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Poeta (Firenze, tra il maggio e il giugno 1265 - Ravenna, notte dal 13 al 14 settembre 1321).
Della madre, che dovette morire presto, non sappiamo che il nome, Bella; il padre, Alighiero di Bellincione di Alighiero, morto intorno al 1283, apparteneva a una famiglia di piccola nobiltà cittadina (il trisavolo di D., Cacciaguida, fatto cavaliere da Corrado III, morì nella 2a crociata, 1147), ma ai suoi tempi decaduta: egli faceva forse il prestatore, o comunque si occupava di affari. Tuttavia Dante (il nome è forma accorciata, familiare, diDurante) condusse da giovane vita da gentiluomo, e come tale militò nella cavalleria (battaglia di Campaldino, 1289). Aveva studiato grammatica e filosofia probabilmente presso i francescani di S. Croce, retorica forse con Brunetto Latinie a Bologna, dove in ogni modo si trovava nel 1287 o poco prima.
Cominciò a poetare ben presto; ai suoi 18 anni risale, secondo il suo racconto, il primo sonetto databile che di lui ci rimanga, in onore di Beatrice. Si è ormai d'accordo nel ritenere storica la personalità di lei, che è con buon fondamento identificata in Bice di Folco Portinari, sposata a Simone de' Bardi e morta l'8 giugno 1290. Da una passeggera infedeltà alla memoria di lei nasce in D. il proposito di celebrarla più solennemente di quel che prima non avesse fatto con le sue rime sparse, raccogliendo appunto tali rime e collegandole col racconto dell'intera vicenda del suo amore. Nasce così (circa 1292-93) la Vita nuova, in cui Beatrice appare come guida a Dio non solo di D. ma di tutti gli animi gentili.
E aristocratica è la lirica di lui, come aristocraticamente raffinato, per costumi e per ideali letterarî, fu quel gruppo di giovani poeti, di cui egli fu cospicua parte, che, ispirandosi a Guido Guinizzelli, si contrappose da una parte a Guittone, dall'altra ai verseggiatori di tono popolareggiante, e che D. stesso più tardi affermò (Purg., XXIV, 49 e segg.) avere instaurato un nuovo modo di poesia, un "dolce stil novo", onde l'espressione è rimasta a indicare tutto il gruppo. Se le sue infedeltà a Beatrice siano per una donna (la "donna gentile" della Vita nuova) o per la filosofia (come sembrerebbe attestare un'esplicita dichiarazione del Convivio), è tuttora oggetto di discussione; certo è però che poco dopo il 1290 D. si volge alla filosofia, della quale in breve s'impadronisce: senza interrompere del tutto la lirica d'amore, egli riflette questa tendenza in liriche di filosofia morale. Probabile è anche un periodo di amore sensuale, per donne ben diverse dalla discussa "donna gentile"; a esso si possono far risalire le cosiddette rime "petrose" (intorno al 1295 ?) per una Pietra o per una donna dura come pietra, ma esse testimoniano in verità intenti di esercitazioni letterarie diverse dalle consuete, molto più che vicende biograficamente o psicologicamente determinate. Sempre a quel periodo potrebbe risalire la tenzone con Forese Donati (D. e il suo amico si rimproverano e rinfacciano in sei sonetti, tre per ciascuno, colpe e difetti d'ogni genere, alcuni assai gravi: ma si tratta anche qui in fondo di un'esercitazione letteraria) e, se sono di D., il Fiore e il Detto d'Amore.
Senza riflesso nell'opera letteraria fu il matrimonio di D. con Gemma di Manetto Donati, cugina di Corso e di Forese, ma di un ramo meno potente della famiglia; matrimonio combinato nel 1277 e attuato forse verso il 1285; dal quale nacquero (a noi noti) Iacopo, Pietro, Antonia (forse poi monaca a Ravenna col nome di suor Beatrice), e forse anche un Giovanni.
Appena una provvisione del 1295 consentì ai nobili, esclusi dal governo dagli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293), di partecipare alla vita pubblica mediante l'iscrizione a un'Arte, D. s'iscrisse a quella dei medici e speziali, forse come cultore di studî filosofici, e dal 1295 al 1302 ebbe varî uffici; tra l'altro, dal maggio al sett. 1296 appartenne al più importante dei consigli cittadini, quello dei Cento, e, soprattutto, dal 15 giugno al 15 ag. 1300, fu tra i priori, eletti proprio col compito di opporsi alle intromissioni nella vita pubblica di Firenze di papa Bonifacio VIII che, col pretesto della vacanza dell'impero, e contando sulle discordie cittadine, mirava al dominio sulla Toscana. Notevole nel priorato di D. fu anche il provvedimento preso, pare per suo consiglio, di bandire da Firenze - in seguito a un assalto dei Neri ai consoli delle Arti, e alla reazione dei Bianchi - i capi delle due fazioni; tra i Bianchi era compreso Guido Cavalcanti, il "primo" degli amici del poeta, com'egli stesso lo chiamava nella Vita nuova. Dopo il priorato, D. continuò ad avere uffici, e documenti ci restano della sua azione politica, in senso antiangioino e antipapale.
All'avvicinarsi a Firenze (1301) di Carlo di Valois, il falso "paciaro", D. fu con altri due mandato ambasciatore a Bonifacio VIII, il quale, rimandati a Firenze i due, che egli sperava intercedessero a favore della sua tesi, trattenne presso di sé il più pericoloso, Dante. Così questi - sopraggiunta la vittoria dei Neri - probabilmente non tornò più nella sua città: una prima sentenza (17 gennaio 1302) lo condannò, sotto l'accusa, tra l'altro, di baratteria, allora comunemente usata contro gli avversari politici, a una multa, al confino e all'esclusione dagli uffici; non essendosi presentato, una successiva sentenza (10 marzo) lo condannò all'esilio perpetuo, con minaccia di morte se fosse venuto in potere del comune.
Comincia così l'esilio di D., avvenimento capitale non soltanto per la sua biografia pratica; infatti esso, profondamente sofferto da lui, condizionò nettamente l'ulteriore svolgimento del suo pensiero e della sua poesia. Dapprima D. lottò insieme coi Bianchi e con loro sperò di poter rientrare, ma già prima del luglio 1304, disgustato dalla "compagnia malvagia e scempia", si appartò, fece un partito di sé stesso. La "dolorosa povertade" lo costrinse a profittare della liberalità dei varî principi, confondendosi così con gente d'ogni risma; divenne, più o meno, "uomo di corte", dolorosamente crucciato e sdegnoso di tale condizione. Sperò forse in un primo momento d'esser richiamato, e a tale scopo provvide sia a discolparsi con lettere e altri scritti della taccia di ghibellino che gli si apponeva, e che era nata soprattutto dall'essersi i ghibellini esuli uniti ai Bianchi banditi, sia a rialzare la sua fama di dotto, producendo opere dottrinali e di più vasto impegno che non fossero le rime d'amore.
Al periodo 1304-07 circa sono così da assegnare il De vulgari eloquentia e il Convivio; al 1307 risale forse l'idea della Commedia, sia che imprendesse allora il poema ex-novo, sia che riprendesse antichi disegni e magari vecchi abbozzi. Ora il pensiero politico di D. prende la sua forma definitiva. Egli si chiede la ragione dei malanni d'Italia e la vede nelle discordie; scorge la ragione di queste nella carenza d'un potere civile unico, cioè dell'impero, essendo gli imperatori distratti dalle cose di Germania, e nella parallela usurpazione dei loro poteri da parte della Chiesa. D., insomma, da guelfo moderato è divenuto quasi un ghibellino.
Le tappe dell'esilio non ci sono tutte note: il primo rifugio fu presso gli Scaligeri, nel 1306 era presso i Malaspina; non provata la tradizione che andasse a Parigi. Disceso nel 1310 Arrigo VII in Italia, le speranze di D. si riaccendono e per tre anni risplendono. Finalmente l'imperatore veniva in Italia, ben risoluto a porre fine alle discordie, ad affermare la sua autorità suprema: rex pacificus. Persino il papa sembrava ben disposto: il dualismo papato-impero pareva finito. D. scrive un'epistola ai re, principi e popoli d'Italia: un grido d'esultanza, poi corre a rendere omaggio all'imperatore che cingeva a Milano (1311) la corona di ferro. Ma proprio Firenze, la guelfa Firenze, resiste, anzi è a capo della resistenza italiana: nel marzo il poeta scrive dal Casentino un'epistola contro gli "scelleratissimi" Fiorentini; nell'aprile, un'altra epistola allo stesso Arrigo, perché non indugi nell'Italia del Nord. Egli è intanto escluso dall'amnistia del 1311 (la cosiddetta riforma di Baldo d'Aguglione). Quando Arrigo attacca Firenze, il poeta non prende tuttavia le armi contro la patria, resta nel Casentino, forse presso il conte di Battifolle. Ma la morte di Arrigo (1313) tronca ogni speranza: se non subito dopo, certo assai presto D. torna a Verona, ospite questa volta di Cangrande.
Forse al momento delle maggiori opposizioni all'imperatore da parte di Firenze, di Roberto d'Angiò e di papa Clemente V, risale l'opera nella quale egli più direttamente e ordinatamente espone il suo ideale politico, il suo generoso anche se utopistico sogno d'una monarchia universale: la Monarchia. Un'altra epistola, religioso-politica, scrisse D. nel 1314 dopo la morte di Clemente V: è diretta ai cardinali, che vi sono eloquentemente esortati a soccorrere Roma, priva dei suoi due soli, il papa e l'imperatore; almeno essi eleggano un papa italiano, che riporti a Roma la sede pontificia. Un'ultima lettera, infine, D. scrisse nel 1315, tradizionalmente nota come diretta "all'amico fiorentino": amici e parenti lo esortavano a tornare a Firenze, come gli sarebbe stato possibile, profittando di un ribandimento, purché egli si fosse sottoposto a certe umilianti formalità: ma D. rifiuta.
Dopo la sconfitta di Montecatini (1315), Firenze tramutò in confino le condanne capitali dei meno pericolosi degli sbanditi; anche questa volta D. non accettò: sicché il 6 nov. fu nuovamente condannato a morte, e questa volta insieme coi figli, che ormai avevano superato i 14 anni. Non sappiamo con certezza dove D. passasse gli ultimi anni, durante i quali egli ebbe sicuramente una certa tranquillità di vita, e che egli spese per condurre a termine il suo poema. Almeno dal 1318 è a Ravenna, di cui era signore Guido Novello da Polenta, nipote di Francesca: qui egli forse tenne cattedra di poesia e di retorica. Un viaggio a Verona sarebbe documentato dallaQuaestio de aqua et terra (v.), che D. avrebbe disputato in quella città nel 1320; ma qualche studioso ha espresso dei dubbî sulla paternità dantesca di tale opera. Negli anni del soggiorno ravennate cade la corrispondenza poetica con Giovanni del Virgilio, che esortava D. a scrivere in latino anziché in volgare e lo invitava a Bologna. D. rispose con due Egloghe, declinando l'invito. Anche sull'autenticità di questi componimenti, che rappresentano il primo tentativo di poesia bucolica, alle soglie dell'umanesimo, si è sollevato qualche dubbio.
Nel 1321 D. morì. Fu sepolto in un'arca presso il tempio di San Pier Maggiore, che poi si disse di San Francesco: i Fiorentini richiesero più volte invano le ceneri del loro poeta, e dovettero contentarsi d'un cenotafio. Il sepolcro ravennate, restaurato nel 1483, fu coperto da un tempietto nel sec. 18°; tutta la zona intorno è stata sistemata nel 1936. La famiglia di D., continuata a Verona nei discendenti di Pietro Alighieri, confluì nel sec. 16° in quella dei Serego, che assunsero allora il doppio cognome.
? Di tante immagini che riproducono le sue fattezze, la più sicura è l'affresco di Giotto, rappresentante D. giovane; ma esso è oggi tutto ridipinto; ne restano per fortuna due lucidi, tratti prima del restauro. La cosiddetta "maschera Kirkup", ritrovata a Ravenna nel 1830, si crede riproduca la testa di D. quale era effigiata sul suo sepolcro. Non ci rimane alcun autografo. [...]
Nella storia della spiritualità italiana [Dante] è stato ed è sempre operante; l'immagine di D. "padre" non è espressione retorica e mitica, ma concreta realtà storica. Pertanto egli è stato ed è sempre operante anche nel corso della nostra letteratura: ma assai più come un lontano ispiratore ideale, che come vicino e determinante modello letterario. Gli imitatori diretti di lui sono, in tutti i secoli, pochi e di scarso rilievo; anche i maggiori tra essi, e i più vicini a lui nel tempo, come il Petrarca e il Boccaccio, non vanno oltre un'imitazione sporadica ed esterna, e traggono da ben altro che da essa le ragioni della loro grandezza; a distanza di mezzo millennioVincenzo Monti, che pure sembrò a molti dei suoi contemporanei un Dante redivivo, non fu che un fecondo e abile riassuntore di esteriori forme e schemi danteschi: assai più vicini a D. nello spirito, per restare ai tempi del Monti, un Alfieri e, nonostante le contrarie apparenze, un Manzoni, i quali invece camminarono per vie letterarie assai diverse da quelle di Dante. La Commedia si erge isolata quasi all'inizio della via che la letteratura italiana percorrerà; alta e discosta da essa, e resta tale, costante punto di riferimento ma non di partenza e tanto meno di passaggio.
A segnare il divario esistente tra la Commedia e le altre opere, sia pure insigni, di D., può giovare proprio la considerazione che queste, e non quella, s'inseriscono agevolmente nella trama storica della nostra letteratura. Inconcepibile, per esempio, la poesia lirica dantesca senza la considerazione della poesia precedente, provenzale, siciliana e anche guittoniana; senza la spinta che ad essa viene dal Guinizzelli; senza il coro degli altri stilnovisti; inconcepibile altresì la lirica del Petrarca e, attraverso il Petrarca, tutta la lirica italiana seguente, sino ai nostri giorni, senza il riferimento primo a Dante. Così, la filosofia di lui, il suo pensiero scientifico e politico sorgono dal terreno ben conosciuto della Scolastica e della pubblicistica medievale e agiscono poi nel corso posteriore della filosofia, della scienza e del pensiero politico; dalla sua concezione linguistica deve partire chi voglia seguire la storia delle sempre vive controversie italiane sulla genesi e sull'essenza della nostra lingua; ad essa deve riferirsi altresì chi voglia spiegarsi uno dei caratteri essenziali, forse il più caratteristico, dello svolgersi della nostra letteratura. D. per primo teorizza nel De vulgari eloquentia la necessità, per la poesia più alta, d'una lingua "illustre", cioè quanto mai scelta e schiva, per primo risolutamente afferma che tale lingua non è quella che comunemente si parla in qualsiasi luogo d'Italia, ma è una lingua al di fuori delle contingenze pratiche, che ciascun poeta conquista mediante lo studio dei migliori poeti che lo hanno preceduto. Cioè, l'alta poesia deve restare lontana dal reale, materia e lingua. È questo il carattere fondamentale della letteratura italiana non comica, almeno sino al Romanticismo, che riabilitò, o tentò di riabilitare, all'alta poesia il reale sino al quotidiano, e conseguentemente la lingua parlata.
Orbene: a questa esigenza obbedisce naturalmente la lirica di D., ma la Commedia in gran parte ne prescinde. Essa è l'unica grande poesia italiana che affronti i massimi problemi e nello stesso tempo sia saldamente ancorata sul reale, sul contemporaneo; che osi estrarre il sublime anche dal brutto, dal deforme, dal plebeo. E va qui aggiunto che mentre i romantici riconosceranno nel brutto una nuova bellezza, e si volgeranno ad esso per compiacimento estetico e per disperazione morale, in D. il brutto è fermamente tale: e la bellezza poetica che da esso nasce è frutto della certezza, morale ed estetica, di D., che s'impone di controluce.
Potrebbe bastare anche questa sola considerazione a indurci a porre il nostro poeta di qua, storicamente, del Rinascimento: le vie del quale non sono segnate primamente da lui, ma dal Petrarca e dal Boccaccio. Certo è possibile trovare in D. anche qualche motivo spirituale e letterario che avrà nel Rinascimento il suo primo sviluppo. Ma non sono certo sufficienti a testimoniare in D. uno spirito già rinascimentale la strenua attenzione di lui alla forma, e neppure il culto che ebbe per i classici latini, soprattutto per Virgilio: attenzione e amore per i classici che sono tutt'altro che estranei, in varî modi e in diverse tonalità, a tutto il Medioevo, italiano e non italiano. Il classicismo rinascimentale è essenzialmente esigenza di regole, non può concepire poesia che non rientri rigorosamente nell'alveo della tradizione. Esigenza che s'affaccia bensì anche in D. teorico del De vulgari eloquentia, sebbene in forma ancora incerta e non senza interne contraddizioni, che informa anche in certo modo la lirica dantesca; ma da cui, ancora una volta, la Commedia prescinde.
A determinare il classicismo rinascimentale c'è un bisogno di calma spirituale: un'esigenza di sicura, anche se limitata, felicità terrena, e dunque il Rinascimento domina le sue passioni, le contempla poeticamente solo dall'alto della raggiunta serenità, e l'elaborazione formale, il restare nella scia tradizionale sono essenzialmente mezzi di questo dominio delle passioni. Al contrario, la passione di D., passione sempre, anche quando egli fa della scienza, si pone poeticamente come tale. Più fondata appare l'opinione di coloro che scorgono un carattere già rinascimentale nel riconoscere alla vita terrena, come D. fa, una sua propria autonomia e dignità accanto all'ultraterrena. Al centro del pensiero di D. c'è infatti la concezione d'un duplice dovere per l'uomo: verso sé stesso e gli altri uomini, e verso Dio. Fine dell'uomo è la conquista della duplice felicità: perciò Dio stesso gli ha dato due guide, l'imperatore e il pontefice, che debbono, indipendenti tra loro, condurlo al raggiungimento dei due beni.
Ma D. - e questa è la fondamentale differenza tra lui e gli uomini del Rinascimento - concepisce la felicità terrena come una meta additata da Dio stesso, cioè non come un'aspirazione egoistica o un diritto, ma come un dovere morale-religioso. Il Rinascimento tende alla sua felicità rinunciando senza rammarichi e tremori all'assoluto di essa: restringendosi al "particulare", all'effettivamente realizzabile, a ciò che l'uomo può dominare con le sole sue forze, il senso del limite appare sempre più come il carattere fondamentale dello spirito del Rinascimento. Dante intende invece la felicità anche terrena come assoluto: assoluto bene, assoluta libertà, persino assoluta scienza, cioè perfetta attuazione dell'"intelletto possibile". Quest'ultima è la definizione che egli dà della felicità come fine umano, ma un fine che né l'uomo singolo, né limitati gruppi possono conseguire, la felicità non è raggiungibile se non nella perfetta e universale pace, la pace non può realizzarsi se non con l'unicità d'un potere che, possedendo tutto, non abbia più cupidigie, e possa imporre a tutti la perfetta giustizia; cioè con l'impero universale.
Una sola cosa dunque con la felicità personale è per D. la felicità di tutti; allo stesso modo che la salvezza ultraterrena del singolo è in funzione della salvezza universale, attraverso il magistero della Chiesa. Quella di D. è l'ultima, magnanima voce dell'universalismo medievale, che si alza proprio quando quell'universalismo, con Bonifacio VIII e Arrigo VII, tenta per l'ultima volta, vanamente, d'imporsi. L'ardua dialettica fra tale concezione universalistica e l'insopprimibile necessità e la suprema dignità della responsabilità personale è problema di fondo per D., che se lo pone di continuo, sotto le più diverse forme, nel suo poema.
L'ideale uomo che nasce dalle sue pagine è colui che vive con pienezza, non rifugge da alcun dovere - spirituale, morale, pratico - che la vita gli impone, affronta fermamente ogni responsabilità, anche la più rischiosa: e tuttavia non pensa mai solo a sé stesso, sa che il suo pensiero e la sua azione sono la particella d'un ordine universale. Da questo punto di vista ci si chiariscono anche il pensiero e l'azione propriamente politici di Dante. Nessun poeta più fiorentino, più municipale di lui, da Firenze e dai suoi contemporanei trae la maggior parte, di gran lunga, dei suoi personaggi, a Firenze vanno costantemente il suo nostalgico amore e la sua cruda rampogna. Eppure nessun egoismo municipale alimenta l'amore e lo sdegno: rimprovera Firenze peccatrice nella sua vita interna, più ancora la rimprovera quando la vede recalcitrare a lasciar sommergere la sua libertà e fisionomia comunale nell'ordine imperiale.
Vissuto nella piena maturità del comune, nel sorgere delle signorie, cioè in un'età d'intransigenti particolarismi, si può dire che D. non abbia occhi per quel che di fecondamente positivo pur era in quei particolarismi; giunge sino a sprezzare le nuove classi sociali borghesi, la gente intesa ai "subiti guadagni", che del comune erano il nerbo. Anche Firenze, ogni altro comune, ogni stato deve affrontare la propria responsabilità, in piena libertà, ma insieme sentirsi parte d'un tutto: e la meta ultima d'ogni particolare politica non può essere che il bene universale. "Nos cui mundus est patria, velut piscibus equor", dice nel De vulgari eloquentia.
Dalla continuata lettura della Commedia il lettore trae un'impressione apparentemente in sé contraddittoria: quella d'un mondo spirituale e fisico sterminatamente vario e complesso, e insieme quella d'una salda e quasi lineare ed elementare unità. Più agevole rendersi conto di questa simultanea varietà e semplicità per quel che riguarda il mondo fisico rappresentato nel poema. Il lettore scende nel buio seno della terra, risale all'aperto su una montagna alta e aperta alla luce, sola nell'oceano sconfinato, penetra corporeamente nella densa e pur non corporea luce del Paradiso; bufere, fetide piogge, brulicar di serpenti, guizzare di fiamme parlanti, livide paludi, cimiteri, fiumi di sangue, boschi allucinanti, deserti, paesaggi polari, ma anche visioni del vasto cielo stellato, valli fiorite, musicali foreste, infinite feste di luci: mille aperture sui più varî orizzonti, nelle comparazioni, nelle rievocazioni dei personaggi e degli eventi.
E tutto ciò è racchiuso entro una struttura semplicissima: una voragine che scende verso il centro della terra, una montagna che nell'altro emisfero sale verso l'alto; nove cieli che girano veloci intorno al tutto; un decimo cielo immobile che tutto racchiude. Anzi, l'immensa varietà si dispone su una sola linea ideale: che da sotto Gerusalemme giunge al centro della terra, risale all'altro emisfero, passa per il centro del Paradiso terrestre, antipodo di Gerusalemme, di là arriva al centro dell'Empireo. La molteplicità grandiosa è come sorretta da un'unità intuitivamente percepibile e dominabile immediatamente.
? Così per il mondo dello spirito. Non c'è moto dell'anima e dell'intelligenza umana, nel male e nel bene, non c'è aspetto della vita che D. non rappresenti: l'ebbrezza della passione di Francesca e la sozzura della meretrice Taide; l'amor di patria e il doloroso peso della responsabilità fermamente assunta di Farinata e la grandezza fosca e colpevole di Bonifacio VIII; gli occhi lucenti di lacrime di Beatrice e la sconcia cennamella di Barbariccia; la tracotanza violenta e disperata di Capaneo e diVanni Fucci, e la fragilità rassegnata di Pia e di Piccarda; la dignitosa malinconia della fedeltà misconosciuta di Pier della Vigna e di Romeo di Villanova, e la volgare rissa tra maestro Adamo e Sinone; il generoso ardore di conoscenza di Ulisse e l'aspettare neghittoso, malinconicamente rassegnato di Belacqua; lo strazio paterno di Ugolino e la dolcezza del ricordo e della nostalgia dei tanti amici evocati specie nel Purgatorio; l'ansia di conquistar fama presso coloro che questo tempo chiameranno antico, e la coscienza che il mondan romore non è altro che fiato di vento; la rappresentazione, allucinante per evidenza di particolari, delle mutazioni e trasmutazioni dei ladri o delle mutilazioni dei seminatori di discordie, e la delucidazione dei più ardui e astratti veri scientifici, filosofici, teologici; il villanello che si batte l'anca disperato nel vedere il suo campo coperto di neve, e il volo dell'aquila romana, voluto da Dio. L'infinitamente piccolo e sfuggente e labile, e l'infinitamente grande ed eterno.
Eppure, sotto questa immensamente varia materia, si avverte l'unità dello spirito che la crea. Ed è uno spirito, nella sua potenza, semplice e lineare. D. è essenzialmente il poeta della certezza. Nessun dubbio turba mai il poeta, che pure sa e rappresenta la fragilità del cuore, il pericoloso pencolare della superba intelligenza degli uomini verso l'errore. Esamina e giudica, inflessibile, piccoli e grandi, i singoli e tutto il suo tempo; Impero e Chiesa: eppure il lettore non si domanda mai se quel giudizio così reciso sia legittimo, non ha mai l'impressione che sia pretensioso e fatuo e unilaterale, tanta è la saldezza della fede e delle convinzioni da cui deriva, che essa passa nel lettore, il quale avverte che a giudicare non è D., che egli è solo l'interprete sicuro d'una legge che diventa indiscutibile anche per noi. Nessuno più razionale, quadrato, consequenziale di lui: ma questa razionalità si fa passione di comunicarsi, diventa pietà o sdegno per chi pensa e opera al di fuori o contro di essa. La razionalità sbocca nel sentimento, si fonde con esso.
Una volta raggiunta - quali che siano stati i travagli sentimentali e intellettuali della giovinezza - la persuasione ferma che Dio ha prescritto all'uomo come suo proprio fine il raggiungimento di una duplice perfezione, in terra e nel cielo, D. ha abolito in sé l'eterno dissidio umano, quello appunto tra l'attaccamento al mondo e l'aspirazione al sopramondo, tra il caduco e l'eterno. Il caduco è caduco: ma non per questo dev'esser reietto e aborrito. Annullato quel dissidio, ogni altro, che naturalmente ne deriva, in D. si placa sino ad annullarsi; ogni cosa si compone in unitario sistema. L'impero non è per lui uno stato, non è solo un'organizzazione politica: è il mezzo voluto ab aeterno da Dio perché l'uomo possa raggiungere il suo fine terreno; è, cioè, un istituto religioso. Per questo chi gli si oppone - sia egli anche un papa - non solo per D. è politicamente riprovevole, ma commette un gravissimo peccato, ed egli lo scaraventa inflessibile e sdegnato giù nell'inferno.
Cioè la politica è per D. tutt'uno con la morale. Se la vita terrena è un dovere religioso, è naturale, e tipica di D., la concezione della dignità di essa, naturale e tipico lo sprezzo per gli ignavi, per chi rifugge dall'assumersi la responsabilità della piena vita, delle decisioni supreme, cioè dell'azione. Sparisce dunque anche ogni dualismo tra contemplazione e azione, tra pensiero e attività pratica. A chiarire i problemi della scienza - e non solo di quella teologica, ma anche di quella fisica e naturale - D. si sofferma assai spesso, specialmente nel Paradiso; e può sembrare a noi moderni lusso di erudizione e di sottigliezza, senza impegno morale, ma la stessa scienza è per D. il pane degli angeli; chi non ne gusta almeno le briciole è un misero, è un infelice, il D. del Convivio e della Commedia ne ha pietà.
La scienza è indispensabile alla felicità umana; e dunque lo sforzarsi di raggiungerla è, oltre che un istinto, un dovere. Di nuovo, scienza e morale e religione sono una sola cosa. Ancora: la salvezza spirituale s'identifica con la libertà individuale, cioè con la conquista piena di sé stesso, il dominio sicuro di sé nel turbinio delle tentazioni, nella stessa debolezza della carne, con l'animo che vince ogni battaglia, se col suo grave corpo non s'accascia; la rivelazione non esclude, anzi presuppone la ragione; Beatrice muove Virgilio, ma è da lui preceduta nell'opera di elevazione e di sublimazione di sé e di tutti gli uomini che D. canta nel suo poema.
Ma il simbolo della stessa ragione è un poeta, pensiero e sentimento non cozzano tra loro, come presso tanti altri grandi poeti: costituiscono una salda unità; e la stessa poesia è concepita non come un sogno, ma come una battaglia, con precisi obiettivi pratici di ammaestramento e ammonimento, che D. ha cura di mettere esplicitamente in luce. Il poeta dell'Inferno, colui che ha osato rappresentare direttamente il disordine delle passioni umane, sa che, nonostante ogni apparenza, c'è un ordine supremo, che ogni creatura, navigando per il gran mare dell'essere, giunge, sì, a diversi porti; ma se i porti sono diversi, la riva è unica, e che la corda dell'arco divino porta ogni essere irresistibilmente al sito per lui decretato, che è di felicità e perfezione; e se taluno devia, ciò è solo per sua colpa, perché non ha fatto - nei diversi campi in cui Dio lo ha posto - il suo dovere.
Da questa concezione dell'ordine dell'universo viene a D., esule immeritevole, colpito dall'ingiustizia, tradito dagli uomini per il suo amore per essi, spettatore lucido e angosciato del male, la sua virile certezza di giustizia. Una giustizia non solo oltremondana: un giorno, quando Dio nei suoi imperscrutabili disegni vorrà, ma sarà presto, l'ordine e la giustizia prevarranno anche nel mondo. Dante se ne fa profeta e garante. Cielo e terra ancora una volta si saldano. Il primo e più alto messaggio del poema è forse proprio questa certezza.
*
DBI
di S. A. Chimenz
Nacque a Firenze nel 1265, entro il periodo in cui il sole è
nella costellazione zodiacale dei Gemelli -come egli stesso ci fa
sapere (Par.XXII, vv. 112-117) -,cioè tra il 21 maggio e 21
giugno (più precisamente in maggio, stando alla dichiarazione
che l'A. stesso avrebbe fatto sul letto di morte a ser Piero
Giardini, riferita dal Boccaccio in Comento,ediz. Guerri, I, p.
128), da Alaghiero degli Alaghieri (tale la grafia più esatta
del nome, in base agli antichi documenti; quella moderna prevalse
col Boccaccio) e da Bella, di cui ci è stato tramandato il
solo nome (Piattoli, 151), non il casato (ma, molto probabilmente,
degli Abati). La famiglia apparteneva alla piccola nobiltà
cittadina; guelfa di fazione, non compare, però, tra le
famiglie guelfe ragguardevoli di Firenze.
Capostipite fu quel Cacciaguida che il poeta incontra nel cielo di
Marte, nato circa il 1100 nelle case degli Elisei, come sembra certo
dall'ubicazione del "loco" in cui dice esser nati lui e i suoi
"antichi" (Par.XVI, vv. 40-42), e appartenente, parrebbe, a una
nobilissima famiglia che si vantava di discendere dai Romani
fondatori di Firenze: il che giustificherebbe l'analogo vanto
dell'A. (Inf.XV, vv. 74-78). Non si sa se egli stesso lasciasse poi
la casa in cui nacque; ma un documento del 1189 (Piattoli,1)mostra
che i figli Preitenitto e Alaghiero I, pur restando nel sesto di
Porta San Piero, avevano le loro case nel popolo di San Martino del
Vescovo, confinanti con la proprietà della chiesa stessa, che
oggi non esiste più, nel luogo dove oggi si mostra la casa di
Dante. Cacciaguida sposò una donna della valle padana, che
diede il nome suo, o piuttosto del padre suo -com'era costume -al
figlio Alaghiero, donde il casato degli Alaghieri; morì
combattendo in Terrasanta (c. 1147), al seguito dell'imperatore
Corrado III, che lo aveva fatto cavaliere, nella seconda crociata
(Par.XV, vv. 137 ss.). Secondo l'attestazione di Pietro di Dante in
una redazione del suo commento a Par.XVI, vv. 97-99, Alaghiero
sposò una figlia di quel Bellincion Beni, che Cacciaguida
loda, insieme con la moglie, per la nobile semplicità dei
costumi (Par.XV, vv. 112-114), ed ebbe due figli, Bellincione e
Bello. Di Bellincione sappiamo che partecipò nel 1251 al
Consiglio, tenuto in Firenze, incui fu approvata l'alleanza tra
Firenze e Genova; ebbe parecchi figli, tra cui Brunetto, che
partecipò all'impresa contro Siena, terminata con la disfatta
di Montaperti del 1260 (Piattoli, 31, 32), e Alaghiero II, padre
dell'A. Alaghiero, a differenza dei suoi antenati e dei congiunti,
non risulta che prendesse parte alla vita pubblica, né che
avesse noie dai ghibellini dopo Montaperti, come il cugino Geri,
figlio di Bello, posto dall'A. tra i seminatori di discordie (Inf.
XXIX, vv. 18-27), la cui casa, invece, fu danneggiata dalla fazione
vittoriosa (Piattoli, 35).Se fosse certo che la moglie Bella era
figlia di Durante degli Abati, il cui nome sarebbe stato dato al
nipote ("Dante"è appunto accorciativo di "Durante"),di
famiglia ghibellina, si potrebbe pensate avergli giovato questa
parentela. Da un documento risulta aver dato denaro a prestito
(Piattoli, 30), ma ciò non prova che praticasse l'usura.
Dalla tenzone di Forese Donati con l'A., parrebbe che non fosse
persona di particolare riguardo: ogni altra meno generica
indicazione che da essa si è voluta trarre (che fosse
scomunicato, che morisse ucciso) è arbitraria. S'ignora
quando perdette la prima moglie, e quando sposò la seconda,
Lapa di Chiarissimo Cialuffi, dalla quale ebbe due figli, Francesco
e Tana (accorciativo di Gaetana); un'altra figlia, sposata a un
banditore del Comune, Leon Poggi, e madre di Andrea, amico del
Boccaccio (Co mento,ediz. cit., II, p. 262), non si sa se fosse del
primo letto (come forse è più probabile) o del
secondo: e forse è questa la "donna giovane e gentile... di
propinquissima sanguinitade congiunta" all'A., cui il poeta accenna
in Vita nova XXIII, 11-12. Alaghiero era già morto nel 1283,
giacché in quell'anno l'A., diventato maggiorenne, come
orfano, a 18 anni, vendette un credito paterno. Nel 1277 aveva
provveduto al futuro matrimonio del primogenito, legandolo, secondo
un uso del tempo, a una figlioletta di Manetto Donati, Gemma (dello
stesso ceppo di Forese, Piccarda e Corso Donati, in vario modo
immortalati nella Commedia),cui Manetto assegnava la dote di 200
fiorini piccoli (Piattoli, 42, 146).
Dell'infanzia e adolescenza dell'A. non sappiamo nulla; ma l'essere
stato destinato, fin da fanciullo, al matrimonio, basterebbe ad
escludere ch'egli fosse stato chiuso quale novizio nel convento
francescano di S. Croce, come qualcuno vorrebbe secondo un'antica
tradizione. Non si esclude, invece, che possa aver frequentato le
scuole inferiori tenute dai religiosi, come pure non può
escludersi che possa essere stato suo maestro quel Romano " doctor
puerorum populi Sancti Martini",che appare in un documento del 1277.
Ma fin da giovinetto dovette studiare soprattutto da sé; e
dovette assai presto apprendere "per sé medesimo l'arte del
dire parole per rima"(Vita nova III, 9), se a 18 anni si
sentì l'ardire di rivolgersi a "molti... famosi trovatori in
quello tempo" col sonetto A ciascun'alma presa (ibid.).Che avesse
appreso l'arte del di-segno risulta da un passo della Vita nova
(XXXIV, 1); non si sa se anche la musica, sebbene sia certo che se
ne intendesse e dilettasse assai, e che fosse amico di musicisti e
cantori come Casella (Purg.II) e di artefici di strumenti come
Belacqua (Purg.IV). Il solo maestro di cui l'A. faccia menzione, con
espressioni di grande affetto e gratitudine, è Brunetto
Latini. Da lui dichiara solennemente d'aver appreso "ad ora ad
ora... come l'uom s'eterna" (Inf.XV, vv. 84-85); ma da queste
parole, prescindendo dalla controversa questione se il Latini tenne
veramente pubblico insegnamento di retorica, si desume soltanto che
il vecchio "dittatore", senza impartirgli un regolare insegnamento,
fu largo di occasionali ammaestramenti e incoraggiamenti verso il
giovane poeta di cui aveva compreso l'altezza dell'ingegno e
l'avidità di sapere e di gloria; e certamente della grande
versatilità ed erudizione di Brunetto non poco dovette
giovarsi, nella sua formazione, la mente enciclopedica dell'A., una
delle più vaste del Medioevo. Un sonetto (Non mi poriano)in
cui è un riferimento alla "Garisenda torre",trascritto da un
notaio bolognese nei suoi memoriali del 1287, fa ragionevolmente
supporre che intorno a quell'anno l'A. dovette essere a Bologna; ma
ogni altra ipotesi intorno alla durata e alle ragioni del soggiorno
è puramente arbitraria. Se realmente vi fu, ivi poté
meglio conoscere e apprezzare la nuova lirica iniziata da Guido
Guinizelli con la famosa canzone Al cor gentil;e in quel famoso
Studio, dove convenivano scolari da ogni parte d'Italia, poté
anche balenargli per la prima volta l'idea di un volgare illustre
italico -il fiore delle varie parlate regionali -,che
svilupperà più tardi nel De vulgari eloquentia.Certo
è che gli studi della sua adolescenza dovettero
prevalentemente essere orientati verso la poesia; e anche l'ambiente
favoriva l'impulso naturale del giovinetto, giacché nella
seconda metà del '200 in nessun'altra regione d'Italia la
lirica era coltivata con tanto amore come in Toscana, e specialmente
a Firenze. Ma non soltanto egli dovette cercare i poeti volgari
-italiani e provenzali -,ma anche, e con tanto maggiore entusiasmo
quanto più alta doveva avvertirne la perfezione artistica e
maggiore l'utilità all'acquisto del "bello stilo" che doveva
fargli onore, i poeti latini, specie Virgilio. I quattro latini
(Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano), che con Omero e l'A. stesso
formeranno nel IV canto dell'Inferno la "sesta compagnia"di grandi
poeti, sono già riuniti nel cap. XXV della Vita nova in
opposizione ai "grossi" rimatori volgari. C'è nell'opera
dantesca una continuità di studio devoto della lingua e
letteratura latina, che si deve far risalire ai primi corsi di
grammatica del giovinetto. E questo debito, che non sarà
soltanto di stile e di materia, verso la classicità
finirà per isolare l'A. maturo dagli altri poeti della sua
giovinezza, rimasti entro la tradizione e le esperienze della poesia
contemporanea.
Malgrado le condizioni difficili della sua famiglia e l'esser presto
rimasto orfano, l'A. poté, dunque, attendere liberamente agli
studi verso cui si sentiva portato. Veramente le sue prime rime sono
non più che esercitazioni di un tirocinante: il sonetto su
citato, composto a diciotto anni, appartiene alla forma e al gusto
delle corrispondenze poetiche, d'uso frequente allora, su questioni
d'amore; e una corrispondenza poetica ebbe con Dante da Maiano,
anch'essa ricalcata, nei concetti, nello stile, nella lingua, sui
modelli della tradizione siculo-toscana; e a questi stessi modelli
si riallacciano anche i componimenti inseriti nella Vita nova
precedenti le "nuove rime", specialmente quelli dei primi dodici
paragrafi. E tuttavia qua e là è possibile cogliere un
verso, un costrutto, la collocazione di una parola, una movenza, una
logica di svolgimento, che fanno presentire lo stile personalissimo
dell'Alighieri. Al sonetto A ciascun'alma presa rispose, tra altri,
Guido Cavalcanti: "e questo -racconta l'A. con tenerezza e
compiacimento -fue quasi lo principio de l'amistà tra lui e
me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò
mandato" (Vita nova III, 14). L'influsso esercitato sull'A. dal
Cavalcanti, maggiore di lui di circa dieci anni, famoso come poeta e
non meno ragguardevole come cittadino (era stato nel 1280, insieme
con ser Brunetto, uno dei cittadini delle opposte fazioni firmatari
della pace del cardinal Latino), fu certamente notevole, e non solo
nei riguardi della poesia, ma anche del pensiero speculativo, e
forse anche del costume. Per ciò che riguarda la poesia, sia
la maniera più ariosa e leggera delle rime dantesche
subentrata alla pesantezza della tradizione siculo-toscana (Guido,
i' vorrei; Per una ghirlandetta; Deh, Violetta),sia l'accento
drammatico della rappresentazione di un amore doloroso e pauroso (E'
m'incresce di me; Lo doloroso amor)si richiamano, pur
nell'indipendenza della realizzazione artistica, alla doppia
ispirazione della poesia cavalcantiana. Per quel che riguarda la
speculazione filosofica -anticipiamo qui, per completezza, una
notizia riguardante un periodo posteriore -non è possibile
escludere ogni relazione tra l'averroismo professato da Guido e le
tracce averroistiche nella filosofia dell'Alighieri. Quanto al
costume, è noto che il Cavalcanti fu, come lo descrisse Dino
Compagni, "sdegnoso e solitario e intento allo studio"; e tale -come
avviene nelle amicizie tra maggiori e minori di età -egli
avrebbe voluto fosse il suo più giovane amico, come attesta
indubbiamente il rimprovero "Solevanti spiacer persone molte, tuttor
fuggivi l'annoiosa gente",ch'egli rivolse all'A. nel noto sonetto I'
vegno il giorno a te,quali che siano esattamente le allusioni
specifiche. E forse l'esempio di Guido non si cancellò mai
dalla memoria dell'A., quando gli anni, le lotte, le sventure resero
anche lui, come il "primo de li suoi amici" (Vita nova III, 14),
sdegnoso e solitario e solo intento allo studio, come attestano
Giovanni Villani e il Boccaccio. Ma nel periodo della piena
"adolescenza", che, secondo le sue idee, finiva a venticinque anni,
egli non di-sprezzò affatto gli svaghi e le brigate mondane e
i corteggiamenti amorosi, tutto ciò, insomma, che appartiene
al costume normale di quell'età: la Vita nova,le Rime e la
stessa Commedia ci aiutano a formarci un'idea abbastanza esatta di
ciò; e del resto la gaiezza e gentilezza della Firenze di
allora, che attiravano forestieri da tutta Italia, dovevano favorire
anche nell'A. la socievolezza del costume; e a questo periodo deve
probabilmente riferirsi la lode di "usanza lieta e conversazione
giovanile" datagli da Leonardo Bruni nella Vita Dantis.Le donne
dello "schermo" della Vita nova adombrano certo persone realmente da
lui corteggiate, talvolta in modo così imprudente da dar esca
al pettegolezzo cittadino. Partecipava a feste e lutti di famiglie
amiche, a ritrovi mondani in genere, in città e in campagna;
scriveva elegantissime rime di galanteria amorosa, e, tra queste,
"una pìstola sotto forma di serventese"(Vita nova VI) in
menzione di sessanta belle donne fiorentine, nella quale pose al
nono posto Beatrice e al trentesimo quella che avrebbe voluto seco
nel vasello del buon incantatore, insieme con gli amici Guido e Lapo
Gianni e le loro amate (cfr. il sonetto su cit., Guido, i' vorrei,v.
