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Storico dell'antichità italiano (Roma 1870-1957). Nel 1900 divenne professore ordinario di storia antica all'Università di Torino; dal 1929 passò a Roma. Nel 1931 venne deposto dall'incarico per avere rifiutato il giuramento al fascismo, ma venne reintegrato a vita nel 1944. Dal 1947 al 1954 fu presidente dell'Enciclopedia Italiana Treccani e nel 1950 fu nominato senatore a vita della Repubblica. La sua indagine, caratterizzata da una vasta cultura e da una seria preparazione scientifica, si è ispirata a una visione "catartica" della storia, decisamente contraria al materialismo e al determinismo. Tra le sue opere si ricordano: Storia della repubblica ateniese (1898), Per la scienza dell'antichità: saggi e polemiche (1909), Problemi di storia antica (1932), Storia dei Greci (1939), Storia dei Romani (7 tomi, 1907-1964), Pericle (1944), Studi di storia della storiografia greca (1951), Scritti minori, pubblicati postumi (1966 e seguenti).
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DBI
di Piero Treves
Terzogenito d'Ignazio e di Maria Orlandini, nacque a Roma il 15 ott.
1870, in una famiglia che aveva rifiutato di riconoscere, e fu
costante nel non volere mai riconoscere, lo Stato italiano.
Il padre, capitano della gendarmeria pontificia, e il nonno materno,
"segretario generale presso l'Amministrazione dei sali e tabacchi"
(G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, Firenze 1970, p. 16)
rifiutarono, entrambi, il richiesto giuramento e affrontarono con la
massima decisione l'impopolarità e il bisogno.
Il rifiuto dell'Italia importava, per il D., una duplice scelta: di
esistenza e di educazione. Visse, infatti, non pur lontano, ma
ignaro di quanto accadeva nella "nuova" Roma, anche, o soprattutto,
dell'esperienza carducciano-sommarughiana in cui maturò
(salvo poi a rinnegarla, ma senza riuscir mai ad affrancarsene) il
suo quasi coetaneo G. Salvadori; e ignaro altresì, o
soprattutto, di quale era la storia e di quali erano le tradizioni
della penisola. Non giornali, se non modesti organi della
Restaurazione europea, inneggianti ad Enrico V (il titolo che in
casa De Sanctis portava il conte di Chambord) e allo spagnolo Don
Carlos; silenzio, od invettive faziose, non pur a "colui che
detiene", ma a Garibaldi e a Mazzini; convinti di trame settarie e
di sanguinosi attentati i patrioti, massime se operosi nel periodo
fra la vigilia di Mentana e la giornata di Porta Pia: Letture
controllate e filtrate anche dei nostri classici, scarso entusiasmo
(che il D. ebbe poi sempre) per il Manzoni (il cui Discorso sulla
storia longobarda, tuttavia, lesse in liceo e giovò non poco
ai suoi studi storici) e moderata apertura a scritture neoguelfe,
massime il Sommario di C. Balbo (che restò fra i libri
formativi e normativi del giovane De Sanctis).
Nell'ambiente chiuso, rigorosamente legittimista e "classista", di
casa De Sanctis (dove i figli diedero sempre del "Lei" ai genitori,
e dove non si ricevevano e non si facevano visite neppure agli
scarsi e lontani parenti, alcuni dei quali erano "passati al
vincitore"), lo stesso problema scolastico quasi non si poneva.
Obbligata la scelta delle scuole ecclesiastiche (vuoi elementari,
vuoi secondarie): dal 1883, il Seminario romano a S. Apollinare
(dove il D. rimase fino alla licenza liceale, nell'88).
Qui, poteva dirsi tecnicamente ottimo l'insegnamento del latino e
sufficiente quello del greco, mentre l'insegnamento delle scienze
doveva contendere con (e difendersi dai) nuovi avanzamenti di
matrice positivistico-evoluzionistico-darwiniana, e l'insegnamento
dell'italiano isteriliva nella vieta retorica (senza che i ragazzi
imparassero a scrivere: altra difficoltà e altra conquista
dello storico, la patina arcaicistica delle cui prime pagine
tradisce appunto l'incapacità di trascendere il materiale
linguistico tradizionale o d'imprimervi il segno d'una
personalità propria). L'ambiente domestico non era, tuttavia,
incolto e, in certo senso, neppure chiuso. In traduzione francese
(una lingua della quale il D. ebbe sempre sicuro possesso) si
leggevano romanzi storici e novelle fantastiche anglo-scozzesi,
tardo retaggio scottiano, e il più moderno Dickens: mentre il
ragazzo, sia pure sul Rollin e sull'Anacharsis dell'abbé
Barthélemy, veniva scoprendo, con fremiti, entusiasmi e
lagrime, la storia di Grecia e di Roma, in ispecie il "mito" di Roma
(Bruto, Virginia, Cincinnato, Hannibal ad portas ...). Dal Rollin al
Sommario del Balbo veniva, tuttavia, costruendosi, nella giovane
mente del D., un'ideale traiettoria romano-italiana, che portava
all'eversione della lectio recepta, del tradizionalismo
restaurativo, della fedeltà all'ancien régime e al
pontificato temporale: e portava altresì, in un primo, ancora
mal certo, congiungimento fra storia e praxis, al "colonialismo"
desanctisiano. Il quale data, per sua confessione, dall'eccidio di
Dogali (1887). L'Italia, dunque, che già era, doveva essere,
come l'antica Roma e i moderni Stati europei, colonizzatrice e
incivilitrice cristiana dell'Africa nera: nel che influivano e
agivano anche elementi, spesso antitaliani, del missionarismo
cattolico (quali adombra, per esempio, il romanzo del gesuita A. M.
Casoli).
La rottura, o il superamento dell'ambiente domestico, erano
consumati quando il D., trionfalmente superato da privatista l'esame
pubblico di maturità. decise (1888) d'iscriversi non pur
all'università nella Sapienza sconsacrata, ma in una
facoltà (lettere e filosofia) il cui sbocco pratico era
l'insegnamento, cioè non solo il riconoscere, ma il servire,
lo Stato italiano. All'università gli studenti "cattolici"
erano minoranza, ma una minoranza, per qualità di giovani e
impegno scientifico, autorevole: padre Tacchi Venturi, Pio Franchi
de' Cavalieri, il barnabita G. Semeria, don Paolo Savi, prediletto
del De Rossi e assai precocemente scomparso per etisia (alla sua
memoria il D. dedicò l'Atthís), il gesuita Corsetti,
ecc. Ed essi tutti, nonostante alcune simpatie (del Murri e del
Semeria, per esempio, dal D. peraltro non mai condivise) per
l'insegnamento del marxista Antonio Labriola, si ritrovarono
ubbidienti discepoli del "positivista", e sostanzialmente
anticattolico, K. J. Beloch.
Il Beloch, infatti, dava loro non solo una disciplina di lavoro, una
severità rigorosa di metodo, e l'avviamento altresì a
studi fin allora pressoché inesistenti in Italia (economia,
finanza, statistica, topografia, geografia storica del mondo
greco-romano); ma uno strumento capace di risvegliare, di costituire
una scienza "cristiana", che permettesse la concorrenzialità
e, soprattutto, l'inizio d'uno studio critico della religione. Come
operavano Oltralpe Loisy, Harnack, Duchesne, ecc., si poteva, anzi
si doveva, tentar di fare altrettanto in Italia.
