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Dante Alighièri.
Poeta (Firenze,
tra il maggio e il giugno 1265 - Ravenna,
notte dal 13 al 14 settembre 1321). Della madre, che dovette
morire presto, non sappiamo che il nome, Bella; il padre,
Alighiero di Bellincione di Alighiero, morto intorno al 1283,
apparteneva a una famiglia di piccola nobiltà cittadina (il
trisavolo di D., Cacciaguida, fatto cavaliere da Corrado III,
morì nella 2a crociata, 1147), ma
ai suoi tempi decaduta: egli faceva forse il prestatore, o
comunque si occupava di affari. Tuttavia Dante (il nome è
forma accorciata, familiare, diDurante)
condusse da giovane vita da gentiluomo, e come tale militò
nella cavalleria (battaglia di Campaldino,
1289).
Aveva studiato grammatica e
filosofia probabilmente presso i francescani di S. Croce, retorica
forse con Brunetto
Latinie a Bologna, dove in ogni modo si trovava nel 1287
o poco prima. Cominciò a poetare ben presto; ai suoi 18
anni risale, secondo il suo racconto, il primo sonetto databile
che di lui ci rimanga, in onore di Beatrice. Si è ormai
d'accordo nel ritenere storica la personalità di lei, che
è con buon fondamento identificata in Bice di Folco Portinari,
sposata a Simone de' Bardi e morta l'8 giugno 1290.
Da una passeggera
infedeltà alla memoria di lei nasce in D. il proposito di
celebrarla più solennemente di quel che prima non avesse
fatto con le sue rime sparse, raccogliendo appunto tali rime e
collegandole col racconto dell'intera vicenda del suo amore. Nasce
così (circa 1292-93) la Vita nuova (v.), in cui
Beatrice appare come guida a Dio non solo di D. ma di tutti gli
animi gentili. E aristocratica è la lirica di lui, come
aristocraticamente raffinato, per costumi e per ideali
letterarî, fu quel gruppo di giovani poeti, di cui egli fu
cospicua parte, che, ispirandosi a Guido Guinizzelli,
si contrappose da una parte a Guittone, dall'altra ai
verseggiatori di tono popolareggiante, e che D. stesso più
tardi affermò (Purg., XXIV,
49 e segg.) avere instaurato un nuovo modo di poesia, un "dolce
stil novo", onde l'espressione è rimasta a indicare tutto
il gruppo (v. stil novo).
Se le sue infedeltà
a Beatrice siano per una donna (la "donna gentile" della Vita nuova) o per la filosofia (come sembrerebbe
attestare un'esplicita dichiarazione delConvivio),
è tuttora oggetto di discussione; certo è
però che poco dopo il 1290 D. si volge alla filosofia,
della quale in breve s'impadronisce: senza interrompere del tutto
la lirica d'amore, egli riflette questa tendenza in liriche di filosofia morale.
Probabile è anche un periodo di amore sensuale, per donne
ben diverse dalla discussa "donna gentile"; a esso si possono far
risalire le cosiddette rime "petrose" (intorno al 1295 ?) per una
Pietra o per una donna dura come pietra, ma esse testimoniano in
verità intenti di esercitazioni letterarie diverse dalle
consuete, molto più che vicende biograficamente o
psicologicamente determinate.
Sempre a quel periodo potrebbe risalire la tenzone con Forese Donati (D. e il suo amico si rimproverano e rinfacciano in sei sonetti, tre per ciascuno, colpe e difetti d'ogni genere, alcuni assai gravi: ma si tratta anche qui in fondo di un'esercitazione letteraria) e, se sono di D., il Fiore (v.) e il Detto d'Amore (v.). Senza riflesso nell'opera letteraria fu il matrimonio di D. con Gemma di Manetto Donati, cugina di Corso e di Forese, ma di un ramo meno potente della famiglia; matrimonio combinato nel 1277 e attuato forse verso il 1285; dal quale nacquero (a noi noti) Iacopo, Pietro, Antonia (forse poi monaca a Ravenna col nome di suor Beatrice), e forse anche un Giovanni.
