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Critico e storico della letteratura italiano (Morra Irpina, oggi Morra De Sanctis, 1817-Napoli 1883).
Compì i suoi studi a Napoli, dapprima sotto la guida dello zio paterno don Carlo Maria e dell'abate Lorenzo Fazzini, poi presso la scuola del purista Basilio Puoti; ma si allontanò presto dai metodi del maestro, sostituendo il concetto di purismo con quello di proprietà linguistica: principio che ebbe modo di applicare nella sua "prima scuola", cioè nell'insegnamento presso il Collegio militare della Nunziatella e nelle lezioni private di lingua e di grammatica, impartite agli allievi del Puoti in una scuola del Vico Bisi. La sua posizione ideologica fu caratterizzata, in questa prima fase, da una fervida adesione al programma cattolico-liberale del Gioberti, cui subentrò l'influsso dello spiritualismo eclettico del Cousin.
Ma l'esperienza che doveva segnare una svolta nella maturazione della sua personalità fu la partecipazione all'insurrezione napoletana del 1848, durante la quale perse la vita il suo diletto allievo Luigi La Vista; rifugiatosi in Calabria, De Sanctis fu arrestato nel 1850 e, tradotto a Napoli, fu imprigionato fino al 1852 a Castel dell'Ovo; in carcere compose il carme in endecasillabiLa prigione e un dramma d'influsso goethiano, Torquato Tasso, e tradusse il Manuale di una storia generale della poesia di Rosenkranz e la Logica di Hegel. La solitudine in Calabria e la prigione segnarono per De Sanctis l'inizio di un nuovo orientamento ideologico, caratterizzato dal ripudio del giovanile romanticismo neocattolico e dall'adesione a una concezione laica e democratica, fondata sulla struttura dialettica della realtà.
Liberato ma espulso dal Regno di Napoli, De Sanctis andò esule prima a Torino (1853), poi a Zurigo (1855), dove ottenne un incarico di letteratura italiana al Politecnico: fu un periodo di crisi interiore (di cui sono testimonianza le Lettere a Virginia, le Lettere dall'esilio e le Lettere a Teresa, pubblicate rispettivamente nel 1917, 1938, 1954), aggravata dalla freddezza dell'ambiente e dall'amore non corrisposto per un'allieva torinese, Teresa De Amicis; ma De Sanctis superò la crisi, approfondendo la propria meditazione filosofica in direzione di un superamento dall'interno del pensiero estetico hegeliano. Rifiutando come troppo schematico il concetto hegeliano della morte dell'arte, destinata a risolversi nella forma superiore della filosofia, De Sanctis volse ogni suo sforzo a chiarire la distinzione tra l'idea astratta della filosofia e l'idea concreta dell'arte, pervenendo alla fortunata formula dell'arte come "forma", intesa non come "ornamento o veste o apparenza", ma come trasfigurazione del "contenuto attivo nella mente dell'artista" e quindi coincidente con esso ("tal contenuto tal forma").
Venivano così respinte le due ipotesi opposte dell'astratto contenutismo e del vuoto formalismo e nasceva il metodo critico desanctisiano, che aveva il suo fulcro nella ricerca della "situazione", cioè della materia "messa in una posizione sua propria, nella sua personalità, con un suo carattere", e nella duplice distinzione tra la "fantasia", la facoltà creatrice che fonde contenuto e forma in unità organica, e l'"immaginazione", che si limita a radunare il materiale descrittivo, e tra il "poeta", che esprime una robusta concezione della vita, e l'"artista", per il quale la perfezione formale diventa fine a se stessa.
Nel 1860 De Sanctis rientrò in Italia e si dedicò all'attività politica: governatore della provincia di Avellino, s'impegnò a preparare il plebiscito unitario; fu quindi assessore all'Istruzione nella luogotenenza napoletana, deputato al primo Parlamento italiano, ministro della Pubblica Istruzione con Cavour e Ricasoli dal 1861 al 1862, direttore (1862-65) del giornale L'Italia. Negli anni successivi, videro la luce i Saggi critici (1866), il Saggio critico sul Petrarca (1869) e la Storia della letteratura italiana (1870-71). Capolavoro assoluto della nostra storiografia, definita da Wellek "la più bella storia che mai sia stata scritta di una letteratura", la Storia desanctisiana rimane il fondamentale punto di riferimento per qualsiasi ricerca sulla cultura letteraria italiana nel suo svolgimento storico.
Nel 1871, De Sanctis fu chiamato alla cattedra di letteratura comparata nell'Università di Napoli e iniziò le lezioni della sua "seconda scuola" con un'importante prolusione su La scienza e la vita, che costituisce il testo più avanzato dell'idealismo ottocentesco: precisando la sua posizione nei riguardi del positivismo contemporaneo, De Sanctis sostenne, in quel discorso, la necessità di non separare la scienza dalla vita per ristabilire l'unità dialettica di questi due momenti della realtà e ricostruire il tessuto morale dell'individuo e della nazione. La sua simpatia verso il realismo naturalistico, manifestata negli scritti successivi (Studio sopra Emilio Zola, 1878; Zola e l'Assommoir, 1879; Il darwinismo nell'arte, 1883), fu pertanto temperata dalla disapprovazione per quelle rappresentazioni del reale che implicassero una degradazione del sentimento etico.
All'attività politica (passato alla Sinistra, fu di nuovo deputato e per due volte ministro della Pubblica Istruzione, nel 1878 e dal 1879 al 1881), De Sanctis congiunse una fervida operosità critica, testimoniata dai Nuovi saggi critici (1872) e dai quattro corsi universitari sul Manzoni (1871-72), sulla Scuola cattolico-liberale (1872-73), su Mazzini e la scuola democratica (1873-74) e su Leopardi (1875-76): queste lezioni furono pubblicate postume con il titolo La letteratura italiana del secolo XIX (1897).
Scrittore di pagine autobiografiche tra le più vive della nostra prosa memorialistica, De Sanctis raccolse le sue impressioni di propagandista politico nel Viaggio elettorale (1876) e narrò la storia della sua educazione sentimentale e intellettuale nel frammento La giovinezza (postuma, 1889).
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DBI
di Attilio Marinari
Nacque il 28 marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in
prov. di Avellino), al centro di. una zona che fino a dieci anni
prima era stata tutta feudale e di cui gli antichi feudatari ancora
sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva, mentre il potere era
gestito direttamente dal clero e dai piccoli o medi proprietari
terrieri, anch'essi strettamente legati alla Chiesa sul piano
economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse
solo i primi nove anni, ma esso costituì sempre per lui un
punto di riferimento, perché sempre egli lo ebbe presente
come "polo reale" e, insieme, come "polo negativo" della storia: la
realtà da cui partire e rispetto alla quale operare per tutte
le conquiste del "progresso" (morale, culturale, civile).
La famiglia De Sanctis apparteneva a quel ceto di piccoli
proprietari del Sud che produceva i preti, gli avvocati e i pochi
medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro (1787-1874), che
però viveva del reddito della sua piccola proprietà,
prima ampliata attraverso un "buon matrimonio" locale con Maria
Agnese Manzi (1785-1847), poi progressivamente sempre più
dissestata; preti i due zii Carlo e Giuseppe; medico lo zio Pietro
(ed anche per costui la qualifica professionale servì
soltanto a sostenere l'orgoglio del ceto dei "galantuomini"). Come
molti esponenti del "galantomismo" meridionale, don Giuseppe e
Pietro De Sanctis avevano aderito alla carboneria (in funzione
patriottica e antifeudale): dopo aver partecipato ai moti carbonari
del 1820-21, vissero in esilio per dieci anni, serbando intatto lo
spirito antiborbonico, ma non il patrimonio. L'altro prete, invece,
don Carlo, fece fortuna in Napoli come titolare di una stimata
"scuola di lettere" (un ginnasio privato).
Nel 1826 il D. fu trasferito come ospite ed allievo presso lo zio
Carlo.
Dai "ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare l'elenco
delle discipline da lui studiate, con fortissimo impegno, per tutta
la durata del corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica,
Rettorica, Poetica, Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità
greche e romane" e inoltre "l'Aritmetica, la Storia Sacra, il
Disegno"), nonché una serie di notazioni sul metodo
d'insegnamento tutt'altro che critico e innovativo ("Un grande
esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo ficcarsi in
mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie
di Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio;
tutti i sabati si recitavano centinaia di versi latini a memoria").
