da http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/04/09/de-amicis-turista-tra-arte-tulipani-nel.html
Passeggiare per le strade di Lisbona in compagnia di Pessoa,
affrontare il Giano bifronte di Istanbul guidati da Pamuk,
ripercorrere la Mancia aiutandosi con il Chisciotte e con l' occhio
cinematografico dell' Almodovar de La mala educacion: il turista
interessato a penetrare un po' più a fondo i luoghi che via
via intende visitare non potrà che accogliere positivamente i
suggerimenti offerti da Andrea Battaglini nel suo Strade d' autore
(Touring Club Italiano), una «guida illustrata con 40
itinerari a tema in 21 paesi», concepita seguendo le
«tracce dei più grandi poeti, scrittori, registi e
pittori».
Prendiamo, ad esempio, l' Olanda. Non v' è dubbio alcuno che
chi voglia afferrare il sentimento di cosiness tanto radicato in
quel paese troverà il miglior viatico nei quadri di Vermeer;
così come, chi vorrà fissare nella propria retina la
speciale luce di Amsterdam, dovrà ricorrere infinite volte
alla magia delle tele di Rembrandt. Ovviamente ha ragione
Battaglini: l' uno e l' altro sono anfitrioni unici, insostituibili.
Sono gli inarrivabili custodi di uno specifico genius loci,
individuabile a tutt' oggi a dispetto delle immense trasformazioni
intervenute tanto nel paesaggio geografico quanto in quello
antropologico. Ma il gioco del compagno di viaggio ideale, volendo,
potrebbe spingersi oltre. E memore del detto siciliano
«sguardo da straniero, sguardo da sparviero», il turista
curioso e intelligente potrebbe cercare ulteriori sostegni per le
sue peregrinazioni in territori sconosciuti. Facendo leva, per l'
appunto, anche sullo sguardo di uno straniero-sparviero.
Così, per tornare all' Olanda, gli si potrebbe suggerire di
tenere da conto, oltre ai quadri di Rembrandt e Vermeer, un libro di
viaggio scritto nel 1874 da un letterato italiano la cui
celebrità non è certo legata al reportage: Edmondo De
Amicis. Proprio lui, l' autore di Cuore, che in realtà di
libri di viaggio ne scrisse più d' uno: Spagna, Ricordi di
Londra, Marocco, Costantinopoli, Ricordi di Parigi. E a un certo
punto quell' Olanda che conservo gelosamente in un' edizione di
vent' anni fa di Costa&Nolan, con una presentazione di Alberto
Arbasino e un' introduzione di Dina Aristodemo; due scritti che da
angolazioni diverse tornano entrambi sulla medesima questione. Il
primo ci ricorda che «il De Amicis, come un Enzo Biagi del suo
tempo, tende soprattutto al bestseller; e perciò fornisce
insieme alle impressioni, e alle riflessioni che ne conseguono,
anche una massa cospicua di informazioni "desunte"». La
seconda rammenta che questo libro è pur sempre figlio dell'
Italia umbertina, epoca in cui lo scrittore sente ancora il dovere
di offrire al lettore, con la maggiore oggettività possibile,
tutti i dati di base relativi a paesi lontani e sconosciuti.
Insomma, manca ancora del tempo prima che si affermi l' idea di
viaggio novecentesca, in cui l' autore si può abbandonare
completamente alle proprie fantasticherie: «Un Comisso, ad
esempio, trasformerà Volendam e Zaandam, luoghi del
più scontato folclore olandese, in fasci di sensazioni,
colori, odori, sapori: un Cecchi vedrà Delft attraverso
Vermeer, Haarlem attraverso Frans Hals, Amsterdam attraverso
Rembrandt; Giuseppe Ungaretti affiderà la sua esplorazione
poetica dei Paesi Bassi ai simboli dell' acqua e della luce»
Una visione fantasmatica - No, De Amicis non arriva a tali azzardi.