Questi, i due sentieri paralleli che il D. percorse negli anni
universitari e postuniversitari, sino alla fine del secolo (e del
suo soggiorno romano). Da un lato, la storia antica, nella scia e
conforme al magisterio (antimominseniano, e antitradizionalista) del
Beloch. E, d'altro lato, l'organizzazione d'un centro "cristiano" di
studi: prima il circolo di S. Sebastiano (con Ermini, Salvadori,
Crispolti, ecc.) poi la difficile collaborazione alla Rivista
internazionale di scienze sociali, prontissima ad accogliere (1894)
il Saggio su trent'anni di storia greca 258-228) (rist. in Scritti
minori, I, pp. 373 ss.), ma lungamente esitante a stampare una
recensione del Semeria allo scritto del medesimo D., pubblicato in
un opuscolo a sue spese perché rifiutatogli dalla Rivista,
sulla divinità omerica (cfr. Riv. di storia della Chiesa in
Italia, XXVI [1972], pp. 33, 35-36). Né, d'altronde, furono
mai né intrinseche né sostanzialmente amichevoli le
relazioni del D. col Toniolo, ancor prima che il loro filofascismo
l'obbligasse a rompere col Crispolti e col Tacchi Venturi.
Infrangibile vincolo di fedeltà strinse il D. al Beloch, pur
nella diversità delle ideologie e nei frequenti dissensi
metodici e "concorsuali". Al Beloch il D. dovette la consapevolezza
e lo strumento del proprio mestiere, nonché (come si legge al
termine del necrologio del maestro: Scritti minori, IV, pp. 365 ss.)
il suo ubi consistam, la giustificazione e la conferma della propria
scelta. E a quella scuola, in anni dominati dalla scoperta
dell'aristotelica Athenaion Politeia, il D. lavorò sodo,
già nei suoi primi articoli sulla Rivista di filologia
dimostrando una maturità impressionante. Ancora studente,
precedette di quasi un decennio Eduard Meyer nel chiarire l'errore
cronologico, né solo cronologico, di Diodoro sulla battaglia
dell'Eurimedonte. La sua dissertazione di laurea (1892), tosto
insignita del premio Corsi, Contributi alla storia ateniese dalla
guerra lamiaca alla guerra cremonidea (immediatamente edita dal
Beloch ne' suoi Studi di storia antica, II [1893], pp. 3s.: rist. in
Scritti minori, I, pp. 249 s.) è, nonostante la sostanziale
(e tipicamente belochiano-germanica) trascuratezza del Niebuhr
"greco", il primo tentativo d'una storia, quale poi scriverà
W. S. Ferguson nel 1911, di Atene ellenistica, sebbene trattisi di
storia meramente "politica", o Staatsgeschichte, anziché di
Kulturgeschichte (quale la natura medesima della materia e dei
materiali superstiti richiedeva) e sebbene il D. accetti senza
esitare (e fu poi sempre il suo maggior limite di storico della
grecità) la tesi dell'unitarismo macedonico, al quale si
oppone "il principio separatista e repubblicano" (ibid., p.283), la
polis (e l'idealità) "demostenica". Alla tesi unitaristica il
D. toglieva, d'altronde, il suo più solido fondamento, e qui
e nello scritto su Eschine e la guerra contro Anfissa (Riv. di
filol., XIV [1897]; ristam. in Scritti minori, I, pp. 139 ss.) in
quanto dava la dimostrazione ineccepibile della fede nella
libertà che animò sempre gli Ateniesi dall'ultima
resistenza contro Filippo all'ultima resistenza contro i Romani. I
quali, pertanto, già in questi primi scritti del D., per
esempio nel saggio su Agatocle del 1895 (rist. in Scritti minori, I,
pp. 205 ss.), appaiono in veste di distruttori della civilta
greco-ellenistica nel loro Drang nach Osten, al quale il D.
implicitamente contrappone il loro compito positivo di colonizzatori
ed incivilitori dell'Occidente.
Con questo bagaglio "scientifico" ben poteva il D. meritarsi la
borsa di perfezionamento, che gli permise di sbarcare il 5 genn.
1895 al Pireo per un viaggio di studio e di ricerche epigrafiche in
Grecia, dove anche strinse durevoli amicizie con i maggiori dotti
stranieri (da Th. Homolle a M. Rostovcev: vedi Ricordi, pp. 66 ss.)
e dove "io mi sentii veramente, per la prima volta, europeo tra gli
europei" (ibid., p. 76). Al ritorno, appena conseguita la libera
docenza, sperimentò la prima delusione accademica. Vincitore
(con tre voti su cinque, contrario E. Pais) del concorso alla
cattedra di storia antica nell'università di Padova, ebbe il
concorso annullato dal ministro della Pubblica Istruzione su parere
conforme del Consiglio superiore, non senza qualche giustificazione
formale, per lo scarso punteggio, la scarsa copia di scritti
"romani" e la troppo recente docenza. Poco avanti, la rotta di Adua,
la caduta di Crispi (dal D. ammiratissimo sempre, nonostante la
successiva adulterazione o trasfigurazione fascista) e l'avvento del
governo della vergogna, impersonato per lui dal marchese A. di
Rudini, apersero nel suo cuore di colonialista, che sognava per la
nuova patria italiana l'animo indomito di Roma postcannense (lett.
al Semeria del 29 dic. 1896, in Riv. di storia della Chiesa in
Italia, XXVI [1972], p. 35, dov'è caratteristica la citazione
carducciana, poi frequentemente ripetuta in più altri luoghi
dell'opera sua), una ferita immedicabile, ch'egli s'illuse potesse
rimarginarsi con l'avventura etiopica del Mussolini (lett. del 19
maggio 1936, pubbl. da S. Accame, in Critica storica, XXI [1984],
pp. 97 ss.).
L'incertezza del vivere e della carriera lo costrinse ad accettare
l'insegnamento del greco per l'anno accademico 1896-1897 al collegio
scolopio dei Nazareno, del quale era rettore il dantista (dal D.
punto amato) Luigi Pietrobono e dove, l'estate successiva, lo
scovò, e raccomandò all'invitaMinerva, l'ispettore
ministeriale degli esami di maturità, ch'era Giovanni
Pascoli. Questi non mancò di elogiare allora (e di rammentare
poi sempre) "l'egregio Gaetano De Sanctis, insegnante di greco,
libero docente di storia antica nell'università, di ottimi
studi, di grande perspicacia, retto e severo" (cfr. M. Petrucciani,
in Nuova Antologia, giugno 1957, p. 257). E fu la prima, commendatio
non tecnica dell'umbratile studioso, di tal tempra però da
rifiutare la partecipazione al concorso per Catania, avendogli il
Beloch preannunziato il secondo posto, anziché il primo, come
nel concorso per Padova, in quanto si doveva dare un contentino al
genus inritabile degli universitari; mentre accolse nel '99 l'invito
del suo insegnante e fedele amico F. Halbherr ad essergli compagno
nell'esplorazione archeologica in Creta (Ricordi, pp. 78 ss.).
Nel frattempo aveva pubblicato (per un terzo a sue spese) presso la
Tipografia poliglotta di Propaganda Fide, Atthís. Storia
della Repubblica ateniese (1898: vedi S. Accame, nella premessa alla
terza edizione dell'opera, Firenze 1975, pp. X ss.). L'autore
medesimo, pur difendendone giustamente nel 1936 l'impianto
ideologico e quasi autobiografico (Scritti minori, VI, 2, pp.
937-938), usava parlarne come d'un libro "poco leggibile".
