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EDMONDO DE AMICIS
Speranze e Glorie
Le tre Capitali
Torino - Firenze - Roma
NOTA
A QUESTA NUOVA EDIZIONE
(1.ª edizione Treves - 1911).
Edmondo De Amicis fu eccellente oratore. Quale concetto avesse della
pubblica eloquenza, come sentisse quella «enorme fatica di
tutte le potenze vitali», spiegò egli medesimo nelle
Confessioni d'un conferenziere, che servono d'introduzione al libro
intitolato Capo d'anno, pagine parlate. Quale fascino di persuasione
e d'entusiasmo egli esercitasse sugli uditori, attestano tutti
quelli che ebbero occasione di ascoltarlo. Dal ricco e vario vibrar
della voce, dal gesto semplice, dal balenare dell'anima nella chiara
onesta faccia, da tutta l'espressione della sua figura emanava la
medesima virtù di simpatia, per cui ebbero e serbano tanta
nobile popolarità i suoi libri. La tempra del suo ingegno e
il suo gran cuore erano fatti apposta per assicurargli quella
immediata corrispondenza spirituale con la moltitudine degli
uditori, senza la quale ogni più dotta eloquenza è
invano.
E fu oratore di attitudini così diverse che parrebbero
opposte: seppe con mirabile giustezza di modi parlare via via alle
persone colte e alla plebe, alle donne, agli studenti, ai fanciulli;
fu conferenziere elegante e arringatore ardente di patria e di
partito; sopra tutto riuscì spontaneamente maestro
dell'eloquenza men tentata dai letterati e più difficile,
quella che si rivolge alle menti inesperte, al popolo privo di
cultura e agitato dalle passioni politiche, ai ragazzi che
cominciano appena nelle scuole a sentire la forza della parola che
illumina e commuove. Chi gli fu più vicino ricorda poi
com'egli avesse felice la vena del breve detto d'occasione e del
brindisi, sì nelle pubbliche cerimonie, sì nei conviti
amichevoli, che gli piacevano tanto al suo tempo migliore, e nei
quali studiò da par suo le significazioni e le bizzarrie
dell'Eloquenza convivale.
Un senso nativo della misura e dell'opportunità governava
sempre la sua parola; e il culto interiore della parola stessa, il
vigile intuito dell'artista faceva sì che, qualunque cosa, in
qualunque circostanza dicesse, non gli venisse, mai meno quel decoro
letterario, che non lascia perdere dignità ad alcuna delle
sue scritture, anche alle più umili e famigliari. D'ordinario
non improvvisava; diceva prosa scritta, ma scritta per essere
parlata, e però colorita e mossa secondo l'intento oratorio
che si proponeva. E del resto parlata, per suo istinto e per suo
istituto, era tutta la prosa del De Amicis; parlata fu virtualmente
tutta quanta la sua opera letteraria, la quale tanto può sui
lettori perchè a tutti fa l'effetto di una conversazione
immediata dello scrittore con loro.
Egli non diede alle stampe tutte le sue conferenze, non tutti i suoi
discorsi lasciò raccogliere. Pubblicò prima nel 1880,
insieme con quelle di dieci altri amici, la conferenza sul Vino, ora
entrata nelle nuove edizioni delle Pagine allegre; e l'anno dopo,
nella Gazzetta letteraria di Torino, quella su L'espressione del
viso, che aveva fatto al teatro Carignano per sovvenire ai figli del
morto amico Roberto Sacchetti. Delle tre conferenze che disse al
teatro Colón di Buenos Aires e poi al teatro Solis di
Montevideo, fra l'aprile e il giugno del 1884, su Vittorio Emanuele,
Cavour e Garibaldi, quest'ultima sola rifece e stampò in
Italia, quale si legge nel presente volume. Più volte fu
ristampata l'altra conferenza su I nostri contadini in America,
tenuta il 31 gennaio 1887 alla Società filarmonico-drammatica
di Trieste, e compresa ora nel volume di Capo d'anno: la quale diede
agli uditori e all'oratore argomento di commozione indicibile,
ricordata da lui nell'ultima pagina delle Confessioni d'un
conferenziere, scritte appunto l'anno seguente.
Rimangono in volumetti separati la conferenza su La lettera anonima
e i famosi discorsi Ai ragazzi, stimati un capolavoro di letteratura
infantile, che segue ed integra l'universale libro del Cuore. Poco
si conserva, e quel poco monco e disperso, dei discorsi fatti dal De
Amicis in private adunanze e in comizi del partito socialista,
massime in occasione di elezioni politiche: salvo i due grandi
discorsi Per il 1.º maggio e Per la questione sociale, compresi
in questo volume, e alcune minori cose contenute nell'altro libro
che s'intitola Lotte civili.
L'ultima volta che il De Amicis parlò in pubblico fu il 20
marzo 1898, per pronunziare la commemorazione, pur essa qui
stampata, di Felice Cavallotti, al teatro Nazionale di Torino;
teatro popolare, riboccante quel giorno, ricordo bene, del popolo
più misto che si potesse vedere, e che l'oratore
sollevò tutto nel consenso e nell'ammirazione
irresistibilmente.
Egli fu eletto deputato del 1.º collegio di Torino il 17 luglio
di quell'anno. S'era lasciato presentare candidato per obbedire al
bisogno di una protesta politica del suo partito allora insorto e
perseguitato. Ma rinunziò all'ufficio, e il Parlamento non
udì mai la sua parola. Due giorni prima dell'elezione gli era
morta la madre amatissima. E pochi mesi dopo gli morì il
figlio primogenito Furio: dolore atroce che non trovò mai
più conforto.
«Folgorato nel capo», lo scrittore si ritrasse
nell'ombra e nel silenzio della sua casa desolata; abbandonò
per sempre la vita pubblica, non accettò più di fare
conferenze e discorsi; e da allora in poi fu tutto nel quotidiano
solitario lavoro, col quale però il suo spirito chiuso ai
richiami esterni comunicava così largamente con gli
innumerevoli lettori fedeli.
In questo libro, Speranze e Glorie, edito prima dal Giannotta di
Catania, il De Amicis riunì i suoi più importanti
discorsi d'argomento commemorativo e sociale. Un altro simile
volume, Lotte civili, raccoglie i suoi scritti polemici per il
socialismo e per la pace dei popoli. Con questi due libri si
determina l'azione politica dello scrittore; la quale, a riscontro
della sua opera letteraria, non deve rimanere dimenticata,
perchè è troppo gran parte di quella generosa vita
intellettuale, a cui non mancò mai la rispettosa e affettuosa
attenzione degli italiani.
Torino, aprile 1911.
DINO MANTOVANI.
Speranze e Glorie.
I.
Per una distribuzione di premi.
alle alunne.
Vi parlo, non perchè io pensi che non sarebbe compiuta senza
le mie parole questa cara festa dedicata a voi; ma per prolungare a
me di qualche momento il piacere vivissimo di vedervi.
Quanto vi potrei dire di più opportuno e di più degno
ve lo dicono ogni giorno le vostre brave insegnanti, e con assai
maggiore autorità che non possa esser la mia; perchè
esse vi esortano al lavoro e ve ne dànno le prime l'esempio;
vi raccomandano la bontà e vi dimostrano con gli atti che
cosa sia l'esser buone; vi dicono: - Studiate, educatevi per la
famiglia e per la patria - e alla patria, alle famiglie rendono con
l'opera loro un servigio che soverchia ogni ricompensa e ogni
gratitudine.
A me non resta che rallegrarmi con voi per il premio che avete
meritato e che abbiamo avuto la gioia di porgervi.
Ma il dire che v'abbiamo dato un premio non è l'espressione
propria della verità. Il vostro premio non è nel
modesto ricordo che, per nostra mano, vi ha offerto la vostra
città natale, per dimostrarvi che ha a cuore i vostri studi e
che v'è grata della gloria che dànno alle sue scuole,
dell'onore che fanno al suo nome gli sforzi vittoriosi della vostra
volontà e del vostro ingegno.
Il vostro premio è nella serenità della vostra
coscienza, nella stima delle vostre compagne, nella compiacenza
delle vostre maestre, nel bacio dei vostri parenti; è nel
raddoppiato vigore di volontà che questo trionfo delle vostre
fatiche v'infonde; è nella dolce memoria, che
v'accompagnerà per tutta la vita, d'aver ricompensato
degnamente tutti coloro che vi hanno amate e educate, che hanno
lavorato e palpitato per voi.
Sì, il vostro miglior premio l'avrete, nell'avvenire, quando
questo tempo vi parrà tanto lontano da confondersi quasi
nella vostra mente con quello della primissima infanzia. Anche
allora, fra molti e molti anni, ricordandovi della vostra
fanciullezza, voi rivedrete sovente col pensiero questa sala
affollata, i visi delle vostre compagne e delle vostre maestre, e la
vostra piccola immagine sorridente, col premio stretto sul cuore,
illuminata dalla stessa luce che in questo momento v'illumina, e
ogni minima cosa come in questo punto la vedrete, come se riviveste
in questo giorno. E direte tra voi: - Che bel giorno! La mia maestra
era contenta, mia madre era commossa, mio padre m'aspettava a casa
col cuore pieno di gioia e d'alterezza, ed io.... quant'ero felice!
- E rimarrete maravigliate di risentirne ancora tanta dolcezza. E se
in quell'ora avrete il cuore amareggiato da un'offesa, vi sentirete
più disposte a perdonarla. E se avrete da compiere uno sforzo
per mettere in atto un proposito gentile o per fare un sacrificio
generoso, vi riuscirà più facile di compierlo. E se
avrete sotto gli occhi il ritratto di vostra madre lo bacierete con
più affettuosa tenerezza perchè vi parrà di
vederla sorridere per ringraziarvi di questa giornata luminosa che
le avete data.
Continuate dunque a studiare e a esser buone per aver nell'avvenire
molti di questi ricordi che migliorano l'animo e abbelliscono la
vita.
Un solo consiglio vi dò ancora. Per proseguire sempre
più rapidamente e con più lieto animo il cammino che
avete incominciato con tanto onore, destate in voi un impulso allo
studio anche più forte di quello del sentimento del dovere.
Sia il sentimento del dovere la vostra scorta, diventi lo studio il
vostro amico; abbellite questo così nella vostra
immaginazione che egli vi attragga con tanta forza da rendervi
superfluo ogni sforzo della volontà; cercate in ogni modo di
suscitarvi in petto questa passione nobilissima che, accesa una
volta, non s'estingue più, ed è alimento e premio a
sè medesima per la vita intera; perchè anche nel campo
del lavoro intellettuale, anzi in questo più che in ogni
altro, se la volontà fa maraviglie, la passione fa miracoli.
Sapete che cosa rispose un grande uomo di scienza, ammirato dal
mondo, a chi gli domandò in qual maniera, non concedendogli
la salute malferma che poche ore d'occupazione ogni giorno, egli
avesse potuto compiere tante scoperte, scrivere tante opere utili e
gloriose, a cui pareva che appena sarebbero bastate le fatiche
assidue di una lunga vita vigorosa? - Vi riuscii - rispose -
convertendo il lavoro forzato in lavoro spontaneo; - che era quanto
dire: facendo con amore, quasi per diletto e per bisogno dello
spirito, più che per forza di proposito e per iscopo di
vantaggio proprio ed altrui, tutto quello che fece. E così
potete far voi pure nel vostro piccolo campo scolastico; ma
rammentandovi sempre, badate, che per studiare con facilità e
con profitto bisogna aver la mente serena, che non s'ha la mente
serena se non s'ha il cuore in pace, e che per avere il cuore in
pace dovete adempiere con pari zelo tutti i doveri: esser riverenti
coi genitori, rispettose con le insegnanti, affabili con le
compagne, pietose con gl'infelici, buone con tutti.
E vedrete sempre alla prova, care fanciulle, che per lavorare ed
esser buone non avrete da fare due sforzi distinti, perchè
dal lavoro esce la bontà, come dal moto il calore,
perchè dalla bontà sorge il lavoro come dalla luce la
vita, perchè lavoro e bontà sono due virtù
gemelle che non si scompagnano nelle anime elette se non quando le
disgiungono a forza l'infermità e la vecchiezza, e tendono a
ricongiungersi sempre per trarre l'una dall'altra ardore e vigore, e
se non vincono ogni avversità e non sfuggono alla legge del
dolore, ad ogni dolore trovano un grande conforto e ogni
avversità sostengono nobilmente, quando quello e queste
affrontano insieme.
Sì, siate buone, perchè dovete agli altri la
bontà che loro chiedete e che, anche senza merito, per
semplice virtù dell'età vostra, ottenete da tutti;
perchè la bontà apre ed affina l'intelletto come il
fuoco dilata e purifica l'aria; perchè è la sorgente
inesausta dei sentimenti soavi e delle idee grandi; perchè
è la madre e la nutrice di tutte le passioni più
nobili, più operose, più benefiche, di cui si onori
l'anima umana. E lavorate perchè il lavoro vuol dire
allegrezza e coraggio, è attività del sangue e pace
dello spirito, è sicurezza della coscienza e dignità
della vita; perchè chi lavora, prega, spera, combatte, semina
e costruisce, per sè e per gli altri, per il presente e per
l'avvenire, e spande intorno con lo esempio, come fiore il polline
fecondo, e trasfonde nel petto altrui l'onestà, la salute, la
forza dell'anima sua.
Ma voi, d'animo e d'ingegno eletto, non avete bisogno d'intender da
noi questi consigli. Questi vi son dati continuamente da mille voci,
da mille forze più potenti della nostra parola. È lo
spettacolo del lavoro immenso e perpetuo della natura, della grande
forza operosa, come dice il poeta dei «Sepolcri», che
affatica le cose di moto in moto, è il procedere non
interrotto di ogni scienza, è il trasformarsi continuo d'ogni
istituto sociale, è la notizia quasi quotidiana d'una
scoperta nuova, d'una nuova via dischiusa al progresso civile, d'un
nuovo ardimento dell'ingegno umano, è l'incessante,
multiforme, infaticabile agitarsi di tutti gli esseri viventi per
conservar l'esistenza propria e migliorarla per sè e
prepararla migliore ai futuri, è tutto questo che vi dice con
mille voci, ad ogni ora, ad ogni momento del giorno: - Lavorate!
È l'azzurro infinito che vi si stende sul capo, è
l'alba che imbianca il mondo, il tramonto che lo imporpora e la
primavera che lo infiora, è lo splendore degli astri,
l'immensità del mare, il riso dei campi, la grazia
dell'infanzia, sono i lampi divini che mandano dal volto le anime
belle e le visioni celesti che v'apre al pensiero la musica e
l'incanto sovrano che vi versa nel cuore la poesia, è questo
grande linguaggio misterioso ed eterno della bellezza, che alla
vostra anima pura, ancora tutta aperta ad accoglierlo e a sentirlo,
vi dice da tutte le parti, ad ogni ora, ad ogni momento del giorno:
- Siate buone!
Ma a che ripetervi queste parole in questo momento in cui la
bontà vi splende nello sguardo e nel sorriso così
dolce e limpida che ciascuna di voi ci pare della bontà
un'immagine vivente, la quale desta nel nostro cuore tutti i
sentimenti gentili che vorremmo infonder nel vostro?
Andate, non avete che da serbarvi in codesto stato d'animo per esser
felici voi e fare intorno a voi tutti felici. Portate a casa i
vostri premi e la vostra gioia; noi portiamo in cuore le vostre care
immagini, l'eco del vostro canto e la dolce speranza di ritrovarvi
fra un anno in questa scuola e di rivedervi ancora, come oggi siete,
fiorenti di salute e raggianti di contentezza, festeggiate dalla
famiglia, onorate dalla città, benedette dalla patria.
II.
Per l'inaugurazione d'un Circolo Universitario.
agli studenti.
A voi, studenti, e agl'invitati illustri che sono tra voi, domando
perdono se non fui abbastanza modesto da rifiutare l'onore
immeritato che mi faceste, chiamandomi a inaugurare il vostro
Circolo con un breve discorso. Ma v'era nel vostro invito un
significato che accarezzava irresistibilmente quel particolare amor
proprio, sospettoso d'altri e di sè, che viene coi capelli
grigi; il vostro invito voleva dire che, nonostante la
disparità degli anni, non mi credete ancora tanto lontano da
voi per calore d'affetti e per fede nei belli ideali della
giovinezza, da non poter interpretare il pensiero e l'animo
d'un'adunanza di studenti. Io non seppi vincere la tentazione di
mostrare pubblicamente l'attestato di gioventù spirituale, di
cui m'onoraste.
Ma una ben altra ragione mi spinse: furono due modeste parole ch'io
lessi nel secondo articolo del vostro statuto.
In questo tempo in cui un troppo gran numero d'insecutori furiosi
della fortuna cerca d'estendere le leggi biologiche della lotta per
l'esistenza dai regni inferiori della natura alla società
umana, per trarne cagione a sciogliersi da ogni più alto
dovere di generosità e di gentilezza, è bello questo
vostro intento, col quale voi rinnegate formalmente per parte vostra
la prima e più dura di quelle leggi, che è l'egoismo;
intento con cui mirate ad attuare, in mezzo a voi, uno dei
più arditi concetti degli apostoli della giustizia e
dell'eguaglianza assoluta: il diritto di tutti a procacciarsi la
vita con la cultura e con l'esercizio delle loro facoltà
migliori, nel campo a cui la natura li ha destinati. «Mutuo
soccorso»: è l'espressione con cui avete delicatamente
significato il vostro scopo: io la saluto, come l'insegna gentilizia
della vostra casa.
Ma anche senza di questo, anche se la vostra Associazione non avesse
avuto altro fine che quello di un ritrovo geniale, io sarei stato
lietissimo e mi sarei tenuto onorato dell'invito, per queste
ragioni. Perchè il corso fortunato di molte fra le idee
più feconde degli ultimi tempi, perchè la formazione
del primo manipolo dei propugnatori di molte cause elette, diventati
col tempo moltitudine vittoriosa, perchè l'autorità e
la forza di molti uomini predestinati a grandi opere, ebbero
cominciamento, voi lo sapete, in riunioni abituali della
gioventù consacrata agli studi; perchè ciascuno di
noi, cercando dove si siano aperti prima alla sua mente certi
orizzonti, dove siano cadute certe arroganze pericolose del suo
orgoglio, dove egli abbia prima imparato il rispetto del pensiero
altrui, la sapiente diffidenza del giudizio proprio e il nobile
ossequio dell'ingegno alla critica, trova il principio di tutto
ciò nel periodo delle sue discussioni ardenti coi colleghi di
vent'anni; perchè, in fine, l'intrecciarsi degli ordini
diversi della coltura, l'azione reciproca delle virtù opposte
dei caratteri, l'educazione delle facoltà agili e battagliere
dell'intelligenza, e la conoscenza degli uomini che è il
rincalzo e la scorta di tutte le facoltà, e la generazione
spontanea delle amicizie che durano quanto la vita, strette da un
legame di memorie senza amarezze, non sono quasi altrimenti
possibili che nelle vostre riunioni e all'età vostra, la
quale mette nelle sue controversie un ardore, una schiettezza, una
fede nella fecondità della lotta che con gli anni scema, pur
troppo, o si perde.
Sia dunque bene inaugurato, anche per questo, il vostro Circolo.
Fate, come dice il poeta, cozzare i vostri pensieri dalle loro parti
sonore; discutete - disputate - battagliate; correte per tutti i
versi il vostro campo sterminato in cerca d'avventure e di cimenti
dello spirito; affrontate audacemente tutti i problemi con codesta
invidiabile facoltà di lampeggiamento dell'intelletto per la
quale v'appare tante volte improvviso quello che trovano a fatica la
meditazione e l'esperienza; fate fiammeggiare e rombar senza posa la
grande fucina delle passioni e delle idee; e siano ben venute le
vostre discussioni, anche le più tempestose, anche quelle che
v'inaspriscono e v'adirano, se saranno seguite dallo slancio gentile
con cui i cavalieri dell'idea si porgon la mano dopo i duelli della
parola, riconoscendo che agli occhi luminosi della Scienza e
dell'Arte non deve salire il fumo impuro dei nostri rancori.
Ma perdonatemi se ho rasentato un momento il sermone: tendenza
consueta di chi parla a persone di cui desidera il bene
ardentemente. E di questo voi non dubitate, ne son certo. Voi non
credete a quello che dice un grande poeta malinconico: che lo
spettacolo della gioventù è odioso agli uomini maturi.
No, non è vero, per la maturità che lavora e che
pensa. Può bene anche un uomo di senno e di cuore risentire,
in mezzo a voi, quell'ombra di mestizia che ci suol dare la vista
d'un nostro ritratto di vent'anni addietro, il quale ci rammenta
affetti morti e illusioni perdute. Ma da questo leggero senso di
rammarico si scioglie prontamente il nostro pensiero quando la
gioventù che ci sta dinanzi è quella che siede nella
più alta scuola d'uno Stato, quella a cui è affidato
per l'avvenire l'onore intellettuale d'un popolo. Dal rimpianto del
nostro passato noi ci volgiamo allora all'ammirazione del vostro, o
studenti; del passato, voglio dire, della grande famiglia
universitaria, giovane eternamente. Poichè questo ci tocca
nel vivo dell'animo: che nella classe a cui appartenete sia
eguagliato lo splendore delle speranze da quello delle tradizioni;
che lungo tutta la via della nostra storia nuova, dalla prima
germinazione oscura dell'idea nazionale fino agli ultimi trionfi
dorati dal sole, si ritrovino mille nomi della vostra bella schiera;
che non si sia dato da settant'anni a questa volta un momento
triste, difficile o solenne, in cui la patria non abbia udito la
gran voce sonora delle vostre legioni esprimere prima di lei i suoi
entusiasmi più nobili e le sue risoluzioni più audaci.
Questi ricordi ci ridesta la vostra presenza. Voi avete consolato
della vostra ammirazione festosa gli ultimi anni travagliati dei
grandi vecchi, avete vendicato col grido giovanile ingiustizie
memorabili, scosso da inerzie colpevoli classi cittadine troppo
paurose d'ogni cosa; avete dato teste eroiche ai patiboli, petti di
ferro alle barricate, rigagnoli di sangue ardente fra il Ticino e
l'Adige, sui monti di Sicilia e sulle mura di Roma. E la gioia
infinita che troviamo in queste memorie viene in gran parte dalla
profonda, incrollabile, superba certezza che, se la storia si
ricominciasse, essa non avrebbe per cagion vostra nè un
dolore di più nè una gloria di meno.
Ma v'è un'altra ragione, anche più potente, del nostro
affetto per voi. Quando noi ci arrestiamo sgomenti davanti alle
affollate e multiformi difficoltà, contro le quali, nel campo
della speculazione e dell'opera, urta la fronte la generazione a cui
appartengo e quella che la precede, noi ricorriamo con la mente alla
gioventù universitaria, come in una grande guerra dubbiosa
l'esercito di prima linea volge il pensiero al secondo esercito, che
si ordina e si addestra nei campi, aspettando la sua ora. E con un
conforto grande ci raffiguriamo nuove forme dell'arte, una
più alta sapienza della legge, nuove infermità vinte,
nuovi e maravigliosi cooperatori delle braccia umane, qualche idea
splendida e semplice, oggi ancora velata, cospirante alla soluzione
di quell'enorme problema sociale che ci tormenta la ragione e ci
affanna l'anima; e come i contorni incerti di una bella terra
lontana, vediamo le somme linee di una società più
giusta, più fraterna, più felice della nostra; che, in
fondo, è il più santo voto del cuor di tutti. E allora
diciamo in cor nostro: - Là, in mezzo a loro, tutto questo
cova, spunta, s'abbozza, ribolle - sono essi l'avvenire in cui
abbiamo fede - le speranze che ci aiutano a vivere son le loro
ambizioni - e la luce più viva che scalda il nostro tramonto
è quella che c'irradia alle spalle l'aurora della loro
gioventù. E allora, quanto v'amiamo! Allora quel sentimento
d'orgoglio chiuso che tien poco o molto ogni generazione matura si
stacca come scoria vile dall'animo nostro; allora non comprendiamo
più perchè ciascun di noi non debba desiderare come
una fortuna che voi gli passiate sul corpo per salire a un gradino
più alto sulla scala dell'arte e della scienza: allora
benediciamo ai vostri studi, alle vostre gioie, alle vostre irruenze
con un entusiasmo nel quale è ancora tutta la freschezza
della vostra età, con un affetto di cui non vi può dar
l'immagine che la stretta dell'amplesso paterno.
Sì, noi v'amiamo come l'avvenire vivente. E seguitiamo i
vostri passi con quel sentimento di curiosità pensierosa, col
quale si guarda chi parte per un paese sconosciuto e mirabile, come
s'egli avesse già sulla sua persona un riflesso delle
maraviglie verso cui move. E infatti, che cosa sia per avvenire di
questa mole deforme della società presente, di cui la cima
sfolgora e il fondamento vacilla, che cosa sia per nascere dalle
condizioni attuali del vecchio mondo, rimasto nell'ombra in mezzo
agli opposti crepuscoli degli astri tramontati e di quelli non sorti
ancora, battuto dal flutto di moltitudini irritate, delle quali
cresce il malcontento con la cultura, e schiacciato dal peso di
eserciti immensi, destinati a conflitti che sgomentano
l'immaginazione, e a cui la ragione e il cuore dei popoli sempre
più minacciosamente repugna; nè noi lo sappiamo,
nè v'è scienza che lo prevegga. Ma certo è che
il mondo si prepara con vasti e lenti sforzi a una profonda
mutazione, e che nell'età che s'apre voi avrete a lottare,
come cittadini e come uomini, con difficoltà diverse in gran
parte da quelle che a noi contrastarono e contrastano, che altre
virtù v'occorreranno, che altri sacrifizi vi saranno chiesti,
ai quali noi non fummo chiamati. Ma a tutto voi andrete incontro con
animo ardito, confortati non soltanto dalla fede nella vittoria
ultima della giustizia e del bene, ma anche da questo pensiero: che
per quanto maravigliose sian le novità che vi vedrete
d'intorno, non saranno da meno quelle che sorgeranno dentro di voi,
non tanto per effetto naturale del tempo, quanto per virtù
delle cose esteriori mutate. Fioriture improvvise e stupende di
facoltà latenti, fecondate da nuove passioni, nate alla loro
volta da avvenimenti inattesi; svoltate subitanee e corse
conquistatrici dell'ingegno per vie non solo non cercate, ma
ignorate fino a poc'anzi; forze imprevedute dell'animo, suscitate da
pericoli e da dolori comuni, e appassionate consacrazioni di tutte
le potenze dell'intelletto e della volontà a ordini d'idee a
cui per vent'anni non s'era mai affacciata la mente se non forse per
combatterle o per dileggiarle: tutto questo avverrà tra voi,
e tanto muteranno alcuni, che, ricercando sè stessi nelle
memorie di questi giorni, stupiranno della loro immagine antica.
Tutto questo avverrà. E forse fra quelli che m'ascoltano vi
sono già dei fidanzati inconsapevoli dell'era nuova, campioni
fortunati di idee benefiche, vittime illustri od oscure, ma
egualmente nobili, di grandi passioni, fronti che si alzeranno sopra
l'altre come segnacoli, nomi che saranno amati e benedetti. Noi
salutiamo con riverenza in voi questo cumulo di promesse, di
predestinazioni e di misteri, e se qualche cosa ci turba nel
gridarvi l'evviva della partenza, è il timore di non aver
abbastanza lavorato, pensato, sofferto per spianarvi la via su cui
vi lanciate, la via dove v'accompagneremo con l'anima fin che ci si
velerà l'orizzonte.
Ed ora, che vi potrei dire di più? Finita questa bella
serata, voi rimarrete soli alle vostre liete riunioni. Ma noi, di
mezzo alle cure e alle fatiche di ogni giorno, ritorneremo spesso
con la mente alle poche ore di gioventù che ci avete fatto
rivivere, tra queste pareti dove pure vi verrà a ritrovare il
desiderio di tanti lontani che v'amano, dove vi verranno a stringer
la mano colleghi d'altre provincie e d'altri popoli, dove tanta
allegrezza, tanta vita, tanta primavera di pensiero e d'affetto
darà fiori e frutti al futuro. Abbia dunque lunga vita, il
vostro Circolo. E non sia soltanto il luogo dove le buone amicizie
si cementino: sia anche quello dove, vinti dalla forza della
cordialità altrui, i nemici si riconcilino, dove le gelosie
dell'ingegno si spuntino, dove le opinioni dei partiti avversi si
ricambino l'omaggio della cortesia; in modo che possiate dire: -
Emuli negli studi, concorrenti nella vita, sciolti da ogni vincolo
nella politica; ma qui - siamo fratelli. - Questo è il mio
augurio al vostro Circolo. A Voi, avanguardia intellettuale della
vostra generazione, a quelli che nella battaglia della vita
vinceranno, a quelli che cadranno, a quelli che, crivellati di
ferite, dureranno a combattere fino all'estremo, a voi tutti, sangue
nuovo e generoso della patria, figliuoli prediletti del nostro
pensiero e speranze sacre del nostro cuore, salute, fortuna, gloria!
Torino 1891.
III.
Per la quistione sociale.
agli studenti.
Quando per la seconda volta mi faceste l'onore d'invitarmi a
parlare, sopra un argomento di mia scelta, nella vostra
Associazione, mi venne in mente alla prima di parlarvi della
quistione sociale. Ma quasi ad un tempo pensai che non sarebbe stato
onesto il venir qui ad esporre intorno a un soggetto gravissimo
opinioni e giudizi, da cui molti potevan dissentire, senza esser
preparati a confutarli. Dissi quindi tra me: non entrerò, per
questa volta, nel cuore dell'argomento; non enuncierò uno
solo dei principii del socialismo, i quali, d'altra parte, son noti:
mi restringerò a parlare ai miei giovani amici del dovere,
che, a senso mio, spetta a loro più che ad altri, di
occuparsi della quistione; e compirò io stesso, così
facendo, un dovere. Debbo anche premettere che non ho l'arroganza di
rivolgere le mie parole a quelli tra voi, che le quistioni sociali e
economiche hanno nel loro corso universitario, poichè questi
potrebbero venire al mio posto e parlare in vece mia. Io non mi
rivolgo che alla parte di voi, che della quistione sociale non
s'occupa, e suppongo sia la parte maggiore; del che non ho ragione
di stupirmi nè di farvi rimprovero, essendo un fatto
razionale e comune che, nella vita affollata di passioni e di
pensieri a cui tutti, di tutte le età, siamo costretti
oggigiorno, sfuggano a molti per lungo tempo interi aspetti della
società, ordini interi di idee, e anche di avvenimenti
periodici e notissimi, che per l'osservatore attento sono i segni
indubitabili di una grande trasformazione sociale.
Mi domanderete per prima cosa: ma voi, per quistione sociale, che
cosa intendete?
È questa una delle molte domande alle quali non si può
meglio rispondere che con un'altra domanda.
Ed ecco la mia risposta interrogativa.
Questo fatto della vita misera e del malcontento giustificato del
maggior numero degli uomini, fatto comune a paesi poveri e ricchi,
di tutti i gradi di civiltà, è effetto d'una legge di
natura o delle leggi umane? Questa forza che accumula a un polo
della società la ricchezza e la cultura, e all'altro il
pauperismo e l'ignoranza, che restringe quasi a una classe sola gli
effetti benefici della civiltà e della scienza, che preclude
quasi affatto alle moltitudini l'educazione e la vita dello spirito,
che fa sussistere gli uni in faccia agli altri tanti tesori
superflui e tanti bisogni insoddisfatti, tanti ozi felici e tante
disperate fatiche, è un destino dell'umanità o deriva
da viziose istituzioni sociali? Che la civiltà procedente
stritoli sotto i suoi passi miriadi di creature umane; che sotto i
piedi di questa società incivilita stia aperta, come una
minaccia per tutti, la voragine spaventosa della miseria; che prenda
forma più selvaggia ogni giorno questa battaglia per la vita
che assorbe il meglio delle forze di tutti, e perverte le coscienze
e inferocisce i cuori, atterrando intorno a ogni vincitore cento
vinti; che milioni d'uomini che lavorano sian ridotti a paventare e
a maledire come un flagello ogni invenzione dell'ingegno umano la
quale abbia per effetto di scemare il bisogno che ha la
società dei loro sudori; che il pane, che l'esistenza di
famiglie innumerevoli dipendano anche in tempi ordinari dalle mille
vicende di una disordinata e furiosa guerra mercantile, della quale
esse non hanno nè colpa nè coscienza; è una
necessità ineluttabile o è conseguenza d'una lunga
serie d'errori? Che, in fine, ogni nazione abbia nel suo seno due
popoli, di cui l'uno diffida e teme e l'altro freme e minaccia; che
per contenere non pochi ribelli, ma moltitudini intere, sian
necessari il terrore delle leggi e la forza delle armi; che le grida
festose di pochi inneggianti al progresso siano costantemente
coperte dal lamento immenso, crescente, implacabile d'una folla
infinita, è questo il prodotto d'una misteriosa legge sociale
su cui l'uomo non può nulla, o è effetto dell'egoismo
umano compenetratosi con le istituzioni e con gli usi, di qualche
impedimento enorme che sia nell'organesimo della società,
rimosso il quale circolerebbe agevolmente il sangue in tutte le sue
membra e le verrebbe la salute e la pace? In una parola, v'è
o non v'è qualche sovrano rimedio, o un complesso di rimedi,
a tanto cumulo di mali?
A questa domanda il socialismo risponde: - Sì.
Milioni di voci rispondono: - No.
Ebbene, io non son qui per sostenere l'affermazione. Io son venuto -
poichè suppongo che nella classe in cui vivete v'accada
più sovente di udir la seconda risposta che la prima - son
venuto a dirvi: - Non accettate la risposta che vi suggeriscono:
cercatela voi stessi; - son venuto a combattere le ragioni di coloro
che vi voglion distogliere dal cercarla perchè accettiate a
occhi chiusi la loro.
Queste ragioni son parecchie e assai diverse, e credo che a pochi
tra voi non sia già occorso di udirle tutte.
La più ovvia è questa. Vi dicono: - Raccoglietevi nei
vostri studi, pensate a diventar nella vostra professione valenti ed
utili, e avrete compiuto il vostro dovere verso la società;
pensino altri a raddrizzare il mondo. - Non date retta a costoro.
Non è più onestamente possibile di restringersi a
servire la società solo quel tanto che è necessario
per provvedere ai nostri interessi. Le condizioni del tempo in cui
viviamo son così fatte che convien correggere la definizione
antica dell'uomo onesto, e dire che per essere tale non basta
più ad alcuno neppur l'esercizio delle più elette
virtù private, se egli chiude l'orecchio e il cuore al grido
dei dolori umani, s'egli non s'adopera direttamente per la
rigenerazione dei suoi simili e per il trionfo della giustizia, se
non volge almeno una parte della propria operosità a cercare
coscienziosamente al servizio di qual dottrina sociale, per il bene
di tutti, debba impiegare le sue forze. E non badate neppure a chi
vi consiglia l'astensione, dicendo che v'occuperete della quistione
sociale più tardi, perchè quelli stessi che vi dicono
ora: - Attenetevi ai vostri studi - vi diranno allora: - Attenetevi
ai vostri affari, - e vi vorranno relegare nella fortezza della casa
e dell'ufficio come ora vi vogliono chiudere nel santuario della
letteratura e della scienza. Occupatevi ora di quella quistione, ora
che avete l'intelletto e l'animo aperto a tutte le grandi idee, ora
che potete esperimentare in voi la verità di quello che un
economista dottissimo disse: che l'intelligenza della scienza
sociale procede dal cuore anche più che dallo spirito, ora
che la durezza della lotta per la vita e la esperienza della
tristizia umana non v'hanno ancora rintuzzato il senso della
generosità e della compassione. Milioni di vostri fratelli a
cui la fortuna ha negato il conforto e l'onore degli studi, e chiuso
la via d'ogni agiatezza, confidano nell'opera della gioventù
studiosa, sperano che almeno voi studierete spassionatamente la loro
causa; e a questo noi v'esorteremmo del pari, quand'anche dalle
vostre meditazioni doveste esser condotti a una fede opposta alla
nostra, poichè noi pure, come quel focoso flagellatore
dell'«Indifferenza religiosa», preferiamo gli avversari
dichiarati che, combattendoci, soffiano nel nostro ardore, agli
indifferenti che rifiutano di combattere; davanti ai quali ci cadono
le armi dal pugno e gli entusiasmi dal cuore. Occupatevi della
quistione fin d'ora, perchè in nessun modo riuscirete a
scansarla nell'avvenire, qualunque campo d'azione siate per
scegliere; perchè essa vi si leverà davanti negli
studi solitari, nell'esercizio della professione, nell'educazione
dei figlioli, nell'adempimento d'ogni vostro ufficio di cittadini;
perchè essa s'attraversa oramai a tutti i passi della vita e
s'affaccia a tutti gli sbocchi dell'intelligenza; perchè
tutte le questioni di politica europea, e le lotte dei partiti
parlamentari, e le splendide feste delle arti e delle industrie, e
le grandi solennità patriottiche, e perfin le guerre
internazionali, non son che episodi della storia, che la nascondono
per brevi spazi di tempo; passati i quali essa riappare
all'orizzonte, altissima, immobile, eterna, come la piramide di
Cheope quando cade il vento del Sahara e il turbinìo delle
arene si queta.
Non dovrei ribatter nemmeno coloro che vi consigliano di lasciar da
un lato la quistione sociale dicendovi che essa riguarda una classe
sola, o certe classi, non la vostra; perchè son certo che voi
non siete tanto sdegnati dell'egoismo miserabile di quest'argomento
quanto mossi a pietà dall'insensatezza di chi considera come
una parte trascurabile della società la parte di lei
più importante per il suo numero, più necessaria per
la sua funzione, più benemerita per le sue fatiche; quella
senza di cui la nazione non ha fondamento, la patria non ha difesa,
e il mondo non ha nè vesti, nè tetto, nè
utensili, nè pane. Ma l'argomento, pure intrinsecamente
è falso. La quistione sociale abbraccia ormai tutte le classi
poichè anche le classi medie, sebbene con minore
intensità, per ora, e con effetti meno visibilmente dolorosi,
risentono già tutti i danni di cui le inferiori si lagnano.
Vi è già una gran parte della borghesia per cui
l'esistenza non è meno minacciosamente precaria che per le
classi chiamate con maggior proprietà lavoratrici; vi sono in
tutti i campi del commercio e dell'industria le mezze fortune
oppresse nella lotta disperata con le grandi; vi è un popolo
di possidenti che mendica; v'è una concorrenza di cento paria
per ogni stipendio che basti appena alla vita; vi sono migliaia di
giovani d'ingegno e di studio a cui non è possibile di
guadagnare quanto un bracciante prima dei trent'anni; v'è la
vecchiezza pensionata che disputa il posto alla gioventù
esordiente, la donna che lo contende all'uomo, l'uomo che lo
contrasta al ragazzo; v'è una tal ressa di naufraghi intorno
a ogni trave galleggiante, che quando uno per negligenza o per forza
lascia andare la sua, non gli resta quasi più speranza
d'afferrarne un'altra, e annega le più volte nella miseria.
Il posto umilissimo che, per l'inferiorità forzata della sua
educazione e per la falsità vanitosa della nostra, è
assegnato nella società al lavoratore manuale, la cui opera
si onora in astratto e si disprezza impersonata, e la scarsa e
mutevole e spesso umiliante mercede con cui quell'opera è
retribuita avendo per effetto che tutti rifuggano o cerchino
d'uscire in qualunque modo dalla bolgia delle classi inferiori, ne
segue che s'abbia un eccesso di produzione anche nel campo
dell'intelligenza, che vi sia una sovrabbondanza enorme di
gioventù colta alla quale la coltura non serve a nulla come
l'oro all'affamato in mezzo al deserto, un esercito di riserva
intellettuale, che, come quello della classe operaia, offre il suo
lavoro in ribasso, e accetta ogni condizione di vita, e non trova a
vivere nemmeno accettando ogni condizione. E il torrente ingrossa
ogni giorno, e la piena è giunta per tutto a tal segno, che
fin nel paese che deve alla sua grande coltura la supremazia
politica e militare in Europa, si vede costretto il Governo a
rifiutare il suo consenso alla fondazione di nuovi istituti
d'insegnamento, perchè quelli che esistono sono già
esuberanti al bisogno che ha la società di candidati.
Lasciate ora che alle donne, poichè v'è anche per esse
una quistione sociale, si schiudano tutte le vie, come
accadrà per forza invincibile delle cose; supponete che si
compia il voto del cor di tutti, d'un dimezzamento degli eserciti,
che getterebbe nella concorrenza altre migliaia di giovani, i quali,
per l'indole della loro educazione e per i pregiudizi connaturati
allo stato presente della società, rifuggirebbero dal lavoro
meccanico; e s'avrà allora un proletariato borghese non meno
temibile, benchè men numeroso, anzi più potente e
più attivo perchè più colto, di quel della
plebe. Ma egli è già tale, e non più legato che
da un così tenue vincolo di tradizione e d'interesse con la
classe superiore, che è diventato in qualche paese una delle
forze più vive del socialismo, un focolare spaurevole di
malcontento e di ribellione acceso nel seno stesso della borghesia.
Che se per ora, e fra noi specialmente, si fa meno avvertire,
perchè è sparso e dubitante e perchè,
trovandosi i suoi elementi in più diretta dipendenza dai
privilegiati della fortuna, corrono maggior pericolo d'esser segnati
e buttati sul lastrico, lasciate che scemino i suoi timori e
ingrandiscano le sue speranze con l'allargarsi del socialismo nella
moltitudine, nel parlamento e nella stampa, e vedrete come
leverà il grido delle rivendicazioni, senza che gli si possa
negare il diritto di levarlo. Non date dunque ascolto a chi vi dice
che la quistione sociale non è che una quistione operaia ed
agricola: il che sarebbe già qualche cosa, mi sembra; no,
è la quistione di tutti, fuorchè di un pugno di ciechi
e di sordi.
Altri vi dicono: - A che pro occuparvi della quistione sociale? Essa
è antica come il mondo. Non mutano che i nomi: invece di
schiavi, servi; invece di servi, salariati; i vinti della lotta
darwiniana hanno sempre empito il mondo delle loro querele. Il
socialismo rimarrà nello stato permanente di spauracchio e di
freno all'individualismo prevaricatore, e sarà bene; ma
null'altro. La miseria del maggior numero, come disse il Thiers,
è nel piano della Provvidenza. - Domandate prima di tutto a
costoro se la Provvidenza abbia mai fatto vedere al Thiers o ad
altri il suo piano. Quanto alla teoria del Darwin, contentiamoci di
domandare se le leggi della lotta fra le razze inferiori s'abbiano
da riferire all'umanità, nella quale i vinti, che invece di
sparire, si moltiplicano, non avrebbero che da unirsi, e lo possono,
perchè i vincitori svaniscano come un nuvolo di polvere
nell'uragano. Dicono: - la quistione è antica quanto il
mondo. - E sia concesso. Ma quel che non è antico quanto il
mondo è il grado a cui è pervenuto lo svolgimento del
principio dell'uguaglianza, che è il fatto più
generale, più costante, più ribelle a ogni umana
opposizione che si conosca nella storia. Quel che non è
antico come il mondo è la coscienza acquisita
dell'uguaglianza civile e politica, che fanno sentire più
profondamente che mai le disuguaglianze economiche; è la
cultura maggiore che acuisce nelle moltitudini tutti i patimenti
dell'animo derivanti, dallo spettacolo delle troppo grandi
disparità delle classi; è la miseria relativa
smisuratamente cresciuta col moltiplicarsi delle ricchezze e dei
raffinamenti sensuali della vita in un piccolo numero; è il
decadimento progressivo di quello spirito religioso di rassegnazione
che faceva sopportare i mali presenti con la speranza di una
ricompensa futura; è, infine, un clero di tutte le chiese
che, sollecitando delle riforme sociali, ossia riconoscendo che ai
mali della terra c'è rimedio, fa comprendere agli sfortunati,
se non con le parole, col fatto, che non si può pretendere da
loro l'antica rassegnazione.
Sì, la quistione sociale sarà antica come il mondo. Ma
quello che è nuovo è la gigantesca potenza
accumulatasi con l'oro in mano di cittadini privati, che s'alzano
come sovrani in mezzo a popoli liberi, che posseggono parti della
loro patria vaste come Stati, che tengon nella propria borsa la
sorte di centinaia di migliaia d'uomini, che possono turbare a
vantaggio proprio gl'interessi d'un'intera nazione e corrompere
scopertamente moltitudini e poteri. Quello che è nuovo
è che di fronte a questi monarchi della ricchezza, e alle
loro strapotenti federazioni, che allargano intorno a sè come
una landa sinistra la servitù morale e il salariato, siano
sorte delle società di settecento mila lavoratori, delle
«Unioni di mestieri» numerose come popoli e organate
come eserciti, che in tutte le città dei paesi civili,
chiamati a raccolta dalla grande industria, si vadano agglomerando i
proletari in battaglioni e in reggimenti, che s'intendono, si
disciplinano, e s'affratellano. Quello che è nuovo pure
è che si raccolgano congressi operai ai quali intervengono i
delegati di diciannove nazioni, rappresentanti cinque milioni di
lavoratori; che vi sian paesi dove venti città si dichiarino
in favore del «socializzamento» della terra; che nel
paese più colto e più potente d'Europa si mandino al
Parlamento quaranta campioni della nuova idea, con maggior numero di
voti che non ne raccolga alcun altro partito della nazione; quello
che è nuovo è un accordo internazionale di agitatori
che con una parola d'ordine lanciata da Parigi a Sidney e da Berlino
a Nuova York fa nello stesso giorno dell'anno disertar gli opifici a
nove milioni di operai, e vegliare sull'armi dieci eserciti come
sotto l'imminenza d'uno sfacelo degli Stati. Quello che è
nuovo affatto è che si spandano ogni giorno, da mille
città, verso ogni parte, su tutta la faccia della terra,
milioni di fogli parlanti, che predicano una speranza comune e
soffiano in una sola passione, e s'accumulano nelle soffitte e nei
tuguri come una provvigione di polvere da guerra. Ed è
un'altra cosa nuova, che migliaia di poveri lavoratori d'ogni paese,
finite le loro dieci ore di lavoro estenuante, si assoggettino la
sera a una nuova fatica per istruirsi nelle quistioni sociali, si
strappino il pane dalla bocca per sostenere il giornale che li
protegge, e consacrino gli ultimi resti delle proprie forze alla
propaganda delle loro idee e all'ordinamento del loro partito, e
perdurino in questa opera con una febbre di passione, che ne conduce
molti alla fossa. E non è men nuovo nè men grave che
questa gran moltitudine incolta e ribollente abbia e sappia d'avere
alla sua testa uno stato maggiore intrepido d'uomini di studio e
d'uomini di Stato, di vessilliferi di ogni scienza e di ogni arte,
che propugnano la loro causa in tutte le regioni del pensiero e in
tutte le congiunture della vita. Infine, la quistione sociale
sarà antica quanto il mondo; ma quello che è tutto
proprio del tempo nostro, credo io, e che non fu nemmeno negli
ultimi anni che precedettero la rivoluzione francese, nei quali le
classi minacciate andavano incontro all'avvenire con una quasi balda
spensieratezza, è questo turbamento che tutti risentiamo,
qualunque sia il nostro grado di fortuna, qualunque siano le nostre
idee sociologiche, davanti allo stato attuale delle cose; è
questa scontentezza della ragione e del cuore, è questa lotta
sorda e continua fra la nostra coscienza di cittadini e il nostro
interesse di privati, è questo sentimento confuso di colpa,
è questo presentimento vago di qualche cosa di grande e di
fatale, che ci fa guardare intorno con occhio inquieto come
viaggiatori senza guida che s'avanzino alla ventura per una terra
sconosciuta.
V'è pure chi cerca di stornarvi da questo pensiero affermando
che non bisogna lasciarsi illudere da certe scosse improvvise e
solitarie, dalle apparenze ingrandite ad arte di certi avvenimenti;
che, in realtà, il movimento è lentissimo e
intralciato da discordie inconciliabili, che ha periodi lunghi di
sosta, e che non saranno neppure i figli dei nostri figli che
vedranno la società in grave pericolo. - Non credete nemmeno
a costoro. Sotto le maggiori apparenze di quiete, anzi più
sotto queste, il movimento procede con una celerità non
sperata neanche da chi lo seconda. Il socialismo germanico fece i
suoi più rapidi passi nel periodo delle leggi eccezionali, da
cui pareva stato strozzato. La maggior parte delle sue conquiste
è silenziosa, ed è la loro continuità medesima
che, come quella della cresciuta di un fiume, non ci consente di
seguirne con l'occhio la progressione. Dalla parte dov'è
combattuto, all'ira ch'era stata preceduta dal dileggio, è
susseguita ora una discussione universale e quasi continua, nella
quale ai colti paladini della borghesia accade assai sovente, con
loro grande stupore, di trovarsi davanti degli avversari d'officina,
che in quistioni economiche di propria spettanza non sono men forti
di loro. A poco a poco il socialismo invade il giornale, il libro,
il teatro, penetra nelle accademie dei dotti e nei gabinetti dei
monarchi, si rizza sui pergami, assalta l'una dopo l'altra le
cattedre; le quali in più d'uno Stato, con maggiore o minor
restrizione di idee, sono in massima parte già sue. Si
può quasi asserire che meno rapidamente egli si diffonde alla
superficie di quanto si propaghi dal basso all'alto. Nella vasta
polemica scientifica ch'egli promove su tutte le quistioni che gli
si legano, e gli si legano tutte, ogni giorno strappa agli avversari
una concessione, disarma una resistenza, fa accettare un'idea. Ogni
giorno, nell'esercito formidabile che gli sta a fronte, nel campo
della politica, della scienza e delle lettere, un combattente
s'arresta incerto, o butta via le armi, o le ritorce contro i suoi;
e molti che continuano a combattere si sentono già spuntare
nell'anima l'amor del nemico, e hanno già la diserzione nel
cuore, e non la compiono se non per ragioni di personale interesse,
o per timori e per riguardi sociali, o perchè non hanno fede
che in un trionfo troppo lontano della causa che credon giusta. E di
questo vacillamento e rimescolìo di coscienze si vedon mille
segni ed effetti per tutta la scala della cittadinanza, dal maestro
di scuola impacciato a dar ragione alla fanciullezza di tante
mostruose anomalie sociali che non si possono più palliare
coi sofismi antichi, al giudice che non sa più troncare in
bocca all'accusato volgare la dichiarazione di principii che lesse
egli medesimo nel libro d'un senatore del Regno, fino allo scrittore
borghese che non può più scrivere pel popolo senza
girare con artifici infiniti intorno alla grande quistione che gli
si presenta inevitabile e molesta a ogni passo, scompigliandogli
nella mente tutta la sua vecchia precettistica morale e patriottica,
fino ai grandi predicatori dell'igiene pubblica, fino agli
amministratori ufficiali dell'istruzione popolare, che dubitano e si
scoraggiano vedendo l'opera loro urtare da ogni parte ed infrangersi
contro la ferrea barriera della miseria e contro l'architettura
stessa degli ordinamenti sociali. La resistenza alle nuove idee si
riduce sempre più dal campo delle coscienze in quello degli
interessi; per il che può ben essere ancora risoluta e tenace
e terribile; ma non ha più per sè le grandi e belle
passioni, davanti alle quali la furia degli avversari dubita qualche
volta e s'allenta. Ond'è che gli assalitori che andavano ieri
col passo di marcia, vanno oggi col passo di carica, e andranno di
corsa domani. E non è da credere che gli impediscano gran
fatto i dissensi e le divisioni che turbano le loro file. Come, -
secondo il detto di un di loro, - tutte le teorie e concezioni
diverse del socialismo, dal socialismo di stato del professore
tedesco al comunismo pastorale del romanziere russo, viste
dall'alto, non appaiono in antagonia fra di loro, ma si mostrano
come i piani graduali di un vastissimo panorama, o meglio come le
forme successive, le attuazioni o i tentativi di attuazione a mano a
mano più larghi e compiuti d'una stessa idea; così
nell'ordine dell'azione, fautori del collettivismo, apostoli della
società senza Stato, ministri socialisti della chiesa
cattolica e delle chiese protestanti, benchè proponendo
riforme diverse e arrestandosi a diverse mete, poichè son
tutti quasi concordi, e quasi violenti del pari nella critica del
presente, concorrono tutti, volenti o no, ad uno stesso effetto
finale, tutti apparecchiano e spingon le moltitudini alla grande
evoluzione, tutti, o levino in alto il libro del Marx o la Bibbia, o
la fiaccola, tutti lavorano ad allargare e ad accelerare un moto, di
cui non si riscontra l'eguale - per dirla con le parole del
più autorevole giornale dell'Inghilterra - se non risalendo
ai primi tempi del Cristianesimo o a quelli dello sconvolgimento
dello impero romano.
Altri, pure riconoscendo l'importanza del movimento socialista in
Europa, vi dicono: - Non ve ne date pensiero perchè il nostro
paese ne è fuori, - e ripetono la sentenza pronunziata l'anno
scorso alla Camera da un illustre pensatore, a parer del quale, per
ragion dell'indole e delle condizioni proprie del popolo italiano,
ci vorranno più secoli prima che il socialismo metta larghe
radici fra di noi. - Non credete neppure a costoro. Come se intorno
all'Italia ci fosse la gran muraglia del Celeste Impero, come se il
socialismo dottrinale e popolare che ci venne tutto in questi ultimi
anni dal di fuori non dovesse continuare a discendere per le stesse
vie per le quali è entrato! Sarà vero che la quistione
sociale in Italia sia agraria principalmente, come tra i nostri
fratelli latini d'occidente, e che anche sotto questo aspetto, per
la costituzione particolare del nostro suolo, essa non sia della
natura medesima che in altri paesi; ma non scema l'importanza e
l'urgenza della quistione per la singolarità della sua
natura. Certo v'è terreno men preparato al socialismo fra
noi, perchè v'è più bassa che altrove la
coltura del popolo, perchè v'è appena nascente la
grande industria, perchè in più di mezzo il paese,
come gli stessi socialisti riconoscono, il ceto operaio come ente
collettivo non è ancor nato, e nell'altra metà
è nato appena. Ma non dobbiamo credere che non esista
l'esercito perchè, invece di esser serrato in colonne,
è sparso in tiragliatori, nè che mancanza
d'organamento voglia dir mancanza d'elementi, nè che non vi
sian le passioni perchè mancano o sono informi le idee. E in
questo appunto, per chi ben considera, dovrebbero riconoscer gli
illusi il maggior pericolo. Le verità generali d'ordine
sociale e economiche - è un vecchio assioma - si ritrovano
allo stato di intuizione istintiva anche nell'animo dei più
incolti, e però anche la parte più incolta del
proletariato italiano, confusamente, le intende. Senonchè le
idee - come dice un grande psicologo - seminate in menti incolte e
feconde si svolgono in escrescenze selvagge e si trasformano in
chimere mostruose; che è quel che avviene fra noi dove
è tanto maggior temerità di dottrine quanto minor
capacità vera di metter in atto anche le più
ragionevoli. In luogo di rallegrarci, dunque, dell'ignoranza e della
mancanza d'ordinamento collettivo che rallentano il moto fra noi,
avremmo gran ragione di dolercene, poichè è appunto
quest'ignoranza e questo disordine che fa le moltitudini impazienti
e turbolente, come quelle in cui il furore dei desideri non è
temperato dalla coscienza sicura delle proprie forze e del proprio
avvenire, nè dalla soddisfazione che hanno i ceti operai
d'altri paesi di sentire la saldezza del proprio organesimo e di
numerare giorno per giorno i loro progressi e le loro vittorie,
donde ricavan la virtù di aspettare con pacatezza e di
apparecchiarsi con raccoglimento. È perchè là
son colti e ordinati che studiano e discutono; è
perchè studiano e discutono che vedono tutte le
difficoltà del problema sociale e non credono che si possa
risolvere d'un colpo. Ed è perchè le classi superiori
non oppongon loro, come tra noi, o un'indifferenza o una negazione
assoluta, l'una e l'altra insensata, ed entrambi irritanti, che non
trascorrono e neppure minaccian di trascorrere alla violenza.