Poiché i cinque anni di studi "letterari" avevano un
completamento canonico in due anni di studi "filosofici", nel 1831
fu iscritto alla scuola di don Lorenzo Fazzini, matematico e fisico
illustre, di dichiarate convinzioni sensistiche. Per due anni,
perciò, egli visse immerso nello studio di "Locke, Condillac,
Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del Genovesi, ma (e questo
è un tratto molto importante, destinato a rimanere come
atteggiamento mentale) nell'ottica "moderata" che era propria sia
dell'ambiente familiare sia del maestro ("Il professore diceva che
il sensismo en una cosa buona sino a Condillac, ma non bisognava
andare sino a Lamettrie e ad Elvezio .... Voltaire, Diderot,
Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli").
Lo stesso amalgama di aperture progressiste e di scarsa chiarezza
ideologica fu nell'esperienza successiva (quella degli studi
giuridici), in un'altra scuola privata, dove (con l'abate Garzia) il
D. imparò ad apprezzare soprattutto i codici napoleonici,
aprendosi così alla dialettica giuridica liberale. Questi
studi avrebbero dovuto rappresentare il punto d'arrivo di tutto il
lavoro precedente (poiché, scartata una primitiva ipotesi di
carriera ecclesiastica, si pensava di far di lui un avvocato), ma a
determinare una diversa scelta di vita intervenne una grave malattia
dello "zio Carlo", in seguito alla quale il peso della scuola cadde
sulle fragili spalle del D. diciottenne, ed egli divenne fonte di
sostegno economico per la sua numerosa famiglia (dopo la morte della
primogenita Genoviefa, restavano ben cinque tra fratelli e sorelle,
che sempre in qualche modo gravarono su di lui, con molte
preoccupazioni e ben poche gratificazioni affettive o sociali).
Un altro avvenimento, questo di qualche anno prima (1833), aveva
preparato nel D. tale mutamento di interessi e di scelte: il suo
ingresso nella "scuola di lingua italiana" del marchese Basilio
Puoti: di un "maestro", cioè, che rappresentava in quel
momento uno dei punti di riferimento più vivi della cultura
napoletana e che presto prese a stimarlo, ad amarlo e a guidarlo. Ed
è in ambito puotiano che nascono i primi scritti a stampa del
D.: la sua volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di Giano Nicio
Eritreo (Discorso contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul
Tesoretto, e la Dedicatoria (sua e del cugino Giovannino) al Puoti
dell'edizione (da entrambi curata) del Volgarizzamento delle Vite
de' santi Padri di D. Cavalca e del Prato spirituale di Feo Belcari
(1836).
Non è da qui però che si può ricavare
l'immagine complessiva di ciò che egli era alla fine del suo
corso ufficiale di studi e all'inizio del suo primo magistero.
Certo, la competenza grammaticale e testuale e la sensibilità
alle cose della lingua (alla lingua come sistema formale in cui
penetrare con il rigore dell'intelligenza, della scienza e del
gusto) erano allora e restarono per sempre una componente molto
importante del D. studioso e maestro (questo va ribadito, anche per
opporsi a una troppo lunga sottovalutazione critica
dell'eredità puristica attiva all'interno della metodologia
critica desanctisiana); ma dalla sua precedente esperienza culturale
egli aveva ricavato anche un complessivo eclettismo nozionistico e
ideologico, un evidente taglio "settecentesco" nell'impostazione del
sapere e in più una vastissima pratica di letture, che egli
sottolinea con forza nella Giovinezza e che si riverbera in tutta la
sua opera. Ricostruendo dai suoi "ricordi", risulta che il D.,
diciottenne, aveva letto con profondo coinvolgimento (oltre a tanti
latini, greci, filosofi, storici e giureconsulti) un'incredibile
quantità di classici italiani maggiori e minori, dai
trecentisti a Metastasio, e poi Parini, Alfieri, Verri, Monti,
Foscolo, Manzoni, Berchet, Leopardi, e Fénelon e Voltaire,
Young e Scott (ma la zona "moderna" ed "europea" andava rapidamente
allargandosi: a poco più di venti anni, il suo patrimonio di
lettura spaziava con sicurezza da Shakespeare a Richardson, da
Milton e Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e Hugo).
La professione dell'insegnamento diventò per il D. definitiva
(grazie all'intervento del marchese Puoti) nel 1838-39, più o
meno contemporaneamente nel settore della scuola pubblica (prima
alla scuola dei sottufficiali; poi, dal 1841, al Collegio militare
della Nunziatella, prestigiosa accademia militare borbonica) e in
quello privato (con la "scuola di Vico Bisi", che il Puoti
aprì per lui, affidandogli all'inizio i suoi allievi
più giovani, poi di fatto - a grado a grado - la sua stessa
funzione docente). A quest'ultima esperienza (di cui restano
importanti documenti nei Quaderni discuola e una vasta rievocazione
nella Giovinezza) si attribuisce, per tradizione ormai consolidata,
la definizione di "prima scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse
più giusto comprendere nella definizione l'esperienza
didattica complessiva del decennio 1838-48: il decennio che
consacrò il successo indiscusso del D. maestro, il quale
intanto (nelle diverse fasi della sua frenetica attività)
metteva a punto il suo metodo e il suo atteggiamento critico, mentre
andava costruendo intorno a sé rapporti affettivi e
intellettuali che sarebbero rimasti centrali in tutta la sua vita, e
mentre andava maturando fondamentali scelte ideologiche,
filosofiche, politiche.
I numerosi Quaderni di scuola, che documentano il primo insegnamento
desanctisiano, furono in massima parte scritti dagli alunni sotto
dettatura del maestro e finalizzati a raccogliere il "succo" dei
diversi corsi di lezioni, rispetto ai quali si configuravano come
veri e propri libri di testo costruiti in parallelo con l'esperienza
scolastica. Si tratta, perciò, di una testimonianza ampia e
diretta del suo progressivo evolversi (a stretto contatto con la
cultura del proprio tempo) dal purismo e dall'illuminismo moderato
fino all'hegelismo, attraverso l'eclettismo, il neocattolicesimo, la
partecipazione alla temperie vichiana e a quella dello storicismo
romantico. In vista della loro funzione manualistica, i quaderni
sono divisi secondo le "materie d'insegnamento" della scuola (alcune
presenti fin dall'inizio, altre introdotte successivamente, come lo
stesso D. testimonia nella Giovinezza). La grammatica fu
l'insegnamento originario della scuola, ma i quaderni "grammaticali"
più importanti che ci restano appartengono agli ultimi anni e
si configurano perciò come approdo della ricerca
desanctisiana in materia (con l'acquisizione dello storicismo
romantico, del giobertismo, di Hegel).
I più antichi tra i quaderni in nostro possesso sono quelli di Lingua e stile (1840-41), dove, dopo una serie di precetti di radice puristico-illuministica (con forte incidenza della "grande Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo documentato il primo impatto con il pensiero romantico tedesco (in particolare con F. Schlegel) e tracciata la prima sintesi di storia della letteratura italiana ("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già alcune caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in ambito postilluministico, con grande attenzione all'Europa e al presente letterario, ma presenta come modello privilegiato di scrittore "contemporaneo" il Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista neocattolico, che andrà attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia è nei quaderni dedicati alla Lirica (1841-42), in cui l'approdo è rappresentato dal Leopardi; i quaderni sul Genere narrativo (1842-43) hanno le loro fonti in Villemain, Sismondi, Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità notevolissimo si avverte nei corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45 (Estetica applicata), in cui l'esigenza di definire teoricamente i problemi dell'arte trova un sicuro sostegno nelle teorie estetiche di Gioberti, mentre Hegel fa la sua apparizione nel corso di Storia della critica (1845-46), che introduce una più stimolante rivisitazione della lirica.
