi i critici, dilettanti pure di
poesia, Giovanni Torti, Ermes Visconti, Giovanni De Cristoforis,
Samuele Biava. Nelle stesse file militavano Carlo Porta,
Niccolò Tommaseo, i fratelli Cesare e Ignazio Cantù,
e Maroncelli, e Confalonieri, e altri minori.
Cosa volevano i romantici, che levavano
così alto la voce nel Conciliatore? Parlavano con audacia
giovanile della vecchia generazione, s'inchinavano appena al gran
padre Alighieri, vantavano gli scrittori stranieri soprattutto
inglesi e tedeschi, non volevano mitologia, si beffavano delle tre
unità, e delle regole si curavano poco, e non curvavano il
capo che innanzi alla ragione. Era il razionalismo o il libero
pensiero applicato alla letteratura da uomini che in religione
predicavano fede e autorità. I classici, al contrario,
miscredenti e scettici nelle cose della religione, erano
qualificati superstiziosi in fatto di letteratura. Nè parea
ragionevole che Aristotele, detronizzato in filosofia, dovesse in
letteratura rimanere sul suo trono. La lotta fu viva tra il
Conciliatore e la Biblioteca italiana, a cui tenea bordone la
Gazzetta di Milano. Vi si mescolavano ingenui e furfanti,
scrittori coscienziosi e mestieranti. E dopo molto contendere, fra
tante esagerazioni di offese e di difese, si venne in tale
confusione di giudizi, che oggi stesso non si sa cosa era il
romanticismo, e in che si distingueva sostanzialmente dal
classicismo. Molti sostenevano che il Monti era un ingegno
romantico sotto apparenze classiche, e altri che Manzoni con
pretensioni romantiche era in verità un classico. Si
cominciò a vedere chiaro, quando fu posta da parte la
parola "romanticismo", materia del litigio, e si badò alla
qualità della merce e non al suo nome. Al romanticismo,
importazione tedesca, si sostituì a poco a poco un altro
nome, letteratura nazionale e moderna. E su questo convennero
tutti, romantici e classici. Il romanticismo rimase in Italia
legato con le idee della prima origine germanica, diffuse dagli
Schlegel e da' Tieck, in quella forma esagerata che prese in
Francia, capo Victor Hugo. Respingevano il paganesimo, e
riabilitavano il medio evo. Rifiutavano la mitologia classica, e
preconizzavano una mitologia nordica. Volevano la libertà
dell'arte, e negavano la libertà di coscienza. Rigettavano
il plastico e il semplice dell'ideale classico, e vi sostituivano
il gotico, il fantastico, l'indefinito e il lugubre. Surrogavano
il fattizio e il convenzionale dell'imitazione classica con
imitazioni fattizie e convenzionali di peggior gusto. E per
fastidio del bello classico idolatravano il brutto. Una
superstizione cacciava l'altra. Ciò che era legittimo e
naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano,
grossolano, artificiale in tanta distanza di tempi, in tanta
differenza di concepire e di sentire. Il romanticismo in questa
sua esagerazione tedesca e francese non attecchì in Italia,
e giunse appena a scalfire la superficie. I pochi tentativi non
valsero che a meglio accentuare la ripugnanza del genio italiano.
E i romantici furono lieti, quando poterono gittar via quel nome
d'imprestito, fonte di tanti equivoci e litigi, e prendere un nome
accettato da tutti. Anche in Germania il romanticismo fu presto
attirato nelle alte regioni della filosofia, e, spogliatosi quelle
forme fantastiche e quel contenuto reazionario, riuscì
sotto nome di "letteratura moderna" nell'ecletismo, nella
conciliazione di tutti gli elementi e di tutte le forme sotto i
princìpi superiori dell'estetica, o della filosofia
dell'arte.
Pigliando il romanticismo in quel suo primo
stadio, quando si affermava come distinto, anzi in contraddizione
col secolo scorso, e movea guerra ad Alfieri e proclamava una
nuova riforma letteraria, il suo torto fu di non accorgersi che
esso era in sostanza non la contraddizione, ma la conseguenza di
quel secolo appunto, contro il quale armeggiava. In Germania
l'idea romantica sorse in opposizione all'imitazione francese
così alla moda sotto il gran Federico. Era una
esagerazione, ma in quell'esagerazione si costituivano le prime
basi di una letteratura nazionale, dalla quale uscivano Schiller e
Goethe. E fu lavoro del secolo decimottavo. Schiller fu
contemporaneo di Alfieri. Quando l'idea romantica
s'affacciò in Italia, già in Germania era scaduta,
trasformatasi in un concetto dell'arte filosofico e universale.