La scarsa leggibilità non è, peraltro, dovuta a meri
difetti stilistici, quanto alla scarsa chiarezza
metodico-compositiva. Ondeggia, infatti, fra l'opera "storica" e il
manuale antiquario, nel proposito medesimo di lumeggiare lo sviluppo
singolo e sincrono delle varie istituzioni arcaiche ateniesi e
d'interpretare a tal fine Aristotele, in un costante confronto di
"fonti", senza mai chiarire al lettore le premesse
politico-ideologiche del trattatello aristotelico. Dunque, ricerca
filologica, ricerca antiquaria, ricerca storica variamente confuse e
commiste, mancanza d'un centro narrativo e d'una linea di
continuità (a prescindere dalle varie ipotesi avventate,
belochiane le più, ad esempio la cosiddetta cronologia
"bassa" di Alceo e di Saffo). A dritto o a torto, e sia pure assai
più a torto che a dritto, non si vide, nel libro, se non il
prodotto degl'insegnamenti "rivoluzionari", arbitrari,
impressionistici ed immetodici del razionalista Beloch; e lo si
giudicò di conseguenza, come insegnano, per esempio, le due
lettere di U.v. Wilamowitz al D. e a G. Vitelli, che aveva chiesto
al maestro germanico una recensione per Atene e Roma (Cfr. R.
Pinfandi a C. Roemer, in Ann. d. Scuola norm. sup. di Pisa, s.3, XI
[1981], 2, pp. 369 s.; M. Gigante, Wilamowitz nella cultura classica
italiana, Napoli 1984, p. 11).
È, d'altro canto, significativo che il D. medesimo non abbia
mai "ripensato" il suo libro quand'anche l'abbia sostanzialmente
riscritto per la seconda edizione (Torino 1912) e vi abbia, in
quell'occasione, aggiunto due capitoli sul V secolo, che, fortemente
"storici" come sono, poco legano con ciò che precede: e con
esso, anzi, formano un certo iato. Gli Ateniesi, piccola e povera
repubblica, ignara (ex hypothesi) di grosse complicazioni
internazionali (nonostante Pisistrato, nonostante l'esperienza
democratica e marinara) sono, tuttavia, coinvolti a un tratto e
nella rivolta ionica e nella rappresaglia persiana: e sanno,
però, miracolosamente vincere a Maratona (e dare inizio al
più vero miracolo del loro impero). Lo iato, irrisolto
nell'Atthís, dovrà attendere, per essere infine
risolto, l'autore della Storia dei Greci.
Massime ne' suoi studi di storia romana, ma per un criterio metodico
generale, il D. veniva frattanto avvertendo la necessità
d'una "critica temperata", cioè, fuor dall'astrattezza delle
formule, una critica ugualmente capace di superare tanto la metodica
economico-giuridica di E. Ciccotti (pur riconoscendo a quest'ultimo,
o accettando da quest'ultimo, la concretezza dei problemi - guerra,
pace, schiavitù, prezzi, salari, ecc. - e la conseguente
vanificazione della mera storiografia filologica) quanto la metodica
negatrice del Pais, la sostanziale tabula rasa della tradizione
romana fino almeno alle guerre sannitiche. Vittorioso (con tre voti
su cinque, contrari il Pais e A. Coen), i primi mesi del 1900, nel
concorso alla cattedra di ordinario di storia antica
nell'università di Torino, e forte dell'implicito consenso
che alla sua teoria d'una "critica temperata" veniva dalla scoperta
e dalla corretta esegesi del lapis niger, il D. terminava l'apposita
memoria, l'ultima da lui redatta prima di lasciare Roma (e datata 7
giugno 1900), con queste parole emblematiche, cui sarebbe riuscita
conforme la metodica del suo lavoro nel primo decennio del
Novecento: "la iscrizione arcaica del foro, né più
né meno che tutti i documenti a noi pervenuti, ci ammonisce
ad usare di quella critica temperata che nulla ciecamente afferma
per servile ossequio alla tradizione, nulla ciecamente nega per sola
smania di negare. Dal modo onde si darà ascolto a questi
ammonimenti dipende l'avvenire della scienza storica in Italia"
(Scritti minori, II, p. 211).
Torino gli cambiò la vita. Anzi tutto perché, sceso
inizialmente a dozzina presso la madre del Semeria, trovò
tosto una compagna e una casa. Sposò una sua ex allieva, la
dottoressa Emilia Rosmini di Mondovi della quale aveva soprattutto
apprezzato la coraggiosa tesi di laurea sulla necessità
dell'insegnamento religioso in un'Italia non tanto laica quanto
massoneggiante ed anticlericale. Con la futura studiosa di santa
Caterina e della spiritualità domenicana il D. visse, per
tutto il suo periodo torinese, in palazzo Rossi, di proprietà
del deputato, ministro e sindaco della città, conte Teofilo
Rossi. E qui tosto convennero gli allievi (P. Ghione, G. Corradi,
O.M. Barbano), precipuamente avviati allo studio della storia
ellenistica, mentre il maestro attendeva a redigere i primi due
volumi della Storia dei Romani. Coronano essi, e le polemiche
furibonde che vi tennero dietro, un decennio di attività
diretta a "liquidare" parecchi avversari, nel mentre il D.
profittava della favorevole congiuntura, cioè del clima
propizio agli studi romani, del ravvivato interesse per essi, come
documenta il successo, nazionale e più ancora internazionale,
di Guglielmo Ferrero.
Uno de' suoi primi scritti "torinesi" fu, perciò, l'integrale
stroncatura del primo volume di Grandezza e decadenza di Romaantica
(Scritti minori, VI, I, pp. 37 ss.), la quale culminava nella
condanna del "dilettantismo", una formula ch'ebbe fortuna contro il
Ferrero e al D. fu variamente elogiata e rimproverata (lett. del D.
al Beloch, non spedita, del 29 apr. 1912, presso L. Polverini, in
Ann. della Scuola norm. sup. di Pisa, s. 3, III [1973], pp.
1084-1085). Né meno aspro fu l'attacco al "materialismo
storico" del Ciccotti, e ad ogni intrusione o incursione "marxista"
negli studi di storia antica, cioè il discorso accademico
(1904) La guerra e la pace (rist. in Scritti minori, III, pp. 203
ss.). Il D. tuttavia era anche più avverso ai denegatori, al
loro più agguerrito campione (e più ostile), il Pais,
la cui Storia di Roma (1898) aveva, peraltro, con
l'improbabilità medesima del suo sterile "pirronismo" e la
sua assoluta illeggibilità, comprovato che nulla, o
pressoché nulla, poteva cavarsene per soddisfare il ridesto
sentire storico degl'Italiani, se n'avvedessero o non se
n'avvedessero i cattedratici, torinesi e non, della cosiddetta
"scuola storica". Donde la necessità d'una via media fra
l'illeggibilità del Pais e la soverchia leggibilità
del Ferrero.
Vi si accinse animoso e solitario il D., quand'anche ai primi due
volumi della sua Storia difettino un chiaro impianto "stilistico"
(il testo ondeggia, infatti, fra il racconto e la ricerca
filologica, nonostante i generosi interventi "letterari" di Giuseppe
Fraccaroli: vedi S.Accame, nella premessa al primo volume della 3
ediz., Firenze 1979, pp. XIVss.) e, soprattutto, un chiaro impianto
"metodico". Giova, naturalmente, nel dar giudizio dell'opera,
prescindere affatto dalle recenti, e meno recenti, scoperte
archeologico-letterarie, che dalla decifrazione della lineare B alla
stratigrafia degli scavi di S. Omobono e al ritrovamento di resti
"micenei" in terra italiana hanno anticipato di secoli (rispetto
alla stessa tradizione) la presenza greca in Italia, nonché
il formarsi e divulgarsi del "mito" di Enea. Ma l'inveramento
medesimo della sia pur dubbia ipotesi niebuhriana, difesa tra noi
poco avanti il D. da R. Bonghi e da E. Cocchia, la rivendicata
esistenza d'una poesia storica romana, popolare, preletteraria (e
pregreca), importa il riconoscimento d'un grado di civiltà
nella Roma antichissima, cui Roma non sarebbe pervenuta senza il
contatto e il commercio con altri centri, cioè, in ultima
analisi, con la civiltà greca, attinta o direttamente
(già nel V secolo i Greci sapevano, se non di Roma, della sua
penetrazione lungo le coste adriatiche e tirreniche della nostra
penisola) o indirettamente per mediazione sia etrusca sia delle
colonie di Magna Grecia. I Romani perciò, in virtù
appunto e soltanto della cosiddetta ipotesi niebuhriana, risultano
assai più anticamente maturi e civili che nell'opera del D.
non appaiano (e questo è da ritenersi pesante retaggio del
Pais e del Beloch e, in genere, dell'antiromanesimo di marca
tedesca), né in verità ben si spiega, quindi, il loro
gravitare in area ellenica nel IV secolo, né la loro
adeguatezza politico-ideologico-diplomatica nel conflitto con Pirro.