Appena una provvisione del
1295 consentì ai nobili, esclusi dal governo dagli
Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293), di
partecipare alla vita pubblica mediante l'iscrizione a un'Arte, D.
s'iscrisse a quella dei medici e speziali, forse come cultore di
studî filosofici, e dal 1295 al 1302 ebbe varî uffici;
tra l'altro, dal maggio al sett. 1296 appartenne al più
importante dei consigli cittadini, quello dei Cento, e,
soprattutto, dal 15 giugno al 15 ag. 1300, fu tra i priori, eletti
proprio col compito di opporsi alle intromissioni nella vita
pubblica di Firenze di papa
Bonifacio VIII che,
col pretesto della vacanza dell'impero, e contando sulle discordie
cittadine, mirava al dominio sulla Toscana.
Notevole nel priorato di D.
fu anche il provvedimento preso, pare per suo consiglio, di
bandire da Firenze - in seguito a un assalto dei Neri ai consoli
delle Arti, e alla reazione dei Bianchi - i capi delle due
fazioni; tra i Bianchi era compreso Guido Cavalcanti,
il "primo" degli amici del poeta, com'egli stesso lo chiamava
nella Vita nuova. Dopo il priorato, D.
continuò ad avere uffici, e documenti ci restano della sua
azione politica, in senso antiangioino e antipapale.
All'avvicinarsi a Firenze
(1301) di Carlo di Valois, il falso "paciaro", D. fu con altri due
mandato ambasciatore a Bonifacio VIII, il quale, rimandati a
Firenze i due, che egli sperava intercedessero a favore della sua
tesi, trattenne presso di sé il più pericoloso,
Dante. Così questi - sopraggiunta la vittoria dei Neri -
probabilmente non tornò più nella sua città:
una prima sentenza (17 gennaio 1302) lo condannò, sotto
l'accusa, tra l'altro, di baratteria, allora comunemente usata
contro gli avversari politici, a una multa, al confino e
all'esclusione dagli uffici; non essendosi presentato, una
successiva sentenza (10 marzo) lo condannò all'esilio
perpetuo, con minaccia di morte se fosse venuto in potere del
comune.
Comincia così
l'esilio di D., avvenimento capitale non soltanto per la sua
biografia pratica; infatti esso, profondamente sofferto da lui,
condizionò nettamente l'ulteriore svolgimento del suo
pensiero e della sua poesia. Dapprima D. lottò insieme coi
Bianchi e con loro sperò di poter rientrare, ma già
prima del luglio 1304, disgustato dalla "compagnia malvagia e
scempia", si appartò, fece un partito di sé stesso.
La "dolorosa povertade" lo costrinse a profittare della
liberalità dei varî principi, confondendosi
così con gente d'ogni risma; divenne, più o meno,
"uomo di corte", dolorosamente crucciato e sdegnoso di tale
condizione. Sperò forse in un primo momento d'esser
richiamato, e a tale scopo provvide sia a discolparsi con lettere
e altri scritti della taccia di ghibellino che gli si apponeva, e
che era nata soprattutto dall'essersi i ghibellini esuli uniti ai
Bianchi banditi, sia a rialzare la sua fama di dotto, producendo
opere dottrinali e di più vasto impegno che non fossero le
rime d'amore.
Al periodo 1304-07 circa
sono così da assegnare il De vulgari eloquentia(v.) e il Convivio (v.);
al 1307 risale forse l'idea della Commedia, sia che imprendesse allora il poema
ex-novo, sia che riprendesse antichi disegni e magari vecchi
abbozzi (v. Divina Commedia). Ora il
pensiero politico di D. prende la sua forma definitiva. Egli si
chiede la ragione dei malanni d'Italia e la vede nelle
discordie; scorge la ragione di queste nella carenza d'un potere
civile unico, cioè dell'impero, essendo gli imperatori
distratti dalle cose di Germania,
e nella parallela usurpazione dei loro poteri da parte della
Chiesa. D., insomma, da guelfo moderato è divenuto quasi un
ghibellino.