Goethe era già alla sua terza maniera, a quel suo
spiritualismo panteistico, che produceva il Faust. Il romanticismo
veniva dunque in Italia troppo tardi, come fu poi dell'eghelismo.
parve a noi un progresso ciò che in Germania la coltura
aveva già oltrepassato e assorbito. La riforma letteraria
in Italia, tanto strombazzata, non cominciava, ma continuava. Essa
era cominciata nel secolo scorso. Era appunto la nuova
letteratura, inaugurata da Goldoni e Parini, al tempo stesso che
in Germania si gittavano le fondamenta della coltura tedesca. La
differenza era questa, che la Germania reagiva contro l'imitazione
francese e acquistava coscienza della sua autonomia intellettuale;
dove l'Italia, associandosi alla coltura europea, reagiva contro
la sua solitudine e la sua stagnazione intellettuale. L'Italia
entrava nel grembo della coltura europea, e vi prendea il suo
posto, cacciando via da sè una parte di sè, il
seicentismo, l'Arcadia e l'accademia; la Germania al contrario
iniziava la sua riforma intellettuale, rimovendo da sè la
coltura francese, e riannodandosi alle sue tradizioni. L'influenza
francese non fu che una breve deviazione nel movimento di
continuità della vita tedesca, movimento fortificato nella
lotta d'indipendenza, e che portò quel popolo nel secolo
decimonono ad una chiara coscienza della sua autonomia nazionale e
della sua superiorità intellettuale. Perciò la
riforma tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari,
con progresso rapido, con intima consonanza in tutt'i rami dello
scibile, non ricevendo ma dando l'impulso alla coltura europea.
Esclusiva ed esagerata nel principio sotto nome di "romanticismo",
la sua coltura in breve tempo abbracciò tutti gli
orizzonti, e conciliò tutti gli elementi della storia in
una vasta unità, della quale rimane monumento colossale la
Divina Commedia della coltura moderna, il Faust. Ivi tutte le
religioni e tutte le colture, tutti gli elementi e tutte le forme,
si danno la mano e si riconoscono partecipi del redivivo Pane,
sottoposte alle stesse leggi, spirito o natura, espressioni di una
sola idea, già inconsapevoli e nemiche, ora unificate
dall'occhio ironico della coscienza. Indi quella suprema
indifferenza verso le forme, che fu detto lo "scetticismo" di
Goethe, ed era la serenità olimpica di una intelligenza
superiore, la tolleranza di tutte le differenze riconciliate e
armonizzate nel mondo superiore della filosofia e dell'arte.
Così il misticismo romantico si trasformava nell'idealismo
panteistico, l'idea cristiana nell'idea filosofica, il Cristo del
Vangelo nel Cristo di Strauss, la teologia s'inabissava nella
filosofia, il domma e il dubbio si fondevano nella critica, e il
famoso "cogito" trovava il suo punto di arrivo e di fermata nella
coscienza di sè, come spirito del mondo morale e naturale:
punto d'arrivo divenuto stagnante nel superficiale ecletismo
francese.