Più che i singoli meriti o demeriti (e rilevata la
sostanziale indifferenza del D. alle alterazioni "propagandistiche"
della tradizione annalistico-liviana, per esempio in margine alle
spoglie opime di Cornelio Cosso), pesano, in una valutazione
"storica" dei due volumi, i presupposti sui quali appoggia la
costruzione "ideale" dell'opera. Per un verso, nella lettera
dedicatoria al Beloch (irresponsabilmente soppressa nella ristampa,
come avverti e deprecò N. Criniti, in Nuova Riv. stor., LVI
[1972], p. 741), la condanna di "un cieco tradizionalismo" e di "una
non meno cieca smania di negar fede a ogni costo alla tradizione",
mentre "anche più esiziale alla serietà scientifica
è il diffondersi d'un dilettantismo borioso e ignorante, che
trova una degna alleata in quella impudente ciarlataneria
pseudosociologica che è tanto diffusa purtroppo in Italia con
grave iattura della vita intellettuale e politica della nazione"; e,
per altro verso, il riconoscimento e l'esaltazione "di quella forza
che lo scienziato cristiano designa col nome di Provvidenza" (II, 1
ediz., p. 537; II, 2 ediz., p. 516). Sia pur vero, come non
esitò ad asserire B. Croce (in Critica, VI[1908], pp. 290
s.), che i due volumi sono naturalistico-filologici nel racconto e
finalistico-provvidenzialistici nella conclusione; ma questo
"finalismo" cristiano era il vero D., il suo "storicismo", lo
strumento, fideistico e scientifico a un tempo, della sua ulteriore
attività.
Non che i due volumi non offrano delle premesse le quali rimasero le
costanti dell'esegesi desanctisiana della storia di Roma. Anzi
tutto, il principio dell'unità, onde lo storico accetta il
sacco di Veio come "il primo e più arduo passo sulla via
della riduzione d'Italia ad unità nazionale" (II, 1 ediz., p.
146; II, 2 ediz., p. 138) e saluta nella giornata di Sentino
l'antico equivalente o precorrimento di Solferino, che fece l'Italia
italiana, come Sentino fece l'Italia romana (II, 1 ediz., p. 357;
II, 2 ediz., p. 340). L'ultimo D. accennò, tuttavia, ad
un'implicita, ma radicale, revisione del suo concetto di
"unità" e del rapporto fra Italia e Roma (si veda il postumo
saggio La guerra sociale, Firenze 1976, pp. 40 ss. e le osservazioni
di G. Bandelli, in Quaderni di storia, XIV[1981], p. 245). Il
principio dell'unità (sotto Roma) riduce d'assai il
contributo delle altre popolazioni italiche: e quindi permette al D.
il rovesciamento di posizioni care al Micali e ad altri antichisti
del secolo scorso, la rivendicazione, cioè, in funzione
antiromana, vuoi dei Sanniti vuoi degli Etruschi, laddove il D.
quasi si fece un merito della propria "antipatia recisa contro la
... etruscomania" (Ricordi, p. 157); e severamente limitò
l'importanza e l'"etruscheria" di quella che almeno dal Pasquali in
poi si è convenuto di chiamare "la grande Roma dei Tarquini".
Chiuso il decennio con la pubblicazione di quello strano ed
infelicissimo volume Per la scienza dell'antichità (Torino
1909: rist. in Scritti minori, III, pp. 89 ss.), raccolta di alcuni,
validi, saggi anteriori (in ispecie i saggi omerici, a confutazione
di V. Bérard, G. Fraccaroli e d'altri "unitari") e di lunghe
polemiche, contrattacchi e controcritiche (al Ciccotti e al Ferrero,
al De Marchi, al Bonfante e al Pais, con cui la rottura, anche
personale, fu presto definitiva), le stesse piuttosto frequenti (e
da parte d'un professore di storia antica allora inconsuete)
citazioni del Croce lasciano intendere donde il D. attendesse aiuto
e salute alla restaurazione della storia (cfr. F. Natale in Nuova
Riv. stor., XLII [1958], p. 29 n. 2). Seguì, difatti, attento
e partecipe il vario lavorio dal quale uscirono le memorie
successivamente costitutive di Teoria e storia della storiografia
(Bari 1917), mentre ne discuteva con i propri discepoli, ormai
aperti al nuovo clima "idealistico" (A. Rostagni, A. Ferrabino, G.
Falco, ecc.), leggeva da antico abbonato La Critica e iniziava un
dibattito che avrebbe continuato fino ai suoi ultimi anni (si veda
la "breve disputa" con G. Patroni, dei primi del '14, in cui il D.
già attesta il suo debito al Bergson e al Croce, riesurnata
da S.Accame in Nona miscellanea greca e romana, Roma 1984, pp. 344
ss.; cfr., altresì, Id., in Studi in onore di G. Dupré
Theseider, Roma 1974, I, pp. 375 ss.; G. Giannantoni, in Elenchos,
I[1980], p. 35).
Poteva dire di avere vinto la sua battaglia, in quanto sgomberarono
il campo dell'antichistica i seguaci della scuola
economico-giuridica (Ciccotti, Ferrero, Barbagallo, ecc.),
pochissimo di buono vi contribuì quind'innanzi il Pais
(quanto più si concedeva al tradizionalismo nazionalistico,
all'antigermanesimo, ecc.), e ormai tacevano i tradizionalisti o
restavano sterilmente operosi sul piano della mera filologia. Ma
sentì che doveva vincere ancora se stesso, le remore del
proprio passato, le scorie d'una disciplina ecclesiastica e
discepolare, in obbedienza a cui, per esempio, nonostante le
sollecitazioni del Semeria e i personali contatti con A.A. Alfieri,
non aderì né al "modernismo", né al gruppo
milanese del Rinnovamento in cui pur militavano futuri amici suoi e
compagni della battaglia antifascista, quali T. Gallarati Scotti, A.
Casati e S. Jacini. Anzi, abbonatosi alla rivista, disdisse dopo un
anno l'abbonamento (1908), quando Casati ed Alfieri decisero di
continuarne le pubblicazioni nonostante la condanna ecclesiastica
(S. Accame, in Studium, LXVIII [1972], pp. 898 ss.).
La scuola torinese di storia antica, strettasi intorno al fresco
tumulo del compagno Emilio Pozzi a rendergli omaggio con una
miscellanea nel campo degli studi a lui cari (Entaphia, Torino
1913), attestava in quel libro non soltanto la propria
maturità, sì anche la propria libertà, la
propria indipendenza critica di fronte al maestro, se per esempio A.
Rostagni vi dettò una ricostruzione del "panellenismo"
d'Isocrate che infirmava in radice il pregiudizio dell'unità
macedonica della Grecia (quindi, i presupposti medesimi della
storiografia desanctisiana). Perciò i due volumi sulle Guerre
puniche (Torino 1916-17) riflettono una diversa temperie, suggerita
al D. e dall'esperienza "idealistica" e dall'esperienza della
guerra.
