De Amicis turista tra arte e tulipani nel cuore d' Olanda

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Passeggiare per le strade di Lisbona in compagnia di Pessoa, affrontare il Giano bifronte di Istanbul guidati da Pamuk, ripercorrere la Mancia aiutandosi con il Chisciotte e con l' occhio cinematografico dell' Almodovar de La mala educacion: il turista interessato a penetrare un po' più a fondo i luoghi che via via intende visitare non potrà che accogliere positivamente i suggerimenti offerti da Andrea Battaglini nel suo Strade d' autore (Touring Club Italiano), una «guida illustrata con 40 itinerari a tema in 21 paesi», concepita seguendo le «tracce dei più grandi poeti, scrittori, registi e pittori».

Prendiamo, ad esempio, l' Olanda. Non v' è dubbio alcuno che chi voglia afferrare il sentimento di cosiness tanto radicato in quel paese troverà il miglior viatico nei quadri di Vermeer; così come, chi vorrà fissare nella propria retina la speciale luce di Amsterdam, dovrà ricorrere infinite volte alla magia delle tele di Rembrandt. Ovviamente ha ragione Battaglini: l' uno e l' altro sono anfitrioni unici, insostituibili. Sono gli inarrivabili custodi di uno specifico genius loci, individuabile a tutt' oggi a dispetto delle immense trasformazioni intervenute tanto nel paesaggio geografico quanto in quello antropologico. Ma il gioco del compagno di viaggio ideale, volendo, potrebbe spingersi oltre. E memore del detto siciliano «sguardo da straniero, sguardo da sparviero», il turista curioso e intelligente potrebbe cercare ulteriori sostegni per le sue peregrinazioni in territori sconosciuti. Facendo leva, per l' appunto, anche sullo sguardo di uno straniero-sparviero.

Così, per tornare all' Olanda, gli si potrebbe suggerire di tenere da conto, oltre ai quadri di Rembrandt e Vermeer, un libro di viaggio scritto nel 1874 da un letterato italiano la cui celebrità non è certo legata al reportage: Edmondo De Amicis. Proprio lui, l' autore di Cuore, che in realtà di libri di viaggio ne scrisse più d' uno: Spagna, Ricordi di Londra, Marocco, Costantinopoli, Ricordi di Parigi. E a un certo punto quell' Olanda che conservo gelosamente in un' edizione di vent' anni fa di Costa&Nolan, con una presentazione di Alberto Arbasino e un' introduzione di Dina Aristodemo; due scritti che da angolazioni diverse tornano entrambi sulla medesima questione. Il primo ci ricorda che «il De Amicis, come un Enzo Biagi del suo tempo, tende soprattutto al bestseller; e perciò fornisce insieme alle impressioni, e alle riflessioni che ne conseguono, anche una massa cospicua di informazioni "desunte"». La seconda rammenta che questo libro è pur sempre figlio dell' Italia umbertina, epoca in cui lo scrittore sente ancora il dovere di offrire al lettore, con la maggiore oggettività possibile, tutti i dati di base relativi a paesi lontani e sconosciuti. Insomma, manca ancora del tempo prima che si affermi l' idea di viaggio novecentesca, in cui l' autore si può abbandonare completamente alle proprie fantasticherie: «Un Comisso, ad esempio, trasformerà Volendam e Zaandam, luoghi del più scontato folclore olandese, in fasci di sensazioni, colori, odori, sapori: un Cecchi vedrà Delft attraverso Vermeer, Haarlem attraverso Frans Hals, Amsterdam attraverso Rembrandt; Giuseppe Ungaretti affiderà la sua esplorazione poetica dei Paesi Bassi ai simboli dell' acqua e della luce»

Una visione fantasmatica - No, De Amicis non arriva a tali azzardi. Lo si è detto: la sua Olanda deve ottemperare anche alla funzione di un rinnovato Baedeker. Dunque bisognerà cominciare ricordando che «il nemico al quale gli Olandesi dovettero strappare le loro terre, era triplice: il mare, i fiumi, i laghi; gli Olandesi disseccarono i laghi, respinsero il mare e imprigionarono i fiumi». Certo, se dio vuole, il Nostro poi non dimentica di essere un vero scrittore. Sicché, alla geografia cambiata dalla storia, ecco accompagnarsi immediatamente una geografia "letteraria": «In Olanda le terre sorgono, spariscono e riappaiono, a somiglianza dei regni delle novelle arabe, al tocco delle verghe dei maghi». De Amicis sembra essere attratto da questa visione fantasmatica del paese che sta visitando, ma non pochi aspetti della vita olandese confliggono con tale visione. E forse proprio questa è la ragione che lo porta a sottovalutare la smisurata grandezza degli anfitrioni ideali da cui eravamo partiti - i pittori del secolo XVII - e a confondere la potenza del loro realismo metafisico con una sorta di minuzioso naturalismo: «La pittura olandese non ha destato in me alcuna emozione profonda; nessun quadro mi ha fatto piangere; nessuna immagine m' ha levato in alto; nessun artista m' ha inspirato un sentimento d' affetto vivo, lieto, riconoscente, entusiastico». In breve: in quei quadri ci sarebbe troppa maniacale attenzione alla quotidianità e troppo poca epica, passione, trascendenza. L' unico pittore per cui De Amicis spende parole di assoluta ammirazione è Rembrandt, inarrivabile maestro di luce; quella stessa luce le cui battaglie celesti impressionano - e a ragione - il viaggiatore italiano che difatti rimarca le parole di un capitano di bastimento incontrato per caso: «Abbiamo il cielo più incostante del mondo. Per questo parliamo sempre del tempo. L' atmosfera è lo spettacolo più vario che abbiamo. Se vogliamo veder qualcosa che ci ricrei, dobbiamo guardare in su». Come a dire che guardando in giù ci sono da attendersi soltanto "normalità" e "livellamento"; due termini - come mi ha insegnato lo scrittore Harry Mulisch - centrali nel vocabolario olandese: l' inevitabile portato di una cultura protestante.

