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Filosofia dello spirito
È l'opera fondamentale del pensiero crociano (il suo titolo
completo è Filosofia come scienza dello spirito); consta di
quattro volumi, pubblicati dal 1902 al 1917.
Il primo volume (Estetica come scienza dell'espressione. Teoria e
storia e linguistica generale, pubblicato nel 1902) tratta del primo
grado della attività teoretica, l'intuizione del particolare
da cui scaturisce l'arte. La conoscenza intuitiva è
indipendente dalla conoscenza intellettuale, in quanto l'una
è "conoscenza dell'individuale", mentre l'altra è
"conoscenza dell'universale". Il fatto estetico o artistico si
identifica con l'intuizione che è di tutti gli uomini: l'uomo
è per sua natura poeta ed è sempre cosciente anche
quando manca della riflessione critica e storica. L'opera d'arte
è unità indivisibile di intuizione e di espressione,
di forma e di contenuto, è"unità nella
varietà". Il concetto non è possibile senza
l'intuizione, perciò la scienza è congiunta all'arte,
come la prosa alla poesia. Al di fuori di queste non c'è
alcuna altra forma di conoscenza: la stessa conoscenza storica che
è rivolta ai particolari è da ricondurre a quella
intuitiva. Scienza dell'universale è la filosofia dello
spirito, mentre le scienze naturali sono "astrazione e arbitrio".
Sono inaccettabili le teorie che fanno dell'arte una
rappresentazione del verosimile, o un'imitazione della natura,
un'esposizione di idee, o una dimostrazione di tesi o di tipi,
un'allegoria, e che distinguono diversi generi letterari e
artistici: quest'ultima partizione ha solo un valore pratico.
Attività teoretica (di cui fanno parte la conoscenza
intuitiva e quella intellettiva) e attività pratica dello
spirito sono in relazione. "L'attività pratica è la
volontà", in quanto determina l'azione: "Con
l'attività teoretica l'uomo comprende le cose, con la pratica
le viene mutando"; ma la prima è la base della seconda.
Quindi l'arte è indipendente da qualsiasi attività
pratica ed esclude qualsiasi fine (pratico) e qualsiasi scelta
(pratica) del contenuto, che quindi non può essere giudicato
da un punto di vista pratico (per esempio morale). Anche
l'attività pratica si distingue in due momenti: quello
economico, che vuole "un fine" particolare e quello morale che vuole
"il fine" razionale, universale. Nell'attività morale "lo
spirito vuole se stesso";"l'universale ch'è nello spirito
empirico è finito", "l'assoluta libertà".
Queste quattro forme dello spirito escludono qualsiasi altra forma
spirituale: il diritto, la religiosità e la metafisica.
L'arte è indivisibile, perciò non esistono diversi
modi di espressione. Per questo motivo è impossibile una vera
e completa traduzione. Tanto meno valgono le categorie retoriche,
che hanno solo un significato empirico. Cade così anche la
disputa tra classicismo e romanticismo. Il romanticismo si dice
fondato sul sentimento; ma il sentimento si identifica con
l'attività economica e può essere concomitante a ogni
altra forma di attività senza sostituirvisi. Il sentimento
estetico è quello che accompagna l'intuizione del bello
cioè l'"espressione riuscita". Il bello non si identifica col
piacevole, non col"simpatico", non con il"bello fisico". Il bello
nell'atto stesso in cui è intuito è espresso, ma poi
interviene la volontà di comunicarlo e qui occorre la
conoscenza di tecniche adatte a questo scopo. Il giudizio estetico
coincide con la riproduzione estetica e il gusto, che giudica con il
genio che crea. La storia letteraria e artistica è "un'opera
d'arte storica, sorta sopra una o più opere d'arte".
La prima parte dell'opera si conclude con l'identificazione di
estetica e linguistica, in quanto questa ha "per oggetto
l'espressione che è per l'appunto il fatto estetico".