Il D. non esitò, già il settembre del 1914, a
rivendicare la validità della Triplice e la convenienza, o il
dovere, della neutralità italiana. In questa posizione lo
confermarono. oltre l'insipienza politico-diplomatica dei
governanti, anche l'impreparazione militare, le sterili illusioni
del patto di Londra (e tanto più le violenze antipariamentari
ed anticostituzionali del "maggio radioso", complice la Corona),
l'antica ammirazione per la Germania, il pericolo d'un indebolimento
o d'un crollo della monarchia asburgica, solo baluardo contro la
"marca slava", l'intima avversione alla Francia
illuministico-massonica e all'Inghilterra imperialista. Partecipe
con l'Halbherr, e per suo invito, ad una campagna archeologica nella
Cirenaica tuttavia turca il 1909, ch'egli considerò come
un'esplorazione preventiva del territorio ai fini d'una permanente
occupazione italiana (la quale in effetti seguì fra l'11 e il
'12), ritenne e scrisse che l'espansione coloniale sarebbe stata
assai più utile al nostro popolo della conquista di Trento e
Trieste, mentre al controllo difensivo dell'Adriatico poteva
servire, e bastare, l'occupazione di Valona. Vide, cioè,
nella prima guerra mondiale, un conflitto di potenze non cattoliche
contro le potenze cattoliche o, comunque, antislave, con tanto
maggiore danno per l'Europa quando la vittoria degli alleati fu
decisa dall'associato d'oltre Atlantico, ed aveva inizio la
decadenza del continente europeo il quale cessava d'essere ormai il
centro unico della storia.
Questi concetti governano il libro delle guerre puniche, e ne
ricevono concretezza e luce, in quanto la guerra annibalica insegna
che la prima guerra totale dell'antichità terminava con
l'annientamento dell'avversario (rendendosi quind'innanzi
impossibile una politica di equilibrio mediterraneo), ma con la
vittoria altresì delle potenze navali sulle potenze
terrestri, conforme alle teorie pubblicistiche della stessa
"antichistica" in era napoleonica. E non v'ha dubbio che, di quanto
si avvantaggia il linguaggio storiografico, l'austera
leggibilità dell'opera rispetto ai due antecedenti volumi, di
altrettanto la critica delle fonti, opportunamente relegata in
apposite appendici, supera, o mostra la tendenza a voler superare,
la Quellenkunde nella storia della storiografia, soprattutto per
un'aderente ricostruzione dell'animus di Livio nel raccontare, o nel
ricantare, la gesta annibalica.
Parallela a quest'attività del D., svolta in totale
isolamento dagli ambienti "bellicistici" dell'università e
dell'accademia, e anch'essa conseguenza del suo "neutralismo",
è da considerarsi l'attività ch'egli svolse in favore
di vittime dell'insana e mendace propaganda bellica. L'intervento,
per esempio, con B. Croce, presso la magistratura torinese cui era
stato deferito per "disfattismo" un insegnante integerrimo e probo
studioso, ma scrittore della Stampa giolittiana, il professor
Umberto Cosmo, denunziato da V. Cian e assolto per la probantissima
documentazione presentata dal D. appunto, e dal Croce (Ricordi, p.
111 e B. Croce, Epistolario, Napoli 1967, pp. 28 s.). E la campagna
perché (giusta la deprecazione del maestro) non andasse "ai
cani" la cattedra romana del Beloch.
Questi, impedito, quale cittadino germanico, dal far lezione fin
dall'inizio delle ostilità, fu, dopo Caporetto, destituito e
internato a Siena, non senza che la stampa nazionalistica, in parte
ad opera del fedifrago discepolo e del Beloch e del D., Luigi
Siciliani, inveisse contro il "caduto", dopo avere contribuito con
menzognere dicerie appunto alla caduta del vecchio storico (si veda
la lettera, stranamente non ristampata negli Scritti minori, del D.
al Marzocco, 24 marzo 1918). Apertasi la vacanza presso la
facoltà di lettere dell'università di Roma,
cominciarono le pressioni per il trasferimento del Pais che da anni
più o meno scopertamente manovrava a tal fine.
Presentò domanda di trasferimento anche il D., ch'ebbe
l'appoggio di N. Festa, F. Halbherr, E. Buonaiuti, ecc., mentre
pencolava il suo stesso condiscepolo P. Fedele e crescevano le
ingiunzioni ministeriali per una spedita soluzione della vertenza.
L'ultima votazione, insufficiente alla vittoria dell'uno o
dell'altro candidato, indicava però nettamente la prevalenza
del D., che sarebbe certo riuscito alla ripresa dell'attività
accademica dopo le ferie estive del 1918, non fosse nel frattempo
intervenuto, si disse per solidarietà massonica, con una
misura chiaramente illegale, il ministro A. Berenini. Questi, in
virtù dell'art. 69 della legge Casati, nominò il Pais
per chiara fama (cfr. in Letteratura e critica, A. M. Ghisalberti,
Baruffe in facoltà, in Studi in onore di N. Sapegno, Roma
1975, pp. 923 ss.).
In genere, su G. D. e la prima guerra mondiale, si vedano l'articolo
così appunto intitolato di S. Accame, in Critica storica, VI
[1969], pp. 712-720; M. Pavan, in Rassegna storica del Risorg., LI
(1964), pp. 71 ss.; e le lettere al e del Semeria edite da S.
Accame, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXV (1971), pp.
479 ss., e XXVI (1972), pp. 66 ss. Da ricordare altresì la
"fischiata" al D. del maggio 1915: Ricordi, pp. 107 s., e lett. alla
Stampa edita da N. Criniti, in Nuova Riv. stor., LVI (1972), p. 742;
nonché la denunzia per "disfattismo" presentata alla
magistratura dal collega archeologo G. E. Rizzo, in quanto il D.
avrebbe paragonato e affiancato a C. Battisti i "martiri irlandesi"
della Pasqua 1916.
Alle soglie del dopoguerra, fra le illusioni del wilsonismo e il
dilagare del nazionalismo, il D. levò primo la sua voce
contro una sorta di romanità "littoria" avant lettre, la
proposta di ricostruire la Ara pacis Augustae sul Campidoglio, "a
celebrare la vittoria e la nuova missione dell'Italia redenta",
articolando la sua protesta e dal punto di vista politico-umano e,
più, dal punto di vista storico-storiografico, in quanto la
Pax augusta si affigurava al D. (un presupposto che avrebbe
governato tutta la sua ulteriore attività) come "pace
imperiale per l'un lato" e "pace di rinunzia per l'altro ...
Cioè i Romani avevano pagato la soppressione delle
libertà altrui con la perdita della libertà propria"
(Scritti minori, III, pp. 567-8). Conforme a queste premesse il D.
vergò allora, affidandoli alla rinnovata Atene e Roma,
diretta dal suo discepolo L. Pareti, i due suoi scritti più
memorabili, Dopoguerra antico e Rivoluzione e reazione
nell'età dei Gracchi (Scritti minori, IV, pp. 9 ss., 39 ss.).