Le tappe dell'esilio non ci
sono tutte note: il primo rifugio fu presso gli Scaligeri, nel
1306 era presso i Malaspina; non provata la tradizione che andasse
a Parigi. Disceso nel 1310 Arrigo VII in Italia, le speranze di D.
si riaccendono e per tre anni risplendono. Finalmente l'imperatore
veniva in Italia, ben risoluto a porre fine alle discordie, ad
affermare la sua autorità suprema: rex pacificus. Persino il papa sembrava ben disposto:
il dualismo papato-impero pareva finito. D. scrive un'epistola ai
re, principi e popoli d'Italia: un grido d'esultanza, poi corre a
rendere omaggio all'imperatore che cingeva a Milano (1311) la
corona di ferro. Ma proprio Firenze, la guelfa Firenze, resiste,
anzi è a capo della resistenza italiana: nel marzo il poeta
scrive dal Casentino un'epistola contro gli "scelleratissimi"
Fiorentini; nell'aprile, un'altra epistola allo stesso Arrigo,
perché non indugi nell'Italia del Nord. Egli è
intanto escluso dall'amnistia del 1311 (la cosiddetta riforma di
Baldo d'Aguglione). Quando Arrigo attacca Firenze, il poeta non
prende tuttavia le armi contro la patria, resta nel Casentino,
forse presso il conte di Battifolle. Ma la morte di Arrigo (1313)
tronca ogni speranza: se non subito dopo, certo assai presto D.
torna a Verona,
ospite questa volta di Cangrande.
Forse al momento delle
maggiori opposizioni all'imperatore da parte di Firenze, di
Roberto d'Angiò e di papa
Clemente V, risale l'opera nella quale egli più
direttamente e ordinatamente espone il suo ideale politico, il suo
generoso anche se utopistico sogno d'una monarchia universale: la Monarchia (v.).
Un'altra epistola, religioso-politica, scrisse D. nel 1314 dopo la
morte di Clemente V: è diretta ai cardinali, che vi sono
eloquentemente esortati a soccorrere Roma, priva
dei suoi due soli, il papa e l'imperatore; almeno essi eleggano un
papa italiano, che riporti a Roma la sede pontificia. Un'ultima
lettera, infine, D. scrisse nel 1315, tradizionalmente nota come
diretta "all'amico fiorentino": amici e parenti lo esortavano a
tornare a Firenze, come gli sarebbe stato possibile, profittando
di un ribandimento, purché egli si fosse sottoposto a certe
umilianti formalità: ma D. rifiuta. Dopo la sconfitta di
Montecatini (1315), Firenze tramutò in confino le condanne
capitali dei meno pericolosi degli sbanditi; anche questa volta D.
non accettò: sicché il 6 nov. fu nuovamente
condannato a morte, e questa volta insieme coi figli, che ormai
avevano superato i 14 anni. Non sappiamo con certezza dove D.
passasse gli ultimi anni, durante i quali egli ebbe sicuramente
una certa tranquillità di vita, e che egli spese per
condurre a termine il suo poema.
Almeno dal 1318 è a
Ravenna, di cui era signore Guido Novello da Polenta, nipote di
Francesca: qui egli forse tenne cattedra di poesia e di retorica.
Un viaggio a Verona sarebbe documentato dallaQuaestio de aqua et terra (v.), che D.
avrebbe disputato in quella città nel 1320; ma qualche
studioso ha espresso dei dubbî sulla paternità
dantesca di tale opera.