Chissà, magari proprio in questo il De Amicis vede (sbagliando) il maggior difetto della pittura olandese del secolo d' oro. Anche se subito dopo riconosce che niente come quella pittura ha saputo raccontare così compiutamente e nitidamente l' avvento di una società che avrebbe segnato come poche altre la modernità occidentale. Perché è lì, in quei quadri, che si vedono «le città, le campagne, i porti, le navi, i mercati, le botteghe, i costumi, gli utensili, le armi, la biancheria, le merci, le stoviglie, i cibi, i piaceri, le abitudini, le credenze religiose e le superstizioni, le qualità e i difetti del popolo». Tutto ciò a De Amicis interessa, e molto.

Questo non significa naturalmente che affronti di petto l' anomalia del modello olandese seicentesco: estraneo alle magnificenze della cultura barocca e dunque alla divinazione monarchica; fondato sulla self-possession individuale e la corporazione sociale; su un federalismo ante litteram, privo di Stato regolatore e accentratore. Né che colga la centralità assoluta del concetto di reciproco interesse, vero legame tra calvinisti e cattolici, cittadini e contadini, mercanti e nobili. E fondamento principale dello slogan vincente di Amsterdam: «Libera per essere ricca, ricca per essere libera». D' altronde perché chiedere ragione del modello spinoziano di una società sicura e tollerante a chi dedica a Spinoza soltanto poche righe?

Lo scrittore di Oneglia, semmai, è interessato alla definizione dei tratti salienti del carattere nazionale olandese. E li coglie con arguzia, proprio a partire dalla pittura: «Un popolo pacifico, operoso, pratico, ricondotto continuamente, per dirla con le parole d' un gran poeta tedesco, alla realtà prosaica, dalle occupazioni d' una vita volgare e borghese; che coltiva le sue ragioni a spese della sua immaginazione; che vive, per conseguenza, più d' idee chiare che di immagini belle; che rifugge dalle astrazioni, che non si slancia col pensiero di là dalla natura, colla quale è in lotta perpetua; che non vede che ciò che è, che non gode che di ciò che possiede, che fa consistere la sua felicità nella quiete agiata e onestamente sensuale d' una vita senza passioni violente e senza desiderii scomposti; questo popolo doveva avere un sentimento tranquillo anche dell' arte, amare un' arte che ricreasse senza scuotere, che parlasse più ai sensi che allo spirito, un' arte riposata, precisa, squisitamente materiale come la sua vita; l' arte, in una parola, realista, nella quale egli si potesse specchiare e vedersi tal qual era, ed era contento di essere». è inutile rimarcare ancora una volta l' equivoco a proposito di un' arte che parlerebbe più ai sensi che allo spirito (povero Vermeer!); quanto conta è la fascinazione subita da un popolo che «senza grandezza aveva fatto grandi cose». De Amicis lo segue amorevolmente passo passo: nelle sue abitudini, nelle sue credenze, nella sua architettura, nei suoi costumi. E da bravo scrittore di viaggio alterna l' alto e il basso, il micro e il macro. Dapprima rammenta come tra tutti i popoli nordici, l' olandese sia quello che fuma di più («il fumo, mi disse un olandese, è il nostro secondo fiato; e un altro mi definì il sigaro: il sesto dito della mano»). Poi sottolinea con gusto i mille contrasti a cui va quotidianamente incontro: «Sotto un cielo capriccioso v' è il popolo meno capriccioso della terra; e questo popolo fermo e ordinato, ha l' architettura più barcollante e più scompigliata che si possa veder con due occhi».

Stereotipi confermati - Infine De Amicis non si tira indietro davanti agli stereotipi olandesi. E parlando dei mulini a vento contrappone il loro molteplice e vitalissimo uso con lo stato decrepito in cui versano i loro corrispettivi della Mancia; mentre, quando è il momento dei tulipani, ne approfitta per dar conto della vera e propria follia collettiva che di colpo - nel diciassettesimo secolo - prese un popolo per sua natura così parsimonioso. Al punto che per un bulbo del rarissimo Semper Augustus «furono offerti quattromilaseicento fiorini, una splendida carrozza e due cavalli pomellati con bardatura di gala; e l' offerta fu rifiutata». Se si dovesse però chiedere a De Amicis qual è il vero cuore della vita olandese, lui risponderebbe - e a ragione - la casa. Ancora una volta lo impara dai pittori, ma soprattutto quando dovrà assolvere al compito di recapitare una lettera a un cittadino di Delft. La dimora in cui mette piede, con le tendine bianche, la porta verde, i fiori, la proverbiale lindura, gli farà capire l' Olanda meglio di tutti i libri che ha letto. «Era insieme l' espressione e la ragione dell' amor della famiglia, dei desideri modesti, dell' indole indipendente del popolo olandese. Nei nostri paesi non c' è la vera casa; non ci sono che scompartimenti di caserme, abitazioni astratte, che non han nulla di nostro, nelle quali viviamo nascosti, ma non soli, udendo mille rumori di gente estranea, che turba i nostri dolori coll' eco delle sue gioie o le nostre gioie coll' eco dei suoi dolori. La vera casa è in Olanda, la casa personale, distinta dalle altre, pudica, circospetta, e appunto perché distinta dalle altre, nemica dei misteri e degl' intrighi». Bravo De Amicis!