Lo si è detto: la sua Olanda deve ottemperare anche alla
funzione di un rinnovato Baedeker. Dunque bisognerà
cominciare ricordando che «il nemico al quale gli Olandesi
dovettero strappare le loro terre, era triplice: il mare, i fiumi, i
laghi; gli Olandesi disseccarono i laghi, respinsero il mare e
imprigionarono i fiumi». Certo, se dio vuole, il Nostro poi
non dimentica di essere un vero scrittore. Sicché, alla
geografia cambiata dalla storia, ecco accompagnarsi immediatamente
una geografia "letteraria": «In Olanda le terre sorgono,
spariscono e riappaiono, a somiglianza dei regni delle novelle
arabe, al tocco delle verghe dei maghi». De Amicis sembra
essere attratto da questa visione fantasmatica del paese che sta
visitando, ma non pochi aspetti della vita olandese confliggono con
tale visione. E forse proprio questa è la ragione che lo
porta a sottovalutare la smisurata grandezza degli anfitrioni ideali
da cui eravamo partiti - i pittori del secolo XVII - e a confondere
la potenza del loro realismo metafisico con una sorta di minuzioso
naturalismo: «La pittura olandese non ha destato in me alcuna
emozione profonda; nessun quadro mi ha fatto piangere; nessuna
immagine m' ha levato in alto; nessun artista m' ha inspirato un
sentimento d' affetto vivo, lieto, riconoscente,
entusiastico». In breve: in quei quadri ci sarebbe troppa
maniacale attenzione alla quotidianità e troppo poca epica,
passione, trascendenza. L' unico pittore per cui De Amicis spende
parole di assoluta ammirazione è Rembrandt, inarrivabile
maestro di luce; quella stessa luce le cui battaglie celesti
impressionano - e a ragione - il viaggiatore italiano che difatti
rimarca le parole di un capitano di bastimento incontrato per caso:
«Abbiamo il cielo più incostante del mondo. Per questo
parliamo sempre del tempo. L' atmosfera è lo spettacolo
più vario che abbiamo. Se vogliamo veder qualcosa che ci
ricrei, dobbiamo guardare in su». Come a dire che guardando in
giù ci sono da attendersi soltanto "normalità" e
"livellamento"; due termini - come mi ha insegnato lo scrittore
Harry Mulisch - centrali nel vocabolario olandese: l' inevitabile
portato di una cultura protestante.
Chissà, magari proprio in questo il De Amicis vede
(sbagliando) il maggior difetto della pittura olandese del secolo d'
oro. Anche se subito dopo riconosce che niente come quella pittura
ha saputo raccontare così compiutamente e nitidamente l'
avvento di una società che avrebbe segnato come poche altre
la modernità occidentale. Perché è lì,
in quei quadri, che si vedono «le città, le campagne, i
porti, le navi, i mercati, le botteghe, i costumi, gli utensili, le
armi, la biancheria, le merci, le stoviglie, i cibi, i piaceri, le
abitudini, le credenze religiose e le superstizioni, le
qualità e i difetti del popolo». Tutto ciò a De
Amicis interessa, e molto.
Questo non significa naturalmente che affronti di petto l' anomalia
del modello olandese seicentesco: estraneo alle magnificenze della
cultura barocca e dunque alla divinazione monarchica; fondato sulla
self-possession individuale e la corporazione sociale; su un
federalismo ante litteram, privo di Stato regolatore e accentratore.
Né che colga la centralità assoluta del concetto di
reciproco interesse, vero legame tra calvinisti e cattolici,
cittadini e contadini, mercanti e nobili. E fondamento principale
dello slogan vincente di Amsterdam: «Libera per essere ricca,
ricca per essere libera». D' altronde perché chiedere
ragione del modello spinoziano di una società sicura e
tollerante a chi dedica a Spinoza soltanto poche righe?