Li anima una grande speranza: che il dopoguerra italiano ed europeo
sarebbe riuscito altro e migliore del "dopoguerra antico",
evitandosi il duplice pericolo, uguale e contrario, ed ugualmente
fatale, della rivoluzione e della reazione. La grande speranza
nasceva nel D. dall'avvento del Partito popolare italiano, cui egli
tosto aderi e in cui tosto assunse posizioni di autorità e di
militanza torinese, ampiamente documentate da S. Accame, G. D. fra
cultura e politica (Firenze 1975). Soprattutto i discorsi
politico-elettorali (fu candidato vittorioso alle amministrative del
novembre 1920, benché la nomina fosse annullata per vizio di
forma; e candidato soccombente alle elezioni politiche del novembre
1919 e del maggio 1921) e i discorsi quale presidente della sezione
torinese dell'Associazione cattolica di cultura non solamente
rivelano la piena maturità dello storico e orchestrano i temi
che informeranno poco di poi il volume IV, 1 (Torino 1923) della
Storia dei Romani (anche la celebre dedica è in nuce in un
discorso del '19: "Forse non tutti i governanti ma certo tutti i
popoli hanno oggi orrore non meno d'essere oppressori che d'essere
oppressi": p. 442), ma veggono il D. perfettamente inserito nel
clima culturale, o politico-culturale, dell'Italia, come indicano
gli elogi del Croce ministro e "dantista", la rievocazione
(carducciana) dei "moti del Ventuno", la rivendicazione del
tricolore quale "simbolo di libertà, di quella libertà
... che deve stare garante del patto che con lo statuto albertino fu
stretto indissolubilmente tra il re ed il popolo" (p. 501). E giova
qui aggiungere che, nonostante la condotta del re tanto a maggio del
'15 quanto il 28 ott. 1922, il D. continuò per quasi tutti
gli anni Venti a sperare nella monarchia, in ispecie nel principe di
Piemonte, in funzione antifascista (o avrebbe, la monarchia, segnato
altrimenti la propria condanna; pp. 311 ss., del 1928).
Come il partito popolare doveva tenere la "via media" fra
rivoluzione e reazione, evitando le remore, le illusioni e gli
errori del "bolscevismo", senza peraltro incidere in tentazioni
reazionarie, condonando quindi i misfatti delle squadracce fasciste,
così lo storico narrava, nel più celebre e per certo
migliore de' suoi volumi, la tragedia d'un popolo, incapace di
sottrarsi all'imperialismo del Drang nach Osten e parimente incapace
di sottrarsi alla crisi economica, sociale e costituzionale che
l'imperialismo portava seco: la distruzione del medio ceto agricolo,
la sua proletarizzazione e l'avvento di avventurieri, spostati,
emarginati, ricchi e poveri, operanti in un ambito di governo sempre
più ristretto e chiuso fra le relativamente poche famiglie
della nobilitas, sempre più alieni dall'esercizio delle armi,
donde la necessità di sostituire all'esercito cittadino
l'esercito mercenario-professionale, cui conseguivano il
combattentismo e il "rapporto" non più fra l'individuo e lo
Stato, ma fra il singolo e il capo, la dittatura militare in atto (o
in potenza), cioè in ultima analisi il principato augusteo.
Eppure, quest'ultimo decennio torinese del D., che da storico vide
consumarsi la fine della libertà romana e da cittadino vide
consumarsi la fine della libertà italiana, seniffascistizzato
prima e disciolto poi il suo partito, don Sturzo esule, vittima egli
stesso (1925) d'una irrimediabile frattura del femore e afflitto
(1929) dagli inizi di quella malattia d'occhi che doveva condurlo
nel successivo decennio alla totale cecità, resta, nella
biografia dell'uomo, dello storico e del maestro, il decennio suo
più felice. La stessa militanza antifascista (donde, a maggio
del '25, la sua adesione al manifesto Croce; e le nuove amicizie, da
quando il ministro della Pubblica Istruzione Alessandro Casati,
nell'autunno del '24, lo nominò nel Consiglio superiore) lo
fece caro e vicino alla gioventù "gobettiana", i cui migliori
furono suoi scolari (M. Fubini, N. Sapegno, M. A. Levi, ecc.: si
veda l'articolo di N. Sapegno, Pagine disperse, Roma 1979, pp. 29
ss.). E dal '23, quasi a coronamento d'un progetto lungamente
accarezzato, e per la cui attuazione fin dagli anni di guerra
intendeva contar sull'appoggio di A. Ferrabino e di A. Rostagni (L.
Polvermi, in Ann. della Scuola norm. superiore di Pisa, s. 3, V
[1975], pp. 421 ss.), affiancò alla sua cattedra
universitaria un'altra cattedra, la direzione (con A. Rostagni)
della nuova serie della Rivista di filologia (E. Gabba, ibid., C
[1972], pp. 442 ss.).
Questa, per merito suo e de' suoi collaboratori, tosto divenne,
oltre che lo specchio della situazione culturale italiana al suo
meglio, una rivista di marcata personalità e di respiro
europeo. Non soltanto perché il D. vi analizzò e
commentò tutte le maggiori scoperte storico-epigrafiche e
storico-papirologiche (massime nell'ambito dell'epigrafia cirenaica,
pur sottraendosi nel '27 col pretesto della salute alla
compromissione dell'invito a un viaggio "ufficiale" nella colonia,
offerto congiuntamente dal governatorato a lui, al Wilamowitz e allo
Hiller von Gaertringen: vedi S. Accame, F. Halbherr e G. D., Roma
1984, pp. 193 ss.), ma, e soprattutto, perché v'iniziò
allora quella "conversione" dalla critica delle fonti alla storia
della storiografia, che gli permise sia d'interpretare la genesi, il
divenire, il valore dei maggiori storici antichi (Ecateo, Erodoto,
Tucidide, Senofonte e le Elleniche di Ossirinco, Livio, ecc.), sia
d'inserirli successivamente, come interpreti e testimoni d'un epoca,
nella Storia dei Greci.
Poiché l'anno accademico 1928-29 era l'ultimo
dell'insegnamento del Beloch, reintegrato consule Gentile e
restituito alla cattedra di storia greca, era naturale che, per
obbedienza al desiderio del maestro, e tanto più dopo la sua
morte a febbraio del '29, il D. aspirasse a succedergli, sollecitato
altresì dal suo nuovo compito di direttore della sezione
"Antichità classica" dell'Enciclopedia Italiana.
Lasciò Torino senza rammarico, perché la Rivista era
saldamente affermata e grazie alla direzione del Rostagni poteva
ritenersi al sicuro da colpi di mano; perché alcuni de' suoi
ultimi allievi l'avrebbero seguito in Roma, dove la sua chiamata a
voti unanimi (assente e ormai poco influente il Pais) acquistava il
valore d'una riparazione ed era caratteristico omaggio ad un
antifascista intemerato.
Roma, però, tranne per il lavoro alla Enciclopedia e il
contatto con altri giovani studiosi che lo riverirono tosto come un
maestro (A. Pincherle, F. Gabrieli, G. Levi della Vida, A. M.
Ghisalberti, U. Bosco, ecc.) non gli poteva essere né
congeniale né propizia. Non all'università, dove il
boicottaggio dei suoi corsi ad opera del Pais gli fece tosto il
vuoto intorno. Né presso le istituzioni culturali della
città, in ispecie l'Istituto di studi romani, infestato del
peggior clerico-fascismo, imbaldanzito dalla recente Conciliazione,
sebbene il 1930 il D. tenesse in quella sede un mirabile ciclo di
conferenze, rimaste inedite, sull'imperialismo romano dal III al I
secolo a.C. (parallelo alla trattazione che nel contempo redigeva
per il secondo volume della Propyläen Weltgeschichte, edita da
W. Goetz, anch'essa rimasta tuttora inedita nell'originale
italiano). Perdurava, frattanto, dalla ricostruzione "intesista" del
'19 il lavoro presso l'Union académique internationale, che
aveva consentito al D. fruttuosi contatti con i maggiori storici
stranieri (in occasione altresì del congresso di Oslo, il
1928), e che quella primavera del '30 lo condusse a Cambridge, anche
per il conferimento della laurea ad honorem (pochi anni prima n'era
stato insignito ad Oxford), mentre si era, dopo l'ardua opera
costruttiva, più e più affrancato, per dissidi
insanabili con padre A. Gemelli, dall'università Cattolica
del Sacro Cuore, che pur l'aveva nominato fra i suoi primi docenti
(si veda S. Accame, G. D. e l'Università Cattolica, in Aevum,
LII [1978], pp. 471 ss.). In questa temperie non stupisce che,
sebbene proposto dall'ingenuità ed amicizia di Alessandro
Luzio e acclamato dalla classe unanime dell'Accademia d'Italia
l'autunno del '30, la proposta medesima fosse immediatamente
bocciata da Mussolini, anche successivamente sospettoso e
preoccupato dell'antifascismo desanctisiano (cfr. L. Bortone, in
Palatino, XI [1967], p. 408).