Nei due anni successivi egli presenta ai suoi allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione francese di Ch. Bénard. Alla luce dei nuovi principî affronta inoltre l'esame della Letteratura drammatica (1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere di Shakespeare. Dell'ultimo anno di scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto di Storia e filosofia della storia, che ha come punti di riferimento costanti Vico, Sismondi, Hegel e che aiuta a chiarire il senso dei "compendi" (autografi) della Storia d'Inghilterra di Hume e della Storia civile del Regno di Napoli di Giannone. Questo blocco di materiali storiografici conferma il livello criticamente e ideologicamente molto avanzato della ricerca desanctisiana alla fine della "prima scuola", attestando una visione laica della storia, un rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte rivendicazione della "concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché una chiara assunzione di metodo hegeliano in direzione progressista.
Negli entourages di Puoti, della Nunziatella, della sua stessa scuola (e delle altre che dopo il 1830 fiorirono a Napoli, inaugurando il clima "filosofico" vichiano-hegeliano), il D. aveva finito per trovarsi al centro dell'intellettualità progressista napoletana, non si sa fino a che punto compromettendosi con le frange estremistiche di essa. Fatto sta che molti giovani della sua scuola si schierarono a combattere sulle barricate del maggio 1848 (dove fu ucciso quello che era certamente il più colto e il più ideologizzato fra tutti: Luigi La Vista) e che dopo quella data il D. fu in qualche modo implicato in una setta segreta rivoluzionaria di ascendenza musoliniana, l'Unità italiana, e in un attentato per il quale, tra gli altri, furono condannati a morte L. Settembrini e C. Poerio ("Si facevano i più matti deliri: porre una mina sotto Palazzo Reale pareva un gioco ... Fu la prima volta e sola che fui in convegni segreti"). "Espulso", perciò, dalla Nunziatella e da "ogni altra scuola anche privata" (come recitano i rapporti della polizia borbonica, che cominciava ad interessarsi di lui), nel 1849 il D. si rifugiò in Calabria presso un noto e attivo "patriota", il barone Francesco Guzolini, in casa del quale fu arrestato il 3 dic. 1850 con l'accusa di essere "uno dei principali agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e da Ledru-Rollin".
Trasferito a Napoli e
rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì due anni e mezzo di
"carcere duro", e fu infine giudicato politicamente molto pericoloso
("attendibilissimo") e perciò bandito dal Regno e imbarcato
per gli Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici napoletani
(in particolare A.C. De Meis e D. Marvasi, a quel tempo già
in esilio) lo aiutarono a sbarcare a Malta, per raggiungere il
Piemonte, inserendosi nell'allora foltissima schiera degli illustri
esuli politici ivi rifugiatisi (tra i meridionali, sono da
ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P. S. Mancini, S. Tommasi, M.
d'Ayala, G. Nicotera, E. Cosenz).
Gli scritti del periodo calabrese e della prigionia rappresentano la
punta massima della "spinta a sinistra" che segnò il pensiero
desanctisiano a partire dal 1848. In Calabria furono elaborati due
saggi (Introduzione all'Epistolario di G. Leopardi e Sulle opere
drammatiche di F. Schiller), in cui l'interpretazione dei testi
esita in senso fortemente politico (sia Leopardi sia Schiller
segnano la fine di un'epoca, quella dell'individualismo, dalla quale
va nascendo un'epoca nuova - dell'"Umanità" - impegnata in
senso sociale). In Calabria fu probabilmente impostato anche un
dramma in prosa, il Torquato Tasso, terminato negli anni di
prigionia (il modello più vicino è quello goethiano;
il linguaggio è leopardiano; evidente è
l'identificazione personale-politica dell'autore con l'intellettuale
perseguitato). Negli stessi anni il D. studiò la lingua
tedesca e se ne servì sia per tradurre il Manuale di una
storia generale della poesia di K. Rosenkranz, sia per leggere in
lingua originale la Logica di Hegel, che ridisegnò in una
serie di Quadri sinottici (praticamente una sintesi completa
dell'intera opera). Ma il testo più interessante elaborato in
Castel dell'Ovo (nel 1850-51) è certamente La prigione: un
carme di 256 endecasillabi sciolti (l'unica prova poetica, se si
esclude qualche poesia d'occasione), che rappresenta il punto
massimo di "giacobinismo" realizzato dal D., con il rifiuto e la
denuncia di ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto al
neocattolicesimo degli anni della "prima scuola"), e con una
proposta politico-ideologica chiaramente ispirata
all'interpretazione "di sinistra" della filosofia di Hegel.
Fortissima è anche la svolta di atteggiamento nei confronti
del Leopardi: all'immagine sentimentalistica e scettica divulgata
nel clima del primo romanticismo napoletano si sostituisce
un'immagine combattiva e materialistica del poeta di Recanati (che
offre, del resto, il modello stilistico e strutturale all'intero
carme. costruito come storia metaforica del pensiero umano, in
rivolta per la libertà, contro la tirannia, l'oscurantismo,
l'ingiustizia sociale).
A Torino il D. rimase dal settembre 1853 al marzo 1856, in un vitale
rapporto d'amicizia con De Meis e Marvasi e con B. Spaventa, ma
molto isolato rispetto al potere politico e culturale. Il suo unico
lavoro fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano nell'istituto
femminile della signora Eliott (dove si verificò un episodio
d'innamoramento - per la giovanissima Teresa De Amicis - che
riempirà d'illusioni e di malinconie gli anni successivi); ma
ebbe anche alunni privati dal nome prestigioso (come Virgina Basco -
futura destinataria del Viaggio elettorale -, Ainardo di Cavour,
Luigi di Larissé). L'esperienza centrale del periodo torinese
si realizzò, tuttavia, attraverso due corsi di "lezioni
pubbliche" su Dante (1854 e 1855): conferenze organizzate dai suoi
amici per soccorrerlo "nella dignitosa povertà dell'esilio" e
che di fatto lo rivelarono alla cultura italiana.
Nel 1855 egli prese a collaborare alle appendici letterarie: sul
Cimento di Torino pubblicò alcuni saggi fondamentali, vero e
proprio punto d'arrivo della sua critica "militante". E allo stesso
anno risale anche il primo episodio di giornalismo politico della
sua vita: la pubblicazione, sul Diritto di Torino, di una serie di
interventi contro il "murattismo" (cioè contro l'ipotesi di
una sostituzione "diplomatica" della dinastia borbonica di Napoli
con la discendenza di Gioacchino Murat), che rappresenta la prima
fase di avvicinamento del D. alla monarchia sabauda (questa viene
proposta come unico possibile strumento di unificazione della
nazione, in un'ottica di "patriottismo costituzionale" cui, in
seguito, egli resterà sempre sostanzialmente fedele).
Nel 1856, sempre per interessamento dei suoi compagni d'esilio, fu
finalmente gratificato di un importante incarico pro- fessionale:
l'insegnamento della letteratura italiana presso l'Istituto
universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al
1860. Gli anni di Zurigo furono anni di nostalgia e di isolamento
(anni di réve, com'egli stesso diceva), ma produssero almeno
due conseguenze molto importanti: l'elaborazione di lezioni che
sarebbero rimaste come una pietra miliare della sua ricerca critica
(soprattutto su Dante, Petrarca e la poesia cavalleresca) e il
contatto con ambienti culturali e politici di vera e propria
avanguardia in Europa (Wagner e Matilde Wesendonck, Moleschott, gli
Herwegh, Burckhardt, Vischer, ecc.) che egli ebbe modo di conoscere
e di valutare criticamente (per esempio, prendendo le distanze
dall'irrazionalismo di Wagner e di Schopenhauer molto prima che le
mode irrazionalistiche toccassero l'Italia, o cercando di capire i
limiti concreti del ribellismo dei mazziniani quando Mazzini era
ancora un mito in Italia).
Dei corsi danteschi di Torino non restano manoscritti, ma ciascuna
lezione fu ricostruita su appunti di allievi (Marvasi, D'Ancona), in
vista di una non mai realizzata pubblicazione in volume. Le
conferenze torinesi (undici di argomento teorico, diciannove
dedicate all'Inferno, cinque al Purgatorio) sviluppano presupposti
romantico-hegeliani, con particolare riguardo ai problemi
dell'"unità" e della "forma" del poema di Dante.