10); ed era conosciuto e guar-dato con curiosità e interesse
dalle donne per qualche cosa di singolare che c'era in lui. Era
esperto di equitazione (nella battaglia di Campaldino sarà
tra i "feditori a cavallo"; e cfr. Vita nova IX, 7), ed anche di
caccia (Rime LXI), specialmente -parrebbe -di quella col falcone
(Inf.XVII, vv. 127-132; XXII, vv. 130-132; e quasi certamente anche
Par.I, v. 51). Le prime due cantiche della Commedia sono piene di
echi e memorie di questo periodo della sua vita, che indubbiamente
comprovano in lui "l'usanza lieta e conversazione giovanile",una
socievolezza che non disdegnava i contatti con nessun genere di
persone, per il desiderio istintivo di "divenir del mondo esperto e
delli vizi umani e del valore": e questo spiega e giustifica nel
poema l'informazione minuta, di piccola cronaca, su tanti personaggi
più o meno sconosciuti del suo tempo, che altrimenti sarebbe
rimasta appunto cronaca o, peggio, pettegolezzo. Documento
particolarmente notevole di questa scioltezza della sua vita
giovanile sono i tre sonetti della tenzone con Forese Donati,
cominciata probabilmente come scherzo, secondo certo cattivo gusto
del tempo, ma trascesa a velenose offese e calunnie, delle quali
l'A. volle fare esplicita ammenda in Purg.XXIII, vv. 85-93 e
115-117. Un riferimento, in uno dei sonetti di risposta di Forese,
alla morte di Alaghiero come di fatto -così pare -non molto
remoto, consiglia di assegnare alla tenzone una data non molto
posteriore al 1283.
In mezzo a un'adesione così piena -senza le aristocratiche
schifiltosità di Guido -alle varie forme della vita
cittadina, fiorisce nell'intimità del cuore dell'A. l'amore
per Beatrice, il fatto spirituale più importante della sua
vita, perché intorno ad esso, nella singolare evoluzione
ch'ebbe col tempo, si aggirerà, come intorno a fermo polo, il
mondo ideale, morale e religioso dantesco. La storia di questo
amore, un'esile trama -esteriormente -di pochissimi fatti, e per
sé stessi insignificanti, è interiormente assai
complessa, né in tutto facilmente accessibile alla nostra
mentalità: il che spiega i tentativi di interpretazioni
varie, intese a renderla in tutto razionalmente coerente. Ma occorre
farsi coevi del poeta, e seguire, con la docilità che
c'insegnano gli antichi suoi biografi e commentatori della
Commedia,illavorio della sua immaginazione che trasfigura a suo modo
la realtà, della sua volontà che trasfigura il
sentimento: così, quel che dapprima, in quella sua storia
amorosa, sembra irrazionale, apparirà nient'altro che il suo
particolare modo di interpretare e rappresentare il mondo esterno e
i moti interiori, non disforme dai modi della spiritualità
del suo tempo. Il poeta afferma (Vita nova II, 1-2; Purg.XXX, vv.
41-42) d'aver visto per la prima volta a nove anni Beatrice,
fanciulla quasi della sua stessa età, e di essere stato
immediatamente soggiogato dalla potenza di un amore sovrumano. Il
fatto dev'essere sostanzialmente vero; e non deve far
difficoltà la precocità di un sentimento così
intenso: un sentimento di eccezione in un temperamento di
eccezionale ricchezza sentimentale. La fervida immaginazione -egli
racconta -spingeva il precoce fanciullo spesse volte a cercare
l'amata, e gliela faceva apparire "non figliuola d'uomo mortale, ma
di Deo". A diciotto anni Beatrice per la prima volta lo
salutò e gli rivolse la parola: per l'A. fu la perfetta
"beatitudine". Il suo amore non cercava altro che la vista di lei e
il suo saluto. Sgomento e tremore nel sentirla vicina; poi, la
felicità sembrava superasse le capacità dell'anima:
felicità tutta e soltanto spirituale, perché la
perfetta bellezza di Beatrice aveva il potere di purificare, chi la
guardasse, da ogni vizio, e ispirare ogni virtù. Qualche
tempo dopo, per una leggerezza da parte dell'A., Beatrice gli tolse
il saluto. Il rapporto amoroso, già così distaccato e
immateriale, s'interiorizza del tutto e si sublima: prima, fonte di
beatitudine, ora Beatrice diventa oggetto di venerazione: l'A.
incomincia le rime della lode.
La morte precoce della giovane donna (8 giugno 1290) compie il suo
processo d'idealizzazione nel cuore del Poeta: viva, pareva cosa
venuta "di cielo in terra a miracol mostrare"; morta, egli la vede
splendente, fatta segno di onore nell'Empireo, una beata. Questa -
schematicamente -la storia del suo amore, secondo il racconto della
Vita nova:l'accompagnano, insieme con episodi di vita reale (la
morte di un'amica e poi del padre di Beatrice, la scena del
"gabbo"), visioni, incubi, sogni presaghi, deliri, che, anche a
volerli considerare soltanto come abbellimenti poetici, rivelano un
aspetto dell'immaginazione giovanile dell'A., la sua trepidante
mobilità fra il reale e l'irreale, che aiuta a comprendere la
singolarità di un amore ai confini fra la vita e il sogno,
fra il terrestre e
il trascendentale. L'idea o, meglio, il sentimento della
donna-angelo ha anzitutto (troppo spesso il dato storico fa
dimenticare il lato umano) un fondamento universale nella
trasfigurazione delle doti della persona amata che l'illusione
amorosa opera nel cuore, specialmente dei giovani innamorati;
storicamente, poi, era un dato acquisito, attraverso due secoli
circa di elaborazione, dalla spiritualità del tempo in cui
sorse e fiorì l'amore di Dante. Già lo spirito
cavalleresco, divulgato dai romanzi d'amore, aveva fatto della donna
del cuore l'ispiratrice delle imprese gloriose e della virtù;
e il culto di Maria, per l'impulso dato ad esso specialmente da
Bernardo di Chiaravalle e dai cisterciensi, aveva proposto al
sentimento -oltre la sfera religiosa -l'ideale della donna piena di
virtù, mediatrice tra il cielo e la terra. La poesia
provenzale, pur legata all'ambiente delle corti feudali e al
cerimoniale dell'amoroso vassallaggio, era talvolta giunta al
concetto del "fino amore", che dai sensi si eleva alla
contemplazione pura, disinteressata, della virtuosa bellezza
femminile, e a una devozione che ha qualcosa di religioso. Poi la
poesia siciliana e, in maggior misura, quella tosco-guittoniana si
erano interessate del problema di amore, e ne avevano avvertito
anche il lato spirituale e morale, Quando l'A., intorno ai
diciott'anni (la data precisa potrà essere stata aggiustata
per adattamento alla simbologia del 9), è per la prima volta
salutato da Beatrice, era già da parecchi anni apparsa, e
probabilmente aveva già avuto i suoi echi a Firenze, nelle
rime di Monte Andrea e Chiaro Davanzati, e dello stesso Guido
Cavalcanti, la canzone del Guinizelli Al cor gentil,che segna la
data ufficiale di nascita, nella letteratura, della donna
angelicata, ispiratrice e rivelatrice, per effetto della sua
bellezza, dei più alti sensi in un cuore nobile di amante,
miracolosa parvenza di Dio sulla terra, tale addirittura, -come lo
stesso Guinizelli afferma nel Sonetto Voglio del ver la mia donna
laudare -da convertire l'eretico alla fede cristiana, col suo
semplice saluto. Nell'interpretazione guinizelliana della bellezza
femminile l'A. trovò la rivelazione delle ragioni e
dell'essenza del suo amore: una chiarificazione intellettuale e
sentimentale, che consacrava il suo amore e lo sublimava.
Sicché il processo di angelicazione e beatificazione di
Beatrice, quale si svolse nello spirito dell'A. secondo il racconto
della Vita nova,è non solo un documento del suo temperamento
personale (meglio, di un aspetto del suo temperamento - quello
fortemente idealistico -),ma insieme anche un'espressione del clima
spirituale del suo tempo. Ma quel processo non si arrestò al
punto di arrivo del racconto dell'"amoroso libello": in questo
Beatrice beata è ancora la giovane donna fiorentina che il
poeta aveva veduta e amata dalla puerizia alla morte, una creatura
mortale salita al cielo: non si esce ancora, concettualmente, dalla
sfera dell'insegnamento guinizelliano e della poesia che l'A.
riconobbe trarre origine da esso e chiamò "dolce stil novo".
L'ultimo stadio del suo processo evolutivo si attuerà nella
Commedia,dove la donna mortale diventerà addirittura simbolo
della teologia. Forse a una trasfigurazione di questo genere l'A.
pensava già quando conchiudeva il racconto della Vita nova
con la dichiarazione di non voler più dire di Beatrice,
finché non potesse "più degnamente trattare di lei";
ma certo Beatrice come simbolo nacque insieme con l'idea della
Commedia.E in questa trasfigurazione conclusiva non operò
più, o non tanto, il sentimento, quanto piuttosto la
volontà. La Beatrice della Vita nova,nella sua perfezione,
aveva solo un valore personale: il poeta volle che avesse valore
universale. Ne aveva già fatto una beata: volle darle una
funzione di fondamentale importanza. Altri avevano glorificato la
loro donna angelicata: l'A. volle "dicer di lei quello che mai non
fue detto d'alcuna". E se si tiene presente il concetto della
donna-angelo e la sua missione catartica e edificante, sia in senso
morale sia in senso religioso, non deve parer strano che il Poeta
abbia fatto della sua Beatrice, per glorificarla massimamente, la
più sapiente mediatrice tra l'uomo e Dio, la maestra delle
cose divine, appunto la teologia. È l'estremo punto di arrivo
della strada iniziata dal Guinizelli; e non se ne vede altra
più naturale, più logicamente coerente. Questa fu la
novità dell'A.; e nello stesso tempo la conclusione - certo
assai pesante per il nostro gusto -di un processo così
interessante della spiritualità medievale in materia d'amore.
Ma chi non segua con la necessaria docilità, sulla scorta del
poeta stesso e nella temperie spirituale dell'epoca, l'evoluzione di
Beatrice, da fanciulla non ancora novenne a simbolo della teologia,
crederà di poter meglio risolvere quel che d'irrazionale, a
prima vista, appare nella trasformazione di persona viva in
un'astrazione, negando l'esistenza reale della persona stessa, e
interpretando Beatrice come un mero simbolo fin dall'inizio. I dubbi
sulla storicità di Beatrice cominciarono col Filelfo nel
'4oo; ma nessuno dei molteplici tentativi di un'interpretazione
simbolica è riuscito a risolvere senza gravi e inaccettabili
arbitri tutti i problemi ad essa attinenti. Troppi sono, invece, gli
argomenti in favore dell'esistenza storica di Beatrice, troppi gli
elementi realistici della storia amorosa narrata dall'A.: e
basterebbe il familiare accorciativo "Bice", che appare nel sonetto
Io mi senti' svegliar,in Vita nova XXIV, incompatibile con la
dignità e il valore di un simbolo. L'esistenza terrena di
Beatrice si afferma imperiosamente persino nella Commedia,dove
ideologicamente essa dovrebbe essere soltanto puro simbolo, e
appare, invece, non diversamente da Virgilio, insieme simbolo e
persona storica. Che poi sia stata, come vuole una tradizione non
priva di fondamenti, Bice Portinari, figlia di messer Folco, molto
ragguardevole cittadino, che abitava poco distante dalle case degli
Alighieri, è questione secondaria. Bice Portinari andò
sposa, giovanissima, a Simone di Geri de' Bardi; ma ciò non
farebbe difficoltà: secondo le teorie del tempo, il
matrimonio non costituiva impedimento all'amore estraneo: in
sostanza, il "valore" che si celebrava nella donna era qualcosa di
assoluto, fuori di ogni rapporto e condizione sociale; e Beatrice,
chiunque sia stata, fu per l'A. più un'immagine ideale di
bellezza femminile, proiezione del suo sentimento di amore e della
sua religiosità, che non la donna che realmente fu. E appunto
per ciò, anche dopo morta, anche allo spegnersi dei palpiti
giovanili nel cuore dell'A., la memoria di quella bellezza santa,
accompagnata da ineffabile gratitudine per le dolcezze di Paradiso
gustate per essa, restò inalterati nel suo antico amatore, un
punto fermo nella coscienza del poeta, attraverso il mutare delle
sue esperienze di vita pratica e spirituale. E quel che di vivo ci
sarà nella teologale Beatrice della Commedia sarà
appunto il riflesso sentimentale, che illumina la sua figura, di
questa costante memoria e gratitudine del poeta maturo.
Per completare il quadro degl'interessi, sentimenti, occupazioni di
questo periodo della sua vita, quale abbiamo tracciato sulla scorta
degli elementi forniti direttamente dalle sue opere, dobbiamo
aggiungere che ben presto -sebbene a questo riguardo gli elementi
diretti ci manchino egli dovette interessarsi, e vivamente, della
vita pubblica della sua città. Come si è detto, il
padre, Alaghiero, era rimasto appartato da essa; ma vi partecipavano
ancora certamente gli zii Brunetto (Piattoli, 44) e Geri e Cione del
Bello (Piattoli, 44, 45,46,61,62, 70); avrà avuto pressappoco
la sua età il cugino Cione di Brunetto, che nel 1306 compare
tra i ghibellini tassati per la guerra condotta dal Comune contro di
essi a Montaccenico (Piattoli, 97); suoi amici erano Brunetto Latini
e Guido Cavalcanti, entrambi ragguardevoli rappresentanti della vita
politica fiorentina del tempo, e il primo non solo ufficiale del
Comune, ma anche attento trattatista di scienza politica, proclamata
da lui "la plus noble et haute science", nell'ultimo libro del suo
Trésor.Né è possibile prescindere dall'ambiente
cittadino, tutto saturo di fermenti politici. L'A era prossimo ai
quindici anni quando, con solenne e spettacolare cerimonia, in
piazza di S. Maria Novella, fu giurata la pace, lungamente e
tenacemente preparata dal cardinale Latino Malabranca, nipote di
Niccolò III Orsini, tra i guelfi e i ghibellini di Firenze
(18 febbr. 1280). La pace durò poco, e i ghibellini, oppressi
dalla maggioranza guelfa che manteneva la Signoria, uscirono dalla
città. Il Comune rinnovò allora le sue istituzioni.
Nell'82 furono creati i priori, scelti, uno per ogni sesto, fra i
cittadini più ragguardevoli delle Arti maggiori: la loro
sede, dalla quale non dovevano muoversi per tutto il bimestre del
loro ufficio, fu dapprima presso le case degli Alighieri, nella
torre della Castagna; e tra i primi priori fu Folco Portinari.
Nell'81 era passata per Firenze, molto festeggiata, come speranza di
pace tra potentati avversi, la piccola Clemenza, figlia
dell'imperatore Rodolfo d'Asburgo, che andava a Napoli come sposa
del novenne Carlo Martello, figlio del primogenito di Carlo
d'Angiò. Il quale ultimo vi passò a sua volta nel
marzo dell'83, diretto in Francia, dove avrebbe dovuto risolvere,
con un duello che non fu mai fatto, la vertenza col re Pietro
d'Aragona, per il possesso della Sicilia, da lui perduto dopo
l'insurrezione dei Vespri, e tenuto dall'altro. Nell'autunno dello
stesso anno vi passò anche il figlio, il futuro Carlo XI il
Ciotto, che nell'anno successivo doveva cadere prigioniero degli
Aragonesi nella battaglia del golfo di Napoli (Purg.XX, v. 79). Tra
l'82 e l'83 era stato capitano del Comune un nobile e gentile
signore di Romagna, Paolo Malatesta. Nell'84 Firenze strinse
alleanza con Genova e Lucca per abbattere Pisa; ma il conte Ugolino,
ch'era podestà di questa, seppe abilmente farla staccare
dalla lega, cedendo alcuni castelli (1285). La morte di Carlo I
d'Angiò (1285) e la prigionia del suo successore, liberato
soltanto quattro anni dopo, facevano intanto decadere il prestigio
degli Angioini e risorgere la parte ghibellina. Firenze, anima della
lega guelfa, n'era preoccupata. Arezzo, venuta nelle mani dei
ghibellini, diventava minacciosa: nell'86 toglieva a Siena Poggio a
Santa Cecilia, e Firenze si affrettava ad aiutare i Senesi a
riacquistarlo. Si preparava la guerra. Ma anche a Pisa trionfava la
parte ghibellina con l'arcivescovo Ruggieni Ubaldini, che dapprima
aveva inimicato tra loro il conte Ugolino e suo nipote Nino
Visconti, già dal conte associato nel governo, provocando
così la cacciata di Nino, poi, il 1º luglio 1288, aveva
a tradimento imprigionato il conte stesso con tre figliuoli e due
nipoti, facendoli, dopo otto mesi, morire di fame. Nino, accolto
ospitalmente a Firenze, era divenuto uno degli organizzatori della
guerra ch'essa doveva fare anche contro Pisa. Intanto il 2 maggio
dell'89, reduce dalla prigionia, era di nuovo passato per Firenze,
per rientrare nel suo regno, Carlo II d'Angiò, accolto con
feste grandiose, perché il risorgere degli Angioini dava
sicurezza alla città; e vi aveva lasciato come capitano per
la guerra un giovane cavaliere dal nome leggendario, Amerigo di
Narbona. Una battaglia campale decisiva era desiderata sia dai
guelfi grandi fiorentini, che speravano di trarne vantaggi politici,
sia dagli Aretini, che avevano con loro il fiore dei ghibellini
fuorusciti. E si venne alla battaglia di Campaldino. Sono fatti e
personaggi contemporanei all'"adolescenza" dell'A., che rivivono nel
mondo della Commedia,come rivivono sia "l'ovra e li onorati nomi"
dei Fiorentini dell'età anteriore, da lui ricercati e appresi
ad amare e a riverire (Inf.XVI, vv. 58-60), sia l'eco di ricordi
ancora più remoti, evidentemente già scoloriti nella
memoria stessa dei suoi informatori. E che l'A. dovette molto presto
interessarsi alla storia e alla vita politica della sua
città, crediamo anche per un'altra ragione, più
profonda dell'influenza che poterono esercitare su lui parentele,
amicizie, ambiente, avvenimenti: ed è che la passione
politica fu congeniale col suo temperamento, una necessità
della sua coscienza, non chiusa nell'ambito e nella coltivazione del
proprio io, ma aperta a tutte le forme della vita associata,
sollecita delle sorti di tutta l'umanità. Le lotte di parte,
nelle quali, come vedremo, fu trascinato per qualche tempo, e
l'esilio non giustificherebbero abbastanza la natura della sua
passione politica, che in lui, superando il fatto personale, assunse
la forma pura e disinteressata di una missione universale e l'ardore
dei profeti e dei riformatori. Comunque, la prima notizia sicura
della sua partecipazione alla vita del Comune si riferisce al suo
intervento appunto alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289). La
notizia è tramandata da Leonardo Bruni sia nelle sue Historie
di Firenze, sia nella Vita Dantis.Il Bruni, segretario della
Repubblica fiorentina, trovò nell'archivio del Comune
un'epistola dell'A., per noi perduta, nella quale il poeta
rammentava, dall'esilio, d'aver preso parte a quella battaglia
combattendo a cavallo nella prima schiera, con gravissimo pericolo,
avendo avuto dapprima "temenza molta, e nella fine grandissima
allegrezza". La "temenza" dovrà riferirsi al fatto che
all'inizio della battaglia "i feditori degli Aretini si mossono con
grande baldanza a sproni battuti a fedire sopra l'oste de'
Fiorentini","e fu sì forte la percossa che i più de'
feditori de' Fiorentini furono scavallati"(G. Villani, VII, 131). Ma
i cavalieri aretini, incuneatisi tra le schiere nemiche che
rinculavano, rimasero isolati dal resto dei loro: frattanto le due
ali della lega guelfa avanzarono, si mosse anche audacemente Corso
Donati, che, contravvenendo all'ordine precedentemente ricevuto di
non muoversi, coi suoi 200 cavalieri pistoiesi (era allora
podestà di Pistoia) assalì i nemici di fianco, e
l'iniziale successo degli Aretini si trasformò in una
tremenda sconfitta, che segnò il definitivo e assoluto
trionfo della parte guelfa in Firenze. Perirono nella battaglia
quasi tutti i capi ghibellini, tra i quali il comandante
dell'esercito, Buonconte da Montefeltro. Di questo, nella raccolta
dei cadaveri per la sepoltura, non si trovò il corpo: e al
ricordo delle vane ricerche fatte sul campo evidentemente è
legato il noto episodio del Purgatorio (V, vv. 91-129), come pure un
ricordo vivo è certamente il racconto del violento temporale
seguito alla battaglia (ibid.).Dopo la quale si fecero scorrerie nel
territorio aretino, senza risultato positivo; si riprese anche la
guerra contro Pisa, e il 16 agosto dello stesso '89 fu costretto
alla resa il castello pisano di Caprona. A tutti questi fatti d'arme
partecipò sicuramente anche l'A. (Inf.XXII, vv. 4-5;XXI, vv.
94-96). Comandava l'esercito della lega guelfa a Caprona Nino
Visconti: la cordialità dell'incontro fra Nino e il poeta,
nella val-letta dei principi (Purg.VIII, vv. 52-55),non può
non riflettere una reale cordialità di rapporti stabilitasi
fra i due, verosimilmente in quella circostanza.
Dalla morte di Beatrice, avvenuta, come si è detto, l'8
giugno 1290, al soggiorno di Carlo Martello a Firenze nel marzo
1294, non si hanno notizie attinenti alla vita pratica del poeta,
fuorché quella insignificante della sua presenza quale
testimone in un atto notarile del 1291. Anni importantissimi,
invece, per la sua vita intellettuale, stando al racconto del
Convivio,perché durante questi anni avvenne un ampliamento
degl'interessi culturali, quasi un mutamento d'indirizzo nei suoi
studi, che ora, dalla poesia, si volgono alla filosofia e alle
scienze. Racconta l'A. nel Convivio (II, xii, 1-7) che, perduta
Beatrice ("lo primo diletto de la sua anima"), rimase "di tanta
tristizia punto, che conforto non gli valea alcuno", finché
la sua mente, "che si argomentava di sanare", gli suggerì di
ricorrere "al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi";
"e -così continua -misimi a leggere quello non conosciuto da
molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato
s'avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel
quale, trattando de l'amistade, avea toccato parole de la
consolazione di Lelio... ne la morte di Scipione amico suo, misimi a
leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne
la loro sentenza, finalmente v'entrai tanto entro, quanto l'arte di
gramatica [cioè, la conoscenza del latino] ch'io avea e un
poco di mio ingegno potea fare... E sì come essere suole che
l'uomo va cercando argento, e fuori de la 'ntezione truova oro...,
io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime
rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali
considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di
questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma
cosa... E... cominciai ad andare là dov'ella si dimostrava
veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le
disputazioni de li filosofanti; sì che in picciol tempo,
forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza,
che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero". E fu
allora così assiduo il suo "studio di leggere" che gli si
affaticò la vista tanto "che le stelle gli pareano tutte
d'alcuno albore ombrate", e, per rimettersi, fu costretto a "lunga
riposanza in luoghi oscuri e freddi" (Conv.III, ix, 15-16).Che l'A.
con questo racconto abbia voluto dare all'amore per la filosofia un
colorito eroico, per giustificare meglio il distacco dall'amore di
Beatrice, non può essere messo in dubbio. Non è
verosimile, infatti, che prima della morte di Beatrice l'A. fosse
del tutto digiuno di filosofia e di scienze; solo avrà avuto
per esse un interesse molto minore che per la poesia: e ciò
infatti ammette egli stesso nel luogo citato del Convivio (II, xii,
4), attribuendo al suo ingegno naturale una certa intuizione di
quelle discipline: "per lo quale ingegno molte cose, quasi come
sognando, già vedea, sì come ne la Vita nova si
può vedere". Comunque, si può convenire che tra il '91
e il '95 l'A. dovette dedicarsi, con tutto l'ardore del suo
temperamento avido di sempre nuove esperienze intellettuali, ad
estendere e approfondire la sua cultura filosofico-scientifica.
Scuole di religiosi famose a Firenze erano allora specialmente
quella dei francescani a Santa Croce e lo Studium solemne,poi
generale,dei domenicani a S. Maria Novella: nella prima si
"leggevano" specialmente s. Agostino, i mistici, s. Bonaventura: vi
aveva insegnato dal 1287 al 1289 Pietro di Giovanni Olivi, ardente
propugnatore della povertà francescana, del quale era
discepolo Ubertino da Casale, che fu capo dei francescani
spirituali, allora considerato quasi un profeta e riformatore, ma
sfavorevolmente giudicato dall'A. (Par.XII, vv. 124-126); nel
secondo s'illustravano le opere di s. Tommaso e di Alberto Magno; vi
era stato lettore e vi era poi tornato come predicatore, con grande
successo, fra Remigio Girolami, discepolo di s. Tommaso. Quanto alle
"disputazioni de li fliosofanti", l'A. alluderà probabilmente
a conferenze e dibattiti che si saranno tenuti anche a Firenze, come
risulta si tenessero altrove, su questioni scientifiche e
filosofiche, e forse anche alle conversazioni e dispute amichevoli
tra uomini di scienza, tra i quali ci sarà stato Brunetto
Latini, se non anche il solitario e sdegnoso Guido Cavalvanti. Certo
è che da quell'epoca l'esigenza speculativa diventò in
lui non meno, anzi talvolta più profonda e urgente
dell'istinto poetico, che ne rimase non di rado soffocato. Il che
non vuol dire che da questi studi e da questa esigenza speculativa
sia venuto fuori un pensatore originale, un autentico filosofo o
scienziato, paragonabile, magari alla lontana, per grandezza, al
poeta. Lo riconosce l'A. stesso, che in Convivio I, 1, 7 e 10,
dichiara modestamente di non essere di "quelli pochi che seggiono a
quella mensa dove lo pane de li angeli [cioè, la sapienza] si
manuca", ma di raccogliere "a' piedi di coloro che seggiono di
quello che da loro cade". E il maggior merito che si deve
riconoscere alla sua speculazione e dottrina è ch'esse
suggerirono alla sua fantasia e al suo sentimento originali e
suggestivi motivi di poesia. Comunque, dagli studi intrapresi e
perseguiti con tanto ardore egli venne in possesso di un sapere
enciclopedico immenso; e, nei riguardi di questo sapere, si
può con sicurezza affermare ch'egli non fu un ripetitore
pedissequo del pensiero altrui, e tanto meno di un solo maestro,
fosse pure grandissimo come s. Tommaso o Aristotele. Questi due,
specie il secondo, esaltato in tutta l'opera dantesca come "il
maestro di color che sanno", furono di fatto i suoi maggiori
maestri; ma sul saldo tronco aristotelico-tomistico egli ammise
innesti di altre dottrine, e persino di opinioni contrarie ai due
maestri, perché egli cercò il possesso della
verità per tutte le vie, attraverso tutte le dottrine di cui
venne a conoscenza, non escluse quelle che rischiavano di
allontanarlo dalla stretta ortodossia religiosa. La sua potente
personalità, l'ingegno altrettanto potente e di carattere
universale, l'immensa avidità di sapere, e anche il modo
stesso della sua formazione intellettuale, indipendente da ogni
scuola e maestro, diedero al suo intelletto la massima
libertà di assorbimento dalle varie fonti della sua cultura,
e fecero di lui un pensatore eclettico.
Non abbiamo elementi sufficienti per seguire ordinatamente il
progresso dei suoi studi. Agli anni di cui stiamo parlando (1291-95)
appartiene la composizione della Vita nova;e in questa egli cita
esplicitamente la Metafisica di Aristotele (XLI, 6), Tolomeo (XXIX,
2), e parecchie volte la Bibbia;e ancora, oltre ai quattro grandi
poeti latini, Omero (II, 8; XXV, 9). Ma le citazioni fatte dall'A.
stesso non sempre derivano da conoscenza diretta delle opere, come
l'assenza di citazioni non prova l'ignoranza di altre. Per restare
alla Vita nova,le due citazioni di Omero (Iliade XXIV, 259 e Odissea
I,1)derivano l'una dall'Etica di Aristotele, che non è
citata, l'altra dalla citata Poetica di Orazio: egli non conosceva
il greco, e non c'erano allora, secondo la sua stessa attestazione
(Convivio I, vii, 15), traduzioni latine dei poemi omerici; e
così gli accenni al calendario "secondo l'usanza d'Arabia...
e di Siria" (XXIX, 1) provano ch'egli già conoscesse molto
bene l'astronomo arabo Alfragano, benché non lo citi (lo
citerà, però, nel Convivio,con esplicito riferimento
al libro dell'Aggregazioni de le stelle);e così pure non
è citato Boezio, che, come si è visto, poco dopo la
morte di Beatrice, lo aveva iniziato agli studi filosofici, e gli
aveva suggerito, con la mescolanza di prosa e di versi della sua
Consolazione,proprio il modello per il suo libretto amoroso.
Così, in tutta la sua opera filosofico-scientifica egli non
cita di s. Tommaso (e l'esaltazione fattane nei canti X, XI, XIII,
XIV del Paradiso è la prova più eloquente del
particolare studio e amore dedicato all'opera sua) se non il
commento all'Etica aristotelica e la Summa contra gentiles;ma tutta
l'opera stessa dimostra -secondo gli studi più attendibili
-ch'egli conobbe assai bene sia l'altra Summa,quella theologica,sia
gli altri commenti e ad Aristotele e ai libri della Bibbia,sia
opuscoli quali il De regimine principum.Di Alberto Magno, il maestro
di Tommaso, cita il commento alle Meteore,i libri De la natura de'
luoghi, De le proprietadi de li elementi, De lo intelletto;ma,
scrive il Nardi (La filosofia di Dante,in Grande antologia
filosofica,IV, Milano 1954, p. 1156) "egli conosce sicuramente anche
altri scritti e segnatamente il commento al De somno et vigilia,e il
De natura et origine animae,come appare da raffronti sicuri ed
evidenti"; e dai commenti aristotelici di Alberto lo stesso studioso
crede "derivino quasi tutte le citazioni ch'egli fa di filosofi
arabi, e particolarmente quella di Alpetragio" (ibid.,p. 1157: dei
filosofi e scienziati arabi l'A. cita -oltre Alpetragio -Algazel,
Albumasar, Avicenna, Averroè). Ma il filosofo che l'A. cita
incomparabilmente più spesso di ogni altro, si può
dire continuamente, è Aristotele, e non soltanto dall'Etica e
dalla Fisica,che in Inferno XI, vv. 80 e 101, egli proclama
addirittura "sue", ma da quasi tutte le altre opere, delle quali
esistevano almeno due traduzioni latine; e se si aggiungono le
altissime lodi che l'A. fece di lui, chiamandolo non solo "il
maestro di color che sanno", ma anche "il mio maestro", il "maestro
e duca de la ragione umana" e "de la nostra vita", e definendo la
sua dottrina "quasi cattolica opinione", si può affermare che
Aristotele fu per l'A. nella sfera del sapere quello che Virgilio fu
nella sfera della poesia. Di Platone, invece, non pare avesse
conoscenza diretta, fuorché del Timeo.Notissimo gli fu il
Liber de causis,già attribuito ad Aristotele (ma non mai
dall'A.), riassunto dell'Elementatio theologica del neoplatonico
Proclo. Di Cicerone, oltre all'"Amistade" nel luogo su riferito del
Convivio,cita il De finibus,il De inventione,il De officiis,i
Paradoxa,il De senectute.Di Seneca cita il De benefficiis e le
epistole a Ludilio, e a lui attribuisce, come tutti al suo tempo,
due opere, De quatuor virtutibus e Remedia fortuitorum,che
appartengono, invece, a Martino Dumiense (l'A. non pare conoscesse
se non il "Seneca morale": il Seneca tragico è noto invece
all'autore dell'epistola a Cangrande). Sono citati, per la scienza
medica, i Tegni (cioè la Τέχνή ἰατρική) di Galeno e gli
Aforismi di Ippocrate. Degli scrittori ecclesiastici più
antichi cita Dionisio Areopagita, s. Agostino, s. Girolamo; degli
scolastici, oltre all'Aquinate e ad Alberto Magno, cita Gilberto
Porretano e Pietro Lombardo. Da notare l'assenza di citazioni dai
mistici (s. Bernardo, Ugo e Riccardo da S. Vittore -quest'ultimo,
però, citato nell'epistola a Cangrande Gioacchino da Fiore,
s. Bonaventura), autori che senza dubbio dovette conoscere
direttamente, e, almeno al tempo della composizione del
Paradiso,avere particolarmente familiari. Questa,
approssimativamente, la ri-costruzione della biblioteca
filosofico-scientifica, e questi gli autori sui quali si
formò il mondo dottrinale di Dante. Innanzi ai quali (non
sembri superfluo ricordarlo) è da porre la Bibbia
-fondamento, guida suprema e norma inderogabile non solo del
pensiero teologico, ma di ogni filosofia e di ogni scienza nel
Medioevo -,che l'A. possedette interamente come pochi, facendo di
essa senza dubbio il nutrimento più sostanziale e del suo
intelletto e del suo sentimento.
Ma nel processo formativo del suo mondo dottrinale ci fu un momento,
non esattamente precisabile nel tempo, né nei suoi elementi e
termini spirituali, in cui la speculazione filosofica rischiò
di far deviare l'A. dalla stretta ortodossia religiosa, fino al
punto da sembrare, più tardi, al Poeta, rievocando quel
periodo, d'essere stato sulla soglia della morte eterna dell'anima.
A questa crisi d'ordine intellettuale e religioso sono legati
l'allegoria fondamentale della Commedia (smarrimento del poeta nella
selva oscura, donde la necessità del viaggio di espiazione e
ammaestramento nell'oltremondo) e i rimproveri di Beatrice sulla
vetta del Purgatorio: sicché dall'interpretazione e
precisazione di essa discende l'interpretazione non soltanto di
alcuni accenni del poema ad essa relativi, ma dell'ispirazione
fondamentale del poema stesso; e discende anche una valutazione
alquanto diversa del mondo interiore e della personalità di
Dante. Per il Barbi non si sarebbe trattato di una crisi
filosofico-religiosa, ma solo di un traviamento morale in senso
lato, comprendente l'errore "di aver curato troppo le cose terrene
in confronto dell'amore che si deve al primo Bene", tra le quali la
"scienza mondana", considerata "non già una colpa a
sé, di orgoglio filosofico",ma una sola colpa con tutti gli
altri desideri di vanità mondane; sicché "il
rimprovero di Beatrice a Dante per aver seguitato una scuola diversa
dalla sua" (Purg.XXXIII, vv. 85-87) ritornerebbe "a quello per la
'pargoletta' e per le 'altre vanità' genericamente designate
nel XXXI del Purgatorio"(Razionalismo e misticismo,in Studi
danteschi XXI, 1937, pp. 19-34). Noi riteniamo, con altri studiosi,
quali il Pietrobono e il Nardi, che, quando Beatrice, che è
simbolo della teologia, cioè dell'ortodossia religiosa, parla
di una "scuola" e di una "dottrina" seguite dall'A., lontane dalla
sua quanto la terra dal Primo Mobile, e induce l'A. a confessare
d'essersi "straniato" da lei, e conchiude il suo lungo rimprovero,
iniziato nel canto XXX, col ribadire la "colpa" insita in quel suo
straniarsi, riteniamo che non si possa dare alle parole di Beatrice
il significato generico sostenuto dal Barbi, invece del valore di
riferimento preciso a una "scuola" e a una "dottrina" lontane dalla
teologia cattolica. Negando la realtà o gravità di un
traviamento filosofico-religioso nell'A., e limitando all'eccessiva
cura delle cose mondane il dramma spirituale allegorizzato nel suo
smarrimento entro la selva, viene indebolito il valore drammatico e
il significato ideale del viaggio oltremondano, il quale rappresenta
un interiore processo non solo dal vizio alla virtù, ma anche
- anzi essenzialmente -dall'ignoranza e dall'errore alla conquista
della verità, processo che culmina e si risolve nella
conquista della suprema verità che è Dio.
Ma anche se si volesse così impoverire il concetto
ispiratore, il dramma ideologico della Commedia,vi sono nell'opera
dantesca troppi e troppo gravi indizi per poter mettere in dubbio
l'esistenza di un traviamento intellettuale dell'A. in senso
religioso, quale che ne sia stata la durata e la gravità; a
cominciare dal fondamentale dato strutturale del poema per cui
Beatrice è guida necessaria alla redenzione dell'A. dagli
errori appunto filosofico-religiosi in cui egli era caduto, come
Virgilio nei riguardi delle colpe morali. E se si potesse con
sicurezza interpretare il simbolo di Medusa, invocata dalle Furie
davanti alle mura della città di Dite (Inf.IX, vv. 52-60),
come quello del dubbio pietrificante, avremmo un'allusione molto
significativa, di carattere -parrebbe -evidentemente personale,
nella premura con cui Virgilio non solo si affretta a comandare al
suo alunno di volgersi indietro e chiuder gli occhi, ma lo fa
voltare lui stesso, e, non contento che Dante si sia coperto gli
occhi con le mani, vi sovrappone le sue. Più sicura e
scoperta -quanto è possibile in concezioni criptoformi di
questo genere -è l'allusione personale nell'episodio di
Cavalcante Cavalcanti nel X dell'Inferno.Attribuendo a Cavalcante
l'opinione che pari dovesse essere la sorte del figlio Guido e del
suo amico, il poeta doveva avere le sue buone ragioni, che è
assurdo pensare limitate alla parità dell'ingegno in fatto di
poesia, come dimostra anche la risposta dell'A., la quale è
una rettifica di quell'opinione; non più pari la sorte dei
due amici, perché egli, a un certo momento, si era posto a
seguire Beatrice, e Guido no. Ma, al di là di siffatti indizi
allusivi, è lecito, penetrando nel vivo del pensiero
filosofico dell'A., precisare intorno a quali problemi metafisici e
religiosi si affaticasse la sua mente con un'insistenza e
un'inquietudine tali da far vacillare per alcun tempo in lui la fede
dogmatica. Uno è quello relativo alla giustizia divina, che
-secondo l'ortodossia cattolica -condanna all'Inferno chi, senza
colpa, anzi anche osservando tutte le virtù cardinali, non
ebbe la fede cristiana perché materialmente non ne ebbe
conoscenza (Monarchia II, vii, 4-5; Par.XIX, vv. 67-84). Un altro
problema, che dovette essere per l'A. fonte di dubbi insistenti,
come dimostrano i molti luoghi in cui egli ne tratta (Conv.IV, xxii,
4-10; Monarchia I, xii, 1-6; Purg.XVI, vv. 67-81, XVII, vv. 91-102,
XVIII, vv. 40-75; Par.V, vv. 19-24), è quello del libero
arbitrio, fondamento del giudizio morale, e, quindi, della
legittimità del premio e castigo nell'oltretomba. Ancora un
altro grave e pericoloso problema, che poteva condurre alla
negazione dell'immortalità dell'anima individuale, e, quindi,
dell'oltretomba, dovette non poco affaticare la mente di Dante:
quello sulla natura e funzione dell'intelletto possibile.