Se il 1930 finiva assai tristemente, suicida per antifascismo nel
carcere di Regina Coeli Umberto Ceva, marito della sua fedelissima
scolara Elena Valla, il 1931 finì ancor più
tristemente col rifiuto del giuramento fascista e la destituzione
dalla cattedra. Il D. medesimo raccordò i due episodi,
quando, scrivendo appunto alla discepola perseguitata, la
confortava, e quasi ringraziava, con queste alte parole: "L'esempio
di fermezza e dirittura che mi hanno dato rebus in arduis taluni
miei scolari è stato di grande momento nella deliberazione"
(la citazione presso A. Galante Garrone, Imiei maggiori, Milano
1984, pp. 40-41; le lettere del D. ad Elena Valla Ceva, come il
breve carteggio De Sanctis-Croce, usciranno sulla Nuova Antologia).
Memore, ma non solo perché memore, del giuramento rifiutato
da suo padre, non esitò un attimo nella decisione,
quand'anche s'illudessero di poter intervenire a dissuaderlo il
Gentile (che pur valse a mantenergli l'incarico presso
l'Enciclopedia) e padre Gemelli, missus dominicus, com'egli stesso
poi raccontò (in Vita e pensiero, XXXIV [195], pp. 24 ss.) di
papa Pio XI (probabilmente per obbedienza disciplinare, il D. ne
tace in Ricordi, pp. 143 ss., pur polemizzando, a p. 147, contro la
nota ufficiosa dell'Osservatore romano). Al rifiuto del giuramento
universitario seguì coerentemente nel '34 il rifiuto del
giuramento accademico (vedi, oltre Ricordi, pp. 154 ss., H. Goetz, ,
in Quellen und Forschungen aus ital. Archiven u. Bibliotheken, LIX
[1979], pp. 428 ss. e LXII [1982], pp. 303 ss.) e l'esclusione da
ogni organismo culturale, anche in concomitanza con la promulgazione
delle leggi "razziali".
Fu di conforto al D. la solidarietà internazionale
(attestatagli personalmente dagli autori delle varie lettere
pubblicate in Ricordi, pp. 236 ss.), in ispecie la "lettera
nobilissima" dell'esule Guglielmo Ferrero (ibid., pp. 246-7). Questa
solidarietà, peraltro, non si espresse nell'offerta concreta
d'una cattedra all'estero nonostante qualche tentativo o sondaggio
egiziano: che, per le sue stesse condizioni di salute il D. avrebbe,
comunque, potuto accettare difficilmente. Restò quindi sempre
più solo, e progressivamente sempre più isolato, nella
sua casa romana, a lavorare per l'Enciclopedia e per la Storia dei
Greci.
Ha qualche merito nella sua genesi il Rostovcev, che suggerì
ad Ernesto Codignola di commissionare al D. quasi un nostrale
pendant alla monografia pubblicata nella Propyläen
Weltgeschichte (travolta ben presto nella persecuzione della casa
Ullstein): un libro, cioè, maneggevole, più leggibile
(anche perché senza note, le quali sembra siano state
redatte, ma non furono mai pubblicate) e che, per la natura stessa
del tema e i suoi limiti cronologici, permetteva al D. di scrivere
la storia del popolo da lui più amato, in quanto artefice di
libertà, senza la remora che gl'imponeva la sempre asserita,
e in verità sempre meno osservata, fedeltà al
principio dell'unitarismo macedonico. Se all'indomani del non
giuramento, quasi per una sfida e un'attestazione di vita, raccolse
in volume presso il Laterza un manipolo di saggi e discorsi, editi e
inediti, Problemi di storia antica (Bari 1932: rist. in Scritti
minori, IV e V), dov'è ancor assillante il problema, o
l'antitesi, massime nel saggio su Perdicca (1931), fra unità
e libertà, altro, e migliore, perché più
"storico", è l'impianto metodico su cui la Storia dei Greci
è costruita, la storia affigurandosi oramai al D., nella scia
delle Deux sources del Bergson, come alternanza perpetua fra le due
polarità del bene e del male, ed affermandosi pertanto
gl'individui e i popoli come creatori di "valori".
Dei due volumi, usciti a Firenze nel '39 e destinati in seguito a
divenire un best seller, di cui il D. non scrisse materialmente
nemmeno una riga, e la cui prosa conserva pertanto il segno di cosa
dettata, di pagine dal taglio non visto, se parve più
"scolastico" il primo, anche per certe rivendicazioni "belochiane",
destinate a scomparire in perpetuo con la scoperta della
civiltà "micenea" e la decifrazione della lineare B, per
certe prese di posizione antiquate o immetodiche, ad esempio in
fatto di critica omerica, ecc., resta certo mirabile, per
compattezza, fusione, pathos, unità nella molteplicità
delle testimonianze e delle voci, il secondo, la prima storia
unitaria e integrale che a tutt'oggi si abbia del V secolo, fino
alla correlazione od antitesi dialettica fra la restaurazione della
democrazia ateniese e il processo di Socrate.
Nel processo di Socrate, intentatogli da un moderato assai
benemerito della restaurata democrazia quale Anito, nella relativa
giustizia della condanna, il D. vide l'acine e la crisi della storia
greca, in quanto storia della polis. Questa, infatti, per un verso,
non basta più a soddisfare l'essere e il dover essere della
singola personalità umana e, per altro verso, deve difendersi
dal tentativo di sostituirle un "altro" assoluto, cui l'uomo si
affidi come a chiesa, o civitas Dei, relegando la polis a un rango
puramente statuale, tecnico, umano. Ma interpretare in questi
termini la storia successiva alla condanna di Socrate significa
trascendere in radice ogni "unitarismo", che nella realtà
delle cose non poteva essere, comunque, se non meramente
costrittivo, militare, "politico", né poteva quindi
costituire una struttura vitale, una scelta di civiltà.
La Storia dei Greci non ebbe quindi un seguito. E resta il segno
più drammatico e convincente della problematicità
dello storiografo, la testimonianza vittoriosa del nuovo Adamo
ch'era sorto in D. - e troppo doveva, tuttavia, contendere ancora
col vecchio Adamo della sua antecedente attività.