In verità, se anche fossi nei panni del più egoista e
del più pauroso dei conservatori, io desidererei che le
nostre classi proletarie, percorrendo il cammino di trent'anni in un
solo, arrivassero d'un tratto al grado di maturità civile che
hanno raggiunto nella Germania e nel Belgio; lo desidererei per
esser ben certo che questo spostamento, che è col tempo
inevitabile, del centro di gravità del sistema sociale dalle
classi medie alle inferiori, si compisse senza scosse funeste. Io
vorrei esser persuaso d'ogni più sacra verità come
sono di questa: che compie un'opera santa e benefica per tutti ogni
colto giovine italiano, il quale, qualunque sia il suo giudizio
intorno all'essenza e all'avvenire del socialismo, ne studia con
amore le cause, le dottrine e le vicende per poterle esporre con
schiettezza al popolo e fargliele comprendere e discuterle con lui e
sfrondargli le illusioni pericolose ed eccitarlo, aiutarlo a
istruirsi, a ordinarsi, a mettersi in grado di attuare sensatamente,
quando il giorno verrà, la maggior parte possibile delle sue
aspirazioni. Per questo, invece di dirvi: - Lasciate stare la
quistione sociale perchè siete italiani, - vi dico: -
Occupatevene tanto più perchè siete italiani - fate
quanto è in voi perchè il vostro popolo non rimanga
troppo addietro degli altri su questa via, se volete che, quando
vegga gli altri vicini alla meta, non sia tentato di raggiungerli
con uno sbalzo che lo potrebbe travolgere in un precipizio, nel
quale sareste travolti voi pure. Mettetevi alla sua testa e ai suoi
fianchi invece di sbarrargli la strada o di lasciarlo andar solo,
come l'istinto e il caso lo movono. Tempo verrà in cui sarete
ringraziati e benedetti da coloro stessi che ora vi supplicano o vi
minacciano perchè vi tiriate in disparte. Son tutti concordi
nell'eccitarvi ad amare e a servir la patria. Ebbene, l'amerete e la
servirete sapientemente in tal modo. Perchè la patria non
è soltanto la terra, la storia e la bandiera: la patria
è viscere e sangue umano, e la felicità del popolo sta
sopra alla potenza dello Stato, e la giustizia è più
grande della gloria.
V'è poi il coro dei mille, i quali vi gridano: - Passate
oltre: la guarigione delle infermità sociali è
un'utopia. - Ma non l'ha dunque ancora sfatato la storia del mondo
questo grido malauguroso, tante volte sbugiardato quante son le
pietre miliari del cammino della civiltà, questa vuota parola
così comoda alla infingardaggine intellettuale, così
utile agli interessi minacciati, così abusata da tutte le
ignoranze e da tutte le paure, con la quale si sono vilipese,
beffate, respinte tutte le conquiste più gloriose della mente
umana?
Voi tutti vi ricordate la notte tempestosa
dell'«Innominato», quando sul punto di bruciarsi le
cervella con un colpo di pistola per liberarsi dai rimorsi che lo
dilaniano, egli domanda a sè stesso: - E se quest'altra vita
di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre come
se fosse cosa sicura, se quest'altra vita, non c'è, se
è un'invenzione dei preti; che fo io? perchè morire?
che cos'importa quello che ho fatto?... È una pazzia la mia!
- Ma allora gli balena un pensiero tremendo: - E se c'è
quest'altra vita! - Voi rammentate pure che cosa avviene a quel
dubbio nell'anima sua. - Ebbene, un che di simile segue nell'anima
di chi è agitato dalla nuova idea. Egli si domanda: - E se
questa possibilità, che tanti affermano come sicura, di
scemare i dolori del mondo, di far trionfare tra gli uomini la
fraternità e la giustizia, se questa idea è un'utopia,
un sogno di filantropi allucinati, se avesse ragione quel famoso
parroco inglese che fissò il destino dell'umanità tra
due formole matematiche, che cosa importa allora quello ch'io
faccia? Perchè ho da combattere i privilegi di cui godo, da
rendermi inviso alla classe in cui son nato, da torturarmi il cuore
e il cervello per mali che non hanno rimedio, invece di badare ai
miei interessi e di viver beato?... È una pazzia la mia! - Ma
a questo punto balena anche a lui un altro pensiero. - E se non
fosse un'utopia? - ed egli pure, a questo pensiero, è stretto
da un senso di sgomento. Sì, e se non fosse un'utopia? -
Utopia si può giudicare ogni idea che non abbia ancor avuto
la prova dell'attuazione, e quale grande idea sociale fu mai provata
prima che accettata? E la concordia di molti nel crederla attuabile
non è una delle prime condizioni dell'attuabilità
d'ogni idea? Sì, e se a questo organamento sociale che spreme
la ricchezza per uno dalle vene e dalle ossa di mille, che condanna
milioni d'uomini a un lavoro da bruti, non confortato da alcuna
dolcezza di vita, da alcun godimento intellettuale, da alcuna
speranza di sorte migliore, che smembra milioni di famiglie, che fa
di milioni di case un inferno, che sfrutta ed opprime la donna, e
decima, corrompe e deforma l'infanzia; se a questo stato di cose
che, assoggettando una parte dei lavoratori a una fatica inumana, ne
ricaccia nell'ozio forzato e nella fame l'altra parte, metà
della quale, dopo aver lottato invano per risalire, cade nella
mendicità, nella prostituzione e nel delitto; se a questa
sciagurata divisione del mondo che, provocando di sotto l'odio e di
sopra il terrore, fa somigliare la società civile a un triste
castello dell'età media, dove la famiglia dei signori, seduta
a banchetto, rabbrividisce al suono dei singhiozzi e delle
imprecazioni dei prigionieri sepolti sotto i suoi piedi; se a questo
mucchio d'orrori ci fosse davvero un rimedio, che uomo sarei io che
non me ne curo, che non cerco di giovare quanto posso a scemarlo,
che anzi concorro, pur non volendo, ad accrescerlo, e voglio
fabbricarvi su la mia fortuna? Con che fronte posso io parlare di
progresso, di civiltà, di fratellanza, di patria? E
quand'anche fosse un'utopia il rinnovamento della società che
ci propongono, quando non ci fosse che una minima parte di idee sane
e di speranze fondate, non dovrei dedicare ogni mia forza a far
sì che almeno quella minima parte s'attuasse? Utopia!
S'è spenta pochi giorni sono quella menta vasta e limpida
d'economista, che, or fa trent'anni, metteva il mondo a rumore con
quella sua sentenza: - Il diritto di proprietà si
modificherà nel senso sociale, o si sfascierà il
consorzio civile. - È stato sepolto ieri quel generoso
cardinale Manning che disse non potersi andare innanzi sulla via
della vendita abusiva della forza e dell'attività umana,
sulla via che dei fanciulli e delle madri fa delle macchine viventi,
e delle spose e dei padri delle bestie da soma. - Riposa poco
lontano di qui il grande statista italiano che ci profetò la
guerra civile se non si migliorassero le sorti delle classi
inferiori; onde è credibile che ei non stimasse quell'intento
una follia. E vivo ancora e soggiorna fra noi quel venerando
ministro d'Inghilterra che disse ai lavoratori: - Voi sarete presto
i padroni del mondo. - E son menti elette e potenti d'ogni razza che
studiano i mali e i rimedi, che affrontano da tutti i lati il
problema, e cercano ad uno ad uno gli organi vitali della
società nuova, con una costanza maravigliosa e una fede
invitta. Oh vediamo un poco se l'ordinamento della società,
che s'è andato mutando così profondamente a traverso
ai secoli, abbia raggiunto davvero una tal perfezione, che debba
dare un fermo alla storia, che non si possa più correggere o
mutare in alcuna sua parte essenziale, senza fare il peggio anche
del maggior numero, a cui riesce intollerabile ancora.
L'affermazione, se non alttro, è ardita. Vediamo un po' col
giudizio nostro se quello che ci propongono è veramente
un'utopia!
Per questo io vi ripeto, concludendo: - Occupatevi voi pure, quanto
i vostri studi ve lo consentono, della quistione sociale.
A quelli di voi che non si sono ancora affacciati alla nuova
letteratura (già ricchissima e svariatissima) o per mitezza
d'animo che rifugge dai cimenti della coscienza, o per il falso
concetto, diffuso da quelli a cui giova, che le idee socialistiche
sian proprie per essenza loro delle nature acri e violente o di
gente invelenita dalla mala fortuna, io dico: - Entratevi anche per
poco, non v'arrestate davanti alla sua parte arida o volgare, irta
di cifre o gonfia di rettorica, procedete oltre le sue lacune
nebbiose, e vedrete quante anime nobili e belle vi si son
consacrate; quanti fortunati del mondo ne sono i più ardenti
cavalieri; quante pagine forti e splendide di pensiero, quante altre
riboccanti di pietà e di amore e di tutti gli affetti
più delicati e più santi essa conta già fra le
sue; e vi troverete pure delle rivelazioni di miserie che ignoravate
e che vinceranno ogni vostra idea, ed esempi di virtù e
d'eroismo che vi strapperanno un grido d'ammirazione, e raggi
sublimi di speranza, e sogni fors'anche, ma così vasti e
luminosi che tutta l'anima vostra ne uscirà abbagliata e
commossa come da una visione dell'umanità ideale di Cristo.
Dico a quelli di voi che, essendosi già affacciati a questi
studi, ne hanno respinto alla prima le conclusioni: - Diffidate di
voi stessi, fate ancora uno sforzo per proseguire, per sciogliervi
dai pregiudizi fra cui voi ed io siamo nati, dalle idee che ci
furono inculcate con l'educazione, e dalla suggestione delle
consuetudini della vita che sono più forti delle idee; fate
ancora uno sforzo per correggervi di quel nostro difetto congenito
all'organo visivo dell'intelligenza, il quale ci fa apparire il
mondo di scorcio, atteggiato in modo che gli interessi intellettuali
e materiali della nostra classe ci si presentano come gli interessi
della società tutta quanta; fate ancora per poco questo
sforzo, che è di tutti il più difficile, poichè
si tratta d'uscir da noi stessi, e di tutti il più fecondo,
poichè, a chi lo compie, si mostra ogni cosa sotto un aspetto
nuovissimo, e gli par di ricominciare la vita dello spirito e di
avanzarsi in un mondo ignorato. E se, fatto quest'ultimo sforzo,
rimanete fermi nelle prime idee, palesatele e lottate per esse a
viso aperto, perchè nella grande battaglia sarete più
rispettati e più utili come nemici appassionati che come
scettici spettatori; e non scendete mai nello sciame innumerevole
dei farisei, che strisciano chi è in alto per ambizione e
adulano chi è in basso per paura, che commiserando con finto
affetto la plebe che disprezzano, con una mano si picchiano il petto
e con l'altra nascondon la borsa, per chiederle poi dei voti con
tutte e due.
A quelli di voi, finalmente, il cui cuore è già vinto
e batte col mio, io mando il saluto del compagno e il bacio del
fratello, e dico: - Perseverate, o prediletti, anche nel campo
più faticoso, nella parte rigidamente economica di questi
studi, perchè il periodo idillico del socialismo è
chiuso da un pezzo, perchè esso è giunto a tal grado
di maturità, che non basta più il portargli il
semplice contributo della passione: dovere di tutti ora è di
tradurre i sentimenti in idee, di rispondere ad ogni lamento del
popolo con una ricerca alacre e paziente dell'intelletto. E andate
innanzi senza alcun fine, senza attender nè sperar alcuna
gratitudine, non cercando il premio che nella soddisfazione
altissima di operare secondo coscienza, di non aver più
bisogno di mentire, nè di soffocar la voce dell'anima,
nè di mascherar l'egoismo; il che vi riuscirà assai
più facile che non pensiate, perchè la grande
quistione sociale, la quale tocca tutte le scienze come l'oceano
bacia tutte le terre, ha pure questo di benefico, che schiaccia col
peso della sua grandezza, che offusca con la forza del suo splendore
ogni meschina vanità, ogni basso interesse di colui che le si
consacra. Comprendendola degnamente, voi abbraccerete nel vostro
affetto fiammeggiante non soltanto le classi sociali che più
lo meritano e più n'han bisogno, ma pure la vostra, per la
quale v'entrerà nel cuore una sollecitudine nuova e profonda;
sentirete sorgere in voi attitudini e forze sconosciute; sentirete
nel vostro ingegno e nel vostro petto dilatati fremere il soffio
dell'umanità, come il palpito d'una seconda giovinezza,
più poderosa e più dolce di quella che già vi
ferve nel sangue e vi splende sul viso.
Voi conoscete l'immaginazione terribile del Carlyle, che raffigura
il mondo presente in una landa selvaggia e caotica, coperta di
nebbie pestilenti, gravata d'un'atmosfera di piombo, nella quale
scrosciano diluvi e guizzano lampi di rivoluzione, e per le vaste
tenebre non luccicano che le fosforescenze della filantropia, e non
v'è più stelle nel cielo. Ebbene, manca un'immagine al
quadro: una moltitudine che empie tutto l'orizzonte, estenuata e
lacera, rivolta tutta verso un punto dove biancheggia il cielo, con
le braccia stese a invocare il nuovo sole, il sole che le asciughi
le lagrime, che le riscaldi le membra, che le abbellisca la terra,
che le faccia amare la vita. Oh, questo sole splenderà,
abbiamone fede! Possiate voi, che siete giovani, vederlo sorgere, e
felici quelli che, salutando il suo primo raggio, potranno dire
nella propria coscienza: - Io l'ho desiderato ed atteso!
Torino 1892.
IV.
Per il 1.º Maggio.
agli operai.
Ringrazio l'Associazione generale dell'invito onorevole che m'ha
rivolto, e mi affretto a dire che, accettandolo, ho compreso
l'intento a cui era ispirato e il dovere che quell'invito
m'imponeva. Ho compreso che questa grande Associazione, la quale non
ha carattere politico, ed è composta di operai d'opinioni e
di tendenze diverse, intendeva di esprimere il suo consenso, in
questo giorno, a quel che v'è di comune nelle aspirazioni di
tutti i lavoratori, a qualunque partito appartengano; e che
perciò, nel commemorare qui il 1.º Maggio, - pure
dichiarando e spiegando la mia ferma fede socialista, condizione
sottintesa della mia accettazione, - avrei dovuto, non solo non
offendere in alcun modo gli uditori d'opinione contraria, ma
mantener l'animo a un'altezza, così serena, esporre il mio
pensiero con parola così cauta e pacata, da render accetto il
mio modesto discorso anche a coloro che avessero giudicato
inopportuno l'invito di cui ero onorato.
Parlare serenamente! Non mi costerà alcuno sforzo, lo potete
credere. Come si può aver l'animo inclinato alla violenza e
al rancore in un giorno di festa? Tale, infatti, è oramai il
1.º Maggio. Festa singolare, non di meno, che desta tanti
pensieri, tanti sentimenti diversi ed opposti! Pochi anni sono,
prima che il Congresso internazionale dei lavoratori, tenutosi a
Parigi nell'89, accettando la deliberazione già presa dalla
«Federazione americana del lavoro» nel Congresso di San
Luigi, fissasse alla data del 1.º Maggio la grande
manifestazione per la giornata d'otto ore, ognuno, svegliandosi in
questo giorno, rivolgeva la mente, come sempre, ai propri affari
quotidiani: era questo un giorno come gli altri per tutti. Ora, non
v'è più cittadino di paese civile, a qualunque classe
o condizione sociale appartenga, il quale, aprendo gli occhi la
mattina del 1.º Maggio, non volga i suoi pensieri sul nuovo
significato che questa data ha assunto nel mondo.
Sono, in milioni d'uomini, pensieri d'allegrezza e di speranza;
sono, in altri milioni, pensieri inquieti e tristi; è, in
molti ancora, un sentimento irragionevole di terrore; è,
anche negli spiriti più leggieri e più scettici,
questo pensiero: che v'ha in tutti i paesi una quistione, più
importante d'ogni avvenimento politico, la quale abbraccia tutti gli
interessi dello Stato e degli individui, e che può a quando a
quando e per varie cause esser dimenticata, mascherata, sopita; ma
che incessantemente, fatalmente, anno per anno, giorno per giorno,
si dilata, s'inalza, soverchia ogni altra quistione, attira a
sè tutti gli sguardi e tutte le menti come un grande fenomeno
della natura. Ed è già questo un effetto benefico, che
nessun lavoratore può disconoscere, della festa del 1.°
Maggio. E noi più che gli altri siamo indotti a meditare, noi
che abbiamo una visione più larga e più netta di
quello che accade in questo giorno sulla faccia della terra. Noi
pensiamo che in quest'ora stessa, in centinaia di città, in
villaggi innumerevoli, altre migliaia d'oratori stanno dicendo, in
dieci lingue diverse, ad altre migliaia d'adunanze come questa, le
stesse cose ch'io sto per dire a voi; noi vediamo nei grandi
sobborghi di Berlino, di Parigi e di Bruxelles, nell'Hyde-Park a
Londra, nel Prater a Vienna, nel Buen Retiro a Madrid, nel parco
Cismigiu a Bucarest, nello square dell'Unione a Nuova York, nelle
vaste piazze delle nuove città dell'Australia, dove il
1.° Maggio è già una festa ufficiale in più
Stati, vediamo per tutto legioni di lavoratori, che in forma
d'assemblee, di processioni, di cortei simbolici, di feste campestri
e di canti solenni esprimono tutti una sola idea e una sola
speranza; e a questa visione ci si commove l'anima come davanti a
uno degli spettacoli più maravigliosi di cui ci dia esempio
la storia.
E quale anima potrebbe rimaner chiusa e fredda all'udir le parole
che s'alzano da quei milioni di cuori? - Sia affrancato e onorato il
lavoro e diventi una legge per tutti - Siano confederati gli uomini
nella lotta contro la natura e abbia tregua la lotta feroce per
l'esistenza fra uomo e uomo - Cadano le barriere che dividono ogni
nazione in due popoli, e si diffondano egualmente nelle moltitudini,
come la luce nell'aria, i benefizi della civiltà, che sono
frutto dell'opera comune - Cessi lo spargimento del sangue, cessino
gli odi fra le nazioni, perchè l'ultima meta di tutte
è una sola, e occorrono a raggiungerla gli sforzi concordi
della razza umana. - Belle e sante utopie! - ci rispondono, - e la
prova che sono utopie è che sono antiche quanto la vita
sociale e non sono ancora diventate realtà. - Ah!
v'ingannate. Erano aspirazioni solitarie degli umili, erano
aspirazioni sparse e divise, che assumevano nelle menti incolte
forme indeterminate o mostruose, e prendevano forza in una gente
quando cadevano oppresse in un'altra; ma ora sono il proposito fermo
di moltitudini d'ogni paese, ordinate e alleate, che operano
concordemente e ad un tempo: la scienza le formola e le sostiene, le
forze che le comprimevano si sfasciano, la coscienza universale le
accetta; erano chiarori di lampo che solcavano la notte, e ora sono
l'alba che rischiara l'orizzonte; erano soffi di vita che scotevano
a quando a quando un'atmosfera morta e ora sono la primavera che
risveglia il mondo.
A queste aspirazioni consente, in fondo, chiunque abbia senso
d'umanità e di giustizia. Nasce il dissenso quando s'entra a
discuterle fino a che punto e in qual forma esse possano tradursi in
realtà. Studiando i fenomeni sociali e economici, noi
osserviamo l'accentrarsi progressivo delle industrie e delle
ricchezze, e il conseguente estendersi del proletariato, il
trasformarsi continuo dei mezzi privati di lavoro in mezzi che non
possono più essere impiegati che socialmente, l'incremento
del principio di cooperazione e dello spirito di solidarietà
e d'eguaglianza, e da questi e da altri cento fatti che a questi si
collegano deduciamo certe leggi, per forza delle quali crediamo che
si verrà necessariamente ad un ordinamento nuovo, in cui,
diventati proprietà collettiva della nazione tutti i grandi
mezzi di produzione, i membri tutti della società produrranno
direttamente per la società medesima; la quale, accentrando i
prodotti, li ripartirà equamente fra i lavoratori, in ragione
della qualità e della quantità del loro lavoro. I
dissenzienti ci dicono di no, affermano che un tale ordinamento non
s'attuerà mai, che è impossibile ad attuarsi
perchè vi si oppongono altre leggi, che essi ritengono, sopra
tutte le trasformazioni sociali, immutabili. Ebbene, noi non
stimiamo questa una ragiona sufficiente perchè debba
avversare il grande moto della nostra idea chi concorda con noi
nella critica della società presente e nel sentimento della
necessità d'una riforma fondamentale. Ci pare un errore il
combattere il socialismo nel suo disegno compiuto di ricostruzione
sociale, invece di considerarlo - come riconosce che si dovrebbe
anche un nostro illustre avversario - «nella sua intima
ispirazione e nell'obbiettivo generale a cui tende, nel che esso
risponde innegabilmente all'evoluzione umana»; nel che,
aggiungiamo noi, è riposta la sua vera forza. Noi,
sull'ordinamento della società futura, potremmo
ragionevolmente rifiutare ogni discussione. E anche in questo ci
danno ragione molti dei nostri più autorevoli avversari.
Potremmo rispondere con le parole loro che: «intorno ai
fenomeni sociali non sono possibili se non previsioni e predizioni
generali: riguardanti cioè l'avviamento e l'andamento
generale dei fenomeni stessi, non speciali, particolari,
individue». Potremmo domandare, come domandò il Bebel
al Reichstag, se, nel dar la mossa alla grande rivoluzione, la
borghesia francese poteva prevedere quale sarebbe stata in tutti i
particolari la struttura intima della società che ne doveva
sorgere. Potremmo dire che il pretender questo da noi è
pretender cosa superiore alla potenza della mente umana. - E
nondimeno - ci si può rispondere - voi mostrate al mondo,
come una bandiera, un programma di ricostruzione sociale compiuta. -
Ma questo è logico. Noi abbiamo scritto sulla nostra bandiera
un ideale, perchè nessun grande moto sociale è
possibile intorno a un programma di riforme circoscritte e parziali;
perchè è istinto dell'anima umana, in ogni sua
più nobile aspirazione, il mirar più alto e più
lontano della possibilità immediata di conseguire il suo
fine; perchè soltanto una grande riforma, che oltre ad
includere un riordinamento del lavoro e della proprietà,
porta con sè un profondo rinnovamento morale, sociale e
politico, e abbraccia tutte le quistioni che agitano
l'umanità, soltanto l'idea d'una riforma simile può
raccogliere intorno a sè le moltitudini e suscitar gli
entusiasmi e le forze per combattere la lotta enorme a cui siamo
chiamati. Domandiamo dunque ai nostri avversari benevoli: -
Perchè non venite con noi, voi che pure volete grandi
miglioramenti, poichè la nostra bandiera è la sola
intorno a cui si possa raccogliere l'esercito per combattere anche
le battaglie minori, per compiere anche le conquiste parziali, da
noi volute? Una sola cosa può trattenervi, ed è il
timore che la tentata attuazione d'un'idea da voi giudicata
inattuabile produca nella società uno sconvolgimento funesto.
Ma è un timore infondato. I fatti economici e sociali, che, a
nostro giudizio, debbono condurre la società all'ordinamento
da noi presagito, noi possiamo assecondarli, ma non farli nascere.
Se le leggi che deduciamo da quei fatti sono erronee, il nostro
ideale non s'attuerà. Se, giunto il proletariato socialista
al potere, non fosse ancora pronta nei suoi elementi la
organizzazione nuova che deve sostituirsi all'antica, esso si
troverebbe impotente non diciamo a compiere, ma nemmeno a tentare
una sostituzione precipitata, e dovrebbe restringersi a una serie di
riforme preparatorie e graduali. Noi primi siamo persuasi che una
trasformazione economica così profonda non si potrà
mai attuare prematuramente e con la violenza. È una
verità riconosciuta anche dai nostri più fieri
oppositori che «parallelo al presente movimento sociale corre
un movimento scientifico e razionale che lo trattiene nella giusta
misura e impedisce alla società moderna di precipitare nelle
catastrofi che hanno ucciso la civiltà antica».
Vedete dunque - ripetiamo ai nostri avversari trattabili - che quel
timore non dovrebbe trattenervi dal venire a noi. Avversando il
nostro moto, invece, non per altro che perchè non consentite
nel nostro programma ideale, voi ritardate anche il conseguimento
delle riforme vostre; voi v'opponete anche alla vittoria di quel
nostro programma minimo, che in gran parte approvate, e di cui molte
idee - di quelle, in specie, che si riferiscono alla politica
sociale dei comuni - sono già attuate o in via d'attuarsi in
molte grandi città d'Europa e d'America; voi ingrossate il
numero di coloro che respingono, come nel parlamento francese, le
più eque, le più logiche imposte, come quella
progressiva sul reddito, per la sola ragione che il socialismo le
propugna, e che condannano a morte qualunque più benefica
riforma dicendo che v'è in essa «un germe di
socialismo»; voi, finalmente, perchè credete che non si
possa giungere fin dove noi vogliamo andare, voi, che pur volete
procedere, v'arrestate all'imboccatura della strada e crescete forza
alla schiera di quegli «immobili» che voi stessi
condannate; i quali, alla loro volta, proteggono e incoraggiano, pur
non volendolo, tutti quegli altri che voltano le spalle all'avvenire
e tentano di risuscitare il passato. Dice il senatore Pasquale
Villari che non ci saranno più tra poco in Italia che tre
partiti: i socialisti, i loro avversari intransigenti, e gli
iniziatori audaci di riforme pratiche a vantaggio dei lavoratori. Ma
egli mostra di dubitare che questi iniziatori sorgano in tempo.
Ebbene, se non sorgeranno, sarà quanto abbiam detto finora
ampiamente giustificato e provato, e se sorgeranno, sarà un
negare la luce del sole il negare che sia un terror salutare del
socialismo, e non altro, che li ha fatti sorgere. Ma sarebbe troppo
tardi, temiamo. Per ciò, se anche la nostra ragione
ripudiasse la dottrina socialista, noi, con piena e ferma coscienza
d'operare il bene, ci raccoglieremo egualmente sotto la nuova
bandiera; lo faremmo non foss'altro che per ottenere il primo e
necessario risultato della prevalenza delle classi lavoratrici nella
rappresentanza legale della nazione. E questo è un punto su
cui tutti quei nostri avversari, che desiderano sinceramente un
salutare rinnovamento sociale, non possono dissentire da noi,
perchè non possono non esser persuasi che fin che gli
interessi della classe proletaria non saranno direttamente
rappresentati da cittadini appartenenti o legati al proletariato,
questi interessi non avranno mai una rappresentanza sincera e
feconda; perchè è illogico il pretendere o sperare che
una maggioranza di rappresentanti della classe superiore possa
consentire a riforme gravemente lesive degli interessi della sua
classe; perchè nessuna classe sociale votò mai
volontariamente, per puro spirito d'altruismo, la propria decadenza;
perchè ogni vantaggio, ogni conquista importante nel campo
economico non potrà mai essere che l'opera della classe che
n'ha bisogno e che v'ha diritto; perchè siamo in un momento
della civiltà umana - ed è un dotto statista
conservatore che lo disse, - in cui nessuna classe è difesa
dall'altra e bisogna che ciascuna si difenda da sè. - Ora noi
vediamo che il socialismo soltanto - lo vediamo in Francia, in
Germania e nel Belgio, - è riuscito, dopo tanti anni di
regime rappresentativo, a mandare nei Parlamenti una schiera di
rappresentanti diretti del proletariato, sufficiente per numero e
per unità d'intenti a far sentire l'azione propria
sull'andamento della cosa pubblica. Supponete pur dunque che il
programma socialista non si possa attuare mai, - ripetiamo ai nostri
avversari ragionevoli, - ma il moto socialista produrrà pur
sempre l'effetto desiderato di togliere il monopolio del potere alla
minoranza, - ostacolo precipuo ad ogni grande progresso sociale - o,
se non altro, di mettere in faccia al potere un sindacato potente,
che ne moralizzi la funzione, ne stimoli le energie e ne allarghi
gli orizzonti. Non fosse che per ottenere questo fine, ripetiamo, se
anche noi credessimo un'utopia l'ideale socialista, noi diremmo a
chi l'annunzia: - Siamo con voi. In presenza dei fatti, quello che
v'è d'utopistico nel vostro programma, cadrà. Ma
resterà questo grande fatto compiuto, necessario e benefico:
lo spostamento dell'asse sociale da una piccola classe, serrata nel
cerchio dei propri interessi, a quella grande maggioranza, i cui
interessi si confondono con quelli della nazione.
Ho detto: se anche noi credessimo un'utopia l'ideale socialista....
Non debbono dar luogo a dubbi queste parole. Certo, la persuasione
non può essere nella più parte di noi così
scientificamente fondata come è in quei molti dei nostri
compagni di fede, dotti cultori delle scienze economiche, i quali,
profondamente compresi della dottrina marxista, ne hanno dedotto con
lunghi studi tutte le conseguenze teoriche e pratiche, trovando a
tutte le obiezioni una risposta difficile a confutarsi. Si fonda
principalmente la nostra persuasione su questo: che i vizi organici
più gravi attribuiti all'ordinamento da noi voluto ci
appaiono meno gravi di quelli inerenti all'ordinamento attuale; i
quali sono gravi tanto da renderne impossibile, anche a giudizio dei
suoi difensori, una lunga durata, senza profonde modificazioni;
modificazioni che noi giudichiamo insufficienti a salvarlo. E ci
fondiamo anche più saldamente sulla ragione vittoriosa che
crediamo di poter opporre a quella che è l'obiezione capitale
messaci innanzi da tutti i nostri avversari: l'insufficienza,
cioè, del sentimento dell'interesse pubblico a sostituire
come stimolo al lavoro il sentimento dell'interesse privato, in quel
tanto che questo secondo interesse verrebbe ad essere, in una
società collettivista, diminuito. E questa ragione vittoriosa
è una verità ammessa in parte dagli avversari
medesimi: che in una società in cui tutti fossero obbligati
al lavoro, e il lavoratore fosse direttamente interessato alla
distribuzione della ricchezza, la repugnanza istintiva al lavoro
stesso sarebbe grandemente scemata; e che questa repugnanza
scemerebbe ancora (e noi crediamo che si muterebbe in propensione)
quando per effetto della cooperazione di tutti, della cessata
concorrenza, del riscatto della macchina dalla speculazione privata,
fosse ancora del lavoro quotidiano abbreviata la durata e
alleggerita la fatica. Ci rispondono che noi esageriamo con
l'immaginazione la grandezza di questi effetti. Ma questa è
una quistione di fede, sulla quale non giova discutere; di quella
fede nella natura umana, senza la quale non si sarebbe mai fatto
nè tentato nulla d'ardito e di grande nel mondo, e che basta
per sè sola a render possibili molti di quei fatti che sono
considerati come sue proprie illusioni. Una prevalenza relativa del
sentimento collettivo sull'individuale (della quale, in occasioni
straordinarie, si vedono pur tanti esempi anche nella società
nostra) noi non dubitiamo che avverrebbe in un ordinamento sociale
in cui la sua necessità apparisse evidentissima, come
è ora in una piccola associazione, e in cui gli animi non
fossero più offesi e scoraggiati dallo spettacolo
dell'agiatezza oziosa, delle smisurate disuguaglianze economiche e
delle mille ingiustizie e degli infiniti privilegi presenti. Noi
attendiamo da un mutamento così grande di cose un mutamento
psichico meraviglioso. Ecco il punto da cui nessun ragionamento
avversario ci può smovere, il fondamento su cui posiamo il
nostro edifizio. Per quali vie, poi, e a traverso a quali vicende si
perverrà alla meta che ci par sicura; se il socialismo,
continuando a estendersi nel mondo civile, serberà un tipo
unico o s'informerà allo spirito e ai bisogni particolari di
ciascun popolo; se s'attuerà «mediante una produzione
collettiva nazionale, parziale o regionale» diventando il
comune trasformato, per esempio, un nuovo e potente organismo
economico; o se pure la società, prima di giungere
all'ordinamento socialista, passerà per uno stadio
cooperativo di grandi associazioni, che andranno scemando di numero,
fino a ridursi ad una sola, la quale fonderà insieme i vari
sistemi di collettivismo; ed anche «qual criterio misuratore
del valore finirà con trovar l'esperienza aiutata dalla
scienza, se la durata media del lavoro richiesto o il medio consumo
delle forze che esso esige» o altri concetti che non
può afferrar per ora la nostra mente, perchè
preoccupata e quasi compressa dai fatti presenti; questo noi non
possiamo dire, nè altri ci deve chiedere. Quello che è
evidente alla nostra ragione, certo nella nostra coscienza è
che in fondo a tutte le vie convergenti del progresso economico e
del progresso civile sta, inevitabile, l'organismo sociale che
è nei nostri voti, ossia: la nazione costituita in una
cooperativa gigantesca di produzione, di provvisione e di
assistenza.
Questa fede si ravviva in noi in questo giorno, nel quale sogliamo
riandar col pensiero l'opera della nostra già vasta famiglia,
e rallegrarcene fra di noi, fraternamente. Ciò che ci
rallegra non è tanto il duplicato numero dei nostri
rappresentanti entrati da due anni nel Parlamento e il numero
notevolissimo di quelli che entrarono nelle Amministrazioni
comunali, quanto la prova d'altera fermezza data dal nostro partito
in un periodo di persecuzione implacabile; durante il quale, su
migliaia di nostri compagni tratti in giudizio, non furono che
rarissime eccezioni quelli di cui non abbiano attestato la
specchiata onoratezza cittadini d'ogni classe sociale e d'ogni parte
politica. Quello che ci conforta non è tanto la valorosa
costanza con cui il partito tenne viva per tre anni l'agitazione
pubblica in favore di una amnistia che era nel desiderio di tutti
gli animi onesti, quanto l'esempio di dignità civile dato
nelle dimostrazioni di gioia e di affetto ai liberati, non turbate
neppur da un principio di quei disordini, il cui timore era servito
di pretesto a ritardare un atto di giustizia solenne. E ci
compiacciamo non meno che sia venuto dal partito nostro il primo e
più forte impulso a una grande manifestazione pubblica contro
una politica coloniale forsennata e nefasta, alla quale egli solo -
il partito socialista - antiveggente pur troppo, - fu sempre
fieramente, implacabilmente nemico. Ma anche più di questo ci
è grato l'osservare come le nostre idee, per effetto d'una
propaganda razionale, si vadano sempre più chiarendo e
ordinando anche nella mente dei meno colti lavoratori intorno al
concetto fondamentale della conquista graduale e legale dei poteri
pubblici. Ci è anche più grato il riconoscere come
l'idea socialista diventi in molti di essi il principio impulsivo
d'un'auto educazione intellettuale, che li mette in grado in breve
tempo d'intervenire a discutere d'interessi cittadini anche in
riunioni d'altri partiti, dove si comincia ad ascoltare e a
rispettare la loro parola. Ci è un'alta soddisfazione,
finalmente, il veder costituirsi da ogni parte, sotto la nuova
bandiera, nuovi corpi elettorali concordi e disciplinati che
spiegano nella lotta un'operosità così appassionata e
sagace ad un tempo, da destar l'ammirazione anche dei più
inconciliabili avversari, e che mettono in evidenza, non solo nelle
occasioni straordinarie, ma nel lavoro, nell'organizzazione, nella
vita socialista d'ogni giorno, tanti caratteri virili, tante fibre
infaticabili, tanta gioventù coraggiosa e generosa, ardente
d'entusiasmo e di fede.
Davanti a questi fatti, molti pregiudizi sono caduti, molte calunnie
non hanno più eco. Non son più che i ciechi di mente e
i malvagi d'animo quelli che ardiscono ancora di far risalire al
partito socialista la colpa di delitti individuali, atroci per
sè e insensati per il fine a cui mirano, funesti a noi,
più che agli altri per le reazioni liberticide che provocano,
commessi in nome d'un ideale che non è il nostro, e che noi
combattiamo senza tregua, e a cui strappiamo proseliti ogni giorno.
Ma quanti altri pregiudizi persistono, propagati dall'interesse,
mantenuti dall'astuzia, accolti facilmente dall'ignoranza e dalla
paura! Voi sapete quali siano, ed io non esco dall'argomento
confutandoli, poichè è naturale che a noi prema di
dimostrare a quanti, pur non accettando la nostra dottrina,
festeggiano il 1° Maggio, che il concetto di questa festa, cara
anche a loro, non è nato in mezzo a sentimenti e a propositi
che possano gettare un'ombra sulla sua ideale bellezza.
Nemici della civiltà! Così fummo chiamati, anche
ufficialmente, perchè il progresso della civiltà - a
quanto si afferma - sarebbe dall'ordinamento socialista ritardato o
impedito. Ma vediamo. Doppio è il movimento della
civiltà: l'uno è d'avanzamento, l'altro è di
diffusione, e nello stato attuale delle cose il secondo è
così incerto e tardo da render vano in gran parte anche il
primo. Idee, cognizioni, agi della vita, varietà e
raffinatezza di godimenti sensuali e intellettuali, tutto procede;
ma rimanendo circoscritto in un così piccolo numero d'uomini!
La società è come un esercito disordinato, mal
nutrito, gravato di pesi enormi, al quale va dinanzi, precedendolo
di una distanza smisurata, un'avanguardia di cavalieri brillanti e
armati di tutto punto, che vincono delle battaglie, a cui il grosso
dell'esercito non partecipa, e di cui non raccoglie quasi alcun
frutto. Lo disse anche in Francia, ora è poco, uno dei
più eloquenti interpreti del nostro pensiero.
«L'umanità fu finora obbligata a riservare alla
minoranza la cura di condurre a suo vantaggio la civiltà e di
creare delle forme nuove d'esistenza a cui la moltitudine non poteva
arrivare che più tardi». Ebbene, sarà impedire
il cammino della civiltà il volere che, per mezzo d'un
impiego più razionale degli sforzi umani, ora antagonisti, la
società tutta insieme compia il suo progresso in pro della
società tutta intera? O come mai? Sarà nemico della
civiltà chi, alleggerendo il peso opprimente del lavoro
meccanico, vuol sollevare le moltitudini a una vita più
spirituale, che è quanto dire più umana; chi,
attenuando la lotta per la vita con l'organizzazione del lavoro e
una miglior distribuzione dei beni, vuol che sian volte al progresso
vero le infinite forze che si sperperano ora per la conservazione
dell'esistenza e in conflitti infecondi; chi a una civiltà
disprezzata e odiata dai più come un privilegio dei meno vuol
sostituita una civiltà amata da tutti come un bene e una
gloria comune? Sarà nemico della civiltà chi vuole che
cessi finalmente questa miseranda finzione di dir con orgoglio: -
Noi, nazione civile.... - mentre nella nazione a cui s'accenna, in
mezzo alle glorie della scienza e agli splendori del lusso e delle
arti, perdurano in milioni d'uomini superstizioni di medio evo,
ignoranze di selvaggi, miserie di paria, condizioni e forme di vita
che ci fanno rivivere davanti agli occhi la prima età della
pietra? Sarà nemico della civiltà chi vuole che questo
cessi e amico della civiltà chi consente che questo duri?
Negatori della patria! Ecco un'altra accusa, contro la quale ogni
fibra del nostro cuore si rivolta. Se il concetto della patria
s'identifica col concetto della sua unità e della sua
indipendenza, con qual coscienza si possono chiamar «negatori
della patria» i socialisti, per i quali è un assioma
storico la sentenza dell'Engels, uno dei loro grandi maestri: che
senza la autonomia e l'unità restituite a ciascuna nazione,
nè l'unione internazionale del proletariato, nè la
tranquilla e intelligente cooperazione delle nazioni a un fine
comune si potrebbero compiere? Avversari del concetto di patria non
siamo; ma di coloro che le patrie mirano a dividere per giovarsi
della loro divisione, primo impedimento necessario alla vittoria di
quell'ideale comune a tutte le moltitudini proletarie, che non
può essere l'ideale loro. Essi fanno una cosa sola dell'amor
di patria e dell'orgoglio nazionale. E anche noi abbiamo il nostro
orgoglio nazionale. Ma il nostro è di natura diversa:
è un orgoglio nazionale che vorrebbe che dalla nazione non
fossero costretti a esulare ogni anno, per cercare un pane
straniero, duecento mila dei suoi lavoratori, mentre nella terra che
essi abbandonano, capace di tutti i prodotti di tutte le terre
più fertili, rimangano ancora, o per incuria dei proprietari
o per mancanza d'opere di bonificamento, quasi cinque milioni di
ettari di suolo incolto, e altri dodici milioni che potrebbero
fruttare il doppio di quanto fruttano. È un orgoglio
nazionale il nostro, il quale vorrebbe che fossero purgate della
malaria la metà almeno delle nostre provincie, che fosse
tolta alla patria la vergogna lacrimevole dei suoi centomila
pellagrosi, che il nostro paese non fosse fra gli ultimi d'Europa
sulla via della legislazione sociale, che vi fossero sacri e
inviolabili i diritti politici conquistati coi sacrifizi e col
sangue di tutti, che per vane ambizioni di grandezza, calpestando i
principii in nome dei quali siamo risorti, non si sperperassero a
migliaia di miglia dai suoi confini le carni e le ossa dei suoi
figliuoli. Coloro che, sentendo nel più profondo dell'anima
la pietà di queste miserie e lo sdegno di queste vergogne,
combattono con tutte le loro forze perchè le une e le altre
abbiano fine, e credono che dinanzi all'orgoglio patriottico debba
andare la carità fraterna, no, costoro non rinnegano la
patria, costoro sono i soli che l'amino e la servano sapientemente.
L'immagine della patria, per essi, è una madre amorosa,
equanime con tutti i suoi figli, non ambiziosa che della loro
prosperità e del loro affetto, e della fama di onesta, di
civile e di benefica; non un'amazzone gonfia di boria, stoltamente
fastosa in pubblico e crudelmente pitocca in casa, che si benda gli
occhi con la bandiera e cerca la gloria nel sangue.
Un'altra accusa è di eccitare all'odio una classe sociale
contro l'altra. Ebbene, no, non lo credete, non è vero.
Certo, in ogni grande famiglia di propagatori d'un'idea, anche delle
più sante idee, vi sono i violenti di natura, a cui nessuna
considerazione del comune interesse, nessun consiglio dei compagni
di fede può moderar la parola. Vi sono gl'immoderati anche
nel partito moderato, vi sono i provocatori anche fra i predicatori
del Vangelo, vi furono i violenti anche fra i Santi. E noi non
neghiamo, d'altra parte, che dinanzi a certi abusi mostruosi del
potere e della fede pubblica, e quando vediamo all'oppressione dei
deboli aggiungersi l'inganno e la derisione, ci prorompono
dall'animo parole amare e iraconde. Nè di questo noi ci
scusiamo. Ma accusarci d'istigare all'odio, solitamente e per
proposito, una classe contro l'altra, è un assurdo, è
accusarci d'operare coscientemente contro gl'interessi della nostra
causa. Il detto che «la miseria nasce non dalla
malvagità dei capitalisti, ma dal vizioso ordinamento della
società» sta scritto in fronte, come una parola
d'ordine, al più antico e più popolare dei giornali
socialisti d'Italia. - «Se voi foste al posto dei vostri
padroni, fareste com'essi fanno, perchè non potreste fare in
altro modo» è la frase più sovente ripetuta da
chi fa propaganda della nostra idea, appunto per persuadere i
lavoratori che il rimedio ai mali non è da attendersi dagli
individui, perchè questi non vi potrebbero porre rimedio
neanche se avessero tutti le intenzioni più generose. E come
sarebbe altrimenti? Noi miriamo a conquistar la coscienza e la
volontà del gran numero per via della persuasione, e a render
atti gli uni a persuader gli altri. È dunque nostro interesse
di spegnere, non di attizzare gli odî sociali; perchè
se in cuore all'uomo incolto noi suscitiamo l'odio, gli oscuriamo
l'intelligenza, ossia lo distogliamo dalla riflessione, e ritardiamo
il progresso del suo pensiero, senza del quale è vano lo
sperare di farne un proselito utile e sicuro; e perchè la
passione si spegne con la stessa facilità con cui s'accende,
o consumando sè stessa o estinguendosi per effetto d'un
conseguito miglioramento delle condizioni individuali; e
perchè essa è un costante pericolo per tutti,
spingendo l'individuo ad avventatezze, di cui su tutti ricade la
colpa. No, noi non vogliamo far dei violenti: questi sono la nostra
debolezza, non la nostra forza; noi vogliamo far dei convinti, dei
risoluti, dei tenaci. No, noi non siamo seminatori d'odio, noi che
portiamo fra gli uomini la parola della fratellanza e della pace. La
nostra forza non è l'odio nè l'ira; la nostra forza
è la ragione, la volontà, la fede, l'entusiasmo,
l'amore.
- Nemici della proprietà - siamo anche chiamati, e questa
definizione, così nuda e assoluta, è piena d'astuzia,
perchè include, senza esprimerla, una vaga accusa di meditato
latrocinio universale. Ma esprime falsamente il nostro concetto
perchè sostituisce l'idea di «soppressione» a
quella di «trasformazione» d'un istituto che si
modificò variamente nel corso dei tempi, e che è per
natura sua soggetto a trasformarsi secondo le condizioni e i bisogni
della società che l'ha fondato. È una definizione
falsa perchè nega tacitamente il carattere di
proprietà alla forma collettiva, che fu la prima forma di
proprietà del consorzio sociale, e di cui sussistono e si
riproducono mille esempi parziali anche nei tempi presenti. È
una definizione falsa perchè estende il nostro concetto della
proprietà collettiva dai grandi mezzi di produzione a tutti
gli altri oggetti di proprietà, che sono naturalmente esclusi
dal collettivismo; il quale non impedisce nè il risparmio,
nè l'accumulamento, nè la trasmissione del risparmio,
nè il possesso, nè la trasmissione di tutto quanto non
serva a produrre ricchezza. È ancora una definizione ingiusta
perchè esclude l'idea della presa di possesso mediante un
equo risarcimento; ammesso il quale, essa non riesce una violenza
più che tale non sia l'attuale espropriazione legale per fini
d'utilità pubblica; e perchè tace che l'appropriazione
collettiva, come nel campo della proprietà industriale, per
esempio, così in altri campi, non si opererebbe che in quei
rami di produzione in cui la concentrazione dei capitali ha
già distrutto la piccola proprietà fondata sul lavoro;
e anche perchè è in contraddizione formale con la
ragione prima del collettivismo, fondato appunto sul concetto
«conservatore» che la proprietà è
indispensabile al pieno e compiuto svolgimento della
personalità umana; svolgimento che è possibile
soltanto in una società in cui posseggano tutti una parte del
bene comune, e che non è possibile se non a pochissimi nella
società attuale, dove nove decimi della popolazione nulla
possiedono, nè sperano, nè quasi possono sperare di
mai possedere. È una definizione insidiosa, infine, e
un'accusa che ci offende perchè tende a convertire nell'animo
di chi possiede l'idea d'una lontana, legale e necessaria
trasformazione della proprietà in quella d'un imminente
pericolo di spogliazione tumultuaria. E ripetiamo che è una
definizione astuta perchè con questo terrore d'una grande
ladreria collettiva, che si potrebbe commetter domani, storna
l'attenzione pubblica dalle grandi ladrerie individuali, che si
commettono oggi.
Anche «nemici della famiglia» sono chiamati i
socialisti. E in questo, come in altri argomenti, si vuol
considerare come articolo del nostro programma un'idea di pochi o di
molti, contro la quale ogni socialista, che non l'accetti, si
può ribellare con ogni sua forza senza cessar perciò
d'esser socialista; un'idea che non è propria del socialismo,
poichè, per non citare che un solo esempio, è il
nostro avversario più formidabile quell'Erberto Spencer, il
quale dice che verrà tempo che l'unione per l'affetto
sarà considerata come più importante di quella per la
legge, e saran fatte segno alla riprovazione pubblica quelle unioni
coniugali in cui il legame dell'affetto sarà spezzato. Con
questa espressione corrente: vogliono abolir la famiglia, l'idea
socialista è snaturata e capovolta. No, non è voler
«abolire la famiglia» il vituperare il matrimonio
mercantile per cui s'avviliscono le anime e degenera la razza; il
voler il matrimonio «fondato sulla spontanea scelta affettiva
e sopra una libertà limitata dal dovere morale rispetto al
coniuge e dal dovere positivo rispetto ai figliuoli»; il voler
fatta alla donna nella famiglia una più equa condizione
legale; il volere un più efficace intervento sociale nella
famiglia stessa per assicurare lo svolgimento integrale e
l'educazione del fanciullo; lo sperare, infine, che venga un tempo
in cui il sentimento della dignità propria, il rispetto della
dignità altrui e un'alta coscienza del dovere possano
costituire nei matrimoni e nella famiglia vincoli e garanzie anche
più forti di quelle che esige e assicura la società
presente. O come saranno nemici della famiglia quelli che più
strenuamente combattono lo sfruttamento industriale della donna,
appunto perchè alla famiglia è funesto? quelli che
più ardentemente propugnano la redenzione del fanciullo dal
lavoro precoce, appunto perchè alla famiglia non sia
strappato e nella promiscuità con gli adulti corrotto? quelli
che più altamente invocano sollievi e rimedi alla grande
piaga della miseria, appunto perchè la miseria corrode gli
affetti domestici, avvelena l'infanzia, dissolve la famiglia?
Domandate se vogliono abolir la famiglia a quei buoni lavoratori che
per soccorrer la moglie e i bambini del compagno cacciato in carcere
per reato di pensiero smungono senza rammarico la loro povera borsa;
domandate se vuole abolir la famiglia a quell'onesto operaio che
affronta lietamente pericoli e sacrifici per la nostra Idea, non con
la fede di migliorare la propria sorte, ma con la sola vaga speranza
di preparare al suo sangue un avvenire migliore! Andate a domandare
a quella povera madre rediviva, che soffocò contro il suo
seno il grido di gioia e d'amore di Garibaldi Bosco liberato,
andatele a domandare se il suo figliuolo adorato vuole «abolir
la famiglia!»
Vogliono distruggere la religione, - dicono ancora. E in qual
programma del partito socialista di qualsiasi paese s'è mai
trovato iscritto questo proposito? O meglio: in qual programma
socialista non è detto esplicitamente che per il socialismo
la religione è «un affar privato» ossia un affar
di coscienza, in cui la comunità non ha diritto
d'intervenire? E sarà il partito, che vuole una
libertà assoluta di pensiero, quello che vorrà
sopprimere la libertà della fede? Sarà il partito che
dice a tutti gli infelici: - Sperate! - quello che vorrà
segnare un confine alla speranza umana? No, in questo, come in altri
argomenti, si scambiano opinioni individuali con un articolo di
dottrina. A me, come ad ogni altro socialista fermamente credente
nella dottrina economica e politica del socialismo, tutti i
socialisti della terra raccolti insieme non potranno mai far dire
che non credo in Dio, se ci credo, nè impedire di far
propaganda, in mezzo a loro stessi, della mia fede. No, le ragioni
del dubbio e le ispirazioni della fede stanno al di fuori d'ogni
sistema di idee politiche e sociali; la speranza in una vita
immortale sta al di sopra d'ogni concetto che si possa avere dei
destini terreni dell'umanità, come il mistero della creazione
sta al di sopra della scienza; e n'è una prova che in tutti i
partiti politici, in tutti gli ordini della scienza, in tutti i
cerchi della società si trovano credenti ed increduli. No,
buone madri, non siamo noi che vorremo mai soffocare nel cuor vostro
quella fede in cui noi stessi siamo nati e cresciuti. Noi diciamo
invece a ciascuna di voi: - Educa alla tua fede il tuo fanciullo,
infondigli nel cuore la tua santa speranza, fagli giunger le mani
davanti all'immagine di colui che è morto per l'ideale della
giustizia, della pace e dell'uguaglianza fra gli uomini. Ma
insegnagli pure - soggiungiamo subito - che è falsa religione
quella che non è accompagnata da una operosa pietà
della miseria e da un amore intrepido della giustizia, e che se
nello spirito del credente entra la persuasione che un nuovo
ordinamento sociale possa prevenir la povertà, attenuare i
dolori, scemare gli odî, le violenze e i delitti, che
funestano e disonorano l'ordinamento presente, è empio,
è assurdo il credere che Iddio gli vieti di prepararlo e di
affrettarlo con la parola e con l'opera, e possa dirgli un giorno: -
Tu fosti buono, pietoso e generoso; ma fosti socialista, e io ti
danno. - E ditegli ancora che il buon Dio non può amare il
credente che, in mezzo a tanti bisogni e conflitti umani, incrocia
le mani oziose, fissando gli occhi nel cielo per non vedere la
terra; ditegli ch'Egli dice a costui: Disgiungi quelle mani inerti:
stendine una a soccorrere gli oppressi ed arma l'altra per
combattere chi opprime; il grido di giubilo dei consolati e dei
redenti è la miglior preghiera che possa far salire a me
l'anima tua.
Ci si può dire: - Codesta è la vostra difesa, e noi
sospettiamo che sia piena di concessioni e di cautele. Ciò
che vorremmo conoscere è quello che voi dite nella vostra
propaganda individuale, e che forse non ripetete a noi, in un giorno
come questo. - Ebbene, e noi vi chiamiamo ad analizzare il sottile
veleno che distilliamo nella propaganda d'ogni giorno, e non quello
soltanto che riserbiamo al lavoratore, ma anche quello che tentiamo
di versare nell'animo di gente d'ogni classe, d'ogni età e
d'ogni stato sociale; poichè non ci rivolgiamo soltanto ai
più facili a conquistarsi per insufficienza di cultura o per
predisposizioni di interessi individuali; ma anche a quelli che son
più difficili e per ragioni di cultura e per ragioni
d'interesse.