Quando Manzoni, tutto ancora pieno di Alfieri,
fu a Parigi, ebbe le sue prime impressioni da quei circoli
letterari che facevano opposizione all'Impero, e dove abitava lo
spirito di Châteaubriand e madama di Staël. Di
là gli venne un riflesso della Germania, e si diede alla
storia di quella letteratura. Strinse relazioni con uomini
illustri delle due grandi nazioni; Cousin lo chiamava il suo
"amico", Fauriel e Goethe mettevano su il giovine poeta. Il suo
orizzonte si allargò, vide nuovi mondi, e reagì
contro la sua educazione letteraria, contro le sue adorazioni
giovanili, contro Alfieri e Monti. A Milano, caduto il regno
d'Italia, le nuove idee raccolsero intorno a sè i giovani,
e Manzoni divenne il capo della scuola romantica. Così,
mentre la Germania, percorso il ciclo filosofico e ideale della
sua coltura, si travagliava intorno all'applicazione in tutte le
sue scienze sociali o naturali, in Italia si disputava ancora de'
princìpi. Naturalmente, nè Manzoni nè altri
poteva assimilarsi tutto il movimento germanico, lavoro di un
secolo, e non lo vedevano che nella sua parte iniziale e
superficiale. Ammiravano Schiller, Goethe, Herder, Kant, Fichte,
Schelling, ma conoscevano assai meglio i nostri filosofi e
letterati, e di quelli veniva loro come un'eco, spesso per studi e
giudizi di seconda mano, spesso per intramessa di scrittori
francesi. Rimasero essi dunque nella loro spontaneità,
ponendo le quistioni come le si ponevano in Italia, con argomenti
e metodi propri; e ne uscì un romanticismo locale, puro di
stravaganze ed esagerazioni forestiere, accomodato allo stato
della coltura, timido nelle innovazioni, e tenuto in freno dalle
tradizioni letterarie e dal carattere nazionale. Un romanticismo
così fatto non era che lo sviluppo della nuova letteratura
sorta col Parini, e rimaneva nelle sue forme e ne' suoi colori
prettamente italiano.
In effetti, i punti sostanziali di questo
romanticismo concordano col movimento iniziato nel secolo scorso,
e non è maraviglia che la lotta continuata con tanto furore
e con tanta confusione finì nella piena indifferenza del
popolo italiano, che riconosceva se stesso nelle due schiere.
Volevano i romantici che l'Italia lasciasse i temi classici? E
già n'era venuto il fastidio, e avevi l'Ossian, il Saul, la
Ricciarda, il Bardo della selva nera. Volevano che i personaggi
fossero presi dal vero? E che le forme fossero semplici e
naturali? Ed ecco là Goldoni, che predicava il medesimo.
Spregiavano la vuota forma? E sotto questa bandiera avevano
militato Parini, Alfieri e Foscolo, e appunto la risurrezione del
contenuto, la ristorazione della coscienza era il carattere della
nuova letteratura. Cosa erano le tre unità e la mitologia,
pomo della discordia, se non quistioni accessorie nella stessa
famiglia? Fino un concetto del mondo meno assoluto e rigido, umano
e anco religioso, intravedevi ne' Sepolcri di Foscolo e d'Ippolito
Pindemonte. Adunque la scuola romantica, se per il suo nome, per
le sue relazioni, pe' suoi studi, e per le sue impressioni si
legava a tradizioni tedesche e a mode francesi, rimase nel fondo
scuola italiana per il suo accento, le sue aspirazioni, le sue
forme, i suoi motivi; anzi fu la stessa scuola del secolo andato,
che dopo le grandi illusioni e i grandi disinganni ritornava a'
suoi princìpi, alla naturalezza di Goldoni e alla
temperanza di Parini. Erano di quella scuola più i
romantici, i quali avevano aria di combatterla, che i classici,
suoi eredi di nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua
vitalità si mostrava esaurita nella pomposa vacuità
di Monti e nel purismo rettorico di Pietro Giordani. La scuola
andava visibilmente declinando sotto il regno d'Italia, e non
avendo più novità di contenuto, si girava in se
stessa, divenuta sotto nome di "purismo" un gioco di frasi,
intenta alla purità del Trecento e all'eleganza del
Cinquecento. Ritornavano in voga i grammatici, i linguisti e i
retori; ripullulava sotto altro nome l'Arcadia e l'accademia.
Così fu possibile la Storia americana di Carlo Botta,
uscita a Parigi quando appunto uscirono gl'Inni; e fu tal cosa che
gli stessi accademici della Crusca si sentirono oltrepassati e
domandavano che lingua era quella. Furono i romantici che,
insorgendo contro la scuola, la rinsanguarono, e in aria di nemici
furono i suoi veri eredi. Essi le apersero nuovo contenuto e nuovo
ideale, le spogliarono la sua vernice classica e mitologica,
l'accostarono a forme semplici, naturali, popolari, sincere,
libere da ogni involucro artificiale e convenzionale, dalle
esagerazioni rettoriche e accademiche, dalle vecchie abitudini
letterarie non ancor dome, di cui vedi le orme anche tra gli
sdegni di Alfieri e di Foscolo. Come, sotto forma di reazione,
essi erano la stessa rivoluzione, che moderandosi e
disciplinandosi ripigliava le sue forze, tirando anche Dio al
progresso e alla democrazia; così, sotto forma di
opposizione, essi erano la nuova letteratura di Goldoni e di
Parini che si spogliava gli ultimi avanzi del vecchio, acquistava
una coscienza più chiara delle sue tendenze, e, lasciando
gl'ideali rigidi e assoluti, prendeva terra, si accostava al
reale.