Altrettanto è a dire del travaglio dell'uomo. Il suo
"colonialismo" l'indusse a parteggiare, non senza scandalo e dolore
di amici e discepoli, per l'avventura etiopica del fascismo, come
l'indusse ad auspicar la vittoria di Franco nella guerra civile
spagnola, quand'anche naturalmente disapprovasse l'intervento armato
dei nazifascisti. Donde una separazione nettissima e da don Sturzo e
dall'intelligencija cattolica del Maritain, del Mauriac e dei
Bernanos. Dispiacque anche a molti, imperando ed imperversando
tragicamente il "razzismo" hitleriano, che il D. persistesse in quel
suo moderato "razzismo" tipicamente ottocentesco (al quale avevano
conceduto uomini come il Trezza e il Littré, ma che nelle
circostanze degli anni Trenta poteva dar luogo ad equivoci
pericolosi), onde gli parve desiderabile e storicamente positiva la
vittoria dei Romani sui Cartaginesi, cioè degli Arii sui
Semiti, fino all'estremo di parlar di Cartagine come d'un "peso
morto" dal quale conveniva affrancarsi (anche con i metodi di
Scipione Emiliano), perché "l'Africa romanizzata" potesse
"entrare anch'essa nello sviluppo civile dell'antichità"
(così Storiadei Romani, IV, 3, Firenze 1964, p. 75; vedi
anche Scritti minori, V, pp. 214 ss.) - laddove precedentemente
(Storia dei Romani, IV, 1, 1 ediz., p. 261; IV, I, 2 ediz., p. 254)
il semita Annibale si era, con più verità, affigurato
allo storico siccome il negativo precursore di "un altro grandissimo
Semita, Paolo di Tarso" (cfr. A propositodel giudizio di G. D.
suAnnibale, a cura di M. Pavan, in Riv. stor. dell'antichità,
XIII-XIV [1983-1984], pp. 143-159).
Queste incertezze od antinomie del D. storico naturalmente non
governarono od impedirono il D. uomo nell'opera inesausta di
protezione dei perseguitati, massime se ebrei, li soccorresse
quand'erano in pericolo (e riuscisse pur vano, ad esempio, il
tentativo di sottrarre alla deportazione, e alla morte in un campo
di concentramento, l'epigrafista M. Segre e la sua famiglia), li
accogliesse come suoi amanuensi, lettori e collaboratori. Non si
nega, però, che la seconda guerra mondiale, quanto più
si affermava come guerra di "superpotenze", e di superpotenze
extraeuropee, e la vittoria delle Nazioni unite avrebbe, nella
decadenza dell'Europa, affrettato il prevalere di ideologie od
anticattoliche o (latosensu) anglico-protestanti, suscitò nel
D. atteggiamenti che si riverberarono nella sua condotta
politico-pratica dopo la Liberazione. Prontamente restituito alla
cattedra romana di storia greca (1944), che gli fu poi confermata a
vita come a professore non giurato, se non esitò a votare il
2 giugno 1946 per la Repubblica e per De Gasperi, non volle
rientrare nei ranghi della Democrazia cristiana ed anzi diede opera
a invalidare ogni procedura di epurazione (né solo
nell'interesse di suoi discepoli, come L. Pareti), e ruppe con i
colleghi per i metodi che presiedettero alla ricostruzione
dell'Accademia dei Lincei.
Riflette, storiograficamente, l'atteggiamento "pratico" del D. negli
anni di guerra la monografia su Pericle (Milano 1944; vedi L.
Polverini, in Ann. d. Scuola norm. sup. di Pisa, s. 3, III [1973],
pp. 1092-1094). Dove non tanto dispiacciono le scoperte analogie
"contemporanee" (troppo aspramente rimproverategli dall'Omodeo),
quanto, nella sostanziale identità interpretativa della
monografia e dei capitoli correlativi nel secondo volume della
Storia dei Greci, commuovono alcuni tratti caratteristici del D.:
per esempio, la cavalleresca rivendicazione di Aspasia e l'omaggio
alla patria cara e infelice che il Pericle tucidideo esalta e in cui
il D. doppiamente si ritrova (cfr. M. Pavan, in Clio, XIX [1983],
pp. 17-28).
Nonostante la grave età, gli acciacchi, l'insanabile dolore
per la perdita della moglie, la solitudine nella casa vedovata (che
gli governò, tuttavia, la sorella della sua compagna, la
professoressa Olga Rosmini), fu instancabile nell'assolvere i nuovi
doveri e i compiti che gli affidarono i vari governi della
Repubblica. Mentre attendeva alla continuazione, intrapresa durante
la guerra, della Storia dei Romani (e a rifare quasi di pianta il
volume, il cui manoscritto era stato rubato all'editore in
un'aggressione banditesca), si trovò, da commissario per la
Giunta degli Istituti storici, e da presidente dell'Istituto della
Enciclopedia Italiana, a dover rimettere in piedi, e a far
speditamente funzionare, enti che la situazione postbellica e le
difficoltà finanziarie del paese ponevano a grave
repentaglio. Ci riuscì con la sua tenacia e la sua fede, con
l'energia che possedeva e seppe infondere ne' suoi collaboratori:
come attesta, per l'Istituto per la storia del Risorgimento, Alberto
M. Ghisalberti (Maestri e compagni di strada, Città di
Castello 1972, pp. 41 ss.).
Le sue allocuzioni ebbero il singolare carattere di richiami alla
storia, in quanto rivendicava la nobiltà della "nostra"
storia, soprattutto per quella parte e nella misura in cui
più si affermavano il segno e la predicazione di Giuseppe
Mazzini, e in quanto rivendicava la romanità come humanitas
di contro alle faziose contraffazioni cesariane del regime fascista
(e alle ugualmente faziose contraffazioni od esaltazioni del pugnale
di Bruto). Ebbe perciò fede nell'Europa, nei progressivi
avviamenti all'organizzazione e all'unità dell'Europa,
sebbene questo superstite "risorgimentista", questo convertito al
Risorgimento italiano vanamente s'ingegnasse di applicare una misura
ottocentescamente nazional-unitaria ai moti del Terzo Mondo, per
esempio la guerra di Corea.
A riconoscimento de' suoi meriti e ad attestargli la gratitudine
della nazione, il 1950, suo ottantesimo genetliaco e semisecolare
anniversario dell'inizio del suo insegnamento universitario, il
presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, nominò il D.
senatore a vita. Grato dell'onore ma a precisare il carattere non
politico, o non partitico, della nomina, il D. volle sedere in
Senato da indipendente e si iscrisse, perciò, al gruppo
misto. Proseguiva frattanto la redazione degli ultimi volumi della
Storia dei Romani (benché non fosse mai chiaro, probabilmente
nemmeno a lui, quello che doveva esserne ex hypothesi il termine, se
non lato sensu la fine della res publica senatoria, perché il
principato segna, nell'esegesi desanctisiana, la fine della
libertas: e, usava dire, dove non c'è libertà, non
c'è storia - che è poi la ragione vera del
sostanzialmente scarso interesse e lavoro del D. nel campo della
storia "imperiale": cfr. L. Polverini, in Studi romani, XXX [1982],
pp. 449 ss.). Vi ribadisce i principi e presupposti dei volumi
anteriori, accentuando però l'avversione all'imperialismo,
l'elogio d'ogni principe ellenistico che mostrasse velleità
di resistenza a Roma, e le riserve, soprattutto di carattere
"etico", su Polibio, un graeculus al servizio degli Scipioni (F. W.
Walbank, in Rivista di filologia, CXI[1983], pp. 465 ss.).
Si spogliò progressivamente delle varie cariche, anche della
presidenza dell'Enciclopedia Italiana, quando si sentì
più impedito nel fisico e avvertì prossima l'ora del
trapasso. Morì quasi repentinamente, a Roma, nella sua casa
di via S.Chiara, il 9 apr. 1957. L'assisteva la speranza fugacemente
confidata un giorno a un'allieva (IlPonte, XIII [1957], p. 1886):
"se in un remoto avvenire taluno ... provera un po' di simpatia per
il vecchio storico, se ne rievocherà con fraterna compiacenza
il cuore e la mente, se se ne sentirà ispirato ad amare con
più austera dedizione la verità, la libertà, la
giustizia, tunc exultabunt ossa mea".