Nell'esaltazione "passionale" dell'Inferno, emergono le grandi
figure alla cui analisi è legata la fama popolare del D.
dantista (Farinata, Francesca, Ugolino) e si afferma il taglio
monografico che sarà proprio dei maggiori saggi
desanctisiani. Semplificando la materia dei corsi, e prolungandola
fino a percorrere tutta la Divina Commedia, il D. insegnò
Dante a Zurigo dal 1856 al 1859 (anche di queste lezioni ci resta la
ricostruzione da appunti). Da tale lavoro deriva tutto ciò
che egli pubblicò successivamente su Dante e sul suo tempo
(ivi compresi i capitoli della Storia, che ne tesaurizzano le
idee-forza), ma i risultati metodologici più avanzati da lui
raggiunti negli anni d'esilio sono testimoniati dai contemporanei
scritti giornalistici (che furono poi pubblicati, a partire dal
1866, tra i Saggicritici). Il Pier delle Vigne (1855) è
addirittura una lezione torinese trascritta, per LaNazione di
Firenze, da A. D'Ancona: la celebre lettura del canto esalta i
"grandi caratteri" e le "grandi passioni" dei personaggi e ne
analizza le sfumature, le "situazioni", i contrasti; il saggio La
Divina Commedia (versione di Lamennais), anch'esso del 1855,
dichiara la fine dell'antico metodo retorico e il rifiuto del metodo
"storico" di oscuola francese"; quello intitolato Carattere di Dante
e sua utopia (1856) individua il "centro" della grandezza poetica di
Dante nella sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera l'esistenza in
tutta la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca zurighese
(molto più problematica di quanto appare nelle lezioni)
è suggerito nel saggio del 1857 Dell'argomento della Divina
Commedia, che afferma da una parte il rifiuto del sistema e
dall'altra la validità degli strumenti d'analisi hegeliani, a
stretto contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza, per
il D. definitivo).
Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo o d'occasione
(destinati a giornali torinesi e anch'essi in massima parte raccolti
poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo
impegno "militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di
metodo critico che sono al centro dell'insegnamento dantesco. Il
più esplicitamente politico di questi saggi è L'ebreo
di Verona (febbraio 1855), che consacrò, a livello nazionale,
la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore del romanzo, il
gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo
manzoniano, ripropone la religione in funzione antiliberale e
antiprogressista: il suo ruolo storico, dopo la sconfitta del '48,
è "aggiungere i suoi colpi codardi alle mannaie del
carnefice"). La militanza critica passa sempre attraverso una
precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della
letteratura. In Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con
molta chiarezza: di fronte al poemetto di G. Prati "la fantasia
rimane inerte: il cuore riman freddo", perché "in questo
lavoro non vi è creazione e quindi non vi è fantasia
... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà
è forse il primo poeta di second'ordine che sia oggi in
Italia"; del resto, i suoi testi poetici hanno tutti i limiti e i
difetti della "declamazione rettorica". E questa non è un
difetto esclusivo degli scrittori moderati: essa è
condannabile anche quando sia posta al servizio delle più
ardite analisi politiche, come nella Beatrice Cenci di F. D.
Guerrazzi (1855), avvolta nel "vecchio repertorio" delle "metafore"
e dei "luoghi comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia
attinto i livelli della "grande poesia" nel mondo moderno, dice in
un importantissimo saggio, e questo è Leopardi. Il saggio
s'intitola Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi ed è,
probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D.,
che, con parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una
straordinaria immagine di poeta laico, interprete della
civiltà contemporanea perché capace di farsi "critico
e filosofo" e di far "scintillare" la poesia dalla "meditazione".
Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del presente
letterario fa temere un ritorno alla identificazione tra poesia e
retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti, 1855). A questa
pericolosa tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i
critici francesi contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin,
Janin e Alfieri, Vanin e la Mirra), ed evidentemente questa polemica
ha un profondo retroterra politico: la rivalutazione della fase
"eroica" del classicismo settecentesco, nella cultura
"rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò questa
rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra
Alfieri e Foscolo e "Storia del secolo decimonono" di G. G.
Gervinus, 1855) e la polemica colpisce anche un critico come A. de
Lamartine ("Cours familier de littérature" par M. de
Lamartine, 1857). Nello stesso ambito il modello di V. Hugo viene
proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e "Le
contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il
recupero di un classico manierato come Racine, perché capace
di creare dei grandi personaggi drammatici (La "Fedra" di Racine,
1856). In questo ambito, infine, si configura una delle prime, ma
già precise professioni di "realismo" del D. critico
(Saint-Marc Girardin, 1856): "Il sentimento astratto non è
poesia, non è cosa vivente ... La poesia dee riprodurre la
realtà "vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un uomo
vivo", perché questo, in quanto tale, "ègià un
perfettissimo personaggio poetico".
La progressiva conquista di un punto di vista "realistico" con cui
guardare al testo letterario è registrata dai ricchi appunti
che ci restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi sul
Poema epico. Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il
termine "realismo" (ancora nuovo nella critica francese più
avanzata da cui lo deriva), mentre ribadisce il rifiuto del
"sistema" hegeliano come strumento di critica letteraria e conferma
la validità degli strumenti d'approccio al testo ricavabili
dall'estetica hegeliana. Il messaggio filosofico più
complessivo, nell'ultima fase del suo esilio e del suo vitale
contatto con le avanguardie europee, fu affidato dal D. al dialogo
Schopenhauer e Leopardi (1858). Anche questo testo ha una struttura
leopardiana (ispirata alla provocatoria ironia delle Operette
morali), ma s'interessa a Leopardi solo nell'ultima parte, dedicando
molto spazio all'illustrazione del pensiero di Schopenhauer,
indicato come il liquidatore di un'epoca (quella "dell'Ottantanove",
"del Trenta", "del Quarantotto") che egli considera "un'illusione, o
piuttosto ... una imbecillità generale". La filosofia di
Schopenhauer è, perciò, "nemica della libertà,
nemica dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli ripropone
"lo Stato monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi",
nega la libertà di stampa e odia Hegel come "corrompiteste"
(la moda di Schopenhauer in Europa è, in sostanza, un grave
sintomo di regresso storico: la sua tardiva riscoperta equivale a
un'abiura di tutto il progressismo europeo). A prima vista, il
rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi a Schopenhauer;
ma, in realtà, c'è tra i due una vera e propria
opposizione, e Leopardi è tanto interno alla fase "eroica"
(progressista e rivoluzionaria) dell'umanità, quanto ad essa
è estraneo e ostile Schopenhauer. La differenza non è
solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo "spiritualismo" di
Schopenhauer) o nelle sue scelte di stile "inamabile" (mentre
Schopenhauer si affida al fascino della retorica), ma anche e
soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce come uomo e
poeta veramente "grande" (egli "non crede al progresso, e te lo fa
desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare ,
è scettico, e ti fa credente").
Dopo le speranze e le delusioni della seconda guerra d'indipendenza,
sulla scia dell'impresa dei Mille, il D. lasciò
improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli,
dove svolse un ruolo, probabilmente importante, nella mediazione che
portò il "partito garibaldino" (e lo stesso Garibaldi) ad
accettare il plebiscito "piemontese". Per nomina di Garibaldi,
appunto in fase di preparazione del plebiscito annessionistico, fu
governatore della provincia di Avellino e si mostrò
attivissimo organizzatore del consenso politico, della guardia
nazionale locale, della lotta al banditismo (che era già
esploso violento in Alta Irpinia, recuperando antiche radici
sanfediste). Subito dopo, fu direttore dell'Istruzione a Napoli e,
in quindici giorni (tra l'ottobre e il novembre del 1860),
tesaurizzando tutte le precedenti esperienze di riforme liberali
degli studi (in particolare quella del 1848), impostò una
vera e propria rifondazione della scuola napoletana.
All'università chiamò ad insegnare illustri
rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a Ranieri, a
Bonghi, a Imbriani, a Villari, a Mancini); in sostituzione del liceo
gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la
formazione dei maestri elementari (sua grande preoccupazione di
progressista ottocentesco) deliberò l'istituzione di scuole
"normali" in tutte le province della luogotenenza (non senza
ragione, il 1860 restò per sempre nei suoi ricordi come il
periodo eroico della sua vita).