Negli anni del soggiorno ravennate cade la corrispondenza poetica con Giovanni del Virgilio, che esortava D. a scrivere in latino anziché in volgare e lo invitava a Bologna. D. rispose con due Egloghe, declinando l'invito. Anche sull'autenticità di questi componimenti, che rappresentano il primo tentativo di poesia bucolica, alle soglie dell'umanesimo, si è sollevato qualche dubbio. Nel 1321 D. morì. Fu sepolto in un'arca presso il tempio di San Pier Maggiore, che poi si disse di San Francesco: i Fiorentini richiesero più volte invano le ceneri del loro poeta, e dovettero contentarsi d'un cenotafio. Il sepolcro ravennate, restaurato nel 1483, fu coperto da un tempietto nel sec. 18°; tutta la zona intorno è stata sistemata nel 1936. La famiglia di D., continuata a Verona nei discendenti di Pietro Alighieri, confluì nel sec. 16° in quella dei Serego, che assunsero allora il doppio cognome. ▭ Di tante immagini che riproducono le sue fattezze, la più sicura è l'affresco di Giotto, rappresentante D. giovane; ma esso è oggi tutto ridipinto; ne restano per fortuna due lucidi, tratti prima del restauro. La cosiddetta "maschera Kirkup", ritrovata a Ravenna nel 1830, si crede riproduca la testa di D. quale era effigiata sul suo sepolcro. Non ci rimane alcun autografo.
[...]
Nella storia della
spiritualità italiana [Dante] è stato ed è
sempre operante; l'immagine di D. "padre" non è espressione
retorica e mitica, ma concreta realtà storica. Pertanto
egli è stato ed è sempre operante anche nel corso
della nostra letteratura: ma assai più come un lontano
ispiratore ideale, che come vicino e determinante modello
letterario. Gli imitatori diretti di lui sono, in tutti i secoli,
pochi e di scarso rilievo; anche i maggiori tra essi, e i
più vicini a lui nel tempo, come il Petrarca e il
Boccaccio, non vanno oltre un'imitazione sporadica ed esterna, e
traggono da ben altro che da essa le ragioni della loro grandezza;
a distanza di mezzo millennioVincenzo Monti, che pure
sembrò a molti dei suoi contemporanei un Dante redivivo,
non fu che un fecondo e abile riassuntore di esteriori forme e
schemi danteschi: assai più vicini a D. nello spirito, per
restare ai tempi del Monti, un Alfieri e, nonostante le contrarie
apparenze, un Manzoni, i quali invece camminarono per vie
letterarie assai diverse da quelle di Dante.
La Commedia si
erge isolata quasi all'inizio della via che la letteratura
italiana percorrerà; alta e discosta da essa, e resta tale,
costante punto di riferimento ma non di partenza e tanto meno di
passaggio. A segnare il divario esistente tra la Commedia e
le altre opere, sia pure insigni, di D., può giovare
proprio la considerazione che queste, e non quella, s'inseriscono
agevolmente nella trama storica della nostra letteratura.
Inconcepibile, per esempio, la poesia lirica dantesca senza la
considerazione della poesia precedente, provenzale, siciliana e
anche guittoniana; senza la spinta che ad essa viene dal
Guinizzelli; senza il coro degli altri stilnovisti; inconcepibile
altresì la lirica del Petrarca e, attraverso il Petrarca,
tutta la lirica italiana seguente, sino ai nostri giorni, senza il
riferimento primo a Dante. Così, la filosofia di lui, il
suo pensiero scientifico e politico sorgono dal terreno ben
conosciuto della Scolastica e della pubblicistica medievale e
agiscono poi nel corso posteriore della filosofia, della scienza e
del pensiero politico; dalla sua concezione linguistica deve
partire chi voglia seguire la storia delle sempre vive
controversie italiane sulla genesi e sull'essenza della nostra
lingua; ad essa deve riferirsi altresì chi voglia spiegarsi
uno dei caratteri essenziali, forse il più caratteristico,
dello svolgersi della nostra letteratura.