Questo sentimento più vivo del reale era
anche penetrato nel popolo italiano. Non era più il popolo
accademico, che batteva le mani in teatro alla Virginia e
all'Aristodemo e applaudiva all'Italia ne' sonetti e nelle
canzoni. Vide la libertà sotto tutte le sue forme, nelle
sue illusioni, nelle sue promesse, ne' suoi disinganni, nelle sue
esagerazioni. Il regno d'Italia, la spedizione di Murat, le
promesse degli alleati, la lotta d'indipendenza della Spagna e
della Germania, l'insorgere della Grecia e del Belgio aguzzavano
il sentimento nazionale: l'unità d'Italia non era
più un tema rettorico, era uno scopo serio, a cui si
drizzavano le menti e le volontà. I più arditi e
impazienti cospiravano nelle società secrete, contro le
quali si ordinavano anche secretamente i sanfedisti. Fatto vecchio
era questo. Ma il fatto nuovo era, che nella grande maggioranza
della gente istrutta si andava formando una coscienza politica, il
senso del limite e del possibile: la rettorica e la declamazione
non avea più presa sugli animi. La grandezza degli ostacoli
rendea modesti i desidèri, e tirava gli spiriti dalle
astrazioni alla misura dello scopo e alla convenienza de' mezzi.
La libertà trovava il suo limite nelle forme
costituzionali, e il sentimento nazionale nel concetto di una
maggiore indipendenza verso gli stranieri. Una nuova parola venne
su: non si disse più rivoluzione, si disse "progresso". E
fu il maestoso cammino dell'idea nello spazio e nel tempo verso un
miglioramento indefinito della specie, morale e naturale. Il
progresso divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo
lasciapassare, perchè cacciava quella maledetta parola che
era la "rivoluzione", e significava la naturale evoluzione della
storia, e condannava le violente mutazioni. Il progresso
raccomandava pazienza a' popoli, dimostrava compatibile ogni
miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava con la
filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e
rassegnazione. Oltre a ciò, "libertà", "rivoluzione"
indicavano scopi immediati e non tollerabili ai governi, dove
progresso nel suo senso vago abbracciava ogni miglioramento, e
dava agio a' principi di acquistarsi lode a buon mercato,
promovendo, non fosse altro, miglioramenti speciali, che parevano
innocui, com'erano le strade ferrate, l'illuminazione a gas, i
telegrafi, la libertà del commercio, gli asili d'infanzia,
i congressi scientifici, i comizi agrarii. A poco a poco i
liberali tornarono là ond'erano partiti, e non potendo
vincere i governi, li lusingarono, sperarono riforme di principi,
anche del papa, rifacevano i tempi di Tanucci, di Leopoldo, di
Giuseppe, e rifacevano anche un po' quell'arcadia. Certo, una
teoria del progresso, che se ne rimetteva a Dio e all'Idea, dovea
condurre a un fatalismo musulmano, e rendendo i popoli troppo
facilmente appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il
liberalismo in una nuova arcadia, come temea Giuseppe Mazzini, che
vi contrapponeva la Giovine Italia. Pure i moti repressi del
Ventuno e del Trentuno, i vari tentativi mazziniani mal riusciti,
la politica del non intervento delle nazioni liberali, la potenza
riputata insuperabile dell'Austria, la forza e la severità
de' governi, le fila spesso riannodate e spesso rotte, disponevano
gli animi ad uno studio più attento de' mezzi, li piegavano
a' compromessi, fortificavano il senso politico, rendevano
impopolare la dottrina del "tutto o niente". Lo stesso Mazzini,
ch'era all'avanguardia, avea nel suo linguaggio e nelle sue
formole quell'accento di misticismo e di vaporoso idealismo che
era penetrato nella filosofia e nelle lettere, e che lo chiariva
uomo del secolo, e mostravasi anche lui disposto a tener conto
delle condizioni reali della pubblica opinione, e a sacrificarvi
una parte del suo ideale. Così, rammorbidite le passioni,
confidenti nel progresso naturale delle cose, e persuasi che anche
sotto i cattivi governi si può promuovere la coltura e la
pubblica educazione, i più smessero l'azione diretta e si
diedero agli studi: fiorirono le scienze, si sviluppò il
senso artistico e il genio della musica e del canto; la Taglioni e
la Malibran, la Rachel e la Ristori, Rossini e Bellini, le dispute
scientifiche e letterarie, i romanzi francesi e italiani
occupavano nella vita quel posto che la politica lasciava vuoto.