Eletto deputato al primo Parlamento nazionale unitario, fu ministro
della Istruzione pubblica con Cavour e con Ricasoli (dal marzo 1861
al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata a
Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della
troppo vasta e ibrida realtà nazionale (in pratica,
rinunciando .all'ambizione di produrre una "legge di riforma" della
scuola italiana, si limitò ad estendere con decreti
all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di
più indicativo del primo periodo di attività come
ministro è proprio la linea di tendenza teorizzata nel
programma iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi
reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in carta.
Sapete, o signori, quando questa libertà cesserà di
essere una menzogna? Quando noi avremo effettivamente uomini liberi;
quando della plebe avremo fatto un popolo libero ... Provvedere
all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo
ambito si pone anche la battaglia per istituire una rete capillare
di "scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché
l'impegno per la qualificazione degli studi scientifici (ma molto
avversate furono anche in questo campo le più importanti
scelte progressiste, come quella che portò il materialista e
"rivoluzionario" J. Moleschott ad insegnare fisiologia
nell'università di Torino).
Dopo questo incarico ministeriale, pur sempre rieletto in Parlamento
(con la sola parentesi di un anno, tra il 1865 e il 1866), il D.
rimase estraneo e in forte opposizione rispetto ai nuovi gruppi di
potere (le "consorterie", che vedeva via via riavvicinarsi ai
"retrivi" e ai "codini"), su una linea mediana di progressismo
monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si pose il giornale
L'Italia (che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al gruppo
emergente della Sinistra costituzionale, che nel 1865 ottenne
proprio nel Sud il suo primo successo elettorale. L'appassionamento
garibaldino ai tempi di Mentana, la firma del manifesto di
opposizione crispina e un importante discorso di denuncia contro il
riemergere del clericalismo (in campo ideologico, politico ed
economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della sua
partecipazione politica.
Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria Testa dei baroni Arenaprimo,
ma il matrimonio agiato (da cui non nacquero figli) non fu
sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui
tutta la sua vita si svolse, né fornì uno stabile
nutrimento al suo complesso bisogno di réve e di
comunicazione sentimentale. All'interno di una sempre meno
inconfessata delusione politica e personale, egli tornò,
quindi, agli studi che gradualmente ridivennero protagonisti della
sua vita: dal 1866 al 1872 pubblicò in volume i Saggi critici
(dove raccolse gli scritti giornalistici dell'esilio), il Saggio
critico sul Petrarca, la Storia dellaletteratura italiana, i Nuovi
saggi critici.
Il Saggio critico sul Petrarca (1869) ripropone un corso di
conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno 1858-59, con "pochi
mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso si articola in
dodici capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al
suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come lettura tematica e
analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso
punto di vista per l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla
base della teoria elaborata dal D. a partire dalla "prima scuola" e
consolidata appunto negli anni dell'esilio (tesaurizzazione
dell'illuminismo, del romanticismo, dell'hegelismo; rifiuto del
metodo "sistematico" e dei suoi esiti panlogistici; rivendicazione
della "poesia" come "forma uscita dal più profondo della vita
reale" e come "sostanza vivente", secondo i grandi modelli di Omero,
Dante, Ariosto, Shakespeare). In quest'ottica, Petrarca va
riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica ne aveva
segnalato, e va rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo
(cioè dalla sua riduzione a modello "rettorico" e
"platonico"). La "poesia" di Petrarca va, quindi, individuata in
particolari "situazioni" liriche (soprattutto nella "malinconia" e
nei momenti di "abbandono" sentimentale), pur tra gli ostacoli
frapposti dall'educazione "rettorica" e da una visione
"spiritualistica" della vita. Particolare interesse è rivolto
alla figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura
è "la creatura più reale ... che il Medioevo poteva
produrre", e la sua "realtà", tutta interiorizzata nella
poesia del Canzoniere, non si spegne, ma si ravviva dopo la morte
del personaggio (proprio in questa "situazione" Petrarca tocca le
sue rare punte di "poesia sublime").
La Storia della letteratura italiana (1870-71) nacque come testo
scolastico ed è, infatti, una sintesi didattico-pedagogica di
materiali in gran parte preelaborati secondo una precisa metodologia
critica (quella appena illustrata a proposito del saggio
petrarchesco) e utilizzati per un progetto complessivo di
informazione-formazione (il progetto dell'"educazione nazionale")
nel quale convergono tutte le attese (ed anche i timori) del D.
"letterato" e "politico" agli inizi degli anni Settanta. Divisa in
venti capitoli, la Storia disegna una linea di svolgimento della
letteratura italiana che va dal XIII al XIX sec. secondo il
"principio direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno dei
suoi ultimi scritti) della "successiva riabilitazione della materia"
(di "un graduale avvicinarsi alla natura e al reale", in parallelo
con i progressi della scienza, della cultura, del costume, della
vita politica, della stessa morale). Ma la finea risulta tutt'altro
che retta e univoca: sia perché l'ipotesi del "graduale"
svolgimento della storia letteraria verso mete progressive è
fortemente contraddetta dalle fasi di stasi, d'involuzione, di
"ritorno"; sia perché continuamente emergono distanze o
divaricazioni tra livello storico e livello letterario (e qui
s'innesta la forte rivendicazione della "forma" come valore
specifico del testo letterario); sia, infine, perché (in base
alla predilezione per il metodo monografico e per l'analisi
testuale) il racconto della Storia alterna lunghe soste con
rapidissimi voli, grandi indugi analitici con improvvise e
fortissime elisioni. La Storia procede, perciò, per grandi
nodi tematici e testuali, muovendosi in un sistema "a spirale" di
allusioni e richiami tra fenomeni, autori, epoche, con un disinibito
oscillare del linguaggio dal familiare e dal basso all'oratorio e al
patetico, non senza momenti di carattere mimetico a ciascun livello
di scrittura (sono queste, del resto, le caratteristiche peculiari
del suo composito stile). Seguendo il cammino della Storia a partire
dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come "scuola
poetica ... feudale e cortigiana", legata alla potenza della corte
sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a maturità",
radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di
radicamento si analizza nel ben più complesso capitolo
intitolato I Toscani, ma centrato soprattutto sulla cultura
bolognese (e sulla "scienza" che si sviluppò in senso
antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto
d'arrivo di questa storia del "mondo lirico" medievale è
Dante. Il breve capitolo dedicato a La lirica di Dante la definisce
come "la voce dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta
(vichianamente) l'epoca della "fantasia", ed è "la prima
fantasia del mondo moderno". Coi capitoli IV e V il discorso ritorna
alle origini, per esaminare La Prosa e I Misteri e le Visioni del
sec. XIII, che esprimono "l'idea religiosa penetrata ne' costumi e
nelle istituzioni", ma che restano a livello di fase letteraria
preparatoria dell'"aureo" Trecento. A questo secolo è
dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai Fioretti, al Cavalca
e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla
"maravigliosa cronaca" di D. Compagni), che però anch'esso
converge, romanticamente, verso la grande figura protagonistica di
Dante. La trecentesca "commedia dell'anima" esprime, infatti,
l'ordito culturale da cui nascerà La "Commedia" (cap. VII),
con la sua "base ascetica" e la sua radicata abitudine alla
"allegoria". Ma tutto ciò rappresenta (secondo l'ottica
tipica del D. dantista) la "falsa poetica" attraverso e nonostante
la quale Dante crea un'opera somma di poesia (una vasta analisi del
poema tende proprio a mostrare come, per virtù di passione e
di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri, quel
mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si
chiama oggi letteratura moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca
(Il "Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca non
è solo un "artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma
è il rappresentante di una nuova generazione culturale che,
dopo Dante, "volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava
popolo romano e latino". In questa scelta, secondo il D., c'è
una profonda ambivalenza (da una parte c'è il "rinnovamento"
inteso come nascita della coscienza laica; dall'altra la
letterarietà come "erudizione", "imitazione", abito
retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli, la storia
della letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale
il Decamerone (cap. IX) appare come "l'apoteosi dell'ingegno e della
dottrina" in dimensione laica, ma anche come espressione di un
"niondo borghese" che, liberatosi dai vincoli dello spiritualismo,
non riesce ad innalzarsi, al di là del "comico", fino alle
"alte regioni dello spirito". Il Cinquecento (cap. XII) è il
secolo che vede l'arte assoldata al mecenatismo, pur quando
potrebbero porsi le condizioni storiche per un avvicinamento tra
cultura e "popolo" (ad esempio, nella Firenze medicea) e pur quando
sono già stati raggiunti grandi vertici di raffinatezza
letteraria (ad es., nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine il
Seicento, simboleggiato dal Marino (cap. XVIII), produce in
letteratura "idilli" ed "elegie", "voluttà" e "musica",
mentre l'intellettuale italiano si fa "estraneo al movimento della
cultura europea e a tutte le lotte del pensiero", stagnando "in un
classicismo e in un cattolicesimo di seconda mano". Nell'arco fra
'300 e '600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli episodi
letterari che il D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti
minori, dedica interi capitoli: a F. Sacchetti il cap. X
(L'ultimoTrecento), a La Maccaronea ilcap. XV, a Pietro Aretino il
cap. XVI. L'opera dell'Ariosto (L'Orlando furioso, cap. XIII)
è esaminata secondo i parametri zurighesi: inserita nella
serialità storica, essa si propone come "sintesi dell'intero
Rinascimento", mentre l'"ironia" e il "riso scettico" di Ariosto si
manifestano espressione di un "secolo adulto" (cioè divenuto
capace di critica e ormai maturo per la libertà "borghese",
pur nell'accettazione di fatto della realtà "cortigiana"). T.