Noi diciamo al lavoratore: - Bada: a questo grande movimento sociale
che si svolge in tuo favore non basta che tu assista con animo
favorevole; tu lo devi aiutare. Il primo impulso alla redenzione del
lavoro deve venire da te. Se vuoi che il mondo ti saluti devi portar
alta la fronte; ma per portar alta la fronte bisogna levar l'animo
in alto. Se vuoi entrar nell'esercito della nuova Idea, devi
sacrificare a questa una parte del tuo riposo e della tua pace; devi
compiere con più caldo zelo i tuoi doveri di operaio, ma
resistere a chi vuol soggiogare la tua coscienza di cittadino; devi
soffocare sotto la disciplina del partito rancori e gelosie; fare
uno sforzo intellettuale faticoso per appropriarti gli argomenti ed
acquistar la parola con cui si giustificano e si dimostrano
appagabili le tue aspirazioni; devi imparare, migliorarti, dare
esempio di dignità di vita, di equità, di bontà
d'animo, non soltanto in cospetto alle classi superiori, ma fra i
tuoi compagni e nella tua famiglia; devi fare quanto è in
poter tuo per far rispettare ed amare in te la santa bandiera a cui
consacri il cuore e affidi il tuo diritto e la tua speranza.
Diciamo alla moglie del lavoratore: - Non trattenere tuo marito, per
vane paure, dal venire con noi, se la coscienza lo muove.
Raccomandagli la prudenza, ma non gli consigliare la viltà.
Sono innumerevoli donne paurose come te che in tutti i tempi
ritardarono il cammino delle idee più grandi e benefiche. Non
temere; non in mezzo a noi egli troverà gli amici scioperati
che lo possono traviare: non siamo noi, povera donna, che vorremmo
strapparlo al tuo cuore. Rinunzia a qualche ora della sua compagnia
e lascia ch'ei venga; egli tornerà a te più contento
per la coscienza d'un dovere compiuto, e con la mente rischiarata di
nuove idee, e anche col cuore meglio disposto all'affetto,
perchè nella compagnia che tu temi gli si apre lo spirito
alla vita del pensiero, gli s'insegna il rispetto della donna, gli
s'inspira l'amore pei deboli e la pietà per tutti i dolori
umani. Non contrastarlo, perchè gli turberesti l'animo senza
farlo più tuo; fa ch'egli si confidi con te, accogli le sue
speranze, sostieni la sua fede, e una nuova forza stringerà
insieme le anime vostre, e tu sarai una seconda volta sua sposa.
Diciamo alla madre del giovane studente: - Perchè t'affanni
per il tuo figliuolo, come se la via per cui s'è messo con
noi fosse la via della perdizione? Se tu gli leggessi dentro
all'animo, saresti lieta e altera del tesoro ch'egli vi chiude. Il
sentimento che lo muove è quello stesso che spinge te a
metter l'obolo della carità nella mano del vecchio e del
fanciullo abbandonato: è lo stesso sentimento ingrandito,
esteso a milioni di creature umane, illuminato dalla speranza di
bandire dalla società tutte quelle miserie e quei mali da cui
sei commossa tu pure: ma soltanto quando li vedi personificati in un
infelice che mendica. Vedi: il suo ingegno e i suoi studi, prima che
utili a lui, sono già utili agli altri. Nella lotta che
combatte con noi egli matura precocemente il suo senno, innalza il
suo carattere, fortifica le sue facoltà. Lascia che vada fra
i lavoratori, dove acquista un concetto austero della vita, e si
spoglia del suo egoismo di classe, e impara il rispetto della
povertà e del lavoro. Lascia che mescoli il suo soprabito
signorile con quelle rozze giacchette, sotto a cui battono dei cuori
che lo amano. Non gli contrastare il passo quando va a cercarle;
bacialo in fronte e digli: - Va. - È la voce del tuo buon Dio
che lo chiama.
Diciamo al modesto borghese, sia egli un piccolo proprietario di
terre, oppresse dall'imposta e destinate a ingrandire prima o poi il
latifondo, o un piccolo industriale, ogni giorno più
impotente a sostener la concorrenza della grande industria, o un
piccolo commerciante, condannato a cader vittima presto o tardi
dell'accentramento dei commerci, diciamo a ciascuno di costoro che,
per un'ambizione scusabile nella società presente, avviano
con grandi sacrifici i loro figliuoli alle professioni liberali: - O
tu, che ti dichiari nostro nemico, considera un lato solo della
grande quistione: vedi se, perdurando questo furore d'innalzarsi
nella gerarchla sociale, - effetto delle troppo dure condizioni
materiali e morali della vita del lavoratore, - vedi se i figli dei
tuoi figli non si troveranno ridotti a lottare con una concorrenza
così formidabile, da render la lotta disperata. Vedi se per
prevenire questo danno ci sia altro modo che quello di stabilire
l'equilibrio fra i due fattori, intellettuale e meccanico, della
produzione sociale, mettendo il lavoro propriamente detto in tali
condizioni da non esser più sfuggito da quanti possono come
un castigo di Dio; ciò che è il primo intento del
socialismo. Vedi se, non giungendo a questo, la società non
sia condannata a morire d'una pletora di laureati famelici e di
spostati rabbiosi. Fa tacere per poco la tua ambizione, fissa lo
sguardo nell'avvenire e ti persuaderai che, pure avendo l'aspetto di
tuoi nemici, siamo veri amici dei tuoi figli e dei figli loro.
Diciamo allo scienziato e all'artista: - Come puoi tu, uomo di
scienza, sospettar nemica tua una dottrina che sopra una fede
illimitata nel progresso della scienza in larga parte si fonda, che
dal perfezionamento della macchina, dalla prevalenza
dell'agricoltura razionale, dallo sfruttamento scientifico di tutte
le forze della natura attende ad un tempo e una diminuzione dello
sforzo umano e una raddoppiata produzione? Come puoi tu, scrittore e
artista, temere il trionfo d'una dottrina che vuole estendere a
tutti, nella maggior misura possibile, i godimenti dello spirito, e
centuplicare con questo il numero degli uomini atti a comprendere
l'opera tua? E se la società futura chiedesse a te,
scienziato, il sacrifizio di volgere la tua scienza a fini
più direttamente umani, e a te, artista, quello di scendere
più spesso dall'altezza del tuo lavoro libero all'ufficio di
educatore delle moltitudini, come non vi parrebbe dolce un tal
sacrifizio, ricompensato da una tanto più diffusa ammirazione
e più vasta gratitudine? E come non sentite che un più
alto dovere di generosità e di sacrifizio è imposto ai
privilegiati dell'intelletto, a coloro che portano sulla fronte
dalla nascita questo segno luminoso della predilezione del destino?
Diciamo all'umanitario, al filantropo: - O tu che combatti l'opera
nostra, perchè credi la carità sufficiente a risolver
la gran quistione che affanna il mondo, disingannati in faccia
all'evidenza dei fatti, e vieni con noi. No, non si scioglie la
quistione con la beneficenza. Non si feconda una vasta terra
portandovi l'acqua ad orciòli; ma spandendovi per una rete di
larghi canali l'onda inesauribile della montagna. La tua
carità non può nulla per i milioni d'uomini a cui
è intercettata legalmente, per forza delle cose, una troppo
gran parte dei frutti del loro lavoro; è impotente davanti al
grande fatto della disoccupazione, prodotto dalle crisi disastrose,
che derivano dall'anarchia della produzione; e può far meno
ancora per quella grande moltitudine lavoratrice, alla quale il pane
non manca, ma che domanda una diminuzione di fatica, un'educazione
civile, un posto più onorato nel mondo, a cui non ha meno
diritto che al pane. No, i rimedi che ti consiglia il cuore non
bastano; occorre che tu dia l'opera della tua ragione. Vieni con
noi, poichè il tuo cuore è buono; e senza lasciare
l'opera della carità, domanda con noi la giustizia; solleva i
miseri, ma lavora tu pure a sradicar la miseria; conforta i vinti,
ma aiutaci a preparare una società, in cui, per quanto lo
concedono la natura e la fortuna, non ci siano più nè
vinti nè vincitori.
Diciamo al ricco: - Se ti dice la ragione che è giusta la
nostra causa, e ti trattiene dall'abbracciarla il timore di
affrettare per te e pei tuoi figli la perdita della ricchezza, tu
vivi in un inganno. Proseguendo così le cose, non sarà
il socialismo che ti toglierà il tuo bene; saranno le
catastrofi politiche e finanziarie a cui conducono inevitabilmente
il militarismo, la guerra, il debito, il disordine, inseparabili
dall'ordinamento sociale che difendi. La caduta lontana della tua
fortuna non sarà effetto della dottrina socialista; ma delle
grandi necessità sociali e economiche da cui la dottrina
è nata, e per cui si diffonde. Tu temi rivoluzioni,
sconvolgimenti, rapine! Ma se è tutto questo appunto che il
socialismo mira a impedire, contenendo le passioni violente che
soffocano il germoglio delle idee feconde, prevenendo le rivoluzioni
col sollecitar l'evoluzione, scomponendo e rifacendo l'edificio a
mano a mano, perchè la società non abbia a rimanere
mai sconvolta e atterrita in mezzo a un campo di macerie. Come non
comprendi che questo movimento immenso tende al bene di tutti?
Abbraccia la nostra causa, e combattendo per essa, tu che hai la
ricchezza, darai un esempio, tu che hai l'indipendenza, sarai una
forza, e ti sentirai libero dai due peggiori tormenti della tua
vita, che sono la smania d'acquistare e il terrore di perdere,
perchè la coscienza d'esser giusto e magnanimo varrà
per te il più prezioso dei tesori, sarà la sola, vera
felicità che nessun evento, nessuna forza potrà
strappar dal tuo cuore.
E al fanciullo del ricco, finalmente, noi rivolgiamo questo
discorso: - Tu sei nato nell'agiatezza. Se vorrai conquistarti un
posto onorato nel mondo, ti costerà assai men fatica che agli
altri, perchè sarai come un uomo armato in una lotta in cui
quasi tutti gli altri sono inermi. Sei sicuro fin d'ora che non
avrai mai da patir privazioni, mai da umiliarti per non perdere il
pane, che potrai essere facilmente buono, onesto, rispettato,
contento. Ora, vedi quanta miseria v'è intorno a te, quante
dure fatiche che danno appena da vivere, quanti milioni di fanciulli
lasciati nell'ignoranza e nell'abbandono, quante famiglie ridotte
all'indigenza senza colpa, quante disuguaglianze ingiuste, quanti
dolori senza speranza, e quante ire e quanti odî. Ebbene, se
ti dicessero che v'è modo di far sì che tutte queste
miserie siano scemate, che il lavoro non manchi a nessuno e sia reso
men duro a tutti, che tutti i fanciulli possano istruirsi e
educarsi, che le disugaglianze ingiuste scompaiano, che gli
odî di classe si spengano, che la società diventi come
una grande famiglia, in cui, se non la felicità regni almeno
la pace; ma che per ottener tutto questo bisogna che tutti i ragazzi
come te rinunzino alla loro sorte privilegiata, rientrino nelle
condizioni comuni, e si rassegnino a lavorare e a lottare per vivere
modestamente come tutti gli altri, consentiresti tu al sacrifizio? E
il fanciullo ci risponde immediatamente, irresistibilmente: - Oh,
sì, vi consentirei! E come si potrebbe non consentirvi? - E
noi non gli diciamo più altro: gli abbiamo messo il buon
germe nel cuore.
Questi sono i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Se non sono
ogni giorno dell'anno così benevoli, nè espressi
sempre con parole così miti, non è perchè
tacciano nel nostro cuore: è perchè siamo uomini,
ossia per natura deboli, soggetti all'orgoglio, facili a irritarci
della calunnia, e anche perchè è troppo sovente offesa
in noi quella libertà di pensiero e di parola, che è
una sacra eredità lasciataci dai nostri padri e dovrebbe
essere una condizione inviolabile del nostro patto nazionale. Ma
ogni anno, in questo giorno, noi rinnoviamo sinceramente il
proposito di mantener sempre l'animo e la parola alti come la nostra
Idea. Non è questo l'ultimo degli effetti benefici della
festa del 1° Maggio. E noi confidiamo che questa festa
sarà celebrata ogni anno con più serena
dignità. Oh certo, essa sarà ben più splendida
e più solenne nell'avvenire! E non sarà celebrata
soltanto nelle strade e nelle assemblee; ma anche nelle famiglie,
nelle quali tutte l'idea socialista finirà con lo stringere
quei vincoli, che ora in molte rallenta, e spezza in alcune.
Sarà il giorno in cui le coscienze e i cuori restii, vinti da
lento lavoro della ragione e dalla forza degli avvenimenti, faranno
atto di dedizione e di riconciliazione con le persone amate; il
giorno in cui il padre dirà al figliuolo: - Sì,
figliuol mio, sei tu che hai ragione, sei più buono e
più giusto di me, non son più soltanto tuo padre, sono
un tuo compagno; - il giorno in cui la moglie dirà al marito:
- T'ho contrariato, perdonami; non ti comprendevo, ora ti comprendo;
e tutta l'anima mia è con te e per la tua causa; - il giorno
in cui la madre dirà a suo figlio: - Mi arrendo; vedo ora
dov'è la verità e la giustizia; la tua festa del
1° Maggio sarà d'ora innanzi anche la festa di tua madre.
- Sì, sarà forse lontano, ma questo giorno
verrà. Noi lo crediamo come crediamo che la terra germina
sotto il raggio del sole. Crediamo che il 1° Maggio
resterà e ingrandirà negli anni e nei popoli, e che
dopo aver redento il lavoro ucciderà la guerra, e che dopo
aver confuso le classi affratellerà le nazioni, e che
sarà benedetto dalle generazioni venture come una delle date
più fauste e più gloriose della storia del mondo.
Torino, 1896.
V.
Per Giuseppe Garibaldi
(Commemorazione popolare).
Invitato a commemorare Giuseppe Garibaldi in questo giorno nel quale
ogni cuore italiano risente più viva la tristezza d'averlo
perduto, non terrò un discorso ampio e ordinato dell'opera e
della funzione storica compiuta da lui, poichè nulla o poco
oramai ne rimane a dire che non torni superfluo a un uditorio di
italiani colti. Parlerò il linguaggio facile e caldo del
patriotta, che, invece di dissertare sul passato, lo risuscita, lo
rivive e lascia andar tutta l'anima all'onda degli affetti e delle
memorie. Spero, così parlando, di consentire alla
disposizione d'animo dei miei uditori, ai quali non parrà
forse occasione opportuna d'un ragionamento pacato il primo
anniversario di una morte compianta. In ogni modo io chiedo perdono
a voi del mio ardimento, come già l'ho chiesto, dentro al
cuore, alla memoria augusta e amata, a cui consacro le mie parole.
La miglior prova della grandezza di Garibaldi è questa: che
nessuna narrazione, per quanto diffusa e eloquente delle sue
avventure e delle sue gesta, potrebbe aver mai la efficacia che ha
la esposizione brevissima e nuda dei sommi capi della sua storia.
Concedetemi di farne qui l'esperienza, a modo d'esordio, con quella
semplicità che è una forma di rispetto per l'altezza
dell'argomento e con quella rapidità precipitosa che il
cammino lunghissimo impone.
Nasce a Nizza, nel 1807, figliuolo di un modesto capitano di mare, e
comincia la vita, si può dire, con due atti eroici: a otto
anni, salvando da una gora una donna che annega; a tredici, salvando
una barca di compagni dal naufragio. Adora il mare, s'imbarca mozzo
in un brigantino, viaggia in oriente. A diciassett'anni va sulla
tartana del padre a Fiumicino, e visita la prima volta Roma, dove,
tra l'entusiasmo patriottico per le grandi memorie, gli balena la
prima idea dell'incanalamento del Tevere, che propugnerà
cinquant'anni dopo, con ardore ancor giovanile, nella Capitale
d'Italia. Continua i viaggi, è più volte assalito e
depredato dai pirati, si riduce povero a Costantinopoli, dove
s'ammala, e fa il precettore di ragazzi per vivere. Poi, ritornato a
Nizza, divenuto capitano di bastimento, riprende le navigazioni
ardite e avventurose, con le quali principia ad acquistar fama e
simpatia; tanto che ad ogni suo ritorno gli corre incontro sul molo
una folla di popolo, a festeggiarlo, a rallegrarsi con lui, che
onora sui mari e fa onorar nei porti d'Italia e di Francia il nome
della sua città nativa. Tale è l'alba della sua
gloria.
In uno dei suoi viaggi in levante ode parlar per la prima volta
della «Giovine Italia», e, tocco dalla fiamma che lo
arderà fino alla morte, tornato appena in Europa, si presenta
in Marsiglia a Giuseppe Mazzini, si ascrive all'associazione, si
vota per sempre alla patria. Recatosi in Liguria, si mette
all'opera, stringe relazione coi più arditi patriotti, si
arrola semplice marinaio nella flotta regia per far propaganda fra
gli equipaggi e cooperare con essi al moto imminente di Genova.
Falliti questo e il moto di Piemonte e la spedizione di Savoia,
ripara in Francia, è arrestato, riesce a fuggire, è
condannato a morte, prende altro nome, s'imbarca secondo in un
brigantino, e dopo aver salvato dalle acque un giovinetto nel porto
di Marsiglia, salpa per l'oriente. Ma, tediato della vita
mercantile, s'assolda nella flottiglia del Bey di Tunisi, e
scontento anche del nuovo stato, butta via la divisa, ritorna a
Marsiglia desolata dal colèra, si fa infermiere negli
ospedali, compie l'opera pietosa fin che dura la morìa, e non
vedendo luce d'aurora in Italia, s'imbarca sopra un bastimento di
commercio e parte per l'America.
E qui incomincia il suo periodo eroico. Arrivato al Brasile, per
campare, si dà al commercio di cabotaggio; poi, con una barca
e sedici uomini, move guerra di corsaro contro l'impero, per la
provincia di Rio Grande ribelle. Conquistata una goletta, è
assalito sul Plata da due lancioni dell'Uruguay, mandati a
arrestarlo; li respinge restando gravemente ferito; è
raccolto quasi morente da una nave brasiliana e portato prigioniero
a Gualeguay; guarisce, fugge, è inseguito, ripreso, frustato,
torturato; ma riesce a tornare a Rio Grande, dove gli è dato
il comando d'una flottiglia. Combatte, vince, naufraga, riprende il
mare e la lotta; ricaccia il nemico dal porto d'Imbituba, protegge
la ritirata dei Riograndesi, resistendo con tre navi a venticinque,
poi con settanta uomini a cinquecento; si batte a Santa Vittoria, si
batte alla stazione di Taquary, si batte all'assedio di San
Josè, e smarriti e ritrovati la sposa Annita e Menotti
bambino, già pianti perduti, a traverso a foreste sterminate,
sotto pioggie dirotte, soffrendo il freddo e la fame, cacciando al
laccio e domando puledri, spingendo davanti a sè un armento
di buoi, che gli muoion per via, riesce finalmente a Montevideo,
dove, per guadagnarsi il pane, si mette a insegnar matematiche.
Non è che una breve tregua. L'Uruguay è in guerra col
Rosas, dittatore dell'Argentina. Stretta dal pericolo, la repubblica
ricorre a lui, già famoso, che accetta il comando d'una
flottiglia e s'accinge a un'impresa disperata. Salpa da Montevideo,
sfugge alle batterie di Martin Garcia, sguiscia fra le navi
fulminanti della squadra argentina, passa sotto una tempesta di
fuoco a la Boyada, a las Concas, a Cerrito, e proseguendo per
Corrientes, assalito da forze superiori a Nueva Cava, dopo una
resistenza eroica di tre giorni e tre notti, si salva coi suoi,
incendiando le navi. Incalzato dalle truppe del Rosas, a cui scampa
combattendo, ritorna a Montevideo assediata, sostiene la difesa
guidando a sortite temerarie la legione italiana, salva l'esercito
difensore da una ritirata disastrosa, e assunto il comando d'una
nuova flottiglia e risalito con questa e con parte della legione
l'Uruguay, batte il general Lavalleja all'Eridero, s'avanza sul
fiume fino a Salto, e si spinge per terra fino a Tapevi, dove vince
la terribile battaglia di Sant'Antonio, per cui è proclamato
benemerito della repubblica. E prosegue la lotta intorno a Salto,
per terra e per acqua, finchè, richiamato dal Governo che gli
affida nuove navi e nuove truppe, risale da capo il fiume fino a las
Vacas, vince ancora una volta le schiere riunite dei luogotenenti
del Gomez, e ritorna finalmente nella capitale della repubblica,
dove la sua splendida campagna americana, di cui ogni vittoria ha
fatto palpitare l'Italia, si chiude dopo dieci anni al giungere
delle prime notizie dei moti del quarantotto, che lo richiamano alla
patria.
Fa vela per l'Europa con un drappello dei suoi legionari e, salvato
il naviglio da un incendio in alto mare, arriva a Nizza, abbraccia
la sua vecchia madre e va a offrir la sua spada a Carlo Alberto. Non
accettata l'offerta, corre a Milano, dove il governo provvisorio gli
conferisce il comando di cinquemila volontari: troppo tardi. Ma
risoluto a combattere a ogni costo, anche caduta Milano, respinto
l'ordine del duca di Genova di scioglier le bande, richiama il paese
alle armi, arringa le popolazioni, tragitta il Ticino, occupa Arona,
risale il lago Maggiore, sbaraglia una colonna austriaca a Luino,
s'impadronisce di Varese e, stretto infine da tre corpi nemici,
s'apre la via con la baionetta a traverso alle truppe del general
d'Aspre, a Morazzone; donde, travestito da contadino, andando giorno
e notte per rupi e per macchie come una fiera inseguita, ripara in
Svizzera ad aspettare gli eventi.
Ma non li aspetta, li provoca; e va dalla Svizzera a Nizza, e da
Nizza, fra gli applausi di tutta la riviera d'occidente, a Genova,
di dove salpa con cinquecento volontari per portar aiuto alla
Sicilia insorta. Trattenuto dal popolo a Livorno e indotto a
prendere il comando dell'esercito toscano, si conduce a Firenze,
donde, mutata idea, parte con la sua colonna per recar soccorso a
Venezia. Fermato dal generale Zucchi alle Filigare, retrocede e
accorre a Roma, e dopo aver combattuto il brigantaggio e compressa
la reazione in quel di Rieti, nominato generale romano, vince i
francesi a Villa Panfili, va incontro ai Borbonici, li respinge da
Palestrina, li batte a Velletri, s'impadronisce di Rocca d'Arce,
ritorna alla città assediata, dirige con folgorante valore la
difesa, e scampata la vita quasi per prodigio nel combattimento
disperato di Villa Spada, esce dalle mura, quando tutto è
perduto, con la sua legione, per risollevare l'Umbria e le Marche, e
sfugge con una marcia maravigliosa d'accorgimenti, di fatiche e
d'audacie a quattro eserciti, il francese, l'austriaco, il
borbonico, lo spagnuolo, che gli dànno la caccia invano per
venti giorni da Monte Rotondo a San Marino, dove, sotto la
protezione della repubblica, depone le armi.
Ma non rinunzia a combattere. Ribelle all'arciduca Ernesto che
gl'impone il ritorno in America, scompare di notte, con duecento
fidi, da San Marino, guizza fra le sentinelle nemiche, perviene alla
riva dell'Adriatico, e tenta, con una squadra di barche a vela, di
raggiunger Venezia. È assalito dagli incrociatori austriaci,
si getta sulla costa di Magnavacca, e fugge tra boscaglie e canneti,
braccato da gendarmi e da croati; e gli muor tra le braccia la
moglie, a cui non può dar sepoltura, e riprende la corsa per
le paludi di Ravenna, e, varcato il confine toscano, riesce a
rifugiarsi a Chiavari, dove l'autorità piemontese l'arresta.
Costretto a lasciare il Piemonte, cerca asilo a Tunisi, ma il Bey
gli rifiuta l'asilo; ripara alla Maddalena, dove salva dal naufragio
un canotto sardo, ma il Governo sardo lo sfratta anche dall'isola e
lo manda a Gibilterra; respinto anche da Gibilterra, si rivolge alla
Spagna: lo respinge anche la Spagna; e allora si raccoglie a
Tangeri, dove imprende a scrivere le sue memorie. Ma tutt'a un
tratto getta la penna, e va da Tangeri a Liverpool, e da Liverpool a
Nuova York, dove si mette a fabbricar candele, e di là,
comandante d'un legno mercantile, dopo esser stato in fin di vita a
Panama, al Perù, e dal Perù alla China, e di qui a
Nuova York un'altra volta, e da Nuova York in Europa, dove si da al
cabotaggio da capo, e pianta la tenda nell'isola di Caprera, donde
lo chiama Vittorio Emanuele nel cinquantanove a capitanare i
cacciatori delle Alpi.
Scoppiata la guerra, con una brigata di tremila e cinquecento
cacciatori, senza un solo pezzo d'artiglieria, ributta gli austriaci
a Ponte di Casale, entra in Lombardia, batte il nemico a Varese, lo
batte a San Salvatore, lo batte a San Fermo, entra vittorioso a
Como, a Bergamo, a Brescia, donde la sua presenza sola allontana il
nemico; passa sotto gli ordini del re, e si batte ancora una volta
prodemente, a Rezzato. E appena conchiusa la pace, si rimette
all'opera. Chiamato dal Ricasoli, riordina e rianima l'esercito
toscano; eletto secondo comandante dell'esercito dell'Italia
centrale, va con due divisioni, per provocare l'insurrezione nelle
Marche, sui confini pontifici, donde Vittorio Emanuele lo richiama;
e a Genova promove la sottoscrizione per un milione di fucili, e a
Torino fonda l'«Associazione della nazione armata», e,
deputato di Nizza, va a combattere in Parlamento la cessione della
sua città natale alla Francia. Ma dalla riva del Po lo porta
un'ispirazione divina alla riva del mare. Salpa coi mille da Quarto,
sfugge agli incrociatori borbonici, sbarca a Marsala, vince a
Calatafimi, vince a Palermo, vince a Milazzo, passa lo stretto,
s'impadronisce di Reggio, trasvola come un fulmine, spazzando
dinanzi a sè ogni resistenza, da Reggio a Salerno, entra
trionfante in Napoli sotto la minaccia dei forti non espugnati,
sconfigge l'esercito di Francesco II al Volturno, respinge una
sortita da Capua, proclama l'annessione delle due Sicilie, depone la
dittatura, rifiuta ogni ricompensa, e dispare.
Da Caprera, visitata da ammiratori d'ogni popolo, va, deputato di
Napoli, a Torino, a perorar la causa dei suoi volontari alla Camera,
dove solleva una tempesta; ma si riconcilia col Cavour tre dì
dopo, e scampato a un tentativo d'assassinio nella sua isola,
rifiutato il comando dell'esercito offertogli dagli Stati Uniti,
composti nell'assemblea di Genova i dissidi del partito
rivoluzionario, compie un viaggio trionfale nella Lombardia,
preparando in segreto un colpo di mano contro l'Austria. Fallito
questo, corre a Palermo a lanciare il grido: «Roma o
morte», attraversa la Sicilia, salpa da Catania, sbarca con
tremila volontari in Calabria. A Aspromonte è arrestato
dall'esercito regio, ferito, imprigionato, prosciolto, ricondotto al
suo scoglio; dove, estrattagli la palla dal piede, ma ridotto sulle
grucce, dolente ancora, promove una spedizione per la Polonia
insorta; dopo di che, invitato, si reca in Inghilterra ed entra in
Londra fra l'entusiasmo frenetico d'un milione di creature umane,
che lo salutano come un dio. Tornato in Italia, va a predisporre
all'isola d'Ischia, sotto gli auspici del re, una spedizione in
oriente, per suscitare un moto contro l'Austria nella Galizia e
nell'Ungheria; e il disegno va a monte; ma un altro campo di guerra
lo chiama; e alla testa di trentamila volontari irrompe nel
Trentino, si batte contro gli austriaci a Monte Suello, dov'è
ferito di palla a una gamba, si batte a Vezza, si batte a Condino,
espugna il forte d'Ampola, s'impadronisce di Monte Notta, conquista
Monte Giovo, vince a Bezzecca, e non depone le armi che alle porte
di Trento, dove l'armistizio lo arresta.
Tornato alla sua isola, ne riparte per fare un viaggio nel Veneto e
nella Toscana, predicando una spedizione su Roma; e migliaia di
volontari si movono; ma quando egli sta per varcare i confini,
è arrestato, è tradotto prigioniero in Alessandria,
ricondotto a Caprera, posto sotto la guardia di nove legni da
guerra. Ma invano. Sfugge solo di notte, in una chiatta, alla
vigilanza della squadra, raggiunge la Maddalena, approda in una
barca di pescatori in Sardegna, arriva ignorato a Livorno e a
Firenze, vola nello Stato romano, vince i pontifici a Monterotondo,
s'impadronisce di Viterbo, di Frosinone, di Velletri, e marcia su
Roma. Soverchiato a Mentana, in una battaglia accanita in cui cerca
invano la morte, da pontifici e francesi riuniti, e ripassato il
confine, è arrestato alla stazione di Filigne, messo di forza
in un treno, portato prigioniero al Varignano, e ricondotto un'altra
volta a Caprera; di dove un'altra volta fa vela per accorrere in
aiuto alla Francia repubblicana, invasa dai tedeschi. E batte i
tedeschi a Chatillon-sur-Seine, vince a Prenois, vince nelle fazioni
di Saint-Martin e di Saint-Symphorien, difende per tre giorni
Digione, strappa una bandiera al nemico a Pouilly, e glorioso di
venti combattimenti, in cui non toccò una sconfitta, eletto
deputato d'Algeri, pagato d'ingratitudine all'assemblea di Bordeaux,
rinuncia alla deputazione e ritorna, addolorato, ma senza rancori,
al suo scoglio.
Ed ora non combatterà più: la sua grande epopea di
capitano è finita. Ma non quella di tribuno della patria e di
apostolo universale di giustizia e di pace. Parla una parola alta e
serena nella quistione formidabile che sorge con
l'«Internazionale», va a Roma a caldeggiare la sua
antica idea dell'incanalamento del Tevere, si pone a capo della
«Lega della democrazia», va ancora una volta a Milano
per la commemorazione solenne di Mentana, tuona di sdegno generoso
contro l'invasione francese di Tunisi, torna per l'ultima volta
nella sua amata Palermo per il festeggiamento dei Vespri, si vale
ancora negli ultimi giorni di ogni ora di respiro che gli dà
la malattia di cui morrà per far sentire la sua voce in pro
degli oppressi d'ogni paese e predicar la speranza d'un miglior
avvenire per la sua Italia e pel mondo; e finalmente, un mese prima
di compiere il settantacinquesimo anno, la sera del due di giugno
del 1882, rende l'anima grande all'infinito. Quanti secoli
trascorreranno prima che si chiuda in un'altra vita umana una
così maravigliosa istoria di lotte, d'affanni, d'ardimenti,
di miracoli di prodezza, di genio e di forza, rivolti tutti a un
così santo fine e coronati da una così luminosa
fortuna? Oh, glorifichiamolo pure. Nessuna lode è soverchia
sulla sua tomba. Dante gli avrebbe dedicato un canto, Michelangelo
una statua, Galileo una stella.
E ora che altro si può dire, se non quello che tutti sanno:
che il merito supremo di Garibaldi fu di aver reso popolare il
movimento italiano? E diciamolo pure, poichè è una di
quelle verità che il consenso comune appunto rende sempre
grato il ripetere. Togliamo col pensiero Garibaldi dalla storia
della nostra rivoluzione. Non si può giudicare storicamente
impossibile che la liberazione e l'unificazione d'Italia si
compissero senza il concorso dell'opera sua. Noi possiamo supporre
l'esercito dei Borboni vinto e disperso in tre grandi battaglie
successive dall'esercito di Vittorio Emanuele, sceso dalle Marche, o
l'insurrezione di Sicilia vincitrice, qualche anno più tardi,
con l'aiuto di quella stessa brigata Reggio che Garibaldi aveva
chiesto al re, comandata da un generale dell'esercito, e sbarcata a
Marsala dalla regia flotta. Ma che immenso vuoto non ci ritroveremmo
dinanzi! Possiamo raffigurarci Napoli senza il Vesuvio e Venezia
senza San Marco? Il popolo italiano sarebbe ugualmente redento e
uno; ma quasi ci pare che sarebbe un altro popolo; poichè
nè Vittorio Emanuele, nè il Cavour, nè il
Mazzini avrebbero potuto destargli nell'animo la fiamma per cui la
nostra rivoluzione divampò davanti al mondo come un incendio.
E in fatti: il Mazzini era un apostolo, non potente che per la forza
della parola, la quale nè a tutti giunge, nè da tutti
è intesa, ed ha effetti sparsi e lenti; oltrechè al
Mazzini mancò la virtù abbagliante della fortuna. Il
Cavour era un grande uomo di Stato; ma solitario e quasi invisibile
al popolo nella sua altezza,; nè la natura del suo genio
nè quella della sua opera eran tali da essere pienamente
comprese e da poter suscitare l'entusiasmo delle moltitudini lontane
dal campo in cui egli operava. Vittorio Emanuele era un re popolare
e guerriero; ma non era figlio del popolo; e la sua forza, la sua
azione era così complessa e commista con quella del suo
governo, informata d'elementi così diversi, palesi ed
occulti, facili e non facili a comprendersi e a valutarsi, che non
potevano le plebi, in specie quelle del mezzogiorno, vedere come
incarnata in lui la rivoluzione d'Italia e quasi inviscerarsi la sua
gloria e sentire nel proprio sangue il suo sangue. Ora Garibaldi
raccolse in sè tutto quello che a quei tre italiani insigni
mancò. Ebbe la fortuna che fallì al Mazzini, l'aureola
maravigliosa che non ebbe il Cavour, e quel fascino di guerriero
combattente per impulso e vincente per genio e per valore proprio
che non poteva avere Vittorio Emanuele; e aggiunse a tutto
ciò una potenza infinita di farsi amare. Questo era
necessario all'Italia. Dieci milioni d'italiani, sciogliendosi
dall'odio mortale che li aveva scatenati contro la tirannia
borbonica, si ritrovarono con l'immenso amore di Garibaldi nel
cuore. Egli non fu soltanto una grande forza: fu
l'originalità, la bellezza, la poesia della rivoluzione
italiana. Egli ebbe questo grande merito in faccia alla storia, come
disse in Germania un illustre apologista del conte Cavour: quello
d'insegnare ai suoi contemporanei e alle future generazioni la
consolante verità: «che anche in tempi grandemente
civili la santa energia d'una passione primitiva è una
potenza fra gli uomini».
E quale potenza! Essa fu tale che l'averne veduto i segni
incantevoli è per gli italiani della generazione che tramonta
uno dei più grandi conforti della vita. E giova notare prima
d'ogni cosa che Garibaldi rinfiammò all'improvviso
l'entusiasmo delle moltitudini in un momento in cui ve n'era bisogno
supremo. La pace di Villafranca, troncando all'improvviso sul Mincio
la guerra che doveva «liberar l'Italia fino
all'Adriatico» ci aveva posti in condizioni difficili e
tristi. Minacciati dall'Austria, con la quale, anche più
forte sul Mincio che sul Ticino, non potevamo misurarci da noi soli;
diffidenti della Francia, che si temeva non paga della Savoja e di
Nizza, ma intesa a chiedere nuove terre in compenso della sua
protezione necessaria; irritati contro il governo di Torino che
pareva peritoso, quasi restìo, per ragioni non da tutti
comprese, all'annessione delle provincie centrali; ci trovavamo in
uno stato tanto più intollerabile in quanto, pure avendo
coscienza che non potesse durare, non vedevamo per qual via si
potesse uscirne. Giorno per giorno sbollivano gli entusiasmi,
crescevano i sospetti e s'inasprivano le passioni partigiane,
aggravando le difficoltà che già da ogni parte
premevano l'opera amministrativa del nuovo Stato, sospinto avanti e
rattenuto a un punto da forze opposte. A noi che non misuriamo il
tempo con la impazienza ardente che agitava gli animi allora pare un
assai breve tratto quello che trascorse dal luglio del '59
all'aprile del '60; ma allora i mesi contavano per anni. Parevan
già tanto lontane, dopo men d'un anno, le belle vittorie di
Palestro e di San Martino, dopo le quali nessun fatto era più
seguito che facesse rialzar la fronte agli italiani, e riaccendesse
la loro fede nel proprio ideale e nella propria forza! Che erano i
moti per cui s'eran liberate le provincie centrali? Avvenimenti
fausti e onorevoli; ma non glorie guerriere. Dopo quella grande
ebbrezza dei trionfi sul campo riusciva meschina e quasi vile
l'azione diplomatica lenta, circospetta, coperta, che dava alimento
ai più strani timori e offriva bersaglio alle più nere
accuse. Occorreva qualche grande cosa. Il popolo, la gioventù
sentiva questo bisogno, e fremeva, e si volgeva intorno, rodendo il
freno, aspettando che da qualche parte s'alzasse una bandiera e
suonasse uno squillo di tromba. Era un ribollimento di desideri,
d'ire, di rammarichi, di discordie, che, se tra poco non si fosse
aperto loro una via di fuga, sarebbero forse scoppiati in guerra
civile.
E allora comparve Garibaldi. Diciamo: comparve allora, perchè
la sua vera e grande popolarità non cominciò per tre
quarti d'Italia che nel 1860. Allora si sentì quella sua voce
magica che a traverso al mar Tirreno chiamava la gioventù
italiana alla santa crociata di Sicilia, e c'era giunta appena la
notizia del suo ardimento, che due vittorie inaspettate, l'una
sull'altra, come due colpi di fulmine, facevano un'eco immensa al
suo grido. Chi era questo Garibaldi? Molti, nel popolo, non lo
sapevano ancora che vagamente. Un nizzardo, un soldato, che aveva
combattuto in America e a Roma, quello che aveva condotto gli
emigrati lombardi nel '59, un uomo biondo, vestito di rosso, buono,
intrepido, povero, con una voce e uno sguardo che affascinavano, un
paladino di tutti gli angariati, un vendicatore di tutte le
ingiustizie, che con una mano gittava davanti a sè delle
folgori e con l'altra accarezzava la fronte ai feriti e spandeva
consolazioni e speranze. E allora si videro prodigi. Il suo nome
passava come un soffio di fuoco sul paese, e per lui gli operai
lasciavano le officine, gli studenti disertavano le scuole, i
signori abbandonavano i palazzi e le ville, e le spose dicevano: -
Va! - le madri non osavano di piangere, le fidanzate baciavano la
sua immagine, i vecchi benedicevano, i fanciulli fremevano. Partire,
raggiungerlo, attirare un suo sguardo combattendo, una sua parola
cadendo, morire vedendolo passar vittorioso da lontano, era il sogno
di tutti i giovani d'Italia. L'entusiasmo per lui spegneva in ogni
parte passioni ignobili e bassi pensieri, rialzava cuori di scettici
e anime di disperati, suscitava come nembi di scintille propositi di
sacrificio e virili ambizioni in tutti gli strati del mondo sociale.
Ed anche fuori della società. E si videro in conventi
solitari monaci rozzi e inerti, che non avevano mai amato nè
compreso la patria, comprenderla ed amarla per la prima volta nel
suo nome, e compiere o meditare il proponimento d'andar a combattere
al suo fianco. E perfino nelle carceri e nelle galere, dove freme
l'omicida non pentito, meditando nuovi delitti, si vide qualche
volta anche in quel fango umano, tocco dal caldo raggio della sua
gloria, sbocciare il fiore d'un entusiasmo generoso, si sentì
anche dalle bocche più nefande pronunciare il suo nome come
una parola di redenzione e d'amore. Se altro egli non avesse fatto
sulla terra, avrebbe diritto per questo solo alla benedizione della
patria e alla gratitudine del mondo.
E tutto questo, che par leggenda, è storia, o meglio:
è l'una e l'altra cosa ad un tempo, poichè di leggenda
la vita di Garibaldi presenta già la vaga e grandiosa
bellezza, nè ha più bisogno, come quella d'altri
uomini somiglianti, d'acquistar nulla col tempo dall'immaginazione
umana. Che cosa le potrebbe aggiungere, in fatti, la fantasia
popolare se già ora la mente del popolo stenta a crederla e
ad abbracciarla intera nella sua realtà quasi ancora parlante
e visibile? E la maggior prova di questa apparenza di prodigio
storico che ebbe Garibaldi nel tempo nostro è la
difficoltà quasi insuperabile che trovarono molti
contemporanei della classe colta, anche d'intelligenza non volgare,
ma chiusa in uno stretto cerchio di idee, e d'animo non ignobile, ma
freddo, a comprenderlo e ad ammirarlo. Non iscoprivano la ragion
vera della sua enorme potenza, che attribuivano a una quasi
miracolosa cospirazione di fortune propizie, in cui non avesse parte
alcuna, o poco più che nulla, la virtù sua;
scambiavano i suoi eroici errori di fanciullo sublime con
aberrazioni vanitose d'un cervello angusto; giudicavano
mostruosità quello che in lui era grandezza, e su questa
pedanteggiavano, giungendo fino a riprovare come sconveniente e
risibile la sua foggia singolare di vestire, divenuta ora gloriosa e
incancellabile dalla mente delle generazioni come la divisa del
Buonaparte, poichè non comprendevano da che varie e intime
ragioni di sentimento poetico della vita, di amabile giovinezza
d'animo, di sprezzo istintivo d'ogni servitù e d'intuito
dell'istinto artistico del nostro popolo anche quella sua
originalità derivasse. Facevano rispetto a lui come gli
accademici arcigni che appuntano trionfando le offese alla geografia
nell'Ariosto e gli errori di gusto nello Shakespeare. Guardandolo
con occhio falso vedevano un Garibaldi falso, un grand'uomo
sbagliato, portato sugli altari dalla passione di parte degli astuti
e dall'idolatria cieca degl'ingenui. E di costoro non è tutta
spenta la razza. Ma furono o saranno severamente puniti dal loro
medesimo errore: morirono, moriranno senz'aver amato Garibaldi.
Tutti costoro, e anche molti di quelli che nel campo politico
opposto l'ammirarono, avrebbero voluto un Garibaldi prudente e
docile, una specie di «generale a disposizione del
ministero» che non movesse passo se non per ordine e parlasse
il linguaggio ponderato d'un diplomatico; che non fosse altro,
insomma, che una bella insegna di rivoluzione, la quale il Governo
potesse sventolare a tempo opportuno e ripiegare quando gli paresse.
Ma il Garibaldi potato e castigato che essi sognavano era un
Garibaldi impossibile. Egli non poteva essere se non quello che fu.
Alle sue biasimate ribellioni egli fu mosso da quella stessa
virtù che lo spinse a tutti quegli altri atti audaci,
fortunati e lodati, coi quali rese i più grandi servigi al
proprio e ad altri paesi; e quella virtù era una fede
assoluta nella forza d'entusiasmo e di sacrificio del suo popolo,
nella invincibilità della causa della giustizia e nel favore
della fortuna che fin dalla prima giovinezza gli aveva «porto
la chioma». Egli credeva fermamente che allo scoppiar di una
guerra contro l'Austria, contro la Francia, anche contro l'Europa
intera confederata a comprimere il nostro diritto, sarebbero sorti
dalla terra italiana milioni di uomini prodi come lui, risoluti a
una resistenza disperata, lieti come lui di dar la vita alla patria.
Capace egli di far miracoli, credeva nei miracoli della sua nazione.
Come pretendere che un tal uomo avesse dell'opportunità
politica, dell'importanza dei trattati, della necessità delle
alleanze, delle tradizioni, della legalità, delle convenienze
diplomatiche lo stesso concetto che n'avevano i ministri della
monarchia? E anche nelle due imprese temerarie che gli fallirono, e
per cui fu tre volte prigioniero, per quanta parte non fu indotto a
lanciarsi avanti e a persistere dall'incertezza ambigua del governo,
che non s'oppose ai principii, e gli gridò: - Indietro! -
troppo tardi, lasciando credere fino all'ultimo a milioni d'italiani
che sotto al divieto palese ci fosse un consenso occulto, conforme
alla doppia politica ch'egli aveva seguìto anche riguardo
all'impresa di lui più fortunata? Fu chiamato Garibaldi
fulmine di guerra, e ai suoi scoppi improvvisi e agli incendi che
suscitò e alle distruzioni che fece l'Italia deve in parte la
propria redenzione; ma il fulmine nè si guida nè si
corregge; non si doma che disperdendone la forza nella terra. In
verità, noi crediamo che, considerando l'indole e le
virtù senza le quali Garibaldi non sarebbe stato chi fu, e i
procedimenti dei governi ai quali egli servì e
disobbedì a volta a volta, e la forza immensa ch'ebbe nel
pugno, le generazioni venture si maraviglieranno che ei non abbia
fatto della legge un assai maggior strazio di quello che fece.
Ma non è che le sue intemperanze e le sue temerità,
perchè furon cagioni di turbamenti e di pericoli, non abbiano
recato al paese altro che danno. Chi non comprende ora quanto abbia
giovato ad affrettare il compimento della liberazione della patria
quella voce che gridava infaticabilmente: - Armiamoci, scotiamoci,
operiamo, - che manteneva in continuo fermento la gioventù
come il tonare non interrotto d'un cannone, che, predicando senza
posa la fede e l'audacia, faceva l'effetto come d'uno sprone
infocato, perpetuamente confitto nel fianco della nazione? Chi
può negare che abbian concorso a persuadere il mondo che Roma
era necessaria all'Italia anche quelle due disperate imprese del
sessantadue e del sessantasette con le quali egli provò che
l'Italia non avrebbe avuto mai pace senza la sua capitale storica,
che l'incendio cento volte soffocato si sarebbe cento volte
riacceso, che Roma non italiana sarebbe stata un'eterna minaccia di
guerra all'Europa? Chi può affermare che l'esercito sparso
degl'impazienti e degli audaci non sarebbe stato causa di ben
più gravi turbamenti interni se non l'avesse contenuto la
speranza, anzi la certezza che nessuna occasione d'operare, anche
arrischiatissima, egli avrebbe lasciato sfuggire, che, lui vivente,
una politica indietreggiante non sarebbe stata possibile mai, e una
politica immobile non avrebbe mai potuto durare, se anche fossero
saliti al potere dei nemici mascherati della rivoluzione? Ogni volta
che il paese, irritato degl'indugi e della pazienza dei governanti,
incominciava ad agitarsi, egli si gittava innanzi a capo basso,
urtava contro un muro di bronzo, e cadeva: era per molti un delitto,
per tutti un dolore; ma era uno sfogo, una protesta, una sfida, un
grido che non moriva senz'eco nel mondo. Caduto il ribelle, riusciva
a tutti più evidente e imperiosa la necessità di
raggiunger lo scopo comune, una scintilla della fiamma soffocata
penetrava anche nell'animo dei più freddi, la diplomazia si
riscoteva come per una sferzata, sulle traccie dell'audacia fallita
faceva un passo innanzi perfin la prudenza, e la paura si
vergognava. Egli viveva ancora, che già ci appariva sotto un
tutt'altro aspetto anche quello che fu giudicato il suo più
grande errore. Nel 1870, su tutte le vie per cui l'esercito italiano
moveva a Roma, precedeva le colonne, avanguardia ideale, Garibaldi,
e segnavano loro il cammino le gocce di sangue stillanti otto anni
innanzi dalle sue carni.
Ma anche quelli che giudicano più severamente le sue
temerità e le sue ribellioni sono forzati a riconoscere
l'alta chiaroveggenza politica di cui egli diè prova, il
sapiente impero che seppe esercitare sulle proprie passioni nei
momenti supremi. È questo uno dei caratteri singolari della
sua grandezza: di essere ammirabile per le virtù opposte.
Quando è necessaria l'unione di tutte le forze della patria
contro lo straniero, egli, nemico della causa dei re, offre il suo
braccio e quello dei suoi soldati d'America a un re, che
«s'è fatto il rigeneratore della penisola» e per
quel re «è pronto a versare tutto il suo sangue».
Dieci anni dopo, per la stessa necessità della patria,
è tra i primi a fondare quel nuovo «partito
nazionale» che stringe intorno alla monarchia i più
alti ingegni e le spade più prodi, devote fino a quel giorno
all'idea repubblicana. Con la bandiera di Vittorio Emanuele parte
per la grande impresa, nel 1860, e, non accecato, ma illuminato
dalla fortuna, opera per modo in Sicilia che basta per due mesi la
sua autorità a tenervi luogo di governo e di leggi; onde il
conte di Cavour, che da prima temeva, finisce con scrivere al
Persano: - Se Garibaldi non vuole l'annessione immediata, sia
lasciato libero di fare a suo talento. - Nell'ottobre dell'anno
stesso, a Napoli, in quel momento terribile, in cui, disputandosi
l'animo suo i fautori del plebiscito immediato e quelli
dell'elezione di un'assemblea, corse pericolo l'unità
nazionale, fu la sua improvvisa ispirazione: - «non voglio
assemblea, si faccia l'Italia» - fa questo grido suo che
salvò l'Italia. Fu nel 1861 l'inaspettata, saggia,
nobilissima temperanza con la quale egli rispose a una lettera dura
e provocante del più popolare generale dell'esercito, quella
che troncò sull'atto un conflitto che poteva esser principio
d'un periodo funesto di discordie e di guai. Nel 1862, dopo il fatto
di Sarnico, spontaneamente egli si ricrede intorno
all'opportunità d'una spedizione contro l'Austria, desiste
dal proposito, sconsiglia gli arrolamenti, e con saggie parole
dissipa dall'orizzonte ogni nube. Quattro anni dopo, quando riceve
l'ordine di ritirarsi dalla frontiera del Tirolo, nel punto che gli
si apre dinanzi, dopo tanti stenti e sacrifici sanguinosi, il
periodo più facile e splendido della guerra, con infinito
rammarico, ma senza un momento d'esitazione, senza una parola di
lagnanza, obbedisce. E durante il suo viaggio trionfale in
Inghilterra, benchè porti in cuore un alto proposito,
benchè patriotti ardenti d'ogni paese lo stringano e mille
occasioni lo tentino, non profferisce una sola parola che possa
provocare contro lo Stato che l'ospita la più lieve lagnanza
dei governi contro i quali è solito scatenare i suoi sdegni.
E anche nell'ultimo anno della sua vita, quando ancora bollente
d'ira per l'offesa subita dall'Italia a Tunisi, giunge a Palermo per
la commemorazione dei Vespri, quando si teme da tutti gli amanti
della pace ch'egli prorompa contro la Francia in parole terribili,
per cui si risollevino le passioni che già s'eran quietate,
egli, con sovrana saggezza, rivolge al popolo palermitano un
discorso, nel quale della Francia non pronuncia il nome e della
quistione di Tunisi tace. Bene dice il più appassionato dei
suoi apologisti che egli «poteva inveire, minacciare, gittare
in mezzo alla nazione parole tremende ch'eran pericolosi tizzoni
d'incendio, ma che quando li vedeva divampare in fiamme minacciose
al sacro edificio della patria, accorreva per il primo a soffocarli
col piede» e vero è ciò che quegli soggiunge che
«anche i suoi più esaltati e temerari seguaci non
avrebbero osato mai di lanciare il grido ultimo della discordia, di
dare il segnale irrevocabile della guerra civile, mai, fin ch'egli
viveva». Sangue di guerra civile corse una volta sola sotto i
suoi occhi, a Aspromonte. Ma egli ordinò di cessare il fuoco
ai primi colpi, e con che nobili parole, pure giustificandosi in
parte, confessò il suo errore nelle sue memorie. - «Io
dovevo andarmene prima dell'arrivo della truppa, e non lo feci. -
Avrei dovuto anche frazionare di più la gente - e non lo
feci. - Tutte le misure che potevano allontanare la catastrofe io
avevo in mente di eseguire, ma ciò doveva essere eseguito con
la celerità che mi aveva servito in altre occasioni.... e non
lo feci». - Quanta tristezza, che sincero e profondo rammarico
nella ripetizione di quelle tre semplici parole! Rammarico tanto
più generoso in quanto egli avrebbe invece potuto dire: - Se
m'avessero intimato la resa prima d'assalire, io mi sarei arreso,
avanti che partisse un colpo di fucile. - Se non ci fossero corsi
addosso appena ci videro, non si sarebbe sparso sangue. - A farci
deporre le armi bastava che ci lasciassero il tempo di riaverci
dalla sorpresa.... e non lo fecero.
L'impero ch'egli esercitò sulle proprie passioni nei momenti
supremi - si disse. Ma noi crediamo che questa espressione non dica
il vero. A ciascuno di quegli atti che furon detti di ribelle e
pericolosi alla patria egli fu mosso dalla profonda coscienza di far
cosa utile alla patria, che è quanto dire, di compiere un
dovere che a lui solo era imposto; e non desistette, non si ritrasse
mai se non quando fu persuaso d'essere in errore. Quando la somma
idea del vero, del giusto, dell'utile gli balenava, cessava in lui
ogni conflitto della volontà con la passione, poichè
una passione che la sua coscienza giudicasse contraria all'interesse
della patria nell'anima sua non capiva. Non domò sè
stesso in quei momenti supremi; ma comprese, si ravvide e cedette
senza sforzo agl'impulsi mutati e concordi della sua ragione e del
suo cuore. Ricordiamo quello che fu uno dei giorni più
gloriosi della sua vita e dei più fortunati della nostra
storia, quello splendido 26 ottobre del 1860, quando nel piccolo
villaggio di Cajanello le avanguardie delle sue legioni vittoriose,
venendo da Capua, e i primi battaglioni dell'esercito regio, calando
da Venafro, s'incontrarono. Mai non rischiarò il sole
d'Italia un così bello e fausto incontro di vincitori.