In breve spazio uscivano in luce il Carmagnola, l'Adelchi e i
Promessi sposi, la Pia del Sestini; la Fuggitiva, l'Ildegonda, i
Crociati e il Marco Visconti del Grossi, la Francesca da Rimini
del Pellico, la Margherita Pusterla del Cantù, l'Ettore
Fieramosca e più tardi il Niccolò de' Lapi di
Massimo d'Azeglio. Ultime venivano con più solenne
impressione le Mie prigioni. Ciclo letterario che fu detto
romantico, un romanticismo italiano, che facea vibrare le corde
più soavi dell'uomo e del patriota, con quella misura, con
quell'ideale internato nella storia, con quella storia fremente
d'intenzioni patriottiche, con quella intimità malinconica
di sentimento, con quella finezza di analisi nella maggiore
semplicità de' motivi, che rivelava uno spirito venuto a
maturità e ne' suoi ideali studioso del reale. Con tinte
più crude e con intenzioni più ardite comparivano
l'Arnaldo da Brescia e l'Assedio di Firenze.
Ciascuno sentiva sotto la scorza del medio evo
palpitare le nostre aspirazioni: le minime allusioni, le
più lontane somiglianze erano còlte a volo da un
pubblico che si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo
perdette la serietà del suo contenuto; la parola stessa
usciva di moda. Il medio evo non fu più materia trattata
con intenzioni storiche e positive. Fu l'involucro de' nostri
ideali, l'espressione abbastanza trasparente delle nostre
speranze. Si sceglievano argomenti, che meglio rappresentassero il
pensiero o il sentimento pubblico, come era la Lega lombarda,
trasformata in lotta italiana contro la Germania. Massimo
d'Azeglio, che segna il passaggio dalla maniera principalmente
artistica de' romantici ad una rappresentazione più
svelatamente politica, volgeva in mente un terzo romanzo, che
dovea avere per materia la Lega lombarda. Il pittore arieggiava
allo scrittore. Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta, il
Brindisi di Francesco Ferruccio, la Battaglia di Gavinana, la
Difesa di Nizza, la Battaglia di Torino. Il medesimo era del
misticismo. L'ispirazione artistica, da cui erano usciti gl'Inni e
il Cinque maggio e l'Ermengarda, non fu più il quadro, fu
l'accessorio, un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo
estraneo, filosofico e politico. Vennero gl'inni alle scienze,
alle arti, gl'inni di guerra. Rimasero madonne, angioli, santi e
paradiso, a quel medesimo modo che prima Pallade, Venere e Cupido,
semplici ornamenti e macchine poetiche, estranee all'intimo
spirito della composizione, o puramente arcadiche. Dove la poesia
gitta via ogni involucro romantico e classico, è ne' versi
del Berchet. E non poco vi contribuì lord Byron, vivuto
lungo tempo in Venezia, di cui si sentono i fieri accenti
nell'Esule di Parga. Se Giovanni Berchet fosse rimasto in Italia,
probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle
allusioni e nelle ombre del romanticismo. Ma esule portava a
Londra i dolori e i furori della patria tradita e vinta. Fu
l'accento della collera nazionale in una lirica, che, lasciate le
generalità de' sonetti e delle canzoni, s'innestò al
dramma, e colse la vita nelle più patetiche situazioni.