Tasso (cap. XVII), autore-simbolo dell'ambivalenza ideologica e
sentimentale, offre l'occasione per un discorso altrettanto
ambivalente sulla Contro-riforma e sul suo significato
storico-culturale. Il poema del Tasso è lo specchio della
"ipocrita" cultura controriformistica italiana e i suoi valori
letterari vanno individuati in senso opposto rispetto a quello
programmatico e ufficiale: non nella "falsa" religiosità, ma
nell'"idillio", nell'"elegia", nella "voluttà" (Tasso
è, perciò, accostato al Petrarca, nella tradizione di
storiografia politica risalente a Sismondi e Ginguené). Ma
proprio al centro dell'arco storico fra '300 e '600 c'è una
punta alta, un grande ritratto in positivo: quello di Machiavelli
(cap. XV), che riesce a costruire una valida ipotesi di
"rinnovamento", sia opponendo alla teocrazia "l'autonomia e
l'indipendenza dello Stato" ("un presentimento dei nostri
ordinamenti costituzionali"), sia rinnovando il "metodo" della
conoscenza, col rifiuto della "teologia" e del principio di
"autorità" (per lui "la verità è la cosa
effettuale, e perciò il modo di cercarla è
l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente
dei fatti"). Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da
tutte le riserve moralistiche precedentemente espresse su di lui)
è un caso-limite d'interpretazione "tendenziosa" di un
autore: se è scelto a simboleggiare, all'inizio del '500, la
politica e la scienza moderna, è perché il D.-maestro
che scrive la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui
esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa riferimento) vuol
proporre ai giovani un preciso progetto di produzione letteraria che
leghi indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e
che indichi anche lo strumento di una lingua letteraria "precisa e
concisa", antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene
attribuita con qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque
(anche se a distanza di 4 capitoli), si apre la parte "moderna" e
propositiva della Storia, che consiste nei due ultimi lunghissimi
capitoli, intitolati La nuova scienza (cap. XIX) e La nuova
letteratura (cap. XX). Il rapporto tra essi è derivativo: la
"nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla "scienza",
che ha come obiettivo "il progresso e il miglioramento dell'uomo", e
che ha come principale strumento la libertà intellettuale e
politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno" (i primi
intellettuali capaci di "lottare, poetare, vivere, morire" per la
"fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella, Galilei; e
poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle
spalle il pensiero laico europeo, da Bacone alla Rivoluzione
francese. Come s'innesta in questo clima la "nuova letteratura"?
Dopo l'affascinante ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto
si realizza con la scelta illuministica di utilizzare "cose e non
parole". Il primo autore "vero" della "nuova letteratura" è
Goldoni (ma con dei limiti di superficialità). Il primo "uomo
nuovo" è Parini, e poi vengono Alfieri e Foscolo (col Monti
personaggio negativo), ma con dei limiti negli eccessi e nelle
scelte di stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua tensione
d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora offerto, in Italia,
modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro
letterario è, perciò, incerto ma la direzione da
seguire è chiara: "convertire il mondo moderno in mondo
nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo, "esplorare il
proprio petto" secondo il motto testamentario di G. Leopardi, questa
è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna".
Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei Nuovi
saggi critici (1872) il D. inserì alcuni scritti (in gran
parte composti per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano
la stesura della Storia e che nei confronti di essa risultano in
diverso modo illuminanti. Il più antico è Una "Storia
della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che,
recensendo l'opera appena pubblicata, la denuncia come fondata su
"pregiudizi" e "superficiale dottrina" e su valori che nulla hanno a
che fare col letterario (perciò l'inevitabile
sottovalutazione di autori come Machiavelli, Ariosto, Leopardi,
Alfieri, Giusti, Berchet, cui si contrapporrà, appunto, la
Storia desanctisiana). Fondamentale, per chi indaghi sulla genesi
della Storia, è il saggio Settembrini e i suoi critici
(1869), in cui il D. condanna il grave limite del contenutismo
radicale settembriniano, così come aveva condannato il
contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed afferma che una
vera storia della letteratura dovrebbe essere un lavoro
interdisciplinare (con contributi di "filosofia, critica, arte,
storia, filologia") al quale la cultura italiana non èancora
attrezzata (risalendo queste considerazioni al periodo iniziale di
stesura della Storia, esse dimostrano la problematicità del
D. nei confronti della sua opera maggiore, e la profonda
consapevolezza della "parzialità" di essa). Più
collegati alla componente ideologica "positiva" della Storia
risultano L'"Armando" di G. Prati e L'ultimo dei puristi del 1868.
Nel primo si denuncia la fine dei "tempi sentimentali" e si afferma,
per il presente, la necessità di un impegno tutto reale e
concreto ("il materialismo èuscito trionfante dal seno stesso
del mondo hegeliano" e impone la "serietà della vita
terrestre"); nel secondo, la stroncatura di un purista attardato (F.
Ranalli) dà luogo a una attenta e intelligente rievocazione
del Puoti e della sua scuola, che fu "bandiera" di "libertà,
scienza, progresso, emancipazione" nei primi decenni del secolo, ma
che (a parte il valore sempre vivo del "metodo" puotiano)
esaurì il suo ruolo storico alla vigilia della fase
rivoluzionaria del '48 (al presente, ogni nostalgia puristica
risulta storicamente e politicamente ingiustificata). Anche i grandi
saggi danteschi del 1869 (Francesca da Rimini, Il Farinata di Dante,
L'Ugolino di Dante) nacquero in margine alla Storia, sia come
ripresa del tema-Dante (e, in particolare, delle riflessioni
zurighesi), sia come esempio di quel lavoro di "monografia" che il
D., all'epoca, considerava storicamente e scientificamente
più valido delle "sintesi". I personaggi danteschi prediletti
dalla cultura romantica ed hegeliana sono letti rispettivamente in
chiave di "amore" e "pietà femminile" (Francesca), orgoglio
politico (Farinata), complessità e profondità di
sentimenti antinomici (Ugolino), nell'ambito di un'attenta, colta,
sensibile lettura testuale (era in questo, appunto, che il D. voleva
proporsi come modello di critica "attuale", "paziente" e
costruttiva, ed è appunto questo l'aspetto dei Saggi che va
ancor oggi rivendicato). Il saggio L'uomo del Guicciardini (1869)
ripropone l'antitesi (presente anche nella Storia) fra Machiavelli,
precursore del nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui
"particulare" rifiuta ogni "vincolo religioso, morale, politico" (ma
la vera funzione del saggio si esplicita nell'ultima frase, di amara
denuncia della situazione politica presente: "L'uomo del
Guicciardini vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni
passo").