Smontato di sella, in mezzo ai suoi ufficiali immobili, Garibaldi
aspettava. L'alba imbiancava l'Appennino e il vecchio castello di
Teano e tutto quel bel paese austero della Campania, su cui da pochi
giorni, dopo molti secoli, spirava l'aria della libertà. Qua
e là per la campagna, tra i vapori del mattino,
fiammeggiavano da una parte le divise dei volontari, sventolavano
dall'altra i pennacchi dei bersaglieri. Era da un lato la
rivoluzione, dall'altro la monarchia, tutt'e due coronate dalla
vittoria, piene di forza e di alterezza, memori entrambe di gelosie
e di contrasti recenti, non riconciliate in fondo al cuore, presaghe
di discordie e di conflitti futuri. Nell'uno e nell'altro esercito
regnava il silenzio di un'aspettazione solenne. E Garibaldi, chiuso
nei suoi pensieri, aspettava e taceva. A un tratto echeggiarono le
fanfare reali e corse un fremito per i due campi. Che sarà
passato per il cuore di Garibaldi, sia pure per la durata d'un
lampo, al suono di quelle trombe? A quell'annuncio che segnava la
fine del suo comando supremo, che suonava come un superbo alto
là opposto al suo corso di trionfatore e gli metteva di
fronte un'altra gloria a cui era necessità di vita
l'offuscare la sua, forse a quell'annunzio egli si sentì
rialzare nell'anima tutto il suo passato, e il rancore per la sua
Nizza perduta, e l'ira per la via di Roma preclusa, e la coscienza
d'aver ancora nel pugno mezza Italia, tutto questo forse, confuso in
un impeto di ambizione e d'orgoglio, gli sollevò il sangue e
gli velò la ragione.... Certo, ciò supponendo,
può parer più ammirabile lo slancio con cui, cacciato
avanti il cavallo, egli tese la mano e gridò: - Salute al re
d'Italia! - e si comprende come s'induca più d'un oratore a
trarre da una tal supposizione un forte effetto drammatico in onore
di lui. Ma noi crediamo che non uno di quei pensieri, non un'ombra
di quei sentimenti sia passata nel suo cuore in quel punto. La sua
volontà era già ferma, il suo animo era già
quieto fin da quando un'illuminazione improvvisa della mente gli
aveva fatto dire a Napoli: - «Non voglio assemblea, si faccia
l'Italia». - No, il suono di quelle trombe non turbò
neppure un istante la serenità dell'anima sua, lo spettro
della guerra civile non s'affacciò neppure alla sua mente;
non ebbe bisogno di riflettere, non gli occorse di vincer sè
stesso; egli fu grande senza lotta. Un solo pensiero egli ebbe in
quel momento, e lo espresse: il desiderio d'affratellare sui campi
di battaglia i volontari e i soldati, di proseguir la guerra alla
testa dei liberatori di Napoli, al fianco dei liberatori delle
Marche, avanguardia di Vittorio Emanuele, antesignano degli eserciti
uniti. Presentendo imminente una battaglia al Garignano, chiese al
re l'onore del primo scontro. Non l'ebbe. «Egli si batteva da
troppo lungo tempo, le sue truppe erano stanche, si doveva mettere
alla riserva». Questo solo gli turbò la serenità
dell'anima. Ma fu grande anche allora. Più grande d'ogni
più sdegnoso sfogo di dolore fu la tristezza rassegnata di
quelle semplici parole: - «Ci hanno messi alla coda» -
con le quali egli annunciò la sera ai suoi fidi il suo
splendido sogno svanito.
Singolarissima natura, semplice nell'apparenza, ma nel fondo
così complessa, dotata di virtù e capace di passioni
così rare a trovarsi congiunte in un uomo, che, vivo ancora,
egli può esser giudicato a volta a volta dagli stessi giudici
in cento modi dissimili, apparire ai lontani, sotto certi aspetti,
infinitamente diverso da quello che è, rivelare anche a chi
gli vive accanto da anni, con parole inaspettate e atti
imprevedibili, lati nuovi e mirabili di sè stesso, essere nel
suo paese medesimo adorato, odiato, benedetto, vilipeso, levato al
cielo come il più alto benefattore del suo popolo e
segretamente desiderato morto come un flagello vivente, come una
calamità incarnata della sua patria. Lo credono i più
d'animo incerto, pieghevole a tutte le pressioni di chi lo circonda,
operante quasi sempre più per impulso altrui che di moto
proprio; ed è invece così tenace nelle sue idee e
forte nelle sue volontà, e sta così fieramente in
difesa dell'indipendenza loro, che il discutere con lui - come dice
uno dei suoi biografi - anche per chi egli più stima ed
ascolta, è la più ardua, la più erculea delle
imprese. - E così forte di volontà nelle cose grandi,
è nelle piccole il più arrendevole uomo che sia stato
mai, incapace di rifiutare un favore, che anche gli costi un
sacrificio, a chiunque lo chiegga con dolcezza, facile come un
fanciullo a lasciarsi ingannare da ogni più lieve apparenza
di generosità e di rettitudine. Ha trascorso quasi tutta la
sua vita fra le lotte e il sangue, in faccia alla morte,
esperimentando tutte le forme dell'iniquità e
dell'efferatezza umana; e ha serbato una così dolce mitezza
d'animo che si leva una notte d'inverno per andar a cercare
un'agnella smarrita, di cui ha udito il belato fra le rocce della
sua isola, e ama gli alberi e i fiori come creature vive, e si
arresta commosso davanti alla bellezza d'un'aurora o al canto d'un
usignuolo, ed espande in versi i suoi affetti come un innamorato di
venti anni. Il fulminatore del Papato, che vuol fondare la religione
del Vero, il flagellatore furibondo d'ogni superstizione, che
è per milioni di credenti il più sacrilego propagatore
di miscredenza demagogica, crede fermamente in Dio, crede
nell'efficacia delle preghiere di sua madre morta, che gli appare
davanti di pieno giorno, crede trasmigrate in due uccelli che si
posano ogni giorno sul suo balcone le anime delle sue bambine
perdute. L'uomo che par fatto dalla natura alle battaglie e alle
tempeste, che fa sua la sentenza del capitano spagnuolo: - «la
guerra è il vero stato dell'uomo», - e al quale si
direbbe che l'alito immenso delle moltitudini debba essere un
elemento necessario dell'aria che respira, ama invece di così
profondo amore il raccoglimento e la solitudine, che, ogni volta
ch'ei possa, frappone il mare fra sè e il mondo, e vive per
mesi e per anni nel silenzio d'un'isola deserta come chi a una tal
vita, e non ad altra, sia nato, e da quella non uscito mai che per
forza degli eventi, a malgrado proprio, e facendo violenza alla sua
natura. E quest'uomo stesso, che ha un così grande bisogno di
pace e di riposo del corpo e dello spirito, nè l'uno
nè l'altro riposa neppur nella solitudine della sua isola,
dove lavora infaticabilmente del braccio e del pensiero: studia
agricoltura, dissoda la terra, alleva animali, scrive romanzi e
memorie, risponde a epistole infinite, volge in mente mille disegni,
tenta tutti i problemi, incita all'opera quanti conosce. E questo,
finalmente, è anche più mirabile. Salito da natali
oscuri a un'altezza che nessuno raggiunse nell'età sua,
vissuto tanto da veder avverato, e in gran parte per sua
virtù, quello che alla sua giovinezza era parso un sogno, la
redenzione d'Italia, divenuto oggetto d'ammirazione e d'amore a
tutti i popoli, egli che potrebbe godere serenamente la sua gloria,
considerando la propria missione compiuta e confidando che quanto
rimane a fare altri faranno, egli no, egli, più grande
dell'opera propria, dello stato presente non s'appaga; e non solo
dello stato del suo paese, che non vede potente e felice come aveva
sognato, ma dell'andamento delle cose nel mondo intero; e d'ogni
grande quistione che resti a risolvere in Italia o altrove si
affanna, e ad ogni grido di sventurati e d'offesi che da qualunque
parte gli giunga s'impietosisce e si accora, e impreca ai violenti,
tuona contro i ricchi, saetta gl'ignavi, lancia anatemi, invoca
riforme; e dimentico della sua gloria, parendogli di non aver fatto
nulla perchè non ha fatto tutto, si tormenta, si rattrista,
s'inasprisce il sangue, è infelice. Maravigliosa l'anima sua
come la sua vita. Marinaio, negoziante, maestro di scuola,
lavoratore della terra, cospiratore e generale, corsaro e dittatore,
liberator di popoli e scrittore di romanzi, seguìto come un
nume e arrestato come un bandito, potente come un re e povero come
Giobbe, chiamato il leone, il filibustiere, «Santo
Garibaldi», eroe, fanciullo, mago, matto, anticristo, mandato
da Dio. Avranno ragione i posteri che diranno: - è un
mistero.
E qui ci arrestiamo perchè a spingerci più oltre nello
studio dell'anima di Garibaldi ci manca l'ardimento e l'ingegno. Per
compiere questo studio degnamente, per illuminare tutta quanta agli
occhi nostri la grande figura di lui, dovremmo, prima di tutto,
andar a cercare l'origine della maggior parte delle sue idee
politiche, sociali, morali, e anche di molte consuetudini della sua
vita privata, in quella specie di evo medio del nuovo mondo, in quel
caos ardente di popoli giovani, selvaggiamente indomiti, spensierati
ed eroici, agitantisi nella ricerca tumultuosa d'una forma civile di
società e di governo e lottanti a un tempo contro la natura,
la barbarie, l'anarchia e la tirannide; in mezzo ai quali egli
temprò l'animo e la spada e si vestì d'un'armatura di
gloria per le future guerre d'Italia. Dovremmo spiegare come nei
grandi viaggi oceanici, nei lunghi silenzi pensieroi di marinaio
innamorato del mare e del cielo, e uso a contemplare la
società di lontano, a traverso al desiderio e alle immagini
dolci e care dei ritorni, sia potuto sorgere in lui e farsi
così saldo, da resistere all'urto d'ogni più dura
esperienza delle cose e degli uomini, quel suo ideale
d'un'umanità semplice e buona, d'una società rinnovata
dalle fondamenta, retta dall'amore più che dalle leggi, e
quasi vivente nell'innocenza dell'età primitiva; al quale
accennava di continuo in forma vagamente profetica, quasi che
temesse, determinando i propri pensieri, di distruggere in sè
l'illusione amata. E ancora, in questo suo ideale splendido e fermo
dovremmo dimostrare la ragione prima di quello sdegno amaro e
generoso che lo dominò nell'ultimo periodo della vita,
quando, dopo aver tanto operato per la patria, egli vide il moto
maraviglioso della rivoluzione nazionale arrestarsi all'unità
e alla libertà politica, lasciando qual'era la miseria delle
plebi, permanenti l'ignoranza e la superstizione, intatti istituti
decrepiti e privilegi odiosi e mille avanzi enormi e sinistri del
passato, ch'egli credeva possibile spazzare a colpi di decreti e di
leggi; e che questo non si facesse, gli pareva delitto di principi,
tradimento di ministri, perfidia di parlamenti, stoltezza e ignavia
codarda di popoli. E in fine, in quella sua cultura varia e strana,
piena di oscurità e di lacune, nella quale s'univano la
poesia, l'agronomia e la matematica, cinque lingue viventi, molte e
lucide cognizioni di scienza militare e di storia antica, e canti
interi di Dante e del Tasso, e con la predilezione del Foscolo,
dell'Hugo e del Guerrazzi l'ammirazione gentile che lo condusse ad
abbracciare Alessandro Manzoni, in quella cultura multiforme e
incompiuta, che gli consentiva le simpatie intellettuali più
disparate e i tentativi letterari più arditi e diversi,
dovremmo rintracciar le sorgenti della sua eloquenza singolarissima
di parlatore e di scrittore, di quel suo stile ingenuo insieme ed
enfatico, rotto e tormentato, splendente non di rado di selvatica
bellezza, e qualche volta terribile, del quale egli diede saggi
indimenticabili in pagine che corruscano e scrosciano come cateratte
di lava, e, supremo saggio, la sfolgorante allocuzione guerriera ai
suoi legionari romani del '49. E quando il patriotta, l'idealista,
l'apostolo, l'oratore, lo scrittore fossero sviscerati, rimarrebbe
pur sempre, oggetto ammirando di studio, il capitano. E non
già per risolver la quistione, tante volte posta innanzi
durante la sua vita da ammiratori e avversari, se d'un grande
capitano egli avrebbe spiegato le vaste facoltà quando avesse
condotto un grande esercito: quistione accademica e vana. Ma per
dimostrare come dagli stratagemmi fortunati che gli soccorrevano nei
combattimenti d'un pugno d'uomini sulle rive dei fiumi e nelle
foreste dell'America, risalendo a mano a mano alla condotta
meravigliosa della ritirata da Roma, alla mossa stupenda sopra
Palermo, alla battaglia ammirabile del Volturno e alle sapienti
campagne del Tirolo e di Francia, le sue facoltà potenti di
capitano si andassero allargando con l'allargarsi dei campi
d'azione, e sorgessero nuove facoltà sulle antiche con
l'ingrandir delle imprese.
Ma dopo tutto ciò, una cosa ancora rimarrebbe a spiegarsi, la
quale sarà oggetto di curiosità grande ai nostri
nipoti: da che nascesse veramente la virtù fascinatrice della
sua persona prima ch'egli possedesse quella che gli venne dalla
fortuna e dalla gloria delle sue gesta maggiori. E anche questa
spiegazione, come quella di molte qualità singolari della sua
indole, dovremmo andarla a cercare di là dall'Oceano.
Poichè là la cercai e la trovai in parte, concedetemi
qui di evocare un ricordo personale. Un giorno, in una delle
più grandi e belle città del Rio della Plata, fui
condotto, senza preannunzio, alla sede d'un'associazione popolare;
dove, in due piccole sale bianche s'accalcavano molti uomini
silenziosi. V'era a una parete un ritratto di Garibaldi, e alcune
sue parole di saluto, inquadrate; sulla parete opposta una vecchia
bandiera nera spiegata, con l'effigie del Vesuvio fiammeggiante.
Quell'adunanza era tutta composta di vecchi, i più tra i
sessantacinque e i settant'anni, parecchi ottuagenari; erano antichi
coloni, operai, artefici, commercianti; pochi mulatti e creoli;
tutti gli altri italiani; liguri e piemontesi la più parte:
facce brune, solcate di rughe profonde, grandi barbe canute, rozze
mani e rozzi panni, fronti severe, corpi ancora gagliardi. L'aspetto
di tutti quei vecchi immobili, anche prima di saper chi fossero, mi
destò un vivo sentimento di simpatia e di reverenza.
Immaginate quale fa l'animo mio quando mi si disse: - Questi sono
gli avanzi dell'antica legione di Montevideo e questa è la
loro bandiera: sono i superstiti di quella memorabile battaglia di
Sant'Antonio, di cui fu salutato l'annunzio in Italia con un grido
d'entusiasmo, come quello d'una prima vittoria della nostra causa:
sono quei legionari garibaldini che, moribondi di fame e di sete,
circondati d'agonizzanti e di morti, trincerati dietro a mucchi di
cavalli uccisi, combatterono da mezzogiorno a mezzanotte contro un
nemico quattro volte più forte e uscirono vittoriosi da una
delle più disperate strette che la storia delle guerre
ricordi. La mia commozione di quel momento ve la potrei esprimere;
ma ciò che in alcun modo non saprei rendere è
l'alterezza, l'ardore, l'irruente eloquenza con cui tutti quegli
uomini carichi d'anni, provati da mille vicende, occupati alcuni di
gravi cure, e parecchi poveri e costretti a un duro lavoro per
vivere, si misero, quasi improvvisamente ringiovaniti, a parlare del
loro antico capitano, prima l'un dopo l'altro, poi dieci insieme,
poi tutti in coro, raccontando, descrivendo, imitando. - Tale era il
suo viso, in questo modo egli camminava e gestiva, così
portava il mantello di «gaucho», così si gettava
a nuoto, così mulinava la carabina. - Io son quello che gli
resse la staffa quando saltò a cavallo per slanciarsi a Las
Cruces a salvare il colonnello Nera, ferito a morte. - Io ero
presente quando prese prigioniero quel carnefice del Millan che lo
aveva messo alla tortura, e disse: - non voglio vederlo: liberatelo!
- Io gli stavo accanto a Sant'Antonio quando quel cavaliere
indemoniato del Gomez si slanciò solo sopra di noi per dare
il fuoco alle nostre tettoie, e Garibaldi ci gridò: -
Risparmiate la vita a quel bravo! - E si vedeva che quei ricordi
erano il loro orgoglio e la loro gioia, che non li avrebbero dati,
come diceva Garibaldi, «per un globo d'oro», che se ne
pascevano da quarant'anni come d'una passione che raddoppiasse loro
la vita. E io li guardavo, li ascoltavo, maravigliato, e mi veniva
alla mente il proverbio turco: - chi ha bevuto una volta alla
fontana di Tofanè è innamorato della regina del
Bosforo per tutta la vita. - Così quegli uomini, che avevano
bevuto da giovani l'incanto di Garibaldi, dopo quasi mezzo secolo lo
sentivano ancora. Egli aveva segnato a fuoco sulle loro fronti il
suo nome, per la vita intera. E via via che s'infervoravano nel
risuscitare memorie, nelle loro parole, nei loro occhi, nei loro
gesti l'immagine del Garibaldi antico mi appariva e con essa la
ragione intima e prima della sua potenza. Sì, era quella
faccia leonina, che accoppiava alla forza d'una testa romana la
bellezza d'un profilo greco, eran quegli occhi azzurri che mandavano
baleni di spada e raggi d'amore, era quella bocca fremente da cui
uscivano squilli di tromba e accenti di bontà infantile,
quell'entusiasmo che non contava i nemici, quella fortezza che
sorrideva fra gli spasimi, quella gaiezza che cantava in faccia alla
morte; e sopra tutto questo, come disse Giorgio Sand, qualche cosa
d'arcano, per cui non gli somigliava nessuno, e che faceva pensare:
la irradiazione dei grandi predestinati, il riflesso della visione
interna d'un mondo. Sì, era tutto questo. E dissi a quei
vecchi: - Continuate: voi siete le prove palpitanti della sua
grandezza; egli è più vivo nelle vostre parole che in
mille pagine di storia; parlatene ancora; io porterò l'eco
della vostra voce nella nostra patria lontana. - E oggi per la prima
volta adempio la mia promessa. Mandiamo un saluto insieme a quei
prodi veterani, di cui la maggior parte vive ancora: fra venticinque
giorni essi l'avranno, e sarà come un bacio della patria
sulla loro fronte gloriosa.
Ma, come suole accadere delle persone amate e perdute, che noi
rivediamo sempre col pensiero nel loro ultimo aspetto, più
spesso che l'immagine del Garibaldi fiorente e potente di America,
di Roma, di Palermo, ci si riaffaccia alla mente quella del
Garibaldi degli ultimi anni: quanto mutato! Durante i suoi anni
migliori, noi avevamo sognato per lui una vecchiezza vegeta e lieta,
che fosse come uno sfiorire lento e quasi insensibile della sua
maturità poderosa, una discesa trionfale e serena come d'un
astro che tramonta. E la sua vecchiezza fu invece travagliata e
dolorosa. Noi dovemmo vedere l'infermità che lo torturava
alterare a poco a poco, violare i lineamenti, diventati sacri per
noi, del suo viso, e stender quasi sulla sua fronte il velo della
morte prima che ne fuggisse il lume della vita. Tutti i milanesi e
migliaia d'altri cittadini ricordano, come una delle commozioni
più profondamente pietose della loro vita, lo spettacolo
dell'ultima entrata ch'egli fece nella capitale lombarda per la
commemorazione dell'ultima sua battaglia italiana. Il popolo, che da
anni non l'aveva più veduto, credeva di rivedere, se non il
Garibaldi antico, un'immagine ancora risplendente di lui. Lo vide
invece avanzarsi, portato lentamente da una grande carrozza, disteso
sopra un letto come un ferito a morte, col viso consunto e cereo,
con le mani rattratte e fasciate, col corpo immobile, che a stento
girava ancora il capo bianco e lo sguardo svanito. - Pareva, - disse
uno degli spettatori, - la salma d'un santo portato a processione da
un popolo di devoti, più che il corpo vivo d'un uomo. - Non
era più Garibaldi. La folla immensa, ch'era preparata a
festeggiarlo con la sua gran voce di mare in tempesta, taceva,
costernata, e lo guardava con un senso di stupore e di sgomento. No,
nessuno poteva rassegnarsi a credere che Garibaldi non si sarebbe
più levato da quel simulacro di feretro su cui si mostrava.
Che la legge della vita colpisse inesorabilmente tutti gli altri,
che la vecchiaia, che le infermità atterrassero col tempo
ogni pianta umana più salda e più superba, si capiva;
ma che avessero incatenato anche quel braccio, spento anche quello
sguardo, prostrato anche quella forza, pareva quasi un errore, una
violenza crudele della natura. Pareva di vedere la gioventù
stessa d'Italia e tutti i nostri passati entusiasmi distesi
là moribondi sotto quella specie di mantello funebre che
avvolgeva il corpo dell'eroe. Le fronti si scoprivano, le mani si
tendevano verso di lui, gli occhi lo accompagnavano, umidi di
pianto; ma le bocche rimanevan mute. Solo un mormorio diffuso e
dolcissimo, come una preghiera sommessa della moltitudine, lo
precedeva e lo seguiva. Eran le voci dei giovani della nuova
generazione, che mormoravano: - Noi che non abbiamo combattuto, non
combatteremo più oramai al suo fianco. - Eran le voci delle
donne del popolo che dicevano ai ragazzi: - Guardatelo bene
perchè presto morirà. - Erano i suoi vecchi compagni
d'armi che sospiravano: - Non lo rivedremo mai più! - Era la
città delle cinque giornate che dava al capitano delle trenta
vittorie l'addio supremo!
E dopo d'allora noi numerammo trepidando i suoi giorni; ripigliando
speranza, non di meno, e rallegrandoci ogni volta che la gagliarda
vitalità del suo spirito usciva ancora in qualche
manifestazione improvvisa; come avvenne per l'oltraggio fatto a noi
dalla Francia col trattato del Bardo, quando dal suo orgoglio
lacerato d'italiano proruppero quelle parole terribili che scossero
per un momento l'Italia, come un fulmine scoppiato fuor da una
tomba. Ma l'opera della natura proseguiva, senza tregua, spietata e
rapida: dopo ognuno di quegl'impeti, egli ripiegava il suo bel capo
stanco sopra il guanciale come il pensiero nel passato.
Perchè accompagnarlo con la parola fino all'ultimo istante?
Quella camera nuda dove pende a una parete il ritratto di sua madre,
quella finestra per cui appare il cielo sereno e la marina immobile,
le due capinere che, come sempre, si vengono a posare sul davanzale,
e che egli, con voce spenta, raccomanda ai suoi, perchè
continuino a nutrirle quando sarà morto, l'ultimo sforzo del
capo con cui si volta a domandare del suo piccolo Manlio lontano,
l'ultimo atto convulso col quale si asciuga la fronte, l'ultimo
sguardo lento e sorridente che volge ai suoi figli e al suo mare....
questo quadro è vivo nella memoria del mondo. Anche nella sua
morte, come dice il Thiers della morte di Napoleone a Sant'Elena,
«tutto fu grande, solenne e semplice».
Ed ora quale ultimo omaggio più degno possiamo rendere alla
sua memoria che di rappresentarci al pensiero quella che dev'essere
la prediletta delle sue visioni nel mondo sovrumano dov'egli sperava
di rivedere sua madre? Rappresentiamoci questa visione, che è
della nostra storia di ieri, e par già d'uomini e di gesta di
secoli remoti; passino a lui dinanzi, ed a noi, i suoi dieci
eserciti, le sue bandiere lacere, i suoi eroi, i suoi fratelli, i
suoi figli, e dai loro cuori valorosi, commossi dal ricordo delle
battaglie sacre, non dalle nostre povere labbra, erompa l'inno della
gratitudine e della gloria.
Ritto, immobile sopra una roccia, che sovrasta al flutto delle
generazioni, bello, biondo, superbo come negli anni più
fiorenti della sua giovinezza, alzando il viso splendido e dolce di
redentore, sorridendo dai fieri e profondi occhi celesti, con le
braccia erculee incrociate sul petto vermiglio e i capelli d'oro e
il mantello grigio dati al vento, egli li vede trascorrere ai suoi
piedi, e rivive con tutta l'anima nel passato.
Qual capitano al mondo assistette mai a una sfilata più
maravigliosa di armati e di memorie?
Al primo manipolo di combattenti ch'egli trasse con sè sulla
piccola flottiglia della repubblica di Rio Grande contro i trenta
navigli della squadra imperiale brasiliana, a quello scarso
drappello temerario, così stranamente svariato di
riograndesi, d'italiani, di spagnuoli, di mulatti, di negri,
infiammati dal suo primo grido di guerra per la libertà, fra
i quali brilla il viso ardito e onesto del Carniglia, il gigante
genovese, fedele a lui fino alla morte, - tien dietro
impetuosamente, cantando l'inno nazionale del Figuerroa, sventolando
lo stendardo nero in cui fiammeggia il Vesuvio, la bella legione di
Montevideo, dalle assise verdi, bianche e purpuree, che va a
combattere in difesa della sua «patria d'esiglio»; -
italiani d'ogni provincia, ricchi e poveri, commercianti e
avventurieri, antichi sergenti dell'esercito sardo, futuri generali
dell'esercito italiano: il giovane Medici, che porterà
trent'anni dopo alla tomba del Pantheon la spada del primo re
d'Italia, Francesco Anzani, suo fratello d'anima, un secondo
Garibaldi, cui non mancò che la fortuna, Gaetano Sacchi, il
suo primo alfiere, i primi compagni, i primi spettatori della sua
aurora gloriosa, quelli ch'ei ricorderà per tutta la vita con
la più dolce predilezione del suo cuore d'eroe.
Passa la legione di Montevideo, e un altro esercito viene innanzi,
più tumultuoso, più ardente, più italiano, che
agita in alto la bandiera di Giuseppe Mazzini: la legione dei
Vicentini, il battaglione dei Pavesi, le reliquie dei suoi
commilitoni d'America, il fiore dei prodi delle Cinque giornate, uno
stuolo di signori lombardi, uno sciame di nizzardi e di liguri,
un'accolta di combattenti di tutti i Corpi franchi dell'alta Italia,
in divisa di soldati e in panni di cittadini, chiusi in casacche
strappate ai Croati, vestiti del costume italico con la giacca di
velluto e il cappello piumato, armati di fucili e di sciabole d'ogni
forma e di spiedi e di bastoni e di scuri: l'esercito dei volontari
del '48 che passa e lo saluta d'un evviva frenetico, rammentandogli
il primo sangue italiano sparso su terra italiana sotto le ali
vittoriose del nome suo....
Ed ecco un altro esercito più bello, più potente,
più glorioso: l'esercito di Roma: i suoi valorosi di Villa
Panfili e di Villa Spada, il battaglione dei Reduci, i quattrocento
universitari, i trecento doganieri, i trecento emigrati, la sua
brava legione del quarantanove; e primi tra i primi l'eroico Luciano
Manara, stretto al fianco d'Emilio Dandolo sanguinante, nelle cui
braccia rese l'anima; Goffredo Mameli, bello come un dio risorto;
Emilio Morosini, l'eroe di diciott'anni, grondante sangue da tre
ferite; il prode Dalla Longa, morto salvando il cadavere d'un
fratello; e in mezzo alle schiere, piantala in groppa a un puledro,
la sua Annita intrepida e amata che frustò i codardi sulla
via d'Orvieto, e il suo fido Ugo Bassi, coronato a Bologna dalla
morte che ambiva, e il gentile Luigi Montaldi, il gemello del
Mameli, crivellato dalle baionette dei vinti del 30 aprile, e il
Montanari, e l'Isnardi e il Marocchetti, che accettarono il suo
fiero invito sulla piazza del Vaticano, e gli furono compagni in
tutte le vicende dell'epica ritirata. E: - Gloria a te, - gli
gridano - o grande rivendicatore di Roma! - e l'inno immortale del
biondo fratello caduto ascende dall'anima loro al suo cuore.
Le note dei «fratelli d'Italia» si perdon nell'aria, e
un altro esercito s'inoltra, d'aspetto diverso e nuovo, ordinato e
disciplinato come un vecchio esercito, una fiumana di cappotti grigi
e di berretti turchini, segnati dalla croce di Savoia, battaglioni
serrati e rapidi di studenti, d'artisti, di dottori, di patrizi,
d'operai, di poeti, comandati da antichi ufficiali di Venezia, di
Roma e del Tirolo, l'esercito del '59, i valorosi Cacciatori delle
Alpi; e tra le prime file il tenente Pedotti con una palla nel
cuore, e il Guerzoni con la spalla infranta, e il De Cristoforis col
ventre lacerato, e Narciso Bronzetti, superbo di tre ferite mortali,
sorridono al loro generale adorato, e agitando le carabine e le
spade vittoriose gli gridano i nomi delle loro tre battaglie, e al
suono dei tre nomi benedetti balena la fronte augusta tre volte....
Ed ora: tre volte gloria! Ecco l'esercito leggendario, i trentamila
vincitori del '60, un torrente color di fuoco, i «mille»
immortali, soldati di tutti i popoli, centinaia di giovinetti e
d'uomini canuti, stormi di calabresi e di «picciotti»,
una pleiade di generali registrati dalla storia, il Sirtori, il
Cosenz, il Turr, il Lamasa, l'antico campione del Vascello; e in
capo alle file dei più bravi, i morti venerabili e i feriti
memorandi: il Tukery, fulminato all'assalto di Palermo, Benedetto
Cairoli che gitta sangue dalla fronte, Nino Bixio che si strappa dal
petto con le proprie mani la palla borbonica, Deodato Schiaffino,
bello come una figura del Da Vinci, caduto sotto un'intera scarica
di plotone a Calatafimi, Achille Majocchi che agita tra il fumo il
braccio troncato, l'Elia che ricevette nella bocca il piombo diretto
al cuore di Garibaldi, e Filippo Migliavacca, l'eroe di Varese,
morto come un romano antico a Milazzo, e Pilade Bronzetti, il cui
sacrificio sublime al Volturno salvò l'esercito da un colpo
mortale. E tutti passano lanciando le note trionfali dell'inno del
Mercantini all'immagine luminosa del loro dio.
E un altro esercito si avanza, quanto diverso da quello che
s'allontana! ma pure bello e solenne nella sua austera tristezza:
due legioni di soldati agguerriti d'ogni terra d'Italia, il
battaglione eletto dei Palermitani, una moltitudine d'inermi, stuoli
di ragazzi scalzi, di veterani coi capelli grigi e il petto
scintillante di medaglie, laceri, infraciditi dalle lunghe pioggie,
stremati dalle marce forzate e dalla fame, pensierosi tutti e
taciturni come chi porta nell'anima una santa speranza uccisa; ma
alla vista del grande caduto d'Aspromonte rialzan tutti insieme la
testa e gli gettano l'antico motto: «Roma o morte!» con
l'alterezza e con l'entusiasmo antico, e gli gridano: - Benedetta la
tua ferita, o nostro capitano e nostro padre, poichè fu il
piombo fraterno a cui t'offristi quello che ruppe, in un colle tue
carni, la prima pietra delle mura di Roma! - Ed egli risponde loro
dolcemente: - Benedetta la mia ferita!
E altri tre eserciti s'avanzan di corsa, empiendo il cielo del loro
grido. Passano i venti reggimenti rossi del '66, fiancheggiati dalle
artiglierie dell'esercito regio, portando in trionfo l'intrepido
Lombardi, grondante d'acqua del Chiese, tinta del sangue della sua
fronte spaccata, e il fortissimo Chiassi ferito nel cuore, e il
temerario Castellina, crivellato di palle a Vezza, e le sue guide e
i suoi aiutanti che fecero una barriera di petti fra lui e la morte
sulla via di Tiarno, e lo stuolo eroico ch'egli spinse all'ultimo
assalto di Bezzecca. E poi un'altra grande ondata di divise
purpuree, biancheggianti di polvere, i bersaglieri del Burlando e
dello Stallo, i carabinieri genovesi del Mayer, ultimi a lasciare il
campo fatale, i lombardi e i romagnoli del Missori, e sovrastanti a
tutti, soffocati dalla rabbia e dal dolore, risoluti a morire, il
vecchio Fabrizi, Alberto Mario, il Friggeri, il Pezzi, il Cantoni
morto, il conte Bolis morto, il Giovagnoli morto; tutto l'esercito
di Monterotondo e di Mentana, illuminato da un raggio d'oro della
gloria di Roma. E finalmente l'esercito internazionale dei Vosgi,
vestito di mille fogge e armato d'ogni forma d'arme, una folla
tempestosa d'italiani, di francesi, di spagnuoli, di greci, di
polacchi, d'algerini, di soldati stanziali e di volontari e di
franchi tiratori e di guardie mobili, che sollevano in alto
anch'essi i loro morti gloriosi e le loro bandiere insanguinate, e
confondono la loro voce con le voci lontane di quelli che passarono,
gridando: - Gloria a te, che ci guidasti per tante vie e su tante
terre a combattere, sempre per una causa grande come l'anima tua.
Gloria a te, sempre il primo ad assalire, sempre l'ultimo a cedere,
sempre il più forte nella sventura, sempre il più mite
nella vittoria, sempre grande egualmente nell'ira e nell'amore,
nella oscurità e nella potenza, nel trionfo e nella morte!
Gloria a te, tribuno infaticato di tutti i popoli, cavaliere
generoso di tutte le patrie, amore e vanto del sangue tuo e della
razza umana!
E quando le ultime grida dell'ultimo esercito muoion nello spazio,
un'altra folla s'avanza ancora col dolce mormorio d'un fiume
tranquillo, e son le creature sconosciute a cui egli salvò la
vita, i nemici a cui fu benigno, gli offensori a cui perdonò,
e i feriti che rialzò da terra sul campo, e i moribondi a cui
resse il capo negli ospedali, e le madri orbate a cui terse le
lacrime e fece risollevare la fronte, e le fidanzate a cui tolse un
fanciullo e restituì un eroe, e gli umili e gl'infelici
d'ogni terra ch'egli soccorse e carezzò e benedisse; e -
Gloria a te - gli gridano anch'essi, levando il volto e le mani - e
sia benedetta la gloria tua!
Rimani dunque eternamente, sulla tua roccia solitaria, bello,
biondo, superbo come negli anni fiorenti della tua giovinezza, col
tuo viso splendido e dolce di redentore, sorridente dai profondi
occhi celesti, con le braccia erculee incrociate sul petto vermiglio
e i capelli d'oro e il mantello grigio dati al vento, e passi
reverente ai tuoi piedi, rispecchiando la tua grande immagine,
l'onda infinita della posterità.
VI.
Per Gustavo Modena.
(Inaugurandosi un suo busto in Torino.)
Ecco quale fu, nella maturità degli anni e del genio,
effigiato mirabilmente, l'artista grande, il cittadino fortissimo.
Per tutt'e due questa è un'ora di gloria. Come l'attore
vedeva nel suo uditorio un popolo e di là dal teatro
l'Italia, noi vediamo nel suo simulacro l'apostolo e il soldato
della libertà, e sopra la corona dell'artista, l'aureola del
patriotta.
L'Italia e l'arte furono i suoi affetti supremi, alla redenzione
d'entrambe consacrò ogni sua forza; ma non di pari affetto le
amò: risolutamente, in ogni evento, antepose la Madre alla
Dea.
Simbolo della doppia opera sua fu egli stesso quando in Roma
assediata, confidente del Mazzini triumviro, recitò a
beneficio dei feriti, mentre tuonava il cannone alle mura e nelle
vie dintorno squillavano le trombe. Fra le ansie e i cimenti della
guerra compiva un atto benefico, in pro della patria, col mezzo
dell'arte: tale fu la sua vita. E così strettamente si
congiunsero in lui l'ideale dell'artista e l'intento del cittadino,
la potenza del genio e la fortezza dell'animo, che non può
nessuno, senza offender la ragione e la giustizia, scindere
virtù da virtù nell'ammirazione che gli tributa.
Nel Davide ventenne che esordisce superbamente a Venezia due anni
dopo che è nata Adelaide Ristori, quattro anni prima che
nasca Tommaso Salvini, palpita ancora l'intrepido studente di Padova
che una santa indignazione avventa, inerme, contro le baionette
tedesche da cui ha le carni lacerate. Nel Cittadino di Gand,
spregiatore della morte, freme il patriotta del 1831 che vuol morire
sotto le rovine d'Ancona e che nella difesa sanguinosa di Cesena
arrischia fra i più temerari la vita. Vestito del lucco
fiorentino, quando primo fra gli stranieri dà volto e voce
alle ire magnanime di Sordello e Farinata, egli è l'esule
doloroso che Dante perscruta «scendendo in sè
stesso» e nelle calamità dell'Italia dei suoi giorni
comprende lo spirito del poema sacro. Ed è ancora il
difensore valoroso di Treviso e di Palmanova che ci appare sotto
l'assisa del sergente Guglielmo; è il potente oratore
dell'assemblea costituente toscana, propugnante l'unione immediata a
Roma, che tuona nell'eloquenza infiammata di Caio Gracco; e nel
diacono di Ravenna, che narra a re Carlo il passaggio ardimentoso
delle Alpi, mentre l'autor dell'«Adelchi» ascolta ed
ammira, parla il fuoruscito senz'asilo, che valica a piedi le
montagne del Giura, lacero e digiuno, ma non prostrato dell'animo,
divorato dalla febbre, ma sorridente d'amore alla sposa eroica e
dolce che lo accompagna.
Dubbio è veramente sotto quale aspetto gli si debba oggi
onoranza maggiore. Nobile, ammirabile è l'artista sommo che,
offertagli la direzione della regia Compagnia sarda, ricusa per
coscienza repubblicana il lucro e l'onore, e va di città in
città, di villaggio in villaggio, principe ramingo e
solitario dell'arte, non chiedendo all'arte che la vita, e
trascinando la sua gloria come una croce. Ma ammirabile non men
dell'artista è il ribelle che, minacciato dal capestro
austriaco e dalla mannaia romana, tradotto in catene a Messina,
scampato per miracolo in Francia, ritorna a sfidare il carnefice
nella Romagna insorta, donde non porta in salvo la testa che per
avventurarla un'altra volta tra i primi nell'insurrezione di Savoia.
Ma ammirabile non men del ribelle è il cooperatore proscritto
della «Giovine Italia» che, scacciato da Marsiglia a
Berna, da Berna a Bruxelles, da Bruxelles a Londra, esercitando i
commerci più umili, rifiutando i sussidi, stentando il pane,
porta alta fra ogni gente la dignità della sua bandiera e
della sua sventura. E più grande dell'attore trionfante, nel
pieno splendore della sua fama, fra gli applausi frenetici di Milano
redenta, è l'attore del 1848, al quale i primi annunzi del
ridestarsi d'Italia confondono il cuore e troncano la parola alla
ribalta; è il direttore di Compagnia che scrive al compagno
d'arte e d'affari: - «Guerra e rivoluzione sciolgono ogni
contratto» - e calpestando danaro e corone accorre per la
quarta volta, soldato della patria, dove fuma la polvere e il
sangue.
Cittadino e artista, ebbe due grandi intenti: innalzar l'arte ad
apostolato di risorgimento nazionale, facendo del palco tribuna
all'amor patrio, altare all'eroismo, gogna alla tirannide, e
rigenerar l'arte stessa riconducendola al vero, senza deviarla da
quell'ideale del bello e del grande, che fu il sole dell'anima sua.
Ma convien ricordare quali fossero l'arte e il teatro quando, reduce
dall'esilio, egli s'accinse all'opera, per comprendere qual cumulo
di difficoltà gl'ingombrasse la via, quanto vigor di coraggio
e di costanza gli occorresse a superarle, e come fosse da tanto egli
solo che, già chiaro per ardimenti, dolori e invitta fede
italiana, raccoglieva in sè il rispetto e la simpatia delle
varie classi cittadine, nel sentimento della patria concordi, nel
sentimento dell'arte divise.
Cadente il regno della tragedia classica e della commedia goldoniana
e non ancor pregiate che dalla schiera colta le opere italiane dei
nuovi ingegni e le poche buone che venivan d'oltralpe; appassionata
la moltitudine per un bastardo romanticismo drammatico, nel quale ai
pochi attori eletti che, pur piegando al falso, intendevano al vero,
prevaleva un branco d'istrioni manierati e gonfi come il linguaggio
dei loro eroi; miserrimo non per tanto lo stato della più
parte delle compagnie comiche, preferendo l'aristocrazia il teatro
francese e la borghesia la musica, a cui il teatro di prosa era
anche peggio d'ora immolato; disparatissimi infine, senza confronto
più che al presente, per essere smembrata l'Italia, i gusti
delle varie cittadinanze, che dalla scena distraeva il
presentimento, la preparazione, l'incalzarsi dei grandi avvenimenti
politici: tali erano il teatro, l'arte, il pubblico quando Gustavo
Modena sorse.
In così aspro campo, in contro a tante forze ebbe a
combattere, e combattè tutta la vita. - Memorando ardimento!
- come disse dell'Alfieri il Leopardi. Gli è strappato il
frutto di otto anni di fatiche dalla confisca austriaca del suo
podere di Treviso; da una città all'altra d'Italia è
costretto a viaggiare con le cautele d'un fuggiasco per evitar gli
Stati donde è bandito; è relegato da ultimo dentro ai
confini del Piemonte e della Liguria dove gli è forza di
scendere fino ai teatri più miseri, e dalla salute mal ferma
è ricondotto ogni inverno al suo romitorio di Torre Pellice,
donde lo ricaccia alla scena, e dalla scena al commercio, il
bisogno; ma non si perde d'animo mai. Altero e indomabile, egli
lotta con le censure dispotiche, coi municipii gretti, con gli
appaltatori ingordi, con le compagnie privilegiate, con cittadinanze
indifferenti o, per ragion di parte, malevole, che gli avvelenano la
gioia dei trionfi, e, pure lottando e peregrinando senza tregua,
lavora e crea senza posa. Crea personaggi, educa alunni, divina
ingegni, incoraggia autori, propone e discute soggetti di dramma,
ricorre tutte le letterature drammatiche, commenta e traduce, scrive
di politica e d'arte, vagheggia fino agli ultimi giorni, per il
risorgimento del teatro, il suo sogno d'una Compagnia libera, e
soltanto sul letto di morte, e dopo aver provveduto alla sorte della
moglie adorata che gli singhiozza sul cuore, trova finalmente
riposo. Quanto fu tempestosa la sua vita, tanto la sua morte
è serena; affranto da tante fatiche, egli s'addormenta
senz'affanno, e sul suo viso tragico, ultimo riflesso della
coscienza intemerata, resta un sorriso.
Quale fu l'arte sua? Audacia sarebbe il tentar di descriverla con
ricordi vaghi dell'adolescenza. Ma chi lo potrebbe far degnamente?
Dicendo, come altri disse, che classico e realista ad un tempo, e
novatore senza infrangere ogni tradizione della scuola antica,
studiava i grandi personaggi nella storia, nella letteratura,
nell'anima propria, e li coloriva giovandosi con sagacia acutissima
della sua varia e profonda esperienza della vita, e dava loro con
efficacia insuperabile il grido delle sue gagliarde passioni, si
dice l'armonia e la profondità delle sue facoltà
artistiche, non l'originalità stupenda della sua recitazione.
Dicendo che, maestro impareggiabile nell'arte di modulare il verso e
il periodo e di dare allo studio faticoso l'apparenza
dell'ispirazione spontanea, egli accoppiò a una
mobilità maravigliosa del volto una voce a cui erano concessi
i passaggi più ardui e le note più alte e terribili
che possano erompere dal petto umano, che la sua persona poderosa si
ergeva come la forma ideale della maestà e della forza e si
piegava e immeschiniva fino all'aspetto più compassionevole
dell'infermità e della miseria, e che il suo passo parlava e
il suo gesto scolpiva e i suoi occhi fulminavano, si dice quello che
d'altri grandi attori fu detto.
E chi anche lo descrivesse nella rappresentazione intera d'un
personaggio, rammentando, come altri fece, le voci, i gesti, i
passi, ogni idea sua propria, renderebbe pur sempre una sola delle
cento facce del suo genio; il quale da Lindoro a Saul, da Luigi
undecimo a Edipo, ascese tutta quanta, la scala smisurata del
dramma, come nella dizione magistrale della «Divina
Commedia» risalì da Vanni Fucci a San Pietro.
Potremmo accumulare immagini sopra immagini, e faremmo per chi non
l'intese opera vana, come il definir con parole a chi non lo vide
ciò che distingue dagli altri mille il viso d'un uomo. Non
v'è giudizio di posteri per l'arte che rifà più
vivamente la vita. Grida di dolore e di sdegno a cui sobbalzava la
folla come alla voce stessa della patria e in cui pareva espandersi
l'odio d'un'intera generazione contro la tirannide, scoppi di pianto
disperato onde mille visi impallidivano, lampi della parola che
illuminavano recessi ignorati dell'anima e altezze non prima vedute
del pensiero ond'egli era interprete, e atteggiamenti nobili e
superbi come forme statuarie di Michelangelo, voi non siete
più che nella mente d'alcuni, nati nella prima metà
del secolo, e sarete fra pochi anni scomparsi affatto anche dalla
memoria degli uomini.
Scomparsi, ma non perduti.
Come non si perde l'acqua fecondatrice che la terra beve e rispande
in umor vitale su per le fibre dell'erbe e degli alberi, tale
è di tutto ciò, che fu la grande arte sua: gli
accenti, gli atti, gli sguardi, tramutati in forza di passione e di
idee nella generazione che li vide e li udì, operano ancora,
eredità ignorata, nella generazione presente, e in mille echi
e riverberi vivono tuttavia nell'arte d'oggi, e nell'arte avvenire
perdureranno. L'arte si trasforma e procede, ma Gustavo Modena non
muore. Sulla fronte dei novatori più arditi brilla ancora un
raggio del suo spirito, e fin che nel teatro italiano avranno culto
la verità e la grandezza, ad ogni rappresentazione dei
capolavori ch'egli segnò del suggello del suo genio, si
vedrà passare in fondo alla scena l'ombra enorme del suo
capo.
Ma non nell'arte soltanto e nel nostro spirito: rimane gran parte
dell'anima sua in quell'epistolario incomparabile, nel quale,
più che l'arguzia inesausta e la cultura varia e l'agile
vigore d'uno stile esuberante di vita, anche i suoi più fieri
avversari politici son forzati ad ammirare la sincerità
profonda e la saldezza incrollabile della sua fede.
Repubblicano fu, nel fondo dell'anima, dalla prima giovinezza alla
morte, e propugnatore d'una politica audacemente rivoluzionaria,
aborrente da ogni aiuto straniero, che non procedesse anch'esso da
rivoluzione, intendendo a una confederazione europea di repubbliche.
E certo è che quanto ei voleva sarebbe stato saggio e
attuabile se tutti gli italiani avessero avuto mente e fibra pari
alla sua. Questo appunto egli credè fermamente, come lo
credè il suo maestro; onde gli parve verità
afferrabile quell'ideale che, giusta la sentenza d'un grande,
è la verità veduta di lontano; e lontana facevano
allora la verità dalla sua fede le moltitudini immature a
quella forma di reggimento liberissimo e impotenti a quell'azione
indipendente, unanime, eroica, fuor della quale egli non vedeva
salute. Il disinganno lo trafisse; ma da quello ch'ei stimò
errore e sventura del suo popolo, non da misere ambizioni deluse,
non da angusto risentimento d'orgoglio offeso, derivò
l'amarezza iraconda che lo fece così fieramente severo coi
suoi contemporanei e con l'opera loro. E però il suo dolore
è nobile, l'ira generosa, e il grido che s'alza dalla sua
coscienza spartana contro la servilità e la corruzione che
dànno di sè i primi segni, è grido di profeta.
E fa professione di scettico invano: egli infuria e impreca
perchè soffre, e soffre perchè ama ancora; e nel suo
riso di disprezzo trema un ruggito e il sarcasmo atroce che gli
scatta dalle labbra stilla sangue del suo cuore.
Ah, quanto è diversa l'opera dell'uomo dalla parola della sua
collera! Dice: - Disprezzo il mio prossimo, sono nauseato di tutti e
d'ogni cosa; - ma, stanco e infermo, e bastante appena a provvedere
a sè stesso, recita a beneficio di compagni d'arte e di
Società operaie, soccorre emigrati e proscritti, e fino a
pochi giorni prima di morire porge la sua povera borsa a quanti
naufraghi del teatro gli tendon la mano. Scrive: - L'Italia è
morta; stoltezza è sacrificare i moltissimi buoni alla
rigenerazione dei molti vilissimi; - ma sottoscrive a prestiti per
la causa italiana, sussidia giornali, fonda tiri a segno, dà
il suo obolo e il suo consiglio per affrettare ogni moto in cui
appaia un barlume di speranza, e la notizia dei supplizi di Mantova
gli strappa dall'anima dilaniata lacrime di sangue. Afferma - che il
nome della sua patria gli s'è fatto odioso e che vuol
rifugiarsi e farsi seppellire in un angolo della Svizzera dove non
ne giunga più il suono; - ma, invitato a recarsi in America,
dove potrebbe assicurar l'agiatezza della sua vecchiaia, dalla
patria non ha il coraggio di staccarsi e, indispettito contro
sè medesimo, rifiuta, e resta nel suo eremo, dove si leva
innanzi giorno per attinger l'acqua e accendere il fuoco. Grida in
un impeto di rabbia: - Meglio la casa d'Absburgo che ci trattava a
ragione come negri; - ma quando in nome dell'arciduca Massimiliano
gli sono offerti salvacondotto, onori e guadagni perchè vada
a recitare in Milano austriaca - No - risponde - piuttosto la fame.
Tale era in fondo questo povero grande cuore ferito che, a parole,
malediceva la patria e rinnegava l'umanità; tale era
quest'anima in stato di procella perpetua, quest'artista glorioso e
sdegnoso che, se il teatro gli fosse stato precluso, sarebbe
riuscito uno scrittore illustre, che, se a più alte prove lo
avessero posto gli eventi, sarebbe stato un eroe, che se avesse
sortito la ricchezza l'avrebbe usata come quei benefattori insigni
che la storia ricorda e il popolo benedice.
Bello è che sorga un monumento in suo onore nella Capitale
del Piemonte, che fu ultimo rifugio alla sua vita errante e campo
dei suoi ultimi trionfi. Non meno di quello che sorgerà nella
sua Venezia nativa sarà rispettato e amato questo dal popolo,
che per trent'anni lo attese. E la gioventù verrà con
reverenza a contemplare questa fronte che non piegò mai,
questi occhi in cui rifulse il genio, questa bocca che non
macchiò nè adulazione nè menzogna, questo petto
nel quale fremettero tutti i dolori e tutte le ire della patria
oppressa, e che con pari coraggio sfidò la tirannia,
sopportò la povertà, lottò per l'ideale e
affrontò la morte....
Resti qui dunque perpetuamente, o Maestro venerato, la tua immagine,
fidata alla guardia amorosa di questa Torino che raccolse il tuo
ultimo sospiro e custodisce le tue ossa; resti invulnerata dai
secoli al bacio del sole e della gloria, e dalla bocca di pietra
spiri ancora alle generazioni venture il soffio della libera e
grande anima tua.
VII.
Per Felice Cavallotti.
Sono trascorsi sette giorni; alla prima oppressione dello sgomento e
del dolore, che ci oscurarono lo spirito e ci strapparono il pianto
dal cuore, è succeduta la tristezza profonda e lucida, che
ricorda, medita e lamenta: eppure non possiamo ancor pronunziare
senza un fremito d'angoscia ribelle a ogni rassegnazione, senza una
ripugnanza del cuore incredulo e delle labbra tremanti - come se
fossero un'orribile menzogna, queste tre sciagurate parole: - Felice
Cavallotti non è più! - Noi non possiamo rassegnarci a
pensare: - Altre ingiustizie pubbliche, altre violazioni della
libertà, altri conati della reazione si succederanno, - ed
egli le ignorerà; la patria patirà nuovi dolori,
correrà nuovi pericoli, subirà forse altre vergogne -
e le sue labbra taceranno; altri frodatori del comune avere, altri
corruttori delle istituzioni patrie e profanatori del santo nome
d'Italia compiranno le loro imprese, e la sua mano vindice -
smascheratrice implacabile di tutti i mercanti del patriottismo -
rimarrà inerte; supremi interessi nazionali si discuteranno,
si combatteranno grandi battaglie politiche, care feste della
patria, anniversari di giornate gloriose, conquiste e trionfi della
libertà e del diritto si celebreranno in adunanze fraterne e
solenni, - ed egli non v'assisterà. Felice Cavallotti che
voleva dir forza, moto, azione, speranza inestinguibile, giovinezza
perpetua - Felice Cavallotti che per noi teneva luogo d'una legione,
del quale sentivamo anche da lontano l'alito possente e la voce che
echeggiava sul paese come uno squillo di tromba - Felice Cavallotti
che la nostra immaginazione, precorrendo il tempo, godeva a
rappresentarsi ancora operoso e combattente nell più tarda
vecchiaia, circondato dalla reveranza e dalla gratitudine
pubblica.... bisogna pur che ci rassegniamo a profferire, a
ripetere, a configgerci nel cervello e nel cuore queste tre
terribili e quasi incredibili parole: - Felice Cavallotti e morto!
Commemorarlo? A che pro, se da tanti giorni non si parla che di lui?
se la sua vita intera è presente al pensiero di tutti? E
com'è possibile, mentre dura intenso ancora il dolore, aver
libera la facoltà che ordina i fatti, collega i particolari,
chiarisce e giudica i moventi e gl'intenti delle passioni e degli
atti? Altri farà questo un giorno, forse molti lo faranno, e
faranno opera utile e bella. Lo prenderanno fanciullo, crescente nel
seno d'una famiglia amorosa, ma più vicina alla
povertà che all'agiatezza, esercitato fin dai primi anni a
sopportar con animo forte le privazioni, educato agli studi severi
dal padre, dotto filologo, ch'egli aiuta nei suoi lavori;
spiegheranno come nella furia delle sue prime letture di libri
cavallereschi abbia avuto origine quello spirito generoso,
avventuroso, battagliero, irrequieto che agitò tutta la sua
vita; lo seguiranno a passo a passo, da quando, poco più che
fanciullo, si mette a capo d'una dimostrazione patriottica e
vaticina in un opuscolo l'unificazione della Germania, via via, per
le varie tappe, soldato dì Garibaldi a Milazzo e al Volturno,
collaboratore dell'«Indipendente» del Dumas a Napoli,
poi a Milano, studente di legge, poeta e giornalista ad un tempo,
faticante per guadagnarsi il pane; poi soldato un'altra volta nel
'66, combattente a Vezza, in Val Camonica; poi da capo giornalista,
nella capitale lombarda, polemista baldanzoso e indomabile, che
smette a ogni tratto la penna per impugnare la sciabola; tradotto di
processo in processo, fuggiasco all'estero, nascosto in Milano,
poetante nella prigionia, e dopo ogni processo e ogni prigionia
più infiammato e più audace di prima.