La voce possente di questa lirica
drammatica giunse solitaria in un'Italia, dove i secondi fini
della prudenza politica avevano rintuzzata la verità e
virilità dell'espressione. Si era trovata una specie di
modus vivendi, come si direbbe oggi, una conciliazione provvisoria
tra principi e popoli. I freni si allentavano, ci era una maggiore
libertà di scrivere, di parlare, di riunirsi, sempre in
nome del progresso, della coltura, della civiltà: gli
avversari erano detti "oscurantisti". I principi facevano bocca da
ridere; promettevano riforme; e sino il più restio,
Ferdinando II, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a'
ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti
annunziava un largo riordinamento degli studi. Che si voleva
più? I liberali, con quel senso squisito
dell'opportunità che ha ciascuno nell'interesse proprio,
inneggiavano a' principi, stringevano la mano a' preti, fino
ridevano a' gesuiti. Fu allora che apparve in Italia un'opera
stranissima, il Primato di Vincenzo Gioberti. Ivi con molta
facilità di eloquio, con grande apparato di erudizione, con
superbia e ricercatezza di formole si proclamava il primato della
civiltà italiana riannodata attraverso le glorie romane
alle tradizioni italo-pelasgiche, fondata sul papato restitutore
della religione nella sua purità, riconciliato con le idee
moderne, e tendente all'autocrazia dell'ingegno e al riscatto
delle plebi. La creazione sostituita al divenire egheliano
rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione, tutto il
Risorgimento era dichiarato eterodosso o acattolico, e il presente
si ricongiungeva immediatamente col medio evo. Era la
conciliazione politica sublimata a filosofia, era la filosofia
costruita ad uso del popolo italiano. Frate Campanella pareva
uscito dalla sua tomba. L'impressione fu immensa. Sembrò
che ci fosse alfine una filosofia italiana. Vi si vedevano
conciliate tutte le opposizioni, il papa a braccetto co' principi,
i principi riamicati a' popoli, Il misticismo internato nel
socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia, un bilanciere
universale. Il movimento era visibilmente politico, non religioso
e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu
già nè una riforma religiosa nè un movimento
intellettuale, ma un moto politico, tenuto in piede dall'equivoco,
e crollato al primo urto de' fatti. Questa era la faccia della
società italiana. Era un ambiente, nel quale anche i
più fieri si accomodavano, non scontenti del presente,
fiduciosi nell'avvenire: i liberali biascicavano "paternostri", e
i gesuiti biascicavano "progresso e riforme". La situazione in
fondo era comica, e il poeta che seppe coglierne tutt'i segreti fu
Giuseppe Giusti. La Toscana, dopo una prodigiosa produzione di tre
secoli, non aveva più in mano l'indirizzo letterario
d'Italia. Si era addormentata col riso del Berni sul labbro. La
Crusca l'aveva inventariata e imbalsamata. Resistè
più che potè nel suo sonno, respingendo da sè
gl'impulsi del secolo decimottavo. Quando si sentì il
bisogno di una lingua meno accademica, prossima per naturalezza e
brio al linguaggio parlato, molti si diedero al dialetto locale,
altri si gittarono alle forme francesi, altri col padre Cesari a
capo l'andavano pescando nel Trecento. Non veniva innanzi la
soluzione più naturale: cercarla colà dove era
parlata, cercarla in Toscana. La rivoluzione avea ravvicinati
gl'italiani, suscitati interessi, idee, speranze comuni. Firenze,
la città prediletta di Alfieri e di Foscolo, dopo il
Ventuno vide nelle sue mura accolti esuli illustri di altre parti
d'Italia. Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in
gara con quello di Milano. Manzoni e D'Azeglio andavano pe' colli
di Pistoia raccattando voci e proverbi della lingua viva.
Gl'italiani si studiavano di comparire toscani; i toscani, come
Niccolini e Guerrazzi, si studiavano di assimilarsi lo spirito
italiano. Risorgeva in Firenze una vita letteraria, dove
l'elemento locale prima timido e come sopraffatto ripigliava la
sua forza con la coscienza della sua vitalità. Firenze
riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di
Giuseppe Giusti. Sembrava un contemporaneo di Lorenzo de' Medici
che gittasse una occhiata ironica sulla società quale
l'aveva fatta il secolo decimonono. Quelle finezze politiche,
quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale, sotto
la quale ammiccavano le idee liberali gli "Arlecchini", i
"Girella", gli "eroi da poltrona", furono materia di un riso non
privo di tristezza. Era Parini tradotto dal popolino di Firenze,
con una grazia e una vivezza che dava l'ultimo contorno alle
immagini e le fissava nella memoria. Ciascun sistema d'idee medie
nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi va a finire
irreparabilmente nel comico. Tutto quell'equilibrio dottrinale
così laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta
quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in
costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica,
quella metafisica del divino e dell'assoluto declinante in
teologia, quel volterianismo inverniciato d'acqua benedetta, tutto
si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti.