Nel 1871 venne affidata al D. la cattedra di letteratura comparata
nell'università di Napoli, dove egli tenne quattro corsi
annuali, dal 1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come
"seconda scuola napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni,
rispettivamente su Manzoni, Scuola cattolico-liberale, Scuola
democratica, Leopardi). Contemporaneamente pubblicò una
seconda raccolta di saggi (Nuovi saggi critici, Napoli 1872) e
inaugurò quella serie di conferenze e articoli sugli
orientamenti della letteratura contemporanea in chiave realistica
che sarebbe continuata, per dieci anni, fino alla vigilia della
morte. Tra il 1874 e il 1875 realizzò un nuovo momento
d'impegno politico attivo, in occasione delle elezioni che
prepararono l'avvento al potere della Sinistra costituzionale (in
particolare, nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa
campagna elettorale, la propria candidatura - difficile e piuttosto
equivoca - nella provincia d'origine, e ne rivisse il ricordo in una
serie di cronache giornalistiche pubblicate prima sulla Gazzetta di
Torino e subito dopo in volume, col titolo Un viaggio elettorale,
1876).
Al 1877 data il terzo e ultimo episodio importante di giornalismo
politico desanctisiano: ancora un impegno battagliero, ma interno
alla Sinistra (contro la gestione trasformistica e antidemocratica
del potere da parte di Depretis e Nicotera), condotto soprattutto
sulle colonne del Diritto di Roma. Nel 1878 Cairoli riaffidò
al D. il ministero della Pubblica Istruzione che egli tenne fino al
1880, riproponendo, dopo 17 anni, i problemi della "scuola di tutti"
(la "scuola per l'infanzia", la "scuola primaria", la formazione dei
maestri) e quelli dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di cultura
"scientifica" da sostituire alla "cultura retorica"; ma ancora una
volta fu sconfitto nei punti più qualificanti del suo
programma (la traccia più concreta che ne rimase fu
l'inserimento dell'educazione fisica tra le materie d'insegnamento:
un omaggio alla rivalutazione positivistica dell'uomo fisico). Nel
1880, colpito da una grave malattia agli occhi, lasciò
l'incarico ministeriale e dedicò i suoi ultimi anni di vita a
un lavoro di riflessione autobiografica (le Memorie che andò
dettando alla nipote Agnese) e critica (soprattutto ripresa e
riorganizzazione della riflessione petrarchesca e leopardiana).
Morì a Napoli il 29 dic. 1883, lasciando incompiuti i suoi
ultimi lavori, cui, pur tra le sofferenze della malattia, si
dedicò sino alla fine.
Come tutti i principali episodi dell'insegnamento desanctisiano,
anche le lezioni della "seconda scuola napoletana" sono documentate
da riassunti (redatti in genere da F. Torraca), rivisti e
ufficialmente accettati dall'autore. Il primo corso (gennaio-marzo
1872) fu dedicato a Manzoni e rappresenta il punto d'arrivo di una
riflessione iniziata all'epoca della "prima scuola", sviluppata a
Zurigo e rimasta sempre centrale nella ricerca del D., pur senza
trovare una sistemazione editoriale. In queste lezioni le posizioni
ideologiche e gli strumenti di ricerca sono molto cambiati rispetto
agli anni della "prima scuola", ma non cambia il giudizio di valore.
La grandezza del Manzoni è identificata ora nella sua
capacità di "calare l'ideale nel reale": da lui escono tre
"grandi idee critiche che hanno importanza universale": la "misura
dell'ideale", il "vero" positivo e storico, la "forma" diretta e
"popolare". Manzoni rappresenta la massima realizzazione della
letteratura "moderna" in Italia e le "scuole letterarie" non segnano
alcun progresso né sul piano dell'arte né su quello
dell'ideologia. Negli anni successivi. il D. analizzò,
appunto, lo svolgimento della letteratura in Italia a partire dal
Manzoni, dividendola (secondo una traccia già seguita da
Emiliani Giudici, da Settembrini e da altri) nei due filoni
cattolico e laico, definiti rispettivamente "scuola liberale" e
"scuola democratica". Alla Scuola liberale fu dedicato il secondo
anno di lezioni universitarie (1872-73), con risultati di giudizio
fortemente militanti: l'impegno dei cattolici per l'"educazione
popolare" non offre risultati validi in arte e svolge un ruolo
(più o meno esplicito) d'insegnamento reazionario ("nuovi
Arcadi" sono Grossi, Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e
Rosmini ripropongono una dimensione "metafisica" della storia e
della politica; D'Azeglio resta attardato su una vecchia e superata
immagine di letteratura retorica). Un interessante excursus
riguarda, però, la letteratura meridionale dell'Ottocento:
poeti poco noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P. Parzanese, N. Sole)
vengono esaminati con interesse e simpatia. Il corso del 1873-74 fu
dedicato alla Scuola democratica, e anche in quest'ambito il
giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti, Berchet,
Niccolini non possono fornire il modello della "nuova letteratura".
Si conferma così l'esito perplesso e sostanzialmente
pessimistico che caratterizza le ultime pagine della Storia e
l'affermazione del principio del "realismo".
I saggi più importanti elaborati dal D. nell'ultimo decennio
di vita riguardano, appunto, le tematiche del realismo (alcuni di
essi furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici, del 1879).
Dopo la prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono
da ricordare: Ilprincipio del realismo (1876), Studio sopra Emilio
Zola (1878), Zola e l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte
(1883). L'assunto complessivo è che il "realismo" auspicato
dal D. non si può confondere né col materialismo,
né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il
quale, però, è molto valido come scrittore: lo studio
a lui dedicato è particolarmente vasto e attento). La
letteratura del "reale" dev'essere (cfr. Manzoni) "l'ideale calato
nel reale", e cioè una costruzione "eticac forza morale
impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo,
la reazione, l'autoritarismo sempre in agguato.
Nell'ultima fase della sua vita il D. non si limitò a
teorizzare l'importanza e la "modernità" del realismo in
letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici
all'interno del problema per farne emergere i pericoli (o quelli che
a lui sembravano tali sul piano morale e politico), ma volle fornire
delle prove concrete di narrativa realistica, utilizzando un
registro di linguaggio "familiare", che già aveva usato nelle
sue lettere alla moglie (con estrema semplificazione sintattica e
con frequenti coloriture dialettali) e che, del resto, non era
ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica.
L'operetta narrativa che elaborò in funzione di esempio e
modello fu Un viaggio elettorale (1876): una serie di cronache del
tragicomico attraversamento della provincia natia da lui compiuto a
sostegno di una candidatura politica poco chiara e poco fortunata.
Nella cronaca, il bozzettismo locale si alterna col patetico dei
ricordi d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del
testo va ricercato più nella sua funzione che nei suoi esiti,
né si può dimenticare che nella storia del realismo
italiano esso si colloca quasi in contemporanea con Nedda (1874),
quattro anni prima di Giacinta (1879), sei anni prima dei Malavoglia
(1881).
Alla vigilia della morte (sempre su materiali autobiografici e
sempre in ambito di racconto dal vero in linguaggio familiare), il
D. perseguì un progetto molto più ambizioso: la
stesura di un'autobiografia, della quale, però, non
riuscì a portare a termine che la prima parte (egli l'aveva
intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il frammento
realizzato col titolo La giovinezza). Così come ci resta, il
frammento narra l'esperienza del D. dalla nascita fino al 1843, e
consta di due nuclei narrativi essenziali. Il primo è legato
ai personaggi bozzettistici della famiglia paesana e degli ambienti
napoletani alti e bassi (preti, professori, avvocati, ragazze da
marito, giovani avventurieri, vecchie serventi) e, al centro di
essi, l'autore pone il personaggio "comico" di se stesso, pieno di
tic, di timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo nucleo è
legato, invece, alla formazione culturale e all'esperienza della
"prima scuola". Qui il tessuto è molto serio e impegnativo:
il D. (utilizzando ricordi, ma soprattutto vecchi "quaderni di
scuola") vuole offrire un importante contributo alla critica di se
stesso, mostrando come siano andate formandosi le linee di forza del
suo metodo. In ciò la Giovinezza non è del tutto
veritiera (molti sono gli imprestiti ideologici e teorici che il
vecchio D. fa al se stesso giovane maestro di Vico Bisi), ma resta,
comunque, il fascino di un clima in cui rivivono Puoti e Leopardi,
la scoperta del romanticismo, di Vico e di Hegel, l'autoritarismo
borbonico e le utopie libertarie del primo '800 napoletano.