D. per primo teorizza nel De vulgari eloquentia la
necessità, per la poesia più alta, d'una lingua
"illustre", cioè quanto mai scelta e schiva, per primo
risolutamente afferma che tale lingua non è quella che
comunemente si parla in qualsiasi luogo d'Italia, ma è una
lingua al di fuori delle contingenze pratiche, che ciascun poeta
conquista mediante lo studio dei migliori poeti che lo hanno
preceduto. Cioè, l'alta poesia deve restare lontana dal
reale, materia e lingua. È questo il carattere fondamentale
della letteratura italiana non comica, almeno sino al
Romanticismo, che riabilitò, o tentò di riabilitare,
all'alta poesia il reale sino al quotidiano, e conseguentemente la
lingua parlata.
Orbene: a questa esigenza
obbedisce naturalmente la lirica di D., ma la Commedia in
gran parte ne prescinde. Essa è l'unica grande poesia
italiana che affronti i massimi problemi e nello stesso tempo sia
saldamente ancorata sul reale, sul contemporaneo; che osi estrarre
il sublime anche dal brutto, dal deforme, dal plebeo. E va qui
aggiunto che mentre i romantici riconosceranno nel brutto una
nuova bellezza, e si volgeranno ad esso per compiacimento estetico
e per disperazione morale, in D. il brutto è fermamente
tale: e la bellezza poetica che da esso nasce è frutto
della certezza, morale ed estetica, di D., che s'impone di
controluce. Potrebbe bastare anche questa sola considerazione a
indurci a porre il nostro poeta di qua, storicamente, del
Rinascimento: le vie del quale non sono segnate primamente da lui,
ma dal Petrarca e dal Boccaccio.
Certo è possibile
trovare in D. anche qualche motivo spirituale e letterario che
avrà nel Rinascimento il suo primo sviluppo. Ma non sono
certo sufficienti a testimoniare in D. uno spirito già
rinascimentale la strenua attenzione di lui alla forma, e neppure
il culto che ebbe per i classici latini, soprattutto per Virgilio:
attenzione e amore per i classici che sono tutt'altro che
estranei, in varî modi e in diverse tonalità, a tutto
il Medioevo, italiano e non italiano. Il classicismo
rinascimentale è essenzialmente esigenza di regole, non
può concepire poesia che non rientri rigorosamente
nell'alveo della tradizione. Esigenza che s'affaccia bensì
anche in D. teorico del De vulgari eloquentia, sebbene in
forma ancora incerta e non senza interne contraddizioni, che
informa anche in certo modo la lirica dantesca; ma da cui, ancora
una volta, la Commediaprescinde.
A determinare il
classicismo rinascimentale c'è un bisogno di calma
spirituale: un'esigenza di sicura, anche se limitata,
felicità terrena, e dunque il Rinascimento domina le sue
passioni, le contempla poeticamente solo dall'alto della raggiunta
serenità, e l'elaborazione formale, il restare nella scia
tradizionale sono essenzialmente mezzi di questo dominio delle
passioni. Al contrario, la passione di D., passione sempre, anche
quando egli fa della scienza, si pone poeticamente come tale.
Più fondata appare l'opinione di coloro che scorgono
un carattere già rinascimentale nel riconoscere alla vita
terrena, come D. fa, una sua propria autonomia e dignità
accanto all'ultraterrena. Al centro del pensiero di D. c'è
infatti la concezione d'un duplice dovere per l'uomo: verso
sé stesso e gli altri uomini, e verso Dio. Fine dell'uomo
è la conquista della duplice felicità: perciò
Dio stesso gli ha dato due guide, l'imperatore e il pontefice, che
debbono, indipendenti tra loro, condurlo al raggiungimento dei due
beni. Ma D. - e questa è la fondamentale differenza tra lui
e gli uomini del Rinascimento - concepisce la felicità
terrena come una meta additata da Dio stesso, cioè non come
un'aspirazione egoistica o un diritto, ma come un dovere
morale-religioso. Il Rinascimento tende alla sua felicità
rinunciando senza rammarichi e tremori all'assoluto di essa:
restringendosi al "particulare", all'effettivamente realizzabile,
a ciò che l'uomo può dominare con le sole sue forze,
il senso del limite appare sempre più come il carattere
fondamentale dello spirito del Rinascimento.