Esplicitamente, riguardo a questo problema, l'A. accetta un'opinione
di Averroè, secondo cui l'intelletto possibile non può
essere interamente attuato (e quindi il sapere umano non può
essere interamente conquistato) da un solo uomo, ma da tutto insieme
il genere umano (Monarchia I, iii, 6-9). Ma il pericolo grave della
dottrina averroistica era l'opinione che l'intelletto possibile
fosse un'intelligenza unica, universale, che si separava, alla morte
dell'uomo singolo, dalla sua anima, a cui era stata congiunta solo
per il tempo della vita. A questo pericolo alludono le parole di
Stazio a Dante ("quest'é tal punto, che più savio di
te fe' già errante", Purg.XXV, vv. 62-63), delle quali non
sarebbe giustificata la formulazione, se non implicassero il
riferimento a una temporanea caduta dell'A, stesso, esplicitamente
chiamato in causa, nell'errore di Averroè. E se si pensa
all'alta stima che l'A. dimostra per questo filosofo, di cui accetta
più di una opinione, e se si tiene nel debito conto la sua
stretta amicizia con Guido Cavalcanti, imbevuto di averroismo, si
può a buon diritto concludere, anche per questa via, che per
un certo tempo il pensiero filosofico dell'A. non dovette essere
lontano da quello del suo amico. Infine, un altro problema sappiamo
aver profondamente turbato la sua mente: quello "se la prima materia
de li elementi era da Dio intesa". Racconta nel Convivio (IV, 1,8)
ch'esso gli parve così arduo da distoglierlo per un poco
dagli studi filosofici: la soluzione non ortodossa dell'arduo
problema portava a una limitazione o della creazione o
dell'onniscienza divina, opinioni contrarie alla fede. Sono, come
dicevamo, troppi e troppo gravi tutti questi indizi, allusioni e
confessioni di dubbi che hanno attinenza col credo religioso, per
non concludere che nel periodo più intenso dei suoi studi
filosofici, la presunzione, ch'egli ebbe, di tentare di risolvere
con le sole forze dell'intelletto, indipendentemente dalla dottrina
rivelata, i più ardui problemi metafisici e religiosi dovette
condurlo probabilmente alla soglia del dubbio, e certamente farlo
deviare dalla stretta ortodossia cattolica. Perfino più
tardi, scrivendo il Paradiso,quei problemi gli si presenteranno
ancora nella loro palpitante drammaticità, anche se egli
chinerà la fronte in un atto di fede nella imperscrutabile
bontà, sapienza e giustizia di Dio. È questo il
periodo della sua "follia", per la quale fu sì presso alla
morte spirituale che "molto poco tempo a volger era", il periodo in
cui "tanto giù cadde, che tutti argomenti alla salute sua
eran già corti", come affermano concordemente Virgilio e
Beatrice (Purg.I, vv. 59-60; XXX,vv. 136-137). Il suo inizio e la
sua durata, come, d'altra parte, il modo del ravvedimento, sono il
segreto della vita interiore di Dante. Ma, se si tien conto della
confessione del suo smarrimento nella valle, ch'egli fa a Brunetto
Latini, morto nel 1294, e della data dell'immaginario viaggio
oltre-mondano (1300), sembra giusto collocare la sua crisi
filosofico-religiosa entro queste due date. Coloro che questa crisi
fanno durare fino all'interruzione del Convivio (1308), o alla
composizione della Monarchia (1312-13?) trascurano arbitrariamente e
senza alcun motivo la data assegnata dal poeta al suo viaggio di
redenzione (L. Pietrobono, B. Nardi). Sarà da ritenere,
piuttosto, che la crisi non dovette durare a lungo, e che dovette
risolversi in un'epoca più vicina al 1294 che non al 1300.
Insieme con quell'insaziabile avidità di sapere, che non lo
faceva arrestare davanti ai dubbi più pericolosi, c'era
nell'A. un'esigenza non meno ardente di verità assolute e
incrollabili: ed egli doveva necessariamente presto riconoscere che
solo nella fede era possibile trovarle, non nella scienza mondana,
con le sue soluzioni insufficienti e contraddittorie. E forse
appunto perché conquistata attraverso il dubbio e la
delusione, la sua fede religiosa trasse il carattere di assoluta
necessità razionale e di suprema pacificatrice
dell'intelletto. Il che non fece affatto dell'A, un mistico, ma solo
un credente di granitica fede: il convinto riconoscimento, da parte
del credente, dei limiti della ragione a risolvere i problemi ultimi
non avvilì mai, agli occhi del pensatore, la nobiltà
della mente umana, "fine e preziosissima parte de l'anima che
è deitade" (Conv.III, ii, 19). Perfino scrivendo il Paradiso
esalterà la potenza dell'umano intelletto, affermando, con la
stessa baldanza del Convivio,che, attraverso il dubbio rampollante
dalle verità acquisite, l'impulso naturale "al sommo pinge
noi di collo in collo", cioè alla vetta del sapere. Tutta,
del resto, la Commedia,che dovrebbe riflettere, secondo alcuni
critici, l'atteggiamento mistico assunto dall'A. dopo l'esperienza
razionalistica, prova, al contrario, ch'egli non rinnegò mai
il valore altissimo e l'uso continuo della "più nobile parte"
dell'uomo, la ragione, dalla quale chi "si parte... non vive uomo,
ma vive bestia" (Conv.II, vii, 3-4). Virgilio, che nel poema
simboleggia la ragione umana e la filosofia, è sollecitato da
Beatrice a soccorrere Dante, e lo guida per i due terzi del suo
viaggio oltremondano. Né l'A. abbandona nel poema la
filosofia scolastica per la mistica: perfino facendo a s. Pietro la
sua professione di fede, egli non rinunzia alle "prove fisice e
metafisice" dell'esistenza di Dio, accanto alle Sacre Scritture;
accanto alle quali, ancora una volta, mette i "filosofici argomenti"
e "l'intelletto umano", quando è interrogato da s. Giovanni
sulla carità. E se, al compimento del suo supremo desiderio,
alla visione di Dio, egli è condotto da un mistico, s.
Bernardo, con ciò non viene certo rinnegata Beatrice, che
alla contemplazione mistica lo ha disposto con la dimostrazione
delle verità metafisiche e teologali a cui la mente umana
può giungere, "provando e riprovando" scolasticamente. Ma
neppure nello svolgersi della stessa suprema visione, nell'ultimo
canto del Paradiso,avvertiamo l'anima del mistico, estraniata dai
sensi, consunta dalla fiamma dell'amore, annegata
nell'immensità di Dio: c'è un intelletto lucidissimo,
teso con tutte le sue forze a guardare e comprendere entro l'essenza
divina, più inebbriato delle sue progressive conquiste che
non sgomento dei misteri che gli si rivelano, tanto da presumere di
spiegarsi con argomenti di ragione perfino il supremo mistero
dell'Incarnazione, come un matematico che dovesse risolvere un
problema. Il preteso misticismo dell'A. si compendia nel comune
sentimento e convincimento di ogni sincero credente, che la mente
umana non può arrivare a scoprire il mistero dell'universo e
di Dio, e perciò solo nella fede è la suprema
verità; che la Vita mortale è preparazione
all'eternità, e perciò a questa, come a sua meta,
l'uomo deve mirare; che solo in Dio, in questa e nell'altra vita,
è la pace dell'anima, il bene perfetto, l'immutabile
felicità. Il quale convincimento e sentimento non impedisce
al credente, come non impedì all'A., di attendere ad ogni
forma della vita pratica, o di esercitare l'intelletto in ogni forma
di speculazione, che non siano, l'una e l'altra, in contrasto con la
fede. Questo il processo della speculazione filosofica dell'A.,
iniziatosi poco dopo la morte di Beatrice; e questo l'atteggiamento
del suo spirito, di fronte alla filosofia e alla scienza, fissatosi
entro l'ultimo lustro del '200, dopo un breve traviamento
dall'ortodossia religiosa. Questo atteggiamento si riflette
invariato, con le sole sfumature che la diversità
dell'argomento comporta, in tutte le sue opere successive, dal
Convivio alla Commedia:insaziabile, eroico desiderio di conquistare
tutta la verità accessibile alla mente umana, e, nello stesso
tempo, sicurezza incrollabile, perché derivante dalla
consapevolezza dei limiti della nostra mente, nelle verità
ultime insegnate dalla fede. E non si tratta, com'è parso a
qualcuno, di posizioni spirituali in intimo e sotterraneo conflitto
tra loro: come per ogni sincero credente di alto intelletto,
filosofia e fede, verità di ragione e dogma furono per l'A.
complementari tra loro, come Virgilio è complementare di
Beatrice, ed entrambi illuminano e pacificano la sua mente inquieta
per avidità di conoscere.
Al tempo in cui con maggior fervore l'A. attendeva agli studi
filosofici, giunse a Firenze, nel marzo 1294, Carlo Martello, figlio
e luogotenente di Carlo II d'Angiò, per attendervi il padre
che tornava di Provenza; e vi "stette più di venti
dì,... e da' Fiorentini gli fu fatto grande onore, ed egli
mostrò grande amore a' Fiorentini, ond'ebbe molto la grazia
di tutti" (Villani, VIII, 13). Probabilmente l'A. fu tra i cavalieri
messi dal Comune a disposizione del principe; comunque, Carlo lo
conobbe e dovette mostrargli viva simpatia e fargli promesse, e
specialmente apprezzarlo come poeta, tanto che nel Paradiso, dove
l'A. lo incontrerà, si compiacerà di ricordare una
delle sue più originali canzoni d'amore (Voi
ch'intendendo).Nell'ottobre dello stesso '94 fu inviata dal Comune a
Napoli un'ambasceria per fare omaggio al nuovo pontefice, Celestino
V, ospite ivi di Carlo II: che l'A. facesse parte di essa è
congettura che non ha nulla d'inverosimile, e potrebbe spiegare,
invece, sia il riconoscimento, nell'Antinferno, dell'"ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto" (Inf.III, vv. 59-60), sia la
citazione fatta, a titolo di onore, della famiglia "Piscitelli da
Napoli" in Conv.IV, xxix, 3. La canzone Voi
ch'intendendo,già, dunque, composta nel marzo del '94, ma
probabilmente da poco (è verosimile che l'A. abbia fatto
conoscere al principe le sue novità), riflettendo il
conflitto, narrato nei capp. XXXV-XXXIX della Vita nova,tra il
ricordo di Beatrice morta e l'amore per una "gentile donna, giovane
e bella molto", potrebbe indicare l'epoca tra la fine del '93 e il
principio del '94 come termine indietro al quale non si dovrebbe far
risalire la composizione dell'amoroso libello. E poiché in
Conv.I, 1, 17, l'A. dice di averlo scritto "a l'entrata de la
gioventute", cioè poco dopo i ventisei anni, non sembra
legittimo protrarre il terminus ad quem della composizione
dell'operetta giovanile oltre il 1295 circa. E chi sa che una spinta
alla composizione di essa non gli sia venuta anche dal desiderio di
comparire meglio, con un'opera così originale, agli occhi del
principe amico, quale "autore di arte cosciente" (Barbi). Ch'egli
volesse fare un'opera d'arte dotta è dimostrato non solo
dalle pesanti divisioni retoriche delle poesie inserite, ma
più ancora dalle frequenti espressiqni latine nei momenti
più solenni del racconto, dalle citazioni erudite, di cui si
è detto più su, dagli accenni a problemi di arte e di
stile (tutto il cap. XXV è una disquisizione sui confini e
diritti della poesia volgare rispetto alla poesia latina). Né
si può escludere ch'egli, intorno ai trenta anni, molto
probabilmente già marito e padre, volesse allontanare da
sé quella taccia di leggerezza in fatto di amori, di cui si
preoccuperà esplicitamente nel Convivio,facendo apparire
altri amori (le donne dello "schermo") come finzioni per nascondere
l'amore vero, e mostrando che anche quello per la "donna gentile",
in cui aveva cominciato realmente a "consentire", era stato presto
stroncato dall'amore unico per Beatrice. Vero è che, quali
che siano state le ragioni immediate della composizione, il libro
venne fuori come una meditazione e chiarificazione interiore, come
un'interpretazione religiosa del suo amore per Beatrice. Il che
appare non nelle poesie, scritte attraverso un decennio, con
ispirazioni diverse, e non tutte felicemente scelte e inserite nel
racconto prosastico, ma appunto in questo, scritto certamente senza
interruzione di tempo, si direbbe di getto, tanto unitaria e
coerente è la sua ispirazione e tonalità. Fu un altare
innalzato all'"angiola giovanissima" della sua puerizia, alla
"gloriosa donna della sua mente"; ma fu anche un'alta professione di
fede in sé stesso, un impegno di superiore vita spirituale.
La trasfigurazione angelica di Beatrice era anche la sua spirituale
trasfigurazione. In virtù di quell'amore egli si sentì
un predestinato, un eletto: bisognava rendersi degno di
quell'angelica creatura. Il mondo etico-religioso dell'A., su cui
essenzialmente si fonda la sua personalità di uomo e di
scrittore, comincia come atto di amore, e la sua prima e
fondamentale manifestazione è il romanzo della Vita nova.E
poiché esso conchiude la varia esperienza sentimentale
dell'età "fervida e passionata" del poeta con un'affermazione
di pura, trascendente spiritualità, non sembrano concepibili
sbandamenti posteriori, non solo amorosi, ma neppure morali o
intellettuali. E pertanto, nella mancanza di dati che ci consentano
di seguire con sicurezza il processo della biografia spirituale
dell'A., sembra ragionevole considerare l'epoca della composizione
della Vita nova,che, per le ragioni esposte, crediamo debba
aggirarsi intorno al 1295, come il momento più importante,
decisivo, di quel processo, il momento in cui avvenne il superamento
della crisi intellettuale-religiosa e il consolidamento della sua
concezione della vita umana come una continua ascesa spirituale fino
a Dio.
Il romanzo, poi, non ha solo un valore di ideale autobiografia:
riuscì anche un'originalissinia opera di poesia, trepidante
della memoria di quella giovanile esaltazione, dominata dal senso
del divino che gli si era rivelato nel sentimento terreno
dell'amore, trasfigurando la realtà. Tutto, infatti -luoghi,
persone, paesaggi, avvenimenti, incontri, colloqui -,risulta
trasportato ai confini tra la realtà e l'irrealtà,
fino all'allucinazione; i moti stessi dell'anima diventano spiriti
che parlano misteriosamente al poeta, quasi uno sdoppiamento della
sua coscienza. Certo, non tutto, in questa rarefazione e
trasfigurazione della realtà, è poeticamente felice:
specialmente nella prima parte si avverte la volontà del
poeta di una ricerca di invenzioni sottili e di una forma preziosa:
è manierato e involuto; e, in generale, l'apparente
primitività non nasconde la raffinatezza del letterato.
Sotto questo aspetto la Vita nova è anche la prima grande
prosa d'arte italiana, pausata e clausolata musicalmente (talvolta
con troppa e compiaciuta mollezza), in una lingua scelta, nobile,
armoniosa.
Contemporaneo a questa definitiva sistemazione spirituale è
l'inizio della sua partecipazione alla vita politica del Comune:
è l'ultimo lustro del '200, durante il quale, "tolta donna, e
vivendo civilmente ed onesta e studiosa vita, fu adoperato nella
repubblica assai", come scrisse Leonardo Bruni. Veramente, quando si
effettuasse il matrimonio dell'A. con Gemma Donati, combinato, come
si è già detto, dai rispettivi genitori nel 1277, non
si sa. Se fosse certo che quel Giovanni, figlio Dantis Alagherii de
Florentia,che compare come testimone in un atto notarile lucchese
del 21 ott. 1308 (Piattoli, Appendice II,1),fosse figlio dell'A.
(bandito da Firenze, come figlio di ribelle, secondo una dura
disposizione del giugno 1302, ribadita e aggravata da un'altra del
gennaio 1303, appena raggiunti i 14 anni), si potrebbe stabilire che
nel 1294 il poeta era già padre. Al riguardo, sappiamo solo
che prima dell'esilio egli aveva certamente tre figli, Pietro,
Iacopo, Antonia; giacché sembra che quest'ultima si debba
identificare con quella suor Beatrice del monastero di S. Stefano
degli Ulivi a Ravenna, alla quale il Boccaccio portò nel 1350
dieci fiorini d'oro per incarico della Compagnia d'Orsanmichele
(Piattoli, 196). È probabile che la sua partecipazione alle
cariche comunali avesse inizio in conseguenza di una provvisione
(così si chiamavano le deliberazioni degli organi legislativi
del Comune) del luglio 1295, con la quale erano ammessi ad esse
tutti coloro che fossero iscritti "in libro seu matricula alicuius
artis civitatis Florentie", anche se di fatto non esercitavano. La
provvisione era una limitata concessione fatta ai cittadini dopo la
caduta, nel febbraio di quell'anno, di Giano della Bella, il
principale promotore dei severi Ordinamenti di giustizia emanati il
15 genn. 1293 in difesa del popolo e del Comune, contro i soprusi e
i misfatti dei grandi o magnati, che venivano esclusi dal governo.
Gli Alighieri non erano dei grandi, ma appartenevano alla
nobiltà, che le corporazioni, in cui era raccolto il popolo
che lavorava e produceva, dai banchieri agli artigiani, e nelle cui
mani era il governo, avevano cura di tener lontana dalla cosa
pubblica: sembra, infatti, che non bastasse essere immatricolati
nelle arti, per adire le cariche, ma si dovesse esercitarle. Non
sappiamo se l'A. fosse già iscritto, o si iscrivesse in
seguito a quella provvisione, alla sesta delle arti maggiori, quella
dei medici e speziali, probabilmente da lui scelta per
l'affinità allora esistente tra gli studi di medicina e
quelli di filosofia. Comunque, egli risulta consigliere nel
Consiglio speciale del capitano del popolo per il semestre 1 nov.
-30 apr. 1296; e il 14 dicembre prese parte, certo in qualità
di "savio", al Consiglio delle capitudini (consoli) delle dodici
arti maggiori e dei savi di ciascun sesto, convocato per stabilire
le modalità per l'elezione dei futuri priori. Dalla fine di
maggio alla fine di settembre del '96 appartenne al Consiglio dei
Cento, subentrando a un consigliere mancante, giacché il
semestre di carica di questo Consiglio aveva inizio il 1º
aprile, quando egli era ancora nel Consiglio speciale del capitano
del popolo, né si poteva nello stesso tempo appartenere a due
Consigli. Il fatto d'esser stato assunto nel Consiglio dei Cento,
che doveva essere composto "de melioribus et fidelioribus
artificibus aliisque plebeis sextuum civitatis", - appena uscito di
carica dall'altro Consiglio, è prova della stima e fiducia di
cui doveva godere. Sappiamo che durante questa carica intervenne
alla discussione su alcune proposte di legge presentate nella seduta
del 5 giugno, due delle quali particolarmente importanti: l'A. ne
sostenne l'approvazione.
L'una riguardava i banditi del Comune di Pistoia, i quali si
rifugiavano a Firenze, dove trovavano facile ospitalità tra i
grandi, il che doveva sembrare al governo un pericolo per la quiete
pubblica, aumentando la tensione e le rivalità esistenti tra
le famiglie cittadine: il Consiglio deliberò ch'essi non
fossero accolti né nella città né nel contado.
L'altra proposta dava piena autorità ai priori e al
gonfaloniere di giustizia di provvedere contro chiunque, "et maxime
magnates", offendesse un popolano per atti da lui compiuti
nell'esercizio di qualche ufficio del Comune.
Sempre torbida e funestata da fatti di sangue era stata la vita di
Firenze, specialmente dopo la divisione delle famiglie in guelfi e
ghibellini a causa dell'uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti
(1216). L'alterno prevalere ora degli uni ora degli altri, con le
uccisioni, le distruzioni di case, le confische dei beni, gli esili
che ne seguivano, avevano profondamente diviso la cittadinanza.
Né la pacificazione tentata dal cardinal Latino, né la
definitiva vittoria della parte guelfa dopo Campaldino erano valse a
instaurare la concordia e dar pace alla città. Il rapido
arricchirsi di "gente nova", venuta dal contado, dedita alle
industrie e ai commerci, aveva provocato la progressiva decadenza
dei nobili, esclusi a mano a mano dal governo, tenuto dalle arti.
Invidia e rancore spingevano perciò i nobili a continue
prepotenze, e l'intervento dell'autorità contro di essi dava
luogo, a sua volta, alle vendette del popolo, che, a un cenno del
podestà, correva a guastare o disfare,come si diceva, le loro
case, quando erano mandati in bando. Ambizioni e rivalità
dividevano tra loro anche i nobili stessi e le loro consorterie, e
perfino i membri di una stessa famiglia; gli odi personali erano
rinfocolati dal diffuso malcostume della maldicenza cittadina e
giullaresca; rigorosamente osservata, pena l'infamia pubblica, la
legge della vendetta privata, diritto e dovere di tutta la parentela
dell'offeso. Ma in quegli anni la situazione generale si era venuta
aggravando per l'inimicizia determinatasi tra le due potenti
famiglie dei Cerchi e dei Donati, intorno alle quali finirono col
dividersi quasi tutti i grandi e il popolo stesso; perfino, scrive
il Compagni (I 22), "i religiosi non si poterono difendere che con
l'animo non si dessero alle dette parti, chi a una chi a un'altra..
Più vasta di aderenze, ben vista dal popolo, la famiglia dei
Cerchi, che, venuta dalla canipagna, aveva accumulato grandi
ricchezze col banco e coi commerci; ma il suo capo, Vieri, era
pavido, esitante e di corte vedute. Minore di fortune e clientele,
ma audace e violenta, la famiglia dei Donati, di antica
nobiltà; capo era quel Corso, che a Dino Compagni (II, 20)
sembrava somigliante a "Catellina romano, ma più crudele di
lui..., con l'animo sempre intento a mal fare, col quale molti
masnadieri si raunavano, e gran séguito avea". L'inimicizia
tra le due famiglie si era talmente inasprita, dopo la morte di una
dei Cerchi, moglie di Corso, che si disse anche da lui avvelenata,
che il 16 dicembre di quell'anno 1296, stando i Donati e i Cerchi
seduti per terra, come era usanza, a un mortorio, gli uni di fronte
agli altri, essendosi uno di essi alzato per una ragione banale, gli
altri, per sospetto di essere aggrediti, si alzarono tutti mettendo
mano alle spade. Un'altra volta Guido Cavalcanti, che parteggiava
per i Cerchi, aveva tentato di uccidere Corso con un dardo, ma non
era stato seguito dagli altri. Più grave l'aggressione da
parte dei Donati a una brigata dei Cerchi, che assistevano alle
danze in piazza Santa Trinita, la sera del calendimaggio del 1300,
durante la quale fu tagliato il naso per sfregio -barbarie solita a
quel tempo -a uno dei Cerchi. Accrescevano la tensione degli animi,
a causa delle molte amicizie e parentele che legavano le famiglie
delle due città alleate, le lotte civili di Pistoia, dove due
rami rivali della famiglia Cancellieri, i Neri e i Bianchi, avevano
determinato un'analoga scissione della città in due parti. Il
danno che ne venne a Firenze fu enorme, quando, nel settembre dello
stesso '96, i Pistoiesi, non riuscendo a formare un governo,
chiesero a Firenze i loro reggitori per 5anni. Allora -scrive
Leonardo Bruni -"essendo già divisa tutta Pistoia, per porvi
rimedio fu ordinato da' Fiorentini che i capi di queste sette ne
venissero a Firenze, acciocché là non facessero
maggiore turbazione. Questo rimedio fu tale, che non tanto di bene
fece a' Pistolesi, per levarli i capi, quanto di male fece a'
Fiorentini, per tirare a sé questa pestilenza". E
poiché i Bianchi trovarono ospitalità tra i Cerchi, i
Neri tra i Donati, il nome di Bianchi e Neri passò
rispettivamente alle due parti avverse fiorentine.
Quanto da queste feroci lotte dovesse essere angosciato e
preoccupato l'A., di-mostrano alcune canzoni, "sì d'amore che
di virtù materiate", composte in questo periodo: quella
dottrinale sulla nobiltà, Le dolci rime d'amor ch'i'
solia,che inserirà poi nel Convivio,per affermare che
"è gentilezza", cioè nobiltà, "dovunqu'
è vertute, ma non vertute ov'ella"; l'altra sulla leggiadria,
vale a dire finezza d'animo e di costumi, Poscia ch'amor del tutto
m'ha lasciato,che si chiude con una sentenza cupa di totale
pessimismo, "Color che vivon fanno tutti contra", che fa presentire
gli accenti più squallidi di disillusione civile e morale
della Commedia;e quella di amore allegorico, probabilmente per la
Verità filosofica, Io sento sì d'amor la gran
possanza,indirizzata "a tre men rei di nostra terra", per esortare
uno di essi a uscir "fuor di mala setta" (vano, naturalmente,
è cercare identificazioni), perché "'l buon col buon
non prende guerra, prima che co' malvagi vincer prove". Quale la sua
partecipazione politica in questo periodo non sappiamo, per la
mancanza delle consulte,cioè dei verbali delle sedute, del
primo semestre del '97 e di quelle dal luglio del '98 al febbraio
del 1301. Sappiamo, però, che nel '97 arringò in uno
dei Consigli (non risulta quale); ma è verosimile che la sua
attività non subisse interruzioni per il prestigio che gli
dovevano conferire la sua dottrina e la sua rettitudine: lo provano
l'ambasceria a San Gimignano e la sua elezione al priorato, entrambe
del 1300. A San Gimignano fu inviato per sollecitare quel Comune ad
inviare sindaci in un'adunanza di tutti i Comuni della Taglia o lega
guelfa di Toscana per l'elezione del capitano di essa (Piattoli,
73). Firenze si preoccupava in quel momento di rinsaldare la lega
per la sua e la comune indipendenza dalle mire ormai scoperte di
Bonifazio VIII. Salito al soglio pontificio dopo la rinunzia di
Celestino V, Bonifazio meditava di estendere alla Toscana il dominio
della Chiesa. Già nel '96, sollecitato dai grandi, aveva
scritto alla Signoria di Firenze minacciando la scomunica, ove fosse
avvenuto il richiamo di Giano della Bella, da molti desiderato. Nel
'97 vi aveva mandato il cardinale Matteo d'Acquasparta per ottenere
aiuti nella crociata contro la famiglia Colonna, potente e
prepotente in Roma e nel Lazio, sua nemica. Nel '98, eletto
imperatore Alberto d'Asburgo, aveva da lui preteso la rinunzia ai
suoi diritti sulla Toscana, "ad ius et proprietatem Ecclesiae".
Avutone un rifiuto, non aveva riconosciuto la sua elezione e,
considerando vacante l'Impero, se ne era arrogato il vicariato e la
piena podestà sulla Toscana. Nell'aprile del 1300
un'ambasceria fiorentina inviata a Roma aveva scoperto una congiura
per consegnare Firenze al papa. La denunzia e l'immediata condanna
dei congiurati (18 aprile) aveva provocato l'ira di Bonifazio, che
esigeva l'annullamento della condanna stessa. Cade in questo
delicato momento (7 maggio) l'ambasceria dell'A., che viene
perciò ad acquistare maggiore importanza che non avrebbe per
sé stessa. La Signoria, intanto, senza lasciarsi intimidire,
si opponeva apertamente, con una provvisione, all'ingerenza
pontificia nella giurisdizione cittadina. Il 14 giugno l'A. era
eletto tra i nuovi priori per il bimestre 16 giugno -15 agosto; "e
poiché volta per volta si stabiliva come dovesse farsi
l'elezione di quell'ufficio, è certo che tutto fu predisposto
perché riuscissero quelle persone che il bisogno richiedeva"
(Barbi, Dante,p. 18). Pochi giorni prima (verosimilmente in
previsione dell'elezione e per provvedere ai bisogni della famiglia,
giacché i priori non potevano lasciare né notte
né giorno la dimora dell'ufficio, che ora era il palazzo
della Signoria), l'11 giugno, l'A. aveva contratto un debito verso
il fratello Francesco di 90 fiorini d'oro, che veniva ad aggiungersi
ad un altro di 125, contratto, sempre verso il fratello, il 14 marzo
(Piattoli, 71 e 75).La partecipazione alla cosa pubblica
evidentemente non fruttava all'A. vantaggi economici. D'altra parte,
le condizioni economiche degli Alighieri dovevano aver subito, negli
ultimi anni, un peggioramento, se Dante e il fratello Francesco, il
23 dic. 1297, erano stati costretti a contrarre un grosso debito di
480 fiorini d'oro, dopo un altro di 227 dell'11aprile dello stesso
anno, a meno che quello posteriore non fosse anche servito al saldo
del precedente (Piattoli, 57e 58). Francesco (così parrebbe)
aveva potuto presto migliorare le sue condizioni, se tre anni dopo
era in grado di fare un notevole prestito al fratello; non
così Dante,quali che ne fossero le cagioni. Il giorno stesso
in cui i nuovi priori assunsero la carica, presero atto della
condanna dei congiurati firmata dalla precedente Signoria: era la
dimostrazione ch'essi intendevano continuare l'opposizione
all'intromissione del papa e la difesa dell'indipendenza del Comune,
tanto più che Bonifazio aveva di nuovo mandato, come suo
legato, a Firenze, col pretesto di metter pace tra i Cerchi e i
Donati, ma in realtà per attuare i suoi intenti,
appoggiandosi ai Donati, il fido cardinale d'Acquasparta. Bonifazio
aveva cercato in un primo tempo di trarre a sè i Cerchi, e
aveva mandato a chiamare Vieri, invitandolo a far pace con Corso
Donati e la sua parte, e "promettendogli di metter lui e' suoi in
grande e buono stato, e di fargli grazie spirituali, come sapesse
domandare"; ma Vieri aveva rifiutato le offerte del papa, dicendo
"che non aveva guerre con niuno; onde si tornò in Firenze, e
il papa rimase molto sdegnato contro a lui e contro a sua parte"
(Villani, VIII, 39); e Bonifazio si volse ai Donati, non volendo
"perdere gli uomini per le femminelle" (Compagni, II, 11).Pochi
giorni dopo l'inizio del nuovo priorato, il 23 giugno, la vigilia di
S. Giovanni, andando, come d'uso, i consoli delle arti a recare
l'offerta al santo patrono, furono malmenati da alcuni dei grandi di
parte nera, i quali rinfacciavano loro: "Noi siamo quelli che demmo
la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi dagli uffici e
onori della nostra città" (Compagni, I, 21). L'altra parte,
per reazione, corse ad armarsi. La Signoria volle dimostrare la sua
imparzialità e autorità, condannando al confino otto
dei caporioni di ambo le parti. Tra quelli di parte bianca era Guido
Cavalcanti, che, al confino di Sarzana nella Lunigiana,
s'ammalò di malaria, e richiamato dalla nuova Signoria,
insieme con gli altri di parte bianca, nella seconda metà di
agosto, fece appena in tempo a tornare a Firenze per morirvi. Il 27
giugno il cardinale chiese la balìa, cioè i pieni
poteri, per pacificare la città: la Signoria rispose eludendo
la richiesta, pur assicurandogli tutto il suo appoggio nell'opera di
pacificazione. Irritato da questa resistenza, Bonifazio in una
lettera del 22 luglio sollecitava il cardinale ad agire contro tutti
i reggitori, scomunicandoli, sospendendoli dagli uffici,
confiscandone i beni; ma solo alla fine di settembre il cardinale,
sdegnato di non riuscire a ottenere nulla di positivo, lanciò
l'interdetto e lasciò la città. L'A. era uscito di
carica il 15 agosto. La Signoria, della quale era stato il membro
più autorevole, aveva assolto il suo difficile compito con
grande abilità e con grande fermezza, tutelando insieme la
giustizia e l'indipendenza del Comune. Più tardi,
dall'esilio, in una lettera, per noi perduta, dirà, come
attesta Leonardo Bruni, che ne tramandò, tradotto, il passo
relativo: "Tutti li mali e tutti l'inconvenienti miei dalli infausti
comizi del mio priorato ebbono cagione e principio". E Brunetto
Latini gli dirà nell'Inferno che l'ingrato popolo fiorentino
"gli si farà, per suo ben far, nimico". Nel novembre una
solenne ambasceria fu mandata da Firenze al papa per implorarlo di
togliere, l'interdetto. Non è improbabile che di
quell'ambasceria facesse parte anche l'A.; comunque, è certo
che in quell'anno, "l'anno del giubileo" solennemente istituito da
Bonifazio, egli fu a Roma: lo attesta inequivocabilmente il ricordo
preciso del modo escogitato dai Romani, che gli dovette parere utile
e ingegnoso, per disciplinare il passaggio del ponte di Castel S.
Angelo, data la moltitudine di pellegrini che si recavano
alla basilica di S. Pietro e ne tornavano (Inf.XVIII, vv. 28-33).
Quali sentimenti dovette provare visitando la città,
può immaginare chiunque sappia che cosa rappresentasse nella
fantasia e nella coscienza anche dell'uomo comune del Medioevo Roma
antica e cristiana: un immenso, sacro reliquiario di gloria, di
grandezza, di fede religiosa. L'A. dirà nel Convivio (IV, v,
20): "certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura sue
stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov'ella siede sia
degno oltre quello che per li uomini è predicato e
approvato".
Nulla sappiamo della sua attività pubblica dalla fine del
priorato all'aprile dell'anno seguente, per la mancanza, come si
è detto, delle consulte. Il 2 marzo 1301 compare, insieme col
fratello Francesco e altra persona (Piattoli, 78), mallevadore di un
mutuo di 50 fiorini contratto dal giudice Durante degli Abati (suo
probabile avo), ch'era stato, a sua volta, uno dei mallevadori del
debito contratto dai due fratelli il 23 dic. 1297. È da
ritenere che la malleveria dell'A., più che altro, avesse
valore morale, anche come contraccambio di quella a lui
precedentemente data, accanto a quella, più solida, del
fratello e dell'altro mallevadore, non già che sia indice di
mutate condizioni che gli conferissero credito economico. Per il
semestre 1 aprile - 30 settembre appartenne ancora al Consiglio dei
Cento. Durante quest'ufficio ebbe anche altri incarichi: il 14
aprile fu chiamato nel Consiglio delle capitudini delle dodici arti
maggiori e dei savi per fissare il modo dell'elezione dei nuovi
priori e quello del nuovo gonfaloniere: interloquì su
entrambi, e per l'elezione del gonfaloniere fu il solo a parlare
(Piattoli, 81 e 82). "Una delle proposte avanzate dal legato
pontificio era che fossero eletti a sorte fra i designati delle due
parti; e l'interesse della città esigeva invece che non
potessero esser nominati uomini di dubbia fede o favorevoli alla
politica della curia romana" (Barbi, Dante,p. 20). Si stabilì
che il Consiglio facesse i nomi - quattro per ciascun sesto per i
priori, uno per il gonfaloniere - e indi si sorteggiasse, secondo la
proposta dell'A.: il che prova ancora una volta l'autorità di
cui godeva. Il 28 aprile fu eletto incaricato e soprastante,
"officialis et superstes", con l'assistenza di un notaio, ai lavori
di rettificazione e sistemazione della via di S. Procolo, che si
stendeva verso il borgo della Piagentina fino al torrente Affrico,
dei quali s'indicava l'opportunità nel fatto che la via "est
multum utilis et necessaria hominibus et personis civitatis
Florentie, maxime propter vittualium copiam habendam, et maxime eo
quod populares comitatus absque strepitu et briga magnatum et
potentum possunt secure venire per eandem ad dominos priores et
vexilliferum iustitie, cum expedit. (Piattoli, 8o). Sebbene l'A.
avesse interesse alla sistemazione della strada per avere terreni da
quelle parti, la sua designazione era una prova di fiducia nella sua
accortezza e onestà. L'incarico era dato "sine aliquo
salario", e doveva durare due mesi. Ma ben altra importanza ha il
suo intervento alle discussioni del 19 giugno, prima nell'assemblea
riunita del Consiglio dei Cento, di quello generale e speciale del
capitano, di quello delle capitudini, poi nel solo Consiglio dei
Cento. Nell'assemblea riunita, il capitano lesse la lettera del
cardinale d'Acquasparta, ch'era stato rimandato da Bonifazio a
Firenze dopo aver tolto l'interdetto, nella quale si chiedeva che
fosse prolungato il servizio dei cento soldati inviati due mesi
prima dal Comune nella guerra che Bonifazio aveva ingaggiato in
Maremma, per togliere a Margherita Aldobrandeschi i suoi feudi, a
favore dei suoi nipoti Caetani. Dei quattro consiglieri che presero
la parola, due proposero l'accoglimento; Dante "consuluit quod de
servitio faciendo domino pape nichil fiat"; il quarto propose che si
sospendesse la deliberazione (Piattoli, 83). Fu approvata la
proposta di sospensiva. Nello stesso giorno la questione fu portata
al ristretto Consiglio dei Cento. Qui i priori proposero
l'accoglimento della richiesta del papà, con la clausola che
il servizio non dovesse prolungarsi oltre il 1° settembre:
benché presentata in questa nuova forma, l'A. si
pronunciò ancora contro la richiesta papale (la consulta
riassunse il discorso dell'A, con la stessa formula di quello
precedente), un altro consigliere in favore (Piattoli, 84). Fatta la
votazione segreta, la proposta fu approvata con 49 voti favorevoli,
32 contrari: era prevalso il partito di non disgustarsi di nuovo il
pontefice, ma esisteva una forte minoranza di opposizione, della
quale evidentemente l'A. era esponente autorevole. Poiché le
consulte sono schematici appunti delle conclusioni essenziali, non
sappiamo quali fossero le ragioni da lui addotte: ma certo egli
pensava che non fosse il momento di distogliere armi e danaro per
favorire il papa, quando stava per giungere in Italia Carlo di
Valois, chiamato da Bonifazio per sistemare le cose di Toscana
(oltre che per riconquistare la Sicilia), e i Neri, che già
avevano tentato d'impadronirsi della città con la
recentissima congiura di S. Trinita (e Leonardo Bruni, fondandosi su
una lettera del poeta, attribuisce all'A, una parte importante nella
sollevazione del popolo contro i congiurati), ne aspettavano
l'arrivo. Il 13 settembre, quando già il Valois, giunto il 2
ad Anagni, era stato proclamato da Bonifazio ufficialmente "paciaro"
di Toscana, in un'adunanza generale di tutti i Consigli ("una di
quelle adunanze che si solevano fare quando alla città
sovrastavano gravi avvenimenti ed era necessario dar pieni poteri
alla Signoria", Barbi, Dante,p. 21), il podestà chiese "quid
sit providendum et faciendum super conservatione ordinamentorum
iustitie et statutorum populi". La solennità della richiesta
rispecchiava la gravità della situazione politica. Primo
parlò l'A.; ma il notaio della consulta lasciò in
bianco, quale che ne sia stata la ragione, lo spazio di tre righe
che doveva accogliere il parere da lui espresso. Il secondo e ultimo
oratore propose che tutti i provvedimenti suggeriti dall'A.
("predicta omnia") rimanessero a cura e giudizio degli uomini del
governo (Piattoli, 86). Il 20 settembre l'A. parlò a favore
del permesso di transito delle granaglie, chiesto dai Bolognesi,
dalla marina di Pisa attraverso il territorio fiorentino: i legami
tra Firenze e Bologna erano stati sempre buoni e si erano rinsaldati
negli ultimi anni con l'appoggio dato da Firenze a Bologna nella
lotta contro Azzo VIII d'Este; e nel novembre dell'anno precedente
ambasciatori bolognesi si erano uniti ai Fiorentini nel supplicare
Bonifazio di liberare Firenze dall'interdetto. Alla vigilia della
cessazione della carica, il 28 settembre, l'A. parlò per
l'ultima volta nel Consiglio dei Cento (Piattoli, 88), sostenendo
alcuni provvedimenti eccezionali proposti per estendere i poteri
discrezionali dei priori e del podestà, l'assoldamento di
cento "berrovieri" a servizio dei priori e del gonfaloniere, un
risarcimento in favore di Neri di Gherardino Diodati, il quale,
sfuggito con la fuga alla condanna a morte pronunziata nel '98 dal
podestà Cante de' Gabrielli da Gubbio per compiacere ai
Donati, era stato poi riconosciuto innocente. Ma ormai il "paciaro"
Valois era ai confini della Toscana e, mentre protestava a tutti i
Comuni il rispetto della loro libertà, raccoglieva milizie,
trescando a Castel della Pieve con i Neri fiorentini, ch'erano
lì confinati. Il governo, che evidentemente non si sentiva
abbastanza forte per sostenere un'eventuale opposizione armata (tra
l'altro, il 15 ottobre dovevano subentrare i nuovi priori),
deliberò d'inviare un'ambasceria a Bonifazio per cercare di
esplorarne le intenzioni, chiedendo, anche questa volta, l'appoggio
dei Bolognesi. Questi ne accolsero volentieri, anche per il proprio
interesse, la richiesta, e inviarono i loro ambasciatori a Firenze
per procedere, insieme con i colleghi fiorentini, verso Roma. I
messi fiorentini erano Maso Minerbetti, Corazza Ubaldini e l'A.
(Compagni, II, 4, 11, 25). In quell'occasione, secondo il Boccaccio,
restando l'A. perplesso alla notizia della sua nomina, richiestone
della ragione, avrebbe risposto: "Penso: se io vo, chi rimane?, e se
io rimango, chi va?" (Vita XXV, Compendio XXI, ediz. Guerri).
L'ambasceria si mosse da Firenze circa la seconda metà di
ottobre, e non approdò a nulla. Bonifazio, che doveva essere
ad Anagni, rimandò gli altri due messi fiorentini con
l'incarico di assicurare i concittadini ch'egli non aveva "altra
intenzione che di loro pace" (Compagni, II, 4) e trattenne Dante.
Perché lo trattenesse è uno dei punti più
oscuri della vita dell'A.; ma qualcosa di preciso dovette esserci,
per cui l'A. si formò la convinzione di essere stato oggetto
di una particolare animosità del papa contro di lui
personalmente: espliciti sono a questo riguardo i vv. 46-51 di
Par.XVII. Intanto a Firenze la Signoria, di cui era magna pars
l'onesto, ma troppo ingenuo e alquanto vano Dino Compagni, chieste e
ottenute dal Valois "lettere bollate" (Compagni, II, 7) di non
abbattere le magistrature della città e non offendere le
leggi municipali, il 1° novembre lasciava entrare in Firenze il
novello Giuda (cfr. Purg.XX, vv. 73-75).La dappocaggine dei Bianchi,
che pure tenevano il governo, la viltà dei Cerchi, rintanati
nelle loro case, l'audacia dei Neri fecero il resto. Rientrarono
trionfanti Corso Donati e gli altri Neri banditi; e per alcuni
giorni, nella città e nel contado, si abbandonarono a
saccheggi e incendi, a uccisioni e a ogni altra sorta di violenze,
quali poteva dettare l'odio e la sete di vendetta. La casa dell'A.
fu devastata. Il 7 novembre furono deposti i recenti, imbelli priori
bianchi, ed eletti i nuovi di parte nera; tornarono al governo i
magnati, tornò come podestà Cante de' Gabrielli.
Racconta Dino che il "mal fare durò sei giorni": dopo di che
la vendetta di parte assunse, come suole avvenire in simili casi, la
farsesca ipocrisia delle forme legali. Una legge speciale diede al
podestà l'incarico di riaprire un 'inchiesta sull'operato dei
priori degli anni 1300 e 1301 - gli anni in cui il governo era stato
nelle mani dei Bianchi e aveva ostacolato le mire del papa -,
sebbene essi fossero stati già assolti nell'inchiesta che per
legge si faceva a carico di essi, appena cessavano dall'ufficio.