Lo scrittore di Oneglia, semmai, è interessato alla
definizione dei tratti salienti del carattere nazionale olandese. E
li coglie con arguzia, proprio a partire dalla pittura: «Un
popolo pacifico, operoso, pratico, ricondotto continuamente, per
dirla con le parole d' un gran poeta tedesco, alla realtà
prosaica, dalle occupazioni d' una vita volgare e borghese; che
coltiva le sue ragioni a spese della sua immaginazione; che vive,
per conseguenza, più d' idee chiare che di immagini belle;
che rifugge dalle astrazioni, che non si slancia col pensiero di
là dalla natura, colla quale è in lotta perpetua; che
non vede che ciò che è, che non gode che di ciò
che possiede, che fa consistere la sua felicità nella quiete
agiata e onestamente sensuale d' una vita senza passioni violente e
senza desiderii scomposti; questo popolo doveva avere un sentimento
tranquillo anche dell' arte, amare un' arte che ricreasse senza
scuotere, che parlasse più ai sensi che allo spirito, un'
arte riposata, precisa, squisitamente materiale come la sua vita; l'
arte, in una parola, realista, nella quale egli si potesse
specchiare e vedersi tal qual era, ed era contento di essere».
è inutile rimarcare ancora una volta l' equivoco a proposito
di un' arte che parlerebbe più ai sensi che allo spirito
(povero Vermeer!); quanto conta è la fascinazione subita da
un popolo che «senza grandezza aveva fatto grandi cose».
De Amicis lo segue amorevolmente passo passo: nelle sue abitudini,
nelle sue credenze, nella sua architettura, nei suoi costumi. E da
bravo scrittore di viaggio alterna l' alto e il basso, il micro e il
macro. Dapprima rammenta come tra tutti i popoli nordici, l'
olandese sia quello che fuma di più («il fumo, mi disse
un olandese, è il nostro secondo fiato; e un altro mi
definì il sigaro: il sesto dito della mano»). Poi
sottolinea con gusto i mille contrasti a cui va quotidianamente
incontro: «Sotto un cielo capriccioso v' è il popolo
meno capriccioso della terra; e questo popolo fermo e ordinato, ha
l' architettura più barcollante e più scompigliata che
si possa veder con due occhi».
Stereotipi confermati - Infine De Amicis non si tira indietro
davanti agli stereotipi olandesi. E parlando dei mulini a vento
contrappone il loro molteplice e vitalissimo uso con lo stato
decrepito in cui versano i loro corrispettivi della Mancia; mentre,
quando è il momento dei tulipani, ne approfitta per dar conto
della vera e propria follia collettiva che di colpo - nel
diciassettesimo secolo - prese un popolo per sua natura così
parsimonioso. Al punto che per un bulbo del rarissimo Semper
Augustus «furono offerti quattromilaseicento fiorini, una
splendida carrozza e due cavalli pomellati con bardatura di gala; e
l' offerta fu rifiutata». Se si dovesse però chiedere a
De Amicis qual è il vero cuore della vita olandese, lui
risponderebbe - e a ragione - la casa. Ancora una volta lo impara
dai pittori, ma soprattutto quando dovrà assolvere al compito
di recapitare una lettera a un cittadino di Delft. La dimora in cui
mette piede, con le tendine bianche, la porta verde, i fiori, la
proverbiale lindura, gli farà capire l' Olanda meglio di
tutti i libri che ha letto. «Era insieme l' espressione e la
ragione dell' amor della famiglia, dei desideri modesti, dell'
indole indipendente del popolo olandese. Nei nostri paesi non c'
è la vera casa; non ci sono che scompartimenti di caserme,
abitazioni astratte, che non han nulla di nostro, nelle quali
viviamo nascosti, ma non soli, udendo mille rumori di gente
estranea, che turba i nostri dolori coll' eco delle sue gioie o le
nostre gioie coll' eco dei suoi dolori. La vera casa è in
Olanda, la casa personale, distinta dalle altre, pudica,
circospetta, e appunto perché distinta dalle altre, nemica
dei misteri e degl' intrighi». Bravo De Amicis!