Dante intende invece la felicità anche terrena come assoluto: assoluto bene, assoluta libertà, persino assoluta scienza, cioè perfetta attuazione dell'"intelletto possibile". Quest'ultima è la definizione che egli dà della felicità come fine umano, ma un fine che né l'uomo singolo, né limitati gruppi possono conseguire, la felicità non è raggiungibile se non nella perfetta e universale pace, la pace non può realizzarsi se non con l'unicità d'un potere che, possedendo tutto, non abbia più cupidigie, e possa imporre a tutti la perfetta giustizia; cioè con l'impero universale. Una sola cosa dunque con la felicità personale è per D. la felicità di tutti; allo stesso modo che la salvezza ultraterrena del singolo è in funzione della salvezza universale, attraverso il magistero della Chiesa. Quella di D. è l'ultima, magnanima voce dell'universalismo medievale, che si alza proprio quando quell'universalismo, con Bonifacio VIII e Arrigo VII, tenta per l'ultima volta, vanamente, d'imporsi.
L'ardua dialettica fra tale
concezione universalistica e l'insopprimibile necessità e
la suprema dignità della responsabilità personale
è problema di fondo per D., che se lo pone di continuo,
sotto le più diverse forme, nel suo poema. L'ideale uomo
che nasce dalle sue pagine è colui che vive con pienezza,
non rifugge da alcun dovere - spirituale, morale, pratico - che la
vita gli impone, affronta fermamente ogni responsabilità,
anche la più rischiosa: e tuttavia non pensa mai solo a
sé stesso, sa che il suo pensiero e la sua azione sono la
particella d'un ordine universale. Da questo punto di vista ci si
chiariscono anche il pensiero e l'azione propriamente politici di
Dante.
Nessun poeta più fiorentino, più municipale di lui, da Firenze e dai suoi contemporanei trae la maggior parte, di gran lunga, dei suoi personaggi, a Firenze vanno costantemente il suo nostalgico amore e la sua cruda rampogna. Eppure nessun egoismo municipale alimenta l'amore e lo sdegno: rimprovera Firenze peccatrice nella sua vita interna, più ancora la rimprovera quando la vede recalcitrare a lasciar sommergere la sua libertà e fisionomia comunale nell'ordine imperiale. Vissuto nella piena maturità del comune, nel sorgere delle signorie, cioè in un'età d'intransigenti particolarismi, si può dire che D. non abbia occhi per quel che di fecondamente positivo pur era in quei particolarismi; giunge sino a sprezzare le nuove classi sociali borghesi, la gente intesa ai "subiti guadagni", che del comune erano il nerbo. Anche Firenze, ogni altro comune, ogni stato deve affrontare la propria responsabilità, in piena libertà, ma insieme sentirsi parte d'un tutto: e la meta ultima d'ogni particolare politica non può essere che il bene universale. "Nos cui mundus est patria, velut piscibus equor", dice nel De vulgari eloquentia.