L'A. verosimilmente non era rientrato a Firenze dall'ambasceria a
Bonifazio: la notizia del trionfo dei Neri lo aveva raggiunto
probabilmente mentre tornava da Roma e aveva dovuto sconsigliarlo di
metter piede nel territorio fiorentino. Secondo il Bruni, a Siena
intese "più chiaramente la sua calamità", cioè
la propria condanna. Nella prima metà del gennaio 1302 egli
era stato citato a comparire davanti al podestà, entro tempo
determinato, per difendersi e scusarsi delle accuse mossegli dalla
curia podestarile; e poiché non si era presentato, il 27
dello stesso mese, ritenuto confesso per la sua contumacia, fu
condannato a 5.000 fiorini piccoli da pagare entro tre giorni, pena
l'espropriazione, il guasto e l'incameramento dei beni da parte del
Comune, a due anni di confino, all'esclusione perpetua da qualunque
ufficio. La sentenza, che è stesa in comune contro di lui e
contro altri tre priori di priorati diversi, non reca alcuna prova
delle accuse e si fonda solo su asserite notizie pervenute alle
orecchie del podestà e del suo ufficio, "fama publica
referente"; non fa discriminazione fra l'uno e l'altro degli
imputati, mentre con la formula vaga "ipsi vel ipsorum aliquis"
ammette che possa esserci una discriminazione di colpa nei riguardi
dei singoli imputati nei singoli capi d'accusa. I quali sono: che,
durante gli anni soggetti all'inchiesta, essendo o no nell'ufficio
di priori, "commiserunt, per se vel alium, baractarias, lucra
illicita, iniquas extorsiones in pecunia vel in rebus"; che avevano
ricevuto denaro per elezione di magistrati e ufficiali del Comune,
per fare o no stanziamenti, riforme, ordinamenti; che avevano
frodato per sé l'erario pubblico, o se ne erano serviti
"contra summum pontificem et dominum Karolum pro resistencia sui
adventus vel contra statum pacificum civitatis Florentie et partis
guelforum"; che avevano provocato la scissione di Pistoia, prima
unita, avevano ordinato l'espulsione da essa "eorum qui dicuntur
Nigri, fidelium de-votorum sancte Romane ecclesie", avevano staccato
la città "ab unione et voluntate civitatis Florentie et
subiectione sancte Romane ecclesie vel domini Karoli in Tuscia
paciari". Le accuse inerenti ai fatti di Pistoia erano realmente
fondate nei riguardi di due degli altri tre imputati; ma giovava
mettere tutti in un fascio e non fare distinzioni. Nei riguardi
dell'A., a parte quella comune e generica di baratteria, ecc., di
cui certamente gli inquisitori non possedevano la minima prova
(infatti, la prima parte della sentenza riguarda un quinto imputato,
contro cui l'accusa di baratteria, sebbene certamente falsa,
è circostanziata), resta l'imputazione di opposizione a
Bonifazio e al Valois, manifestata pubblicamente almeno, per quel
che a noi risulta, nei due Consigli del 19 giugno 1301, e certamente
- osiamo dire - in quello del 13 settembre, deducendolo dalla
conclusione del secondo oratore, che fa intuire la gravità
delle cose dette precedentemente dall'Alighieri. Non essendosi
presentato a pagare né a scusarsi, con altra sentenza dello
stesso Cante de' Gabrielli, il 10 marzo era condannato, insieme con
altri quattordici priori, processati prima o dopo di lui e parimenti
contumaci, "ut si... in fortiam Comunis pervenerit..., igne
comburatur sic quod moriatur".
Secondo Leonardo Bruni, in una lettera in cui giustificava il suo
operato, l'A. si diceva "uomo senza parte": e tale realmente si era
dimostrato durante la sua attività politica, almeno per
quello che ne sappiamo: aveva servito semplicemente la patria, aveva
difeso quelli che a lui sembravano gl'interessi del Comune, non di
una fazione. Appartenente alla nobiltà, amico di magnati,
quale Guido Cavalcanti, aveva difeso il popolo contro le
soperchierie dei grandi. Guelfo e di famiglia e tradizioni guelfe
non mai rinnegate, si era opposto alle ingerenze del papa, secondo
la più schietta tradizione guelfa italiana, ch'era sempre
stata di cura gelosa dell'indipendenza cittadina, pur nell'ossequio
alla somma autorità della Chiesa. Nella scissione della
città era stato con la parte dei Cerchi, forse perché
più umani, alieni da prepotenze e ingiurie (Compagni, I, 20),
sebbene, peraltro, non avesse, dei membri della famiglia, alcuna
stima (cfr. Par.XVI, vv. 65 e 94-96). Priore, aveva sottoscritto
l'invio al confino del suo amico Guido Cavalcanti. Quell'ideale, che
animerà e illuminerà la Commedia,di una vita civile
ordinata e saggia, fondata sulla giustizia e sui valori morali,
intesa al bene comune e alle belle opere di pace, era già ben
chiaro e saldo nella sua coscienza, almeno fin dal tempo delle rime
morali e allegoriche, di cui si è detto più su,
contemporanee alla sua partecipazione alla vita politica; e l'uomo
politico non smentì il poeta. Già fin d'allora la
politica era per lui un fatto morale. Piuttosto dovremmo domandarci
s'egli possedesse le doti per fare il politico militante: vogliamo
dire intuito politico, non la mera abilità di destreggiarsi
del politicante. Anche qui non abbiamo elementi per un giudizio
sufficientemente fondato, anche perché non pochi sono i punti
controversi della caotica situazione di Firenze in quel periodo.
Quel che tuttavia sembra potersi fondatamente affermare è
che, senza contare la destrezza e fermezza del suo priorato, la
stessa coraggiosa politica di opposizione a Bonifazio e al Valois
era nello stesso tempo lungiminante e non inattuabile: la prova
della possibilità di una resistenza vittoriosa fu data da
Pistoia, che, rimasta in potere dei Bianchi, fu invano cinta
d'assedio per un mese dal Valois, primo della serie degli insuccessi
di quel principe.
L'esilio accomunò i Bianchi con i ghibellini fuorusciti, nel
tentativo di rientrare in Firenze con le armi. Quell'anno stesso
(sembra l'8 giugno) l'A. compare insieme con altri diciassette
Fiorentini, bianchi (tra gli altri, tre dei Cerchi) e ghibellini
(quattro degli Uberti, ecc.), convenuti nella chiesa di S. Godenzo
nel Mugello, per dar garanzie agli Ubaldini di risarcirli dei danni
che potessero venir loro dalla guerra in corso o da farsi nelle loro
terre contro Firenze. Sembra ch'egli allora fosse uno dei dodici
consiglieri (L. Bruni) dell'"Università della parte dei
Bianchi della città e del contado di Firenze", presto
costituitasi tra i banditi. Nell'agosto dello stesso anno (1302) si
combatté al castello di Monte Accianico, possesso degli
Ubaldini, tra Neri e Bianchi, con la vittoria di questi ultimi: non
sappiamo se a questo fatto d'arme prendesse parte anche l'Alighieri.
Ma nel settembre Moroello Malaspina, al comando dei Neri,
costringeva alla resa, dopo 4 mesi di assedio, la fortezza di
Serravalle nell'agro pistoiese, che si diceva Campo Piceno:molto
probabilmente l'A. partecipò alla difesa di essa, se a questa
sconfitta dei Bianchi, per opera del Malaspina, allude la predizione
di Vanni Fucci (Inf. XXIV, vv. 145-150), come ci sembra preferibile
ritenere. Vero è, infatti, che il Malaspina continuò
la guerra contro Pistoia fino alla resa della città
nell'aprile del 1306, il che segnò la definitiva catastrofe
dei Bianchi: e a questo fatto - certo più importante - altri
credono debba riferirsi l'allusione di Vanni. Senonché in
quell'epoca l'A., come vedremo, si era da un pezzo staccato
sdegnosamente dagli altri fuorusciti; anzi, nell'ottobre dello
stesso 1306, sarà ospite appunto dei Malaspina: e
poiché la profezia di Vanni è intesa a procurare un
vivo dolore all'A., essa si riferirà a un fatto in cui egli
doveva essere personalmente, direttamente impegnato, e quindi
piuttosto all'epoca in cui era ancora nella mischia e si faceva
illusioni sulle possibilità di vittoria della parte in cui
militava. Nel 1303 egli era a Forlì, presso Scarpetta
Ordelaffi, ch'era stato nominato capitano dei Bianchi: ch'egli
aiutasse il suo segretario, Peregrino Calvi, a dettar le lettere,
secondo l'attestazione di Flavio Biondo (Decades II, 9), è
possibile, ma non certo (dovremo riparlare del Calvi per una sicura
mistificazione); e forse da Forlì si recò per la prima
volta a Verona presso Bartolomeo della Scala, per chiederne l'aiuto.
E quivi è molto probabile che si fermasse fino alla morte di
quel signore (7 marzo 1394), per le ragioni che diremo tra poco. Nel
manzo del 1303 l'Ordelaffi, entrato nel Mugello, si spinse fino a
Castel Puliciano, a otto chilometri da Firenze, e lo espugnò;
ma la sua vittoria si trasformò in una sanguinosa sconfitta
per il sopraggiungere immediato del podestà di Firenze, il
terribile Fulcieri da Calboli (cfr. Purg.XIV, vv. 58-66):l'Ordelaffi
dovette ritirarsi; molti i morti e i prigionieri: di questi,
condotti a Firenze, alcuni furono esposti al ludibrio del popolo e
impiccati. In seguito a questa grave disfatta "i Bianchi e i
Ghibellini usciti rimasero rotti e sciarrati" (Villani, VIII, 6o):
la guerra dei Bianchi si dimostrava tutto un seguito di errori e
d'insuccessi: come avviene in questi casi, gli uni avranno addossato
la colpa agli altri; e forse ha inizio da questo momento il
contrasto tra l'A. e i suoi compagni di esilio. Il 12 ott. 1303,
poco dopo l'oltraggio di Anagni, era morto Bonifazio VIII. Il nuovo
pontefice, Benedetto XI, uomo di santa vita e di pie intenzioni,
sinceramente desideroso di metter pace nella travagliatissima
città, mandò a Firenze come paciere, il 10 marzo del
1304, il cardinale Niccolò da Prato. Ottenuta la
balìa, cioè i pieni poteri, il cardinale mandò
un confratello presso il Consiglio dell'Università della
parte dei Bianchi per ottenere da questi la promessa di cessare
subito dalle armi e di rimettersi in tutto nelle sue mani. Dalla
maggior parte degli studiosi si ritiene che la lettera ufficiale di
risposta, a nome del capitano dei Bianchi, A[ghinolfo?] da Romena e
del Consilium et Universitas partis Alborum de Florentia,sia stata
scritta dall'A., ma non esiste nessuna prova decisiva né pro
né contro l'attribuzione: nè si deve tacere che tra i
fuorusciti non c'era il solo A. in grado di dettare un'epistola
siffatta. Essa esprime tutta la letizia da cui dovettero esser presi
i fuorusciti, nella speranza di poter tornare pacificamente in
patria. Il loro sogno - dice la lettera - era la salute della
patria; e se avevano preso le armi in una guerra civile, a
nient'altro miravano che a costringere al rispetto della legge e
della pace coloro che avevano abbattuto i diritti dei cittadini;
perciò, con spontanea e sincera volontà, protestavano,
per il loro stesso amor di patria, di esser pronti a ubbidire a
tutti gli ordini del cardinale. Questi, ch'era uomo di grande animo,
ottenne che si nominasse un sindaco per ciascuna parte, ciascuno
assistito da un notaio (e quello di parte bianca fu il padre di
Francesco Petrarca, amico dell'A., e come lui esiliato), per
tutelare gli accordi per la pace. E il 26 aprile la pace fu giurata
in piazza S. Maria Novella: effimera pace, che durò un mese.
I Neri, e in specie Corso Donati, non potevano rinunciare al loro
predominio: provocarono tumulti e combattimenti; uno spaventoso
incendio, appiccato alle case dei Cavalcanti, distrusse il centro
della città.
Il 10 giugno il cardinale fu costretto a fuggire; il 7 luglio moriva
improvvisamente - si disse, avvelenato - Benedetto XI, a Perugia, il
giorno dopo l'arrivo di Corso Donati, ch'egli aveva chiamato a
scusarsi; e i Bianchi ripresero le armi. Il 20 luglio si venne alla
giornata della Lastra, che, per la disorganizzazione dell'esercito,
benché una schiera isolata fosse già penetrata in
Firenze, si risolse in una completa disfatta.
Dove fosse l'A. durante questi avvenimenti, tra il marzo e il luglio
1304, non sappiamo. Se fosse sicuramente sua l'epistola al cardinal
da Prato, potremmo argomentare ch'egli fosse ad Arezzo, dove sembra
fosse tornato il Consiglio dei Bianchi, dopo la cacciata di
Uguccione della Faggiuola, ad essi ostile. Un documento del 13
maggio prova che il fratello Francesco, anch'egli esiliato (quando
non si sa; ma nel 1309 risulta già rientrato a Firenze), era
ad Arezzo (Piattoli, 94), dove contraeva un mutuo di 12 fiorini: ma
ciò non prova che fosse con lui Dante; anzi, la relativa
esiguità del mutuo farebbe pensare ch'esso servisse alle
necessità del solo Francesco. D'altra parte, i vv. 61-69 di
Par.XVII, nei quali l'A. accenna al suo dissenso con gli altri
sbanditi, all'essere stati gli altri, e non lui, danneggiati dagli
errori commessi, sicché per lui era stato bello aversi fatta
parte per sé stesso, sembrano piuttosto alludere a una
rottura molto presto determinatasi tra lui e "la compagnia malvagia
e scempia" fattasi tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di
lui: così presto ch'egli non restò coinvolto nelle
successive "bestialità" dei Bianchi. L'Ottimo scrive -
veramente in modo poco chiaro che la rottura avvenne "quando elli si
oppose, che la detta parte bianca, cacciata di Firenze e già
guerreggiante, non richiedesse l'amico, il verno, di gente,
mostrando le ragioni del piccolo frutto, onde poi, venuta la state,
non troyarono l'amico com'elli era disposto il verno; onde molto
odio ed ira ne portarono a Dante; di che elli si partì da
loro". E il postillatore del Fram. Pal.(Scartazzini, Comment.
lips.,III, p. 465)scrive che pressappoco per la stessa ragione
"suspectus factus est Dantes et existimatus quod a Florentinis
corruptus fuisset". Ma dobbiamo confessare che i motivi specifici
del dissidio ci sfuggono completamente; e, d'altra parte, non basta
a spiegarlo "il carattere di Dante", che "non era tale da
acconciarsi facilmente al sentimento e ai disegni di una moltitudine
di faziosi mossa da tanti e così diversi interessi come
quella con cui si trovava a vivere e ad agire" (Barbi, Dante,p. 23).
Sappiamo solo che l'animosità dei Bianchi contro di lui,
quali che fossero precisamente le colpe che gl'imputavano, fu
così violenta da volerne addirittura la morte, non meno dei
Neri: Brunetto Latini gli predirà che l'una parte e l'altra
avrà fame di lui, ma egli si salverà tenendosi lontano
da esse (Inf.XV, vv. 70-72). E poiché egli ci fa sapere che
il suo "primo refugio, il primo ostello", fu presso uno Scaligero,
di cui tesse alte lodi, e questo non può essere se non
Bartolomeo, che morì il 7 marzo 1304, giacché del
successore Alboino, in. Conv.IV, xvi, 6, egli dà un giudizio
sprezzante, parrebbe doversi concludere che la rottura tra l'A. e i
suoi compagni di sventura fosse già avvenuta prima della fine
del 1303: e questo porterebbe ad escludere l'attribuzione a lui
dell'epistola al cardinal da Prato.
Dalla prima dimora veronese (1303-marzo 1304) all'ottobre 1306 non
sappiamo nulla di preciso delle sue peregrinazioni. È da
credere che dopo la morte di Bartolomeo l'A. lasciasse Verona; ed
è probabile che passasse a Padova, dove Giotto lavorava
(1304-05) nella cappella degli Scrovegni, e dove poté
ritrovare Ildebrandino Mezzabati, già capitano del popolo a
Firenze nel 1291-92, ch'egli ricorda in De vulgari eloquentia I,
xiv, 7 come l'unico poeta tra i Veneti che cercasse di allontanarsi
dal volgare materno e tendesse a quello curiale, e col quale
scambiò il sonetto allegorico di Lisetta respinta nella sua
pretesa di amore (Per quella via che la bellezza corre).Certo fu in
questo tempo a Treviso, presso Gherardo da Camino, che morì
nel marzo del 1306, del quale egli esalta la grande nobiltà
in Conv.IV, xiv, 12 (cfr. anche Purg.XVI, vv. 121-124); e forse di
lì a Venezia, di cui ricordò più tardi
l'operosità dell'arsenale in Inf.XXI, vv. 7 ss. E potrebbe
essere stato allora anche a Reggio presso Guido da Castello,
anch'egli lodato in Purg.XVI, vv. 125-126. Sono questi gli anni in
cui egli andò "per le parti quasi tutte a le quali questa
lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, ...mostrando contro
sua voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al
piagato molte volte essere imputata", come "legno sanza vela e sanza
governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che
vapora la dolorosa povertade", apparendo "a li occhi a molti che
forseché per alcuna fama in altra forma lo aveano imaginato,
nel conspetto de' quali non solamente la sua persona invilio, ma di
minor pregio si fece ogni opera sì già fatta, come
quella che fosse a fare. (Conv.I, iii, 4-5).Sono gli anni in cui,
appunto perché il nome suo ancora non sonava molto,
più amaramente provò "come sa di sale lo pane altrui e
come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale",
e più di una volta, forse "si condusse a tremar per ogni
vena", costretto a mendicare l'ospitalità altrui (cfr.
Par.XVII, vv. 58-6o; Purg.XI, vv. 138-141). E sono anche gli anni in
cui, come attesta il Bruni, "ridussesi tutto umiltà, cercando
con le buone opere e con buoni portamenti riacquistar la grazia di
poter tornare in Firenze per ispontanea revocazione di chi reggeva
la terra; e sopra questa parte s'affaticò assai, e scrisse
più volte non solamente a privati cittadini del reggimento,
ma anche al popolo, ed intra l'altre una epistola assai lunga, la
quale comincia Popule mee, quid feci tibi?"Questa epistola si
è perduta: ma probabilmente ad essa appartengono i brani che
il Bruni riferisce o a cui fa cenno nella Vita,riguardanti la sua
partecipazione alla battaglia di Campaldino e la giustificazione
dell'opera sua durante il priorato. Ma un'esplicita domanda di
perdono abbiamo nel secondo congedo della Canzone della Drittura,
Tre donne intorno al cor mi son venute:in esso il poeta esorta la
canzone, che è, sì, la canzone di un bianco,
un'"uccella con le bianche penne", ad accompagnarsi "con li neri
veltri", che, egli dice, "fuggir mi convenne, ma far mi poterian di
pace dono. Però nol fan che non san quel che sono: camera di
perdon savio uom non serra, ché 'l perdonare è bel
vincer di guerra". Alle quali parole rispondono le altre del
Convivio I, iii, 4, scritte certamente durante questo stesso periodo
di tempo, e dettategli da questo stesso stato d'animo: "Poi che fu
piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di
Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato
e nudrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con
buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare
l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato...". E per
dimostrare alla patria chi fosse il figlio ch'essa aveva bandito,
non meno che per riscattare agli occhi dei signori che l'ospitavano
la sua umiliante condizione di peregrino e mendico, egli mise mano a
due opere di alto impegno, il Convivio,appunto, e il De vulgari
eloquentia."La condizione di Dante - ha bene sintetizzato il Barbi
-, staccatosi dai suoi compagni, fu presso a poco quella dell'uomo
di corte: accorrere qua e là dov'eran signori in fama di
liberalità verso gli uomini d'ingegno e di dottrina oppur
d'indole piacevole, tanto da doversene una corte onorare e
servirsene per affari d'importanza, o avere sollazzo nella vita
quotidiana; vivere quindi in una mescolanza di gente che andava e
veniva, di varia natura, con gusti e intendimenti diversissimi,
dalle persone di scienza ed esperienza politica ai buffoni; e
generalmente non eran questi ultimi i meno graditi e i meno
liberalmente donati o che prima dovessero sgombrare" (Barbi,
Dante,p. 24).
Gli aneddoti dei grossolani scherzi giocatigli da qualche signore o
cortigiano, anche se probabilmente inventati, valgono tuttavia a
rispecchiare questa triste condizione. Cecco Angiolieri, che, al
tempo della Vita nova,aveva mostrato verso il poeta di Beatrice un
certo riguardo (Dante Allaghier, Cecco, 'l tu' servo e amico),non ne
dimostra nessuno e lo tratta con arroganza provocatoria,
giudicandolo alla sua stessa stregua, all'epoca in cui l'A.
peregrinava per le corti lombarde, attribuendo la comune sorte di
servire in case altrui non solo a "sventura", ma anche a "poco
senno" (Dante Alighier, s'i' son bon begolardo).
Vero è che non dovettero mancare all'A., anche in questo
periodo della sua maggior miseria, attestazioni di stima e di
simpatia. Al grossolano sonetto ora citato di Cecco rispose messer
Guelfo Taviani di Pisa, trattandolo da matto a voler contendere con
l'A., di cui esaltava l'ingegno e il sapere filosofico. Ma non poco
dovette confortarlo, più che ogni altra, l'amicizia,
contratta molto probabilmente al tempo della Vita nova,con Cino da
Pistoia (cfr. la canzone consolatoria di Cino per la morte di
Beatrice, Avegna ched el m'aggia),il quale, cacciato in esilio, come
nero, nell'estate del 1301, al tempo del predominio dei Bianchi
nella sua travagliata patria, si era recato a Bologna a ultimare gli
studi di legge, conseguendone, intorno al 1304, ilrelativo grado
accademico. E poiché l'esilio di Cino finì con la
caduta di Pistoia in mano dei Neri (aprile 1306), entro questi
termini sorse l'amicizia tra i due poeti e si svolse la loro
corrispondenza epistolare e poetica. Sebbene di parte avversa, erano
entrambi superiori alle parti, alle quali avevano aderito per motivi
contingenti, entrambi disgustati delle lotte faziose. Non è
tutto esercizio di letterati la corrispondenza tra i due amici
poeti: ci sono, nei sonetti di Cino all'A., espressioni che
attestano un affetto e una stima sinceri, quasi da discepolo a
maestro. Cino propone questioni di amore, e l'A. risponde da
conoscitore provetto della materia. Particolare interesse ha la
risposta alla questione postagli da Cino nel sonetto Dante, quando
per caso s'abbandona,perché essa segna un momento del
processo del pensiero dantesco intorno all'amore. Cino chiedeva
all'A. se, come a lui sembrava, un nuovo amore può
impadronirsi di un' anima, quando il primo è spento. L'A. col
sonetto Io sono stato con Amore insieme conferma l'opinione
dell'amico, adducendo la sua personale esperienza, che invano contro
la potenza dell'amore si cerca opporre "agione o virtù": "nel
cerchio de la sua palestra - egli dice - liber arbitrio già
mai non fu franco, sì che consiglio in van vi si balestra".
Il Nardi (Filosofia dell'amore ..., in Dante e la cultura
medievale)ha messo in luce come la dottrina guinizelliana che "amore
e cor gentil sono una cosa", accettata dall'A. nella Vita
nova,portasse alla concezione della fatalità dell'amore,
nella quale non c'era posto per l'esercizio della virtù.
Quando l'A. rispose a Cino, era dunque pervenuto non solo per
esperienza, ma anche filosoficamente, a questa scoperta: lo comprova
la breve epistola con cui accompagnò il sonetto stesso, nella
quale dava la dimostrazione dottrinale dell'ineluttabile subentrare
di un nuovo amore, quando la potenza dell'anima è a
ciò sollecitata. A distanza, però, probabilmente solo
di qualche anno, allo stesso Cino rimprovererà la
volubilità del suo cuore (Io mi credea del tutto esser
partito)e lo inviterà a correggerla "con vertù";
finché, approfondendo ulteriormente il suo pensiero, non gli
fu chiaro che, posto che "di necessitate surga ogni amor" che
s'accende nel cuore degli uomini, c'è però in essi
appunto il "libero arbitrio" che dà la potestà di
ritenerlo o scacciarlo (Purg.XVIII, vv. 70-74). La lettera, che ha
per titolo, al posto dei nomi del destinatario e del mandante, due
perifrasi (Exulanti pistoriensi - florentinus exul immeritus),ma
è indubbiamente dell'A. (l'espressione florentinus et exul
immeritus èapposizione costante del suo nome nei titoli delle
epistole sicuramente sue), contiene un accenno a una delicata
attenzione di Cino, il quale - dice l'A. - sebbene potesse risolvere
la questione per bocca propria, volle che ne fosse lui l'autore per
diffondere il suo nome con la sua dichiarazione di cosa tanto
controversa. E che Cino confortasse l'A. a lavorare senza avvilirsi
per le tristi condizioni del momento, è provato dal sonetto
Dante, i' non so in qual' albergo soni, dove si leggono le
affettuosissime parole: "Diletto frate mio, di pene involto,
mercé per quella donna che tu miri, d'opra non star". Nelle
quali parole sembra evidente l'allusione al Convivio:la donna che
l'A. mira non può essere che la filosofia, la "donna gentile"
dell'opera dottrinale, a cui l'A. attendeva in questi anni, e che
Cino pensava, forse, che procedesse troppo lentamente. Nè
è improbabile, stante l'amicizia del pistoiese con Moroello
Malaspina, che sia stato proprio Cino a introdurre l'A. presso
quella nobile famiglia. Quando con precisione si recasse presso i
Malaspina, non sappiamo; ma doveva già da qualche tempo
essere ospite di Franceschino, cugino di Moroello, in Lunigiana, se
il 6 ott. 1306 il marchese lo costituì "suum legitimum
procuratorem, actorem, factorem et nuncium specialem" per stipulare
la pace, le cui trattative - verosimilmente con la partecipazione
dell'A. - dovevano essere state precedentemente avviate e condotte a
termine, con il vescovo conte di Luni: il trattato di pace, che
chiudeva un lungo periodo di guerre, rapine, incendi, violenze
d'ogni sorta dall'una e dall'altra parte, fu firmato lo stesso
giorno "in ora tercia". Questa nomina è di per sé
dimostrazione della stima che l'A. godette presso la famiglia: e
verosimilmente ne sperimentò per un periodo non di pochi mesi
la cortesia e liberalità, passando dalla corte di uno a
quella di un altro dei membri della nobile casa. Certo, oltre che
presso Franceschino, fu anche presso lo stesso Moroello, come
provano un sonetto (Degno fa voi trovare ogni tesoro),scritto
dall'A, a nome del marchese in risposta ad altro di Cina, e una
letterina con la quale accompagnava l'invio a Moroello della canzone
Amor, da che convien pur ch'io mi doglia.Del resto, le lodi di
Purg.VIII, vv. 121-132, paragonabili per altezza e cordialità
soltanto con quelle a Cangrande in Par.XVII, vv. 76-90, sono rivolte
a tutta la casa, e non a un solo membro. Il fatto, poi, ch'egli
fosse ospite del capitano della lega guelfa che aveva dato ai
Bianchi il colpo di grazia con la presa di Pistoia non deve far
meraviglia, né può essere interpretato come calcolo
opportunistico: l'A. aveva presto ripudiato nettamente le parti, e
come tale poteva rivolgersi ai reggitori neri di Firenze per esser
richiamato in patria, legarsi d'amicizia con Cino, nero, gradire
l'ospitalità di Franceschino Malaspina, ch'era stato capitano
della Lega guelfa nel 1304, e quella dello stesso Moroello, che
aveva doti non comuni di capitano e di gentiluomo, e di cui la
moglie, Alagia dei Fieschi, meritò dall'A. speciale lode di
bontà e pudicizia (Purg.XIX, vv. 142-145). Se appartenga a
questa stessa epoca la lettera e la canzone cui si è
accennato, come alcuni ritengono, o ad epoca posteriore, non
è possibile accertare. In essa l'A. racconta che, partito
dalla corte (par bene, del marchese stesso), e giunto presso l'Arno,
una donna bellissima, improvvisamente apparsagli, l'aveva fatto
ricadere nelle pene d'amore - dal quale si era allontanato -
distogliendolo dalle sue assidue meditazioni del cielo e della
terra. E le terribili pene per una donna insensibile all'amore e
spietata sono il tema della canzone stessa. Parrebbe trattarsi di un
amore reale del poeta più che quarantenne (il Boccaccio, in
Compendio VI, dice per un'alpigiana molto bella, altri pensano a una
fanciulla dei conti Guidi nel Casentino); ma non si può
escludere che si tratti, invece, di un amore allegorico, come
credono altri studiosi, sebbene manchi qualunque fondamento per
un'interpretazione dell'allegoria. Quello solo che si può
dire con quasi certezza (la stessa autenticità della lettera
è stata oggetto di discussioni) è che la canzone, dal
poeta stesso detta "montanina" e scritta in mezzo all'Alpi nella
valle dell'Arno, dovette realmente essere composta durante una
dimora dell'A, nel Casentino presso i conti Guidi, dove parrebbe si
fosse recato, lasciando Moroello, e dove tornò al tempo
dell'impresa di Arrigo VII.
Pur peregrinando da una regione all'altra e di corte in corte, l'A.
attendeva, in questo periodo, tra il 1304 ed il 1307, alle due opere
che avrebbero dovuto, per l'ingegno e la dottrina in esse profusi,
innalzarlo agli occhi di coloro presso i quali era costretto a
cercare ospitalità. Le due opere furono concepite quasi
contemporaneamente; ma al De vulgari eloquentia egli accenna sul
principio del Convivio (I, v, 10), dove, dopo aver osservato che le
parlate volgari si trasmutano anche in piccol tempo, e dopo molto
tempo diventano irriconoscibili, e invece il latino è
perpetuo e non corruttibile, così continua: "Di questo si
parlerà altrove più compiutamente in uno libello,
ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare eloquenza". Non si
può escludere che l'opera potesse in realtà essere
già iniziata, quando scriveva queste parole: che è
opinione di molti; tuttavia sembra più ragionevole pensare
che il proposito di scriverla sorgesse in lui proprio dall'aver
dovuto affrontare, iniziando il Convivio, la questione del rapporto
tra il volgare e il latino. La quale nel Convivio è risolta
con l'affermazione della superiorità del latino rispetto al
volgare "per nobiltà e per virtù e per bellezza":
opinione, invece, rettificata nel De vulgari eloquentia,dove la
locutio vulgaris,in quanto è prodotto di natura, è
detta più nobile del latino, che, secondo l'A., era una
lingua artificiale, trovata dai grammatici per ovviare alle perpetue
trasformazioni dei volgari. Sicché si potrebbe addirittura
argomentare che il trattatello retorico debba essere stato iniziato
dopo il I libro del Convivio,rispetto al quale rappresenta un
progresso del suo pensiero. E poiché il I libro del De
vulgari eloquentia fu scritto prima della morte di Giovanni I,
marchese di Monferrato (febbraio 1305), a cui si accenna (cap. XII,
5)come a vivente, l'inizio del Convivio dovrà porsi nei primi
mesi del 1304 (ad anticiparlo alla fine del 1303 si oppone la sua
dichiarazione, per quanto certamente esagerata, al principio stesso
del libro, di aver già peregrinato per quasi tutte le parti
d'Italia), e l'inizio del De vulgari eloquentia qualche mese dopo
quello del Convivio e comunque non più tardi della fine del
1304.
Il trattatello retorico costituì una breve parentesi nella
stesura del Convivio:scritti di getto, come pare, il primo libro e
il principio del secondo, esaurita, cioè, la parte generale e
teorica, più ampiamente speculativa, quando, col cap. V del
II libro, l'A. passò alla parte propriamente retorica e
normativa, è probabile che fosse preso dal fastidio di una
trattazione troppo angusta; e s'interruppe al cap. XIV: tra l'inizio
e l'interruzione non dovettero trascorrere che pochi mesi. Il
trattato fu concepito "come una organica arte del dire in volgare,
fondata su principî di filosofia, di poetica e di retorica
universali, tali da valere anche per una lingua di popolo che
assurga ad espressione d'arte. La impostazione si mantiene su questo
vasto piano nei primi dieci capitoli del primo libro e nei primi
quattro del secondo; che se il poeta finisce per restringersi nelle
altre parti (come ve lo inducevano passione di patria e diretta
esperienza d'artista) al suo volgare, la specifica trattazione entra
sempre dialetticamente nel piano dell'opera come concreta e
particolareggiata esemplificazione di una dottrina d'arte e di un
problema storico di carattere universale" (A. Marigo, De vulg.
eloq.,p. 2). In questo consiste la novità dell'opera, di cui
l'A. si vanta nelle prime parole del proemio: e sotto questo aspetto
il trattato dantesco s'innalza assai su tutti gli altri trattati di
retorica volgare (che, del resto, l'A. dovette aver presenti, non
meno della Poetica di Orazio, del De inventione di Cicerone e della
Rhetorica ad Herennium),dalle Razos de trobar di Raimon Vidal al III
libro del Tresor di Brunetto Latini, dedicato alla retorica, alle
varie Poetrie d'uso nelle scuole, come quella di Giovanni Vinsauf e
di Giovanni di Garlandia, senza parlare delle Summae artis
dictaminis,che riguardavano la prosa d'arte in genere e più
particolarmente l'epistolografia. Però, più che per
questo aspetto che interessa la storia della trattatistica retorica
medievale, l'opera ha per noi importanza come documento del grande
studio che l'A. scrittore pose - il che non si suole sospettare -
nella ricerca e nell'uso attento e consapevole della lingua e dello
stile. I capitoli VI e VII del II libro, in cui egli tratta della
costruzione della frase e della scelta dei vocaboli nella canzone,
rivelano con quanta attenzione e finezza indagasse i mezzi
espressivi e i risultati formali. La stessa ricerca ch'egli fa di
una lingua "illustre, cardinale, aulica, curiale", e l'esame e la
condanna delle varie parlate municipali sono sostanzialmente la
dimostrazione delle profonde esigenze ,di un artista che vuole
conseguire un alto ideale d'arte. E infatti qui, alla fine del cap.
IV del II libro, afferma che "giammai, senza tenace forza d'ingegno
e assiduo studio dell'arte e abito delle scienze" si può
scrivere alta poesia: dove è delineata la figura ideale del
grande poeta, "aquila che vola alle stelle", con "arte e scienza", e
non "confidando nelle sole disposizioni naturali". È questa
la parte più viva e positiva dell'opera; e in questo senso -
cioè, come ricerca personale della sua propria lingua d'arte
- va giudicata la validità della sua concezione del volgare
illustre italico, ch'egli non trovava in nessuna parlata regionale o
municipale, benché in tutte ne avvertisse - in quale
più, in quale meno - il manifestarsi: concezione che in
nessun modo può aspirare ad avere validità teorica, e
praticamente inattuabile, o attuabile solo secondo il gusto
personale di ogni artista, che è pressappoco la stessa cosa.
Appaiono anche notevoli, nel trattato, la chiarezza del concetto
della naturale evoluzione delle lingue; il tentativo dì
aggruppamento delle lingue europee in tre grandi famiglie - nordica,
sud-orientale, sud-occidentale -, l'ultima delle quali egli vedeva
suddivisa in un "ydioma trifarium", cioè nelle tre lingue
romanze d'oc, d'oïl e di sì,di cui intuiva esattamente
l'unità, ma non la genesi; la divisione delle regioni
linguistiche d'Italia segnata dallo spartiacque appenninico;
l'ideale di una superiore unità linguistica d'Italia,
accompagnato dal sentimento della potenziale unità spirituale
d'Italia, ove fosse esistita un'aula e una curia,cioè una
reggia e un senato, in cui si sarebbero raccolti i più
eccellenti degli Italiani. Il resto, quasi tutta la parte filosofica
e biblica (differenza tra gli angeli e gli uomini nel comunicare tra
loro; la lingua ebraica data da Dio ad Adamo rimasta inalterata
[opinione che rettificherà in Par.XXVI, vv. 124-127];
l'origine della diversità dei linguaggi dalla confusione
babelica; l'invenzione delle lingue "grammatiche", inalterabili per
diversità di tempi e di luoghi) è cosa morta con le
idee e cognizioni del tempo.
Interrotto il De vulgari eloquentia,l'A. tornò al Convivio;ma
anche questo interruppe, certamente dopo il marzo 1306, data della
morte di Gherardo da Camino, che in IV, xiv, 12, è menzionato
appunto come morto, ma prima della elezione di Arrigo di Lussemburgo
(27 nov. 1308), perché in IV, iii, 6, è ricordato il
suo predecessore, Alberto d'Asburgo, come ultimo imperatore eletto.
Oltre che dallo scopo - che forse fu il più urgente e
immediato -, dichiarato esplicitamente nei capp. III e IV del I
libro, di riscattare, con la dimostrazione della sua dottrina,
l'invilimento che l'esilio aveva procurato alla sua persona e alle
sue opere, l'A. afferma di essere stato mosso a scrivere il Convivio
da altre due ragioni: il proposito di purgarsi della "infamia",
cioè del biasimo di "levezza d'animo" per aver cantato con
passione altri amori dopo la morte di Beatrice, e il "desiderio di
dottrina dare". La prima di queste due ragioni gli suggerì la
forma esterna dell'opera: un commento alle stesse canzoni amorose,
col quale avrebbe mostrato "che non passione ma virtù" era
stata l'ispiratrice di esse, spiegandone "la vera sentenza...
nascosta sotto figura di allegoria". E, riallacciandosi al racconto
della Vita nova,del suo "consentire " all'amore per la "donna
gentile" così si giustifica: "la donna di cu' io innamorai
appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo
imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome
Filosofia". Vita nova e Convivio vengono così ad integrarsi,
dimostrando che l'unico amore terreno del poeta era stato ed era
ancora Beatrice ("quella Beatrice beata che vive in cielo con li
angeli, e in terra con la mia anima", Conv.II, ii, 1); ed in questo
senso egli poteva benissimo affermare che non intendeva col Convivio
"in parte alcuna derogare" alla Vita nova.Tuttavia esiste nelle due
opere contraddizione circa l'esito dell'amore per la donna gentile:
questo nella Vita nova è presto scacciato dal ricordo di
Beatrice, mentre nel Convivio Beatrice è vinta dalla
Filosofia, la quale è esaltata come maggiore beneficatrice.
Per eliminare la contraddizione, il Pietrobono, cui ha aderito il
Nardi, ha sostenuto l'ipotesi di una prima redazione perduta della
Vita nova,che doveva concludersi col trionfo, appunto, dell'amore
per la donna gentile, mentre quella che possediamo sarebbe un
rimaneggiamento compiuto dopo l'interruzione del Convivio,per
conformarla allo spirito della Commedia,alla quale l'A. stava per
porre mano. Senonché non esiste in tutta la tradizione
manoscritta, né per altra via, alcun indizio di una redazione
della Vita nova diversa da quella che abbiamo; l'opera invece
dovette essere presto largamente divulgata (un documento bolognese
del 15 giugno 1306, quando probabilmente l'A. non aveva ancora
finito l'ultimo trattato compiuto del Convivio,ci fa conoscere il
reclamo per il furto di "unum librum qui vocatur Vita nova scriptum
in cartis pecudinis"), sicché sarebbe stato impossibile
all'A. modificarne - e tanto sensibilmente! - il contenuto, ch'era
ormai di dominio pubblico; senza dire, poi, della fondamentale
difficoltà, implicita nell'ipotesi del Pietrobono, che un
libro scritto, come lo stesso critico ammette, in lode di Beatrice
terminasse col trionfo di un'altra donna. All'A, dovette sembrare
sufficiente che le due opere concordassero sul motivo del contrasto
tra il vecchio e nuovo amore, sul quale insiste l'intero libro II
del Convivio (anzi su questo la concordanza è talvolta
addirittura letterale), nonché sulla persistenza
incrollabile, ribadita nel Convivio,dell'amore per Beatrice. E non
si curò di fare accomodamenti; sicché la
contraddizione tra le due opere rimase, ed è ineliminabile a
fil di logica, come, del resto, sono alcune contraddizioni tra l'una
e l'altra parte della stessa Commedia.In questi casi bisogna
rassegnarsi ad accettare con discrezione le cose così come
stanno, tenendo presente a volta a volta la particolare situazione,
o il fine che l'A. si proponeva di raggiungere, nonché quel
tanto di arbitrario nelle saldature delle composizioni medievali,
che anche l'A. più di una volta si permise, con grande
disinvoltura, nella stessa Commedia.Ma più che per purgarsi
della taccia di leggerezza amorosa, il commento allegorico alle
canzoni dovette apparire all'A. un mezzo, nello stesso tempo, nuovo,
utile e dilettevole per imbandire senza eccessiva pesantezza il suo
banchetto di sapere; giacché egli si rivolgeva non ai dotti,
ma a tutti coloro che o per pigrizia, o perché distratti da
cure familiari e civili, non si erano dedicati agli studi, e in
particolare, come gli suggeriva l'esperienza del suo peregrinare di
corte in corte, ai nobili, "principi, baroni, cavalieri, e
molt'altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine, che sono
molti e molte", ai quali sarebbe stato utile il beneficio del
sapere, perché da essi specialmente dipendevano i costumi e
il benessere della società. E dunque si può affermare
che un apostolato di scienza fu l'intimo motivo ispiratore
dell'opera, quello che diede ad essa l'entusiasmo di un'opera di
fede. Il suo tono fondamentale, difatti, è di un inno al
sapere, giacché "la scienza è ultima perfezione de la
nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade. (Conv.I,
i, 1). Facciamo nostro il giudizio sintetico, bene aderente, del
Barbi (Introduzione al Convivio,ediz. Busnelli-Vandelli, p. LVI):
"Opere più dotte se ne hanno in gran numero nel Medioevo, ma
non opere in cui vibri tanto sentimento e riluca un così alto
ideale umano. Accanto quindi alle parti puramente dottrinali,
anch'esse notevoli per chiarezza e vigore di trattazione, si hanno
pagine vive, calde, colorite...; e non occorre ricordare le pagine
in cui si discorre dell'esilio, quelle in difesa del volgare, e
quelle in cui vien rappresentata la nobiltà della vita umana
nelle sue varie età. Né si parli di trattazione
farraginosa: c'è qualche volta intenzione palese di mostrar
dottrina, e si può desiderare che certe trattazioni fossero
contenute in più brevi limiti, ma farraginoso il procedimento
non è mai; sono come lezioni o conversazioni in cui le
digressioni, le parentesi, gli episodi, gli sfoghi cadono di per
sé naturali, e che, contenuti in giusti limiti, piuttosto che
ingenerare confusione, danno bella varietà e servono a
mettere in più frequente contatto con la vita e a destar
maggiore interesse". Aggiungiamo che quel che distingue il Convivio
dalle affini opere enciclopediche medievali è che qui il
banchetto di sapienza è imbandito da un poeta. Fantasia e
sentimento qui investono il sapere, fanno appassionante la ricerca,
trasformano le cognizioni in immagini e palpiti di umanità.