E pervenuto a questo punto il biografo non sarà ancora che al
principio. Egli dovrà accompagnarlo nella sua vita
parlamentare per un quarto di secolo, deputato di Corteolona, di
Pavia, di Milano, di Piacenza; saldo sempre nella sua fede
repubblicana, ma, com'egli disse - «italiano prima,
repubblicano poi»; - lottante, salvo rare e brevi tregue,
contro tutti i ministeri; paladino dell'Italia irredenta, nemico
dell'alleanza austriaca, oppugnatore degli armamenti rovinosi,
avversario della politica affricana, denunciatore di tutte le
violazioni della legge, di tutti gli abusi del potere, di tutti gli
sperperi dell'amministrazione; fiero, infaticabile rivendicatore
della moralità pubblica, fu istigatore di tutti i
prevaricatori e corrotti e complici loro, potenti ed oscuri, nel
parlamento, nella stampa, nei tribunali, nei comizi, in tutte le
regioni e da tutte le tribune d'Italia. Ma dovrà aggiungere
il biografo come a questa lunga e guerresca vita parlamentare,
segnata di discorsi e di tempeste memorabili, egli intrecciasse
ancora, quasi senza interruzione per molti anni, l'opera poetica e
drammatica, alternata di dure lotte e di vittorie sudate, e come
all'opera della creazione artistica accompagnasse l'opera erudita,
critica e polemica, condotta con lunghi e pazienti studi, nel campo
del teatro, della storia, della nuova poesia: opera interrotta alla
sua volta da nuovi processi, da nuovi duelli, da nuove tempeste, da
commemorazioni ispirate e memorande di grandi fatti e di grandi
morti, e da faticose e ardimentose campagne elettorali; e come
infine in mezzo alle lotte, alle cadute e ai trionfi, inteso sempre
e soprattutto alla grande voce del paese, egli abbandonasse ogni
cosa sua quando suonava il grido d'una sventura pubblica, e
accorresse a Napoli e a Palermo a soccorrere e a confortar le
vittime dell'epidemia col coraggio d'un eroe e con l'amor d'un
fratello. Sì, ammirabile vita, nella quale i venturi, secondo
i principii politici e l'indole loro, potranno trovare errori,
violenze, temerità, disarmonie; ma non disconoscere una
grande forza diretta da una coscienza onesta, da un profondo amore
della patria, da un'ardente passione per la verità, per la
giustizia, per il bene; - ma non rifiutarsi ad ammirare una
maravigliosa cospirazione di virtù della mente e dell'animo,
rarissime a trovarsi riunite, quali son l'impeto dell'entusiasmo e
la tenacia ferrea della volontà, la vigoria infaticabile del
pensiero e dell'azione, e con una nobile ambizione di gloria, col
sentimento e il culto della bellezza, con la vivacità degli
affetti, con tutto quello che fa bella e cara la vita, la forza d'un
cuore sempre pronto ad affrontar le persecuzioni, gli odii, il
dolore, la povertà, a rinunziare senza titubanza e senza
rammarico a ogni bene della vita e alla vita stessa, come se per lui
la pace, gli affetti, la gloria, l'esistenza non avessero valore
alcuno se accettate a prezzo di una transazione con la propria
coscienza a d'una violenza fatta alla propria ragione. Sì,
ammirabile vita, che si può simboleggiare in questa bella
figura: un soldato con la camicia rossa, con una corona di poeta
sulla fronte, ritto sopra una tribuna; il quale mostra le mani alla
patria per cui ha combattuto per quarant'anni con la spada, con la
penna e con la parola, e le dice: - Guardate, sono pure! Non le ho
macchiate mai che del mio sangue.
Vediamo ora, rapidamente, il poeta lirico, il drammatico, l'oratore,
il polemista, il cittadino, l'uomo.
Poeta fu, nel più profondo dell'anima. Di poeta ebbe - per
usar le parole d'un suo illustre avversario - il soffio, l'essenza
alata, l'anima lirica. Non cercò nuove forme: fece sue quelle
della poesia patriottica che palpitava in tutti i cuori quand'egli
s'affacciò alia vita, le forme del Rossetti, del Berchet, del
Manzoni. Dice egli stesso all'autore della «battaglia di
Maclodio»: - «quest'umile cetra apprese le forme da te,
e il mio canto modula alla tua scuola gli accenti d'una speranza che
non è più la tua». - L'impeto della passione
soverchiante non gli poteva consentire le sottili e pazienti
industrie di stile e d'armonia, che più tardi vennero in
onore. La sua poesia fu propriamente un canto sgorgante dall'anima,
poesia di battaglia, piena dì strepito d'armi, di schianti di
fulmine, di fremiti di popolo, di grida d'ira e di dolore. La
successione delle sue strofe di decasillabi somiglia all'incalzarsi
di manipoli di combattenti che corrono all'assalto; nelle quali le
rime sono punte di spada e i tronchi finali urrà di vittoria.
Ma nell'uniformità dei metri facili e sonori, quanta
varietà d'ispirazioni, dall'inno alla satira, alla romanza,
all'elegia, all'epigramma, ed anche quanta sincerità e
freschezza giovanile di passione! L'anima affaticata dagli urti e
dalle procelle, ferita qualche volta dal taglio del sarcasmo di qui
si fa arma, si rifugia in sè stessa, cerca conforto negli
affetti gentili e pace in fantasie e sogni di solitudine e di
oblìo, e allora un nuovo poeta vi appare, d'una dolcezza e
d'una delicatezza squisita, che vi tocca le più intime fibre
del cuore. Ma già questo poeta voi lo indovinate anche nelle
poesie di battaglia, dove a ogni tratto spunta un fiore, brilla una
goccia di pianto, suona una nota di mestizia soavissima. Vi
ricordate quando dice al Manzoni morto: - «dormi, o vecchio, e
sopra la tua zolla ti conforti i placidi sonni la rosa che ti
donò Garibaldi»? - e quando dice a Adelaide Cairoli,
rammentandole il giorno che pregava alla tomba del suo primo
figliuolo caduto: - «Ma allora, dopo la preghiera, ti rialzavi
più forte, perchè ti rimanevano, ti baciavano ancora
in viso quattro figli; e t'era così dolce il cercare su quei
quattro volti il sorriso del tuo morto!» - E quando al poeta
che impreca, infuriando, al cadavere della donna amata che lo fece
soffrire, dice quella dolce e sapiente parola: - «Ah no, non
insultarla! Ah non nelle maledizioni e nello scherno troverai il
refrigerio che vai cercando, povero poeta! Tu non sarai guarito se
non il giorno che perdonerai!»
E vorrei proseguire: vorrei imitar l'esempio di Emilio Augier, che
all'Accademia francese, dovendo tesser l'elogio d'un poeta illustre,
disse: - Quale omaggio migliore gli si può rendere che quello
di recitare i suoi versi? e conchiuse: - Non aggiungiamo nulla:
portiamo con noi intera la nostra commozione, e che il poeta
tramonti nella sua gloria. - Ma recitar quei versi che furono la
più schietta e calda espressione dell'anima sua, e darmi
così l'illusione di riudir quella voce che non udrò
mai più, non potrei: la commozione me li soffocherebbe nel
cuore. Evochiamo una sola, la più bella forse delle sue
creazioni, quella in cui più mirabilmente s'accordano
l'altezza del concetto, la grandezza del disegno e l'andamento grave
e solenne del ritmo che par che segni il passo di Leonida armato nel
silenzio della notte. Alla mente di tutti, senza dubbio, è
presente la figura augusta dell'eroe che, al raggio delle stelle,
risorto dalla tomba d'Antelo, con la grande asta nel pugno,
discende, circonvolato dall'aquile, per andar a cercare se sia sorta
nel mondo una nuova gloria pari a quella delle Termopili, e riposar
là, in mezzo ai fratelli degni, dei suoi trecento. Si
sofferma, ma non si arresta a Clierniea. No, - dice ai Tebani morti
che lo chiamano:
No, no, dormite in pace! Vano fu il sangue, eroi!
Periste e non salvaste l'ellenia libertà!
Giunge a Maratona; ma non s'arresta. - No, - grida ai caduti che lo
invocano - qui non rimango. -
Tutto, voi, tutto aveste! la gloria e la vittoria
Pei lari! È troppo dolce, morti, dormir così!
Giunge alle isole Arginuse, sulle onde sparse di triremi infrante e
di salme insanguinate; ma non cede all'invito di
Callicràtida: «No» - dice - «foste prodi,
cinque contro venti; ma foste Elleni contro Elleni - e fu una
squallida lotta».
Giunge al campo di battaglia d'Isso; ma procede, dicendo ai soldati
di Alessandro, vincitori dei Persiani:
... Salvete, o morti! Leonida non dorme
Dove a un tiranno i lauri il greco acciar donò.
E non s'arresta a Gerusalemme dove l'invocano i crociati spenti,
perchè, dice, «io non pugnai per espiar peccati
nè mossi in cerca d'avventure e di ricchezza». E non
s'arresta alle Piramidi, alla voce dei soldati di Buonaparte,
perchè, grida:
Io non guidai sul colle i miei Trecento a Dite,
La libertà sul labbro e la conquista in cor!
E non s'arresta a Zama, dove gridano il suo nome i soldati di
Scipione, sgominatore d'Annibale:
E voi giacete! Io passo! Troppi eravate in campo!
E i numidi elefanti v'apersero il sentier.
E trascorre oltre il campo di Munda, sordo alle voci dei legionari
di Cesare, ai quali rinfaccia il motto del capitano:
Sul colle io per la patria pugnai, non per la vita:
Vincitori di Munda, lasciatemi passar!
E attraversa fiumi e monti, passa il Pirene, giunge in Provenza, si
sofferma sul Rodano dove Mario distrasse i Teutoni; ma non s'arresta
alla voce dei soldati di Mario, perchè sul sacro colle egli
non attese, scrutando le stelle, l'ora in cui potesse combattere con
la certezza della vittoria.
E varca le Alpi e scende in Lombardia; ma, sospinto dal ricordo
della pace di Costanza, neppure a Legnano si arresta, perché
Se non dà frutti il sangue che val gloria d'allori?
Se libertà non germina, che val d'armi virtù?
Morti feconde io cerco, non vinti o vincitori;
Morti feconde e libere, tra quei che non son più.
E giunge finalmente sulla riva del Tevere, in vista di San Pietro,
davanti a un'ara modesta, donde cento voci fioche lo salutano:
Noi pur, noi pur pugnammo in cinque contro venti,
E non fu indarno, o patria, nè il sangue, nè il morir!
A noi non la vittoria, ma dei fiacchi lo scherno:
Non i felici oròscopi, ma il pallido dover:
Non fratricidi allori, ma l'abbandon fraterno:
Non di tiranni il soldo, ma il raggio d'un pensier.
L'alme donammo al fato, non bugiarde parole,
Dall'ombra degli avelli guardando all'avvenir!... -
L'Ombra, inchinando l'asta, grida: - Stanotte vuole
Coi morti di Mentana Leonida dormir!
E così ora «tramonti il poeta nella sua gloria»
accanto al suo Leonida, egli che alle Termopili sarebbe morto tra i
primi, e che in difesa della libertà e della giustizia
combattè per trecento.
L'autor drammatico. Nessuno, certo, attende qui un'analisi ragionata
di quell'opera complessa e varia, coronata di successi clamorosi,
provocatrice di aspre battaglie, feconda di tante vive discussioni
storiche e artistiche, nella quale dal dramma storico in versi, i
«Pezzenti», il «Guido»,
l'«Agnese», - dove la poesia e la fantasia predominavano
e la storia non era che fondamento e facciata, - Felice Cavallotti
passò al grande dramma storico in prosa -
l'«Alcibiade» e i «Messenj» - poggiato sopra
una più minuta indagine del tempo e sopra un più
profondo studio del vero, per trascorrere poi, con la «Sposa
di Menecle», alla commedia intima di soggetto antico, e infine
al moderno dramma psicologico, spingendosi fino all'idillio e al
proverbio. Il cuore e la ragione insieme si ribellano oggi anche a
una critica riverente. A noi basta rammentare che se neppur nel
teatro non cercò nuove forme, attenendosi, come voleva la
natura del suo ingegno, alla tradizione romantica, sulle traccie di
Victor Hugo e dello Schiller, anche nel teatro portò il
soffio della sua anima lirica, che tutto riscalda e vivifica, la
santa fiamma dell'amor di patria e di libertà, una forza
grande di sincerità giovanile e di virile coscienza, un
continuo, amoroso, poderoso conato verso la bellezza e la grandezza,
che ci leva in alto lo spirito e ci move il cuore anche quando non
arriva dove fende. Chi potrebbe oggi esaminare, ponderare,
discutere, mentre le creature della sua mente ci si affollano
intorno velate di nero come la sua immagine, a cui fanno un corteo
dolente e glorioso, come figli intorno al simulacro funerario del
padre? Altro non possiamo fare che rammentarle e salutarle. E
sfolgorante Raul che, levando la spada in cospetto al cadavere di
Maria, grida al duca d'Alba: «Troppo tardi. Oggi saremo in
molti ai funerali. A me, pezzenti!» - È tragico il
vecchio padre traditore del suo sangue che svela al figliuolo
adorato la propria infamia, mentre suonano i rintocchi della campana
che lo chiamano a combattere, con quelle semplici e terribili
parole: - «Ferma! Io son Guido!» - È bello e
generoso il giovine Scandiano che al duca di Mantova, ebbro di
piacere e d'orgoglio, narra tra gli splendori della festa la fame e
la disperazione del popolo di Mantova. È splendido il vecchio
re di Messenia che, ritto sulle rupi, strappa la bandiera tirannica
di Sparta e chiama alla rivolta il suo popolo col superbo grido: -
«dove passa Aristomene, Sparta non ha bandiera!» - E
pietoso e venerando è il vecchio Menecle che riprende dalle
pareti lo scudo e la spada antica per chiedere alla morte per la
patria l'oblio della dolce illusione perduta. E più alto di
tatti, come una statua d'oro e di bronzo, segnata di mille
colpì, ma salda e trionfante ancora sul suo piedistallo di
marmo pario, ci sorge davanti il greco gigantesco e multiforme, che
riunì in sè Cesare e Coriolano, Sardanapalo ed
Antonio, - «tutte le faccie del polièdro umano» -
e mentre passano dietro di lui, come visioni, i giardini e le
piazze, le sale d'Atene, la spiaggia di Sicilia, il lido di Sparta,
le acque dell'Ellesponto, le montagne di Frigia, e quella fuga
maravigliosa d'assemblee, di eserciti, di campi di battaglia, di
feste trionfali e di solitudini, che pare il giro di un mondo
intorno ad un uomo, - noi non salutiamo in lui l'Alcibiade antico,
vincitor di Bisanzio e di Calcedonia, ma la creazione più
grande, più fortunata, più cara del poeta perduto; la
salutiamo con la certezza che, quando pure dovessero le altre andar
travolte dal tempo, quella resterà, splendida e palpitante di
vita immortale. E se anche tanti pregi di pensiero e d'ispirazione
non risplendessero nelle sue tanto applaudite e combattute opere
drammatiche, sarebbero queste ancora amate e riverite da noi per il
tesoro di studi amorosi e di dotti commenti che egli vi profuse
intorno, per le tempestose ansie giovanili che gli costarono, per le
ebbrezze ardenti che gli diedero, per i profondi e dolci conforti
che recarono ai suoi grandi dolori e alle sue affannose fatiche di
soldato della libertà e di tribuno della patria.
Eppure la più alta e potente manifestazione del suo ingegno e
dell'animo suo egli la diede, a nostro credere, nell'oratoria.
Oratore grande, insuperabile forse, se la natura non gli avesse
negato qualcuna di quelle piccole doti sussidiarie, puramente
fisiche, onde il grande oratore s'integra. Due oratori erano in lui,
potenti del pari. L'oratore popolare e improvviso, che stentatamente
incominciava, che vi faceva assistere al lavorìo, alla lotta
laboriosa e violenta del sentimento e del pensiero con la parola, e
che poi, infervorato dal suo sforzo medesimo, trascinato dalla
passione, sprigionava un torrente di idee e d'immagini, dalle onde
irruenti e sonore, e travolgeva ogni forza restìa
dell'uditorio; - e l'oratore parlamentare delle grandi occasioni,
che del discorso ordiva avanti la trama, nel quale le idee si
svolgevano ordinate e concatenate, col corso largo e pieno d'un
grande fiume, e logica, sentimento, precisione quasi scientifica di
forma, tutti gli accorgimenti più fini dell'arte s'univano
con l'ardore d'un'alta ispirazione, che tutto levava in alto.
L'oratore nato, sussidiato dall'artista letterario, si rivelava
nell'architettura ardita e grandiosa del periodo, sorreggente una
grande quantità di idee accessorie, aggruppate armonicamente
intorno all'idea principale, intarsiato di parentesi e d'incisi che,
senza fare ingombro, illuminavano il concetto come di tanti raggi
successivi, e condotto vittoriosamente, fra ogni sorta di pericoli,
ad una frase geniale che superava tutte le altre in efficacia, e che
nello stesso tempo giungeva inaspettata e pareva necessaria.
Maraviglioso era veramente come un uomo di natura così
impetuosa sapesse, quando occorreva, trovar le parole gravi,
misurate, guardinghe che facevan passare senza contrasti le idee
più audaci, quasi rispettate per la dignità
dell'abito; come qualche volta, nell'infuriare d'una tempesta, quasi
per effetto d'una illuminazione improvvisa dell'intelletto e
dell'animo, egli lanciasse, in luogo delle parole eccessive che
tutti aspettavano, una così sincera e nobile invocazione alla
concordia per l'interesse supremo della patria, che n'eran tutti gli
animi disarmati e placati; come da quella bocca, donde erompevano
tanti tuoni e tante fiamme, potesse sgorgare, al bisogno, un rivo
d'eloquenza così mite e così serena. Vi ricordate di
quel mirabile parallelo tra il generale della Lunigiana e il
generale di Sicilia, che, fatto da tutt'altri, avrebbe scatenato un
uragano? Vi ricordate della difesa ch'egli fece del «fiore
baciato dalla sventura», quando dal banco dei ministri era
lanciato un oltraggio a una giovinetta, mentre sul capo di suo
padre, accusato politico, pendeva una condanna tremenda? Vi
ricordate con che dignità di sentimento e di parola egli
diceva nel Parlamento l'elogio d'un avversario morto, e riconosceva
d'un avversario vivo la bontà e la rettitudine, e come
qualche volta, sfuggitagli una frase offensiva, la temperasse come
voleva la giustizia, in modo che non era la sua una ritrattazione
del pensiero, ma del sentimento, non un atto di semplice
convenienza, una gentilezza sentita e squisita di cavaliere e di
galantuomo? Vi ricordate l'orazione in onore di Garibaldi morto,
pronunciata il 3 giugno dell'83, al «Castelli» di
Milano, la quale strappò il pianto da tremila cuori, e la
grande commemorazione epica dei caduti a Domokos, e le belle,
austere, fraterne parole ch'egli disse nella prima riunione dei
partiti estremi, discordi fino a quel giorno, per la fondazione
della Lega della libertà? - Era l'eloquenza d'un poeta e
d'un, sapiente - era una così alta e commovente ispirazione
che quasi riusciva dolce agli altri oratori di non poterla
raggiungere - erano la ragione, l'entusiasmo e la fede parlanti il
più eletto linguaggio che possa uscire dall'animo d'un
cittadino. Quante volte Vittorio Alfieri gli avrebbe posto la mano
sul capo, ripetendogli i versi di Eschilo a Timoleone:
Ah! no, più caldi mai, nè mai più veri
Forti divini detti in cor mortale
Mai non spirò di libertade il nume!
E non di meno, non si potrebbe affermare con certezza che fosse
l'oratoria, non invece la facoltà puramente ragionatrice, non
la forza analitica e polemica la sua virtù intellettuale
preminente. Di lui si può dire quello che dell'autore
dell'«Emilio» disse Enrico Taine. Non c'è loico
più serrato. La sua dimostrazione s'annoda in fili d'acciaio,
maglia a maglia, per lunghe pagine, come una enorme rete senza
uscita, in cui, volenti o no, si rimane avvinti. Non un filo gli
sfugge o gli si rompe, ed egli ha costantemente sotto gli occhi e
dentro la mano la rete intera. Dagl'infiniti e bene ordinati
compartimenti della sua salda memoria escono prontamente, a un
richiamo, nomi, date, parole, fatti, circostanze di fatti, che a
vicenda si rischiarano e si rincalzano, disponendosi e collegandosi
logicamente come le formule successive d'un'operazione matematica,
che non possa esser condotta in altra forma nè riuscire ad
altro risultato da quello a cui egli tende. La punta della sua idea
v'è già penetrata nella mente, credete che non vi si
possa addentrare di più, ed egli ve la configge ancora
più addentro con un martellamento fitto e preciso, che vince
anche le ultime resistenze inconscie dell'animo vostro. Nessuna
maraviglia che chi possedeva una così potente arte dialettica
l'adoperasse anche quando ad altri poteva parere superflua, o
inopportuna, o senza speranza di effetto utile. Ma maraviglioso
è che egli vi ricorresse e l'esercitasse magistralmente anche
nei momenti di maggior concitazione dell'animo, che egli ragionasse
in quel modo con la penna alla mano un'ora prima d'andare a rischiar
la vita con l'arma nel pugno, che neanche il presentimento della
morte, che qualche volta lo assalì in quei momenti, potesse
turbare in lui quella facoltà delicatissima a cui pare
indispensabile la quiete serena dell'animo e la libertà
assoluta della mente. E questo prova quanta sincerità, quanta
pensata fermezza ci fosse anche nelle sue determinazioni che
potevano parer più violente, come la sua passione fosse mossa
sempre da una idea e sorretta e vigilata, dalla coscienza, come
fosse in lui convinzione vigorosa e tenace ciò che non era
creduto da molti che ira, odio, sete di rappresaglia e di vendetta,
come la sua spada, anche nelle quistioni che parevan più
strettamente personali, fosse quasi sempre la spada d'un'idea.
No, non si battè per impeto d'ira o per febbre di
vanità chi, venti volte, prima di venire alla prova, scrisse
di proprio pugno la sua difesa e il suo testamento, con
l'espressione precisa delle sue ultime volontà, con la
previdenza chiara e minuta di tutte le conseguenze possibili della
sua morte. Certo, spuntava un sorriso sulle labbra a chi gli udiva
dire: - Io sono un uomo pacifico.... furono le circostanze che mi
forzarono.... E la natura delle questioni in cui mi trovai
impegnato.... - Eppure, nella sua coscienza, questo era vero. Ma ci
perdoni la cara memoria se noi lamentiamo il concetto da cui la sua
ragione partiva, e se esprimiamo la speranza che la sua fine
lacrimata e funesta serva almeno di ammonimento alla generazione che
sorge. Ma come! Un passato di trent'anni di fecondo lavoro
intellettuale, di nobili lotte, di servizi resi alla patria, un
avvenire di forse altri trent'anni di vita egualmente benefica, un
tesoro inestimabile di entusiasmo, d'eloquenza e di forza, una mente
privilegiata, da cui mille quistioni altissime d'interesse pubblico
attendono luce ed impulso, in cui milioni d'uomini fondano speranze
di protezione e d'aiuto, - tutto questo, per una parola, deve esser
messo a un cimento, nel quale un passo falso, il tradimento d'un
muscolo, la svista d'un istante possono distrugger tutto in un
nulla? Ah! è una follìa, un errore, una vergogna! Ed
è appunto questo pensiero che oggi ci aggiunge angoscia ad
angoscia: è il dover riconoscere che ci troviamo ancora a
questo segno di barbarie, è il dover confessare che, pure
riconoscendo l'assurdità di quest'idea dell'onore che, in un
tempo di vantata eguaglianza, si circoscrive in una sola classe
sociale, non s'abbia ancora il coraggio civile di uscirne, e che la
società culta, che pure la condanna nella sua coscienza,
tolleri, incoraggi, accarezzi, con la cospirazione d'una legge
ipocrita, il pregiudizio stolto, la tradizione dell'usanza stupida e
feroce che la insanguina e la disonora.
Era fors'anche suo pensiero che nelle lotte politiche avesse il
duello questa giustificazione: che molte volte esso racqueta e
riconcilia due avversari che si stimano; fra i quali, altrimenti,
sarebbe impossibile o più difficile assai la riconciliazione.
Questa e ogni altra ragione possiamo ammettere, per ispiegarci la
sua condotta, fuorchè la mancanza di bontà d'animo, di
cui dai nemici fu accusato. Ah! dell'accusa sorride - sorride
amaramente chi sentì il suo abbraccio fraterno dopo una lunga
separazione, e sa quante calde e devote amicizie egli ebbe anche fra
i suoi più appassionati avversari, - chi si ricorda quanto
fosse buono e amabile il sorriso su quel volto coperto di cicatrici,
quand'egli espandeva l'animo con gli amici intimi, sorridenti alla
volta loro di tante ingenuità giovanili del suo cuore e della
sua parola, - chi si rammenta con quanta gentilezza, nelle famiglie
che l'ospitavano, la sua mano gagliarda si posasse sul capo dei
bambini e la sua bocca usata a soffiar la tempesta esortasse i
giovinetti allo studio, all'amor del bene, al culto della
verità e dell'ideale. - Gli mancava la bontà
dell'animo. - A Felice Cavallotti! Ah non lo pensa chi ha visto la
sua fronte superba chinata al capezzale degli infermi, chi ha
sentito i suoi singhiozzi disperati accanto al cadavere della sua
figliuola, chi ha assistito una volta sola all'espansione della sua
gioia e della sua tenerezza di fanciullo fra le braccia della
vecchia madre adorata, che gli ripeteva con tanta dolcezza: -
Felice, Felice mio, sii più prudente.... - come se
presentisse il destino. Buono era, e n'è una grande prova il
fatto che molte volte, candidamente, egli si rimproverasse, si
dolesse di non potere esser più buono di quello che era.
Povero Cavallotti! Non è molto tempo che, rispondendo ai
consigli d'un amico, egli diceva a questo con un sorriso ingenuo: -
Già, tu sei più buono di me. - Ma il giudizio fu
coscienziosamente respinto. - No, Cavallotti - gli fu risposto. - Io
non son più buono di te; non lo sono quanto te. Facile
è la bontà a chi, lontano dalla lotta, non s'espone
all'offesa che lacera e avvelena l'anima e non sente in faccia
l'alito violento dei nemici che, non dandoti tregua alla guerra e
negandoti ogni virtù gentile, ti scoraggiano dalla gentilezza
e dal perdono. Ah no! Io so ben discernere quello che è in te
violenza necessaria e durezza acquisita di lottatore da quello che
è prima e schietta natura. Di questa, che è tutta
d'oro, tu hai salvato fra le battaglie quanto era umanamente
possibile, e quello che ti resta è ancora un tesoro che
t'invidio. - Ah, gli mancava la bontà dell'animo! - A Felice
Cavallotti! Ma se contro a mille prove dell'asserto, non possibile
che a chi non lo conobbe, stesse quella sola indimenticabile poesia,
quello straziante e divino grido d'amore e d'angoscia che dal treno
di Gallarate egli lancia all'angolo del cimitero dove dorme la sua
figliuola, se egli non avesse pronunciato in tutta la sua vita altre
dolci parole che quelle con cui s'illude che la sua creatura senta
passare il suo dolore e possa rispondere alla disperata invocazione
del suo cuore trafitto, se in cinquantacinque anni non gli fosse
scoppiato dall'animo che quell'unico grido, basterebbe quello per
farci credere, affermare, giurare che egli fu buono.
L'accusa, di mancanza di bontà e di gentilezza gli fu
più spesso ripetuta nell'ultimo periodo della sua vita. E qui
m'occorre di fare una dichiarazione. Io mi son proposto, com'era mio
stretto dovere, di commemorare il compianto cittadino al di fuori
d'ogni idea e d'ogni sentimento di parte politica; ma a rischio
d'esser accusato d'infrangere il proposito debbo accennare
all'ultima grande lotta ch'egli combattè in nome della
giustizia e della moralità pubblica, poichè il
rifiutare, per non dar ombra ai vivi, un onore dovuto a un morto,
non mi parrebbe generosità, ma codardia. Dal più
profondo della mia coscienza, non velata in questo momento da ombra
d'odio e di rancore, esce la voce che m'impone un tributo
d'ammirazione e di plauso al lottatore dell'ultima ora. Giorno
verrà, senza dubbio, in cui si riconoscerà
universalmente che sarebbe stata una vergogna incancellabile per il
nostro paese se almeno una voce d'accusa e di sdegno non si fosse
levata, e che se quella voce non fosse rimasta senz'eco, che se la
giustizia ch'ella chiedeva avesse avuto corso e compimento, non
sarebbe forse stata spinta fino agli estremi la forsennata impresa
dell'Africa, sarebbe forse almeno stato evitato il macello miserando
che la chiuse. «Opera negativa» fu detta la sua con la
stessa logica con cui si direbbe negativa l'opera del magistrato
che, accusando e condannando, toglie e non dà dei cittadini
al paese, o l'opera del soldato che, difendendo la patria sul campo,
uccide e non crea. - Ha varcato il segno - da altri si disse - non
doveva ostinarsi e incrudelire; si deve rispetto anche ai caduti per
propria colpa. - E, certo, la parola è generosa, è
l'espressione d'un sacro dovere di tutti verso i caduti che si
pentono e si confessano, o cedon l'armi e rimangon muti. Ma quando i
caduti rialzan la fronte minacciando, si ribellano alla giustizia e
alla sorte, provocano la coscienza pubblica e tentano d'ingannare o
d'imbavagliare la storia, l'ostinarsi nella lotta è dover di
coscienza e necessità di vita. E poichè tanti
sacerdoti della stampa che mentre egli combatteva solo quell'aspra
battaglia, bersagliato di mille colpi e coperto di mille vituperi,
l'applaudivano nella loro coscienza e copertamente l'incoraggiavano
e gli desideravano la vittoria, pensando forse in cuor proprio che
se avessero avuto la sua indipendenza, il suo ingegno e il suo
coraggio, non per amor della giustizia, ma per sgombrar la via ad
altre ambizioni, avrebbero condotta la stessa lotta con pertinacia
anche più implacabile, poichè si videro tanti di
costoro lamentare la sua morte e inneggiare alla sua vita senza
arrischiar neppure una timida lode a quell'ultima opera sua,
compiamo noi più risolutamente il debito nostro, affermando a
voce alta, e con tutta la forza del nostro cuore, che quella fu la
più forte, la più onorata, la più ammirabile
pagina della sua vita.
E se anche qualche volta, se anche molte volte, nel flagellare i
trafficatori della propria coscienza e i depredatori del danaro
pubblico, egli fosse trasceso - supposto che in questo si possa
trascendere - molto, tutto si dovrebbe condonare a chi per questo
riguardo era uno dei pochi invulnerabili e puri, e dei pochissimi in
cui la purità fu merito vero. In tutta la sua vita non
v'è traccia nè indizio d'un atto compiuto per iscopo
d'interesse materiale. Alla patria diede tutto e non chiese nulla.
Dandosi alla politica, sposò la povertà. E non si
diede alla politica, come altri, per esser fallito all'arte e alle
lettere; le si diede nel colmo dei suoi trionfi d'artista. Ebbe
offerte di cattedre e le rifiutò; avrebbe potuto trarre
guadagni dalla sua penna feconda di pubblicista, e se ne astenne per
dignità di tribuno; avrebbe potuto trarne dal teatro, solo
che avesse rallentato alquanto la sua opera politica, e non lo fece
per sentimento altissimo del suo dovere di cittadino. Quelle
prolungate polemiche, che si dicevan mosse da spirito di ambizione e
d'orgoglio, non erano soltanto per lui uno sforzo doloroso
dell'animo, ma un dispendio enorme di tempo e di lavoro, ch'egli
scontava poi in privazioni d'agiatezza, di libri, di svaghi
desiderati. La sua spesa quotidiana era quella d'uno degli impiegati
più modesti, la sua abitazione a Roma una camera di studente,
la sua villa di Dagnente una povera bicocca; e al vestire non si
sarebbe distinto quasi mai da un operaio di buon salario. Eppure
mai, mai non si sentì dalla sua bocca una parola di
rammarico, mai nemmeno un'espressione vaga di aspirazione a una vita
più agiata e più signorile. Una cosa sola rimpiangeva
di quando in quando: l'arte da cui s'era dovuto separare. Ma per
quanto dicesse, fra le due dive nemiche, l'arte e la politica -
l'una bella, splendida, sorridente, che lo chiamava - l'altra
austera, dura, gelosa, che lo teneva - era questa quella ch'egli
amava di più ardente amore - era la tiranna ingrata e
spietata, che lo torturò e che l'uccise.
Quale esistenza! Ricorriamola ancora con uno sguardo. Quale miracolo
continuo di moto; di passione, di lavoro! V'è una frase d'una
sua lettera che definisce la sua vita. - Son qui - scrive a un amico
- in mezzo a una tempesta di cose, che mi porta via la testa. - E
questa tempesta durò quanto egli visse; nè può
immaginare quanto turbinosa ella fosse chi non gli stette per
qualche tempo vicino. Non conoscono i più che la sua
assiduità operosa al Parlamento, la sua attività
insuperabile nei periodi di lotta elettorale, i suoi viaggi faticosi
in provincie lontane a scopo di propaganda e d'inchiesta, e la sua
produzione straordinaria di pubblicista. Ma di pari passo con
l'opera pubblica egli ne mandava un'altra che pochi soltanto
conoscevano, ed era il patrocinio generoso di cause oscure e di
oppressi sconosciuti, era una corrispondenza cortese e pronta con
innumerevoli amici, sollecitatori e postulanti ignoti, d'ogni classe
e d'ogni natura, erano visite e corse da per tutto ov'egli fosse
richiesto per consolare un dolore, per comporre un dissidio, per
profferire una parola utile. E tra l'una e l'altra di queste
infinite cure pubbliche e private egli trovava il tempo di nutrir di
nuovi studi lo spirito, di raccoglier documenti intorno alle
quistioni del giorno, di gittare nella forma poetica le sue gioie,
le sue tristezze, i suoi sogni. Bene qualche volta si rifugiava nel
suo romitorio di Dagnente per prender respiro; ma lo raggiungevano
là pure, da ogni parte, i telegrammi, le lettere, le
sollecitazioni d'ogni forma, e vi facevano in pochi giorni una piena
che lo travolgeva e lo risospingeva al lavoro. Una voce inesorabile,
appena egli chiudesse gli occhi, gli gridava: - Dèstati,
scrivi, parla, combatti, va! - Ma io sono stanco - rispondeva. - Fa
uno sforzo. - Ma io son malato. - Non importa. - Ma io m'accorcio la
vita. - È il tuo destino. - Ed egli si destava, scriveva,
parlava, combatteva. - Diceva ultimamente, a Torino, passandosi una
mano sulla fronte con un suo gesto abituale: - Ah! se potessi
riposare per un anno.... per qualche mese.... Ma non posso. - E
pareva rassegnato. Un solo pensiero lo turbava: il pensiero di una
vecchiezza inferma, in cui non avrebbe più potuto lavorare
nè combattere, e sarebbe rimasto in un canto, inutile come
una spada arrugginita. E soggiungeva: - Vorrei morir prima! - Fu
pago il suo desiderio, sventuratamente. La nobile spada non
s'arrugginì - s'infranse - e passerà lungo tempo, pur
troppo, prima che sul campo di battaglia dove egli cadde ne baleni
un'altra così prode, così tersa, così gloriosa.
Ma egli fu ben altro, e ben di più che la spada d'un partito.
Più alto fu il suo destino, più alto l'ufficio ch'egli
compì. A dritto fu chiamato il continuatore del pensiero di
Garibaldi, non circoscritto in una formola precisa, ma vasto tanto
da comprendere tutte le aspirazioni dei tempi nuovi. Sopravvisse e
parlò in lui la giovinezza ardente della rivoluzione
italiana, con tutti i suoi più santi entusiasmi, con tutte le
sue più luminose speranze. In ogni manifestazione del suo
pensiero e del suo cuore è un accenno vago, ma caldo a
qualche cosa di più grande che non sia il concetto astratto
della libertà o una data forma di governo. Si sciolgono a
ogni tratto il suo spirito e la sua parola dai vincoli angusti del
programma politico del presente, e si slanciano verso l'avvenire.
Disse egli un giorno: - Non sento il bisogno di cambiar l'ideale - e
spiegò tutto sè stesso in quelle parole. Il suo ideale
abbracciava vagamente tutti i bisogni e tutte le rivendicazioni
popolari dell'età nostra. S'egli non combattè che per
la libertà e per la giustizia è perchè
comprendeva che eran queste le prime battaglie da vincere, e
reputava saggezza il non disperdere in un più largo campo le
sue forze, che gli occorrevan tutte a tener alta la sua bandiera. Ma
nell'anima sua si raccoglievano e fiammeggiavano in una sola,
invitta passione lo sdegno di tutte le miserie, il sentimento di
tutti i diritti, l'amore di tutti i popoli. Comprese, sentì,
previde più che non disse; ma ciò che non disse fu
compreso. E però la sua voce, benchè non pronunciasse
il nuovo verbo delle moltitudini, suonò nel loro cuore come
la voce d'un fratello, e la sua morte fu lutto e pianto del popolo,
e si posò sul suo feretro, con gli omaggi dei parlamenti e
coi fiori della gioventù studiosa, con le corone dell'Italia
irredenta e con la palma del martirio di Cuba, il saluto amoroso e
triste di tutti i lavoratori del mondo.
Sì, convien risalire fino ai grandi fattori dell'unità
della patria per ritrovare una morte così universalmente,
così sinceramente compianta, e che abbia lasciato fra noi il
sentimento d'un vuoto così vasto e così doloroso. E
nessuno certo se ne allieta, neanche fra i suoi più acerbi
nemici, nessuno che abbia senso di gentilezza e di carità di
patria, perchè sentono tutti che è caduta una forza,
che s'è spento un raggio, che è sparito un vanto
vivente della patria. E questo solo ci conforta; che ciò
ch'egli ci lasciò - l'esempio - nè tempo nè
fortuna ci possono togliere. Esso sarà raccolto e sarà
fecondo. La gioventù d'ogni parte e d'ogni fede ha qualche
cosa da imparare e da imitare da lui. Egli fu soldato, tribuno,
poeta, maestro; disprezzò la ricchezza, non ambì il
potere, non adulò la fortuna, non s'infinse, non vendette,
non mercanteggiò la sua forza, - fu buono, aperto e intrepido
- fortissimo fu contro ogni forma di dolore e di pericolo, e fu
potente e povero, illustre e incorrotto. Sì, tale egli fu, e
le generazioni venture lo sapranno; tale tu fosti, o Felice
Cavallotti, e te lo ridirà ogni anno, il giorno della tua
morte, la tua patria, come te lo gridò nel primo schianto del
dolore, mandando un bacio di madre alla tua bella fronte inanimata.
E così sia seguito il tuo esempio come sarà venerata
la tua tomba e glorificato il tuo nome. Nel nome di quanti ti
amarono e ti piangono, Felice Cavallotti, sia benedetta la tua
memoria!
Le tre Capitali.
NOTA A QUESTA NUOVA EDIZIONE
(1.a edizione Treves - 1911).
Il De Amicis intitolò Le tre capitali, raccogliendoli tardi,
questi suoi tre scritti giovanili, due dei quali, con titolo un po'
diverso, appartenevano già ai Ricordi del 1870-71 (Firenze,
Barbèra, 1872); più importante di tutti il terzo, che
ha valore di documento letterario e storico insieme. L'autore,
sottotenente nel 3.° Reggimento fanteria, brigata Piemonte, dopo
la campagna del 1866 era stato comandato presso il Ministero della
Guerra a Firenze e incaricato di dirigere l'Italia militare.
Accompagnò, come corrispondente di quel giornale, l'esercito
italiano alla presa di Roma, e scrisse immediatamente le sue
impressioni del 20 settembre 1870 e delle giornate seguenti.
Molti anni dopo, nel 1898, quando l'editore Niccolò Giannotta
di Catania gli propose di iniziare con questi tre scritti riuniti in
un volumetto la sua piccola Biblioteca popolare contemporanea, il De
Amicis avvertiva:
"Rilessi, prima d'acconsentire, gli scritti, che avevo in parte
dimenticati, e, rileggendoli, mi venne spesso sulle labbra un
sorriso, che non era certo di compiacenza letteraria, e mi prese
più volte un senso di tristezza, come accade sempre a chi si
richiama alla memoria speranze alle quali non corrispose la vita ed
entusiasmi su cui passò un'onda di nuovi affetti e di nuove
idee. Acconsentii nondimeno alla pubblicazione di queste pagine
perchè penso che la descrizione degli effetti intimi ed
immediati prodotti da certi avvenimenti storici nell'animo d'un
testimonio oculare non debba riuscire indifferente nè inutile
ai giovani della generazione che quegli avvenimenti non vide;
perchè l'affetto e la reverenza che sono espressi in questi
scritti per le tre grandi città in cui palpitò e
palpita il cuore d'Italia mi paiono sentimenti di cui non sia
superfluo ripetere l'espressione anche dopo unificata la patria; e
perchè in fine, in mezzo ai troppi difetti v'è se non
altro in queste povere prose il pregio della sincerità
giovanile, che, disponendo il lettore alla benevolenza, suol giovare
indirettamente all'effetto cercato, ma non conseguito dall'autore
per mancanza d'arte."
D. M.
TORINO.
Un Torinese che volesse far da guida ad un Italiano d'un'altra
provincia venuto qui per la prima volta, per metterlo in una
disposizione d'animo favorevole alla città sconosciuta
dovrebbe, prima di lasciarlo entrare in Torino, condurlo diritto a
Superga. V'hanno spettacoli che sono per la vista degli occhi
ciò che sono per la vista della mente quelle grandi
intuizioni istantanee del genio, che abbracciano secoli di storia e
regioni d'idee. Lo spettacolo che si gode da Superga è un di
questi, ed è anche più grande e più bello della
sua fama. Dalla sommità della cupola, con un solo giro degli
occhi, in tre secondi, s'abbraccia tutto l'immenso cerchio
dell'Appennino genovese e delle Alpi, dai gioghi di Diego e di
Millesimo alla piramide superba del Monviso, dal Monviso alle porte
della val di Susa, al Gran San Bernardo, al Sempione, al Monrosa,
alle ultime montagne che fuggono verso levante di là del Lago
Maggiore; sotto, tutti i colli di Torino, popolati di ville e di
giardini; più in là i bei poggi del Monferrato,
vestiti di vigneti e coronati di castella, e le colline ubertose
della sinistra del Tanaro; e oltre a queste una successione di
tappeti verdi sterminati, una campagna senza fine, che si perde
nelle pianure vaporose della Lombardia, argentata dalle mille curve
del Po, seminata di centinaia di villaggi, rigata di strade
innumerevoli, coperta d'una vegetazione lussureggiante di boschi, di
verzieri e di messi, nettamente visibile in tutti i suoi rilievi
infiniti fino alle più grandi distanze, come se ogni sua
parte ci s'avvicinasse al fissarvi sopra lo sguardo. Ed è una
natura così fresca e così italiana di forme e di
colori, così maestosamente serena nella immensità dei
suoi orizzonti azzurrini, e così grande e terribile d'antiche
e di nuove memorie, che dopo averla percorsa intera, quando si
volgon gli occhi giù sulla città tutta piana e
rosseggiante lungo le rive del Po e della Dora, chiusa in un vasto
cerchio di verzura cupa, dominato dal bel monte conico dei
Cappuccini, somigliante a uno smeraldo enorme, viene spontaneo sulle
labbra il «Te beata» che gridò a Firenze Ugo
Foscolo, e si resta maravigliati che tutta quella bellezza non abbia
ancora avuto anch'essa da qualche grande poeta il tributo d'una lode
immortale.
Ho cercato molte volte, curiosamente, con uno sforzo
dell'immaginazione, di rendermi conto dell'effetto che può
produrre la città di Torino in un Italiano che la veda per la
prima volta....
Certo, un Italiano che arrivi qui coll'idea di trovare una
città uggiosa, e un po' triste, come certi stranieri la
definiscono - un villaggio ingrandito - un mucchio di conventi e di
caserme - deve provare un disinganno piacevole, uscendo dalla
stazione di Porta Nuova, in una bella mattinata di primavera. Alla
vista di quel grande Corso, lungo quanto i Campi Elisi di Parigi,
chiuso a sinistra dalle Alpi, a destra dalla collina, davanti a
quell'infilata di piazze, a quelle fughe di portici, a quel verde
rigoglioso, a quella vastità allegra, piena di luce e di
lavoro, deve esclamare: - È bello - o tirare almeno uno di
quei larghi respiri, che equivalgono ad una parola d'ammirazione. E
andando su verso piazza Castello.... Ma un Italiano che venga a
Torino per la prima volta, se appena ha una scintilla d'amor di
patria nel sangue, è impossibile che, addentrandosi nel cuore
della città, serbi tanta freddezza d'animo da non giudicarla
che con l'occhio dell'artista. Egli deve sentirsi sollevato,
travolto da un torrente di ricordi, sfolgorato da una miriade
d'immagini care e gloriose, che trasfigurino la città ai suoi
occhi e gli facciano parer bella ogni cosa. Deve veder Carlo
Alberto, affacciato alla loggia del palazzo reale, in atto di
bandire la guerra dell'indipendenza; incontrar sotto i portici il
conte Cavour, che va al Ministero, dandosi la storica fregatina di
mani; vedere i Commissari austriaci del 59 che portano
l'«ultimatum» al Presidente del Consiglio; i corrieri
che divorano la via Nuova recando le notizie delle battaglie di
Goito, di Pastrengo e di Palestro; le deputazioni dell'Italia
centrale che vanno a presentare i voti dei plebisciti; una legione
di vecchi generali predestinati a morire sui campi di battaglia; a
una cantonata Massimo d'Azeglio, in fondo a una strada Cesare Balbo,
qui il Brofferio, là il Berchet, laggiù il Gioberti;
visi tristi e gloriosi di prigionieri dei Piombi e di Castel
dell'Uovo; giovani a cui brilla sulla fronte, come un raggio, il
presentimento dell'epopea dei Mille; battaglioni abbronzati di
bersaglieri della Crimea che passano di corsa e stormi di giovani
emigrati che sbarrano la strada, agitando i cappelli, alla carrozza
di Vittorio Emanuele; in ogni parte cento immagini di quella vita
ardente e tumultuosa, piena di speranze e d'audacie, di grida di
dolore, di canti di guerra e di fanfare trionfali, che
s'agitò per quindici anni fra queste mura.
Il centro di Torino ha una bellezza sua propria, invisibile allo
straniero indifferente, ma che deve affascinare l'Italiano nuovo
arrivato. Ogni suo angolo, ogni sua casa parla, racconta, accenna,
grida; ogni arco de' suoi portici è stato l'arco di trionfo
d'un'idea vittoriosa; sopra ogni pietra del suo lastrico si sono
incontrati e stretti la mano per la prima volta due italiani di
provincie diverse, due esuli, due soldati della grande causa comune;
tutto v'è ancora caldo del soffio immenso di amor di patria
che vi passò, infiammando e travolgendo ogni cosa, come un
uragano di fuoco. Quale Italiano può arrivar là senza
sentirsi commosso? In poche città i luoghi e i monumenti
più memorabili si trovano meglio disposti per colpire
tutt'insieme lo sguardo e la mente: in un giro di pochi passi,
intorno al Palazzo Madama, si vede e si ricorda tutto. Ed è
anche bella per l'artista e per il poeta quella piazza vastissima,
che arieggia il cortile d'un palazzo smisurato. Quella reggia severa
e nuda, dietro a cui s'innalza la cupola grigia della vecchia
cattedrale, il Palazzo Madama, grave come una fortezza, sorvolato da
nuvoli di colombi, il tendone bianco delle Alpi che chiude via Dora
Grossa, la cortina verde delle colline che chiude via di Po, quel
contrasto di baracconi da fiera e di palazzi austeri, di folla e di
strepito da un lato e di solitudine tranquilla dall'altro, danno a
quella parte di Torino un aspetto misto così stranamente di
città nuova e di città vecchia, di gaiezza meridionale
e di gravità nordica, di maestà di metropoli e di
semplicità provinciale, da far pensare a due città
lontane che un prodigio abbia ravvicinate e congiunte.
Ma qui non può farsi un'idea di Torino il forestiero.
Quietato il tumulto dei ricordi, bisogna ch'egli s'inoltri in quella
parte della città che è compresa fra via di Po, via
Roma, il Corso del Re e il fiume. S'egli non è mai uscito
d'Italia, ne avrà senza dubbio un'impressione nuova. La
città par fabbricata sopra un immenso scacchiere. Per quanto
si giri, non si riesce che a descrivere una greca continua. Tutte le
strade, a primo aspetto, si rassomigliano: tagliano tutte un
lunghissimo rettangolo di cielo con due file di case di color
uniforme, su cui lo sguardo scivola dal cornicione al marciapiede
senza che nulla l'arresti, allineate a corda com'erano i vecchi
reggimenti piemontesi, coi guidoni e le guide sulla linea, dopo
un'ora di lavoro. Si va avanti, e par sempre di passare e di
ripassare nei medesimi luoghi. Si può camminare a occhi
chiusi: non c'è da sbagliare: ogni tanti passi, riaprendo gli
occhi, si vedranno due interminabili vie diritte a destra e a
sinistra, l'una chiusa dalle Alpi, l'altra chiusa dalle colline.
Qualche somiglianza con altre città ci si trova: si ricorda
via Toledo di Palermo, Livorno, certi quartieri di Marsiglia e di
Barcellona. Ma qui c'è qualche cosa di particolare, difficile
a definirsi: non so che di più rigido e di più
corretto. Non son le case francesi, gabbioni con faccia di palazzi,
parate di decorazioni posticce; bottegaie rinfronzolite. Sono file
di «umiliate», schiere d'alunne di collegio-convitto,
grosse massaie benestanti, tarchiate, in veste da camera, che si
danno francamente per quello che sono, e spirano un'aria di
bontà contegnosa, l'amor della vita regolare, l'abitudine
delle passioni contenute. Il color giallo impera, con tutte le sue
sfumature, dal calcare cupo all'oro pallido, misto d'innumerevoli
tinte verdognole e grigie, che però si perdono in una tinta
generale giallastra, un po' sbiadita, che dà alla
città un certo aspetto tranquillo di decoro ufficiale. Qua e
là spicca la nota ribelle d'una casa azzurra, in qualche
punto scoppia il grido acuto d'un edifizio rosso che fa un po' di
scandalo in quel silenzio di colori modesti; ma subito dopo si
ristabilisce la disciplina in due lunghe file di case della solita
tinta, un po' imbroncite, che han l'aria di disapprovare quelle
pazzie. Percorse le prime strade, si comincia a notare qualche
corrispondenza tra la forma della città e il carattere della
popolazione. C'è espressa una certa ostinazione in quella
uniformità, c'è un'idea di schiettezza in quello
sdegno d'ogni ostentazione, un certo indizio di procedere aperto in
quell'ampiezza di spazi, un'immagine di forza in quella tarchiatura
di edifizi, una perseveranza che va dritta allo scopo in quella
rettitudine di linee. Passando per quelle vie si ricorda
involontariamente la disciplina dell'antico esercito sardo, le
antiche abitudini militari della cittadinanza, la rigidezza della
burocrazia, l'onnipotenza dei regolamenti, lo stile duro
dell'Alfieri, la semplicità nuda di Silvio Pellico, la
correttezza un po' pedantesca d'Alberto Nota, l'andamento cadenzato
e simmetrico dei lunghi periodi oratorii di Angelo Brofferio, e la
chiarezza ordinata degli articoli di don Margotti, di Giacomo Dina e
del dottore Bottero. S'indovina la vita della città a primo
aspetto. Non c'è, come a Firenze, il piccolo crocicchio,
l'angoletto, la piazzetta, dove ognuno si pare a casa sua, dove
è possibile il dialogo tra la strada e la finestra e la
fermata d'un'ora con le spalle alla cantonata. Qui c'è per
tutto la città aperta, larga, pubblica, che vede tutto, che
non si presta al crocchio, che interrompe le conversazioni intime,
che dice continuamente, come il poliziotto inglese: - Circolate,
lasciate passare, andate pei vostri affari. - Si può essere
usciti col miglior proposito di andare a zonzo: si finisce sempre
con fissarsi una meta. A un certo punto si sente un po' di
sazietà; l'artista si rivolta contro quella regolarità
compassata. S'ha la testa così piena di angoli retti, di
parallelismi, di simmetrie, di omologie, che, per dispetto, si
vorrebbe poter scompigliare tutta quella geometria con un colpo di
bacchetta fatata, che mettesse Torino sottosopra. Ma a poco a poco,
come certi motivi monotoni, che, a furia di sentirli ripetere, ci si
fissano nel capo irresistibilmente, così quella
regolarità, a grado a grado, fa forza al gusto e soggioga la
fantasia. Si prende amore a quell'uniformità che lascia la
mente libera, a quella specie di dignità edilizia, non ancora
offesa dall'insolenza ciarlatanesca della réclame colossale,
a quelle corrispondenze di prospetti che s'indovinano prima di
vederli, come le rime delle strofe metastasiane, a quella nettezza
rigorosa, a quei grandi lembi rettangolari di cielo che ci si
stendono sul capo, e a quelle vie lunghissime in cui insensibilmente
il passo s'affretta, lo sguardo s'acumina, il petto si dilata, la
mente si rischiara, e a quelle grandi piazze e a quei grandi
giardini che fanno qua e là un largo squarcio improvviso,
pieno d'aria e di verde, nella rete uggiosa delle strade gemelle. La
città sonnecchia un poco tra via di Po e via San Lazzaro,
dove grandi isolati di color cupo gettano come un'ombra di tristezza
nelle vie larghe e solitarie, nelle quali non si sente strepito di
lavoro, e la pedata di chi passa risuona sotto le vôlte dei
portoni muti e nei cortili erbosi; ma si ravviva sui confini di
Borgo Nuovo, dove per sei vie allegre e chiare, piene di popolo
minuto, si vede il verde fitto del Corso del Re, e ringiovanisce
all'estremità di tutte le strade che van da ponente a levante
dove le colline del Po mettono un riflesso di serenità e di
grazia campestre. E quanto più si va lontano dal centro,
tanto più la città si fa varia e amena. Si trovano
degli angoli ariosi, tranquilli e simpatici, che fanno pensare alla
vita raccolta d'un buon capo-sezione giubilato, che vada ogni giorno
a quell'ora a leggere il giornale al caffè vicino e a far la
passeggiata igienica nel viale accanto, ed abbia la sua oretta fissa
per la visita galante a una buona amica di quarant'anni; piccoli
crocicchi puliti, d'aspetto giovanile, formati da alte case
poderose, che dominano un vasto orizzonte, dentro alle quali par di
vedere le camerette di tanti studenti di provincia, poveri, ma di
buona razza piemontese, che martellino ostinatamente sui libri,
menando una vita di sacrifizi, per prepararsi un avvenire onorato e
lucroso; grandi case aperte ad angolo verso la strada con cinque
ordini di terrazzini, che mostrano mille piccoli particolari intimi
della vita torinese, dal servitore che innaffia i fiori della
contessa al primo piano, su su, scendendo per la scala sociale via
via che si sale per la scala della casa, fino all'impiegatuccio
tirato che legge il giornale sotto i tetti e alla moglie
dell'operaio che stende i suoi cenci fuori della soffitta. Le strade
essendo lunghissime, presentano successivamente aspetti diversi:
andando avanti diritto per una strada sola, si attraversa una
piccola parte di Torino commerciale, una parte di Torino elegante,
un quartiere povero, un quartiere affollato, un quartiere deserto;
si vede la città in tutti i suoi aspetti, senza svoltare una
volta sola. E non si trovan grandi contrasti. I palazzi schierati
alla pari con le grandi case borghesi, alcuni anche dissimulati da
una facciata comune, come il Palazzo dell'Università e il
Palazzo dell'Accademia filarmonica, non servono a dar carattere alle
strade. Non c'è il palazzo vistoso del gran signore, che
schiaccia gli edifizi circostanti, e dà l'immagine d'una vita
splendida e superba. L'architettura è democratica ed
eguagliatrice. Le case possono chiamarsi fra loro: - Cittadina - e
darsi del tu. La distribuzione delle classi sociali a strati
sovrapposti, dal piano nobile ai tetti, toglie alla città
quelle opposizioni visibili di magnificenza e di miseria che
accendono nell'immaginazione il desiderio inquieto e triste delle
grandi ricchezze. Girando per Torino, si prova piuttosto un
desiderio di vita agiata senza sfarzo, d'eleganza discreta, di
piccoli comodi e di piccoli piaceri, accompagnati da
un'operosità regolare, confortata da un capitale modesto, ma
solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la sicurezza
dell'avvenire.