Dalla continuata lettura
della Commedia il
lettore trae un'impressione apparentemente in sé
contraddittoria: quella d'un mondo spirituale e fisico
sterminatamente vario e complesso, e insieme quella d'una salda e
quasi lineare ed elementare unità. Più agevole
rendersi conto di questa simultanea varietà e
semplicità per quel che riguarda il mondo fisico rappresentato
nel poema. Il lettore scende nel buio seno della terra, risale
all'aperto su una montagna alta e aperta alla luce, sola
nell'oceano sconfinato, penetra corporeamente nella densa e pur
non corporea luce del Paradiso; bufere, fetide piogge, brulicar di
serpenti, guizzare di fiamme parlanti, livide paludi, cimiteri,
fiumi di sangue, boschi allucinanti, deserti, paesaggi polari, ma
anche visioni del vasto cielo stellato, valli fiorite, musicali
foreste, infinite feste di luci: mille aperture sui più
varî orizzonti, nelle comparazioni, nelle rievocazioni dei
personaggi e degli eventi. E tutto ciò è racchiuso
entro una struttura semplicissima: una voragine che scende verso
il centro della terra, una montagna che nell'altro emisfero sale
verso l'alto; nove cieli che girano veloci intorno al tutto; un
decimo cielo immobile che tutto racchiude. Anzi, l'immensa
varietà si dispone su una sola linea ideale: che da sottoGerusalemme giunge al centro
della terra, risale all'altro emisfero, passa per il centro del
Paradiso terrestre, antipodo di Gerusalemme, di là arriva
al centro dell'Empireo. La molteplicità grandiosa è
come sorretta da un'unità intuitivamente percepibile e
dominabile immediatamente. ▭
Così per il mondo dello spirito. Non c'è moto dell'anima e dell'intelligenza umana, nel male e nel bene, non c'è aspetto della vita che D. non rappresenti: l'ebbrezza della passione di Francesca e la sozzura della meretrice Taide; l'amor di patria e il doloroso peso della responsabilità fermamente assunta di Farinata e la grandezza fosca e colpevole di Bonifacio VIII; gli occhi lucenti di lacrime di Beatrice e la sconcia cennamella di Barbariccia; la tracotanza violenta e disperata di Capaneo e diVanni Fucci, e la fragilità rassegnata di Pia e di Piccarda; la dignitosa malinconia della fedeltà misconosciuta di Pier della Vigna e di Romeo di Villanova, e la volgare rissa tra maestro Adamo e Sinone; il generoso ardore di conoscenza di Ulisse e l'aspettare neghittoso, malinconicamente rassegnato di Belacqua; lo strazio paterno di Ugolino e la dolcezza del ricordo e della nostalgia dei tanti amici evocati specie nel Purgatorio; l'ansia di conquistar fama presso coloro che questo tempo chiameranno antico, e la coscienza che il mondan romore non è altro che fiato di vento; la rappresentazione, allucinante per evidenza di particolari, delle mutazioni e trasmutazioni dei ladri o delle mutilazioni dei seminatori di discordie, e la delucidazione dei più ardui e astratti veri scientifici, filosofici, teologici; il villanello che si batte l'anca disperato nel vedere il suo campo coperto di neve, e il volo dell'aquila romana, voluto da Dio. L'infinitamente piccolo e sfuggente e labile, e l'infinitamente grande ed eterno. Eppure, sotto questa immensamente varia materia, si avverte l'unità dello spirito che la crea. Ed è uno spirito, nella sua potenza, semplice e lineare.
D. è essenzialmente
il poeta della certezza. Nessun dubbio turba mai il poeta, che
pure sa e rappresenta la fragilità del cuore, il pericoloso
pencolare della superba intelligenza degli uomini verso l'errore.
Esamina e giudica, inflessibile, piccoli e grandi, i singoli e
tutto il suo tempo; Impero e Chiesa: eppure il lettore non si
domanda mai se quel giudizio così reciso sia legittimo, non
ha mai l'impressione che sia pretensioso e fatuo e unilaterale,
tanta è la saldezza della fede e delle convinzioni da cui
deriva, che essa passa nel lettore, il quale avverte che a
giudicare non è D., che egli è solo l'interprete
sicuro d'una legge che diventa indiscutibile anche per noi.
Nessuno più razionale, quadrato, consequenziale di lui: ma
questa razionalità si fa passione di comunicarsi, diventa
pietà o sdegno per chi pensa e opera al di fuori o contro
di essa. La razionalità sbocca nel sentimento, si fonde con
esso. Una volta raggiunta - quali che siano stati i travagli
sentimentali e intellettuali della giovinezza - la persuasione
ferma che Dio ha prescritto all'uomo come suo proprio fine il
raggiungimento di una duplice perfezione, in terra e nel cielo, D.
ha abolito in sé l'eterno dissidio umano, quello appunto
tra l'attaccamento al mondo e l'aspirazione al sopramondo, tra il
caduco e l'eterno. Il caduco è caduco: ma non per questo
dev'esser reietto e aborrito. Annullato quel dissidio, ogni altro,
che naturalmente ne deriva, in D. si placa sino ad annullarsi;
ogni cosa si compone in unitario sistema.