L'indagine dottrinale si fonde continuamente con l'indagine quanto
mai varia del cuore umano e con l'estro della fantasia; e infatti
non poche immagini e considerazioni di varia umanità son
passate dal Convivio alla Commedia.Si può dire, anzi, che il
Convivio anticipi degnamente la poesia del pensiero, che è
tanta parte della poesia del Paradiso;e sotto questo riguardo, ha
particolare importanza il terzo trattato, commento alla canzone Amor
che ne la mente mi ragiona.Esso è tutto un'esaltazione della
mente umana, della nobiltà della natura "vera umana o, meglio
dicendo, angelica, cioè razionale". ("è da porre e da
credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta
condizione che quasi non sia altro che angelo"), della filosofia,
mediante la quale "l'umana perfezione s'acquista, cioè la
perfezione della ragione,... tanto che l'uomo, in quanto ello
è uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è
beato". È anche il trattato che meglio chiarisce la posizione
definitiva del pensiero dell'A. quanto al rapporto tra filosofia e
fede quale abbiamo delineato più su: fede saldissima, ma
nessuna rinunzia all'attività della ragione, cioè alla
speculazione filosofica, considerata, anzi, come aiuto alla fede
(Conv.III, xiv, 14), precisamente come nella Commedia,dove Virgilio
è aiuto e preparazione a Beatrice. Torna qui opportuno
ripetere che non c'è differenza, quanto all'atteggiamento
speculativo, tra il Convivio e la Commedia:anche nel Convivio la
teologia è celebrata come la colomba di Salomone, la perfetta
fra tutte le scienze, quella che "piena è di tutta pace, la
quale non soffera lite alcuna d'oppinioni o di sofistici argomenti,
per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è
Dio", quella che "perfettamente ne fa il vero vedere, nel quale si
cheta l'anima nostra" (Conv.II, xiv, 19-20). E, del resto, lo stesso
amore per la donna gentile, in quanto amore i "la veritade e a la
vertude", è, in ultima analisi, amore a Dio: la maggiore
insistenza sull'eccellenza della ragione nel Convivio,sui suoi
limiti, invece, nella Commedia,specie nel Paradiso, è
inerente alla differenza di materia e d'intenti nelle due opere.
Anche la materia dottrinale - scientifica, filosofica, teologica -
non subisce, dal Convivio alla Commedia,se non qualche
insignificante rettifica. E per la prima volta si manifesta il
pensiero politico dantesco; e non già in via di elaborazione,
ma nella sua forma definitiva, quale sarà più
ampiamente sviluppato nella Monarchia e ribadito nella Commedia:il
che implica un precedente processo di maturazione, che peraltro non
siamo in grado di seguire. È da credere che l'A. cominciasse
a riflettere sulle rispettive giurisdizioni del papato e del potere
laico all'epoca del suo priorato, quando Bonifazio VIII pretendeva
la revoca della condanna dei Fiorentini che avevano congiurato a suo
favore, sostenendo essere stata data da Dio al suo vicario la
potestatis plenitudo,e il suo legato, Matteo d'Acquasparta,
armeggiava in Firenze per attuare le mire temporali del pontefice.
Quanto alla potestà imperiale, non solo, come guelfo, allora
non ne ammetteva l'ingerenza (ed aveva assistito alla fiera
opposizione del Comune ai tentativi di Rodolfo d'Asburgo e dei suoi
vicari, Loddo d'Alemagna, nel 1281, e Percivalle Fieschi, nel 1286,
dì menomarne l'indipendenza), ma sappiamo anche, da un
accenno ch'egli fa in Conv.IV, iv, 8, e dall'esplicita dichiarazione
di Mon.II, i, 2-3, ch'egli allora seguiva l'opinione "che la romana
potenzia non per ragione né per decreto di convento
universale fu acquistata, ma per forza", il che implicava il
disconoscimento dello stesso fondamento morale e giuridico
dell'Impero. Poi l'esorbitanza delle pretese di Bonifazio,
consacrate solennemente nella bolla Unam sanctam, che faceva del
pontefice il sovrano temporale, oltre che spirituale, del mondo e
tutti soggetti al suo cenno; la violenta polemica sorta intorno ad
essa nel conflitto tra Bonifazio VIII e il re di Francia; la
decadenza morale di tutta la Chiesa, da una parte, e la visione,
dall'altra, del disordine civile, delle violenze e guerre in ogni
parte d'Italia, tra le mura di una stessa città, a cui la
Chiesa non era in grado di porre rimedio; tutto ciò, se non
vogliamo aggiungere anche lo sdegno personale contro Bonifazio e i
contatti con ghibellini quali Bartolomeo della Scala, dovette
presto, nell'esilio, allargare l'orizzonte del suo pensiero
politico, prima ristretto alle tradizioni guelfe e alle istituzioni
e agli interessi del suo Comune. Ma non meno che da queste
contingenze storiche e personali, a concretare il suo pensiero
politico l'A. dovette essere spinto da quella sua intima esigenza di
trovare principî universali, e di non acquietarsi se non in
verità assolute e inderogabili. Certo, quando scrisse i capp.
IV e V del IV libro del Convivio,il suo pensiero era pienamente
definito; e schematicamente è questo: l'umanità
è ordinata alla felicità, che non può essere
raggiunta se non mediante la vita associata (famiglia, quartiere,
città, regno); ma poiché la cupidigia dell'uomo
è infrenabile, inevitabili sono discordie e guerre che,
togliendo la pace, impediscono il raggiungimento del fine
dell'umanità. "A queste guerre e le loro cagioni torre via,
conviene di necessitade tutta la terra... essere monarchia,
cioè uno solo principato e uno prencipe avere; lo quale,
tutto possedendo e più desiderare non possendo", tenga tutti
dentro l'ordine dovuto, sì che regni la pace, e ciascuno,
avuto ciò di cui ha bisogno, sia felice. Sono concetti di
Aristotele, che l'A. cita due volte nello stesso capitolo IV.
Virgilio, la storia romana e la Bibbia completano il pensiero
politico dantesco; al popolo romano spetta l'elezione del monarca
universale, perché Dio, come afferma Virgilio, aveva dato ai
Romani l'impero del mondo: e ciò perché tutta la terra
fosse, per la venuta di Cristo, nella sua ottima disposizione, il
che non poteva avvenire se non nella pace, che solo la monarchia
unica poteva attuare e fu attuata difatti sotto Augusto, come
testimonia Luca evangelista; di questa missione da Dio affidata a
Roma sono prove la contemporaneità della fondazione di Roma e
della nascita di David, da cui doveva nascere Maria, l'intervento
soprannaturale negli eventi fortunosi della storia di Roma, le
straordinarie virtù degli antichi Romani. Queste
argomentazioni valgono quel che valgono; ma importa notare che l'A.,
affermando che l'Impero romano era stato voluto da Dio, e l'elezione
del monarca affidata direttamente al popolo romano, implicitamente
veniva ad escludere ogni diritto del papato a ingerirsi in
ciò che concerneva l'Impero. La dimostrazione di questo
concetto sarà lo scopo della Monarchia;qui l'A. non aveva
ragione di essere più esplicito. Come nei riguardi del
pensiero filosofico-teologico, così del pensiero politico,
l'atteggiamento dell'A. nel Convivio non differisce da quello della
Commedia;anche in questo l'assenza del supremo potere civile
è lamentata come la causa dei mali "ne la misera Italia, che
sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa" (Conv.IV,
ix, 10). E ancora è da notare come l'atteggiamento fermo di
giudice ch'egli assume, nell'ultimo trattato, di fronte a sovrani e
signori vivi e morti, ben diverso da quello compassionevole con cui
nel primo libro aveva lamentato la miseria del suo stato, preluda
anch'esso alla Commedia.E infine, quale sublime coscienza della
potenziale nobiltà dell'uomo, in questo quarto trattato, che
commenta appunto la canzone della nobiltà, Le dolci rime
d'amor ch'i' solia!.L'A. arriva ad accettare l'opinione - che "se
tutte le... vertudi s'accordassero sovra la produzione d'un'anima ne
la loro ottima disposizione, ...tanto discenderebbe in quella de la
deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato" (Conv.IV, xxi,
10). Il mondo era privo di virtù, e l'A. lo popolava delle
figure eroiche di Roma antica, e vedeva addirittura in Catone
Uticense l'uomo "più degno di significare Iddio" (IV, xxviii,
15). Il sentimento della vita eroica, nella sfera del pensiero e
dell'azione, che accompagna di mondo in mondo il pellegrino della
Commedia,investe già le pagine di questo libro: e in
ciò è la sua maggiore importanza. Ma particolare
importanza ha anche come opera di grande impegno stilistico.
Accingendosi a scrivere un'opera di scienza in volgare invece che in
latino, a beneficio dei moltissimi "non litterati" (il Convivio
è il primo trattato scientifico in volgare italiano), egli
s'impegnava di dimostrare non solo com'esso volgare non fosse
inferiore ai volgari d'oltralpe, ch'era accusa di molti "malvagi
uomini d'Italia" che dispregiavano esso e commendavano gli altri (I,
x, 10-11, xi, 1), ma - cosa ancor più importante - come si
potessero "per esso altissimi e novissimi concetti convenevolmente,
sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino,
manifestare" (I, x, 12), tanto da presagire che l'uso del volgare,
in luogo del latino, "sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale
surgerà là dove l'usato tramonterà, e
darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per
lo usato sole che a loro non luce" (I, xiii, 12). Rispetto alla
prosa della Vita nova,in cui il lirismo sognante del libretto sembra
talvolta indulgere troppo a ondeggiamenti, ripetizioni, morbidezze
musicali, la prosa del Convivio ha una robustezza e una precisione,
che rivelano nell'autore il pieno dominio della forma. Qui la forza
e maturità del pensiero, l'ardore così della
speculazione come del sentimento, l'altezza della coscienza morale
si riflettono in uno stile nudo e incisivo, appassionato e
convincente: un esempio pratico di alta prosa in quel volgare
illustre che vagheggiava teoricamente.
Dopo l'ospitalità dei Malaspina, e, probabilmente, dei conti
Guidi nel Casentino, si suppone ch'egli passasse a Lucca. A un suo
soggiorno in questa città accenna l'A. stesso; e ci fa sapere
che gli riuscì gradito per la cortesia di una gentildonna di
nome Gentucca (si pensa a una Morla o a una Fondora di questo nome,
che nel 1300 dovevano essere giovanissime, e quindi non portavano
"ancor benda": cfr. Purg.XXIV, vv. 37-45).Sappiamo anche di lagnanze
dei Fiorentini per l'ospitalità che in essa trovavano, tra il
1308 e il 1309, esuli e sbanditi dalla nuova guerra civile scoppiata
in Firenze tra i Neri stessi, nella quale perì Corso Donati,
tanto che il Comune di Lucca si decise a interdire ad essi il
soggiorno, con un editto del 31 marzo 1309. E già si è
detto del documento lucchese del 21 ott. 1308, in cui compare un
"Iohannes filius Dantis Alagherii de Florentia".Sicché
è molto probabile che appunto al 1308 debba assegnarsi la
dimora dell'A. nella città di Gentucca. Sulle sue
peregrinazioni tra la fine del 1308 e la fine del 1310 non abbiamo
elementi neppure per formulare qualche congettura. C'è,
però, l'affermazione di Giovanni Villani, ripetuta
insistentemente dal Boccaccio, di un viaggio dell'A. a Parigi, per
studiare in quella celebre università, donde sarebbe tornato
dopo la discesa in Italia di Arrigo VII. Dirigendosi oltralpe,
secondo il Boccaccio, si sarebbe fermato al monastero di S. Croce
del Corvo, presso Lerici; e qui, secondo la lettera di un frate
Ilario, trascritta dal Boccaccio stesso nel suo Zibaldone dantesco
(cod. Laurenz.XXIX, 8), egli avrebbe dato al frate una copia
dell'Inferno con sue chiose, invitandolo ad aggiungervi le proprie,
e inviare poi l'opera a Uguccione della Faggiuola. Ma la lettera
è tutta un'assurdità, e pertanto non prova nulla.
Né valore probativo hanno gl'indizi indiretti di un viaggio
in Francia, che si son voluti trovare nella Commedia,dei quali i
più rilevanti sarebbero la menzione (in Par.X, v. 137) del "
vico delli strami", la parigina Rue de Fouarre, dove erano le scuole
di filosofia, e la descrizione dell'esame del baccelliere in
Par.XXIV, vv. 46-48, giacché il vicus straminum era ben noto
per fama, e a esami del genere l'A. certo avrà assistito
negli Studi di Firenze e di Bologna. E infine, aveva l'A. la
possibilità di mantenersi a Parigi? o di chi sarebbe stato
ospite?
Frattanto si preparavano eventi, che dovevano lasciare nel cuore e
nell'opera dell'A. impronte indelebili. Il 27 nov. 1308 era stato
eletto Imperatore Arrigo VII, conte di Lussemburgo; e il 20 luglio
del 1309 papa Clemente V, il "guasco", successo nel 1305 a Benedetto
XI, da Avignone, dove aveva trasferito la Curia papale, comunicava
con un'enciclica alla cristianità di averlo riconosciuto re
dei Romani ("carissimum fllium nostrum Henricum,... denunciavimus et
declaravimus regem Romanorum"), promettendo d'incoronarlo nella
basilica di S. Pietro. I rapporti tra le due supreme autorità
erano ottimi: Clemente nel 1307 aveva nominato Baldovino, fratello
di Arrigo, arcivescovo di Treviri, per cui questi era diventato uno
dei grandi elettori tedeschi; e di Arrigo aveva favorito l'elezione.
Arrigo, da parte sua, nel chiedere al pontefice la consacrazione, lo
aveva riconosciuto come "luminare maius", aveva proclamato il suo
amore della pace e la volontà d'instaurarla, aveva affermato
il proposito di liberare il Santo Sepolcro: tutto ciò che
stava a cuore al pontefice. La terra dell'Impero dove bisognava
imporre la pace era l'Italia. Fuorusciti, ghibellini, e guelfi
fattisi ghibellini, mandavano all'imperatore ambascerie, invocandone
l'intervento, con doni e assicurazioni di aiuti. Nell'agosto del
1309, a Spira, la spedizione in Italia fu decisa; e intanto, tra la
primavera e l'estate del 1310, ambasciatori imperiali furono inviati
alle città italiane, per richiedere l'omaggio all'imperatore
e la sospensione delle guerre in corso. Tra la generale riguardosa
accoglienza che ad essi venne fatta, Firenze fece sentire una nota
meno rispettosa. Narra il Compagni (III, 35)che nel Consiglio in cui
i messi esposero i mandati imperiali, si levò primo a parlare
Betto Brunelleschi, affermando "che mai per niuno signore i
Fiorentini non inchinarono le corna". Secondo Flavio Biondo, l'A.
avrebbe dimorato allora (luglio 1310) a Forlì presso
Scarpetta Ordelaffi, e avrebbe scritto, a questo riguardo, una
lettera a Cangrande, a nome della parte bianca degli esuli e suo,
deplorando la cecità dei Fiorentini. Il Biondo aveva
sott'occhio la lettera, lasciata scritta da Peregrino Calvi, il
segretario dell'Ordelaffi, di cui già si è detto, e vi
prestò fede; ma essa era certamente una mistificazione del
Calvi, a provar la quale basta il fatto che l'A. da molti anni aveva
troncato ogni rapporto coi Bianchi (Barbi, Sulla dimora di D. a
Forlì,in Problemi s. 1 [1934], pp. 189-195). Finalmente,
attraverso gli stati del conte Amedeo di Savoia, suo cognato, il 23
ott. 1310 Arrigo entrò in Italia a Susa, con piccolo
esercito. Ne aveva preannunziata la venuta Clemente V, il 1º
settembre, con una calorosa epistola in cui lo proclamava il "re
pacifico innalzato fra le genti dalla grazia divina..., frutto di
questa grazia", che avrebbe restaurato la giustizia senza
parteggiare per gli uni o per gli altri, e invitava tutti ad
accoglierlo con onore. Questa amorevole concordia delle due supreme
autorità del mondo cattolico, da secoli in lotta tra loro,
per attuare così alto programma di pace e di giustizia,
dovette sembrare un miracolo. Non poche, infatti, sono le
testimonianze della commozione che si diffuse in Italia, quasi si
aprisse una nuova era. S'erano perfino visti presagi celesti della
venuta di Arrigo: una notte era apparso in aria "uno grandissimo
fuoco.., correndo dalla parte d'Aquilone verso il meriggio con
grande chiarore, sicché quasi per tutta Italia fu veduto, e
fu tenuto a grande maraviglia; e per gli più si disse che fu
segno della venuta dello 'mperadore" (Villani, VIII, 1o9). Entrato
Arrigo in Italia, da Torino a Milano fu quasi tutto un trionfo: egli
aveva dichiarato di aborrire le parti, e guelfi e ghibellini
s'inchinavano a lui parimenti; gli esuli tornavano nelle
città, dove vicari imperiali erano posti a garantire
l'imparzialità della giustizia; città rivali giuravano
tra loro pace. Parve un miracolo il passaggio del Ticino, avvenuto
senza bisogno di navi.
Bisogna tener presente l'atmosfera di fervore quasi religioso, che
sembrava avesse invaso gli animi lacerati dalle passate discordie,
per meglio comprendere e giustificare il tono dell'epistola che l'A.
rivolse a tutti i regnanti, i signori, i Comuni d'Italia e i
senatori di Roma, quando l'imperatore stava per passare le Alpi.
Poiché nella chiusa di questa epistola l'A. si riferisce
esplicitamente all'enciclica di Clemente del 1º settembre, e,
poco dopo il principio, dice, rivolgendosi all'Italia, "sponsus
tuus, mundi solatium et gloria plebis tue, clementissimus Henricus,
divus et Augustus et Cesar, ad nuptias properat", è evidente
che essa fu scritta dopo che l'enciclica fu conosciuta e prima
dell'entrata in Italia dell'imperatore. Dove fu scritta non
sappiamo: alcuni pensano a Forlì, dando, in questo, parziale
credito alla notizia, più su riferita, di Flavio Biondo.
L'epistola comincia con le squillanti parole di Paolo ai Corinzi
(II, vi, 2) "Ecce nunc tempus acceptabile", ed è tutta
intessuta di espressioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, non,
però, senza qualche eco di Virgilio e qualche riferimento
alla storia di Roma, l'altro Testamento della fede politica
dell'Alighieri. Arrigo è detto un altro Mosè che
strapperà il suo popolo dalla servitù degli Egiziani,
il pastore discendente da Ettore, il predestinato da Dio a portare
consolazione e pace alla misera Italia, il sole che farà di
nuovo risplendere la giustizia. Tutti s'inchinino a lui: egli
punirà gli empi e i malvagi, ma avrà misericordia di
quelli che si saranno pentiti, perché la sua autorità
sgorga da Dio, fonte di pietà. E perciò gli oppressori
si liberino dalla barbarie longobardica da essi acquisita, e non
resistano a lui, che varrebbe quanto resistere a Dio; e gli
oppressi, coloro che, come l'A., sono stati ingiustamente colpiti,
riprendano animo, e perdonino a loro volta. Dio ha mandato
l'imperatore, e il vicario di Dio esorta ad onorarlo. È
questo, di tutti gli scritti danteschi di politica militante, quello
in cui più alto, più puro si manifesta il suo
sentimento: uno scritto, si direbbe, religioso più che
politico, perché la sua ispirazione fondamentale è
l'immensa fiducia dell'A, nella provvidenza divina; la polemica
generale e personale è tutta disciolta in questo sentimento
della presenza di Dio nello straordinario evento: Arrigo, più
che l'imperatore, è il Messia, e l'A. si sente il suo
profeta. Due concetti in essa crediamo opportuno segnalare, sebbene
si tratti di un semplice accenno: uno, che da Dio "velut a puncto
biffurcatur Petri Cesarisque potestas"; l'altro, che i sudditi
dell'imperatore sono non solo riservati al suo comando, ma, come
uomini liberi, al governo da lui regolato ("non solum sibi ad
imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati"): sono due concetti
importantissimi, che verranno sviluppati rispettivamente nel III e I
libro della Monarchia.
Ignoriamo dove e quando l'A. rese il suo omaggio all'imperatore:
probabilmente egli non dovette tardare a corrergli incontro; forse
ancor prima che cingesse la corona di ferro a Milano (epifania
1311). Comunque, al fatto accenna nella lettera, di cui diremo tra
poco, all'imperatore stesso, del 17 aprile, nella quale ricorda il
giorno memorabile in cui lo vide e lo udì, e gli si
prostrò ai piedi: "Tunc - egli dice addirittura coi testi
sacri (Luca I, 47; Giovanni I, 29)- exultavit in te spiritus meus
cum tacitus dixi mecum `Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata
mundi'": nessuna meraviglia che alla esaltazione del momento l'A.
non trovasse espressione adeguata se non nelle parole del Precursore
al Messia. Ma all'impresa pacificatrice di Arrigo, così
felicemente iniziata, sorsero ben presto i primi ostacoli: le paci
si rivelarono effimero frutto di una momentanea generale commozione,
non di convinzione e di buona volontà, come tante altre volte
era avvenuto, in seguito all'intervento di papi o alla predicazione
di religiosi e di santi, nella storia del nostro Medioevo. Una
situazione così tesa e così complessa qual'era quella
allora dei Comuni e delle larvate Signorie d'Italia non poteva
essere appianata d'un tratto, senza provocare prima o poi la
reazione dei potenti, menomati nei loro interessi particolari
dall'intervento dell'imperatore. Anche il ritorno dei fuorusciti,
provvedimento - teoricamente - di somma giustizia, non sempre
risultava politicamente opportuno o senza pericoli. Né la
forza militare dell'imperatore era tale da tenere a freno e
intimidire i più irrequieti e i più decisi. La
scintilla della rivolta fu data da Guido Della Torre, ch'era stato
signore di Milano, e che aveva dapprima accolto senza resistenza il
monarca nella città; la rivolta fu soffocata nel sangue e le
truppe si abbandonarono al saccheggio. L'astro del re pacifico si
oscurava. Rifugiatosi a Cremona, il Della Torre sollevò anche
questa città contro l'imperatore. Seguì la ribellione
di Brescia, caduta in mano dei guelfi: minori focolai di rivolta si
accendevano per tutta la Lombardia. Firenze intanto apertamente si
preparava in tutti i modi alla lotta: costruiva alacremente mura,
fossi, steccati intorno alla città; stringeva una lega fra le
città guelfe toscane, alla quale aderì Bologna;
aiutava col denaro le città ribelli lombarde, sollecitava
l'appoggio del re Roberto di Napoli, tramava contro Arrigo alla
corte di Avignone. All'A. tutto ciò sembrò follia ed
empietà a un tempo; e il 31 marzo 1311 si rivolse
direttamente "agli scelleratissimi Fiorentini di dentro", con
un'epistola in cui lo sdegno è senza dubbio assai più
forte della carità di figlio che, prevedendo la rovina sicura
della patria, cerchi persuadere i suoi concittadini ad evitarla.
Ma l'A., quando le sue convinzioni ne provocano lo sdegno, è
terribile ccme i profeti d'Israele. I Fiorentini sono trasgressori
delle leggi divine e umane, disposti per la loro terribile cupidigia
ad ogni nefandezza, sciocchi come gli edificatori di Babele, privi
del fondamento stesso della sapienza che è il timor di Dio,
insolenti, arroganti, superbissimi, i più boriosi dei
Toscani, per natura e per vizio insensati, miserrima discendenza dei
Piesolani. Gli argomenti polemici sono gli stessi delle precedenti
scritture: la ragione, la Bibbia, la storia dimostrano che Dio
dispose l'impero romano a governare le cose umane ai fini della pace
e del viver civile: vacante l'Impero, tutto il mondo travia, anche
la navicella di Pietro. Né c'è prescrizione
all'autorità dell'Impero, né esso può essere
sostituito da altra autorità, precisamente come per
l'autorità della Chiesa. E neppure il sottomettersi alla
giustizia legittima è servitù, ma anzi è la
somma libertà. "Che altro, infatti - egli dice -, è la
libertà, se non il libero attuarsi della volontà, che
le leggi facilitano a coloro che s'inchinano ad esse?": definizione
che sarà ripetuta, con qualche variazione di forma, non
disostanza, in Monarchia I, xii,2. E Arrigo ha affrontato le
più ardue difficoltà non per un suo vantaggio, ma per
il bene del mondo, novello Cristo. Si pentano, dunque, amaramente e
presto, i Fiorentini, della loro superbia, perché la loro
punizione, se il pentimento tarderà, sarà senza
misericordia.
La lettera porta, oltre alla data, l'indicazione del luogo: "in
finibus Tuscie, sub fontem Sarni", cioè nel Casentino: quasi
certamente l'A. era lì ospite del conte Guido di Battifolle
nel castello di Poppi. La stessa indicazione porta anche la lettera
che solo due settimane dopo, il 17 aprile, l'A. indirizzò non
soltanto a nome suo, ma di "tutti quanti i Toscani che desiderano la
pace", allo stesso "sanctissimo, gloriosissimo, atque felicissimo
triumphatori et domino singulari domino Henrico divina providentia
Romanorum regi et semper Augusto". Il luogo da cui fu scritta
illumina - noi crediamo - a intendere l'espressione "omnes Tusci qui
pacem desiderant": questi non possono essere i ghibellini, e tanto
meno i Bianchi fiorentini fuorusciti, coi quali l'A. si fosse
nuovamente accordato. La lettera dovette essere ispirata dalle
trepidazioni di tutti i Toscani di buona volontà, che avevano
reso omaggio all'imperatore, ma, intimoriti dai preparativi di
guerra da parte dei Fiorentini, erano impazienti della lunga sosta
dell'imperatore in Lombardia, e quasi dubitavano (così
parrebbe) ch'egli avesse in animo di rinunziare a intervenire nella
situazione di Toscana; e non è improbabile ch'essa fosse
sollecitata dagli stessi conti Guidi, presso cui l'A. dimorava, e
che più tardi, infatti, si piegarono alle ingiunzioni di
Firenze e si schierarono contro l'imperatore. Dopo un lungo esordio,
in cui ricorda l'esultanza e le speranze d'Italia, quando
l'imperatore aveva passato le Alpi, e le perplessità ora
sopraggiunte per la sua dimora in Lombardia, come se l'Impero fosse
lì circo-scritto, la lettera insiste poi tutta sulla
necessità di rompere gl'indugi e venire in Toscana ad
estirpare la radice stessa dell'opposizione, Firenze. Questa egli
dice - è la vipera che si rivolge contro il seno della
propria madre, Roma; è la pecora infetta che contagia le
greggi vicine; è la scellerata ed empia Mirra che cerca
l'amplesso del padre, il sommo pontefice; èAmata ribelle al
volere del fato, che si oppone alle nozze legittime e cerca le
illegittime (allusione al re di Napoli, Roberto d'Angiò).
Anche concedendo alla retorica epistolare i suoi diritti, qui la
violenza dell'atteggiamento dell'A. contro Firenze oltrepassa di
molto il fierissimo sdegno dell'epistola ai Fiorentini: non
c'è neppure un accento di quella "carità del natio
loco", che non manca quasi mai in mezzo alle sue collere più
tempestose: c'è solo l'odio biblico contro gl'idolatri, e
furore di sterminio. Quanto tempo egli dimorasse ancora nel
Casentino non sappiamo; ma vi era ancora il 18 maggio, e
precisamente nel castello di Poppi, come indica la data della terza
delle tre letterine, che a buon diritto si ritengono scritte da lui
a nome della contessa toscana palatina G[herardesca] di Battifolle,
moglie del conte Guido, e indirizzate all'imperatrice. Sono tre
ornatissime letterine di ringraziamento e di ossequio, e di auguri
per la felice riuscita dell'impresa di Arrigo, in risposta alle
lettere dell'imperatrice; ma s'insinua in esse così evidente
la personalità dell'A., con i suoi concetti e i suoi
sentimenti (il principe unico voluto dalla provvidenza per il
consorzio umano; la speranza che Arrigo riformi in meglio la
società traviata), che non parrebbe giustificato il dubbio
sulla loro attribuzione all'Alighieri. Il 15 giugno Arrigo prese
finalmente Cremona, e pose subito l'assedio a Brescia; ma la
città non si arrese che nel settembre; e nei quattro mesi di
assedio le perdite dell'esercito imperiale, anche per il flagello
della peste, furono tali che Arrigo, prima di recarsi a Roma per
l'incoronazione, decise di sostare a Genova per raccogliere nuove
forze (ottobre 1311-febbraio 1312). Qui il 10 dic. 1311, dopo aver
invano mandato a Firenze nuovi ambasciatori, i quali furono
addirittura costretti a fuggire, mise Firenze al bando dell'Impero,
dopo regolare processo, al quale furono chiamati molti testimoni.
Non sappiamo se l'A. fosse tra questi; ma non è improbabile
che, allontanatosi dal conte Guido, quando questi cominciava a
tergiversare tra l'ossequio dato all'imperatore e le ingiunzioni di
Firenze, alle quali infine, come si è detto, ubbidì,
l'A. passasse a Genova al seguito dell'imperatore. Il 2 sett. 1311
egli era stato escluso dall'amnistia concessa da Firenze a molti dei
guelfi cacciati in bando, con la cosiddetta Riforma di Baldo
d'Aguglione. Era questi il principale dei priori allora in carica,
abilissimo e disonesto uomo di leggi, verso cui l'A. non nascose il
suo disprezzo (Par.XVI, vv. 55-57),già condannato per aver
raso da un atto notarile una testimonianza sfavorevole a un suo
cliente (Purg.XII, v. 105). Ma la Riforma era atto di grande
avvedutezza. Il nome dell'A. appare tra gli esclusi del sesto di
Porta S. Pietro, insieme con i figli di messer Cione del Bello, suoi
cugini (Piattoli, 1o6). Da Genova Arrigo sbarcò a Pisa il 6
marzo 1312; e potrebbe darsi che vi fosse anche l'A., se in questo
periodo (marzo-aprile 1312) avvenne l'incontro tra lui e Francesco
Petrarca bambino, che a Pisa aveva compiuto il suo settimo anno
(Famil.XXI, xv, 7; I, 1, 24). Da Pisa Arrigo il 19 aprile mosse
verso Roma. Qui le milizie di Roberto d'Angiò, insieme con
quelle inviate da Filippo il Bello, al comando del fratello
Giovanni, avevano occupato il Campidoglio, il Vaticano e Castel
Sant'Angelo; ed erano dalla loro parte le famiglie degli Orsini e
dei Caetani. Dalla parte dell'imperatore si schierarono i Colonna.
Il papa, che aveva mandato cardinali legati per incoronare
l'imperatore in sua vece, ormai schiavo della volontà del re
di Francia, non si mosse in suo favore, dimostrando di tollerare
l'opposizione angioina. Arrigo s'insediò in Laterano, mentre
per le vie si combatteva. Nella confusione della situazione,
espugnato con le armi il Campidoglio, Arrigo vi convocò il
popolo di Roma; e questo impose al cardinal legato Niccolò da
Prato l'incoronazione dell'imperatore. La quale avvenne solennemente
nella festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno 1312, nella
basilica di S. Giovanni in Laterano, e non in quella di S. Pietro,
come in luogo più sicuro. Sebbene in pratica non valesse se
non la forza delle armi, l'atto aveva un'importanza ideale
riconosciuta anche da coloro che di fatto non ne tenevano conto: per
questo Roberto d'Angiò, Filippo il Bello, i Fiorentini
avevano cercato d'impedirlo; esso perfezionava e consacrava la
legittimità dell'autorità imperiale: il crisma
religioso conferiva alla persona stessa dell'imperatore un carattere
sacro. Era un mito, come l'universalità dell'Impero; ma
affascinava le menti e commoveva gli animi. E che la mente e l'animo
di Arrigo stesso, malgrado la dura lezione della realtà,
fossero pieni di questi miti, prova l'epistola - quale avrebbe
potuto scrivere l'A. stesso - da lui inviata ai sovrani d'Europa per
comunicare l'avvenuta consacrazione (Monumenta Germ. Hist.,
Constitutiones et Acta publica,IV, 2, pp. 801-804): il che fa dello
sfortunato imperatore, che nella spedizione d'Italia perdette prima
un fratello, poi la moglie, e infine la vita, un personaggio,
diremmo, "romantico", l'ultimo, nella storia del Medioevo, sincero
credente nel sogno della restaurazione di una autorità
universale, a somiglianza di quella dell'Impero romano. Ma non era
passato un mese dall'incoronazione, che a Tivoli, dove stava
passando l'estate, gli giunsero lettere di Clemente V, che
gl'imponeva di uscire dalle terre della Chiesa, e di far tregua con
Roberto d'Angiò. Rispose l'imperatore il 6 agosto, affermando
l'indipendenza dell'autorità imperiale da quella del
pontefice, e il diritto di risiedere nella capitale dell'Impero.
Poco dopo lasciò effettivamente lo Stato della Chiesa, e,
raccogliendo milizie attraverso l'Umbria e la Toscana, giunse il 19
settembre davanti a Firenze. L'assedio, che durò quaranta
giorni, fu del tutto vano: l'imperatore era malato; le truppe
imperiali, inferiori di numero, non riuscivano neppure a cingere per
intero la città; nessun fatto d'arme di qualche rilievo; solo
esso diede occasione ad ogni sorta di violenze, da parte di
ghibellini e guelfi fuorusciti, assetati di vendetta. L'A., che un
anno e mezzo prima aveva sollecitato Arrigo ad estirpare Firenze,
radice dei mali, non fu con lui nell'assedio. Il Bruni conobbe una
sua lettera, per noi perduta, in cui scriveva che "il tenne tanto la
riverenza della patria, che, venendo lo imperadore contra Firenze, e
ponendosi a campo presso la porta, non vi volle essere,... con tutto
che confortator fosse stato di sua venuta". Il suo nome, infatti,
non compare nella condanna emanata da Firenze il 7 marzo del 1313
contro i fuorusciti presenti nel campo dell'imperatore. Questi il
1º novembre tolse l'assedio della città e passò
l'inverno a Poggibonsi in attesa dell'esercito che aveva mandato a
raccogliere in Germania. La sua intenzione era di muover guerra a re
Roberto, che, citato a comparire al suo giudizio, il 26 apr. 1313 fu
processato in contumacia e messo al bando dell'Impero. Re Roberto, a
sua volta, si appellava al papa, dichiarando decaduto l'Impero e
reclamando i diritti della sua Casa, mentre i suoi giuristi
affermavano che, con la donazione di Costantino, tutti i diritti
imperiali erano stati trasferiti al pontefice. Il 12 giugno Clemente
V lanciava la minaccia di scomunica all'imperatore, se fosse entrato
nel Regno di Napoli: ormai era palese l'inganno del Guasco
(Par.XVII, v. 82), che prima aveva caldeggiato l'intervento di
Arrigo nelle cose d'Italia, ed ora serviva gl'interessi
franco-angioini. Riteniamo che in questo periodo, tra le prime
ostilità del papa, subito dopo l'incoronazione, e la minaccia
della scomunica, l'A. debba aver posto mano alla composizione della
Monarchia.Nessun'altra ipotesi - da quella, oggi in verità
abbandonata, di una redazione totale o parziale prima dell'esilio,
durante le controversie giurisdizionali tra Firenze e Bonifazio
VIII, a quelle che l'assegnano al tempo in cui re Roberto fu
nominato dal papa vicario imperiale (marzo 1314), o all'epoca del
contrasto tra Giovanni XXII e Cangrande, ch'era stato confermato da
Federico d'Austria vicario imperiale ed era in guerra contro Padova
e Treviso (gennaio-giugno 1317) - ha per sé altrettanti
argomenti di probabilità. Giustamente G. Vinay
(Monarchia,Firenze 1950, pp. XXXIV ss.) ha richiamato l'attenzione
sul seguente passo del libro II, cap. I: "Quand'ebbi ficcato a fondo
gli occhi della mente e riconobbi per evidentissimi segni che la
Provvidenza aveva fatto ciò (che il popolo romano si facesse
signore del mondo], cessò la mia meraviglia e subentrò
derisione e di-sprezzo, sapendo di popoli che sono insorti contro la
preminenza del popolo romano, quando vedo popoli che vaneggiano,
come facevo io un tempo (cum videam populos vana meditantes, ut ipse
solebam),quando, inoltre, mi dolgo di re e principi concordi solo in
questo, nell'avversare il loro signore, il loro unto, l'imperatore
romano (cum insuper doleam reges et principes in hoc unico
concordantes ut adversentur Domino suo,ecc.). Perciò con
derisione, ma non senza dolore, posso gridare (clamare possum)per il
glorioso popolo romano e per Cesare, insieme con colui che gridava
per il principe del cielo: 'Perché sono insorte le genti e i
popoli hanno vaneggiato?' ". Dalle quali parole non pare possa esser
messo in dubbio che, mentre l'A. le scriveva, c'era una grande
opposizione in atto contro l'imperatore; e, scrive il Vinay,
"durante la sua vita, una generale sollevazione degli animi contro
l'imperatore e una vasta lega di principi per una guerra
antimperiale, c'è stata una volta sola, ed è stato al
tempo di Enrico VII" (loc. cit.).
Scrivendo la Monarchia,l'A. scendeva anch'egli in campo a sostenere
la causa di Arrigo, ma senza mescolarsi con la trista compagnia dei
fuorusciti, animati solo da rancori personali, nel modo più
confacente alla sua qualità di uomo di studio, al suo
carattere, alla superiore idealità delle sue convinzioni.
L'opera riprende sia le idee già espresse nei capp. IV e V
del libro IV del Convivio,sia quelle accennate nelle tre epistole
politiche; ora l'A. dà ad esse una sistemazione organica e
uno sviluppo completo entro le linee di una trattazione di tipo
prettamente scolastico: proposti i quesiti, procede alla
discussione, dimostrando l'esattezza o l'errore di ciascuno degli
argomenti relativi, e deducendone le singole conclusioni, ai fini
della soluzione dei quesiti stessi: una pesante impalcatura. I
quesiti proposti, a ciascuno dei quali è dedicato un libro,
sono: primo, se la monarchia (cioè il principato unico, detto
Impero) "sia necessaria al benessere del mondo"; secondo, "se il
popolo romano si sia attribuito per diritto l'ufficio del monarca";
terzo, "se l'autorità del monarca dipenda immediatamente da
Dio, oppure da un suo ministro o vicario". Il secondo e,
soprattutto, il terzo problema erano oggetto della polemica in atto
tra i sostenitori della tesi guelfa - variamente atteggiata, secondo
che fosse propugnata nell'interesse del re di Francia o
dell'Angioino o del pontefice - e i ghibellini. L'A. si propose di
sottoporre tutta la materia controversa a un'indagine rigorosa ed
esauriente, perché gli sembrava che non si fosse fino allora
riusciti a veder bene la verità, e invece si trattava di
questione della massima importanza per la società umana: e
forse per questo aspetto diricerca totale, organica, scientifica
della sua opera credette di potersi vantare di "intemptatas ab allis
ostendere veritates" (I, 1, 3), sebbene siano poche le idee che non
si possano rintracciare nella trattatistica precedente - da
Aristotele ai suoi contemporanei -, della quale, del resto, non
sappiamo fino a che punto egli fosse a conoscenza. Comunque, l'A.
improntò tutto della chiarezza del suo pensiero e del vigore
del suo sentimento. La materia del primo e del secondo libro, con le
relative soluzioni dei due quesiti, è in nuce nei due
capitoli citati del Convivio;ma qui è sviscerata con tutte le
possibili argomentazioni e sottigliezze - metafisiche, morali,
storiche, scritturali, poetiche -. E, come già nel Convivio
(cap. IV), l'A. comincia col porre come fondamento alla
dimostrazione della sua tesi una verità assiomatica, che qui
è filosoficamente determinata: il fine dell'umanità
è di attuare la potenza intera dell'intelletto possibile, che
non può essere attuata - egli afferma avvalendosi
dell'autorità di Averroè - da un uomo solo: di qui la
necessità della convivenza sociale, e quindi della pace
universale, perché senza questa la società non
può svolgere l'opera cui è destinata; e a tutelare e
imporre la pace, la sola istituzione efficiente è la
monarchia universale. Ma all'A. non sfuggiva l'esistenza di
"nazioni, regni, città" diversi, con caratteristiche proprie,
che occorreva regolare con leggi diverse; e nel cap. XIV del primo
libro spiega come il principato unico non escluda questa coesistenza
e questa diversità, così come non è chiamato a
intervenire nelle minime questioni di qualunque municipio; quel che
per l'A. resta fermo è che "il genere umano deve essere
regolato dal monarca secondo i principî universali che
riguardano tutti, e indirizzato alla pace con norma comune; e questa
norma o legge i singoli capi di stato devono ricevere da lui": solo
così si veniva a togliere "ogni confusione nei principi
universali". C'è in questo fondamentale capitolo quanto basta
per poter affermare che l'A. aveva abbastanza chiaro il concetto dei
rapporti pratici tra la suprema potestà temporale e i singoli
reggimenti, ch'egli ammetteva liberi nella sfera delle loro
competenze: qui reca infatti l'esempio di Mosè, che aveva
lasciato ai capi delle tribù d'Israele le deliberazioni
minori, riserbando a sé quelle maggiori e d'interesse comune,
che poi i capi applicavano alle proprie tribù, e nel cap. XII
del II libro l'esempio di Erode, avente autorità limitata, in
quanto re di un regno singolo, e Pilato, avente autorità
universale, in quanto vicario dell'imperatore. Non è questa,
dunque, una teoria astratta, fuori della possibile realizzazione
pratica. Anzi, non bisogna aver paura d'essere accusati di
anacronismo, affermando che, spogliata della veste inerente alla
concezione dell'imperatore romano-germanico, essa risponde a una
necessità pratica, riconosciuta ormai dalla coscienza di
tutti i popoli civili, la necessità di un'autorità
politica universale, che, pur rispettando le autorità e gli
interessi particolari dei singoli stati, imponga leggi a tutti
nell'interesse generale di tutta l'umanità e per la pace nel
mondo. Giacché, quando si parla di utopia politica dantesca,
e della Monarchia come di un'opera del tutto astratta, bisogna
distinguere. Certo, la mentalità scientifica dell'A. è
quella del suo tempo. Non solo per l'incertezza e l'ignoranza dei
dati storici e giuridici, ma per l'abito stesso mentale dell'uomo
del Medioevo, i trattatisti politici ragionavano prescindendo dalle
condizioni di fatto, e basandosi, invece, sul principio ideale e
assoluto di una condizione di diritto, vera o presunta che fosse.