Questo carattere apparente di Torino muta tutt'a un tratto
all'entrare in quella parte della città che si stende fra via
Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città
invecchia all'improvviso di parecchi secoli, si oscura, si stringe,
s'intrica, si fa povera e malinconica. Il forestiero che vi capita
per la prima volta ne rimane stupito, come dalla trasformazione
istantanea d'una scena teatrale. Appena v'è entrato, la
città gli si chiude intorno, intercettandogli la vista da
tutte le parti, ed egli vi resta preso come in un agguato. Le vie
serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte
e lugubri, divise da una striscia sottile di cielo, nelle quali non
s'aprono che portoni bassi e cavernosi, per cui si vedono cortili
neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz'uscita, sfondi umidi e
tristi di chiostro e di prigione. Par di essere discesi in una
Torino sotterranea, dove non scenda che una luce riflessa. E andando
avanti verso il Palazzo Municipale, tutto si fa più stretto,
più nero e più vecchio. Si riesce in crocicchi angusti
che ricordano le scene del Goldoni, dove si spettegola tra la strada
e le finestre, in angoli di viuzze raccolte e sinistre, in cui pare
che tutte le famiglie che v'abitano debbano far vita comune, come
una tribù di gitani: si vedono dei chiassuoli misteriosi,
chiusi fra alti muri senza finestre, d'un grigio sudicio, coperti di
grandi macchie diaboliche; e là immagini di madonne agli
spigoli delle case, botteghe di barbiere col lume acceso di
mezzogiorno, covi di rigattieri che paiono vani di cantine,
albergucci di villaggio, con insegne grottesche, e cortiletti
coperti di tettoie rustiche, ingombri di carri di mercanti di
campagna, e caffè sepolcrali, che quattro avventori
riempiscono. E si gira in mezzo a file di bottegucce che han tutto
fuor dell'uscio fra odori di formaggi, di scarpe, d'olio,
d'acciughe, in un puzzo di stantìo e di rinserrato, in una
mezza luce di crepuscolo, fra un va e vieni fitto di gente
affrettata che si stringe al muro per lasciar passare carri e
carrette, che ingombrano tutta la strada, e si vedono fra quella
gente certe figure che non si ritrovano che là: beghinette
incartocciate a cui si domanderebbero i connotati di Carlo Emanuele
III, droghieri vecchi come le strade, che han l'aria di aver
militato contro la Spagna, mummie d'orefici secolari, a cui vien
voglia di dare, passando, la notizia fresca dell'unificazione
d'Italia. C'è in tutta quella parte di Torino un malumore
d'antica cittaduzza fortificata, una tristezza di museo
archeologico, un tal vecchiume di muri, di merci, di facce,
d'esalazioni, di tinte, che vien fatto di guardarsi intorno
coll'idea di veder ancora gl'Israeliti col nastro giallo al braccio
o di tender l'orecchio per sentir se la campana dell'antica torre di
Dora Grossa annunziasse per caso un'esecuzione capitale o la
raccolta del Consiglio decurionale della città. E
quest'illusione si fa più viva arrivando sulla piazza del
Municipio. Davanti a quel palazzo giovine di due secoli, ma
d'aspetto già antico, in quella piazzetta ombrosa affollata
di gente della campagna, circondata di portici ingombri di banchi di
merciaie, attraversata dalla folla che va al mercato di Porta
Palazzo, in mezzo alle statue colossali di Carlo Alberto e di
Vittorio Emanuele, fra il Duca di Genova che brandisce la spada e la
figura atletica del Conte Verde che atterra i Saraceni, di fronte
alla via stretta e austera per cui lo sguardo va diritto al palazzo
silenzioso delle antiche Segreterie, si rimane presi così
strettamente dalle memorie e dalle immagini d'un altro tempo che par
di riviverci e di vedere e di capire fin nelle sue più intime
cose l'antica capitale del Piemonte, quella piccola città
rude, severa, soldatesca, cocciuta, che preparò
ostinatamente, in silenzio, la grande lotta, e si cacciò per
la prima, a capo basso, contro il colosso nemico, coll'impeto del
toro da cui ha tolto lo stemma. E si scorda quasi, stando in quel
punto, la bella Torino vasta, gaia, crescente, che le si allarga
intorno da ogni parte, e par di fare un salto miracoloso, al
rientrare improvvisamente in via Dora Grossa, che spande un torrente
d'aria e di vita nuova a traverso a quel mondo invecchiato.
Come canzoni monotone e tristi che finiscano in una risata
argentina, tutte quelle vecchie strade che corrono da levante a
ponente, vanno a riuscire in istrade spaziose e chiare, sboccano in
piazze e in giardini, conducono ad una nuova Torino giovanile,
attraversata da larghi viali, piena di verde, ribelle all'antica
disciplina architettonica, dove al grande isolato succede la casa
geniale, al grosso pilastro la colonna snella, al terrazzino a
ringhiera il terrazzo a balaustri, al giallo tedioso mille colori
ridenti e leggieri, a una Torino simmetrica sempre, ma senza
monotonia, che spalanca verso le Alpi la gran bocca di piazza dello
Statuto, come per aspirare a grandi ondate l'aria sana e vivificante
della montagna. Tutta questa parte di Torino riceve un riflesso
particolare di bellezza dalla grande catena alpina che corona
l'orizzonte delle sue smisurate piramidi bianche. Pare che le Alpi
mettano nelle sue piazze e nelle sue strade tranquille il sentimento
del silenzio immenso delle loro solitudini. Da ogni parte spuntano
le loro cime; tutto si disegna sulla loro bianchezza; le ultime case
della città sembrano fabbricate alle loro falde; in meno
d'un'ora pare che si debba arrivare ai piedi delle prime montagne.
Al levar del sole tutta la grande catena si tinge d'un colore di
rosa leggerissimo, d'una grazia infinita, che impone quasi il
silenzio all'ammirazione, come se la parola dovesse rompere
l'incanto, e far svanire la visione. E durante il giorno lo
spettacolo cangia ad ogni ora. A momenti si vedono appena dietro a
un velo di nebbia, come una linea misteriosa, i contorni altissimi
delle cime che paiono profili di nuvole enormi ed immobili. Poi la
catena immensa passa, per tutte le sfumature più fresche e
più pompose dell'azzurro, presentando tutta una tinta unita
senz'ombre, che le dà l'apparenza d'una prodigiosa muraglia
verticale e merlata che separi due mondi. Ora le montagne
appariscono vicinissime, a traverso all'aria limpida, variate
d'infiniti contrasti d'ombra e di luce, per cui si discernono
nettamente tutte le creste, tutti i dorsi, tutte le gole, tutti gli
scoscendimenti, i più piccoli rilievi e le più
leggiere ondulazioni dei loro fianchi mostruosi, come si vedrebbero
col telescopio; ora svaniscono quasi nel chiarore bianco del
mezzogiorno, smisuratamente lontane, d'una tinta vaporosa che si
confonde col cielo, e ingannano l'occhio che le cerca con profili
fantastici d'altezza soprannaturale, che si dileguano quando si
crede d'averli afferrati. Alle volte si mostrano qua e là a
larghi tratti, come inquadrate negli squarci delle nuvole dopo un
rovescio d'acqua, nette e fresche sul cielo terso e profondo; altre
volte cinte di immensi viali bianchi, coronate d'aureole candide,
impennacchiate di nuvolette luminose, che danno un aspetto
più solenne, con quel sorriso di grazia passeggiera, alla
maestà impassibile della loro grandezza.
Ma lo spettacolo, sempre bellissimo, è maraviglioso verso
sera, quando la luce calda del tramonto retrocede di altura in
altura, e tutte quelle vette superbe si disegnano a contorni bruni
sul cielo purpureo, come le guglie d'una città favolosa sullo
splendore d'un incendio, e quando tutto il grande cerchio delle
montagne essendo già immerso nell'ombra, il monte Rosa
solitario brilla ancora della sua bella luce rosata, come se vi
battesse il raggio d'un altro sole, e le sue cime gloriose fossero
privilegiate d'un'aurora eterna.
Il forestiero deve cogliere quel momento, quando è tutto
compreso della bellezza formidabile delle Alpi, e di quel sentimento
affettuoso e triste che si prova alla vista dei confini della
patria, per andare a cercare il più piacevole degli effetti
di contrasto di cui si possa godere a Torino. Deve salire in una
carrozza, e farsi condurre rapidamente, per la via più
dritta, sulla riva sinistra del Po. Là era il poema, qui
è l'idillio, davanti al quale il pensiero, che già
vagava di là delle Alpi, ritorna tutto in Italia. È un
paesaggio tutto verde, pieno di grazia, e un po' teatrale, tanto
ogni sua parte è in vista, si mostra, si porge quasi allo
sguardo, e par che tradisca l'intenzione d'un artista, più
che l'opera della natura. Le colline schierate sulla sponda opposta
s'avanzano sul fiume, si ritraggono, si dispongono ad anfiteatro, si
risospingono innanzi, s'innalzano le une sulle altre a curve
leggiere e gentili, che si fanno accompagnare con uno sguardo
carezzevole e con un atto di consenso del capo; e sono coperte di
vigneti, ombreggiate di boschetti di pini, sparse di case e di
ville, non tante fitte da toglier loro la grazia della solitudine
campestre, simili qua e là nella vegetazione e nelle forme a
certi tratti delle colline del Bosforo e del Reno. Una schiera di
case da villaggio si stende lungo la riva; da una parte il Castello
rosso del Valentino specchia nelle acque le sue mura severe e i suoi
tetti acuti, e il fiume s'allunga fra due sponde romite, che si
curvano in mille piccoli seni folti di salici e d'ontani; dalla
parte opposta il paesaggio s'apre in una grande chiarezza, e s'alza
in disparte, a grandi curve riposate e superbe, la collina di
Superga, coronata della sua Basilica solitaria, accesa dal sole. Lo
strepito d'un mulino, il mormorio di una cascatella del fiume e le
voci delle lavandaie inginocchiate lungo le sponde, sono i soli
rumori che turbino il silenzio di quel vasto giardino pieno di
gentilezza e di pace, dinanzi al quale il più prosaico
Prudhomme torinese si arresta, ammirando. E il vecchio Po, largo e
lento, spande in mezzo a quella gentilezza la poesia guerriera dei
suoi ricordi e delle sue glorie.
*
Ma non ha visto Torino chi non ha visto i suoi sobborghi, ciascuno
dei quali ha un carattere suo proprio, non abbastanza osservato,
forse, neppure dagli stessi Torinesi. C'è da fare un giro
curiosissimo, partendo da San Salvario, e andando su per l'antica
piazza d'Armi e per il Borgo San Donato, fino a Borgo Dora. Il Borgo
San Salvario è una specie di piccola «city» di
Torino, dalle grandi case annerite, velato dai nuvoli di fumo della
grande stazione della strada ferrata, che lo riempie tutto del suo
respiro affannoso, del frastuono metallico della sua vita rude,
affrettata e senza riposo; una piccola città a parte, giovane
di trent'anni, operosa, formicolante di operai lordi di polvere di
carbone e di impiegati accigliati, che attraversano le strade a
passi frettolosi, fra lo scalpitìo dei cavalli colossali e lo
strepito dei carri carichi di merci che fan tintinnare i vetri,
barcollando fra gli omnibus, i tranvai e le carrette, sul ciottolato
sonoro. L'aspetto del sobborgo è ancora torinese, ma arieggia
la «barriera» di Parigi. I portici sono affollati di
gente affaccendata, che si disputa lo spazio; le scale delle case
risuonano di passi precipitosi; nei caffè si parla d'affari;
tutto dà l'indizio di una vita più concitata che nelle
altre parti di Torino. È una piccola Torino in
«blouse», che si leva di buon'ora, e lavora
coll'orologio alla mano, senza perdere tempo; che frequenta il
teatro Balbo, passeggia sul Corso del Re e va a prendere la tazza al
Caffè Ligure, allegra e chiassosa la sera, democratica, un
po' rozza, piena di buone speranze, ariosa e pulita, e affaticata,
ma che par contenta di sè, in mezzo alla verzura e ai larghi
viali che le fanno corona, davanti alla stazione che l'assorda coi
suoi fragori e i suoi sbuffi di gigantesca officina.
*
Di là andando su per il Corso Vittorio Emanuele, si arriva
alla vecchia piazza d'Armi, in mezzo a una cittadina nata ieri, a
una specie di giardino architettonico, pittorescamente disordinato,
dove ogni settimana sboccia una casa; dove si ritrova
l'«hôtel» dei Campi Elisi, la palazzina del Viale
dei Colli, la villetta genovese, il casino svizzero, un vero
visibilio di capricci sfarzosi, ciascuno dei quali par la protesta
d'una bella signora contro l'antica tirannia dell'architettura
regolamentare. Le strade strette e discrete, dove il silenzio non
è interrotto che raramente dal rumore di qualche carrozza
privata, si biforcano e serpeggiano fra i muri variopinti e le
cancellate eleganti dei giardini, girando intorno alle case mute in
curve rispettose e cortesi, e formando crocicchi simpatici, da cui
si vedono qua e là spicchi obliqui di villette lontane,
terrazze a balaustri, piccoli portici, giardinetti d'inverno coperti
di vetrate, padiglioncini e chioschetti coloriti; dietro ai quali
appaiono e dispaiono livree di cocchieri e cuffiette bianche di
governanti. Si dimenticherebbe di essere a Torino, se tutti quei
tetti acuti, quei cornicioni frangiati, quei camini di forme
graziose e bizzarre, non si disegnassero sulla bianchezza delle
Alpi. È un quartiere ridente, misto di città e di
campagna, pieno di fragranze d'erbe e di fiori, con un leggero color
di mistero, un po' femmineo, che fa venir sulle labbra dei versi di
Alfredo De Musset, e sveglia mille fantasie voluttuose di amori
aristocratici, di scalette di seta e di duelli all'ultimo sangue nel
silenzio dei giardinetti chiusi, al chiarore della luna. I giovani
romanzieri di Torino si serviranno largamente, senza dubbio, nei
loro romanzi avvenire, di questa piccola città pomposa e
gentile; e intanto essa s'allarga rapidamente, e si popola da ogni
parte, aspettando il Re gigantesco destinato a torreggiare sulle sue
case.
*
Poco lontano di là, girando a destra, tutto cambia: s'entra
in una città militare. L'Arsenale, i Magazzini d'Artiglieria,
il Laboratorio pirotecnico, l'Opificio militare meccanico, la
Cittadella, la grande Caserma della Cernaia, si stendono in lunga
catena da piazza Solferino a piazza San Martino, e danno a quella
parte della città un aspetto tutto soldatesco, compiuto dai
tre monumenti guerreschi del Duca di Genova, d'Alessandro Lamarmora
e di Pietro Micca, che brandiscono le spade e la miccia. Qui a certe
ore del giorno par d'essere in una città forte, in tempo di
guerra. I coscritti fanno l'esercizio sui viali e sulla piazza
Venezia, per le strade passano i picchetti di guardia, i carri di
viveri e le vetture d'ambulanza, passano ordinanze del treno a
cavallo e ordinanze di fanteria coi bimbi degli ufficiali per mano,
escono frotte di carabinieri dalla Cittadella, stormi d'ufficiali
dalla Scuola d'equitazione, sciami d'operaie dagli opifici militari;
e qualche volta, mentre l'Arsenale d'Artiglieria riempie le strade
vicine dei suoi rumori minacciosi, dal Laboratorio pirotecnico si
sentono delle detonazioni, la Caserma della Cernaia echeggia di
canti e di squilli di tromba, le bande dei reggimenti passano
suonando, e le macchine a vapore del genio militare percorrono le
strade, facendo tremare le case. Compiscono il quadro i vecchi
ufficiali giubilati che leggono la gazzetta all'ombra dei platani, e
le lunghe processioni di «figlie di militari», vestite
di nero e d'azzurro, che passano sui viali, in doppia fila, per
ordine di statura. Tutto quel quartiere di Torino piglia colore
dall'esercito. Sotto i portici ci son le piccole trattorie che
tengon pensione, affollate d'ufficiali verso l'imbrunire, camere
mobiliate e libere ai mezzanini, gran quadri di fotografi, pieni di
militari puliti e lustri, voltati tutti di prospetto, piccoli banchi
di merciaiuoli, dove il soldato va a comprare lo specchietto, la
pipa, il foglio di carta da lettera e la matassina di filo, e
pilastri tappezzati di giornali popolari illustrati, per chi vuole
ingannare il tempo nel corpo di guardia e nella stanza di picchetto.
La popolazione ha pure il suo carattere speciale. La gente di
bottega conosce i segnali delle trombe e gli orari, le erbivendole
parlano di «traslocazioni di corpi» e di «campi
d'istruzione», e i monelli fischiano le arie della ritirata.
È una piccola Torino in armi, balda e allegra, nella quale
s'incontra una sentinella a ogni passo, e si cammina, la notte,
sotto la perpetua minaccia del «chi va là»; bella
e pittoresca sopra tutto di notte; coi suoi lunghi muri silenziosi,
coi suoi vasti cortili nascosti, quando la luna batte sui merli
della grande caserma di Alfonso Lamarmora, e pende
Comme un point sur un i
sul carabiniere solitario, ritto davanti al suo casotto, sopra gli
spalti deserti della Cittadella addormentata.
*
Andando innanzi verso ponente, oltrepassato il Borgo di San Donato,
che s'allunga sopra una strada sola, pigliando gradatamente
l'aspetto di un villaggio grazioso, s'entra, per il Corso Principe
Eugenio, in una parte di Torino stranissima, poco nota, nella quale
la città si perde nella campagna, e dove son raccolti i
principali istituti di beneficenza, fra cui il Ritiro del buon
Pastore, l'Ospedale di San Luigi, il Manicomio, lo Stabilimento di
don Bosco, l'Ospedale di Cottolengo; edifizi chiusi e muti,
dall'aspetto di conventi e di carceri, colle persiane rovesciate,
coi finestrini ingraticolati, con porte e porticine sbarrate, che
danno al luogo l'aspetto misterioso d'un quartiere di città
orientale. Qui vive un mondo invisibile d'infermi, di vecchi, di
traviate, di «preservande», di ragazze abbandonate, di
bimbi senza parenti, di giovinetti poveri, di maestre e di suore che
pregano, soffrono, studiano, lavorano, si preparano alla vita e alla
morte, separati dal mondo, nel raccoglimento severo della loro
piccola città solitaria. Le strade sono quasi deserte.
Passano carrozze colle tendine calate, s'incontran preti, qualche
monaca, poveri, si sentono canti di bambini, echi lontani di
litanie, rumori di porte interne aperte e chiuse cautamente, e
tintinnii di campanelli di parlatorii, a cui succedono silenzi
profondi. Tutto spira pace, rassegnazione e penitenza. Chi passa di
là abbassa la voce senz'avvedersene; scorda la Torino
rumorosa del lavoro e dei piaceri, e s'abbandona, rallentando il
passo, alla meditazione dei dolori e delle miserie umane, punto da
una curiosità triste di penetrare in quei recinti severi,
d'interrogare quelle sventure, di scrutare quel mondo sconosciuto e
nascosto, a cui tanta gente pietosa consacrò la vita e la
fortuna. E alla tristezza di quel quartiere singolare, corrisponde
la campagna circostante, piana e silenziosa, specialmente d'inverno,
all'ora del tramonto, quando al di sopra delle case e dei campi
coperti di neve, già immersi nell'ombra azzurrina della sera,
scintilla ancora sotto l'ultimo raggio del sole l'alta statua dorata
di Maria Ausiliatrice, ritta sulla cupola della sua chiesa
solitaria, colle braccia tese verso le Alpi.
*
Proseguendo di là per il Corso San Massimo s'arriva alla
grande piazza ottagonale di Emanuele Filiberto. Ma per vederla in
tutta la sua bellezza bisogna capitarvi una mattina di sabato,
d'inverno, in pieno mercato. Uno Zola torinese potrebbe mettere
lì la scena di un romanzo intitolato «Il ventre di
Torino». Sotto le vaste tettoie, fra lunghe file di baracche
di mercanti di stoffe, di botteghini di chincaglierie e
d'esposizioni di terraglia all'aria aperta, in mezzo a monti di
frutta, di legumi e di pollame, a mucchi di ceste e di sacchi, tra
il va e vieni delle carrette che portan via la neve, tra il fumo
delle castagne arrosto e delle pere cotte, gira e s'agita
confusamente una folla fitta di contadini, di servitori, di
sguatteri, di serve imbacuccate negli scialli, di signore massaie,
di ordinanze colla cesta al braccio, di facchini carichi, di donne
del popolo e di monelli intirizziti, che fanno nera la piazza.
Intorno ai banchi innumerevoli è un alternarsi affollato e
continuo di offerte e di rifiuti, di discussioni a frasi secche e
tronche, di voci di maraviglia e di sdegno, d'apostrofi e di
sacrati, che si confondono tutti insieme in un mormorìo sordo
e diffuso, come d'una moltitudine malcontenta. Là bisogna
andare per vedere le erbivendole famose, formidabili di tarchiatura,
di pugni e di lingua, e per studiare la potenza insolente del
vernacolo, la ferocia spietata dell'ingiuria plebea, il lazzo che
schiaffeggia, il sarcasmo che leva la pelle, strazia la carne e
incide le ossa. Da una parte c'è il mercato delle contadine,
venute da tutte le parti del circondario, partite a mezzanotte dai
loro villaggi per arrivare in tempo a pigliare un buon posto a
destra e a sinistra d'un viale fiancheggiato di platani; e son
là schierate, ritte o sedute, colle loro derrate esposte su
mucchi di neve sudicia, strette le une alle altre come per tenersi
calde, inzoccolate, imbottite, infagottate, fasciate di pezzuole e
di scialli, con guanti di cenci e con fazzoletti attorcigliati
intorno alla fronte, con cappelli da uomini sul capo, con vecchi
mantelli da carrettiere sulle spalle, e lo scaldino fra le mani, coi
nasi e i menti pavonazzi; e in mezzo a loro passa la processione
accalcata e lenta dei compratori. Qui un pretucolo soffia tra le
penne d'un pollo per scoprire le polpe, là una vecchia
signora cogli occhiali spera le uova ad una ad una di contro alla
luce, più in là un vecchio celibe, accompagnato dalla
cuoca con la sporta, scruta un formaggio con la lente; da ogni parte
si tasta, si palpa, si soppesa, si fiuta, si disputa, in un tuono di
lamento stizzoso, gesticolando coi cavoli in mano, brandendo i
cardi, scotendo le galline, gettando nelle orecchie di chi passa
frammenti di dialoghi monosillabici, che fanno indovinare dei tira
tira d'un'ora per un centesimo, delle economie disperate, delle
avarizie rabbiose, delle pazienze da santi, delle miserie segrete di
famiglie decorose, tutte le durezze e le angosce della gran lotta
per la vita. Passano signorine eleganti, grossi borghesi buongustai,
cuochi grassi e tronfi, cameriere padrone, curiosi allegri, una
folla continuamente cangiante, fra cui si fanno largo ogni specie di
rivenditori ambulanti, vecchi decrepiti, bambine, mostriciattoli col
botteghino al collo, che offrono un almanacco, un tartufo, due
limoni, una catenella d'acciaio, un pezzo di tela, facendo un
vocìo assordante, dominato dalla voce stentorea del venditore
della «Cronaca dei Tribunali» e dalla cantilena funebre
del sacrestano che scuote un bossolo domandando l'elemosina per le
anime del Purgatorio. Per tutta la piazza è un
affaccendamento e un rimescolìo rumoroso, un farsi e un
disfarsi continuo di crocchi intorno a carrozze di cavadenti, a
venditori di specifici, a strimpellatori di violini, a banditori
d'incanti, a ciarlatani cappelluti che raccontano storie di delitti
davanti a grandi quadri rosseggianti di sangue, a teatrini da
burattini, rizzati in mezzo alla neve, a grandi fiammate di paglia,
accese dai fruttaiuoli infreddoliti per sgranchirsi le membra. E non
si può dire quant'è pittoresca e bizzarra quella
confusione di gente e di cose, di lavoro e di festa, di città
e di campagna, vista a traverso la nebbia della mattina, che lotta
ancora col sole, in mezzo a quei grandi alberi sfrondati, imperlati
di brina.
*
D'in fondo alla piazza, scendendo per una gradinata, si riesce in
una larga strada ricurva, che va verso la Dora, davanti a un altro
spettacolo curiosissimo. La strada è tutta da un capo
all'altro una sola enorme bottega di rigattiere all'aria libera,
un'esposizione grandiosa e compassionevole di miserie, di cui non
è possibile farsi un'immagine fuorchè supponendo che
un intero quartiere di Torino, invaso da un furore di distruzione,
abbia rovesciato giù dalle finestre tutte le masserizie delle
sue case, dai solai alle cantine, fino all'ultima carabattola
dell'ultimo armadio. E tutto è ordinato, pulito, messo in
vista, con una cura scrupolosa, come la merce più rara, e
accanto a ciascuna delle cento rigatterie, che formano
quell'interminabile bazar di cenci e di tritumi, siede il venditore
meditabondo, appoggiato alla sua carretta, in atteggiamento
filosofico, cogli occhi fissi sulle rovine da cui ricava la vita. La
varietà e la stranezza degli oggetti è maravigliosa.
È una confusione di cose e d'avanzi di cose da far impazzire
il disgraziato che ne dovesse far l'inventario. La pianeta del
prete, il cappello sfondato del bersagliere, la marionetta rotta del
teatrino di San Martiniano, il vestito di seta lacerato al veglione
del teatro Scribe, la serratura del cinquecento, il romanzo
incompiuto di Eugenio Sue, il chiodo rotto, il basto dell'asino, il
quadro a olio, il berretto piumato del tenore, denti finti, spille
scapocchiate, padelle senza manico, elmi, mappamondi, gambe di
tavola, spogli d'alcove, di salotti, di studi d'avvocato, di
soffitte, d'officine, di taverne, muffiti, sbrindellati, rosicchiati
dai topi, bucati dalle tignole, marciti dalla pioggia, smangiati dal
fango, consunti dalla ruggine, senza colore, senza forma, senza
nome, senza prezzo: c'è tutto quello che il mare agitato
della vita umana rigetta da sè, tutto quello che la mente
può immaginare di più miserabile, di più
inutile, di più spregevole, di più rifinito e di
più snaturato dal tempo, dall'uso e dalla violenza. In quello
strano mercato comincia il lavoro nel cuor della notte, al lume
delle lanterne, e il formicolìo della folla allo spuntare
dell'alba. Là va la sartina, furtivamente, a cercare lo
scialle smesso; ci va il padre di famiglia, corto a quattrini, a
comprare il lume a petrolio; ci va l'artista a scovar l'abito per il
modello; ci va l'antiquario, il bibliomane, l'attore spiantato,
l'ebreo rigattiere, una processione di collettori di bagattelle e di
curiosi d'ogni specie, impazienti tutti d'arrivare i primi a pescare
in quel mare magno in cui si nascondono qualche volta tesori
sconosciuti e piccole fortune insperate; e tutti girano e cercano
avidamente fino a giorno alto, in mezzo a un via vai di contadini e
di contadine che contrattano panni logori, di cenciaiuoli girovaghi,
carichi di stivali sdrusciti e di pentole fesse, di facchini, di
raccoglitori di cicche e di carte, di guardie municipali, di donne
di servizio, di bottegai, di sensali, che fluttuano in due opposte
correnti fra il mercato dell'erbe e il gran pandemonio della piazza
vicina.
*
Chi ha fatto questo giro, e s'è ancora spinto poi, per il
corso San Maurizio, fino in faccia al Borgo Po, che chiude come uno
scenario graziosissimo il grande palcoscenico della piazza Vittorio
Emanuele, ha visto la città di Torino. Ma gli resta da
studiare il movimento e l'aspetto della popolazione, che è
pure curioso. Il più grosso torrente della vita scorre dalla
stazione di Porta Nuova fino a Piazza Castello, dove arriva gonfiato
dall'affluente di via Santa Teresa; e là si rispande per via
di Po e per via Dora Grossa, e serpeggia in mille rigagnoli per le
vie strette della vecchia Torino, fino al gran lago ondeggiante
della piazza Emanuele Filiberto. La gente si perde nella
vastità delle piazze, dove non si vedono che «rari
nantes»; presenta un aspetto generale d'eleganza nell'ultimo
tratto di via Roma e sotto i portici, e piglia gradatamente un
colore modesto e popolano, via via che scende verso il fiume o
risale verso i quartieri di settentrione e di ponente. L'ordine
è nella folla come nell'architettura: passa una processione a
destra e una processione a sinistra d'ogni strada, l'una opposta
all'altra: da una parte non si vedono che nuche, dall'altra non si
vedono che visi. Certi personaggi si succedono con una frequenza che
si nota subito: il vecchio giubilato, sbarbato e pulito, che va
rasente il muro; il giovane ufficiale d'artiglieria della Scuola
d'applicazione; lo studente vestito con una certa sprezzatura
d'artista; la sartina dal corpicino snello e asciutto, con quattro
cenci addosso, messi con garbo signorile e aggraziati da un'andatura
capricciosa insieme e composta; l'operaio di statura media,
d'aspetto rude, di membra solide, di movimenti da soldato; l'uomo
nuovo, l'industriale, il commerciante, l'agente d'affari, fra i
trenta e i quarant'anni, trascurato nel vestire, di viso serio,
grigio innanzi tempo, leggermente invermigliato dal Barolo vecchio,
col sigaro di Cavour spento fra le dita della mano inquieta, e un
pensiero fisso sulla fronte; il grosso padre di famiglia, borghese
benestante, con un viso benevolo, che manifesta poche idee, ma
quelle poche nette e salde, e inchiodate profondamente nel cervello,
nella coscienza e nel cuore, e tratto tratto qualche signora alta,
sottile e bianca, coll'occhio azzurro e il piede patrizio, che fa
col suo mantello di velluto nero una macchietta vigorosa e pomposa
nel grigio volgare della folla. Tutti camminano guardando diritto
davanti a sè; si discorre senza rallentare il passo; poche
conversazioni ad alta voce; nessuna apostrofe da un lato all'altro
della strada; si parla a mezza voce, a frasi spedite, gesticolando
in uno spazio circolare di non più di due palmi di raggio, e
risalendo prontamente sul marciapiede, per forza d'abitudine, ogni
volta che s'è stati costretti a discendere. E già,
nelle strade frequentate, si vede, come nelle grandi città
del nord, una gara ad arrivare i primi, a lasciarsi indietro chi ci
cammina accanto, come se ogni vicino fosse un concorrente in affari.
Tutte le scorciatoie sono utilizzate, si svolta rasente i muri,
s'attraversa la strada di corsa, s'inseguono i tranvai, si fa folla
agli incrociamenti delle carrozze e dei carri, e s'apostrofano
carrettieri e cocchieri con voci e gesti impazienti di gente che ha
i minuti contati. Ma una certa apparenza di gentilezza corregge il
carattere un po' aspro di questa vita frettolosa di città
industriale. I saluti sono premurosi, i cappelli s'abbassano
profondamente, la gente si scansa con giri svelti e larghi, i
bottegai riaccompagnano i compratori alla porta in atto cerimonioso,
il cameriere si inchina all'avventore sulla soglia della trattoria,
il fiaccheraio riverisce la «pratica», il venditore di
giornali ringrazia del soldo con un buon augurio, le erbivendole si
chiamano «madama», le due frasi spicciole del galateo
torinese «ca fassa grassia» e «ca scusa» si
sentono da ogni parte e ad ogni proposito come il
«pardon» e il «s'il vous plait» a Parigi; la
città fa i suoi affari alla lesta, ma con dignità, da
signora educata, non da rozza merciaia. E come Parigi ha
l'«ora dell'assenzio», Torino ha l'ora del vermut, l'ora
in cui la sua faccia si colora e il suo sangue circola più
rapido e più caldo. Allora le scuole riversano per le strade
nuvoli di ragazzi, dagli opifici escono turbe di operai, i tranvai
passano stipati di gente, gli equipaggi s'inseguono, le botteghe dei
liquoristi s'affollano, un esercito d'ufficiali e di soldati d'ogni
arma si spande in ogni parte e mette un soffio di gioventù
per le vie, e nella mezza oscurità della sera par di vedere
Torino come all'immaginazione piace di raffigurarsela in un avvenire
lontano: una Torino di cinquecentomila abitanti, che riempia la sua
cinta daziaria, con un nuovo centro e nuovi sobborghi, tutta sonante
di lavoro e rigurgitante di vita.
Ma il più bello spettacolo vivo, e nello stesso tempo il
più originale, che offra Torino, è la passeggiata
sotto i portici di Po, le sere d'inverno. I portici sono i
«boulevards» di Torino. L'albergo d'Europa può
rappresentare il «Grand Hôtel»; la chiesa
dell'Annunziata, la «Madeleine»; il caffè Fiorio,
«Tortoni»; il Teatro Regio, il «Grand
Opéra». Anche qui la folla maggiore, e il fiore
dell'eleganza e del lusso passano a destra. La prima cosa che
dà agli occhi è il contrasto della bottega splendida
col baraccone da villaggio che le sorge in faccia, nello stesso
tempo officina e negozio; il banco della fruttaiola di fronte alla
trattoria aristocratica; il rivenditore d'almanacchi e di libri
usati in faccia al grande libraio signorile. La contessa vestita in
gala passa accanto ai banchi di legumi e di caci, la conversazione
leccata dei dandy è interrotta dall'urlìo plebeo dei
cavamacchie e dei venditori di fotografie; tutto il mondo elegante
sfila in mezzo a quella lotta muta e continua del grande e del
piccolo commercio, schierati l'uno di fronte all'altro, in
atteggiamento ostile, come due catene di sentinelle avanzate dei due
grossi eserciti nemici della borghesia e della plebe. Qui la folla
è fitta e nera, divisa in due correnti, che si toccano, e
spesso si confondono, e straripano fuori dei portici. In alcuni
punti è un vero serra serra, come all'uscita da un teatro,
tanto che nello spazio di tre braccia quadrate si ritrovano spesso
un capitano d'artiglieria, una coppia matrimoniale, un prete, un
accademista, una crestaia, un operaio, stretti in un mazzo, che
paiono una famiglia sola. Qualche volta per pigliar spazio la folla
è costretta a fermarsi, e tutti «segnano il
passo» come una colonna di soldati. L'aspetto e il contegno
generale è grave, come l'andatura, e come disse un professore
arguto, sembra che tutti «meditino un regolamento». La
gente gira tutt'intorno alla Galleria Subalpina, a passi lenti,
processionalmente, come nella sala d'un museo, non facendo che un
leggiero bisbiglio, che lascia sentire distintamente le note acute
dei cantanti nella sala sotterranea del Caffè Romano. Sotto i
portici non si sente che un mormorìo sordo ed eguale, fra cui
risuonano forte, qua e là, le sciabole degli ufficiali e le
risa argentine delle fioraie e delle sartine, che fanno una scappata
a traverso al bel mondo, coll'involtino in mano, prima di tornare a
casa, e i colpi secchi delle porte dei caffè aperte e
richiuse bruscamente per timore del freddo. Par di essere in una
galleria d'un palazzo grandissimo, dove i convitati sfilino
rispettosamente al cospetto d'un principe. E siccome gl'incontri
sono frequentissimi e si ripetono, così è un salutarsi
continuo di militari, un continuo scappellarsi d'amici e di
conoscenti, di studenti e di professori, di grossi e di piccoli
impiegati, che si voltano obliquamente, passandosi accanto, per non
urtarsi nel petto. Della gente non si vede che il viso e i fiati
fumano. Ma i baracconi riparano dal freddo. Si sta bene in quella
calca, così stretti, l'uno addosso all'altro, e pare che
tutti provino piacere a pigiarsi, a sentirsi davanti, dietro e dai
lati dei pesanti pastrani, dei grandi mantelli d'ufficiali, dei
grossi borghesi ben pasciuti e caldi, usciti allora da una sala da
desinare. Da tutte le strade laterali arriva gente, chiudendo
l'ombrello, pestando i piedi, scuotendo i panni bianchi di neve, e
tutti si ficcano in quella folla, con gusto, tirando un respiro,
come se entrassero in casa. E la folla essendo così pigiata,
si colgono a volo da tutte le parti, passando, brani di dialoghi
sommessi, frammenti di discussioni scientifiche, giudizi letterari
di studenti, notizie sullo stato dei fondi pubblici, qualche volta
frasi staccate di confidenze di signorine, che un'ondata di gente ha
separate dai parenti che vengon dietro, conversazioni francesi e
tedesche, parole dolci vibrate a bruciapelo nei momenti di maggior
confusione: specialmente allo svolto dei portici in faccia alla
Galleria, dove accade spesso d'incontrarsi faccia a faccia con
marito e moglie, e sentirsi ad un punto il fumo del sigaro del
marito negli occhi, il manicotto della signora contro le mani e la
testa del bimbo in un fianco. Chi non c'è abituato,
può seccarsi sulle prime, e impazientarsi di quello strano
modo di passeggiare; ma tutti, prima o poi, ci pigliano piacere.
C'è non so che idea di intimità domestica in quel
lento va e vieni di gente affollata sotto quegli archi, dinanzi a
quelle vetrine splendide, che finiscono con lo stamparsi nella
memoria, ad una ad una, come i mobili della casa propria; c'è
un'apparenza come di affratellamento e di buon accordo universale,
un'immagine viva di quell'unanimità di sentimenti e di
propositi che fece forte e ammirato il popolo piemontese, qualche
cosa di geniale e di benevolo, che non si sa ben dire, ma che mette
un calor salutare nel petto, dalla parte sinistra.
Torino, però, si presenta in molti aspetti molto diversi, che
un forestiero non può osservare in pochi giorni. Ci son poche
città che cambino viso così stranamente col cambiare
della stagione e del tempo. Ha una bellezza sua propria quando
è coperta di neve, quando le Alpi son tutte bianche, le
colline bianche, i giardini, gli alberi dei viali lunghissimi, i
larghi corsi, le grandi piazze, tutto bianco; specialmente di notte,
quando a traverso la neve fitta, che vela la luce delle file
interminabili dei lampioni, non si riconoscono più le vie, si
confondono i crocicchi, la città sembra immensa, e nei vasti
spazi deserti regna un silenzio cupo di città disabitata, in
cui fuggono e spariscono come ombre impaurite le carrozze e la
gente, e vi par spenta la vita per sempre. È bella anche
nelle mattinate d'inverno grigie e rigide, quando il cielo coperto
piglia successivamente mille colori strani di viola, d'oro e di
porpora, che paiono riflessi di grandi incendi lontani, e ogni
strada è chiusa da una cortina di nebbia, come dal fumo del
fuoco di fila d'una barricata, nel quale i monumenti si drizzano
come larve, e le persone appariscono all'improvviso, come se
sbucassero di terra, e tutta la popolazione affaccendata della
mattina, morsa dal freddo, precipita il passo, batte i piedi,
stropiccia le mani, soffia sulle dita, saltella e scantona ad un
angolo retto, con le spalle ingobbite e il gomito al muro, come se
fosse inseguita e sferzata da una legione d'aguzzini invisibili, e
par che i raggi del sole s'arrestino intimiditi sui cornicioni delle
case, e che la città sia condannata al gelo e alla mezza luce
d'un'alba perpetua. Ma è bella sopra tutto di primavera, in
quei giorni che da un inverno lungo e uggioso si salta
improvvisamente nella bella stagione, e si sente la verità di
quello che disse George Sand: la primavera dell'Italia
settentrionale è la più bella del mondo. Allora Torino
si riscuote tutta, e par che ringiovanisca in poche ore; la
popolazione si spande per i giardini e per i viali, come a una
festa; per le grandi strade passano torrenti di luce e d'aria; a
ogni cantonata par che soffi una brezza nuova; si sentono ondate
d'odor di campagna e di fragranze alpine, che dànno una
scossa al sangue; il cielo, le montagne, le colline, gli sfondi
lontani delle vie, tutto è terso, netto, fresco, allegro;
Torino ha l'aria d'una città americana, venuta su da pochi
anni, nel primo sboccio della sua verde adolescenza; ma dorata da un
raggio di bellezza italiana.
Ma per veder Torino nel suo più bell'aspetto, bisogna vederla
nell'occasione d'una di quelle grandi feste nazionali, in cui
accorrono qui Italiani d'ogni provincia, vecchi ministri che vi
passarono i più belli anni della loro età matura,
deputati maturi che vi passarono gli anni più belli della
gioventù, giornalisti che vi fecero le prime armi, ricchi che
ci vissero nella strettezza, antichi emigrati, senatori, generali,
tutti i superstiti di quella grande legione di uomini di Stato, di
scrittori, di lottatori, di soldati, di tribuni, che preparò
e iniziò qui la rivoluzione italiana, e se n'andò con
la capitale. È bello e commovente quel ritorno. Tutti hanno
qui mille memorie; sparpagliandosi per la città, ne ritrovano
una ad ogni passo; riconoscono luoghi e persone, rivedono col
pensiero gli amici e i compagni perduti, ricordano alla svolta
d'ogni via, si può dire, un avvenimento e una commozione. Il
popolo torinese è tutto in giro, e in quei giorni rivive
anch'esso in quel bel tempo, che par già tanto lontano, in
quei begli anni di speranze e d'entusiasmi; anch'esso riconosce a
ogni passo un ospite antico, deputati incanutiti, generali
incurvati, gravi pubblicisti di cui ha letto le prime appendici
letterarie, ministri che vivevano in una cameretta al quarto piano
in via Dora Grossa, visi, voci, gesti che ravvivano tutti i suoi
più cari ricordi e gli fanno battere il cuore. Allora certi
luoghi della città, certi angoli storici ripigliano per
qualche ora l'aspetto antico; si rivedono nei vecchi caffè i
personaggi e i crocchi d'una volta; da ogni parte si stringono mani
d'amici, si alternano esclamazioni di stupore e di piacere, e
conversazioni concitate, piene di domande, di date, di nomi, di
parole tristi e affettuose, e di echi sonori delle antiche passioni
giovanili; e piazza Castello si rianima, e sotto i portici ripassa
un soffio del cinquantanove, e tutta la città si sente
rifluire al cuore il suo vecchio sangue di guerriera e di regina, e
apparisce più bella e più altiera in mezzo alla vasta
cintura verde dei suoi platani e al grande anfiteatro azzurro delle
sue Alpi.
FIRENZE
(Giugno, 1871).
Un Piemontese, che deve andare a Roma tra poco, sentì il
bisogno, qualche giorno fa, di mandar un saluto alla città di
Firenze, e pensò di mandarglielo dalla cima della collina di
Fiesole.
Una di queste sere, poco prima del tramonto, prese la via di porta a
Pinti, solo soletto, come un pellegrino, e tirò innanzi a
capo basso, almanaccando. La strada era deserta. Egli, che vi era
passato molte volte nei giorni di festa, quando vanno e vengono
tante famigliuole di operai e brigatelle di giovani e coppie
d'innamorati e villeggianti e carrozze, quella sera, non vedendo
anima viva, si sentiva prender dalla malinconia. Andava su a passo
lento, si fermava dinanzi ai cancelli chiusi delle ville, dinanzi
alle chiesuole, ai tabernacoli, ai muri scarabocchiati col carbone;
girava tratto tratto, dai punti più alti, uno sguardo sulla
campagna: per tutto era quiete e silenzio. Incontrò qualche
povero, inciampò in una vecchia addormentata sullo scalino di
una porta, arrivò a San Domenico, e su, per la strada
più corta.
Per tutta la salita non si voltò mai a guardar la
città. Non voleva sciuparsi l'effetto del colpo d'occhio
più bello da godersi lassù, dinanzi al convento. -
Poichè è l'ultima volta che la vedo, - pensava, - la
voglio veder bene, tutt'a un tratto, come al cader di un velo. - E
faceva tra sè quei ragionamenti fanciulleschi che si fanno in
tali occasioni, quasi per darsi un'illusione di sorpresa: - Che cosa
si vede lassù? Che città c'è nel piano? Dove
sono? Dove vado?
Arrivato in cima, accanto al muricciuolo, prese fiato, e poi si
voltò tutto a un tratto verso Firenze.
Lo spettacolo, quel giorno, era più stupendo che mai. Il
cielo lucido e quieto di una pace allegra; una striscia di nuvole
aranciate all'orizzonte; il resto puro: le cime delle colline
lontane pareva che fendessero l'azzurro; una freschezza primaverile
spirava nell'aria. Sotto, tutto quel saliscendi di poggi e di
vallette, simile a un solo immenso prato depresso qua e là,
lievemente, come dal premere d'una mano carezzevole, mossa da una
fantasia capricciosa; tutto un verde leggiero, variato sui punti
eminenti del verde cupo dei cipressi, disposti a file e a corone;
interrotto da prati fioriti; listato di strade, di viali, di
sentieri bianchi, che s'incrociano, s'inerpicano sulle cime,
precipitano dal lato opposto, e spariscono e riappariscono in
distanza; casette, gruppi di case, ville su tutti i rialti, nette,
spiccate, che par che i colli le buttino innanzi come per porgerle;
oltre la città un piano vastissimo, coperto d'una nebbia
leggiera, a traverso alla quale biancheggiano le case lontane, come
vele sul mare; e su tutta questa sterminata corona di colli, di
villaggi, di ville, di giardini, ogni cosa che par che guardi a
Firenze, e voglia scendere e precipitarle nel seno: l'ossatura d'una
città immensa che non si può immaginar compiuta senza
un senso di sgomento; uno spettacolo pieno di bellezza che fa
pensare, e di maestà che sorride.
- Mah! - esclamò il giovane con un sospiro, sedendosi sul
muricciuolo, con le spalle volte a Firenze, per raccoglier meglio i
suoi pensieri. - È pure una dura legge che, quando
s'abbandona una città, oltre al rammarico di separarsi dagli
amici e di rompere molte abitudini che erano diventate care, uno si
debba accorgere che vi sono ancora da sciogliere altri legami:
legami che lo tengono attaccato ai muri delle case, ai piedistalli
delle statue e agli alberi dei viali..... Cinque anni! Mi par
d'essere arrivato a Firenze ieri. Era una brutta giornata, nevicava,
non c'era anima nata per le strade. Mi parve una città
malinconica. Uscito appena dalla stazione, infilai via Panzani;
diedi un'occhiata, passando, a via Tornabuoni: con quelle case di
colore scuro, mi fece l'effetto d'una strada tetra; andai oltre,
vidi il Duomo, m'affacciai a via dei Servi: mi parve un corridoio di
convento; tirai innanzi fino a via San Sebastiano: fu peggio. Mi
sentivo soffocare in quelle stradette, mi pareva che vi mancasse
l'aria e la luce; m'uggivano tutte quelle casucce, addossate le une
all'altre, strette come persone che si pigino, con quelle porticine
che paion buche; una casa alta come una torre, una bassa come una
capanna, una grossa, una mingherlina, una avanti, una indietro,
tutte di sghimbescio, come buttate là a caso.... Piovve per
molti giorni. Io stavo in via Pietra Piana, verso la Porta, e
passavo dell'ore alla finestra, guardando nella strada, solo e
pensieroso. Ad ogni sbatter d'uscio, la casa tremava tutta come se
volesse cadere. - Ci restassi sotto! - dicevo - tanto ho da crepare
di malinconia....
Poi venne il bel tempo, e col bel tempo l'umore allegro.
Passarono tre o quattro mesi.
Un bel giorno osservai che per andare da casa all'ufficio ero
passato ogni mattina per la stessa via; mi maravigliai di non aver
mai pensato a prenderne un'altra, e me ne domandai la ragione. -
Forse, dissi tra me, è l'effetto di quella tal casa che vedo
di scorcio sulla cantonata, appena son fuori della porta.
Sarà fors'anco la chiesa che c'è di rìmpetto. O
son le finestre del palazzo accanto a casa mia, che guardo sempre. O
i bassorilievi del palazzo più piccolo ch'è vicino
alla chiesa. O sono tutte queste cose insieme. - Poi, fermandomi in
mezzo a una piazza, mi venne fatto di domandarmi che cosa fosse che
mi tratteneva, in quel certo punto e in quel certo modo, con l'aria
e col sentimento di chi sta in casa sua; perchè mi pigliasse
la voglia di appoggiare le spalle al muro e di finire il mio sigaro
in pace; come non mi potessi trattenere dal chiamar gli amici che
passavano, e attaccar discorso, e far crocchio, e sciupare in
chiacchiere una mezz'ora. Cercai di spiegare a me stesso il
perchè avessi contratto l'abitudine di rallentare il passo a
quella tal svoltata, di guardare intorno su quel tal crocicchio, di
andar oltre col viso in aria....
Una mattina m'accorsi con stupore di avere nel capo, distinte ad una
ad una, le immagini d'una cinquantina di case di strade diverse,
delle quali avrei saputo dire, senza rischio di sbagliare, il colore
della facciata, la forma delle finestre, il disegno degli ornati.
Guardai meglio quelle case, ripassandoci davanti; e quanto
più le guardavo, tanto più mi pareva che avessero
tutte un'aria propria, che so io? un significato, qualche cosa che
mi faceva pensare. L'una sentivo che l'avrei scelta di preferenza
per invitarvi degli amici a cena, e menarvi una vita allegra: mi
pareva che sorridesse. In un'altra ci sarei stato più
volentieri a studiare, solo, raccolto, con una gran biblioteca:
aveva un aspetto grave insieme e sereno. In una terza pensavo che
non ci si potesse vivere che facendo all'amore, tanto aveva le forme
snelle e la tinta gentile. Gli architetti di quelle case bisognava
che fossero giovani simpatici; dovevano aver voluto dir tutti alcun
che con quei disegni, e s'erano fatti tutti capire. Man mano che
passavo per quelle vie, mi s'affollavano alla memoria versi, scene
di romanzo, episodi storici, ariette d'opera. E alzando gli occhi ai
palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi grandiosi, mi
cominciava a parere strano che, in luogo d'ispirare
quell'ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di
terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi,
costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole
l'effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi che
s'usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel
ninnolo, come: - Gentile, amabile, caro.... Guardando quelle torri,
quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo un desiderio
bizzarro, come di fare scorrere la mano su quei contorni, di palpare
quei rilievi; e con questo desiderio, una specie di sollecitudine
gelosa per quelle moli enormi di pietra, come se temessi che la
menoma forza le potesse offendere e sciupare; e con questa
sollecitudine, un bisogno vivo e continuo di correrle e di
ricorrerle con quello sguardo d'amante che avvolge, e striscia, e
lambe, e si stanca sulle forme amate.
- Ma queste linee si muovono, - esclamavo tra, me - v'è
qualche cosa che si stacca e va su; c'è senso e vita in
quelle forme: - Cominciai a capire certi amori ardenti per le glorie
artistiche del proprio paese, e mi compiacqui nel cogliere sul viso
degli stranieri, che si fermavano sulla piazza, la prima espressione
della maraviglia e del diletto. Presi l'uso di passare e di fermarmi
tutti i giorni, a quell'ora, in quei luoghi. M'accorsi che ogni
giorno quella contemplazione di pochi istanti mi metteva in un corso
d'idee alte e belle; sentii poi che la facoltà di quella
maniera di diletto si rafforzava e s'estendeva ad altre forme
dell'arte; che quel gusto del semplice e del grande s'insinuava
anche un po' nel sentimento e nel giudizio mio riguardo a cose che
con l'arte non avevan che vedere, a fatti, a persone, a costumi; mi
parve d'essere riuscito, per effetto di quel culto gentile, a domare
certi moti impetuosi e quasi selvaggi dell'animo mio, a dare alla
mia indole un che di più liscio e di più morbido, a
migliorarmi in qualche cosa. Per questo presi ad amare quelle linee,
quelle forme, quei colori; e non mi pareva più pazzo il
«Pieruccio» dell'«Assedio di Firenze», che,
povero e abbandonato, sente ancora un palpito di gioia segreta,
sollevando gli occhi pieni di lacrime ai monumenti della sua cara
città natale....
Questo seguì a me ed a molti. Ma per chi sia venuto qui nel
fiore della giovinezza, con quell'irresistibile bisogno di aprire il
proprio cuore e di gridare: - Guardate! - che ci assale appunto
negli anni in cui si comincia a esser uomini e s'è tuttavia
un po' fanciulli; - per chi sia venuto qui coll'intima coscienza di
esser atto a fare qualcosa, senza saper che, nè come,
nè quando; con un presentimento confuso, con un desiderio
inquieto, con quella forza dentro che s'agita, e tenta e non
rinviene l'uscita; per chi, essendo venuto qui in quello stato,
abbia sentito, al lume di questo cielo e all'ombra di questi
monumenti, squarciarsi come un velo che gli avvolgeva l'ingegno,
tutte le facoltà ravvivarsi con impeto e ordinarsi con
armonia, e dal tumulto, prima infecondo, della mente e del cuore
prorompere per la prima volta, rozzi, ma ardenti e liberi, gli
affetti, i pensieri, le immagini; - per chi sopra tutto abbia
raccolto qui, con lungo amore, le forme e le parole da poter
significare ed espandere l'animo suo, affratellandosi col popolo per
sorprendergliele sulle labbra, ricominciando qui, per così
dire, un'altra infanzia, rinnovando quasi la sua natura, aspirando
continuamente e avidamente quest'aura vergine della vita italiana,
per farsene sangue, e informarsene il cuore e il cervello, superbo
oggi d'esservi riuscito, disperato domani di non riuscirvi, ma
sempre risoluto, ostinato e appassionato; per costui non ci
sarà nè parola nè omaggio che basti a
significare l'affetto e la gratitudine che deve sentire per Firenze,
sua ispiratrice e maestra.