Giacomo Leopardi segna il termine di questo
periodo. La metafisica in lotta con la teologia si era esaurita in
questo tentativo di conciliazione. La moltiplicità de'
sistemi avea tolto credito alla stessa scienza. Sorgeva un nuovo
scetticismo che non colpiva più solo la religione o il
soprannaturale, colpiva la stessa ragione. La metafisica era
tenuta come una succursale della teologia. L'idea sembrava un
sostituto della provvidenza. Quelle filosofie della storia, delle
religioni, dell'umanità, del dritto avevano aria di
costruzioni poetiche. La teoria del progresso o del fato storico
nelle sue evoluzioni sembrava una fantasmagoria. L'abuso degli
elementi provvidenziali e collettivi conduceva diritto
all'onnipotenza dello Stato, al centralismo governativo.
L'ecletismo pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto.
L'apoteosi del successo rintuzzava il senso morale, incoraggiava
tutte le violenze. Quella conciliazione tra il vecchio ed il
nuovo, tollerata pure come temporanea necessità politica,
sembrava in fondo una profanazione della scienza, una fiacchezza
morale. Il sistema non attecchiva più: cominciava la
ribellione. Mancata era la fede nella rivelazione: mancava ora la
fede nella stessa filosofia. Ricompariva ii mistero. Il filosofo
sapeva quanto il pastore. Di questo mistero fu l'eco Giacomo
Leopardi nella solitudine del suo pensiero e del suo dolore. Il
suo scetticismo annunzia la dissoluzione di questo mondo
teologico-metafisico, e inaugura il regno dell'arido vero, del
reale. I suoi Canti sono le più profonde e occulte voci di
quella transizione laboriosa che si chiamava "secolo decimonono".
Ci si vede la vita interiore sviluppatissima. Ciò che ha
importanza, non è la brillante esteriorità di quel
secolo del progresso, e non senza ironia vi si parla delle "sorti
progressive" dell'umanità. Ciò che ha importanza
è l'esplorazione del proprio petto, il mondo interno,
virtù, libertà, amore, tutti gl'ideali della
religione, della scienza e della poesia, ombre e illusioni innanzi
alla sua ragione e che pur gli scaldano il cuore, e non vogliono
morire. Il mistero distrugge il suo mondo intellettuale, lascia
inviolato il suo mondo morale. Questa vita tenace di un mondo
interno, malgrado la caduta di ogni mondo teologico e metafisico,
è l'originalità di Leopardi, e dà al suo
scetticismo una impronta religiosa. Anzi è lo scetticismo
di un quarto d'ora quello in cui vibra un così energico
sentimento del mondo morale. Ciascuno sente lì dentro una
nuova formazione.
L'istrumento di questa rinnovazione è la
critica, covata e cresciuta nel seno stesso dell'ecletismo. Il
secolo sorto con tendenze ontologiche e ideali avea posto esso
medesimo il principio della sua dissoluzione: l'idea vivente,
calata nel reale. Nel suo cammino il senso del reale si va sempre
più sviluppando, e le scienze positive prendono il di
sopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e
sistematiche. I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane intatta la
critica. Ricomincia il lavoro paziente dell'analisi. Ritorna a
splendere sull'orizzonte intellettuale Galileo accompagnato con
Vico. La rivoluzione, arrestata e sistemata in organismi
provvisori ripiglia la sua libertà, si riannoda
all'Ottantanove, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo
nell'ordine politico, il positivismo nell'ordine intellettuale. Il
verbo non è più solo "libertà", ma
"giustizia", la parte fatta a tutti gli elementi reali
dell'esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva. La
letteratura si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le
distinzioni, i privilegi. Il brutto sta accanto al bello, o, per
dir meglio, non c'è più nè bello, nè
brutto, non ideale, e non reale, non infinito, e non finito.