L'A. dissertava di monarchia universale, come se esistessero ancora
o potessero rinnovarsi le condizioni storiche dell'antico Impero
romano, e questo fosse stato realmente signore di tutta la terra;
laddove l'imperatore germanico, che diventava romano per il diritto
acquisito dal popolo di Roma, non solo non dominava il mondo, ma non
era in grado di esercitare effettivamente la sua giurisdizione
neppure sulle terre dell'Europa centrale e d'Italia, che ancora
gliene riconoscevano teoricamente il diritto: una istituzione
anacronistica, che, del resto, sopravvisse ancora parecchi secoli,
tanta era la forza ideale dell'antica tradizione. Ora, l'opera
dantesca, in quanto vuole dimostrare (anche con le più strane
e talvolta addirittura, per noi, ridicole argomentazioni) la
validità razionale, storica, giuridica e religiosa di questa
istituzione, è senza dubbio astratta, e anacronistica
più che utopistica, legata alla polemica e alle idee del
tempo e morta con esse. Ma l'A. non era un puro teorico; egli aveva
ben chiara la coscienza e vivo il sentimento dei problemi concreti,
che sono, poi, sempre gli stessi, dell'humana civilitas - ordine,
pace, libertà, giustizia, progresso -: e tutto ciò che
nel trattato nasce direttamente da questa coscienza e da questo
sentimento ed è in qualche modo separabile dalla concezione
anacronistica e dall'impalcatura scolastica, non è astratto e
utopistico, ma ha generalmente la sua validità sentimentale e
razionale, e, ove è il caso, anche di soluzione pratica.
Così ha piena validità razionale il suo concetto della
libertà e dei rapporti tra le leggi e il cittadino,
illustrato nel cap. XII del I libro: il cittadino è libero
quando è cagione di sé e non d'altri, laddove le
demagogie, le oligarchie, le tirannidi lo costringono al loro
servizio; e le leggi sono ordinate per il cittadino, non già
questo è lo strumento del legislatore. Parimenti, alto valore
umano e religioso ha il suo concetto della giustizia inseparabile
dall'amore verso gli uomini, anzi potenziata da esso (I, xi, 13-14),
e quello del diritto, identificato, nell'essenza, con la
volontà di Dio, definito conformità con la
volontà di Dio nelle cose umane, e avente per fine il bene
comune, lo stesso fine dell'amore (II, ii,4-5;v, 2). Non sono -
beninteso - concetti nuovi, ma importa notarli, non solo
perché costituiscono la parte non caduca del trattato, ma
anche perché contribuiscono a illuminare le sorgenti profonde
del sentimento politico dell'A., che sono di natura
morale-religiosa, e le ragioni per cui gl'interessi politici
dovevano necessariamente occupare tanta parte del suo spirito e
della sua opera. E piena validità sentimentale ha la
celebrazione ch'egli fa, specialmente nel cap. V del II libro, delle
virtù e degli eroi dell'antica Roma, come alto vagheggiamento
di un ideale di perfezione morale, da conquistarsi anche col
sacrificio della vita, a servizio della patria e
dell'umanità; e poco importa ch'essa propriamente stia a
dimostrare la tesi che il popolo romano si assunse di diritto
autorità imperiale: la tesi è per noi cosa morta, ma
quella celebrazione ha vita imperitura, perché nasce dalla
profonda coscienza civile dell'A., diversamente da analoghe
esaltazioni umanistiche di stampo letterario. Ma quel che
soprattutto si deve rilevare è che proprio il punto d'arrivo
della faticosa trattazione, la soluzione, anch'essa peraltro non
nuova, del problema dei rapporti tra Papato e Impero, ch'era lo
scopo ultimo dell'opera (netta separazione delle attribuzioni dei
due poteri; piena indipendenza e sovranità, nel campo
proprio, dì ciascuno di essi), è soluzione così
pratica e per nulla utopistica, che proprio sulla base di essa si
sono effettivamente fondati i rapporti tra Chiesa e Stato nella
storia moderna. L'A. vi arriva partendo dalla dimostrazione
filosofico-teologica della diretta dipendenza da Dio dei due poteri
(concetto che abbiamo visto già espresso incidentalmente
nell'epistola ai reggitori d'Italia), costituiti da Dio per guidare,
rispettivamente, l'uomo a ciascuno dei suoi due fini supremi (duo
ultima;III, xvi, 6), rispondenti alla duplice natura umana,
corruttibile quanto al corpo, incorruttibile quanto all'anima:
"Propter quod opus fuit homini duplici directivo, secundum duplicem
finem: scilicet summo Pontifice, qui secundum revelata huwanum genus
perduceret ad vitam eternam, et Imperatore, qui secundum
phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem
dirigeret" (ibid.,10). All'A. non poteva, però, sfuggire, da
buon cristiano, che "mortalis ista felicitas quodam modo ad
immortalem felicitatem ordinetur" (ibid.,17); sicché
anch'egli riconosceva che dei "due soli ", dei "duo luminaria magna"
(III, 1, 5), ilpontefice fosse luminare maius,e l'imperatore minus
(si veda già la chiusa dell'epistola V: "ubi radius
spiritualis non sufficit, ibi splendor minoris luminaris
illustret"). Ma non ne deduceva la rigorosa conseguenza logica, che,
essendo la felicità terrestre subordinata alla celeste, la
guida alla prima doveva essere subordinata all'altra guida. La
visione del traviamento del mondo, generato, secondo lui,
dall'interferenza del potere ecclesiastico nelle cose temporali,
risalente all'infausta e illegittima (Monarchia II, xii, 8; III, x)
donazione di Costantino, faceva in lui prevalere al rigore logico il
senso pratico del solo rimedio ch'egli riteneva efficace; e si
limitava a riconoscere la soggezione dell'imperatore al papa solo
nel rapporto della "reverenza che il primogenito deve avere verso il
padre, perché, illuminato dalla luce della paterna grazia,
più virtuosamente illumini la terra, della quale è
stato messo a capo da colui solo che governa tutte le cose,
spirituali e temporali" (sono le parole con cui si chiude il
trattato). E ancora una volta bisogna riconoscere, malgrado
l'astrattezza e la fragilità dell'argomentare, la chiara
visione e la validità della soluzione pratica: soluzione di
equilibrio e di compromesso, che, appunto perché priva di
fondamento rigorosamente logico, la storia insegna quante volte sia
stata accettata e violata.
Frattanto Arrigo, benché malato, senza aspettare l'arrivo
dell'esercito già raccolto in Germania, e senza tener conto
della scomunica minacciata, ai primi d'agosto si mosse da Pisa per
la guerra contro re Roberto. Già si cantava la vittoria
dell'imperatore, e tanto era il timore della parte guelfa che
Firenze, che aveva tanto lottato per la sua indipendenza,
accettò la signoria dell'Angioino, esercitatavi mediante un
suo vicario. Ma il 24 ag. 1313 a Buonconvento, non lontano da Siena,
Arrigo morì. Corse voce che fosse stato avvelenato dal suo
confessore con l'ostia consacrata; ma il male di Arrigo era
cominciato all'assedio di Brescia; e l'A., che raccolse la voce
dell'avvelenamento di s. Tommaso per mandato di Carlo I
d'Angiò (Purg.XX, v. 69), non raccolse questa, riconoscendola
falsa. Grande e sincero fu il compianto, e non soltanto da parte dei
suoi fautori, perché grande era stata la fama delle sue
virtù, che lo avevano posto al di sopra delle parti: Cino da
Pistoia, guelfo nero, ma suo sostenitore, in una delle due canzoni
scritte in quell'occasione, così ne pianse la morte: "L'ha
Dio chiamato, perché 'l vide degno d'esser cogli altri nel
beato regno". L'A., come pare, tacque: conosciamo la sua esultanza e
le sue speranze nella venuta di Arrigo, non il dolore per la sua
fine; ma gli preparava un seggio in Paradiso, e la vendetta contro
il papa che l'aveva tradito (Par.XXX, vv. 133-148). L'impresa di
"drizzare l'Italia" era fallita; ma l'A. non perdette la speranza
che un giorno qualcuno l'avrebbe felicemente compiuta. Arrigo,
secondo lui, era venuto prima che Italia fosse a ciò
disposta: era stato il Precursore, sarebbe venuto il Redentore: l'A.
non poteva dubitarne, come non dubitava dell'occulta provvidenza di
Dio.
Otto mesi dopo la morte di Arrigo, il 20apr. 1314 morì
Clemente V, vituperato e condannato da tutti. Probabilmente
sull'inizio del lungo conclave, terminato solo il 7 ag. 1316 con
l'elezione del "caorsino" Giovanni XXII, e prima del tentativo di
uccisione dei cardinali italiani, da parte dei guasconi, a
Carpentras (24 luglio 1314), l'A. indirizzò un'epistola ai
cardinali e in particolare a quelli italiani: il titolo conservatoci
nello Zibaldone del Boccaccio in cui essa si trova, "Cardinali-bus
ytalicis D. de Florentia etc.", è un'abbreviazione forse
inesatta, giacché l'epistola solo verso la fine si rivolge
espressamente a questi ultimi.
L'epistola comincia con il lamento di Geremia sulla profetata rovina
di Gerusalemme, particolarmente caro all'A. (cfr. Vita nova XXX, 1):
"Quomodo sola sedet civitas plena populo! facta est quasi vidua
domina gentium". L'A. piange l'abbandono di Roma, "cui Cristo
confermò con le parole e coi fatti l'impero del mondo, e che
Pietro e Paolo consacrarono col loro sangue a sede apostolica". E
questa lacrimevole situazione si era determinata non per influsso di
astri o per altra ragione, ma solo per il cattivo uso del libero
arbitrio, nel passato conclave, da parte dei cardinali, "Ecclesie
militantis... primi prepositi pii", i quali, avendo sposato la
cupidigia in luogo della carità e della giustizia, si erano
accordati col re di Francia per l'elezione del suo candidato, e
avevano così portato il carro della Chiesa fuori della sua
strada, e gettato nel precipizio il gregge ad essi affidato. E non
gli si apponga a temerità o presunzione, se egli, una delle
ultime pecorelle dì Cristo, osa parlare in difesa della
Chiesa pericolante, perché la verità cara a Dio
già risonò sulla bocca dei lattanti e il cieco nato la
proclamò, mentre i farisei la tacevano o cercavano di
travisarla. Essi, dunque, si vergognino che quella di un semplice
privato, come lui, sia la sola voce, sola pia, che si faccia sentire
nell'ora mortale, quasi, della madre Chiesa; ma egli è
l'interprete di tutti i cristiani, perché tutti mormorano o
pensano o sentono confusamente le cose ch'egli rimprovera loro,
anche se non lo manifestano apertamente. Si vergognino e si pentano,
e tengano fissi gli occhi all'immagine di Roma, priva di entrambi i
suoi lumi, e specialmente i cardinali romani, i quali più
degli altri italiani dovrebbero onorare la capitale del Lazio, che
per gli altri è principio comune della loro civiltà,
per essi principio della loro stessa vita. E qui l'A. si rivolge
apertamente, prima al cardinale Napoleone Orsini, che aveva
sostenuto la candidatura di Clemente V e nulla aveva fatto
perché fosse ridato il titolo ai due cardinali Colonna
degradati da Bonifazio VIII, poi al cardinalFrancesco Caetani,
più nemico dei Colonna per odio ereditato dallo zio, che non
devoto a Roma. Dopo questa digressione a patrocinio dei Colonna,
alquanto strana in un'epistola di così alti interessi
generali, anche se la può giustificare il pensiero sottinteso
che il ripristino dei due cardinali avrebbe rafforzato l'elemento
italiano nel sacro collegio, l'A. conchiude esortando tutti i
cardinali italiani ch'erano stati cagione del traviamento, a
combattere unanimi "per la sposa di Cristo, per la sede della Sposa
che è Roma, per l'Italia nostra, e, per dire più
compiutamente, per tutta la società umana peregrinante sulla
terra", in modo che restino con eterna vergogna i Guasconi, che con
tanta avidità cercano usurpare ancora la gloria degli
Italiani. Come nell'epistola per la venuta di Arrigo, così
anche in questa, Roma, l'Italia, il mondo ispirano unitariamente il
pensiero e il sentimento dell'Alighieri. E come dal punto di vista
politico, così dal punto di vista religioso le cagioni del
traviamento generale sono le stesse (il mondo ideologico dantesco
è, nel suo schematismo, d'una compattezza assoluta, in tutta
la sua opera): anzitutto la cupidigia, "madre d'empietà e
d'ingiustizia", e, subordinatamente, l'assenza della luce che
dovrebbe da Roma illuminare l'umanità, così nel campo
temporale come in quello spirituale. Ma ciò che in questa
epistola va rilevato è la coscienza ch'egli ha, e arditamente
manifesta, di essersi assunto, sia per misteriosa ispirazione.
divina, come i lattanti e il cieco nato, sia per dovere morale
("Habeo... preceptorem Philosophum, qui, cuncta moralia dogmatizans,
amicia omnibus veritatem docuit preferendam "), la missione, non
scevra di pericoli, di dire coraggiosamente le più crude
verità, anche nei riguardi delle cose della Chiesa. In tutti
gli scritti precedenti di rado s'incontra qualche prudente accenno
alla corruzione dei prelati e al traviamento della Chiesa, venuta
meno al suo compito; qui le accuse sono così precise e
decise, e il tono è così sicuro e severo da far
pensare a un atteggiamento non già assunto in questa
occasione, ma maturatosi da tempo e ormai ben saldo nella coscienza
di Dante. Questo tono, nonché parallelismi di concetti e di
espressioni, ritroveremo nella Commedia,particolarmente nel XIX e
XXVII canto dell'Inferno,e nel XVI e XXXII del Purgatorio.Comunque,
quale che fosse il punto a cui era giunta la composizione del poema
quando scriveva l'epistola, in questa, per la prima volta, ma con
tutto il vigore della sua coscienza, l'A. si presenta e si professa
anche apostolo della restaurazione religiosa: il terzo apostolato,
dopo quello dell'elevazione intellettuale e morale dell'individuo
nel Convivio,e quello della restaurazione politica nella
Monarchia:triplice apostolato, che informa la materia e lo spirito
della Commedia.
Dove fosse FA. in questo tempo non sappiamo; potrebbe essere rimasto
in Toscana presso Moroello Malaspina, che non aveva tradito Arrigo
VII, e che morì nel 1315; o potrebbe essersi recato alla
corte di Cangrande, e aver seguita da vicino la sanguinosa sconfitta
che questi inflisse sotto Vicenza ai Padovani nel dicembre del '14,
e che il poeta volle ricordare, - come crediamo preferibile
intendere - in Par.IX, vv. 46-48. Assai poco probabile è,
invece, ch'egli fosse ospite e seguisse i successi di Uguccione
della Faggiuola, il quale, fatto quasi signore di Pisa subito dopo
la morte di Arrigo VII, nel giugno del 1314 s'era impadronito di
Lucca ed era diventato il terrore dei guelfi toscani e della stessa
Firenze. Per quanto si sia favoleggiato di calda amicizia tra Dante
e Uguccione, fino a veder questo adombrato nel "Veltro" del canto I
dell'Inferno (C. Troya), non c'è un solo documento
attendibile che la comprovi; e invece sta di fatto che nell'opera
dell'A, né compare il suo nome, né c'è
un'allusione alle sue gesta. Forse l'A. non dimenticava che, nella
primavera del 1303, per compiacere a Bonifazio, Uguccione,
benché ghibellino, aveva costretto l'Università dei
guelfi bianchi fuorusciti a lasciare Arezzo; e probabilmente,
malgrado le sue indubbie qualità di ardimento e valore, lo
giudicava soltanto il degno suocero di Corso Donati, un ambizioso
senza scrupoli. Con i successi di Uguccione ha indirettamente
attinenza la terza condanna di Dante. Nel maggio del 1315 Uguccione
aveva posto l'assedio a San Miniato: il pericolo per Firenze era
grave; e, come già nel caso analogo della minaccia di Arrigo
VII, su proposta del vicario angioino Ranieri di Zaccaria, il 19
maggio fu concessa una larga amnistia ai condannati e sbanditi, alla
condizione del pagamento di una piccola somma e dell'offrirsi a s.
Giovanni nel giorno della sua festa. Non abbiamo la provvisione
relativa; ma nell'amnistia dovette certamente essere incluso anche
l'A., come si desume dalla nobilissima lettera, cosiddetta
"all'amico fiorentino" (il titolo manca), anch'essa contenuta nello
Zibaldone del Boccaccio. Da questo amico - un religioso,
giacché l'A. gli si rivolge con l'appellativo "Pater" -, da
un suo nipote, che si suppone Niccolò di Foresino Donati,
fratello di Gemma, il quale curava gl'interessi della famiglia
dell'A., e da altri amici gli era stata comunicata l'ordinanza di
Firenze, e alcuni avevano insistito perché accettasse le
condizioni dell'amnistia. Sebbene sempre viva fosse in lui la
nostalgia amara del suo "bell'ovile", che lo accompagnerà
fino alla morte (cfr. Par.XXV, vv. 1-6; Ecl.I, vv. 42-44), la
coscienza della sua innocenza e il sentimento della sua
dignità non potevano indurlo a un'umiliazione, sia pure
formale: e rifiutò. Mette conto riferire le parole
nobilissime della sua lettera: "È dunque codesta la grazia
con cui Dante Alaghieri è richiamato in patria, dopo aver
patito quasi per tre lustri l'esilio? Questo ha meritato la sua
innocenza manifesta a tutti? Questo il sudore e il lavoro continuato
negli studi ?...Non è questa, Padre mio, la via per ritornare
in patria; ma se altra se ne troverà.., che non deroghi alla
fama e all'onore di Dante, l'accetterò subito; ché se
per nessun'altra si entra in Firenze, giammai in Firenze
entrerò. E che? non vedrò io dovunque la spera del
sole e degli astri? Non potrò considerare sotto qualunque
cielo le dolcissime verità?...Né mancherà certo
il pane". Qualche mese dopo, in seguito alla grave sconfitta data da
Uguccione ai Fiorentini, il 29 ag. 1315, a Montecatini, nella quale
furono uccisi anche un fratello e un nipote di re Roberto, il Comune
fiorentino emise altri provvedimenti, con i quali commutava per
molti fuorusciti la pena capitale in quella del confino,
purché si presentassero a dare la garanzia in danaro de eundo
et stando ad confinia.L'A. non si presentò; e poiché
ai contumaci era assegnata la pena di morte, il 15 ottobre una
sentenza, di cui resta una copia relativamente ad alcuni condannati
del sesto di S. Pancrazio (Piattoli, 114), e che è ricordata
nell'atto di restituzione a Iacopo (9 genn. 1343: cfr. Piattoli,
183) di un podere incamerato dal Comune, l'A. e i figli erano
condannati a morte, come "ghibellini e ribelli del Comune di
Firenze", salvo che non si fossero presentati quel giorno o il
giorno seguente. Il 6 novembre, non essendosi presentati, fu
confermata la sentenza di decapitazione: "si quo tempore ipsi... in
nostram vel comunis Florentie fortiam devenerint,... ducantur ad
locum iustitie, et ibi eisdem caput a spatulis amputetur, ita quod
penitus moriantur". Sebbene questa volta non ci fosse la condizione
umiliante dell'offerta al patrono, c'era tuttavia l'obbligo di
pagare e di accettare il confino, il che era moralmente un
riconoscimento di colpa: né era ancora il ritorno a Firenze;
e anche questa volta l'A. non si piegò a un'ingiusta
umiliazione. Molto probabilmente egli era allora, con i figli,
presso Cangrande, a Verona, dove bisogna ritenere che dimorasse a
lungo: quattro anni, secondo Filippo Villani. Un aneddoto raccontato
dal Boccaccio (Vita XX, Comp.XVI) lo farebbe conosciuto persino
dalle donnette veronesi, che, vedendolo passare, sussurravano tra
loro: "Vedete colui che va nell'Inferno, e torna quando gli piace, e
quassù reca novelle di coloro che laggiù sono?".La
liberale ospitalità e munificenza di quel valoroso signore
"allora consolazione e rifugio comune degli afflitti", come lo
chiamò il Petrarca (Rerum memor.II, 83), è celebrata
da storici, cronisti, giullari, novellieri: il Boccaccio (Decam.I,
7) lo disse "uno de' più notabili e de' più magnifici
signori che dallo imperadore Federigo secondo in qua si sapesse in
Italia". Quanto lungo dovette essere il soggiorno dell'A. presso di
lui, e quanto grandi dovettero essere i benefici che da lui
ricevettero l'A. e i suoi figli, si può arguire dall'immensa
gratitudine espressa nelle note terzine del Paradiso (XVII, vv.
85-90).Ma la munificenza del signore e lo splendore della sua corte
non bastano a spiegare il lungo soggiorno veronese e, più
ancora, la straordinaria esaltazione che l'A. fece di lui. Cangrande
era considerato il continuatore della missione di Arrigo VII in
Italia: tale lo proclamava per testamento dell'imperatore una
leggenda contemporanea in versi latini rimati: "Disponit testamentum
Constituens vicarium Fidelem commissarium Canem de Verona". Ma l'A.
dovette vedere in lui qualcosa di più del paladino
dell'Impero: dovette vedervi per lo meno il fondatore di un vasto e
potente principato nell'Italia settentrionale, tale da far da
arbitro nella politica italiana, se non addirittura il restauratore
delle sorti di tutta l'Italia, il "re d'Italia", come il trevisano
Niccolò de' Rossi temeva ch'egli sarebbe presto diventato.
Non si può attribuire valore più ristretto alle parole
che seguono alle terzine ora citate, nelle quali profetizza di lui
"cose incredibili" a quelli che pure le avrebbero viste coi loro
occhi, se non si vuole ch'esse suonino come un'adulazione vuota di
contenuto. E a tanto Cangrande sembrava realmente destinato: la sua
abilità politica era pari alla prodezza nelle armi; e
nell'uno e nell'altro campo infaticabile la sua attività,
continui i successi; e non ambigua la sua linea di condotta, intesa,
sì, a costituire per sé un forte stato, ma senza
tentennamenti e compromessi con la parte guelfa: re Roberto, che
tentò di accordarsi con lui, ne ricevette un netto rifiuto.
Alleatosi con Matteo Visconti, signore di Milano, e con Passerino
de' Bonacolsi, signore di Mantova, era l'anima di quella lega
lombarda ghibellina, di cui fu nominato capitano generale il 18 nov.
1318, e che da Genova, dove erano tornati i ghibellini Spinola, a
Ferrara, che si era ribellata al papa e aveva trucidato le milizie
di re Roberto e richiamato gli Estensi, era in grado di tenere in
scacco il vicario imperiale di nomina pontificia (tale era il
paradosso giuridico della situazione), Roberto d'Angiò. Il
che tuttavia non crediamo che basti a far identificare in Cangrande
il "Veltro" o il "Cinquecento diece e cinque" della Commedia,pur
riconoscendo che, tra le varie ipotesi relative a quegli enigmi,
questa possa forse essere sostenuta meglio delle altre. Quali
particolari servigi (ambascerie, consigli, corrispondenza) l'A.
abbia reso a Cangrande, non sappiamo; ma non possiamo pensare che
l'A. non abbia avuto qualche parte nella resistenza di Cangrande a
Giovanni XXII, che gli aveva ingiunto di deporre il titolo di
vicario imperiale e di desistere dalla guerra contro Padova.
Tuttavia dobbiamo supporre che Cangrande gli lasciasse molto agio
per attendere alla Commedia soprattutto. Quando e perché
lasciasse la corte scaligera per passare a Ravenna non sappiamo con
precisione. Il Petrarca, certo raccogliendo una tradizione esistente
ancora al suo tempo a Verona, racconta che l'A., dapprima tenuto in
grande onore, perdette a poco a poco la grazia di Cangrande per la
sua alterigia e la sua libertà di parola; e a questo riguardo
narra due aneddoti, entrambi, però, d'origine novellistica
(uno si trova in Novellino XLIV), e pertanto non probatori. Tuttavia
la cosa non è inverosimile; e può essere questa la
ragione dell'abbandono di Verona. Se fosse sicura
l'autenticità della Quaestio de aqua et terra,che in testa e
in fine ostenta il nome di Dante come autore del trattato, avremmo
la certezza che egli fosse ancora a Verona il 20 genn. 1320, nel
qual giorno - così afferma l'autore - egli avrebbe definito,
alla presenza di tutto il clero veronese, nella chiesa di
Sant'Elena, una questione che aveva sentito dibattuta, ma non
terminata, a Mantova; e potremmo anche pensare che a Mantova si
fosse recato per commissione di Cangrande presso il suo alleato
Passerino, presumibilmente sulla fine del 1319. La questione
disputata, che avrebbe dato luogo all'opuscolo De forma et situ
duorum elementorum, aque videlicet et terre,o semplicemente Quaestio
de aqua et terra,era se "l'acqua nella sua sfera, cioè nella
sua naturale circonferenza, fosse in qualche parte più alta
della terra emersa" (II, 5).
In sostegno della tesi affermativa si adducevano parecchie ragioni;
l'autore del trattato si limita a considerarne cinque, che gli
sembrano avere qualche apparenza di fondamento; e le confuta tutte,
dimostrando insostenibile la tesi. Il metodo, gli argomenti e il
linguaggio di cui si serve per la dimostrazione appartengono alla
comune scienza del tempo; ma non sarebbe sconvenevole a Dante il
calore della discussione, l'entusiasmo che l'autore mette nella
ricerca della verità, la dichiarazione di essere stato "in
amore veritatis a pueritia... continue... nutritus", pur
professandosi "inter vere philosophantes minimus"; amore della
verità, però, ben diverso dalla stoltezza e
presunzione di chi vuole indagare cose che superano il nostro
intelletto; sul quale concetto, che troviamo tante volte ribadito
nella Commedia,l'autore insiste vivacemente sulla fine del paragrafo
XXI e specialmente nel paragrafo XXII.
Senonché recentemente B. Nardi, il più competente tra
i dantisti non soltanto odierni per ciò che riguarda il
pensiero filosofico e scientifico dantesco, ha rimesso in
discussione l'autenticità del trattato, che sembrava ormai
ammessa da tutti, e portato ad essa un duro colpo, dimostrando in un
serrato studio sopra La caduta di Lucifero e l'autenticitd della
"Quaestio "... (Torino... 1959) che la teoria cosmografica
fondamentale sostenuta nell'opuscolo è in parte estranea, in
parte contraria al pensiero dantesco espresso nel Convivio e nella
Commedia.Tuttavia, ammesso che la Quaestio sia una falsificazione,
compiuta, secondo il Nardi, qualche decennio dopo la morte del
poeta, non sembra irragionevole pensare che, essendo ancora vivo il
figlio Pietro, il falsificatore avrà curato di accertarsi che
Dante fosse effettivamente a Verona - almeno molto
approssimativamente - alla data in cui dichiara avvenuta la disputa.
A una sua presenza a Piacenza sulla fine di maggio o ai primi di
giugno del 1320 si riferirebbe una strana deposizione fatta alla
curia di Avignone da un chierico milanese in fama di mago,
Bartolomeo Cagnolati. Questi, secondo la sua denunzia, sarebbe stato
invitato a Piacenza da Galeazzo Visconti, figlio di Matteo, a
operare un sortilegio per far morire Giovanni XXII, il nemico dei
ghibellini; e per meglio indurlo all'opera, stimolandone la gelosia
di mestiere, il Visconti avrebbe detto: "Sappi, Bartolomeo, che per
questo affare di che ti prego, ho fatto venire a me maestro Dante
Aleguiro di Fiorenza", aggiungendo, peraltro, che per nessuna
ragione al mondo avrebbe tollerato che questo Dante Aleguiro
mettesse mano nella faccenda, perché la sua fiducia era nel
Cagnolati (G. Biscaro, D. A. e i sortilegi di Matteo e Galeazzo
Visconti contro la vita di Giovanni XXII,in Arch. stor.
lombardo,XLVII [1920], pp. 446-81). Che si tratti dell'A, non pare
si possa dubitare; e può essere che il Visconti, avendo una
vaga notizia del racconto dell'A. di un viaggio nell'oltretomba (le
due prime cantiche della Commedia erano già note), pensasse
di potergli attribuire virtù di mago, per fare colpo sul
Cagnolati; ma può anche darsi che non ci fosse nulla di vero
in tutta la denunzia, e che in particolare il nome dell'A. fosse
fatto nella curia avignonese per odio e per calunnia contro l'autore
della Monarchia.Sebbene, come si è detto, la data della
dissertazione veronese (20 genn. 1320) non possa assumersi con
sicurezza come prova che Dante soggiornasse ancora a Verona,
tuttavia è verosimile che egli non prima di quell'epoca, o
pochissimo prima, si trasferisse a Ravenna, giacché
altrimenti risulterebbe troppo breve il soggiorno veronese. Ed
è probabile che a Ravenna fosse stato inviato da Cangrande
per guadagnare amici in Romagna, terra soggetta alla Chiesa, nel
momento in cui il pontefice inviava in Italia il cardinale legato
Bertrando del Poggetto e Filippo di Vabis, per rialzare le sorti
della parte guelfa. Era signore di Ravenna, col titolo di
podestà, dall'ottobre del 1316, Guido Novello da Polenta,
figlio di Ostasio, uno dei fratelli di Francesca; ed era non solo
signore prudente e valoroso, ma anche poeta gentile, come dimostrano
alcune ballate che di lui ci rimangono. Politicamente guelfo, ma non
nemico di Cangrande; e nel 1314 aveva difeso Cesena, dove era
podestà, da un vicario di re Roberto; e che non fosse ligio
alla politica papale dimostra il fatto che nel 1322 gli fu tolto da
un cugino il potere, con l'assenso del vicario del papa,
sicché fu costretto ad andare in esilio. All'A. la sua corte
dovette sembrare, rispetto alla dinamica ed eterogenea corte
scaligera, oasi di pace, ove avrebbe potuto terminare quel che gli
restava da scrivere del Paradiso;e accettò l'invito del
signore di trattenersi a Ravenna. Probabilmente, almeno per qualche
tempo, furono con lui anche i figli: c'era quasi certamente la
figlia che si rese monaca - non sappiamo se prima o dopo la morte
del padre -, col nome di suor Beatrice, appunto nel monastero
ravennate di S. Stefano degli Ulivi, dove morì dopo il 1350;
e Pietro risulta rettore di due chiese ravennati, che ora non
esistono più, in un documento del 4 genn. 1321, in cui dal
vicario arcivescovile è citato a pagare, sotto minaccia di
scomunica, insieme con alcuni ecclesiastici parimenti morosi,
l'imposta di procurazione dovuta al cardinale legato Bertrando del
Poggetto. Nessuna congettura, invece,. possiamo fare circa la
presenza della moglie Gemma. La dimora dell'A. a Ravenna non dovette
interrompere i suoi buoni rapporti con Cangrande: da lui Pietro e
Iacopo avevano avuto i mezzi per studiare; Pietro, laureatosi in
legge, si stabilì a Verona, dove esercitò l'ufficio di
giudice; Iacopo ebbe a Verona un canonicato ed altri benefici in
terre veronesi, conservati anche dopo essersi stabilito a Firenze.
Che l'A. tenesse a Ravenna pubblico insegnamento è opinione
di parecchi studiosi, ma non c'è in proposito alcun indizio
veramente attendibile; e, d'altra parte, troppo grande sarebbe stato
per la città il vanto di averlo avuto professore,
perché non ne restasse notizia. L'informazione del Boccaccio,
nella redazione ultima della Vita ("quivi [in Ravenna] a molti
dimostrò la ragione del dire in rima, la quale
maravigliosamente esaltò"; e poco diversamente nella prima
redazione), è del tutto generica. Anche l'interpretazione
ch'egli dà delle "caprette" nella prima egloga (vv. 3 e 46)
dell'A. in risposta a un carme di Giovanni del Virgilio (se, come
pare, è lui l'autore delle chiose che accompagnano il testo
in due codici), le quali significherebbero gli scolari del poeta,
è del tutto arbitraria: le caprette sono ovviamente
l'appannaggio di ogni pastore in ogni carme bucolico. E quanto
grande fosse allora la fama dell'A. dimostra appunto il carme ora
citato. Giovanni, detto "del Virgilio" dall'autore preferito che
commentava, era professore di grammatica nello Studio di Bologna dal
1319. Quando gl'inviò il suo carme latino, conosceva dell'A.
non solo le prime due cantiche, ma anche - noi crediamo - almeno
iprimi quattro canti del Paradiso:ilv. 14 del carme (""non parlo per
costoro [cioè per gl'ignoranti], ma per gli esperti negli
studi" tu dici") è, infatti, una delle parafrasi o allusioni,
in esso a bella posta inserite, di luoghi precisi della Commedia,e
non può riferirsi se non a Par.II, vv. 1-15; e allo stesso
modo ci sembra che il v. 11 ("i segreti del cielo appena tentati da
Platone") non possa riferirsi che a Par.IV, vv. 49-60. L'ammirazione
dell'ottimo professore per il poeta si dimostra grandissima: lo
chiama "Pyeridum vox alma", "magister", il solo poeta capace di
immortalare i gravi avvenimenti di storia contemporanea, ch'egli gli
suggerisce di cantare in latino. Giacché Giovanni,
anticipando le riserve che saranno fatte dagli umanisti sulla
Commedia,mentre riconosce le grandi e serie e belle cose che l'A. ha
in essa cantato, appunto questo lamenta, ch'egli si sia rivolto al
volgo e non ai dotti, scrivendo in volgare invece che in latino:
ciò - gli rimprovera - non ha fatto nessuno dei poeti nella
cui schiera sei sesto (v.17: cfr. Inf.IV, v. 102).. Scriva ora,
invece, in latino un poema sulla spedizione di Arrigo VII, o sulle
vittorie di Uguccione sui Fiorentini, o di Cangrande sui Padovani, o
la guerra di Genova; e allora, se l'A. glielo consentirà,
egli lo presenterà allo Studio bolognese con le tempie
coronate di alloro. Un dettaglio nell'allusione alla lunga ed aspra
guerra di Genova, cominciata nel marzo del 1318 e durata fino al
1322, inerente a una memorabile tempesta che nell'inverno del
1319-1320 rovinò la flotta che bloccava per mare la
città, determina - sembra bene - il terminus post quem della
composizione del carme, che non può essere anteriore a quel
periodo.
Al carme di Giovanni l'A. rispose con un'egloga in latino, modellata
su quelle del loro comune maestro, Virgilio, assumendo per sé
il nome di Titiro, dando a Giovanni quello di Mopso, e raccontando
il suo colloquio con un altro pastore, più giovane ma poco
istruito, Melibeo (che, secondo le antiche chiose, sarebbe il
fiorentino ser Dino Perini), appunto intorno al carme di Mopso
ch'egli ha ricevuto e su cui Melibeo vuol essere informato. Ricambia
altamente le lodi per Mopso, che, mentre gli altri si danno alle
leggi, solo coltiva in Bologna le Muse, tanto che i suoi canti hanno
il potere di far scendere placati dal monte i leoni; non nasconde la
sua aspirazione all'alloro poetico, ma teme "i balzi e i campi che
ignorano gli Dei" (allusione a Bologna), e dichiara che preferisce
coronarsi sulle rive dell'Arno; della qual cosa crede che, malgrado
il disdegno di Mopso per la lingua volgare, quando avrà
finito il Paradiso,sarà giudicato degno; anzi, per farlo
ricredere, gli manderà dieci scodelle di latte munte dalla
sua pecora più cara (probabilmente, dieci nuovi canti della
terza cantica). Giovanni, entusiasta dell'invenzione bucolica
dell'A., rispose anche lui con un'egloga, in cui ancora più
vive sono le espressioni di venerazione e di amore (qui chiama l'A.,
con eco virgiliana ampliata, "divine senex"), e più pressanti
e lusinghevoli le insistenze perché accetti l'invito di
recarsi Bologna. L'A. replicò con una seconda egloga, ricca
di movimento scenico, tutta palpitante di affetti gentili, nella
quale egli, sebbene commosso dall'affettuosa insistenza di Giovanni,
si manifesta assai più legato agli ammiratori e amici
carissimi ch'egli ha a Ravenna e che trepidano per il timore di
perderlo (Alfesibeo, che chiama più che metà
dell'anima sua, e in cui sarebbe da riconoscere, secondo l'antico
chiosatore, il medico certaldese Fiduccio dei Miotti, imparentato
con Guido da Polenta; Iolla, che sarebbe lo stesso Guido; e ancora
Melibeo), e alla dolce terra dove trascorre una vita serena;
andrebbe a Bologna solo per vedere l'amico, ma colà teme il
terribile Polifemo, "assuetum rictus humano sanguine tingui",
avvezzo a immergere il grifo nel sangue umano. A quale personaggio e
a quali fatti storici l'A. alluda col nome e la descrizione
terrificante di Polifemo, non è possibile stabilire. Tra le
varie ipotesi seduce particolarmente quella che sia da vedere, in
Polifemo, Fulcieri da Calboli, già esecrato in Purg.XIV, vv.
58ss. (dove specialmente colpisce, per l'affinità con quello
dell'egloga, il verso "Sanguinoso esce de la trista selva"),che nel
maggio 1321 era stato nominato capitano del popolo a Bologna:
sicché la composizione dell'egloga cadrebbe negli ultimi mesi
della vita dell'Alighieri. Ciò risulta anche da un'egloga di
Giovanni ad Albertino Mussato, in cui dice che l'A. tardò un
anno a scrivere la risposta, e che morì prima di fargliela
avere: il che fu fatto dal figlio. Quel che stupisce è la
perenne creatività del genio dell'A., il rinnovarsi, fino
all'estremo della vita, dei suoi interessi artistici e dei mezzi di
espressione. Sul punto dì compiere un'opera in cui attuava le
più disparate esperienze d'arte, egli ne tenta altre nuove e
vi riesce splendidamente. L'egloga virgiliana, sebbene ammiratissima
nel Medioevo, non aveva avuto cultori: l'A. rinnovò quel
genere letterario, adombrando, in ambiente e sotto nomi pastorali,
fatti e personaggi della sua vita e di quella contemporanea,
seguito, a breve distanza di tempo, dal Petrarca e dal Boccaccio, e
da non pochi altri letterati, via via nei secoli seguenti. E
malgrado l'imitazione del modello virgiliano e l'artificio
allegorico, riuscì, specialmente nella seconda egloga,
così vivo rinnovatore della classicità, da doverlo
considerare, per questi componimenti (c'è un abisso tra la
loro eleganza quasi classica e il latino medievale degli altri suoi
scritti), anche dal punto di vista formale, uno dei primi umanisti.
Nell'agosto del 1321 era avvenuta la rottura dei rapporti - sempre
tesi, a cagione delle saline e della navigazione costiera - tra
Venezia e Ravenna, in seguito alla cattura di navi veneziane,
probabilmente per rappresaglia, da parte dei Ravennati; e si
profilava la minaccia di una guerra. Fu allora mandata dal signore
di Ravenna un'ambasceria a Venezia per tentare un accordo. Di questa
ambasceria sembra facesse parte l'A., secondo la notizia tramandata
da Giovanni Villani ("nel detto anno 1321... morì Dante
Alighieri... nella città di Ravenna..., essendo tornato di
ambasceria da Venezia in servizio dei signori da Polenta, con cui
dimorava", IX, 136), e ampliata con molti fronzoli da Filippo
Villani. Di essa, però, non parlano né il Boccaccio
né Leonardo Bruni; e inoltre, gli ambasciatori erano ancora a
Venezia il 20 ott. 1321; sicché dovrebbe supporsi che l'A.,
ammalatosi nel viaggio, fosse tornato prima degli altri a Ravenna; e
sarebbe morto pochi giorni dopo il ritorno.