Quando, a tarda notte, nel silenzio della sua cameretta, dopo un
lungo lavoro condotto con furia febbrile egli sentiva bisogno di
smorzare il fuoco che gli ardeva le fibre, Firenze gli diceva: -
Vieni! - e gli offriva la splendida pace delle sue notti serene,
l'Arno colorato di fuoco e il bel colle di San Miniato illuminato
dalla luna; e in quello spettacolo gentile e solenne l'anima sua si
quetava. E quando, dopo aver lungamente faticato e sudato invano per
dar forma e vita a un concetto riposto o a un'immagine bella che gli
appariva, in barlume alla mente, egli buttava la penna sconfortato e
si slanciava fuori di casa, Firenze, offrendogli allo sguardo i
miracoli dell'arte affollati nella sua piazza famosa, gli diceva: -
Ecco la bellezza! - ed egli in quella bellezza confortava e appagava
l'animo, pensando ch'ella era italiana, e il suo orgoglio umiliato
d'artista moriva senza dolore nell'alterezza legittima e santa di
cittadino. E quando in certi momenti di sfiducia desolata e di
abbattimento mortale egli piangeva la sua provata impotenza e le sue
speranze deluse, Firenze gli diceva: - Migliaia di giovani, e quanto
migliori di te! io vidi, fra le mie mura, lasciar cadere la mano
disperata sopra un foglio bagnato di lagrime o sopra un marmo
spezzato; dolori che straziano il cuore, e gettano anzi tempo nella
tomba, io conobbi e nascosi; ed erano anime grandi. E tu,
miserabile, che pretendi, e chi accusi? - E allora egli si ravvedeva
e taceva, e da quella confusione salutare traeva nuova forza e nuovo
coraggio per combattere, perseverare e soffrire.
A questo punto, preso da un'ispirazione diversa, il nostro amico si
voltò improvvisamente alla campagna ed esclamò in atto
drammatico, non senza un leggiero accento di tristezza: - Addio,
dunque, bel colle di Settignano! addio Patrolino! addio Sesto! addio
vallette verdi, chiesuole solitarie e casucce quete, che ci avete
fatto dire tante volte: - Beata la pace! - Stanchi d'una baldoria
carnovalesca, annoiati degli altri e di noi, tristi, umiliati, noi
ci siamo levati molte volte innanzi l'alba e slanciati con desiderio
smanioso alla campagna, come l'assetato alla fonte; e correndo di
colle in colle, di valle in valle, e bevendo a lunghi sorsi
deliziosi l'aura pregna di vita, abbiamo sentito sparire tristezze e
rimorsi, rinascere, con l'appetito vigoroso e la gaiezza campagnola,
la forza e l'ardor del lavoro! Addio contadini cortesi, vecchierelle
allegre e ragazzotte col «damo» negli occhi, che sedeste
tante volte a tavola con noi, come vecchi amici; buona gente
cordiale, che spalancavate gli occhi maravigliati, vedendoci cavar
di tasca il portafoglio per notare le ingenue grazie del vostro
celeste linguaggio; e addio voi pure, bambinelli scalzi, di cui ci
chinavamo a raccogliere le parole come le note d'un canto sommesso;
addio a tutti! Nessuno di noi vi ricorderà senza
rimpiangervi! Dalle sponde del Tevere, rivolando col pensiero alle
sponde del Po, ci soffermeremo sempre in riva all'Arno, per mandarvi
un saluto, sempre!...
Qui l'amico si fermò, si turbò, e stette qualche
minuto immobile, col capo basso, occupato da un pensiero triste. Poi
alzò la fronte corrugando le ciglia, coll'aspetto di chi
afferra il filo di una reminiscenza lontana, e riprese a bassa voce:
-....Piazza Castello pareva un mare di teste; c'era mezzo il popolo
di Torino. Migliaia di voci cantavano l'inno di Goffredo Mameli.
L'entusiasmo toccava il furore. Centomila visi erano rivolti alle
finestre dove stavano i deputati della Toscana. La gente gridava
loro cose, là sotto, che facevano venir freddo; tendeva le
braccia come se essi avessero a gettarsi giù, e li volesse
prendere. Si voleva vederli, e vederli ancora, e poi tornare a
vederli. - Fuori! - si gridava con accento di preghiera; - vada
qualcuno a pregare che si mostrino ancora una volta! Pregateli che
ci parlino! Li vogliamo sentire ancora! - I loro nomi correvano di
bocca in bocca; alcuni erano di famiglie antiche ed illustri,
imparati già nelle storie, o intesi nelle scuole, nomi
solenni, che si pronunziavano con riverenza; altri non saputi mai,
ma pur cari per quel suono, per quell'impronta paesana che li faceva
riconoscere alla prima. Si cercavano nella folla i pochi Toscani
ch'eran venuti coi deputati, si correva intorno a loro con una
curiosità infantile, si voleva sentire il loro accento
decantato, si ripetevano le loro parole, si scambiavano i
«lei» e i «chiel» con una dimestichezza che
pareva antica.
Il nome di «Fiorenssa», come si diceva, questo nome al
quale il popolo, benchè l'avesse sì poco familiare,
era pure sempre usato ad unire l'immagine di qualcosa di gentile e
di augusto, si ripeteva allora con amore; Firenze, già
creduta tanto lontana, pareva che si fosse avvicinata ad un tratto,
che fosse lì all'orizzonte, colle sue belle cupole e le sue
belle torri; Dante! Michelangelo! Machiavelli! e gli altri grandi
nomi rivenivano alla mente e sulle labbra, anche dei popolani, con
un senso nuovo, quasi come nomi di gente viva, di cui que' deputati
ci avessero portato un saluto o un ricordo. Firenze! Si vedevano con
la mente, a questo nome, delle legioni di scultori, di pittori e
d'architetti, che ci gridavano: - Viva! - da lontano, agitando
scalpelli, tavolozze e corone. Oh come si conoscevano tutti
senz'averli mai veduti! E come si sentiva la solennità di
quell'istante, la fusione di quei due popoli e di quelle due storie!
Era il Piemonte, il vecchio soldato, abbronzato dal sole e coperto
di cicatrici, che deponeva un bacio sulla fronte bianca e splendida
della madre delle arti; della quale dieci anni prima, a Curtatone,
aveva potuto stringere appena, e di sfuggita, la mano insanguinata.
Erano due grida sublimi, uno partito da Santa Croce e l'altro da
Superga, che si mescevano in un solo: - Ecco il giorno! - Oh non
c'erano freddezze allora! Non c'erano rancori!
- Freddezze? - riprese di lì a poco, quasi maravigliato
d'essersi lasciato sfuggire quella parola; - rancori? Ma che! -
continuò scrollando il capo e sorridendo, - ma chi lo crede?
chi ne parla più? chi se ne ricorda ancora? Le famiglie
piemontesi, forse, che si vedono, per le case e per le vie,
mostrarsi l'una all'altra i loro bimbi di cinque anni, che parlano
il più puro e argentino toscano che si sia inteso mai,
ridendone come d'una cara sorpresa e parlandone con una compiacenza
non scevra d'alterezza? O le loro donne di servizio, venute dalle
falde delle Alpi, che quando c'è confusione in mercato dicono
che «non ci si raccapezzano?» O i rivenditori di
giornali, nati sulle rive del Po, che rifanno il verso ai nuovi
venuti, perchè non gridano ancora coll'accento paesano?
Sogni! Interrogateli - «Signore! - vi risponderanno: - ella
ritorna molto addietro; qui son nati i nostri figliuoli e i nostri
fratelli più piccoli; in questa lingua e in questo accento ci
chiamarono la prima volta e ci dissero le prime parole; qui ci
abbiamo amici, fidanzati, parenti; in Santa Croce c'è il
nostro Alfieri; che domande la ci fa? Questa è Italia,
signore! La città dove siam nati ci è sacra; ma anche
Firenze ci è cara, e l'amiamo».
Questo diranno; e vi soggiungeranno anco molti che non partono col
cuore lieto, che prevedono dei giorni e delle ore in cui si
ricorderanno di Firenze con una tenerezza piena di malinconia e di
desiderio, perchè qui si son stretti dei cuori, molti, e con
nodi tenaci, come segue sovente fra chi s'è tenuto il broncio
un bel pezzo. Rancori? Non è vero, è una calunnia per
tutti: per chi parte e per chi resta; lo so di certo, io, lo vedo
ogni giorno, lo sento ogni momento.
Come? Chi è che brontola laggiù? Chi è che alza
le spalle? Avanti, se c'è ancora qualcuno da questa parte o
dall'altra; spingiamoli in mezzo, a vedere se osano dirselo in viso;
e che le donne e i ragazzi, che amano, perdonano e dimenticano, li
costringano a levar le mani di tasca, e a tenderle di qua e di
là, e gridino: - Stringete! - Animo, giù il cappello,
ancora una volta, davanti a Santa Croce; un ultimo sguardo alla
cupola, e un saluto intorno alle colline, e addio, e via, col cuore
riconoscente e sereno. Per Dio! Chi ha ancora un po' d'amaro
nell'anima non è un galantuomo....
Ed ora dò il mio ultimo saluto a Firenze anch'io.
Così dicendo, s'alzò, si voltò verso la
città, e mise una voce di ammirazione. S'era fatto buio senza
ch'egli se ne accorgesse, e tutta la valle era popolata di lumi.
Provò quell'impressione stessa che si prova talvolta, girando
per la campagna di notte, quando si guarda giù, senza
pensarci, dall'orlo d'un'altura, e si vede la china, di cima in
fondo, sorvolata da una moltitudine immensa di lucciole, che la fan
parere tutta accesa. Così tutti quei lumi, a socchiudere
appena gli occhi, si confondevano in un solo strato luminoso, che
rendeva l'immagine d'un gran lago di fuoco. Dalle lunghissime file
dei fanali della cinta, simili a ghirlande tese intorno alla
città, altre file di lumi si stendevano dentro e fuori,
diritte, curve, incrociate; altre interrotte qua e là, altre
continue come un raggio di luce, altre nascoste quasi affatto dagli
alberi, dietro a cui si vedeva uno splendore diffuso, come
d'incendio; altre vicine, che parevano a pochi passi; altre lontane,
visibili appena, or sì or no; e nel piano e sui colli, per
tutto fiammelle, e gruppi di punti luminosi, e tremoli bagliori; un
bellissimo cielo stellato, pareva, riflesso da una vasta acqua
cheta.
- Ah! - esclamò il nostro amico dopo qualche istante di muta
contemplazione agitando una mano verso Firenze; -....seduttrice!
Poi mise un sospiro e mormorò:
- Addio, Firenze!
E scese ch'era buio fitto.
ROMA.
L'ENTRATA DELL'ESERCITO ITALIANO IN ROMA.
Roma, 21 settembre 1870.
Le cose che ho da dire sono tante e tali che mi sarà
impossibile di scriverle con ordine e chiaramente. È
già gran cosa aver la voglia di scrivere, mentre per le vie
di Roma risuonano ancora le grida del primo entusiasmo e della prima
gioia. Tutto quello che ho veduto ieri mi sembra ancora un sogno;
sono ancora stanco della commozione; non sono ancora ben certo di
essere veramente qui, di aver visto quello che vidi, di aver sentito
quello che sentii.
Vi dirò subito che l'accoglienza fatta da Roma all'esercito
italiano è stata degna di Roma, degna della capitale
d'Italia, degna d'una grande città sovranamente patriottica.
Tutto ha superato non solo l'aspettazione, ma la immaginazione.
Bisogna aver veduto per credere. Dubiterete della mia
sincerità, lo prevedo; ma non voglio spender parole per
prevenirvi, perché capisco che non posso aspirare ad esser
creduto. Eppure sento che non vi darò che una pallida
immagine della realtà! Son cose che non si possono ridire.
Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i
miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito.
Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia,
argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano
state dirette su vari punti. Così era infatti. Il 4.°
corpo d'esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta
San Lorenzo e porta Salara, la divisione Angioletti contro porta San
Giovanni, la divisione Bixio contro porta, San Pancrazio. Il
generale Mazè de la Roche, con la 12.a divisione del 4.°
corpo, doveva impadronirsi di Porta Pia.
Via via che ci avviciniamo (a piedi s'intende) vediamo tutte le
terrazze delle ville affollate di gente che guarda verso le mura.
Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri
della riserva che stanno aspettando l'ordine di avanzarci contro
Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito.
L'artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per
aprire le breccie. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu
annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a Porta
Pia, e che i cannoni dei pontifici appostati là erano stati
smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne
interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci
dissero che i pontifici davano saggio d'una maravigliosa imperizia
nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l'assalto della
fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d'una villa e vedemmo
distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia. Tutti i
poderi vicini alle mura brulicavano di soldati; si vedevano in mezzo
agli alberi lunghe colonne di artiglieria; lampeggiavano fucili tra
'l verde dei giardini; scintillavano lancie al di sopra dei muri;
ufficiali di Stato maggiore e staffette correvano di carriera in
tutte le direzioni.
È impossibile ch'io vi dia notizie particolari di quello che
fecero le altre divisioni. Vi dirò della divisione
Mazè de la Roche, che è quella ch'io seguii.
La strada che conduce a Porta Pia è fiancheggiata ai due lati
dai muri di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada
è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande
lontananza; si vedevano le materasse legate al muro dai pontifici, e
già per metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le
colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati
sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva nettamente. Il
fuoco dei cannoni pontifici, da quella parte, era già
cessato: ma i soldati si preparavano a difendersi dalle mura. A
poche centinaia di metri dalla barricata due grossi pezzi della
nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. Il contegno
di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che
tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così
breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il
generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due
cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro o della porta
staccarsi e rovinare. Alcune granate, lanciate, parve, da un'altra
porta, passarono non molto al disopra dello Stato maggiore. Gli
zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei
nostri reggimenti ne pativa molto danno.
Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta
sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all'assalto.
Non vi posso dar particolari. Vidi passare il 40.° a passo di
carica; vidi tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in
ginocchio, per aspettare il momento d'entrare. Udii un fuoco di
moschetteria assai vivo; poi un lungo grido «Savoia!»
poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò: -
Sono entrati! - Arrivarono allora a passi concitati i sei
battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre
batterie di artiglieria; s'avanzarono altri reggimenti: vennero
oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi con gli
altri verso la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla
barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le colonne a
mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i
primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali,
seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli
altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto
valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari,
comandante del 35.°. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri
con le mani fasciate. Sapemmo che il generale Angolino s'era
slanciato innanzi dei primi con la sciabola nel pugno come un
soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si
arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là
per la strada: sospiravano, e ripigliavan la corsa.
La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della
Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a
destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno
era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti, di berretti di
zuavi, d'armi, di travi, di sassi.
Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti.
In quel momento uscì da Porta Pia tutto il Corpo diplomatico
in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale.
Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di
soldati. È impossibile esprimere la commozione che provammo
in quel momento; vedevamo tutto in confuso, come dietro una nebbia.
Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri
passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva
incontro. Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri
Pinelli; il popolo gli si serrò intorno gridando. A misura
che procediamo nuove carrozze, con entro ministri ed altri
personaggi di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa. Giungiamo
in piazza di Termini: è piena di zuavi e di soldati indigeni
che aspettano l'ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza del
Quirinale. Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la
cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta fra i
soldati gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini con le
armi tolte agli zuavi. Giungono i prigionieri pontifici. I sei
battaglioni dei bersaglieri della riserva, preceduti dalla folla, si
dirigono rapidamente, al suono della fanfara, verso piazza Colonna.
Da tutte le finestre sporgono bandiere, s'agitano fazzoletti
bianchi, s'odono grida ed applausi. Il popolo accompagna col canto
la musica delle fanfare. Sui terrazzini s'affacciano famiglie intere
che batton le mani. S'arriva a piazza di Trevi. I soldati prorompono
in esclamazioni di maraviglia alla vista della grande roccia
coronata di statue, donde precipita un fiume; gli ufficiali debbono
sospingerli innanzi.
S'entra in piazza Colonna: un altro grido di maraviglia s'alza dalle
file. La moltitudine si versa nella piazza da tutte le parti,
centinaia di bandiere sventolano, l'entusiasmo divampa: non
v'è parola umana che valga ad esprimerlo. I soldati sono
commossi fino a piangerne. Non vedo altro, non reggo alla piena di
tanta gioia, mi spingo fuori della folla, incontro operai, donne del
popolo, vecchi, ragazzi: tutti hanno la coccarda tricolore, tutti
accorrono gridando: - I nostri soldati! - I nostri fratelli!
È commovente; è l'affetto compresso da tanti anni che
prorompe tutto in un punto ora; è il grido della
libertà di Roma che si sprigiona da centomila petti; è
il primo giorno d'una nuova vita; è sublime.
E altre grida da lontano: - I nostri fratelli!
*
Il Campidoglio è ancora occupato dagli squadriglieri e dagli
zuavi.
Una folla di popolo accorsa per invaderlo è stata ricevuta a
fucilate. Parecchi feriti furono ricoverati nelle case; fra gli
altri un giovanetto che marciò quindici giorni coi soldati.
Il popolo è furente. Si corre a chiamare i bersaglieri. Due
battaglioni arrivano sulla piazza, ai piedi della scala. I
pontifici, al primo vederli, cessano di tirare; ma restano in atto
di resistere. Una specie di barricata di materasse è stata
costrutta in alto. L'assalirla di viva forza potrebbe costar molte
vittime; s'indugia, forse gli zuavi s'arrenderanno, si dice che
hanno paura dell'ira popolare. Tutte le strade che circondano il
Campidoglio sono piene di gente armata che sventola bandiere
tricolori e canta inni patriottici. Intanto ai bersaglieri che
attendono sulla piazza son portati in gran copia vini, liquori,
sigari, biscotti. La moltitudine va crescendo, cresce lo strepito.
Qualcuno, forse un parlamentario, è salito sul Campidoglio.
Parecchi ufficiali lo seguono. La folla, dal basso, guarda con
grande ansietà. Ad un tratto cadono le materasse della
barricata e appaiono le uniformi dei nostri ufficiali che agitano la
sciabola e chiamano il popolo gridando: Il Campidoglio è
libero. - La moltitudine getta un altissimo grido e si slancia con
grande impeto su per la vasta scala, passa fra le due enormi statue
di Castore e Polluce, circonda il cavallo di Marc'Aurelio, invade i
corpi di guardia degli zuavi e rovescia, spezza e disperde tutto
quanto vi trova di soldatesco. In pochi minuti tutto il Campidoglio
è imbandierato. Il cavallo dell'imperatore romano è
carico di popolani; l'imperatore tiene fra le mani una bandiera
italiana. Un reggimento di fanteria occupa la piazza. È
accolto con grida di entusiasmo. La banda suona la marcia reale,
migliaia di voci l'accompagnano. All'improvviso tutte le faccie si
alzano verso la torre. Il popolo e i soldati ne hanno sfondata la
porta, son saliti sulla cima, hanno imbandierato il parapetto. Un
pompiere sale per mezzo d'una scala sulle spalle della statua e lega
una bandiera alla croce. Un fragoroso applauso e lunghissime grida
risuonano nella piazza. La grande campana del Campidoglio fa sentire
i suoi rintocchi solenni. Da tutte le parti di Roma accorre il
popolo a ondate. Gli ufficiali che si trovano sul Campidoglio sono
circondati e salutati con incredibile affetto. Si grida: - Viva Roma
libera! - Viva i nostri soldati! - Le donne si mettono le coccarde
tricolori sul petto. Da tutte le finestre dei palazzi vicini si
agitano le mani e si sventolano i fazzoletti. Molti piangono. Il
movimento della folla è vertiginoso; il rumore delle grida
copre il suono della grande campana.
I conventi vicini, dove si crede che siansi rifugiati gli zuavi e
gli squadriglieri, sono circondati dai bersaglieri e dalla fanteria.
*
Si ritorna in fretta verso il Corso. Tutte le strade sono percorse
da grandi turbe di popolo che agitano armi e bandiere. I soldati
pontifici che s'avventurano imprudentemente a passare per la
città a due, a tre, o soli, sono circondati, disarmati e
inseguiti. Giungiamo in piazza Colonna. In mezzo alla piazza vi sono
circa trecento zuavi disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso,
abbattuti e tristi. Intorno stanno schierati tre battaglioni di
bersaglieri. Il colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano
giù dalla loggia del palazzo che chiude il lato destro della
piazza. Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi,
bambini, tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno
ai soldati, li pigliano per le mani, li abbracciano, li festeggiano.
Nel Corso non possono più passare le carrozze. I caffè
di piazza Colonna sono tutti stipati di gente; ad ogni tavolino si
vedono signore, cittadini e bersaglieri alla rinfusa. Una parte dei
bersaglieri accompagna via gli zuavi in mezzo ai fischi del popolo;
tutti gli altri sono lasciati in libertà. Allora il popolo si
precipita in mezzo alle loro file. Ogni cittadino ne vuole uno, se
lo piglia a braccetto e lo conduce con sè. Molti si lamentano
che non ce n'è abbastanza, famiglie intere li circondano, se
li disputano, li tirano di qua e di là, affollandoli di
preghiere e d'istanze. I soldati prendono in collo i bambini vestiti
da guardie nazionali. Le signore domandano in regalo le penne.
Numerosissime frotte di cittadini continuano a passare l'una dopo
l'altra pel Corso con grandi bandiere; alcuni drappelli ne hanno
quattro, sei, dieci; alcune bandiere sono alte più del primo
piano delle case e vengono portate da due o tre persone. Tutta
questa gente trae con sè soldati di fanteria e bersaglieri.
Le canzoni popolari dei nostri reggimenti sono già diventate
comuni: tutti cantano. Passano carrozze piene di cittadini che
agitano in alto il cappello; i soldati, rispondono alzando il
cheppì; le braccia si tendono dall'una parte e dall'altra, e
le mani si stringono. Passano signore vestite dei tre colori della
bandiera nazionale. Tutti gli ufficiali che passano in carrozza, a
piedi, a gruppi, scompagnati, sono salutati con alte grida. Si
festeggiano i medici, i soldati del treno, gli ufficiali
dell'intendenza. Passano i generali e tutte le teste si scoprono. -
Viva gli ufficiali italiani!-è il grido che risuona da un
capo all'altro del Corso. In piazza San Carlo un maresciallo dei
carabinieri a cavallo, scambiato per un generale, è ricevuto
da una dimostrazione clamorosa, che gli cagiona un grande stupore.
Da tutte le strade laterali al Corso continuamente affluisce popolo.
Non v'è gruppo di cittadini che non abbia con sè un
soldato, e ciascun gruppo osserva il suo da capo a piedi, gli toglie
di mano le armi, gli parla tenendogli le mani sulle spalle,
stringendogli le braccia, guardandolo negli occhi cogli occhi
scintillanti di gioia. - Viva i nostri liberatori! - si grida.
Davanti al caffè di Roma alcuni giovinetti gettano le braccia
al collo di due robusti artiglieri e li coprono di baci disperati. A
quella vista tutti gli altri intorno fanno lo stesso; cercano
correndo altri soldati, li abbracciano, li soffocano a furia di
baci. - Viva il nostro esercito nazionale! - gridano cento e cento
voci insieme. - Viva i soldati italiani! - Viva la libertà! -
E i soldati rispondono: - Viva Roma! - Viva la capitale d'Italia! -
In molti, specialmente nei giovani, l'entusiasmo sembra delirio; non
hanno più voce per gridare, si agitano, pestano i piedi,
accennano le bandiere e fanno atto di benedire, di ringraziare, di
stringersi qualche cosa sul cuore.
Non vidi mai, ve lo giuro, uno spettacolo simile; è
impossibile immaginare nulla di più solenne e di più
maraviglioso. Queste grandi piazze, queste fontane enormi, questi
monumenti augusti, queste rovine, queste memorie, questa terra,
questo nome di Roma, i bersaglieri, le bandiere tricolori, i
prigionieri, il popolo, le grida, le musiche, quella secolare
maestà, questa nuova gioia, questo ravvicinamento che ci fa
la memoria di tempi, di casi, di trionfi antichissimi e nuovi, tutto
questo insieme è qualche cosa che affascina, che percuote
qui, in mezzo alla fronte, e pare che faccia vacillare la ragione;
si direbbe che è un sogno; non si può quasi credere
agli occhi; è una felicità che soverchia le forze del
cuore. - Roma! - si esclama. - Siamo a Roma? Quando ci siam venuti?
Come? Che è accaduto? - Il ricordo di quello che è
accaduto è già confuso come se fosse d'un tempo
remoto. È una commozione che opprime. Ad ogni strada, ad ogni
piazza in cui s'entri, l'occhio gira intorno maravigliato, e il
sangue dà un tuffo. Avanti, di maraviglia in maraviglia, di
palpito in palpito, via via che si procede, la fronte si solleva, il
cuore si dilata, e sente più gagliardamente la vita. Ecco la
piazza del Popolo. Si corre all'obelisco, ci si volta indietro, si
vedono davanti le tre grandi strade di Roma, si vede a sinistra il
Pincio delizioso, laggiù in fondo la cima del Campidoglio,
tutto intorno prodigiose bellezze di natura e d'arte, antiche,
nuove, auguste, gaie, gigantesche, gentili; la mente sopraffatta si
turba, ci prende un tremito, e bisogna sedersi ai piedi
dell'obelisco, pigliarsi la testa, fra le mani e aspettare che la
lena ritorni.
Intanto imbrunisce. Il Corso s'è illuminato come per incanto.
Il Corso, illuminato, ha veramente un aspetto fantastico.
Candellieri, doppieri, lumi d'ogni forma e d'ogni grandezza
risplendono sulle ringhiere dei terrazzini e sui davanzali delle
finestre. A percorrere la strada in carrozza non si vede più
terra, è tutto un fiume, a cui la strada non basta, e che
straripa nei caffè, nelle piazze, nelle botteghe, negli
atrii, nei vicoli. Questa immensa folla è rischiarata da
migliaia di fiaccole. Drappelli di signore a due a due passano
tenendo in mano dei cerini accesi, che rischiarano il loro petto
coperto di coccarde, di sciarpe, di nastri tricolori. Sopra questo
fiume di gente nuotano, sbattuti di qua e di là, cappelli di
bersaglieri, cheppì, berretti, canne di fucile a centinaia.
Le signore gettano giù dalle finestre fiori e confetti ai
gruppi dei soldati che tendono le mani. Da un capo all'altro della
lunghissima strada, a ogni passo, si sentono dieci voci che cantano
insieme. I soldati non sono più condotti, sono travolti. I
cittadini, non più paghi di tenerli a braccetto, camminano
tenendo loro un braccio intorno al collo. Passano donne con un
pennacchio di bersagliere nelle treccie. Famiglie ferme sui
marciapiedi arrestano i soldati per mettere nelle loro braccia i
bambini. Il gridìo nel Corso è oramai giunto a segno
che chi è stanco dalle fatiche della mattina non ci
può più reggere.
Salgo in una carrozza, e mi lascio condurre al Colosseo. Attraverso
la stupenda piazza della Colonna Traiana, piena di gente anch'essa e
illuminata; passo per parecchie piccole strade; dappertutto lumi.
Guardo nei caffè, nelle osterie: dappertutto soldati e
popolani insieme, dappertutto grida di viva Roma e viva il nostro
esercito, dappertutto canti, amplessi, grida di gioia, bandiere.
Eccoci nel Campo Vaccino. È notte fitta, e il classico lume
di luna sul Colosseo non risplende ancora. Non importa; il cielo
è stellato, e vedrò del momento sublime almeno i
contorni. Da tanti anni ardevo di vederlo! Il cuore mi batte a
precipizio. Ormai sono in un luogo deserto, non sento più una
voce, non un passo; tutto è queto ed oscuro. Eccoci, mi dice
il cocchiere. Io balzo in piedi, guardo, veggo un'immensa macchia
nera sul cielo, e tanto è l'impeto e la dolcezza con cui i
ricordi e le immagini della memoranda giornata mi assalgono tutti in
un punto, che non s'arresta il mio sguardo sui meravigliosi
contorni, nè vi si può arrestare il pensiero. Sguardo
e pensiero si levano più in alto, e dal profondo del cuore,
col più ardente palpito che possa destare in un cuore umano
la gratitudine, saluto e ringrazio i padri e i fratelli che non son
più, quelli che languirono negli esigli e nelle carceri, e
quelli che spirarono sui patiboli e sui campi di battaglia per darci
questa grande patria, la quale, dopo cinquant'anni di dolore e di
sangue, oggi s'integra e s'incorona al cospetto del mondo. O
benedetti morti che ci avete preparato questo santo giorno! O poveri
morti che non l'avete potuto vedere con noi! Siate amati, onorati,
benedetti in eterno!
LA CUPOLA DI SAN PIETRO.
Per quanto si sia parlato, e scritto della basilica di San Pietro,
qualcosa da dire resta sempre; e poi, questa volta, sotto la cupola
di San Pietro c'è una grande novità: i bersaglieri,
dei quali non è fatto cenno, credo, nè dalle guide,
nè dai libri archeologici, nè dalle opere artistiche;
e spero che la mia penna d'oca, con l'aiuto delle loro penne di
cappone, riuscirà se non altro a rallegrarvi.
Andai là con un mio amico ch'era già stato a Roma.
Passando sul ponte Sant'Angelo, incontrammo un ufficiale che ci
consigliò di tornar indietro.
- Adesso ci troverete una processione di soldati, - disse; - ne sono
piene tutte le scale, pare una caserma, bisogna tornarci più
tardi.
Più tardi? Con questa po' di febbre che ho addosso? Dopo aver
veduto quella benedetta cupola per cinque giorni a otto miglia di
lontananza, grande, netta e spiccata, che mi pareva a due passi, e
mi faceva soffrire le pene di Tantalo? È impossibile; fin che
non ci sono sopra, mi par di sentirmela sul petto. Andiamo a vedere
questa maraviglia. A San Pietro!
La carrozza era già di là dal ponte Sant'Angelo,
quando il mio compagno mi consigliò di chiuder gli occhi e di
non aprirli prima che me lo dicesse: li chiusi.
A un tratto la carrozza si fermò e l'amico disse: - Guarda.
Guardo: siamo in mezzo alla piazza. Ecco le colonne, le fontane, la
gradinata, la cupola, ogni cosa come si vede nei quadri: nulla di
nuovo, nessuna maraviglia.
- Dunque? - domanda l'amico, - non ti scuoti? che impressione ti fa?
non ti par bello, grande, sublime?
Io son mortificato, non trovo parola. Questa è la famosa
basilica? Questa la cupola che si vede di lontano quaranta miglia?
Questo il gran colosso di San Pietro?
- Dunque?
- Dunque.... senti, amico, vuoi ch'io ti dica la verità?
- Quale?
- Mi par piccolo.
- Che cosa?
- Tutto: la piazza, la chiesa, la facciata, la cupola, tutto quello
che vedo.
L'amico diede in uno scroscio di risa.
- Sarà ridicolo; ma è vero. Mi par piccolo, mi par
piccolo, mi par piccolo. Son disilluso.
- Guarda quell'uomo.
- Quale?
- Quello seduto ai piedi d'una delle colonne di mezzo della
facciata.
Guardo l'uomo, misuro con l'occhio tutta l'altezza della colonna,
misuro la larghezza, poi l'uomo di nuovo, confronto, riguardo ed
esclamo:
- È immenso!
- Ah! qui ti volevo! Bisogna confrontare, caro mio. Come ti puoi
accorgere che qualcosa è gigantesco dove tutto è
gigantesco? A prima giunta, tutti guardano in su, e tutti dicono
come te. Scendiamo.
Si scende di carrozza, si sale la gradinata: non finisce mai. Si
guardano le colonne della facciata: ingigantiscono a ogni passo.
V'arriviamo davanti: sono larghe come case. Guardiamo in su: sono
alte come campanili. Ci voltiamo indietro: quanta strada s'è
fatta! Le fontane, pur ora così grandi, son diventate piccine
che non paiono più quelle. Un soldato vicino a noi esprime
benissimo questo stesso effetto; guarda la facciata e dice: -
«Gonfia».
Entriamo. Guardo.... - Amico, questa volta te lo dico sul serio:
sono deluso.
- Aspetta. Vedi quella colomba in bassorilievo, di marmo bianco, qui
nell'angolo?
- Vedo.
- A che altezza ti par che giunga della tua persona?
- Al collo.
- Vediamo.
Si va innanzi.... Diavolo, non ci siamo ancora? Pareva a due passi.
Eccoci. Oh questa è curiosa! Stendo il braccio in alto, mi
alzo sulle punte dei piedi, e non ci arrivo.
- Guarda le lettere di quell'iscrizione lassù; quanto ti
paiono alte?
- Quattro palmi.
- Sono più alte di te. Guarda quelle finte colonne; come ti
paiono larghe?
- Un braccio.
- Tre metri.
Comincio a capire. In mezzo alla chiesa si vede un gruppo di ragazzi
intorno a una cosa che sembra una statua. Andiamo innanzi, innanzi,
innanzi: oh cospetto! i ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e
grossi come Ciclopi; la cosa è la statua di San Pietro; i
soldati le baciano il piede; un pretino poco distante guarda e
sorride con un'aria di stupore e di compiacenza; pare che dica: -
Son cristiane queste bestie feroci! Meno male!
C'è una lunga fila di soldati in ginocchio intorno all'altar
maggiore. Altri, negli angoli lontani, stanno ammirando le statue, e
per persuadersi che sono di marmo metton loro le mani sulle spalle,
sulle braccia, sulle ginocchia, come fanno i ciechi per riconoscere.
Un gruppo di bersaglieri è estatico davanti a San Longino.
Parlano tra di loro. Mi avvicino e colgo la sentenza finale d'uno di
essi, che mi ha l'aria di un monferrino: «A j'è nen a
dije; a l'è un bel travaj» (non c'è che dire;
è un bel lavoro).
Siamo sotto la cupola. Su la testa. Ah! qui l'effetto è
veramente prodigioso! È bello il vedere il mutamento che si
fa in tutti i visi appena si voltano in su. Molti, appena guardato,
chinano la testa e chiudono gli occhi, come se avessero intraveduto
l'abisso. In altri il viso e l'occhio s'illuminano come a una
visione di cielo. È una maraviglia che ha dell'estasi.
È il solo punto della chiesa in cui collo sguardo si sollevi
al cielo il pensiero. Nelle altre parti è enormità che
stupisce e splendore che abbaglia, non grandezza che ispira; ci si
sente il teatro; si pensa più alle fatiche e ai milioni che
vi si profusero, che all'Idea cui furono consacrati; più ai
pittori e agli scultori, che agli angeli e ai santi. L'anima
è così tenacemente legata alla terra dalle maraviglie
dell'arte, che a sprigionarla e a levarla in alto occorre assai
maggior forza e più difficile lotta che non a farla uscir
vittoriosa dalle tentazioni esterne della vita, contro cui la chiesa
dovrebbe servir di rifugio.
Si va innanzi, indietro, a destra, a sinistra, e man mano che si
procede la testa si fa pesante e la vista s'intorbida. A ogni passo
cento nuove cose, l'una più straordinaria e mirabile
dell'altra, s'affacciano confusamente allo sguardo, vicine, fitte,
ammontate. L'attenzione non basta a tutte insieme, sopra una sola
non può fissarsi, che le altre la tirano, e così
tremola e si stanca senza nulla abbracciare. Colonne enormi, statue
colossali, bassorilievi, dipinti, mosaici, ori, ricchezze e bellezze
d'ogni forma e d'ogni natura: vi si passa accanto senza neanco
guardare; si vedono e si dimenticano le une nelle altre.
Si vede in fondo alla chiesa qualcosa di nero che brulica intorno
alla porta: è una compagnia di soldati che entra. Quei
colossi di angeli che reggono la pila dell'acqua benedetta sembrano
due giocattoli da ragazzi. In vari punti ci sono dei soldati che si
chinano a guardare sul pavimento: guardano le indicazioni della
lunghezza delle più grandi basiliche del mondo. Quale arriva
a metà, quale a due terzi, quale a un terzo: chiesuole.
«Mamma mia!» esclamano i soldati napolitani. Quante
moltiplicazioni dovranno fare, tornati ai loro villaggi, per dare
un'idea di San Pietro col confronto della chiesa parrocchiale!
Alcuni notano sul taccuino le dimensioni. Altri fanno il conto di
quanti soldati ci starebbero. - Ci stanno tutti i soldati del
4.° corpo d'esercito? - Sì.... e forse anche tutte le
maledizioni che mandarono al servizio delle sussistenze.
Ecco la porta per salire alla cupola. Coraggio e su, chè
sarà una sudata memorabile. Si sale per una scala a
chiocciola; gli scalini sono larghissimi e appena rilevati; si va su
a grandi giri, agevolmente, senza avvertir la salita. Il muro
è coperto di lastre di marmo dove son segnati i nomi di tutti
i principi del mondo che salirono alla cupola. C'è
l'iscrizione di Ferdinando II di Napoli. Sotto, appoggiate al muro,
ci stanno otto daghe da bersagliere. Più su, a ogni passo,
cappelli coi pennacchi, cheppì, sciabole di cavalleria,
cinturini, giberne. Sopra la testa e sotto i piedi, un fracasso da
stordire. Sono squadre intiere di soldati che scendono, salgono,
s'incontrano, si salutano, si esprimono l'un l'altro lo stupore e
l'allegria. Già si leggono pei muri le loro iscrizioni,
poichè il soldato, per dove passa, lascia sempre traccia di
sè. Sotto quella del Borbone che dice: «Re del regno
delle due Sicilie, salì nella cupola ed entrò nella
palla», si legge: «Tale dei tali, allora caporale del
genio, ha avuto l'onore di salutarlo a Gaeta».
Oh, ecco una finestra, guardiamo giù. E non si canzona! Siamo
già oltre il tetto dei più alti palazzi. Si ripiglia
la salita, si cammina altri dieci minuti, ecco una porta: si esce al
cielo aperto. Eccoci sul tetto della chiesa: è una piazza
d'armi. Si vede da una parte un edifizio rotondo, alto quanto una
chiesa ordinaria: non è altro che una delle cupolette minori
che fanno da stato maggiore alla principale. È grande e
stupenda, ma nessuno la guarda; non s'ha tempo per guardare tutte le
minuzie. Si corre al parapetto, si guarda nella piazza: è un
formicaio. Si guardano le statue che sorgono in fila sul sommo della
facciata: che moli! Piedi che non istanno sul tavolino dove
scrivete; pieghe dei panni in cui si può nascondere un uomo;
dita che paiono clave. V'è una chiave di San Pietro che a
prima giunta si piglia per un'ancora di bastimento. I soldati
scorrazzano da tutte le parti, chiamandosi e salutandosi dalla
piazza al tetto, dal tetto alla cupola, ed esprimendosi la
maraviglia con quel ridere allegro e quelle esclamazioni scherzose:
- Che bagattella! - E chi vuol andare di qua, chi di là; si
tirano, si spingono, si aggruppano, si sparpagliano, correndo,
ridendo e chiacchierando, come i ragazzi nel cortile di un collegio.
- Bisogna farsi coraggio, - dice uno, - e salire, perchè se
non si va in paradiso questa volta, non ci si va più. - Ma
questa cupola par piccola, - ripeto al mio amico. E lui: - guarda in
cima. - L'ultimo terrazzino sotto la palla è pieno di
soldati; o come mai si vedono così piccoli se son così
vicini?
Su, alla cupola. Sali e gira e rigira, ecco un uscio che dà
sur una galleria; la galleria dà nell'interno della chiesa;
mi affaccio; ma mi tiro subito indietro, preso dalla vertigine. -
Guarda la sala del Concilio, laggiù in quella nave della
chiesa, - mi dice il compagno. Guardo. - Ma come! là dentro
stavano tutti quei vescovi? Ma se è grande come una scatola
da tabacco! - Che cosa paiono gli uomini laggiù? Mi ricordo
il detto del Guerrazzi: «quello che sono, insetti».
Intorno a quell'altarino di mezzo ce n'è uno sciame: sembrano
una macchia nera che si muova. Guardo dietro di me, nel muro, e
m'accorgo che quelle testine d'angiolo a mosaico, ch'io vedeva di
giù, starebbero bene sopra un paio di spalle di titano.
Si risale. Scale lunghe e diritte di cui si vede appena la
sommità, scale a chiocciola dove per salire bisogna
afferrarsi a una fune, scale di legno a zig zag, scale comprese fra
due pareti curve dove bisogna camminare rotolandosi sulla parete
più bassa; e da capo scale dritte, e da capo scale a
chiocciola, e avanti, sudando, ansando e soffiando: ecco finalmente
un raggio di luce, una porta, eccoci sulla sommità, ecco
tutta Roma: oh che aria viva e leggiera!
La prima esclamazione che mi colpisce, arrivato là, è
d'un artigliere lombardo. - «Madona!» - esclama
giungendo le mani - «alter ch'el domm de Milan!»
Si guarda giù, sul tetto della chiesa, dove si era poc'anzi:
si vede una processione di formiche. La gente che passeggia per la
piazza si discerne appena; le due grandi fontane sembrano due
pennacchietti bianchi agitati; le cupole minori della basilica,
campanelle di quelle piccine, che si mettono sulle statuette dei
santi. Tutta la città si abbraccia con uno sguardo. Subito
danno nell'occhio le mura del Colosseo e delle Terme, nere e
gigantesche. Le statue in cima alle colonne, le punte degli
obelischi, le sponde curve del Tevere, il Pincio, la villa Borghese,
il Quirinale, San Giovanni Laterano, il Gianicolo, che sembra una
collinetta di giardino, tutto si vede distintamente. Il giardino del
Vaticano pare un'aiuola; il Vaticano, un edifizio comune, coi
cortiletti: è tutto chiuso e deserto. Ecco Monte Mario. Ecco
laggiù la campagna romana, nuda e sinistra; di qui debbono
aver veduto il passaggio delle divisioni del Cadorna, compagnia per
compagnia, cannone per cannone. Ecco Monterotondo, Tivoli, Frascati,
Albano, e più a destra, lontano, quella sottile striscia
luminosa, il mare. Roma! Roma! Benedetto nome che non s'è mai
stanchi di dirlo; c'è qualche segreto in questo suono: Roma!
Pare che sempre ce lo ripeta l'eco nell'orecchio: Roma! Eccola qui
tutta....
Un soldato accanto a me guarda anch'egli Roma con aria pensierosa;
pare che voglia dire qualche cosa, sorride, alza una mano, la batte
sul parapetto: - «Finalment»....
Sentiamo quel che vien dopo.
- «Ghe semm!»
Senti come l'ha detto con gusto! E tutti gli altri soldati, sul
punto di scendere, agitando una mano: - «Addio, addio
Roma!»
E giù per le lunghe scale tortuose echeggia il suono dei
passi precipitosi e delle voci allegre.
PRETI E FRATI.
Nelle caserme pontificie si trovarono molte copie d'un inno di
guerra, dettato in francese, che par che dovessero cantare gli zuavi
andando a combattere. Ha molti punti di somiglianza colla
«Marsigliese». Ha un ritornello che comincia:
«Catholiques, debout!» Ha una strofa che arieggia quella
dell'inno francese: «Entendez-vous dans ces campagnes»,
con la differenza che ai «féroces soldats» sono
sostituiti «les barbares». Ha un verso che dice:
«Viendront-ils nous prendre (ci dev'essere un verbo più
feroce, ma non lo ricordo) nos églises, nos
prêtres?» E il verso dopo: «Non, non, on n'y
touchera pas». E altre amenità poetiche su
quest'andare.
Ma dal verso in cui è detto che gli Italiani vanno a Roma per
far man bassa sulle chiese e sui preti, si capisce che dovette esser
quella la finzione di cui si servirono principalmente i fautori del
governo papale per suscitare e tener vivo il fanatismo nei soldati,
per destar nel popolo l'avversione al governo italiano, e per
alimentare la diffidenza di quei molti che, pure essendo cattolici
in buona fede, manifestavano o lasciavano trapelare sentimenti
italiani.
Questo fatto spiegherebbe pure l'astensione d'una parte del popolo
dalle dimostrazioni entusiastiche così nella città di
Roma come nei villaggi della provincia.
A Monterotondo, discorrendo con un cittadino dei più noti, e
in voce di liberale, gli domandammo come fosse contento del nuovo
stato di cose:
- Per me sono contentissimo; - rispose, e lo diceva sinceramente: -
tutto va bene, non si potrebbe desiderare di meglio. - E poi a bassa
voce: - Hanno rispettato le chiese, hanno lasciato stare i preti;
messe, vespri, funzioni, ogni cosa come prima.
- Oh curiosa! Ma credeva che si venisse qui per far man bassa su
tutto questo, lei?
- Io?... nemmen per sogno.
Certo che lo credeva, e con lui chi sa quanti, che all'entrare dei
nostri soldati si saranno chiusi in casa e fatti dar del codino. Ma
ora che si son disingannati e rassicurati, non credo che saranno
meno sinceramente italiani degli altri.
Non ricordo in che villaggio, una donna del popolo fermò il
primo ufficiale che vide, e gli disse con voce affannosa e
supplichevole: - È una buona persona il nostro curato, glie
l'assicuro; è un galantuomo; non gli dispiace mica che
vengano i soldati italiani; non gli facciano nessun male, lo
raccomandi lei ai soldati, ci faccia questa carità....
Quella donna credeva fermamente che il «mandato»
dell'esercito italiano fosse di far la festa ai preti, come diceva
don Abbondio. Ora lamentatevi, se vi pare, ch'essa non abbia messo
fuori dalla finestra la bandiera tricolore.
Passava un drappello di seminaristi, per una via di Nepi, poco dopo
che v'erano passati i soldati. Un popolano, accennandoli, disse in
tuono burlesco: - Ora.... quelli là.... è finita.... -
E mi guardava.
- Perchè finita? - gli domandai.
- A questi lumi di luna....
- Ma che lumi di luna! I seminari e i seminaristi seguiterete ad
averli; ce li abbiamo anche noi, e ce li avremo sempre.
Fece un atto di stupore, e poi domandò: - In Italia? Ce li
avete anche voi in Italia?
- Anche noi in Italia.
- E passeggiano per le strade?
- Passeggiano per le strade.
- E nessuno gli dice nulla?
- E che volete che gli dicano?
C'era da perdere la pazienza; mi ripugnava quasi di credere a tanta
ignoranza.
In una via remota di Roma, poco dopo l'entrata dell'esercito, si
vide un vecchietto che, all'aria, doveva aver avuto un tale spago
delle cannonate da perdere il lume della ragione. Alla paura delle
cannonate gli era poi sottentrata la paura delle dimostrazioni.
Passavano alcuni giovani cantando e sventolando bandiere. Non avendo
più tempo di fuggire, credette di dover far l'italiano per
non essere accoppato. Cominciò con sforzarsi a sorridere, e
poi, raccolto tutto il suo coraggio, gridò con una voce da
moribondo: - Accidenti ai preti!
Le bricconate fatte per viltà sono più rivoltanti di
quelle fatte per nequizia. Uno dei giovani del drappello lesse nel
viso al vecchio e gli disse con piglio severo: - Per essere Italiano
non c'è mica bisogno di mandare accidenti ai preti, sapete!
Il vecchio rimase attonito.
- Non ce n'è proprio bisogno, - soggiunse il giovane
allontanandosi e continuando a guardarlo. Il povero Italiano fallito
non profferì più parola. Anche a lui, certo, era stato
dato a credere il «viendront-ils» degli zuavi.
Un oste, all'apparir dei soldati, s'affrettava a nascondere certi
palloncini da luminaria su cui era scritto: «W. Pio IX».
Un ufficiale lo sorprese, e gli disse:
- Lasciate quella roba dove si trova.
- Ma io....
- Lasciatela.
- Ma io non son mica per il papa; io son per lor signori.
- Ma per essere per noi, non c'è mica bisogno che rinneghiate
il papa.
- Ma questa roba....
- Ma questa roba vi potrà ancora servire, e tira poco,
speriamo, perchè le cose s'aggiusteranno.
- Lei dice bene.
- E voi facevate male.
Del resto, i preti mostrarono di non aver le paure che s'adoperavano
a metter negli altri. Mentre nelle vie dei villaggi la buona gente
tremava per la loro vita, essi, dalla finestra, assistevano
tranquillamente al passaggio dei reggimenti, e molti non abborrivano
dall'onorare d'un cortese saluto gli ufficiali a cavallo.
Un solo frate mostrò d'aver paura dei soldati, e fu vicino a
Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di
bersaglieri, pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai primi
soldati, si fermò e giunse le mani in atto di chieder grazia.
- «Fa nen 'l farçeur» - gli disse un caporale.
Gli altri gli domandarono notizie del Santo Padre. Qualcuno gli
offrì del pane. Rassicuratosi, pareva matto dalla
contentezza.
E non mancarono i preti che accolsero festevolmente i soldati. A
Baccano un prete ed un frate stettero a veder sfilare sei
battaglioni di bersaglieri sulla porta del convento, sereni e
ridenti ch'era un piacere a vederli. Tutti i soldati, passando,
dicevano qualche cosa all'uno o all'altro.
- Si va a Roma, reverendo.
- Dio v'accompagni!
- Senti! È dei nostri!
Il prete si mise una mano sul cuore.
- Viva! viva! - si gridò dalle file. E il frate e il prete
ringraziarono.
Non intesi mai, nè altri può affermare d'aver mai
inteso un soldato dire una parola sconveniente ad un prete. Scherzi,
sì; ma urbanissimi, e condonabili sempre alla gaiezza
soldatesca, Se l'«Unità Cattolica» osservasse che
è inurbanità il dirigere la parola a chi non si
conosce, le si potrebbe rispondere che nessuno obbligava i preti a
mettersi alle finestre o a piantarsi sull'uscio della casa
parrocchiale quando i reggimenti passavano. Se vi stavano, vuol dire
che ci si divertivano. Non so se ci sarebbero stati quando fossero
passati gli zuavi.
Nei primi due giorni non si videro in Roma nè preti nè
frati, o soltanto pochissimi. Ma non si può dire che stessero
nascosti per timore: qual ragione avrebbero avuto di temere i nostri
soldati a Roma più che nella provincia? Stavan chiusi, si
capisce, per non aver a prendere parte, neanco come spettatori, alle
dimostrazioni del popolo. Tuttavia, ripeto, alcuni se ne videro
anche il primo giorno, e passavano in mezzo alle bandiere e alle
grida, sicurissimamente, come in casa propria, senza esser nemmeno
guardati. E sì che le vie di Roma, stando a quello che
scrisse don Margotti, eran piene di «facinorosi», di
«tigri assetate di sangue» e di «donne di mala
vita», tutta gente, come diceva l'oste milanese della
«Luna piena», latina di bocca e latina di mano.
La mattina dopo il 20, venendo dal Campo Vaccino al Campidoglio, la
prima cosa che vedo, in cima a una delle grandi scale che
dànno sulla piazza, è un gruppo di bersaglieri e di
frati che se la discorrono fraternamente, seduti sugli scalini. I
bersaglieri mangiavano; due o tre frati rivolgevano tra le mani una
gamella, guardandola di sopra e di sotto; altri tenevano in mano un
pane di munizione; altri osservavano con molta curiosità i
cappelli piumati appesi al muro. Ci fosse stato un fotografo!
Parevano amici vecchi. A un bersagliere che scendeva domandai: - Che
cosa dicono i frati? - «So' chiù etaliani de
noautri», - mi rispose ridendo.
La sera, per le strade, se ne videro molti. Ce n'era di tutti i
colori: bianchi, neri, bigi, cacao. Alcuni erano accompagnati da
soldati. La gente guardava e rideva. Era infatti una mescolanza
così nuova e strana, che pareva di sognare. E il modo con cui
andavano assieme! Come fosse la cosa più naturale del mondo,
come fossero stati insieme sempre. Discorrevano di politica.
Passando in certe strade appartate, i soldati vedevano qua e
là sparire delle tonache e chiudersi degli usci. Da certe
finestre spuntavano visi di reverendi rannuvolati, guardavano
intorno come per consultare il tempo, e, sentito grida o musiche
lontane, richiudevano le imposte. Altri uscivano in fretta da una
porticina, si arrestavano a un tratto, come le lucertole, a spiare
in giro, e poi via rasente il muro a lunghi passi. Per certe strade
quiete e deserte pareva di sentire dei fruscii misteriosi, come di
notte per gli anditi delle chiese e delle sagrestie.
Qualche prete, attraversando in fretta via del Corso e vedendo di
sfuggita qualche nuova uniforme, si fermava in un canto, fuori della
folla, per vedere che bestia fosse. Ne vidi due che sbirciavano da
lontano due carabinieri in tenuta di parata. Li guardarono dalla
testa ai piedi, dai piedi alla testa, e poi si consultarono l'un
l'altro tacitamente, stringendo le labbra coll'aria di dire: - Che
roba è?
Curiosità n'avevano, certo; ma non guardavano mai diritto.
Passando accanto ai soldati, lanciavano occhiate di traverso,
rasente il cappello, al di sopra della spalla, tra le dita della
mano, o facevano scorrere due dita intorno al collo come per
allargarsi il collare, tanto per aver agio di voltare la faccia
senza parer di guardare.
Lasciamo gli scherzi; debbono aver detto in cuor loro: - Qual
differenza dai nostri zuavi!
Chi avesse visto in viso quei due cardinali, di cui non ricordo il
nome, che passarono in carrozza dinanzi ai bersaglieri, presso
Castel Sant'Angelo, poco dopo ch'era stato ordinato alle truppe di
render loro gli onori come ai principi del sangue; chi avesse visto
il sorriso che fecero quando si videro presentare le armi, lo
sguardo benigno e gentile che girarono sui soldati, e l'atto di
ringraziamento con cui accompagnarono lo sguardo, e la serena e
lieta dignità con cui si ricomposero dopo quell'atto; chi li
avesse visti avrebbe giurato che un sorriso, uno sguardo, un atto
così quei due cardinali non lo avevano mai fatto ai loro bene
amati campioni.
E cardinali, e preti, e frati se v'era fra loro chi credesse a
quello che le femminucce di Civita e di Nepi credevano, e quanti
Romani cattolici trepidavano per le chiese e pei sacerdoti, debbono
essersi tutti solennemente e irrevocabilmente ricreduti. Sentivano
dire che i soldati italiani erano barbari, e non li hanno visti
torcere un capello a un reverendo; ch'erano empi, e li hanno veduti
affollarsi nelle chiese a baciare i piedi dei santi; ch'erano
vandali, e li hanno visti pagare ogni cosa a soldi sonanti, e
regalare le pagnotte ai frati; ch'erano licenziosi e insolenti, e
hanno sentito dire dai popolani: - Che rarità di soldati son
questi che non dicon nulla alle donne! - Volere, o non volere, un
grande edifizio di menzogne è caduto e, per Iddio, si
potrà raccoglierne i ruderi, ma non si rifabbrica più.
Quante conversioni politiche debbono aver fatto i nostri soldati!
Quanto poi ai preti e ai frati, io avrei voluto leggere nel loro
cuore la sera del 20 settembre. Se è vero che la maravigliosa
dimostrazione di Roma, tanto superiore a ogni previsione e a ogni
speranza, abbia più che commosso, sopraffatto e sbalordito
nella corte pontificia i più fieri e ostinati nemici
d'Italia, che non avrà potuto di più sul cuore dei
molti in cui la convinzione era fiacca e la nimicizia determinata
solamente dall'interesse? Quelle poche fibre italiane, che il conte
di Cavour non voleva credere morte neanche nel cuore del Papa,
debbono essersi scosse nel loro cuore la sera di quel giorno. Le
grida e i canti del popolo debbono essere risonati nelle celle
silenziose dei monasteri, come un avvertimento, come un consiglio,
come un rimprovero. Molti debbono aver invidiato dal più
profondo dell'anima quella gioia; debbono aver rimpianto di essersi
ridotti in condizione da non poterla godere; alcuni, forse, tendendo
l'orecchio alle musiche lontane, debbono aver provato un sentimento
di tenerezza mesta ed amara, debbono essersi ricordati di aver una
patria, debbono aver sentito che l'amavano, debbono aver profferito
in segreto il suo nome, debbono averla invocata, debbono aver
domandato con sincere lacrime a Dio che ispirasse nel cuore del
pontefice il bisogno di riconciliarsi con lei, di riconoscerla, di
benedirla, di troncare con una parola generosa la guerra insensata
che in mezzo a tanta gioia e a tanto affetto li condannava alla
solitudine e all'abbandono come rinnegati o stranieri.