Nell'ultimo anno d'insegnamento all'università di Napoli
(1875-76), argomento delle lezioni era stato Leopardi: dagli appunti
delle lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di vita, uno
Studio su G. Leopardi, che segue il poeta nelle diverse tappe della
vita, dell'opera, del pensiero, secondo lo schema della "biografia
critica" di taglio positivistico. La biografia rimane, però,
incompiuta, chiudendosi al livello dei "nuovi idilli" (come il D.
definisce i grandi canti del 1827-29), e proprio in questo tentativo
di riduzione di Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è
stato foriero di gravi equivoci e fraintendimenti nella successiva
critica leopardiana, mentre nell'ultimo D. si giustifica come
tentativo di leggere Leopardi in quella stessa chiave di "realismo"
che si era rivelata funzionale per il Manzoni e il suo romanzo.
Celebri, proprio in quest'ambito, le riflessioni sulle figure
femminili dell'"idillio" leopardiano ("Silvia non è questa o
quella donna; è il primo apparire della giovinezza in un
cuore femminile", ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge
molto né alla conoscenza del Leopardi né alla critica
del De Sanctis. In sostanza, il meglio su Leopardi era stato detto
nel saggio del 1855 (ma non vanno dimenticate certe importanti
considerazioni della "prima scuola", né il ruolo
interessantissimo, problematico e antidogmatico, che Leopardi ha
nelle ultime pagine della Storia). Altri saggi leopardiani
appartengono alla fase e al clima di ricerca della Storia (La prima
canzone di G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La Nerina,
1877). In quest'ultimo, ancora un esame (forse uno dei più
importanti) della donna nella poesia leopardiana: "La vita è
tutta e solo in terra... La morte è l'altro motivo tragico di
questa concezione ... Il motivo della Silvia è lo sparire. Il
motivo della Nerina è il riapparire".
Lasciando da parte la fortuna del D.-maestro (un vero e proprio
appassionamento suscitato nei giovani allievi di Napoli, Torino e
Zurigo), per ricostruire la storia del dibattito sul D. bisogna
muovere da un dato obiettivo di iniziale "sfortuna" critica: lo
scarto fra i tempi della genesi dei testi maggiori (a partire dagli
anni '40) e quelli della loro pubblicazione (intorno al '70). A
causa di questo scarto, egli apparve subito come un idealista
"attardato" (e perciò più meritevole di giudizi
sommari che di attenzione testuale), nel clima di positivismo
dominante in cui i suoi scritti si offrivano ad un'interpretazione
globale (per es. F. D'Ovidio era convinto che il D. ignorasse "la
pazienza della ricerca e dello studio", e G. Carducci gli attribuiva
"difetto" di "cognizione dei fatti e dei documenti"). A sintomatico
che, in un dibattito così fortemente pregiudiziale, venisse
del tutto ignorato non solo il tipo di formazione del D., ma anche
l'ultimo decennio della sua produzione, con la dichiarata opzione
"realistica" e con la forte propensione per lo scientismo. Ma
proprio a causa della pregiudizialità del dibattito di fine
secolo (rilevata, fin d'allora, da qualche attento osservatore
straniero, come A. Gaspary), il D. poté divenire, attraverso
l'elaborazione crociana, lo strumento chiave per il rilancio di un
metodo critico antipositivistico e per la progressiva riaffermazione
culturale e ideologica dell'idealismo nei primi decenni del '900. Al
Croce spetta, certo, il merito di aver "costretto" la cultura
italiana a riconoscere nel D. un protagonista dell'800 (la sua
appassionata cura di editore e di studioso del D. durò per
oltre mezzo secolo); ma, contemporaneamente, Croce prese a
"rielaborare" il "pensiero" del D., fino a propome la riduzione a
teoria del "puro" gusto estetico (G. A. Borgese, che nel 1905
presentò il D. come punto di arrivo di "tutte le esperienze
della critica romantica in Italia", fu, in realtà, uno dei
primi e più autorevoli interpreti di questa tendenza
riduttiva; scarsa fortuna ebbe, d'altra parte, una proposta di G.
Gentile per un "ritorno al De Sanctis" di segno fascista).
Proprio dall'interno della scuola crociana (dai cosiddetti "crociani
di sinistra") fu prospettata, tuttavia, l'esigenza di un dibattito
diversamente impostato, volto al recupero della complessità
della figura del D.: mentre L. Russo rivendicava "il significato
pedagogico ed etico" dell'opera (1928) e la sua "intelligenza
dell'arte" come notalità" (1931), C. Muscetta sottolineava
l'importanza della sua "poetica realistica" (1931), la sua
"serietà" culturale (1934), la sua visione della letteratura
come "vita morale" (1940). Importanti, in questa fase, furono anche
gli studi di W. Binni sull'"amore del concreto" che nutrì
tutta la ricerca desanetisiana e che problematizzò i suoi
rapporti con l'hegelismo (1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui
la letteratura era studiata nel suo autonomo valore e insieme nel
suo necessario legame con tutta la vita e la cultura" (1942).
Infine, presentando una importante antologia di scritti
desanctisiani, nel 1949, G. Contini dichiarò, a nome di
un'intera generazione di studiosi, l'uscita dall'"equivoco
formalistico" della "riduzione crociana" del D. e la
necessità di tentare finalmente una comprensione filologica
dei testi desanctisiani, con tutta la loro problematicità
anche irrisolta.
Ma lo spostamento ideologico dell'intero dibattito critico mosse
dalla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci (Letteratura e vita
nazionale, Torino 1950) e dalla sua celebre affermazione che "il
tipo di critica letteraria proprio della filosofia della prassi
è offerto dal De Sanctis". Da qui appunto si partì per
un'ampia verifica dell'"impegno" del D., del carattere "militante"
della sua critica, dei "saldi convincimenti morali e politici" che,
secondo Granisci, la sostanziavano: era una verifica, evidentemente,
molto correlata al bisogno della cultura d'incidere sul presente
storico, dopo e contro il "disimpegno" teorizzato, nel ventennio
fascista, da crociani e non crociani. Questo momento di dibattito
produsse, fra l'altro, le iniziative editoriali, cui si deve, oggi,
la possibilità di leggere il D. su testi di alto livello
scientifico: le due collane avviate nel 1952 da Einaudi e Laterza (e
dirette rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la
pubblicazione delle "opere complete". E non a caso, negli stessi
anni, apparivano fuori d'Italia (dove la letteratura desanctisiana
è scarsissima) due importanti interventi critici: quello di
R. Wellek (che nella sua grande Storia della critica moderna del
1957 presentò il D. come autore della "più bella
storia che sia stata mai scritta di una letteratura") e quello di P.
Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in Francia una
documentata e intelligente biografia culturale). Né a caso,
negli anni '50-'60, furono condotte indagini nuove e approfondite
sui legami tra il D. e la cultura dell'800 (M. Mirri, S. Landucci,
G. Oldrini).
Alla fine degli anni '70, in un clima culturale ancora una volta
mutato, e ormai insofferente dell'insistenza sull'"impegno politico
del letterato", si affermò l'esigenza di uscire dall'ottica
di un D. modello per il presente, e di sottolineare (accanto ai
"valori" ormai definitivamente affermati) la distanza storica e le
diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli
interpreti di questa esigenza ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei
partecipanti al convegno napoletano del 1977 su "De Sanctis e il
realismo". Con maggiore cautela, le più recenti occasioni
offerte dal centenario desanctisiano (F. D. nella storia della
cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo dopo, a
cura di A. Marinari, ibid. 1985) si sono mosse su una linea di
attenzione ai testi, di chiarificazione e approfondimento della
vasta (ancora aperta e interessante) problematica desanctisiana, di
tricollocazione" storico-culturale nel mutevole orizzonte di cultura
europea in cui tutta la sua ricerca si mosse.