La data della morte oscilla fra il 13 e il 14 settembre: il
Boccaccio dà la data del "dì che la esaltazione della
Santa Croce si celebra dalla Chiesa", cioè il 14; ma i due
epitaffi latini, di Giovanni del Virgilio ("Theologus Dantes,
nullius dogmatis expers") e di Menghino Mezzani, ravennate amico e
studioso dell'A. ("Inclita fama cuius universum penetrat
orbem"),danno quella delle idi di settembre, cioè il 13.
Nella seconda egloga a Giovanni del Virgilio, Alfesibeo, supplicando
Titiro di non lasciarsi sedurre dall'invito dell'incoronazione a
Bologna, aggiunge: "(a questo illustre capo) già lo
sfrondatore si affretta a scegliere sul nobile albero della vergine
(Dafne) le fronde perpetue". Parrebbe doversi desumere da queste
parole che Guido Novello pensasse all'incoronazione poetica dell'A.,
come Padova aveva fatto, con grandi feste, per Albertino Mussato nel
1315, Bologna per Taddeo Pepoli nel 1320. Comunque, l'onore che il
signore da Polenta avrebbe voluto rendere al poeta vivo, certamente
rese, e in maniera grandiosa, alla salma; e se ne dovette spargere
la fama, se l'autore dell'Ottimo commento, al v. 94 del XVII del
Paradiso,parla addirittura di "singulare onore a nullo fatto
più da Ottaviano Cesare in qua". Vestito "in abito di poeta e
di grande filosofo" (Villani, loc. cit.),accompagnato da una
"moltitudine di dottori di scienza" (Ottimo, loc. cit.),portato
"sopra gli omeri dei cittadini più solenni infino al luogo
dei frati minori di Ravenna" (Boccaccio, Vita XV), fu quivi sepolto
in un'arca "lapidea" (Boccaccio), posta in una cappelletta esterna,
addossata al muro del convento, in un portico laterale a sinistra
della chiesa di S. Pier Maggiore, poi detta di S. Francesco. Narra
il Boccaccio (loc. cit.)che Guido Novello, dopo la sepoltura,
tornato nella casa dell'A., "esso medesimo, sì a
commendazione dell'alta scienza e della virtù del defunto, e
sì a consolazione de' suoi amici, i quali aveva in amarissima
vita lasciati, fece uno ornato e lungo sermone". Guido aveva in
animo di erigergli un mausoleo; l'esilio, cui fu costretto nell'anno
seguente, glielo impedì. Nel 1483 Bernardo Bembo, padre di
Pietro, pretore in Ravenna della Repubblica veneta, sotto il cui
dominio fin dal 1441 la città era passata, grande ammiratore
dell'A., trovò il sepolcro in tale stato di abbandono e
squallore, che fece ricostruire la cappelletta (a sue spese, come
tenne a far sapere in una lapide apposta a una parete)
dall'architetto Pietro Lombardi. Questi rivestì di marmi
almeno la parete su cui poggiava l'arca, in modo che la parete,
mediante le due fasce verticali, ai lati, di marmi scuri e bianchi
sorreggenti un arco, rendesse l'immagine di una cappelletta, nello
stile del tempo, e l'arca avesse la funzione architettonica
dell'altare; e sopra l'arca, entro un riquadro di marmo scuro,
scolpì, come pala d'altare, un bassorilievo raffigurante il
poeta intento a leggere, davanti a un tavolo con scaffali, ma col
viso pensoso girato a sinistra e poggiato sulla mano sinistra, un
libro aperto su un leggio. C. Ricci (Cogliendo biada o
loglio,Firenze 1923, p. 208) ritiene che il Lombardi abbia
conservato e lavorato l'arca originale, e che il termine "lapidea"
usato dal Boccaccio debba essere considerato come generico, in luogo
di "marmorea", giacché l'arca attuale è di marmo di
Proconneso. Comunque, quale che fosse l'arca, fu allora scolpito in
caratteri romani, sulla faccia antistante di essa, il seguente
epitaffio di sei esametri rimati, già dettato - sembra - da
Bernardo Canaccio, un rimatore che doveva aver conosciuto l'A. alla
corte di Cangrande: "Iura Monarchie, Superos, Phlegetonta, lacusque
Lustrando cecini, voluerunt fata quousque. Sed quia para cessit
melioribus hospita castris, Auctoremque suum petiit felicior astris,
Hic claudor Dantes patriis extorris ab oris, Quem genuit parvi
Florentia mater amoris" (Indagai e cantai i diritti della Monarchia,
i Beati, l'Inferno, i lavacri [del Purgatorio] fin dove vollero i
fati. Ma, poiché la parte ospitata [nel mio corpo, l'anima]
passò a terre migliori, e più felice cercò in
cielo il suo creatore, qui son rinchiuso io, Dante, esule dalla
patria terra, generato da Firenze, madre di poco amore). Sopra
l'epitaffio sono incise le iniziali "S.V.F.", di cui sono state
proposte varie spiegazioni, tra cui le più accreditate sono
"Sibi Vivens Fecit" (si sarebbe supposto autore dell'epitaffio l'A.
stesso), e "Senator Venetus Fecit" (sarebbe ancora una sigla del
Bembo). Dentro l'arco, nella lunetta, è scolpito, chiuso in
circolo da un ramo d'alloro e uno di quercia (simboli della poesia e
della vittoria) il motto di Bernardo Bembo "Virtuti et honori",
evidentemente adattato dal senatore veneziano ad esaltazione
dell'Alighieri.
Ritocchi, poi, più o meno sensibili furono fatti a varie
riprese, tra i quali - sembra -nel 1660 l'orientamento della
cappella a settentrione, come è oggi, invece che a ponente,
come era in origine. Completamente restaurata nel 1692 dal cardinale
Domenico Maria Corsi, fu poi trasformata nel 1780 nel tempietto
odierno con la cupoletta dall'architetto Camillo Morigia, per
incarico del cardinale Luigi Valenti Gonzaga, che appose anch'egli
la sua brava lapide di fronte a quella del Bembo, a ricordo della
propria benemerenza, e il suo stemma sulla porta: piccola fiera di
vanità in quello che dovrebbe essere il tempio di un dio. Nel
1846 dal gonfaloniere della città, marchese Ignazio
Guiccioli, furono apposte, a riparo dell'ingresso, quattro
colonnine, legate tra loro da sbarre di ferro e da una catena. Molti
abbellimenti interni, per opera dell'architetto Ambrogio Annoni, e
l'aggiunta, dietro al tempietto, di una torricella dove fu collocata
la campana donata dai Comuni d'Italia, furono fatti nel 1921; ma non
si può dire che il "Dantis poetae sepulcrum", come sta
scritto sulla porta - quasi un'informazione turistica -, ispiri per
sé stesso una vera commozione. Ha scritto C. Ricci (L'ultimo
rifugio,Milano 1921, p. 380) che "sembrerebbe il sepolcro di qualche
arcade mellifluo e cortigiano,… e starebbe meglio… sulla riva di un
laghetto solcato dai cigni, fra i mirti e i salici piangenti". - Le
ossa, poi, non ebbero sorte migliore del sacello: una vicenda
romanzesca, non del tutto chiara. Più volte (1396, 1428,
1476) Firenze le aveva richieste a Ravenna; invano. E quando
finalmente, essendo Ravenna tornata sotto il governo pontificio, i
Fiorentini ottennero dal papa loro concittadino, Leone X, nel 1519,
il consenso alla traslazione di esse (e nella supplica al papa,
Michelangelo, oltre a sottoscriversi, si offerse "al divin poeta
fare sepoltura sua chondecente e in locho onorevole" in Firenze), i
messi inviati a rilevarle trovarono il sepolcro vuoto. E vuoto fu
trovato anche nella verifica fatta nella solenne inaugurazione del
mausoleo dopo i lavori del 7780, come risulta da testimonianze
certe, sebbene la relazione ufficiale allora redatta si esprimesse
ambiguamente in modo da nascondere al pubblico la verità.
Finalmente, nel 1865, nell'abbattere un tratto di muro prossimo alla
cappella detta di Braccioforte, fu trovata una cassetta dì
legno, sul cui coperchio era scritto "Dantis ossa a me Fra Antonio
Santi hic posita anno 1677 die 18 octobris", e sul fondo "Dantis
ossa a me denuper revisa die 3 junii 1677". Fu allora aperta
ufficialmente l'arca, nella quale non furono trovate se non "tre
piccole falangi, che si riscontrarono appartenere allo scheletro
della cassetta"; e nel lato postico superiore dell'arca fu scoperto
un foro attraverso il quale si conchiuse "che benissimo si erano
potute estrarre le ossa racchiuse, compreso il cranio" (Sulla
scoperta delle ossa di Dante, Relazione con documenti,per cura del
municipio di Ravenna, Ravenna 1870). Il foro, come più tardi
si poté determinare esattamente, era stato praticato rompendo
la parete a ponente, alla quale, come si è detto, era
dapprima appoggiata l'arca, dopo aver rotto il muro del chiostro del
convento, al quale quella parete era addossata mediante
un'intercapedine, come tuttora si vede. Sicché non si
può dubitare che un trafugamento delle ossa da parte dei
frati francescani ci sia stato; e verosimilmente esso avvenne sotto
la minaccia della loro traslazione a Firenze nel 1519. Resta
inspiegato come i messi fiorentini allora inviati non si
accorgessero del foro dell'arca, o, accortisene, non si procedesse a
un'indagine per far luce sul trafugamento. I frati dovettero
diligentemente custodirle, forse in attesa di un'occasione propizia
per ricollocarle nell'arca, senza incorrere in punizioni. Si
può supporre che, di quando in quando, forse nel trapasso di
consegna del prezioso possesso dall'uno all'altro frate responsabile
della sua custodia, si facesse la ricognizione delle ossa:
così potrebbe spiegarsi quella fatta dal padre Santi nel
1677. Quando e perché la cassetta sia stata murata nel luogo
ove è stata scoperta, e che oggi è indicato da una
lapide, non sappiamo con certezza; ma per varie buone ragioni si
suppone che ciò sia avvenuto soltanto all'epoca napoleonica.
Pensare a una mistificazione, e dubitare anche dell'accertamento che
le tre falangi rimaste nell'arca appartengano allo scheletro della
cassetta, sarebbe scetticismo del tutto ingiustificato. Le ossa sono
quasi complete (Ricognizione delle ossa di Dante fatta nei giorni
28-31 ottobre 1921, Memoria,in Atti d. R. Acc. dei Lincei,XVII,
1923).
Dell'aspetto esteriore dell'A. è celebre la descrizione
lasciataci dal Boccaccio (Comp.XVI): "Fu il nostro poeta di mediocre
statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle
grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di
sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi
che piccoli, e.il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri,
e sempre malinconico e pensoso". Che dall'espressione "i capelli e
la barba crespi" non si desuma necessariamente che l'A. portasse la
barba, può essere sostenuto; senonché, subito dopo, il
Boccaccio narra l'aneddoto delle donnette veronesi, nel quale non si
parla dei capelli, nascosti dalla copertura del capo, secondo la
foggia fiorentina, ma solo, e in maniera che sembra inequivocabile,
di vera e propria barba ("non vedi tu com'egli ha la barba crespa e
il color bruno?"). Sicché parrebbe che il Boccaccio si sia
raffigurato e ci abbia. descritto l'A. maturo barbuto: il che
è in contrasto con tutta la tradizione iconografica, anche se
i fondamenti di questa siano tutt'altro che sicuri. Che sia barbuto
in qualche raro codice illustrato della Commedia non vuol dir nulla.
Bisogna rassegnarci a considerare come incerto anche questo
insignificante dettaglio della persona del poeta. Il solo ritratto
sicuro è quello famoso, compiuto da Giotto fra il 1334 e il
1337, nella cappella del palazzo del podestà a Firenze (il
Bargello), che rappresenta l'A. nel fiore dell'adolescenza, di
profilo, con un libro sotto il braccio sinistro e un ramicello con
tre fiori e tre pomi nella destra. Il ritratto, coperto da
successive imbiancature della cappella, venne alla luce nel 1840;
guastato dal restauratore e ridipinto (la tunica da verde
diventò color cioccolata), ci è stato conservato
qual'era al momento della scoperta da due lucidi tratti dall'inglese
Seymour Kirkup, uno degli scopritori, e da Perseo Faltoni.
Benché privo dell'occhio, forato sciagurata-mente da un
chiodo, il ritratto è assai bello: è il ritratto di un
delicato adolescente, puro e sognatore, rapito, si direbbe, in
visioni angeliche: probabilmente un A. giovane, molto idealizzato.
L'immagine vulgata, invece, sembra ricalcata, dal più al
meno, sulla descrizione lasciata dal Boccaccio, tolta la barba: l'A.
maturo, austero e disdegnoso; ma nessuna delle effigi tramandateci,
che sono tutte posteriori al sec. XIV, risulta storicamente
riferibile a un ritratto sicuro. Di esse le più famose sono:
una miniatura del cod. Palat.320 della Biblioteca Nazionale di
Firenze, che si ritiene possa derivare da un dipinto di Taddeo Gaddi
ch'era nella chiesa di S. Croce, e fu poi distrutto (il Gaddi poteva
aver conosciuto l'A. a Ravenna); un'altra del cod. Riccardiano 1040,
molto apprezzata da alcuni studiosi; un quadretto posseduto dal
principe Trivulzio, già attribuito all'Orcagna; la tavola
notissima di Domenico di Michelino in S. Maria del Fiore; il busto
di bronzo del Museo di Napoli, di fattura, si è detto,
donatelliana, e quello affine, in gesso colorato, della Galleria
degli Uffizi. E affini alla testa di questi due busti sono le
cosiddette "maschere di Dante", tra cui notissima la maschera
Kirkup, ora in Palazzo Vecchio. Si pensa che le maschere possano
derivare da una testa dell'A., in marmo o in terracotta, che,
secondo una notizia fornita dall'antiquario, medico e artista
Giovanni Cinelli (La Toscana illustrata,manoscritto nella Biblioteca
Nazionale di Firenze, t. I, p. 340: cfr. C. Ricci, Cogliendo...pp.
162-63), si trovava sul sepolcro di Ravenna e, donata
dall'arcivescovo della città a Gian Bologna, era poi servita,
per la sua bellezza anatomica, come modello agli scolari del suo
scolaro ed erede, Pietro Tacca: e questo spiegherebbe le differenze
tra le varie "maschere", che sono una trentina. In tutte è
evidente, nell'incisività del segno, la mano dell'artista.
Che una maschera .sia stata cavata col gesso sul cadavere dell'A.
è da escludere: anzitutto, una notizia di tal genere non
sarebbe rimasta ignota; inoltre, quest'uso non era praticato nel
Medioevo; e, infine, sarebbe per lo meno strano il calco anche
dell'orlo del berretto e delle bandelle laterali, come si vede in
tutte le "maschere".
Il ritratto del suo io interiore ha lasciato invece egli stesso,
tale che non potremmo desiderarlo più vivo, preciso,
completo, sincero, nell'insieme delle sue opere successive
all'adolescenza, ma specialmente nella Commedia,cui davvero, sotto
questo aspetto, meglio calzerebbe l'appellativo datole di
"Danteide". Tutti i tratti personali, in parte desumibili anche
dalle opere minori e dalle poche notizie biografiche certe, nella
Commedia si dispiegano, infatti, nella loro interezza, e si
compongono in una figura tra le più definite, persuasive, e
immediatamente accessibili. Questa immediata accessibilità e
comunicatività deriva dall'assoluta sincerità con cui
il poeta si è descritto, e che, a sua volta, risponde
all'assoluta schiettezza della sua natura, non soffocata o deformata
dai casi della vita e dalla cultura, senza ombre ambigue, senza
capziosità o sovrastrutture di nessun genere, senza
infingimenti volontari o inconsapevoli, complessa per la grande
ricchezza di motivi umani, ma non complicata o contorta, e, nella
complessità dei motivi, sostanzialmente limpida e lineare.
È per questo che i lineamenti più caratteristici della
fisionomia dantesca emergono dalla Commedia a prima vista: in breve,
una straordinaria energia nel volere e nel sentire, e una coscienza
straordinariamente austera ed elevata, dalla sfera affettiva a
quella etica, intellettuale, religiosa. L'aggettivo dell'uso comune
"dantesco" compendia ed isola appunto questi lineamenti energici e
solenni, che appaiono essenziali dell'io interiore dell'Alighieri.
Il poeta stesso si fa proclamare da Virgilio "alma sdegnosa":
sdegnosa di tutta la viltà e corruzione e stoltezza di cui
è pieno il mondo. Ma lo sdegno esprime solo la pugnace
reazione del poeta al disordine generale dell'umanità: la
sostanza della sua anima è eroica. Come il suo Ulisse, egli
sentì il dovere categorico di seguire, con tutte le sue
forze, "virtute e conoscenza",lottando, con incrollabile
volontà e indomito cuore, contro ogni impedimento della
natura, contro ogni avversità della vita, mirando
costantemente a quella totale perfezione dell'essere, che egli
credette fermissimamente potersi raggiungere dall'uomo per le
mirabili doti largitegli da Dio, e per la quale l'uomo diviene -
diremo con parole sue - "quasi un altro Iddio incarnato". Questi i
lineamenti eroici dell'anima dell'A., quali sono nettamente scolpiti
nella Commedia;è questa la concezione eroica della vita
umana, in cui consiste l'altissimo valore ideologico del poema, la
sublime parola di fede nelle forze ideali e nel destino
dell'umanità, che l'A. ha trasmesso alle età
successive. Né si creda che la sua salda fede religiosa
limiti o condizioni la sostanza eroica della sua anima e della sua
concezione della vita. Per l'A., quel Dio che mandò in terra
il suo Figliuolo per far conoscere all'uomo la Verità, non
solo non umilia e non limita l'individuo per affermare la propria
onnipotenza, ma, al contrario, sollecita la piena estrinsecazione,
il massimo potenziamento di tutte le sue forze morali e
intellettuali, lo stimola alla conquista del Cielo, fa di lui non
uno schiavo, ma un titano. E sarebbe parimenti errore considerare
l'anelito dell'A. alla conquista di Dio, come estrema perfezione,
limitato dai termini dogmatico cattolici in cui formalmente il suo
Dio si concreta: quell'anelito risponde a una posizione dello
spirito eterna, universale e incoercibile, la posizione da cui
promanano i grandi sistemi di filosofia spiritualistica e le
più alte religioni storicamente costituite, e che trascende i
termini contingenti in cui a volta a volta si configura il concetto
dell'Essere assoluto e perfetto. Se ci fermassimo alle forme
dogmatiche in cui si concreta il Dio dell'A., ci sfuggirebbe il
senso sublime e universale di quel suo anelito alla conquista di
Dio, quel senso titanico-religioso che costituisce l'afflato e
l'essenza della Commedia.L'aspetto fondamentale della fisionomia
dantesca è, dunque, di apostolo ed eroe dell'ideale
elevazione umana.
Ma gli altri lineamenti che concorrono a comporre il ritratto ci
fanno vedere, nell'eroe, l'uomo, non solo con la sua ferma
volontà di continua ascesa spirituale, ma anche con i suoi
istinti immediati, con i suoi atteggiamenti di più comune
umanità, con i suoi limiti, con i suoi difetti. L'immagine
ideale resta intatta; anzi, forse, gli effetti d'ombra, che alcuni
lineamenti determinano nel ritratto, le tolgono quel che di rigido e
di astratto potrebbe avvertirsi in essa, e la rendono più
umanamente ammirevole e persuasiva, perché rivelano il comune
sostrato umano, sopra il quale il poeta ha saputo così
nobilmente elevarsi. Un'ombra insistente sul ritratto ideale
è proiettata, anzitutto, dalla violenza, che bisogna pur dire
spietata e barbarica, in cui più di una volta trascende il
suo sdegno sempre giusto e normalmente magnanimo. Il confronto, che
si può invocare, col furore biblico può valere a
farcelo comprendere, e in parte a giustificarlo. Il Boccaccio (Vita
XXV) afferma come "pubblichissima cosa in Romagna" che "ogni
femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante la
ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gettare le pietre
l'avrebbe condotto, non avendo taciuto". Questa voce raccolta dal
Boccaccio era certamente creata ad arte, perché l'A. fu
convinto assertore della necessità dell'autorità
imperiale, ma non un fazioso e fanatico sostenitore della parte
ghibellina, come troppo spesso è stato frainteso: questa sua
posizione superiore alle parti è dimostrata e ribadita
continuamente nella Commedia (e basti ricordare i vv. 103-105 di
Par.VI); ma la voce poté benissimo accreditarsi per la
violenza con cui Dante professava le sue convinzioni. Nel Convivio
(IV, xiv, 11), contro i sostenitori di un'opinione erronea intorno
alla nobiltà egli ha scritto che "rispondere si vorrebbe non
con le parole, ma col coltello, a tanta bestialitade". E, senza
citare il noto passo della canzone "petrosa" Così nel mio
parlar,vv. 66-73, in cui l'espressione della brutale vendetta
amorosa probabilmente è soltanto di natura letteraria
(sebbene anche i compiacimenti letterari siano indici di un
temperamento), troppe volte la Commedia riflette un atteggiamento
così violento e vendicativo, da doversi convenire ch'esso era
del carattere istintivo dell'uomo Dante. Si pensi alle sue terribili
imprecazioni: contro Pisa, che vorrebbe sommersa nell'Arno con tutti
gli abitanti (Inf.XXXIII, vv. 79-84), contro Pistoia, che vorrebbe
ridotta in un mucchio di cenere (Inf.XXV, vv. 10-12), contro i
Genovesi, che vorrebbe cancellati dalla faccia della terra
(Inf.XXXIII, vv. 151-153);si pensi al desiderio e alla gioia crudele
di veder fare strazio di Filippo Argenti (Inf.VIII, vv. 52-60), alla
ferocia con cui strappa i capelli a Bocca degli Abati (Inf.XXXII,
vv. 97-105). Occorre dir subito che nel poema la violenza
vendicativa di Dante non appare mai, anche dove entra certamente il
risentimento personale (ad esempio nell'odio e disprezzo contro
Bonifazio VIII e Filippo Argenti), come sfogo, che sarebbe
ripugnante, di astio e vendetta personale, ma come sacrosanta
reazione del sentimento di giustizia offeso, anche se talvolta
l'eccesso non bene giustificato della reazione susciti nel lettore
qualche perplessità. Comunque, questo lato negativo del suo
carattere risulta innegabile: fattosi giudice e giustiziere,
dimostrò di possedere più la violenza dell'odio
biblico che non la misericordia evangelica; e si può dire che
ignorò la virtù del perdono. Un altro dei lineamenti
propriamente non encomiabili che si rivelano più
scopertamente nel poema è la superbia per la consapevolezza
della sua "altezza d'ingegno" e dottrina ed eccellenza poetica, e,
compagno di questa consapevolezza, un indomabile desiderio di
gloria. E non occorre la testimonianza del Villani ("Questo Dante
per lo suo savere fu alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e,
quasi a guisa di filosofo mal grazioso, non bene sapeva conversare
co' laici", IX, 136), né del Boccaccio ("Molto... presunse di
sé, né gli parve meno valere... che el valesse", Vita
XXV): la sua superbia confessò egli stesso in Purg.XIII, vv.
136-138: l'unico dei peccati mortali ch'egli esplicitamente
confessò: il che forse fu ancora un atto di superbia e non di
contrizione. Tuttavia anche qui, indipendentemente dalla
considerazione che forse non vi è stata mai superbia, diremo
parafrasando Orazio, quaesita tantis meritis,si deve riconoscere
ch'essa nel poema non appare mai come presunzione e iattanza; e anzi
l'insistenza insolita con cui, nel canto XI del Purgatorio,egli si
fa ribadire da Oderisi da Gubbio la vanità della gloria
terrena e perfino la caducità delle stesse opere
dell'ingegno, mostra quanto profondamente egli cercasse, con la
ragione e la religione, di mortificarla in sé. E, d'altra
parte, quest'uomo così orgoglioso del suo ingegno, del suo
sapere, insomma, della sua altezza intellettuale e morale, era, poi,
pronto e magnanimo nel riconoscere e ammirare ed esaltare l'ingegno
e, comunque, i meriti altrui, malgrado i vizi da cui eventualmente
fossero accompagnati, tanto alto era in lui il concetto e il
rispetto della personalità umana, che sappia in qualche modo
affermare la sua nobiltà nella sua missione terrena. Da
questa disposizione concettuale e sentimentale, che continuamente si
rivela nel poema, e che può sembrare - a chi non intenda bene
l'anima dell'A. - in contraddizione con l'aspetto religioso del
poema stesso, ha origine, tra l'altro, la creazione eterodossa del
luminoso castello nel Limbo, dove sono accolti gli "spiriti magni"
non solo dell'antichità pagana, ma anche -il che è
più grave dal punto di vista dell'ortodossia cattolica -
della civiltà arabo-musulmana. Anzi talvolta il rispetto e
l'ammirazione del valore altrui giunge fino a fargli assumere
addirittura un atteggiamento commosso di schietta umiltà:
così nei riguardi dei tre grandi fiorentini in Inf.XVI, di
Manfredi in Purg.III (e si tratta di peccatori gravi), di Guido
Guinizelli in Purg.XXVI. E non meno pronto, aperto e magnanimo era
nel riconoscere i benefici ricevuti, come attestano le nobilissime
espressioni di gratitudine verso Brunetto Latini, i Malaspina, gli
Scaligeri. E infine, pur compiacendosi istintivamente della sua
"nobiltà di sangue", come prova la sua esplicita confessione
(Par.XVI, 1-6), seppe tuttavia sorridere di questa sua debolezza,
ben sapendo quanto poca cosa fosse per sé stessa la
nobiltà dei natali. A questo riguardo è opportuno
chiarire che l'A., pur tenendo ben fermo il principio, ch'egli aveva
direttamente ereditato dal Guinizelli e ampiamente dimostrato nel IV
del Convivio,che non c'è nobiltà se non dove
c'è virtù, e che questo "divino seme non cade in
ischiatta,..., ma cade ne le singulari persone",sicché "la
stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone
fanno nobile la stirpe" (Conv.IV, xix, 3-4; xx, 5),tuttavia non
pensò mai di negare o sopprimere il valore relativo della
nobiltà dei natali, e la nobiltà come classe sociale;
all'ideale classe nobiliare, che unisse la virtù
all'antichità del sangue, egli riconosceva un alto compito,
quello di guida e di autorevole esempio per la società. Alla
sua superbia bisognerà in gran parte ascrivere anche una
certa dose di permalosità, che doveva essere nel suo
carattere, e che nel poema si scopre almeno nel sùbito
adombrarsi per una risposta di Virgilio da lui giudicata un po'
secca (Inf.III, vv. 76-81; X, vv. 19-21), e nell'acre reazione al
vanto di Farinata di aver disperso i suoi maggiori. Ma se si pensa
quali terribili segrete angosce - appena accennate in Purg.XI, vv.
140-141; Par.XVII, vv. 58-6o - dovette soffrire un uomo dal
carattere così fatto, costretto a mendicare il tetto e il
pane, tanto più mirabile apparirà la forza d'animo con
cui egli resistette e reagì al suo destino, opponendo alle
avversità e alle umiliazioni la sdegnosa dirittura della sua
coscienza morale, la sua meta altissima di scienza e di poesia.
Accanto a questi lineamenti più risentiti - in senso
positivo, e, in parte, anche negativo -, che sono certo i più
costanti e più propri (i più "danteschi", se
così si vuol dire) della fisionomia del poeta, vi è
poi una grande ricchezza di lineamenti e sfumature più
comuni, rispondenti alla straordinaria ricchezza della sua vita
interiore, alla sua natura veramente "trasmutabile per tutte guise",
aperta ad accogliere qualunque sollecitazione del sentimento. Il
poeta non avrebbe potuto illuminare d'un lampo, come ha saputo fare,
i più diversi moti dell'animo umano, se non fosse penetrato
in essi bene addentro, per la forza e ricchezza della sua propria
umanità. E anzitutto dovremo dire che quella coscienza
così energica, tesa ad ideali così alti e severi,
fondamentalmente eroica, era anche dotata di una profonda, schietta
delicatezza e gentilezza di sentire. Lo provano le innumerevoli note
rispondenti appunto a queste qualità della sua anima, profuse
incidentalmente un po' da per tutto nel poema, e specialmente nel
Purgatorio,sia che si riferiscano ad aspetti della natura (marine,
cielo, fontane, foreste, fiori, albe, tramonti), sia alla vita degli
animali (greggi e uccelli), sia - soprattutto - alla vita e agli
affetti umani (madri, bimbi, vergini, mendichi, pastori, viandanti,
pudori, nostalgie, trepidazioni, ecc.). Del resto, a dimostrare la
profondità di queste doti della sua anima basterebbero le
figure della Pia, di Francesca, di Piccarda, creature tra le
più delicate e gentili della poesia di ogni tempo. Questo
aspetto della sua anima si rivela anche nella tenerezza con cui
dimostra di aver sentito il vincolo dell'amicizia: affettuosissimo
con Casella, Nino Visconti, Oderisi, ser Brunetto, è di una
particolare delicatezza con Forese Donati, per ammenda degli attriti
creatisi, in un certo momento, tra lui e l'amico. E, mentre era
così spietato con i vili, i perfidi, i malvagi, sapeva anche
essere comprensivo e indulgente delle debolezze umane, quando
fossero senza malizia, conseguenza di un giudizio fallace o della
fragilità della carne. Questa comprensività e
indulgenza arriva, per un verso, fino alla pietà (Francesca,
Pier delle Vigne) e, per un altro, al sorriso malizioso o bonario
(Capocchio, Belacqua, Sapia). A quest'ultimo riguardo bisogna
aggiungere che c'era nel temperamento dell'A. una disposizione non
trascurabile a cogliere e sottolineare con divertita intelligenza
momenti comici e umoristici della vita: disposizione che diede
luogo, nel poema, ora alla battuta arguta, ora alla caricatura
maliziosa, ora alla canzonatura leggermente maligna. Anzi
bisognerà anche ammettere che l'uomo così sapiente e
disdegnoso non sempre deve aver saputo rinunziare al divertimento
grossolano dei diverbi mordaci, anche volgari. Lo provano, anche
tenendo conto di quelle che possono essere state la ragioni
dell'arte, la giovanile tenzone con Forese Donati e parecchi luoghi
delle Malebolge; ed è certamente una coraggiosa confessione e
automortificazione l'attenzione ch'egli presta all'alterco tra
Sinone e maestro Adamo, che provoca lo sdegnoso rimprovero di
Virgilio (Inf.XXX, vv. 100 ss.). Troppe volte, sia tra i
concittadini litigiosi e linguacciuti per natura, sia nella
compagnia eterogenea delle corti frequentate nella esilio, "fortuna"
dovette farlo trovare ( e l'avvertimento di Virgilio è
significativo) "dove eran genti in simigliante piato", e più
di una volta non solo si sarà divertito ad ascoltare, ma
sarà intervenuto con qualcuna di quelle sue brevi stoccate,
precise e trafiggenti, che la leggenda gli attribuisce, e che, anche
se forse tutte inventate, dovevano rispondere alla memoria, che si
era conservata, del suo stile. Attestano, infatti, il Boccaccio e il
Bruni ch'egli era "parlatore rado e tardo" e "rade volte, se non
domandato, parlava", ma che era "nelle sue risposte molto sottile".
Comunque, anche questo suo difetto egli riconobbe con molta
vergogna; e, sincero come sempre, non tolse al suo autoritratto
questa nota negativa. Del resto, un'A. tutto sublime, tutto
"dantesco", è un'astrazione dei feticisti, che, tra l'altro,
non dispone a intender bene tutta la sua varia e complessa
umanità. Stentiamo, invece, ad ammettere la taccia di
lussuria datagli dal Boccaccio ("e non solamente ne' giovani anni,
ma ancora ne' maturi", Vita XXV) e da qualche commentatore antico.
La taccia non pare abbia altro fondamento che un'interpretazione,
secondo noi, del tutto arbitraria dei molteplici amori cantati dal
poeta. La facilità a crearsi fantasmi di amore, che
certamente fu in lui, è cosa ben diversa dalla lussuria. Sta
di fatto che in tutta la sua opera (l'eccezione della canzone
"petrosa" su citata non ha peso) non c'è il minimo indizio di
un temperamento sensuale, e neppure di una segreta lotta interiore,
vinta dalla ragione e dalla volontà, contro la prepotenza dei
sensi. Si direbbe piuttosto ch'egli sentisse l'amore carnale come
cosa bestiale e disgustosa: si pensi al canto dei ruffiani e
seduttori (Inf.XVIII), al puzzo del ventre della femmina balba
(Purg.XIX), al costante disprezzo di ogni forma di cupidigia carnale
nei rarissimi casi in cui ce ne sia un accenno, alla ferma e
costante condanna del sommettere la ragione al talento, seguendo
come bestie l'appetito; e si pensi anche alla freddezza scientifica
con cui è descritta la funzione fecondativa in Purg.XXV, vv.
42-45. Né il peccato di Francesca, la maggiore delle sue
creature amorose, è di ordine sensuale, né la
pietà del poeta per lei implica altro che una partecipazione
sentimentale e forse anche un ripensamento ideologico. Si vuol
vedere una confessione personale nella resistenza ch'egli oppone ad
entrare nella fiamma in cui sono puniti i lussuriosi, nell'ultima
cornice del Purgatorio; ma essa è imposta dall'esigenza
scenica. Anche il rimprovero di Beatrice per essersi lasciato
allettare, dopo la sua morte, dall'amore per una "pargoletta" non
può essere considerato se non come accusa di aver egli
idoleggiato, quasi alla pari del "sommo piacere" di Beatrice stessa,
un'altra bellezza femminile, che non era altro che "vanità
con sì breve uso" (Purg.XXXI, vv. 49-60): un errore di
valutazione, un miraggio. Se l'A. sentì veramente l'assillo
della carne, bisogna dire (e ciò pare alquanto forte) ch'egli
è riuscito nell'opera sua a dissimularlo completamente,
simulando, invece, non solo il pieno dominio su di essa, ma una
profonda, assoluta castità interiore. Sicché, sebbene
in questo campo sia forse più difficile che in ogni altro,
ove manchi il sussidio di dati esterni, penetrare nel segreto
individuale, riteniamo che non ci sia ragione per credere più
al Boccaccio, in questa materia piuttosto sospetto, che non all'A.
stesso, che si dipinse sempre qual'era, senza infingimenti. Ci
persuade di più Leonardo Bruni, in polemica col Boccaccio:
"Fu usante, in giovanezza sua, con giovani innamorati, e lui ancora
di simile passione occupato, non per libidine, ma per gentilezza di
cuore". In questi termini non abbiamo difficoltà ad ammettere
che l'eterno femminino, le "giovani donne", di cui così
delicatamente in gioventù aveva cantato "gli occhi di
bellezze ornati e la mente d'amor vinta e pensosa", abbiano potuto
suscitare nell'anima dell'A., anche negli anni maturi, palpiti
d'amore.
Già si è detto che il mondo ideologico delle rime
dottrinali-allegoriche, del Convivio,delle Epistole,della Monarchia
ritorna invariato nella Commedia (qualche rara rettifica marginale
è del tutto insignificante), sicché questa nulla
aggiunge di veramente sostanziale alla conoscenza di esso. Ma giova
insistere su alcuni suoi aspetti più esplicitamente espressi
nella Commedia,perché valgono a illuminare ancora meglio
alcuni aspetti spirituali del poeta, e a meglio precisarne la
particolare posizione, di fronte a quel mondo, ch'egli ebbe in
comune con l'età sua. Specialmente importa chiarir bene, per
eliminare vari fraintendimenti a cui il poema ha potuto dar luogo,
il carattere della sua religiosità e cattolicità.
Già si è accennato al particolare accento della sua
religiosità, più affine a quella del Vecchio che non
del Nuovo Testamento. Egli sentì profondissimamente Dio come
Dio di giustizia infallibile e d'inebbriante verità,
pochissimo come Dio di amore. Quest'ultimo aspetto egli ben
riconobbe in tutte le operazioni divine che da esso procedono, a
cominciare dalla creazione, che fu appunto un atto di amore; ma la
conoscenza intellettuale non tolse che quest'aspetto di Dio restasse
assai poco operante nel suo sentimento. Il suo stesso amore di Dio
fu essenzialmente "amor Dei intellectualis"; e nella visione del
"Vero in che si queta ogni intelletto", e non nell'atto di amare
Dio, che è atto posteriore, egli, come s. Tommaso, fece
consistere la beatitudine celeste (Par.XXVIII, vv. 106-111): il che
- diciamo incidentalmente - dimenticano coloro che a tutti i costi
vogliono fare dell'A. della Commedia un mistico. Si veda nel canto
VII del Paradiso come è rappresentato il misericordioso
sacrificio del Figlio, voluto da Dio Padre per la redenzione degli
uomini: un grandioso processo di somma giustizia e di magnificenza
divina, un grandioso mistero teologico, insomma, da ammirare ed
esaltare intellettualmente; ma l'aspetto umano di quella
magnificenza e di quel sacrificio è del tutto trascurato dal
poeta. Qui e altrove egli celebrò altamente la sapienza e
potenza del Padre; non mai l'umanità del Figlio.
Dell'Incarnazione non vide e sentì se non il valore teologico
e il mistero. La religiosità dell'A. restò lontana sia
dall'ardore dei mistici, che più fortemente si accende
proprio nella contemplazione del Cristo crocifisso, sia da quel
confidente abbandono in Dio, in cui i comuni credenti trovano la
quotidiana pace dell'anima e il maggior conforto nelle traversie
della vita. Perfino nel suo culto di Maria, ch'egli ebbe
straordinariamente vivo e profondo, le note umane e affettuose hanno
un rilievo di gran lunga minore di quelle che ne celebrano il merito
teologico, la grandezza, la magnificenza, la regalità, il
valore, il trionfo: si pensi all'orazione di s. Bernardo, splendido
panegirico ed inno da recitarsi ad alta voce, non preghiera che
salga dall'intimità e umiltà del cuore. La
Vergine-Madre dell'A, è ben diversa da quella delle devote,
affettuose, ingenue leggende medievali e delle laude del tempo:
essenzialmente è il "termine fisso d'eterno consiglio", la
provvidenziale tutrice dell'umanità, la regina della gloria,
la regina dell'Empireo; e dove il poeta narra episodi della sua
vita, ricalcando, talvolta alla lettera, i Vangeli, ne sciupa la
semplicità. Non c'è in tutto il poema che un verso e
mezzo che esprima la sua devozione di Maria con ingenuo, umile,
pieno abbandono sentimentale: "il nome del bel fior ch'io sempre
invoco e mane e sera" (Par.XXIII, vv. 88-89). Per il resto, in tutta
la sua opera non invoca mai l'aiuto del Cielo, come fanno i comuni
mortali nei frangenti della loro vita, né cerca nella fede,
non diciamo la santa accettazione delle sue personali disgrazie, ma
neppure il conforto della rassegnazione. All'ingiusta sorte sua non
si rassegnò mai; conforto cercò nella coscienza della
sua rettitudine (e, mettiamo pure nell'orgoglio e nella vendetta), e
soprattutto nella poesia; aiuto solo nel suo ingegno; e
invocò il Cielo solo perché mettesse riparo al male e
alla rovina di tutta l'umanità. Questo carattere
eminentemente intellettuale e teologico, e scarsamente sentimentale,
della sua religiosità impedì all'A. di comprendere e
sentire il contenuto e valore umano e sociale dei Vangeli e del
cristianesimo. Cristo fu per lui il redentore teologico
dell'umanità dal peccato di Adamo, del quale egli, come s.
Agostino, sentì fortissimamente la gravità umanamente
irreparabile; ma del suo verbo, che rinnovava i fondamenti della
società, solo l'esaltazione della povertà trovò
un'eco viva in lui, e soprattutto in funzione polemica contro gli
ecclesiastici. D'altra parte, appunto per questo carattere la sua
fede fu così alta, ferma e pura, immune da qualunque forma
più o meno larvata di superstizione, debolezza, piccineria,
da tutte le ambiguità e insidie così spesso latenti
nella fede, non soltanto del volgo. E appunto perché tale fu
la sua fede, l'A., benché così profondamente
ossequente alla Chiesa cattolica, in quanto istituzione divina, da
sentire "la reverenza delle somme chiavi" perfino di fronte a un
papa dannato nell'Inferno, fu tanto libero dal formalismo
dell'ossequio, da distinguere l'autorità divina della Chiesa
dall'esercizio fattone dai papi, la provvidenza divina dalla
sentenza ecclesiastica. E pertanto, non solo non risparmiò
nella sua condanna ecclesiastici e papi colpevoli, ma anche, con
larghezza di vedute in una questione teologica delicata e non ben
definita, concepì come possibile la salvazione di pagani
quali Catone uticense e Rifeo troiano, ammise una particolare
benignità di Dio verso gli spiriti magni pagani e infedeli,
creando per essi una sorta di Elisio, che gli sarà
rimproverato da s. Antonino come contrario alla fede cattolica
(Summa,III, tit. XXI, cap. V, 2), e infine, con audacia maggiore,
non esitò, contro la condanna ecclesiastica, a salvare
Manfredi scomunicato, e a dannare, invece, Guido da Montefeltro
assolto dal papa. Diciamo, però, subito che questo suo
appellarsi direttamente a Dio, scavalcando opinioni e decreti della
Chiesa, non autorizza a far di lui un eretico occulto. Se è
innegabile che nel pensiero e nel sentimento dell'A. fossero gli
stessi fermenti profondi donde allora traevano origine i vari moti
religiosi, in parte assorbiti, in parte combattuti come ereticali
dalla Chiesa, e ch'erano destinati a esplodere più tardi in
una grande rivoluzione, tuttavia quella sua relativa libertà
di atteggiamenti in materia religiosa, anche prescindendo dalla
considerazione che il dogma cattolico non era allora così
rigido e definito come dopo il concilio di Trento, non infirma la
sua incrollabile cattolicità, fondata sulla ferma fede
dell'istituzione divina della Chiesa, della santità e
indispensabilità del suo insegnamento, dell'obbligo del
credente di attenersi ad esso. L'A. ammetteva e non aveva paura di
condannare errori e cattivo uso dell'autorità della Chiesa da
parte dei suoi ministri, ma non mise mai in dubbio l'autorità
trascendentale dell'istituzione stessa, la validità della
tradizione da essa accolta e confermata, della dottrina da essa
professata; e gli errori materiali e la decadenza della Chiesa del
suo tempo combattè col coraggio e l'ardore di un apostolo,
appunto perché essa non tradisse la sua missione divina di
guida spirituale dell'umanità, il suo Sposo, Cristo. Egli
aveva, sì, la tempra dei riformatori religiosi, e negli
ultimi anni, assistendo all'obbrobrio in cui era caduta la Chiesa e
angosciato dal danno che ne veniva all'umanità, se ne assunse
anche la veste; ma da paladino della Chiesa come s. Francesco e s.