LE TERME DI CARACALLA.
- Andiamo alle terme di Caracalla.
- Andiamo; si può passare vicino al Circo Massimo.
- E attraversare il Campo Scellerato.
- E veder l'arco di Giano.
- E la Cloaca Massima.
Niente di meno! Ponete d'essere due amici a far questo dialogo, e
ditemi se non c'è da sentirsi gonfiare, e mettersi a parlar
latino, anche a rischio di far fremere di sdegno grammaticale il
sacro suolo e le venerande rovine.
Per andare alle terme di Caracalla si passò accanto a tutti
quei monumenti; ma in fretta, e senza molto badarvi, che tanto c'era
stato detto e ridetto delle terme, da toglierci pel momento ogni
altra curiosità e ogni altro pensiero.
- Vi faranno più impressione del Colosseo, - ci avevano detto
molti; ma noi non lo credevamo possibile, e perchè il
Colosseo ce n'aveva fatto una grande, e perchè l'idea,
prosaica che in fin dei conti le terme erano uno «stabilimento
di bagni», come si diceva scherzando, ci teneva in freno
l'immaginazione.
Per istrada, si celiava confrontando la prima austerità dei
costumi romani, quand'era proibito al genero di fare il bagno in
presenza del suocero, con la licenza degli ultimi tempi,
allorchè si vedevano sorgere dall'acqua alla rinfusa teste di
patrizi e di matrone, e i consoli spruzzare i senatori, e
l'imperatore tuffarsi nella «natatoria» in mezzo ai
popolani, e le schiave aspettar le padrone nelle celle per
ricomporre sui capi stillanti i «crines suppositi», e
ungere le membra d'unguento.
- Le terme, signori, - dice a un tratto il cocchiere.
Una gran muraglia nera e una gran porta son tutto quello che mi
ricordo della parte esterna. Il primo momento in cui ci si trova
davanti a qualche cosa, di straordinario e di grande non resta mai
distinto nella memoria. La porta s'apre, entriamo in una specie di
vestibolo, e udiamo una voce che dice: - Qui v'erano le celle pei
signori romani che non volevano bagnarsi in pubblico. - Non si
guarda, si va innanzi altri pochi passi: ci siamo.
Guardiamo un pezzo in silenzio.
Siamo in mezzo a un campo cinto da quattro muri altissimi. Nel muro
dirimpetto a noi v'è una gran porta per cui si vede un altro
campo. In fondo a questo una seconda porta, in dirittura della
prima, per cui si vede un altro campo ancora, e via via, fino a un
muro lontanissimo che sembra chiudere l'edifizio. Alla nostra
sinistra una porta come le prime, e altri campi, e altri muri, e
altre porte; e tutto deserto e silenzioso come una città
abbandonata.. Guardiamo in terra: v'è ancora in un angolo un
pezzo di pavimento di mosaico uguale e intatto come fatto ieri. In
alcuni punti il terreno s'alza, in altri s'abbassa. Vicino al muro
v'è un tronco di statua; accanto alla porta alcune nicchie
vuote.
- Qui c'era un grandioso porticato, - dice uno. Non ve n'è
più traccia, andiamo innanzi. È una solitudine che fa
quasi paura. Eccoci nel secondo recinto. Muri, porte e mucchi di
terra come nel primo, e deserto, e silenzio. Oh! eccoci nel centro
dell'edifizio. Di qui si capisce qualcosa. Vediamo.
Guardo intorno: che triste e grande spettacolo! Mura altissime,
nere, scalcinate, che serpeggiano dalla sommità al suolo,
lasciando in qualche punto veder la campagna. Vôlte alte e
leggiere, somiglianti a cupole di chiese, rotte a mezzo della loro
grande curva, e terminanti in punte, in lingue, in tronchi d'arco
prolungati e sottili, che minacciano rovina. Qua e là enormi
pilastri monchi, spezzati a mezzo come da un urto violento, o man
mano digradanti in grossezza dal basso all'alto, fino a disegnarsi
nel cielo smilzi e snelli come obelischi; porte e finestre sformate,
squarciate agli spigoli come dall'uscita forzata di un corpo
più grande e dentellate in giro, e dentro buie come bocche di
mostri; scale coi gradini divelti, spaccati, corrosi, in mille modi
scemati e guasti, come dall'opera di mille mani rabbiose. E via pei
muri fori d'ogni forma, e incavature larghe e cupe, di cui non si
scerne il fondo, e vestigia interrotte della commessura dei piani, e
tracce di porte, di nicchie, di pareti, di canali, di vasche. E in
terra, in mezzo a queste rovine gigantesche, larghi pezzi di
pavimento, simili a macigni franati, sostenuti da pali, coperti
ancora dall'antico mosaico; massi di marmo bianco, rottami di
colonne di porfido, pietre di sedili, frammenti di statue, ornati di
capitelli, lastre e sassi; ogni cosa alla rinfusa, sossopra, come
crollato pur ora. E fra masso e masso, fra rudero e rudero, le erbe
e i fiori silvestri, con cui la terra, ultima trionfatrice, apertosi
il varco a traverso i pavimenti marmorei, risaluta, dopo un giro di
secoli, il sole.
Si guarda e si pensa. È triste, è penoso lo sforzo che
si fa per ricostrurre nella mente nostra l'intero edifizio. Quegli
avanzi non bastano: sono troppo rotti e sformati. Si segue
coll'occhio la curva d'un arco, e si dimentica il contorno della
colonna; si va oltre nella direzione d'un andito, e il profilo d'un
pilastro ci sfugge; ci sfuggono, via via che si disegnano, le linee,
e con le linee le proporzioni, e con le proporzioni l'effetto, che
sarebbe immenso, del tutto. Quegli avanzi son come le note
interrotte d'una musica lontana, di cui s'indovina, più che
non si sente, la melodia. - Se ci fosse qualcosa di più, - si
pensa; - se per esempio quella parete fosse finita, se qui non ci
fosse questo vuoto, se là rimanesse ancora quell'atrio,
quante cose se ne potrebbe argomentare e capire! Che peccato! - E
più e più volte si ricomincia, con mesto desiderio,
questa ricostruzione mentale. Si vedono di sbieco, per una porta, i
primi gradini di una scala; chi sa dove mena? Si corre con grande
curiosità, si guarda: che stizza! La scala è troncata
a metà. Si vede l'imboccatura d'un andito: o dove riesce? Si
corre a vedere: oh delusione! riesce nei campi. Si stanca l'occhio
sulle vôlte e sulle pareti che dovevano essere dipinte, caso
mai ci restasse un po' di colore, qualche linea, una traccia
qualsiasi: nulla. Nulla delle vaste gallerie dove si facevano i
giuochi, nulla dei portici stupendi che cingevano l'edifizio
centrale, nulla delle enormi colonne che sostenevano il piano di
mezzo. Ebbene, ci si attacca a quel poco che resta, si combina, si
congettura, si fantastica. Le sale del centro si può supporre
che cosa fossero. Qui si capisce che si nuotava, là si
dovevano vestire, sopra ci dovevano essere le biblioteche, di qui
doveva scendere l'acqua. Si seguono attentamente le ondulazioni del
terreno, si tien l'occhio fisso nelle nicchie vuote, come se ci
fossero ancora le statue, si entra nelle celle dove l'immaginazione
è più raccolta, e si guarda a lungo in terra e sulle
pareti, che cosa? Nulla; ma si guarda, nè ci si può
allontanare prima d'aver molto guardato.
E il pensiero s'immerge nel passato.
Animo, rifacciamo queste mura e su di esse i grandi dipinti
fantastici, e lungo le pareti i duemila sedili marmorei, e nelle
nicchie i capolavori dello scalpello antico, l'Ercole, la Flora
colossale, la Venere Callipigia; e lungo i portici e in giro per le
sale le colonne di porfido; e lassù, in alto, le celle dorate
e inghirlandate; e laggiù, in fondo, i giardini ombrosi e le
fontane dai cento zampilli. E duemila Romani in preda all'ebbrezza
dei piaceri. L'aria è profumata. Cadono nelle celle le
bianche stole delle matrone, e le schiave affannate sciolgono i
calzari purpurei e le treccie brillanti di perle. Dall'acque, infuse
di balsami, emergono i volti accesi di voluttà. Sull'orlo
delle vasche si affollano i servi colle striglie argentee e i vasi
degli unguenti. Al rumore delle acque cascanti si mescono le musiche
e i canti dei cenacoli, le grida del popolo plaudente ai giuocatori
risonano dalle gallerie, e s'odon le voci dei poeti che declaman i
versi, e via per gli anditi e per le scale e pei recessi
dell'edifizio enorme echeggiano accenti allegri, e trasvolano veli
candidi, e passano, salgono, scendono, s'incontrano senatori canuti
e dame chiomate, e giovinetti, e ancelle, e schiavi; e si confondono
in un vocìo continuo tutte le lingue ed in uno splender
diffuso tutte le ricchezze del mondo.
Ed ora muri diroccati, mucchi di sassi, un po' d'erba selvatica, e
silenzio.
Oh! poter rivivere un minuto quella vita, o vederla vivere un
istante, con uno sguardo solo, come si vede una cosa fuggente!
Ora tutto è mutato. Invece delle vaste sale cinte di colonne,
quei gabbiotti soffocanti degli stabilimenti di bagni, coll'avviso:
- È proibito di fumare. - In luogo delle grandi piscine, la
tinozza dove si sta rattrappiti e immobili, come i feti nei vasi; e
in cambio delle musiche dei cenacoli, il campanello per la
biancheria!
Eravamo nell'ultima sala, o campo (chè non v'è
più tetto), quando il silenzio profondo che regnava intorno
fu rotto improvvisamente da una voce: - «Veni
cà».
Guardammo in su: era un soldato di fanteria che dal sommo d'un muro
altissimo chiamava i suoi compagni rimasti giù, e accennava
alla bella veduta che gli si offriva dintorno.
Alcuni soldati vicino a noi raccoglievano le pietruzze dei mosaici.
Altri esperimentavano l'eco gridando dei comandi militari.
Più in là v'era una signora con un ufficiale.
Salimmo anche noi dov'era il soldato. La scala è aperta, se
ben mi ricordo, in un pilastro. È una scala larga e comoda;
ma interminabile. Giungemmo senza fiato sur un piano, credendo che
fosse l'ultimo; ma guardando intorno, ci accorgemmo che non eravamo
nemmeno a mezz'altezza. Da ogni parte ci sovrastavano archi e mura,
che pareva s'inalzassero man mano che salivamo. Guardammo
giù, e ci meravigliammo d'esser tanto saliti. Da quel punto,
abbracciando con lo sguardo una gran parte dell'edifizio, potevamo
formarci un concetto più adeguato della sua grandezza. Ci
trovavamo sopra una lingua di vôlta sottilissima, che pareva
stare in aria per miracolo. A guardar giù per le fessure
girava la testa. Da un lato si vedeva una lunga fila di porte. Ci
avanzammo; ma fatti pochi passi, ed accortici che la vôlta
mancava, si dovette tornare addietro. Si vedeva di là il
monte Testaccio, i deserti «prati del popolo romano», la
basilica di San Giovanni Lateranense, e la fuga sterminata degli
archi d'un acquedotto a traverso la campagna romana, nuda, triste,
infinita come un oceano immobile e morto....
Si scende, si torna verso l'uscita, di sala in sala, di rovina in
rovina, sempre fra mura gigantesche e grandi porte, per cui si
vedono altre mura e altre porte lontane. A un tratto, voltandoci a
sinistra, vediamo un grande portico oscuro, e uno spazio di terreno
senz'erba, sparso di marmi. Ci avviciniamo: son pezzi di statue. Ci
son teste enormi con la fronte e con gli occhi levati in alto, che
dovevano sorreggere degli architravi; torsi di guerrieri atletici
senza capo; in un canto un mucchio di teste di dèi, di
soldati, d'imperatori, di vergini, tutte mutilate, e col viso
rivolto verso chi guarda; rottami di colonne che tre uomini non
possono abbracciare, e mucchi di figurine e di pezzi d'ornato
staccati dai capitelli, e pietre di mosaico sparse. Tutti questi
marmi lasciati così in terra, e disposti in un cert'ordine,
dànno a quel luogo qualcosa dello aspetto d'un camposanto;
quelle teste paiono crani; al primo vederle si dà un tremito,
come se guardassero. V'è, fra le altre cose, una manina di
donna colle dita tronche e un po' di braccio piccino e gentile,
abbandonata in terra, mezzo nascosta e lontana da tutti gli altri
rottami, che desta un senso di pietà, come se fosse di
carne....
Uscimmo senza parlare. Tale è l'effetto che fanno le terme:
la gente entra, guarda, gira, e nessuno parla; si passano accanto e
non si badano: tutti pensano; si entra allegri, si esce tristi.
Ritornando in città ci parve d'entrare in un mondo nuovo.
Pensavo alla strana impressione che m'aveva fatto fra quelle mura il
suono di certe parole piemontesi e come a Giacomo Leopardi
sull'«ermo colle» sovveniva a me pure
l'eterno
e le morte stagioni e la presente
e viva e il suon di lei...;
la quale un giorno sarebbe parsa ad altri altrettanto remota quanto
pareva a me quella dello splendore delle Terme.
Ahimè! Che poca cosa ci paiono anche i nostri trionfi e le
nostre gioie nazionali davanti a questi cimiteri di secoli!
UN'ADUNANZA POPOLARE NEL COLOSSEO.
Erano le tre dopo mezzogiorno. Il popolo romano si recava al
Campidoglio per eleggere la Giunta provvisoria. Tutte le strade che
conducono al Campo Vaccino erano percorse da folti drappelli di
cittadini con bande musicali e bandiere. Arrivati al Campo, i
drappelli si confusero in tre o quattro lunghissime colonne, e
mossero insieme verso il Colosseo. Andavano a otto a otto, a dieci a
dieci, allineati e stretti come soldati, levando tratto tratto
altissime grida e lunghi applausi.
Le gallerie del Colosseo erano già affollate. Centinaia di
fazzoletti e di bandiere sventolavano fra gli archi altissimi, e
dentro suonava un gridìo continuo e diffuso come il muggito
del mare in tempesta. Si vedeva una colonna dopo l'altra versarsi
nel vasto recinto, e rimpicciolire subitamente come se ne sparisse
per incanto una gran parte. Turbe di popolo, che tenevan tutta la
strada, si vedevano ristringersi e quasi perdersi, come piccoli
drappelli, in un cantuccio dell'arena. Continuamente affluiva
popolo, e la folla dentro non pareva crescere. Una parte della prima
galleria era piena zeppa di gente; ma così lontana,
benchè solo, a mezz'altezza del muro, da non riconoscerne i
visi a occhio nudo. Dalla galleria in giù, su tutti i
gradini, su tutti i macigni, su tutti i rialti del terreno v'era
popolo: donne, bambini, signori, poveri, tutti vestiti a festa, con
nastri tricolori e coccarde. Da una parte dell'arena s'alzava un
palco, e sul palco un pulpito; intorno molte grandi bandiere tenute
in pugno da cittadini. Sul cielo del pulpito un gruppo di pompieri.
Intorno al palco, sul tetto dei tabernacoli e sui macigni della
gradinata, una fitta di gente che presentava allo sguardo una vasta
e continua distesa di visi e di «sì» attaccati ai
cappelli. Davanti al pulpito il grosso della folla. Da ogni parte
braccia alzate di gente che si accennavano gli uni agli altri il
cerchio maestoso dell'anfiteatro; sulle più alte punte dei
muri gente e bandiere. Le bande suonavano, le grida andavano al
cielo, un sereno purissimo e una splendida luce di sole faceano la
festa più bella e più solenne.
Ecco Mattia Montecchi.
Un fragoroso applauso prorompe dalla folla e un lungo e altissimo
evviva.
Il vecchio patriotta romano, accompagnato dagli amici, avvolto e
nascosto quasi dalle bandiere, sale sul pulpito a capo scoperto, e
preso appena fiato comincia con voce commossa:
- Popolo romano, rivendicato alla libertà e restituito per
sempre alla comune patria....
S'interrompe un istante, e poi con irresistibile slancio.
-....Io ti saluto!
L'ultima sua parola muore in un singhiozzo; egli si copre gli occhi
col fazzoletto e ricade sulla seggiola.
La folla manda un grido d'entusiasmo, tendendo le braccia e agitando
le bandiere.
- Silenzio! Silenzio!
Il Montecchi ricomincia a parlare, a voce bassa, interrompendosi
tratto tratto. La folla, ondeggiando e rimescolandosi, si stringe
intorno al pulpito. Le parole dell'oratore non giungono fino a me.
Mi faccio innanzi per intendere qualcosa.
-....Il potere temporale del Papa, - egli esclama, - è
caduto!
Un tuono d'applausi.
- È caduto nella polvere! - grida una voce tra la folla, e un
braccio convulso si solleva, e si agita, al disopra delle teste.
- È caduto per sempre! - ripete il Montecchi.
- Nella polvere! - ripete con accento imperioso la voce di prima.
- Silenzio! Silenzio!
- La caduta del potere temporale dei papi, - prosegue il Montecchi,
- è uno dei più grandi fatti registrati dalla storia!
Un giovane accanto a me alza una mano e grida con tutta la forza dei
suoi polmoni: - Dalla storia della civiltà!
Il Montecchi si volta e guarda come per chiedere che cosa fu detto,
e soggiunge: - Uno dei più grandi fatti registrati dalla
storia.
- Della civiltà! - ripete il giovane.
- Della civiltà, - aggiunge il Montecchi in atto di
condiscendenza. - Ora tocca a noi di mostrarci degni della nostra
fortuna. Roma non può restare, nemmeno per pochi giorni,
senza governo....
- Viva l'Italia!
-....I nostri nemici potrebbero trarne argomento a dire che il
popolo romano non è ancora maturo alla libertà....
- Viva la libertà! Abbasso i nemici di Roma! Viva Vittorio
Emanuele in Campidoglio!
- Viva! Ma prego.... lasciatemi continuare.
- Viva Montecchi!
- Vi ringrazio.... fate un po' di silenzio.... Bisognava eleggere
una Giunta.... Noi avremmo voluto che il popolo facesse l'elezione
in modo regolare, per mezzo delle schede, coi voti.... Ma non c'era
più tempo.... Abbiamo dunque pensato di rivolgerci
direttamente al popolo romano....
- Bravo! Viva!
-....Al popolo romano, e di facilitargli l'opera preparando un
elenco di cittadini appartenenti a tutte le classi della
società e a tutti i partiti politici....
- Benissimo! - Viva Montecchi! - Viva Roma! - Viva....
- Un momento.... Ora, vedete anche voi che sarebbe impossibile
aprire una discussione sopra ciascuno dei nomi, che sono
quarantaquattro, Bisognerà dunque ristringersi ad approvare o
disapprovare l'elenco nel suo complesso. Ci sarà qualche nome
che ad alcuni non piacerà; ma capirete che non è
possibile fare un elenco di quaranta persone che riescano a tutti
ugualmente accette. Ad ogni modo qualche nome si potrà
cambiare. Terminata la lettura, io darò la parola a uno di
voi, il quale esponga il suo parere, e dica le ragioni che
può aver da dire, in generale, contro le proposte della
Commissione che raccolse i nomi. Dopo che quest'uno avrà
parlato, state bene attenti....
- Viva Vittorio Emanue.... - grida all'improvviso una voce acuta.
- Silenzio! Smetti! Non è il momento! - si mormora da ogni
parte.
- Guardalo lì quello che non vuole che si dica Viva il Re! -
grida l'interruttore importuno ad uno dei suoi censori.
- Ma chi ti dice ch'io non voglio che si grida viva il Re? Dico che
non è il momento.
- Già, non è il momento adesso che ci ha liberati!
- Ma senti che bestia!
- Ma guarda....
- Silenzio, - grida il Montecchi; - accordatemi ancora qualche
minuto di attenzione. Sentite. Dopo che uno di voi avrà
parlato, io metterò a' voti l'elenco, nella sua
totalità, s'intende; e allora, ricordatevene bene, chi
intenderà di approvarlo leverà in alto il cappello....
Tre o quattrocento persone si scoprono il capo.
- No! non ancora! - grida il Montecchi; - ve lo leverete poi; come
volete approvare l'elenco se non v'ho ancora letto i nomi?
Risa generali; caldi diverbi fra coloro che si tolsero il cappello e
coloro che risero; bisbiglio prolungato.
Il Montecchi: - Vi prego.... un po' di silenzio.... pochi momenti
ancora.... Chi intenderà di approvare l'elenco alzerà
il cappello, chi non vorrà approvarlo terrà il
cappello in capo. Se ci sarà qualche nome da cambiare, quello
di voi che verrà qui a parlare lo dirà, e i nomi
saranno cambiati. Ma mi raccomando; lasciate leggere tutti i nomi di
seguito senza interrompere. Parlerete dopo. Vedete, è l'unica
maniera di far presto e bene. Se, per leggieri dissensi su questo o
su quel nome, dovessimo restare un altro giorno ancora senza
governo, forniremmo pretesto ai nostri nemici di calunniare il
popolo di Roma.
Vivi applausi. - Viva la Giunta! Viva Montecchi! Viva Vittorio
Emanuele in Campidoglio!
- Viva!... Ora vi prego per l'ultima volta.... un po' di silenzio.
Uno di quei che sono intorno al pulpito alza tanto la bandiera che
quasi la dà negli occhi al Montecchi.
- Tien giù quella bandiera! - gli grida il vicino.
- Ma è la bandiera nazionale, sai! - risponde l'altro
sdegnato.
- Vedo; ma perchè è la bandiera nazionale devi cavar
gli occhi alla gente?
- Guarda il prete!
- A me prete?
- Silenzio, - si grida all'intorno.
- Leggerò i nomi, - ripiglia il Montecchi; - state attenti;
ma ve ne riprego, non m'interrompete, se no si va troppo per le
lunghe; abbiate un po' di pazienza....
- Legga! Legga pure!
Si fa in tutta la folla un silenzio profondo.
Il Montecchi legge: - Tale dei tali.
Passa senza contrasto; un momentaneo bisbiglio e silenzio.
- Tale dei tali.
Vivi applausi; il popolo è ben disposto, l'affare va bene.
- Tale dei tali.
Uno scoppio d'urli e di fischi, un agitar di mani, un pestar di
piedi, un rimescolamento, un fracasso d'inferno si leva e si
prolunga per cinque minuti da ogni parte dell'affollato uditorio. Il
Montecchi incrocia le braccia sul petto e sta aspettando in atto
rassegnato e dimesso che la tempesta si queti.
Finalmente alza una mano.
- Silenzio! Silenzio! - si grida dalla folla.
- Signori!... - comincia il Montecchi con un filo di voce; - vi
prego; le cose sono andate così bene finora, continuiamo come
abbiamo cominciato, non discutiamo i nomi, non perdiamo tempo,
parlerà uno per tutti, tutti insieme non si conclude nulla,
lasciatemi leggere tutto l'elenco, abbiate un po' di pazienza
ancora....
- Bravo! Bene! Legga! Legga! Non si discute! Silenzio! Legga!
Lasciatelo leggere!
Il Montecchi legge: - Tale dei tali.
Un altro e più violento scoppio di grida e fischi e pestar di
piedi e agitare di mani. E di nuovo il Montecchi incrocia le braccia
in atto di rassegnazione.
- Abbasso! Abbasso! - grida la folla.
- No, viva! viva! - alcuni rispondono.
- Chi viva? Abbasso! Chi sono quei paolotti laggiù? Fuori!
È passato il tempo! Abbasso! Abbasso!
Il Montecchi: - Prego....
- Abbasso i mercanti di campagna!
Il Montecchi, con voce semispenta:
- Prego, non discutano i nomi....
- Non si discute! Non si discute! «Se dice per di' che so'
mercanti de campagna!»
Scoppio d'applausi.
- Non discutano, prego....
- «Hanno fatto massacrare il popolo romano!»
Applausi fragorosi.
-....Ma prego....
- «Nun li volemo!»
-....Un po' di silenzio....
- «Nun li volemo!»
Cento voci assieme: - Parliamo uno alla volta, perdio!
Il fracasso è assordante, la folla agitatissima; alcuni
apostrofano con calde parole il Montecchi, altri apostrofano la
folla dalle gallerie, si sventolano le bandiere, si formano dei
capannelli, si batton le mani, si strepita, è un casa del
diavolo infinito.
A poco a poco ritorna la quiete. Il Montecchi continua a leggere. Il
primo nome passa. Il terzo è accolto da lunghi applausi. Otto
o dieci altri non incontrano opposizione. Qualcheduno solleva un po'
di mormorio.... Sia lodato il cielo, l'elenco è finito!
Si applaude.
Il Montecchi ricade sulla sua seggiola e si asciuga la fronte.
Allo strepito succede nella folla un vivissimo bisbiglio.
- Ora chi parla? - Chi vuol parlare? - Parla tu. - Il tale ha detto
che parlerà. - No, parla quell'altro. - Parliamo noi. -
Parlino loro. - Zitti! Parlano.
A piedi del pulpito, poco al disopra della folla, si alza una testa
e si stende una mano.
- Silenzio! Silenzio!
Si fa un grande silenzio e si ode una voce incerta e sottile:
- Io piglio la parola in un momento solenne....
Un rumore improvviso da una parte dell'anfiteatro copre la voce
dell'oratore.
-....Io piglio la parola in un momento solenne....
Un tale accanto al pulpito lo interrompe; l'oratore si volta
bruscamente: - In nome di chi parla lei? In nome del deputato
Checchetelli?
Segue un diverbio, il Montecchi si intromette, l'oratore ricomincia
a parlare.
- Forte! Forte! - grida la folla.
- Salga su! - gridano i membri della Commissione. - Venga qui sul
pulpito! Si farà sentir meglio!
E tutti insieme pigliano l'oratore per le braccia e lo tirano su.
Tutta la persona di lui sovrasta alla folla. È un giovane sui
venticinque anni, alto, pallido. Ha il capo fasciato. È stato
ferito dagli zuavi salendo in Campidoglio. La folla prorompe in
applausi.
- Silenzio!
Egli parla.
Sulle prime non si sente; ma la sua voce man mano si innalza e si
rafforza, e la parola esce vibrata e distinta.
-....Ben fecero gli egregi uomini della Commissione a radunarsi in
questo antico ed angusto recinto. Essi dimostrarono con ciò
che d'ora innanzi gl'interessi del popolo non saranno più
abbandonati agl'intrighi delle consorterie, ma discussi e propugnati
alla luce del sole, in mezzo al popolo e col popolo!
Scoppio di battimani.
- Non si scherza, - bisbiglia il popolo. - Le canta chiare. - Non ha
paura di nessuno.
L'oratore prosegue: -....In questo recinto che il tempo corrose, ma
non distrusse; fra queste mura annerite dai secoli....
Violente interruzioni: - Alla questione!
L'oratore, levando al cielo lo sguardo e la mano: - Io veggo gli
archi del Colosseo popolarsi di arcani fantasmi....
Nuovo e più violento scoppio di disapprovazione e di
protesta: - Alla questione! - «Non volemo» prediche! -
Le prediche «so'» finite! - Non abbiamo bisogno di
lezione!
L'oratore continua a parlare; ma la sua voce è soffocata
dallo strepito della moltitudine.
Una voce stentorea si alza al disopra di tutte le voci e fa voltare
tutte le facce:
- La cosa è chiara! L'elenco «nun ce» piace!
«Nun volemo» liberali del momento, «nun
volemo» liberali d'occasione....
Applausi tonanti.
- «Volemo» gente provata, patriotti schietti, che
«ce se veda chiaro» nella vita loro!
Un'esplosione d'applausi.
E la voce di prima, con nuovo e formidabile sforzo: - «Nun
volemo mercanti de campagna!»
Terza salva d'applausi.
- Va' a parlar tu! - Va' sul pulpito! - Fa' valere le nostre
ragioni! Va'! - Presto! - Su!
Il fortunato interruttore, sollecitato e spinto da tutte le parti,
chiamato dal Montecchi, eccitato dalle grida della gente lontana, si
apre un varco tra la folla e si slancia verso la tribuna. Sbalzato
da un suo spintone cinque o sei passi indietro, mi trovo in una
corrente che move verso l'uscita, mi ci abbandono, e in pochi
minuti, pesto, sudante e spossato, mi trovo fuori del Colosseo.
Ecco tutto quello ch'io vidi.
Stetti un momento là incerto tra il tornar dentro e
l'andarmene, e poi presi un partito fra i due: salii sur un rialto
del terreno accanto all'arco di Costantino, e come soleva dirmi il
mio amico Arbib, «mi misi a fare della poesia inutile»,
guardando il Colosseo. - Le solite grida, - pensavo, - la solita
confusione, la commedia solita delle radunanze popolari; ma che
importa quello che vi si faccia e quello che vi si concluda? Sono
grida di libertà, e basta perchè, a sentirle di qui e
a sentirle uscire dal Colosseo, mi destino nell'anima una gioia
nuova, ineffabile, superiore a tutte le gioie che mi sian mai venute
finora dall'amor di patria. - Viva l'Italia - viva la libertà
- viva Roma redenta -....nel Colosseo! In questo campo! In mezzo a
questi archi!
E giravo l'occhio intorno come per assicurarmi del luogo dov'ero.
-....Il Bonghi dice che qui ci sentiremo piccoli. Perchè?
Piccolo si sentirà chi si vorrà misurare con chi fu
grande. Noi qui non veniamo a misurarci; ma ad ispirarci, ad
attingere forza e coraggio, a meditare e ad ammirare. Il Colosseo! -
ho inteso dire; - che vi potrà dire il Colosseo? Vi
narrerà le glorie dei gladiatori e i supplizi dei cristiani?
Ed io vi rispondo: - Sì....
In quel punto uscì dall'anfiteatro un altissimo evviva e un
allegro suono di banda.
- Sì.... ecco che cosa mi dice il Colosseo. Mi dice che dove
gli uomini schiavi si sgozzavano per ricreare un tiranno, ora
convengono i cittadini a salutare l'aurora d'una vita nuova; mi dice
che dove perirono sotto le scuri o in mezzo alle fiamme gli apostoli
della libertà e dell'uguaglianza, ora convengono cittadini
liberi ed eguali a esercitare i loro diritti e a compiere i loro
doveri, coll'anima lieta e serena; e questo vi par poco? E vi par
che si possa dire che il Colosseo è muto?
Un altro scoppio di grida misto a suono di trombe mi giunse
all'orecchio.
E poi una voce distinta: - Viva la libertà!
- Ah! - esclamai, rivolto al Colosseo, come se mi potesse intendere;
- consolati, vecchio gigante; così monco e sfracellato come
ti trovi, tu non fosti mai tanto bello nè tanto grande ai
tempi degl'Imperatori!
UNA MATTINATA ALL'ALBERGO.
Non so se sia stato più vivo il piacere che provai entrando
in Roma il 20 settembre, o quello che ebbi la mattina dopo,
svegliandomi nella cameretta dell'albergo, appena rinvenni
dall'illusione solita di credermi ancora dove avevo dormito la notte
prima. Appena aperti gli occhi, il mio primo pensiero fu quello che
m'era venuto a Monterotondo la mattina del 20: - Dunque quest'oggi
«s'attacca!» - E stetti un momento perplesso. A un
tratto mi parve di sentirmi nell'orecchio una potentissima voce: -
Roma! - e mi scossi da capo a piedi, e balzai d'un salto alla
finestra. Apersi le imposte, e visto appena le bandiere e udito le
grida del popolo, m'entrò nel cuore tanta gioia che mi diedi
a ridere come un pazzo. Poi chiamai il cameriere, senza sapere
perchè. Venne subito, allegro anche lui ch'era un piacere.
- Che mi comanda?
- È un romano, - dissi tra me, guardandolo; - un romano
cameriere! Mi fa pena; avrà forse un lontanissimo antenato
console, senatore, pontefice massimo....
- Come vi chiamate di nome di battesimo?
- Caio.
-....Caio Flaminio, - pensai, - Caio Gracco, Caio Sicinio, Caio
Curzio....
- Qual'è il vostro cognome?
- Tittoni
- Caio Tittonio, andatemi a chiamare un barbiere.
- Vado subito.
- Un barbiere romano.
- Guardi che caso! Il barbiere dell'albergo è lombardo. - Non
lo voglio; andate a cercarmi un barbiere «romano de
Roma»; fate anche mezzo miglio, se occorre, vi
ricompenserò della corsa; ma portatemi un barbiere romano.
- Sarà servito.
E se n'andò ridendo.
Non era senza perchè la mia pretensione: volevo scrutare lo
spirito politico delle classi inferiori, e tutti sanno che quando
s'è parlato con un barbiere si può contare d'aver
parlato con mezzo mondo.
Il barbiere venne. Era un barbiere dello stampo dei nostri: un
vecchietto azzimato, pulito, gaio, con le mani fredde e i rasoi
cattivi.
Mentre cominciava l'operazione, io studiavo la maniera d'entrare in
discorso.
Egli mi prevenne domandandomi con molta gentilezza:
- Il signore è emigrato?
- No.
- Italiano?
- Sì.
- Giornalista?
Diedi un balzo sulla seggiola e mi voltai a guardarlo negli occhi.
Come mai poteva già sapere che insieme con l'esercito s'erano
rovesciate su Roma le cavallette della stampa?
- Non sono giornalista.
- Dicevo, sa.... perchè ho visto il tavolino coperto di
giornali e di carte.... Che gliene pare di Roma?
- È superba.
Fece un risolino modesto.
-....Noia, c'è male.... E poi, ora, è tutt'altra vita
che «ce se vive»!
- Siete contento del cambiamento?
- Se sono contento? «Me pare da diventà matto, me
pare». L'Italia una, per Dio.... Ora speriamo che
«ce» sarà fatta giustìzia.
- Di che?
- Eh signore, «ce so» molte cose da mettere a posto a
Roma.
- Me lo immagino....
-....Prima di tutto, sa che cosa dovrebbe fare Sua Maestà il
re Vittorio Emanuele Secondo, appena entrato in Roma?
- Desidero di saperlo.
- Dovrebbe.... - e qui stese un braccio e alzò la voce, -
dovrebbe mettere a posto «li macellari», dovrebbe; che
«so na razza de cani», glielo dico io, e fanno pagare
tutto il doppio, e «so» screanzati che «nemmanco
se ponno guardare in der grugnaccio, se ponno», capisce?
- Oh cospetto! È proprio questa la prima cosa che deve fare
il re?
- Questa.... e un'altra. Fare una legge con la quale dica che d'ora
in avanti è fatta facoltà «a li barbieri
de» metter la bottega dove «je» pare, senza quella
«prepotenza» che c'è adesso che le botteghe
debbono essere a quella data distanza l'una dall'altra. Per cagion
di questo, vede, a me m'è toccato di fare «er
giovanaccio de bottega» cinqu'anni di più, chè
il locale vicino ce l'avevo, e li baiocchi pure, ma la bottega non
la potevo mettere per via di quella legge «'nfame».
Accidenti ai governi dispotici e viva Vittorio Emanuele! Quant'ho
benedetto sto giorno io!... E poi un'altra cosa.
- Dite.
Qui abbassò la voce e mi disse nell'orecchio:
- Dei barbieri che tengono dal Papa, qui, in Roma, ce n'è la
su' parte, glielo assicuro io.
- Ebbene?
- Accopparli.
- Siete severo.
- Sì, accopparli, senza misericordia «co' sta razza de
cani»; se no «er» governo italiano se ne
accorgerà, stia pur sicuro.
- Speriamo che faranno la barba con la dovuta prudenza.
- Non ci speri; bisogna far man bassa.
- E altro?
- Altro.... ci son tante cose; ma dica un po', «ce»
porteranno delle buone leggi, «se» spera?
- Meglio di quelle che avevate, lo crederei.
- Bene; e dica.... Sento che «ci» hanno una grande
severità pei ladri, è vero?
Accennai di sì, voltandomi a guardarlo.
- È giusto.... Poi c'è la leva militare.... Eh
già.... quella alle donne «sarà un po' difficile
de fajela entra'».
- Lo penso anch'io.
- «Gran disciplina co' sti soldati eh»?
- Quanta n'occorre, certamente. Avrete però osservato che gli
ufficiali hanno buone maniere e che i soldati son buoni ragazzi.
- Già.... e scusi, sa, se son curioso.... si parlava giusto
ieri sera.... che cos'è la «ricchezza mobile»?
- La ricchezza mobile?
- Già.
-....Provate l'altro rasoio, questo mi fa male.
- Quest'altro «je» va?
- Questo mi va.... Avete visto la luminaria di ieri sera?
- La luminaria, sì.... ma che «ce» porteranno
tutte «ste imposte che se dice»?
- Eh già, le imposte, vedete.... in Italia.... relativamente
a quello che potrebbero essere, tenuto anche conto delle condizioni
agricole e industriali del paese, e considerata la proporzione delle
forze produttive in relazione con le esigenze, dirò
così, che sono molte e gravi, d'una grande
amministrazione.... Capirete che la finanza è finanza, i
bisogni, bisogni, i doveri, doveri, e per quanto si faccia e dica
dai contribuenti, è pur sempre certo che i carichi dei
cittadini sono in certo qual modo, e fino ad un certo punto,
regolati sui principii d'un sistema economico senza del quale
s'è sempre visto che gli Stati non si reggono e tutte le
proprietà pubbliche e private ne vengono a soffrire
gravemente....
- È chiaro.
- Lo capite anche voi.
- Diavolo!
- Picchiano: fatemi il favore d'aprire. Entrò il calzolaio:
un gobbetto coi capelli grigi e il naso a becco.
- Scusate, - dissi al barbiere, - non posso rimandarlo indietro;
bisogna ch'io mi misuri un paio di stivaletti; mi spiccio in un
momento.
- Faccia pure.
Gli stivaletti andavano.
- Quanto volete? - domandai.
- Diciotto lire.
-....Son carini.
- Non è vero? Paiono fatti apposta per il suo piede.
- Eh no, voglio dire che sono un po' salati. A Firenze li pago
sedici.
-....A Firenze è un altro par di maniche, caro signore; qui
si paga tutto più caro. Ma io non sto sul tirato. A lei
ch'è italiano glieli do per diciassette.
Il barbiere fu preso da un accesso di tosse.
- Ohè, dico! - gridò il calzolaio fissandolo
fieramente; - che ci avete da fare delle osservazioni voi?
- «Gnente, gnente»; dicevo che l'Italia è un bel
paese.
- E io vi dico che v'impicciate negli affari vostri, che
già.... noi altri.... «armanco».... agl'italiani
la gola «nun je la tajamo».
- E «manco» noi «nun je stroppiamo li
piedi». - Potrest'essere più educato, «me
pare».
- Più educato? - (accendendosi).... Io già, se ve l'ho
a dire chiara e netta, la corte agli zuavi non glie l'ho mai fatta.
- E io neppure!
- Resta a sapersi!
- Come resta a sapersi?
- «Se conoscemo».
- Sicuro che «se conoscemo».
- «Er regno» dei preti è finito.
- Me ne rallegro.
- Non «de» core.
- Più «de» voi.
- Ci ho i miei dubbi.
- Via, via, - dissi, mettendomi in mezzo, - lasciamo queste
quistioni; non son giorni questi da bisticciarsi fra amici; bisogna
andar tutti d'accordo, e gli uni dimenticare i torti degli altri, se
ce ne sono. Stringetevi la mano subito, in presenza mia, o non do il
becco d'un quattrino a nessun dei due.
Si porsero la mano, ma senza toccarsela.
- Animo, stringetevela, - dissi.
- Lui ha da dir prima viva l'Italia! - disse il barbiere.
- E io «nu je vojo dà» questa soddisfazione, -
risponde l'altro.
- Animo, ditelo per far piacere a me.
- Viva.... l'Italia.
Si strinsero la mano.
Ma il calzolaio subito con un rincalzo di passione: - E io lo
«so» stato sempre italiano, capite!
- Sì, sì, lo credo, - gli dissi, - vi si vede in viso,
eccovi i denari, andatevene pure.
- E io non glie l'ho fatta mai la corte agli zuavi, sapete, non glie
l'ho fatta mai.
- Andate, andate.
- E non è questa la maniera «de» screditar la
gente....
- Via....
- E «se» rivedremo....
- Chetatevi, ve ne prego, vien gente....
Entrò la stiratora, una donnicciuola sui cinquant'anni, con
un'aria di vittima, col cappellino e lo scialle messi per traverso:
il calzolaio si fermò sull'uscio.
- È lei, signore, - mi domandò la donna con voce
tremante, - che mi ha da dar della biancheria?
- Io; ma bisogna che me la riportiate domani.
- Si farà.... quello.... che.... si.... potrà.
- Che cos'avete?
La stiratora scoppiò in pianto.
- Che v'è accaduto? - domandai, avvicinandomele.
- Ah! signore.... mio fratello e mio cognato....
- Son morti?
- No.... sono impiegati alla Revisione.
- Ebbene?
-....Li mandano via.
- Chi?
- Gl'Italiani.
- Ma, che! Rimarranno nel loro impiego, statene sicura; il governo
italiano non toglierà il pane a nessuno; datevi pace, buona
donna.
- Ah! no.... no.... è inutile.... glielo hanno già
detto....
E un altro scoppio di pianto.
- L'avranno voluto loro, - esce a dire il calzolaio, - e se lo son
meritati.
- Che cosa? - domanda sdegnosamente la donna, sollevando il viso
bagnato di lacrime.
- «Ah! credete che nun se sappia er perchè? Ci avemo er
nostro giuramento (giungendo le mani e modulando la voce); no se
pole, ci avemo er nostro giuramento de mantenecce fedeli ar
Papa»!
- Non è vero!
- Andiamo via, chè «so» i soliti mezzi
«de» cercar gl'impieghi....
- «Eh, stateve zitto», - gli ribatte il barbiere, -
«nun me» state a far tanto l'italiano «co'
sta» povera donna, che tanto ve se vede sotto la coda!
- A chi?
- A voi!
- Ve do questa scarpa sulla faccia!
- Finitela, via.
- E io «ve faccio attastà sto» rasoio.
- Fuori di casa tutti quanti!
- Ma dica lei che è emigrato....
- Non sono emigrato.
- Senta lei che è giornalista....
- Non sono giornalista; lasciatemi stare, uscite subito tutti di
qui, sono stanco dei vostri piati, andate a gridar in piazza e non
mi seccate più in casa mia!
Ciò dicendo li spingo l'un dopo l'altro verso l'uscio, ed
escono vociando tutti insieme fin giù per le scale.
- «Er regno de preti è finito»! - Non è la
maniera «de» metter la gente in mala vista dei
forestieri! - Non è vero.... il giuramento.... si resta senza
pane.... - È finito! - Ci rivedremo! - Giù le code! -
Non è vero!
- Andate! Andate, che il diavolo vi porti!
E chiusa in furia la porta mi gettai sul seggiolone esclamando: -
Pace! Pace,
/# O esacerbati spiriti fraterni! #/
Ah, buon Dio! Anche il 20 Settembre, visto dietro le quinte....
RICORDI DELLE CATACOMBE
(Venticinque anni dopo).
Ci andava innanzi lentamente, portando un cerino acceso e
strascicando i sandali, un piccolo frate tarchiato, che in alcuni
punti teneva quasi con le spalle tutta la larghezza del corridoio, e
ci copriva con la sua ombra.
È violenta e triste la prima impressione che si risente
discendendo dalla grande Roma piena di luce e di vita in quel freddo
cimitero sotterraneo, dove sulla morte è anche ora passata la
devastazione, e dove si vedon congiunti tutti i più tetri
aspetti d'una cava, d'una grotta e d'una carcere. E si va innanzi a
malincuore, nell'odore umido della terra, diffidando del suolo
ineguale, e pensando con inquietudine che, se il frate sparisse, si
perderebbe la lena alla corsa, e forse il lume della ragione, prima
di ritrovare l'uscita. Ma, a poco a poco, quel labirinto di anditi
angusti, quelle fughe di buche sepolcrali nereggianti nelle pareti
come grandi bocche semiaperte, quei piccoli vani per gli uffizi del
culto, dove i fedeli stavan raggruppati e stretti, come quando
aspettavan nei circhi l'irruzione delle belve, attirano e soggiogano
tutti i vostri pensieri. Se vi resta ancora un pensiero profano,
cede anche questo alla vista della prima ampolla incastrata nel
tufo, nella quale siete spinti a cercare le tracce del sangue che vi
fu racchiuso, e quasi un ultimo fremito della vita che fuggì
con esso dalle vene del martire, o svanisce alla prima lettura di
una di quelle iscrizioni semplici e rozze: «Pax tecum»,
con accanto un nome di battesimo, che non vi par di leggere, ma
d'udir profferire intorno a voi dalla voce sommessa di chi ha amato
e sepolto chi lo portava. Il frate si soffermava a quando a quando
per rischiarare la cripta di una famiglia, di cui è scomparso
ogni avanzo, o nomi di pellegrini d'altri secoli incisi nelle
pietre, o una grata sottile, dietro la quale, fra poche ossa
biancheggianti, ci fissavano due occhiaie profonde, con quello
sguardo immobile da mille e ottocento anni, che par che aspetti con
fede invincibile l'adempimento d'una promessa. Ma più che
altro ci arrestavamo a quelle buche mortuarie dei bambini,
così strette, da parere che neanche un piccolo cadavere
potesse entrarvi, se non spinto dentro a forza come un corpo ancora
vivente e ribelle alla sepoltura. Ah, lì pure sono i bambini
quelli che vi prendono al cuore, quei poveri piccoli cristiani messi
a dormire l'un sull'altro, ammucchiati, quasi schiacciati, oppressi
anche nella morte dalla terra, come eran stati nella vita dal
terrore, e così lontani dalla luce del giorno e dal verde dei
campi, rimpiattati, più che sepolti, come carne maledetta. E
col sorgere della pietà vi cade ogni ribrezzo del luogo: una
curiosità grave e reverente vi spinge innanzi per quel
labirinto tenebroso; voi cercate con gli occhi gli epitaffi e i
sepolcri come se non tutti vi dovessero essere ignoti; sentite a
poco a poco come una stretta del vincolo che v'unisce ai morti che
là riposarono, e il nome che essi ebbero comune con voi vi
risuona nell'animo con un novo suono, dolce e solenne; vi guida
sotto a quelle vôlte, infine, quasi un ricordo lontano di
ricordi lontani, soavi e misteriosi, che vi passan per la mente
affollati, senza forma di parola, come una melodia appena intesa.
Quanto vi par lontana la capitale d'Italia! Ma più lontane di
ogni cosa, quasi monumenti e mostre d'un'altra religione, le superbe
basiliche dorate e le sfarzose carrozze pontificali, che avete visto
poc'anzi, lassù, in quel mondo dove splende il sole.
*
Si discese a un altro piano di gallerie, e si riprese a andare,
nell'ombra del frate. Il lumicino rischiarava di sfuggita anditi
laterali, dove entra a stento una persona, e che svoltano
nell'oscurità a pochi passi dall'imboccatura, altri anditi
riempiti da frane di sabbia, ed altri incominciati a scavare, e
lasciati lì; i quali s'allacciano forse a una rete di
sotterranei più vasta. Si passa sotto a vôlte che vi
fanno curvare la fronte; si discende per brevi tratti, come verso
l'orlo d'un precipizio; poi si risale lentamente, si torna a
discendere, si svolta e si risvolta, e par di tornare sui proprii
passi e di riconoscere crocicchi, cubiculi, sfondi già visti;
quando in realtà si procede. A volte, il suono dei vostri
passi v'illude: vi par di sentir camminare altra gente davanti e
dietro di voi, dei passi che s'avvicinano e s'allontanano, nei
corridoi accanto, al piano di sopra, al piano di sotto, come di
gente sorpresa che si sparpagli da tutte le parti, in punta di
piedi. In altri momenti, quando il frate svolta un breve tratto
prima di voi e rimane per poco invisibile, il fruscìo della
sua tonaca e dei suoi sandali non vi par più il suo; suona
come se invece d'andar oltre, si riavvicinasse, e vi balena alla
fantasia un incontro miracoloso, l'apparizione di uno spettro di
quella necropoli che v'aspetti alla svoltata, immobile e muto, e vi
chiude il passo come a un miscredente sacrilego. E allora continuate
a sognare, e vedete passar vagamente, lungo le pareti nere, al
chiarore danzante della fiammella, uomini pallidi e austeri, capi
curvati, visi estatici, occhi accesi di pianto e di speranza, che si
fissano nei vostri con un'espressione di bontà ineffabile,
gruppi furtivi di gente povera e umile, una confusione silenziosa di
fanciulle, di vecchi, di servi, di gladiatori, di coloni, di
patrizi, che vanno a passo lento, con le lampade d'argilla a la
mano, e dileguano per gli ambulacri, come ombre; e pei lunghi anditi
vi giungono all'orecchio salmodie di una dolcezza infinita, e dalle
porte dei cubiculi singhiozzi di madri che adagian nella fossa i
corpicini, dicendo con accento di sovrumana certezza: - Ti
rivedrò! Aspettami in pace, figlio mio! - e sentite alle
spalle i passi gravi e gli aneliti dei fedeli che portano i corpi
lacerati dalle fiere, stillanti di sangue. Come dovevano amarsi! E
come dovevano amare il loro Dio vilipeso, beffato, effigiato sui
muri con un capo animalesco, pendente da un patibolo infame, quelli
che davan la carne al fuoco e ai flagelli piuttosto di dire che non
l'amavano! E intorno alle immagini loro si dilata e si rischiara al
vostro pensiero quel labirinto funereo che vide tanti addii supremi,
tanta rassegnazione, tanto dolore, tanto coraggio; sentite nella
stessa riverenza amorosa, che la memoria di quei morti v'ispira,
d'esser loro eredi e loro figli; ma con un senso acuto di rammarico,
- col rammarico di non poter dare al servigio della vostra fede il
santo amore della povertà e l'eroico disprezzo della vita con
cui essi professarono la propria. L'immaginazione, frattanto, vi fa
un singolare inganno in quel pellegrinaggio: il vostro pensiero, di
là sotto, non risale già alla Roma attuale; quella che
sentite sul vostro capo è l'antica; sentite e pensate come
se, risalendo all'aria aperta, vi doveste ritrovare fra gli
splendori e gli orrori del regno dei Cesari; e quando vi s'affaccia
improvvisa l'immagine dell'aula di Montecitorio, che avete fissato
di visitar tra un'ora coi vostri compagni di viaggio, vi produce un
senso così vivo di stupore, che del vostro stupore medesimo
rimanete maravigliati, come d'un caso non mai provato di
«doppia coscienza».
Si discende ancora a un altro piano, e da questo a un altro, in
un'aria che vi par sempre più fredda, in un buio che vi par
sempre più denso, in un nuovo labirinto di gallerie
strettissime, che discendono e risalgono, e s'aprono in bivii e in
crocicchi, e s'allargano in ambulacri e in oratori, fiancheggiate di
loculi, di bisomi, di cripte, dove al raggio del lumicino vi
appaiono altre ampolle di sangue, altri nomi di morbi, altri ossami
ammucchiati, e altri occhi di teschi che vi fissano, con quello
sguardo profondo che domanda ed aspetta. In alcuni punti i corridoi
si restringono, le vôlte s'abbassano, tutti i vani
s'impiccoliscono, e par che la terra stia per chiudersi su di voi da
ogni parte e seppellirvi vivente; e allora vi prende un senso
d'oppressione, e quasi un brivido di sgomento al pensiero di tutta
quella solitudine oscura, di tutti quei cimiteri che vaneggiano l'un
sull'altro al disopra del vostro capo, di tutti quegli anditi
intricati, di tutte quelle fughe di sepolcri, di tutte quelle ombre
informi che avete visto allungarsi sulle pareti, di tutti quei passi
misteriosi che v'è parso d'udire, di tutte quelle occhiaie
vuote che v'hanno guardato. Ma basta anche allora il nome di una
fanciulla sconosciuta, con una rozza palma disegnata accanto, e
quella semplice aggiunta: - Martire - scolpita a caratteri ineguali
nel sasso, a rimettervi nello stato d'animo di poco prima, a
ridestarvi tutto quanto di più dolce e di più luminoso
avete sentito e sognato nei giorni più puri della
fanciullezza davanti alla immagine grande e candida di Cristo. La
vostra mente trascorre da quella in cui v'aggirate alle altre
necropoli, - alle altre quaranta già dissepolte, - a quelle
innumerevoli non ancora esplorate, - spazia per tutta la distesa e a
tutte le profondità della enorme città sotterranea che
ospitò milioni di morti e abbracciò la cinta di Roma,
e sentite la potenza prodigiosa del soffio che di là sotto ha
sollevato il mondo, e vi conforta un nuovo e grande pensiero. -
Sì, v'è ancora nel mondo un amore immenso e una
immensa speranza, nata da quella che raggiò nelle catacombe;
la forza maravigliosa che si sprigionò da queste tenebre non
è morta negli uomini: essa è solamente sparsa, o
inconscia di sè, o compressa; ma si raccoglierà, e
saprà, e si espanderà vittoriosa un'altra volta sulla
faccia della terra, e rovescierà altri idoli bugiardi, e
spezzerà altre catene scellerate, e innalzerà essa
pure dei monumenti che sfideranno i secoli, e inneggierà ai
suoi martiri nelle lingue di tutti i popoli, e celebrerà le
sue vittorie con le feste più poetiche e più solenni
che possa concepire la mente umana. Sì, la storia ricomincia,
e gli anatemi ai nuovi credenti lo annunziano, perchè non son
che un'eco affievolita e paurosa degli oltraggi antichi.
«Exitiabilis superstitio rursus erumpit».
Questo pensavo, quando un soffio di aria viva mi percosse in viso,
il lumicino del frate si spense e sfolgorò il sole....
FINE.
INDICE.
SPERANZE E GLORIE.
PREFAZIONE
Per una distribuzione di premi
Per l'inaugurazione di un circolo universitario
Per la questione sociale
Per il 1.° Maggio
Per Giuseppe Garibaldi
Per Gustavo Modena
Per Felice Cavallotti
LE TRE CAPITALI.
AVVERTENZA
TORINO
FIRENZE
ROMA
L'entrata dell'Esercito italiano in Roma
La cupola di San Pietro
Preti e frati
Le terme di Caracalla
Un'adunanza popolare nel Colosseo
Una mattinata all'albergo
Ricordi delle Catacombe