L'idea non si stacca, non soprastà al contenuto. Il
contenuto non si spicca dalla forma. Non ci è che una cosa,
il vivente. Dal seno dell'idealismo comparisce il realismo nella
scienza, nell'arte, nella storia. È un'ultima eliminazione
di elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici. La nuova
letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore,
emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita
contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia,
come arte, come critica, intenta a realizzare sempre più il
suo contenuto, si chiama oggi ed è la "letteratura
moderna".
L'Italia, costretta a lottare tutto un secolo
per acquistare l'indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta
in un cerchio d'idee e di sentimenti troppo uniforme e generale,
subordinato a' suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di
tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato
quello che le potea dare. L'ontologia con le sue brillanti sintesi
avea soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è
visibilmente esaurita, ripete se stessa, diviene accademica,
perchè accademia e arcadia è la forma ultima delle
dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo ecletismo dottrinario.
Vedete il Prati in Satana e le Grazie e nell'Armando. Vedete la
Storia universale di Cesare Cantù. Erede dell'ontologia
è la critica, nata con essa, non ancor libera di elementi
fantastici e dommatici attinti nel suo seno, come si vede in
Proudhon, in Renan, in Ferrari, ma con visibile tendenza meno a
porre e a dimostrare che a investigare. La paziente e modesta
monografia prende il posto delle sintesi filosofiche e letterarie.
I sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte con diffidenza, i
princìpi più inconcussi sono messi nel crogiuolo,
niente si ammette più, che non esca da una serie di fatti
accertati. Accertare un fatto desta più interesse che
stabilire una legge. Le idee, i motti, le formole, che un giorno
destavano tante lotte e tante passioni, sono un repertorio di
convenzione, non rispondenti più allo stato reale dello
spirito. C'è passato sopra Giacomo Leopardi. Diresti che
proprio appunto, quando s'è formata l'Italia, si sia
sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata.
Parrebbe una dissoluzione, se non si disegnasse in modo vago
ancora ma visibile un nuovo orizzonte. Una forza instancabile ci
sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le
altre.
L'Italia è stata finora avviluppata come
di una sfera brillante, la sfera della libertà e della
nazionalità, e ne è nata una filosofia e una
letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorchè
intorno a lei. Ora si dee guardare in seno, dee cercare se stessa:
la sfera dee svilupparsi e concretarsi come sua vita interiore.
L'ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessità
politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze
d'una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl'impulsi
estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una
coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento,
ogn'intimità. La sua vita è ancora esteriore e
superficiale. Dee cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da
ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con
lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa ricerca degli
elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano
rifarà la sua coltura, ristaurerà il suo mondo
morale, rinfrescherà le sue impressioni, troverà
nella sua intimità nuove fonti d'ispirazione, la donna, la
famiglia, la natura, l'amore, la libertà, la patria, la
scienza, la virtù, non come idee brillanti, viste nello
spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e
familiari, divenuti il suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria
preparazione di studi originali e diretti in tutt'i rami dello
scibile, guidati da una critica libera da preconcetti e paziente
esploratrice, e suppone pure una vita nazionale, pubblica e
privata, lungamente sviluppata. Guardare in noi, ne' nostri
costumi, nelle nostre idee, ne' nostri pregiudizi, nelle nostre
qualità buone e cattive, convertire il mondo moderno in
mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo,
"esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di
Giacomo Leopardi: questa è la propedeutica alla letteratura
nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli
indizi con vaste ombre. Abbiamo il romanzo storico, ci manca la
storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da Giuseppe Giusti non
è uscita ancora la commedia. E da Leopardi non è
uscita ancora la lirica. C'incalza ancora l'accademia, l'arcadia,
il classicismo e il romanticismo. Continua l'enfasi e la
rettorica, argomento di poca serietà di studi e di vita.
Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci
è vita nostra e lavoro nostro. E da' nostri vanti
s'intravede la coscienza della nostra inferiorità. Il
grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine.
Assistiamo ad una nuova fermentazione d'idee, nunzia di una nuova
formazione. Già vediamo in questo secolo disegnarsi il
nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non
a' secondi posti.
Storia della letteratura italiana - Francesco De Sanctis