Domenico, non da eversore come Lutero. L'A. non ebbe la
mentalità di un ribelle, ma di un battagliero restauratore e
conservatore di istituzioni idealmente concepite, di cui credeva
ancora viva, anzi eterna, la funzione storica. Questo è
l'atteggiamento nuovo dell'A, nella Commedia,che non ha riscontro
nelle altre sue opere, se non, come si è visto, nell'epistola
ai cardinali, contemporanea alla composizione del poema.
Giacché la Commedia non è solo espressione della
speranza dell'A. nella restaurazione dell'Impero - come, per un
errato preconcetto, troppo spesso è stata interpretata -, ma
anche, e non meno, della sua speranza nella restaurazione della
Chiesa. Per l'A. l'una e l'altra guida - sostanzialmente, se non
formalmente - mancava all'umanità; e perciò, dell'una
e dell'altra, entrambe inviate da "l'alta providenza",egli sperava,
profetava l'avvento: di un "cinquecento diece e cinque"
(Purg.XXXIII, vv. 37-45),erede dell'aquila imperiale, per la
restaurazione politica, del "Veltro" (Inf.I, vv. 94-111), cacciatore
della lupa infernale, nutrito solo delle virtù che sono
attributo della Trinità, per la rigenerazione spirituale
dell'umanità, che è ufficio della Chiesa, il che
importava una restaurazione della Chiesa stessa. Sebbene la profezia
del Veltro, dettata dall'A. all'inizio del poema, quando
naturalmente non poco di esso doveva essere ancora definito, sia
assai oscura, a differenza di quella chiarissima del "cinquecento
diece e cinque", tuttavia riteniamo che non sia possibile fare, come
generalmente è stato fatto, di queste due profezie una sola,
e dei due personaggi, così distintamente profetati, una sola
persona, e precisamente il restauratore dell'Impero: è
un'evidente assurdità, derivata dal preconcetto
d'interpretazione politica, cui abbiamo accennato. Si dimentica che
la profezia di un prossimo rigeneratore della Chiesa è
esplicita nelle parole di s. Pietro (Par.XXVII, vv. 61-63): e in
questa previsione l'A. concordava col "calavrese abate Giovacchino"
(F. Tocco, L'eresia nel medio evo,Firenze 1884, p. 404), chiunque,
poi, dovesse essere colui per opera del quale questa rigenerazione
sarebbe avvenuta. Aggiungiamo che lo spettacolo della decadenza di
tutta la Chiesa, a cominciare dai suoi capi e compresi gli Ordini
monastici, desta nel poeta della Commedia assai maggiore sdegno e
dolore che non la carenza dell'autorità imperiale;
indubbiamente egli considerava maggiore il danno che dalla mancanza
della guida spirituale derivava all'umanità. Causa della
decadenza - lo si è già visto nell'epistola ai
cardinali - la cupidigia delle ricchezze: nel poema, l'A. non solo
ribadisce continuamente questo concetto, ma risale a quella che,
secondo lui, esattamente come secondo i catari e i valdesi (F.
Tocco, L'eresia...,pp. 84, 140 s.), era stata l'origine prima della
rovina della madre Chiesa: la donazione di Costantino, ch'egli non
metteva in dubbio, pur giudicandola, in quanto Costantino non aveva
facoltà di alienare parte dell'Impero, contraria al diritto,
e, in quanto accettata dalla Chiesa, contraria al precetto di Cristo
che aveva vietato ai suoi discepoli (Matteo X, 9) di possedere beni
temporali. Questo concetto, già in embrione in Monarchia II,
xii, 8 e III, x 14-17, è martellato in tutte e tre le
cantiche (Inf.XIX, vv. 115-117; Purg.XXXII, vv. 124-147; Par.XX, vv.
55-6o). A questa causa prima del traviamento della Chiesa e del
mondo l'A. nella Commedia aggiunge l'aggravante che, durante la
vacanza dell'Impero, ch'egli calcolava dalla morte di Federico II
all'elezione di Arrigo VII, la Chiesa si era arrogata le funzioni
della potestà laica, senza aver la forza per esercitarle, e
trascurando necessariamente la propria missione. Storicamente il
pensiero dell'A. era senza fondamento; e neppure era ben definito in
sé stesso. Egli vagheggiava un'epoca in cui Roma, secondo
lui, aveva fatto buono il mondo, perché aveva i "due soli...
che l'una e l'altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo"
(Purg.XVI, vv. 106-108); ma quest'epoca, che naturalmente non
può essere anteriore alla conversione di Costantino, a rigore
non potrebbe essere neanche troppo posteriore, se la fatale
donazione di Roma al papa era stata l'inizio della corruzione della
Chiesa. Probabilmente l'A. pensava a un periodo più o meno
lungo di tempo dopo la donazione di Costantino, in cui la Chiesa non
fosse stata ancora tutta presa dall'avidità delle ricchezze:
vago idoleggiamento di un passato di cui egli e il suo tempo non
avevano che scarsissime e inesatte cognizioni. In compenso, ancora
una volta dobbiamo notare che, nonostante le inesattezze nella sfera
speculativa, il pensiero dell'A., nella Commedia,sul rimedio pratico
ai mali della Chiesa è ben chiaro e preciso, e rappresenta,
rispetto al pensiero espresso nella Monarchia,una più
esplicita e netta presa di posizione. Non solo, come nel trattato
politico, l'A. ribadisce nel poema la necessità della netta
separazione dei due sommi poteri e la piena indipendenza e
sovranità del potere temporale nel proprio campo, ma combatte
anche - apertamente e coraggiosamente - qualunque dominio temporale
da parte della Chiesa, dimostrando che il possesso e la cura dei
beni materiali la corrompono, e il "malo esemplo" che èdato
per ciò da essa è funesto per tutta l'umanità:
il che, pur essendo implicito, era prudentemente sorvolato nella
Monarchia,date le circostanze e la finalità dell'opera.
Nessuno prima dell'A, aveva assunto una posizione così netta
e ragionata contro il dominio e potere temporale della Chiesa, senza
giungere a proposizioni eretiche, o comunque ad atteggiamenti di
ribellione all'autorità soprannaturale di cui l'A.
riconosceva investita la cattedra romana, e alla gerarchia
ecclesiastica.
Anche il suo atteggiamento di fronte al mondo classico risulta nella
Commedia interamente illuminato, sicché è possibile
stabilirne più chiaramente i rapporti sia con l'atteggiamento
medievale, sia con quello degli umanisti e dell'età moderna.
Si è già accennato al culto (si ricordi "'l lungo
studio e 'l grande amore", ecc., Inf.I, vv. 83 s.) dell'A. per la
poesia virgiliana fin dai primi suoi studi, all'esaltazione della
storia di Roma antica e dei grandi Romani antichi nel Convivio e
nella Monarchia,alla felice imitazione del modello latino nelle sue
due egloghe. La Commedia dà in pieno la misura del suo lungo
e amoroso studio dell'antichità classica, e del sostanziale
nutrimento che ne trasse il suo intelletto, la sua coscienza, la sua
arte. Quel mondo - nei limiti della conoscenza che se ne aveva ai
suoi tempi (basti pensare che quasi certamente l'A. ignorava le
Georgiche del suo Virgilio) - è presente, come linfa vitale,
per tutto il poema, dal primo canto, in cui appare Virgilio,
all'ultimo, in cui, a illustrare la sua visione di Dio, il poeta non
crede indegni i ricordi pagani della Sibilla virgiliana e del mito
degli Argonauti. L'idea stessa del viaggio oltremondano, anche se
inseparabile dalla tradizione medievale di analoghi viaggi e
visioni, ha un'unica fonte certamente diretta nel VI libro
dell'Eneide.Interi episodi, innumerevoli notizie, personaggi -
storici, leggendari, mitici -, situazioni poetiche, similitudini,
concetti, vocaboli, forme stilistiche, derivano dal mondo classico e
propriamente dalla letteratura latina, giacché quella greca,
fuorché - in parte - per i filosofi tradotti in latino, era
ignorata. "Certo - mi sia consentito ripetere quel che ho detto
altrove - anche nella Commedia l'antichità pagana è
filtrata attraverso il medio evo, e liberamente messa dal poeta a
servigio dell'architettura del suo poema cristiano. Minosse conserva
nell'Inferno dantesco la sua funzione di giudice; ma qui un ringhio
crudele deforma il solenne quaesitor virgiliano, e la coda
appiccatagli dal poeta, mediante la quale sentenzia, 'ne completa la
degradazione nel senso della demonologia popolare del medioevo
cristiano' (Pagliaro, Il canto V dell'Inferno,Roma 1952).
Così, divinità e mostri della mitologia pagana,
trasformati in demoni, trovarono largo impiego nella funzione di
guardiani e tormentatori dei dannati (Caronte, Cerbero, Pluto,
Flegiàs, il Minotauro, i Centauri, le Arpie), o diventarono
figure simboliche di categorie di peccati (le Furie, Medusa,
Gerione). I quattro fiumi dell'Inferno dantesco sono gli stessi
della mitologia pagana; ma derivano dalle lagrime della statua
allegorica del Veglio, che Dante tolse da Daniele: statua, che poi
egli collocò nell'isola di Creta, dove era stata la prima
età dell'oro, fondendo così la Bibbia con la leggenda
di Saturno. L'imperatore Traiano è celebrato due volte nel
poema (Purg.Xe Par.XX) per la sua giustizia; ma tutte e due le volte
non in riferimento a fatti storici, bensì a una diffusa
leggenda medievale, quella della vedovella cui rese giustizia in
circostanze eccezionali; e Dante non solo accolse la leggenda della
sua salvazione, ma ne trasse ispirazione per crearne, per conto suo,
un'altra affine, cioè la salvazione del pagano Rifeo,
personaggio creato da Virgilio, che lo aveva chiamato `iustissimus
unus qui fuit in Teucris et amantissimus aequi'. La salvazione di
Stazio ha attinenze con l'interpretazione medievale della IV egloga
di Virgilio, e vuol essere un reverente omaggio di Dante al dolce
maestro quale inconsapevole profeta di Cristo... Virgilio stesso
appare senza dubbio anch'egli in parte trasfigurato dalla tradizione
medievale: è mosso da Beatrice per la sua parola ornata e
perché egli sa quel ch'è mestieri al campare di Dante:
cioè, per la sua eloquenza e la sua saggezza, doti che
dimostrerà pienamente in tutto il viaggio. E, come tale,
incarna, come si è detto, il simbolo della ragione umana, la
quale, presa per guida, conduce l'uomo, mediante gl'insegnamenti
filosofici, alla perfezione nell'ordine morale, e quindi alla
beatitudine terrestre".Questa contaminazione di pagano e cristiano,
di classico e medievale, è continua nella Commedia,né
sempre con felici risultati: Virgilio talvolta discetta come un
teologo cristiano; il messo celeste, in Inf.XI, rampogna i diavoli,
adducendo l'autorità di un mito pagano; Cristo è
invocato "sommo Giove che fosti in terra per noi crocifisso",e
così via. Per questo riguardo l'A. resta ancora nello spirito
e nei modi del Medioevo, che fu, rispetto al mondo pagano, tanto
disinvolto e prepotente deformatore di esso, quanto privo di senso
critico nell'accoglierne la tradizione. E gli umanisti non avranno
tutti i torti ad arricciare il naso. Ma questo aspetto medievale
dell'atteggiamento dell'A. verso la classicità è di
gran lunga soverchiato dalla sua profonda aderenza agli ideali umani
del mondo classico, rispondente alle fortissime esigenze laiche del
suo spirito, e dalla reverente, costante ammirazione di quel mondo,
non solo come esemplare nelle virtù civili, ma anche come
fonte di dottrina e di poesia. E pertanto la medievale concezione
della salvazione di Stazio dà luogo a una nuova esaltazione
della poesia virgiliana, nutrice di mille poeti, tra cui è
l'A. stesso, e perfino al riconoscimento, potremmo dire, critico
della stretta dipendenza di Stazio da Virgilio. E così
Virgilio, se nella struttura del racconto ha la funzione medievale
di guida di un viaggio concepito secondo il gusto del tempo,
più intimamente incarna un ideale perenne di saggezza e di
perfezione umana, vagheggiato dall'A. sulle pagine del mantovano
stesso e degli altri antichi autori. Così, Catone uticense,
non meno che come medievale custode e simbolo del regno in cui si
compie la liberazione dello spirito mediante il sacrifizio materiale
del corpo fittizio, vive poeticamente nell'ammirazione del poeta
verso l'eroe cui fu si cara la libertà - la civile
libertà, per cui l'uomo è cittadino e non servo -, da
preferire di morir con essa, anziché vivere senza. Anch'egli
incarna un alto e perenne ideale umano che il poeta cristiano vedeva
risplendere nel mondo antico; e, contro la normale dottrina della
Chiesa, ne santificò il suicidio. E occorre appena, dopo
ciò che ne abbiamo detto ad altro proposito, riparlare del
luminoso castello nel Limbo: se qualcosa di medievale può
avvertirsi nel simbolismo - frequente nella letteratura
didattico-romanzesca francese e italiana delle origini - di analoghi
recinti, creati come dimora di qualche personaggio allegorico, esso
è compensato e superato non tanto dall'ardimento della
concezione teologicamente eterodossa, quanto dall'atteggiamento di
ammirazione e venerazione di tutta l'anima dell'A., senza alcuna
riserva, verso quei grandi che nobilitarono, col sapere o con
l'azione, l'umanità. Quei grandi appartengono quasi tutti al
mondo classico: ancora una volta, in quel mondo l'A. trovava i
maggiori rappresentanti dell'ideale nobiltà umana; e la
rassegna di quei grandi può ben dirsi un vasto e solenne
affresco umanistico, anche se soltanto abbozzato, e talora con mano
un po' pesante. L'affresco attenderà i colori di Raffaello,
in una stanza del Vaticano, per tramandare più compiutamente
e splendidamente l'immagine della città ideale della sapienza
antica; ma spetta alla fantasia e al sentimento dell'A. averla
vagheggiata due secoli prima, per affermare e celebrare, superando
le angustie dello spirito medievale, i valori imperituri della
scienza, dell'arte, della virtù, al di sopra di ogni
professione di fede. E ancora nel mondo classico, sebbene non
direttamente dai poemi omerici, che non conobbe, egli trovò
il personaggio che sentì più simile a sé
stesso, e in cui come in nessun altro proiettò il lato eroico
fondamentale della sua stessa coscienza, facendone il più
alto rappresentante dell'anelito umano alla nobiltà
nell'azione e alla conquista della verità. Non occorre
ripetere che il suo viaggio oltremondano muove dalle stesse esigenze
e dallo stesso ardore di Ulisse. Diciamo piuttosto che la concezione
dell'eroe che, ormai vecchio e tardo e logorato da una lunga
esperienza di lotte e di dolori, rinunzia alle gioie tranquille del
focolare domestico, per "seguir virtute e conoscenza" fino alla
morte, supera non solo lo spirito del Medioevo, ma si accampa tra le
espressioni più significative dello spirito moderno. E sotto
un certo aspetto l'A. supera anche le pregiudiziali dell'uomo del
Rinascimento. Giacché l'uomo del Rinascimento accolse
mirabilmente dal mondo classico sia la lezione di bellezza formale,
sia la celebrazione della vita terrena per sé stessa, sia
l'esaltazione del valore dell'individuo come artefice del suo
destino, traendone modelli d'arte e di vita; ma non accolse
ugualmente (s'intende che queste linee non possono tener conto se
non dei caratteri generali) la lezione di larga, profonda
umanità, di serietà civile e morale, di sostanziale
religiosità del senso della vita. È innegabile che
generalmente, nel Quattro e Cinquecento, il culto della bella forma,
risolto nel canone dell'imitazione classica, sostituì
l'approfondimento della vita interiore, soppresse i contatti con la
realtà viva, determinando una frattura, destinata purtroppo a
perpetuarsi, tra la letteratura e la vita della nazione, e diede
luogo fondamentalmente a un edonismo estetico, che, propagandosi
dalla sfera artistica alla vita pratica, si tradusse in materiale
epicureismo. E, d'altro lato, l'indifferenza religiosa e l'assenza
di freno morale trasformarono l'esaltazione della natura e
volontà umana in esaltazione dell'individuo, praticamente in
calcolo ed egoismo, con sostanziale ripudio di ogni
solidarietà o preoccupazione civile e sociale. Questi i
limiti della splendida avventura vissuta dall'anima italiana nei
secoli XV e XVI, nel vagheggiamento di un ritorno a un passato
grandioso, ma irrepetibile. L'A., nonostante il bagaglio
dell'eredità medievale cui si è accennato, non ebbe
tali limiti spirituali: accolse dal mondo classico l'una e l'altra
lezione; ebbe il culto del bello stile, materiato, però, di
profonda sostanza umana e di vivi interessi sociali; imitò
Virgilio, Ovidio, Lucano, gareggiando talora apertamente con essi,
ma senza fare della loro imitazione un canone esclusivo e una
servitù, imprimendo liberamente, anche nell'imitazione, il
sigillo della sua personalità artistica, formatasi anche
attraverso lo stil novo, i provenzali, e quella grandissima opera di
poesia che è la Bibbia; celebrò la vita attiva in
tutte le sue operazioni, l'eccellenza della natura umana,
l'onnipotenza della volontà, ma sempre mirando al bene come
missione individuale e sociale, e alla virtù come mezzo per
attuarlo, sempre anteponendo la patria e l'umanità
all'individuo, la retta volontà all'istinto, l'onesto
all'utile, il dovere al piacere, sempre, insomma, facendo della
legge morale, che sola rende l'uomo veramente umano, la regola della
vita; e in questo bisogna riconoscere che l'adesione dell'A. alla
lezione di umanità degli antichi era ben più profonda
di quella dell'uomo del Rinascimento.
Ancora alla tradizione e lezione degli antichi poeti si allaccia la
maggiore novità della Commedia,il ritorno, dopo più di
dieci secoli, per la prima volta, all'osservazione e
rappresentazione diretta e disimpegnata dell'uomo e della
società, nelle sue più svariate forme, a scopo d'arte.
Non che nel Medioevo l'indagine della personalità e della
vita umana fosse ignorata; ma essa o era astratta e generica, come
negli scritti a fine religioso e morale, o tra rudimentale e
artificiosa, come nei racconti, in prosa o in verso, di qualunque
genere, quando non era addirittura sacrificata nella veste
dell'allegoria. L'A. dall'osservazione diretta della società
e dalla profonda e immediata penetrazione del cuore umano trasse
sulla scena della Commedia un'immensa varietà di aspetti
della vita reale e di personaggi di ogni ceto ed indole,
individuando concretamente gli uni e gli altri nei loro segni
caratteristici, e rappresentandoli quali gli apparivano per
sé stessi, non facendone tipi o astrazioni, non subordinando
l'autonomia della loro vita artistica al fine di edificazione o di
polemica morale, religiosa, politica, che il poema pure si propose.
Il De Sanctis vedeva le grandi figure dantesche, "sul loro
piedistallo rigide ed epiche come statue", attendere "l'artista che
le prenda per mano e le getti nel tumulto della vita e le faccia
esseri drammatici"; e questo artista trovava in Shakespeare. Certo,
data la natura del poema, che è racconto di cose viste e
udite durante un rapido viaggio, i precedenti e i particolari delle
azioni rappresentate e il processo degli stati d'animo dei
personaggi in azione sono appena accennati, quanto basta per creare
l'atmosfera; e il dramma si riduce a pochissime scene o anche a una
sola, la scena madre. Ma in quelle pochissime, in quell'unica scena,
l'A. ha saputo miracolosamente condensare tutto un dramma; e i
protagonisti non sono affatto irrigiditi in un atteggiamento
statuario, ma sono articolati quanto occorre allo svolgimento del
dramma, nella mobilità dei loro sentimenti e nella dialettica
dell'azione, dall'inizio all'epilogo. Basti ricordare Paolo e
Francesca nella lettura del fatale libro, Ulisse nella sua ultima
impresa, Bonifazio a colloquio col Montefeltrano, Ugolino e i figli
nella torre della fame. Sono così vivi e in atto, cioè
"esseri drammatici ", nella fantasia creatrice del poeta, i suoi
personaggi, che la loro personalità di solito continua ad
attuarsi sulla scena oltremondana, a complemento di quella terrena:
il che arricchisce di motivi umani e di movimento scenico la loro
rappresentazione. Qualche volta il personaggio si muove solo su una
delle due scene; e non è minore - poeticamente - la sua
realtà umana, se si muove solo sulla scena oltremondana,
giacché questa ha gli stessi caratteri di verità della
scena mondana. Di quel ch'era stato Belacqua nella vita terrena, per
esempio, l'A. ci dà appena una notizia indiretta: ci fa
sapere che il suo "modo usato" era la pigrizia; ma la
rappresentazione che fa di lui nell'altra vita (quel suo stare
accoccolato all'ombra dietro uno scoglio reggendosi le ginocchia; il
suo interloquire per canzonare la smania di solerzia di Virgilio, la
smania di scienza dell'A.) è rappresentazione di un
personaggio vivo e di una scena di vita terrena trasferita sul
palcoscenico del Purgatorio. Sulla scena obbligata e, in certo modo,
immobile dell'oltretomba, un'azione drammatica si sviluppa sempre, e
nei modi più vari - almeno, e, certo, più viva, nelle
due prime cantiche - dalle reazioni dei personaggi nell'incontro con
l'A.: e ciascuno si svela nell'intimità della sua anima,
nelle peculiarità del suo carattere, nella concretezza della
sua vita vissuta, sicché, nell'identità della
situazione esterna, ciascuno attua la sua distinta
personalità, col suo carico di passioni e di esperienza
personale, come avrebbe fatto, in analoghe circostanze, sulla scena
reale della vita terrena. Per rendersi conto dell'abisso che, nella
rappresentazione viva della realtà umana, separa il poema
dell'A. dalla letteratura medievale, si faccia il confronto non dico
con le precedenti analoghe descrizioni dell'oltretomba - scritti
rozzi e primitivi, dalla Visio Pauli a quelle di Alberico di
Montecassino iunior, di Tundalo, dell'abate Gioacchino, dalla
Navigatio sancti Brandani al Purgatorio di S. Patrizio, dai due
poemetti di Giacomino da Verona al Libro delle tre scritture di
Bonvesin da Riva, per citare solo i più noti -, ma con la
stessa più o meno colta e raffinata letteratura sia
didattico-allegorica, sia epico-romanzesca, dal Roman de la rose
alla Chanson de Roland,dall'Intelligenza al romanzo di Tristano o di
Lancillotto,e così via. Nessuna opera medievale si può
neppur lontanamente paragonare, per la ricchezza, varietà,
immediatezza della rappresentazione artistica della realtà
umana, con la Commedia:sotto questo aspetto, l'appellativo di
"commedia umana",prima che al Decamerone,cui è stato dato,
spetta già di diritto al poema di Dante. La piena e assoluta
libertà con cui si muove il personaggio umano (primo tra
tutti, l'A. stesso) ed è atteggiata la vita reale nella
Commedia non consente che si possa parlare, nel modo come si
è fatto, di poema allegorico: l'allegoria, infatti,
necessariamente limita e condiziona ai concetti che si vogliono
adombrare la libertà della concezione e rappresentazione
artistica. Anzitutto, non è affatto allegorico il viaggio
oltremondano: è soltanto un "viaggio fantastico", che l'A.
immagina di aver realmente compiuto in carne ed ossa e in pieni
sentimenti, attraverso luoghi tradizionalmente e comunemente
favoleggiati e da lui creduti - come sembra - fisicamente esistenti,
comunque, poi, la sua fantasia e la sua scienza abbiano insieme
collaborato a configurarli: un viaggio come tanti altri suggeriti
alla fantasia di altri romanzieri per terre più o meno
sconosciute o del tutto immaginarie. E non èaffatto un
personaggio allegorico, né è in alcun modo
condizionato a un determinato concetto allegorico il viandante che
compie quel viaggio: egli è sempre e soltanto il fiorentino
Dante Alighieri, poeta ed erudito, uomo pubblico cacciato in esilio,
col suo carico effettivo e assolutamente personale di esperienza di
vita e di pensiero, di dolori, passioni, speranze, ideologie,
difetti e virtù. E non sono affatto allegorici gli amici e
nemici, le persone, in genere, ch'egli incontra nel suo viaggio,
né i fatti e le persone di cui discorrono lui e i suoi
interlocutori. Insomma, né la concezione fondamentale del
racconto, né la massima parte della materia del poema sono
allegoria. Che, poi, in quel viaggio e in quei luoghi così
oggettivamente visti e descritti, in quel viandante così
storicamente individuato possa scoprirsi un significato generale, e
di tutto ciò possa darsi (e l'A. stesso certamente pensava e
voleva che si desse) anche un'interpretazione astratta, diciamo pure
un'interpretazione allegorica, è cosa su cui non può
cadere discussione. Ad ogni fatto e figura - non solo creati dalla
fantasia, ma anche reali, come, per fare un esempio ben noto, il
fatto storico dell'uscita degli Ebrei dall'Egitto - si può
dare un 'interpretazione allegorica: procedimento non ignoto al
mondo pagano, ma caratteristico e consueto del Medioevo cristiano,
imposto dalla necessità di comporre le discordanze e
giustificare tanti episodi sconcertanti delle Sacre Scritture, ed
esteso alla moralizzazione dei classici. Così, il viandante e
il suo viaggio oltremondano possono raffigurare l'uomo, che, caduto
nel peccato, ne contempla la bruttura, e, con l'aiuto della ragione
e della Fede, si ravvede, si redime, fino a farsi man mano degno del
Cielo. È questo il significato generale che si può
dedurre facilmente dalla lettera del poema (un concetto molto
elementare, che non richiede nessuno sforzo di ermeneutica), "il
sugo di tutta la storia" potremmo dire col Manzoni, il quale,
deducendo dalle vicende dei suoi promessi sposi appunto
un'interpretazione generale, un concetto sui rapporti tra la divina
provvidenza e le vicende umane, diede, del suo romanzo,
un'interpretazione che ben può dirsi allegorica. Ma altro
è interpretazione allegorica, altro concezione allegorica: la
prima è come un'etichetta che si attacca a posteriori
dall'esterno all'opera compiuta in sé e vivente di vita
propria; e può essere diversa a seconda dei diversi
interpreti; la seconda è intrinseca all'opera stessa, la
determina e configura a priori,in modo che adombri un concetto
stabilito, e la spiega e giustifica, poi, nella sua essenza
fondamentale e nei particolari, e non è suscettibile di
diversità d'interpretazioni, se non in quanto sia riuscita
difettosa o oscura la rispondenza tra i concetti adombrati e la
realizzazione concreta. L'A. concepì il suo viaggio come
Virgilio la discesa di Enea all'Averno, come il Manzoni le
peregrinazioni dei suoi promessi,cioè come una realtà
fantastica vivente in sé e per sé stessa, non
già come un'astrazione che la fantasia dovesse ingegnarsi a
rivestire di forme concrete; che è, invece, il procedimento
proprio delle opere concepite allegoricamente, quali il Roman de la
rose e l'Intelligenza citati più su. E qui crediamo opportuno
aggiungere che la mente dell'A, non dimostra una disposizione
particolarmente felice per l'allegoria. Le parti della Commedia
concepite allegoricamente, anche se la loro importanza concettuale
è grande, sono tra le più pesanti del poema, le
più povere di poesia, artisticamente inferiori, per esempio,
generalmente, a tante parti delle due opere allegoriche ora
ricordate. Si vedano i due primi pesanti canti iniziali
dell'Inferno, in cui è l'impostazione allegorica delle
ragioni del viaggio oltremondano; e si noti che, se il secondo
canto, in parte, si salva poeticamente, ciò avviene
perché, a un certo punto, al calcolo della concezione
allegorica subentra il calore immediato dell'ispirazione
sentimentale, che trasforma la rigida Beatrice allegorica - quella
che se ne sta tranquillamente seduta con l'antica Rachele senza
accorgersi del pericolo mortale del suo amato, perché non
deve muoversi se non dietro le sollecitazioni di Lucia - nella
giovane donna della Vita nova,luminosa di bellezza e
gioventù, ora tutta trepidante d'amore e di paura fino alle
lagrime, la qual cosa spezza l'allegoria, e non sembra conveniente
alla condizione di Beatrice e al simbolo che incarna. E si vedano
anche i faticosissimi e oscuri ultimi canti del Purgatorio
(processione mistica e trasformazioni del carro della Chiesa), in
cui l'A. ambì sintetizzare la storia dell'umanità e
quella della Chiesa, dalla creazione di Adamo ai suoi giorni, per
trarne motivo di affermare la sua fede in una prossima rigenerazione
del mondo. E anche qui si noti come, a un certo punto, specialmente
nel canto XXX, una parentesi di poesia, che scaturisce dalla stessa
ispirazione sentimentale che abbiamo visto riscattare in parte il
canto XI dell'Inferno,spezzi parimenti - e qui con più grave
disorientamento concettuale - la concezione allegorica. La donna che
ricorda i suoi occhi giovanetti, la sua carne, le belle membra in
cui era stata rinchiusa, e che ora sono in terra sparte, l'amore di
cui, al tempo della sua dimora in terra, era stata oggetto da parte
dell'A. - si noti bene - fin dalla puerizia, e poi la sua precoce
dipartita, e l'abbandono e il tradimento da parte di lui, proprio
quando ella era diventata puro spirito, "spirital bellezza grande",
come il poeta aveva già detto nella Vita nova,questa donna si
identifica perfettamente con la giovane fiorentina dell'amoroso
libello, ma non può identificarsi con la donna allegorica
apparsa quasi auriga sul carro della Chiesa, la quale non può
ammettere in sé né determinazioni ed evoluzioni
temporali, né distinzioni tra parti caduche e parti
immortali, tra terra e cielo, ma è solo e sempre l'aspetto
eterno e immutabile, reso accessibile agli uomini, della divina
sapienza. Tutti gli acrobatismi degli allegoristi di tutti i tempi
non hanno potuto eliminare l'incongruenza concettuale. Queste sono
le maggiori - e per estensione e per importanza di significato -
allegorie della Commedia.Altri particolari allegorici sono qua e
là nelle prime due cantiche; nel Paradiso l'allegoria
è assente: il rozzo dettaglio allegorico delle nozze di s.
Francesco con la Povertà non appartiene alla struttura del
poema, né è invenzione dantesca, ma è tolto
dalla letteratura francescana. Certo all'allegorismo lo portavano le
sue teorie poetiche, ch'erano quelle del tempo: anch'egli riteneva
la poesia una fictio rhetorica,una bella forma in cui si esprimesse
una particella della sapienza; e alla sapienza, come scopo,
teoricamente mirava poetando. Ma contro le teorie e il gusto
tradizionali c'erano il suo istinto di grande poeta e il suo lungo
studio e grande amore dei poeti classici. Al procedimento allegorico
ricorse, quando lo credette opportuno, ma in misura assai limitata e
in maniera più o meno maldestra. Altre erano le
qualità del suo temperamento artistico: esso era alimentato
da passioni impetuose e da un pensiero vivo e fremente, che mal si
adattavano ad esser compressi dal calcolo freddo e paziente che quel
procedimento richiede, inserendosi tra l'urgenza del sentimento e la
sua espressione. Discorso non molto diverso deve farsi riguardo ai
simboli nella Commedia.Tra allegoria e simbolo la parentela è
strettissima, e le interferenze normali. Simboli entrano di solito
nelle concezioni allegoriche, ed elementi allegorici nei simboli;
sicché assai spesso è difficile e discutibile
distinguere in una figurazione la sfera dell'allegoria da quella del
simbolo. Tuttavia esiste tra loro una differenza genetica
fondamentale: l'allegoria è un'astrazione tradotta in forme
concrete ad essa fedelmente rispondenti; il simbolo è una
forma concreta autonoma, vivente di vita propria, da cui scaturisce
un significato astratto. Generalmente, poi, l'allegoria si sviluppa
in un'azione o composizione più o meno ampia, e il simbolo,
invece, è espresso da un'azione breve o anche solo da figure.
La mente el'anima dell'A. erano per natura più atte a
ravvisare in figure e azioni concrete, trasfigurandole per impeto
ideale, valori universali, che non a rivestire cerebralmente di
forme concrete le astrazioni. Basterebbe a dimostrarlo la scelta
delle sue due guide, suggeritagli non da uno sforzo cerebrale, ma da
un impeto sentimentale: due personaggi della vita reale, ciascuno
con la sua personalità storica, scelti per amore e
gratitudine, perché erano stati, nella formazione della sua
vita spirituale, i suoi maggiori, i suoi ideali maestri, l'uno di
poesia e di sapienza, l'altro di elevazione religiosa: Virgilio e
Beatrice. Prima che nella Commedia,egli li aveva già
trasfigurati ed elevati nella sua anima a simboli di quella
perfezione di vita morale e religiosa cui anelava. Di simboli
è pieno il poema, specialmente nelle due prime cantiche,
dalle "tre donne benedette" a Medusa, a Gerione, dagli stessi
custodi demoniaci o angelici dell'Inferno o del Purgatorio a Catone,
a Matelda (chiunque sia la donna così chiamata dall'A.),
dalla Croce del cielo di Marte all'Aquila del cielo di Giove. Spesso
i simboli servono o s'intrecciano a concezioni o elementi
allegorici: così le "tre donne benedette" e Medusa servono a
concezioni allegoriche; funzioni allegoriche hanno Matelda e gli
stessi Virgilio e Beatrice; la luce che si riflette dalle quattro
stelle sul viso di Catone è un elemento allegorico. Ma,
sebbene alcuni di questi simboli vivano in tutto o in parte di
un'intensa vita poetica, non crediamo che le qualità
artistiche maggiori e migliori e più proprie della mente
dell'A. risiedano nella facoltà di scoprire continui rapporti
simbolici e analogici tra il reale e l'idea, come par che credano
critici moderni quali Th. S. Eliot e M. Apollonio. Oseremmo dire
più vive, più interiori, più profonde le
disposizioni simbolistiche nella forma mentis complicata dei moderni
che non in quella dell'Alighieri. Simbolismo e allegorismo, in tutta
l'opera dell'A., sono soprattutto il tributo, generalmente piuttosto
pesante, che il dotto e il poeta pagarono alla tradizione culturale
di tutto il Medioevo cristiano; e costituiscono certo uno degli
elementi che più fortemente legano la Commedia al Medioevo,
alla stessa stregua della materia scientifica, filosofica, teologica
che vi è accolta enciclopedisticamente, secondo l'uso del
tempo. Ma, come si è detto più su, quelle passioni
impetuose, quel pensiero vivo e fremente, sempre perfettamente
definiti e senza ondeggiamenti, non negli ambigui velami della
tradizione allegorico-simbolistica medievale, bensì nella
luminosa chiarezza dell'arte dei classici, del suo Virgilio
anzitutto, trovarono la loro più adeguata forma di
espressione. L'arte dell'A. non ammette altre suggestioni ed
allusioni emblematiche se non quelle che sono intrinseche alla forma
e al contenuto di ogni discorso, specialmente poetico: la sua
caratteristica propria è, invece, la mirabile concretezza
d'intuizione e rappresentazione delle cose, pari - e talvolta anche
maggiore per potenza di rilievo -a quella di Omero e di Virgilio.
Non di "metodo allegorico" (l'espressione è dell'Eliot)
bisognerà parlare a proposito dell'arte dell'A., se non si
vuol fraintendere la vera, la grande poesia dantesca:
fraintendimento molto affine a quello degli antichi interpreti
allegoristi, quali Pietro Alighieri o Cristoforo Landino e gli altri
che si sono ingegnati di scoprire in ogni gesto, in ogni espressione
del poema il significato astratto che, secondo essi, l'A. vi aveva
riposto. Bisognerà, se mai, parlare di "metodo
classico",perché dell'arte classica è l'incisiva
precisione, la luminosa nitidezza con cui l'A. vide e
rappresentò qualunque lato del suo vastissimo mondo, reale o
fantastico, passionale o intellettuale, oggetti, figure, azioni,
sentimenti, pensieri. Il trascolorare di un'immagine in un'altra, lo
sfumare del particolare nell'universale, del concreto nell'astratto
non appartengono alla maggiore poesia della Commedia,e sono, del
resto, in essa, momenti assai rari. L'A. aveva piena coscienza di
aver fatto sua l'arte dei classici, quando parlava di "bello stile"
tolto "solo" da Virgilio, e si collocava sesto tra i grandi poeti
antichi. Quel suo pensiero sempre limpidissimo, gli atteggiamenti
del suo sentimento sempre perfettamente definiti, la sua aderenza
viva e immediata a tutta la realtà del mondo esterno,
specialmente dell'umano, il suo sovrano equilibrio tra il reale e
l'ideale, tra la terra e il cielo, tra l'uomo e Dio, sono le stesse
caratteristiche più eminenti del mondo spirituale
greco-latino; alle quali, sul piano dell'arte, per l'inscindibile
unità di contenuto e forma, non poteva rispondere se non
appunto quella forma espressiva, per se stessa eterna e universale,
che, per l'esemplarità che essa assunse nell'arte
greco-latina, diciamo classica. La precisione e l'equilibrio,
nonché una straordinaria potenza di sintesi, improntano
sempre lo stile di Dante: sicché, anche se non tutto nella
Commedia è poesia, sempre mirabile appare il magistero
stilistico.
Linguisticamente, la Commedia,insieme con le Rime del Petrarca e il
Decamerone del Boccaccio, fece sì che il volgare fiorentino
illustre (giacché questo, e non già il volgare in cui
"et muliercule comunicant", come scrive l'autore dell'epistola a
Cangrande, è la lingua della Commedia)diventasse di fatto la
lingua nazionale italiana, prima ancora che il Bembo nel '5oo gliene
sancisse il diritto. I vocaboli dialettali, non soltanto fiorentini,
e quelli da lui poco felicemente coniati sono pochissimi, una parte
infinitesima del gran corpo della lingua della Commedia,vivente
nella lingua italiana. Con la Commedia egli risolveva praticamente
la questione linguistica affrontata teoricamente, con qualche
incertezza, nel Convivio e nel De vulgari eloquentia,dimostrando sia
la capacità del volgare italico a trattare di qualunque
più eccelso argomento, sia quale esso fosse e come dovesse
essere adoperato: una lingua fondamentalmente frutto di dottrina e
di studio, ma viva, varia, aderente alla varietà degli
argomenti e perciò senza pregiudiziali. Anche sotto questo
aspetto, la Commedia riflette e conchiude tutta l'esperienza
linguistica dell'Alighieri. E ancora una volta si rivela il mirabile
equilibrio e il felicissimo intuito dell'artista, nell'aver adottato
come mezzo di espressione quel dialetto che, purgato delle forme
plebee condannate nel De vulgari eloquentia,egli avvertì come
il più idoneo, per armonia di suoni e di forme, tra tutti i
dialetti della penisola, a diventare l'ideale volgare italico dei
dotti, degli uomini della curia e della reggia, ai quali
specialmente intese rivolgersi con la Commedia.
Per tutto ciò che si è detto, anche se l'A. non fosse
stato il poeta sommo che fu, l'importanza dell'opera sua nella
storia della civiltà umana, e italiana in particolare,
resterebbe grandissima. L'altezza della sua coscienza morale e
religiosa, la chiarezza e l'equilibrio della mente,
l'universalità degl'interessi spirituali, la vastità
del sapere farebbero di lui sempre uno degli uomini più
rappresentativi della più alta civiltà di tutti i
tempi. Per quel che riguarda l'Italia, fu il primo che sentisse con
così profonda coscienza, in tutta la sua pienezza, il valore
della tradizione latina, la continuità ideale di Roma, e,
quindi, l'unità spirituale di una nuova nazione ("Ahi serva
Italia ! ..."). Di questa unità avvertì
sostanzialmente, sia pure in termini destinati ad essere superati, i
problemi, le esigenze, le speranze; di essa si fece interprete e
profeta; ad essa diede il fondamento primo, che è la lingua.
La storia della civiltà italiana senza l'A. sarebbe priva di
uno dei suoi simboli più luminosi e significativi, di una
delle forze più nobilmente operanti nello spirito della
nazione. Ma all'Italia e al mondo egli diede, con la
Commedia,qualche cosa di più: perché tutto ciò
che costituisce la grandezza della sua personalità egli seppe
anche, per miracolo di natura, tradurre in potenza d'immaginazione e
fantasia creatrice, cioè in espressione poetica. Ciò
che, infatti, distingue la personalità poetica dell'A. da
quella dei pochi altri sommi, ch'ebbero, mettiamo pure, al pari di
lui il dono della creazione artistica, è l'aver dato voce
poetica così schietta e potente appunto a una vastità,
intensità, profondità di motivi umani, quale non si
trova in nessun'altra opera d'arte. Non si esagera dicendo che quasi
tutta l'esperienza del cuore e della mente, l'infinita
varietà delle indoli umane e dei casi della vita, ciò
che la natura presenta e la fantasia si raffigura, siano diventati
oggetto di poesia. Per questo la poesia della Commedia appare
inesauribile: alla sua ispirazione concorsero veramente "e cielo e
terra".