L'impero non è per
lui uno stato, non è solo un'organizzazione politica:
è il mezzo voluto ab aeterno da Dio
perché l'uomo possa raggiungere il suo fine terreno;
è, cioè, un istituto religioso. Per questo chi gli
si oppone - sia egli anche un papa - non solo per D. è
politicamente riprovevole, ma commette un gravissimo peccato, ed
egli lo scaraventa inflessibile e sdegnato giù
nell'inferno. Cioè la politica è per D. tutt'uno con
la morale. Se la vita terrena è un dovere religioso,
è naturale, e tipica di D., la concezione della
dignità di essa, naturale e tipico lo sprezzo per gli
ignavi, per chi rifugge dall'assumersi la responsabilità
della piena vita, delle decisioni supreme, cioè
dell'azione. Sparisce dunque anche ogni dualismo tra
contemplazione e azione, tra pensiero e attività pratica. A
chiarire i problemi della scienza - e non solo di quella
teologica, ma anche di quella fisica e naturale - D. si sofferma
assai spesso, specialmente nel Paradiso; e può sembrare a noi
moderni lusso di erudizione e di sottigliezza, senza impegno
morale, ma la stessa scienza è per D. il pane degli angeli;
chi non ne gusta almeno le briciole è un misero, è
un infelice, il D. delConvivio e della Commedia ne
ha pietà. La scienza è indispensabile alla
felicità umana; e dunque lo sforzarsi di raggiungerla
è, oltre che un istinto, un dovere. Di nuovo, scienza e
morale e religione sono una sola cosa. Ancora: la salvezza
spirituale s'identifica con la libertà individuale,
cioè con la conquista piena di sé stesso, il dominio
sicuro di sé nel turbinio delle tentazioni, nella stessa
debolezza della carne, con l'animo che vince ogni battaglia, se
col suo grave corpo non s'accascia; la rivelazione non esclude,
anzi presuppone la ragione; Beatrice muove Virgilio, ma è
da lui preceduta nell'opera di elevazione e di sublimazione di
sé e di tutti gli uomini che D. canta nel suo poema.
Ma il simbolo della stessa ragione è un poeta, pensiero e sentimento non cozzano tra loro, come presso tanti altri grandi poeti: costituiscono una salda unità; e la stessa poesia è concepita non come un sogno, ma come una battaglia, con precisi obiettivi pratici di ammaestramento e ammonimento, che D. ha cura di mettere esplicitamente in luce. Il poeta dell'Inferno, colui che ha osato rappresentare direttamente il disordine delle passioni umane, sa che, nonostante ogni apparenza, c'è un ordine supremo, che ogni creatura, navigando per il gran mare dell'essere, giunge, sì, a diversi porti; ma se i porti sono diversi, la riva è unica, e che la corda dell'arco divino porta ogni essere irresistibilmente al sito per lui decretato, che è di felicità e perfezione; e se taluno devia, ciò è solo per sua colpa, perché non ha fatto - nei diversi campi in cui Dio lo ha posto - il suo dovere. Da questa concezione dell'ordine dell'universo viene a D., esule immeritevole, colpito dall'ingiustizia, tradito dagli uomini per il suo amore per essi, spettatore lucido e angosciato del male, la sua virile certezza di giustizia. Una giustizia non solo oltremondana: un giorno, quando Dio nei suoi imperscrutabili disegni vorrà, ma sarà presto, l'ordine e la giustizia prevarranno anche nel mondo. Dante se ne fa profeta e garante. Cielo e terra ancora una volta si saldano. Il primo e più alto messaggio del poema è forse proprio questa certezza.