Nella seconda il Croce espone la storia dell'estetica. Il pensiero
estetico del Croce, che venne integrato in altre opere (Breviario di
estetica, Aesthetica in nuce, La poesia), ebbe un'importanza storica
notevole perché influenzò tanta parte della critica
estetica successiva. Il secondo volume (Logica come scienza del
concetto puro, pubblicato nel 1909) studia il secondo momento
dell'attività teoretica dello spirito, quello della
conoscenza intellettiva o concetto. Questo non è intuizione,
non è finzione utile, non è rappresentazione, ma
è ultrarappresentativo, universale e concreto, esprime la
realtà nella sua pienezza e nella sua vitalità. Non va
confuso con gli pseudoconcetti, che hanno soltanto funzione pratica
e nei quali universalità e concretezza si scindono, per cui
sono "finzioni concettuali" con fini pratici (perciò fanno
parte dell'attività pratica), dei quali si servono le scienze
naturali (pseudoconcetti empirici, concreti ma particolari) e quelle
matematiche (pseudoconcetti universali ma astratti). Il concetto
universale concreto o puro non può essere confuso con la
rappresentazione; perciò cadono le dispute tra realismo e
nominalismo, basate appunto sul valore rappresentativo del concetto
e tutte le altre dispute sulla sua origine e significato. I
concetti, distinti nella loro unità, coincidono con le forme
(o distinti) dell'attività spirituale: bello-vero-utile-bene;
essi possono convertirsi in pseudoconcetti quando arbitrariamente
vengono astratti per ragioni pratiche; il loro rapporto è
circolare dialettico; in ciascuno di essi si risolve l'opposizione
in quanto "l'opposto non è positivo, ma negativo, e, come
tale, accompagna il positivo";"gli opposti non sono concetti, ma
l'unico concetto stesso"e solo astrattamente possono essere
distinti: il male non esiste come opposto al bene, ma solo come
altro rispetto al bene, cioè come appartenente a un altro
momento dello spirito (per esempio all'attività economica).
Il pensiero e il linguaggio sono distinti, ma in rapporto
dialettico, così come il giudizio e la proposizione. Il
giudizio logico è la definizione, che costituisce
l'unità inscindibile di un soggetto e di un predicato, non
può essere pensato indipendentemente dal suo contenuto. Il
giudizio definito-rio, cioè il concetto puro, pur essendone
distinto si identifica col giudizio individuale in quanto è
"reale l'esistenza dell'elemento storico nelle definizioni apprese
nella loro concretezza"; in questo senso esso è un giudizio
storico, una sintesi a priori logica di distinti. Viene così
ribadita l'unicità del concetto, che rifiuta qualsiasi elenco
di categorie, qualsiasi distinzione in metafisica e filosofia, in
filosofia razionale e filosofia reale, in filosofia e logica.
Nella seconda parte dell'opera il Croce identifica la filosofia, che
è logica, con la storia, per la necessità
dell'elemento storico (giudizio individuale) alla formulazione del
concetto (giudizio definitorio). Riafferma invece il carattere
semplicemente pratico delle scienze naturali e della matematica.
Nella terza parte considera l'errore come negatività:
l'errore che ha esistenza non è errore perché non
è negatività, ma qualcosa di positivo, un prodotto
dello spirito che, essendo privo di verità, non fa parte
dell'attività teoretica ma di quella pratica, nella quale non
è un errore. L'errore logico sta quindi nel combinare
"sconciamente" il concetto puro (filosofia) con la pura
rappresentazione (arte) o col concetto empirico o astratto delle
scienze, oppure nello scindere la sintesi a priori logica in cui
esso consiste. L'autore passa poi a esaminare i principali errori
nella storia della filosofia.
Nella quarta parte espone una storia della logica e della filosofia.
In questa opera il sistema filosofico di Croce appare ormai come
completamente delineato nelle sue caratteristiche idealistiche; le
due opere successive non faranno che sviluppare, chiarendoli, gli
stessi temi.
Il terzo volume (Filosofia della pratica Economia ed Etica,
pubblicato nel 1908) esamina i due momenti dell'attività
pratica dello spirito, quello economico o volizione del particolare,
e quello morale o volizione dell'universale. L'attività
pratica è una forma dello spirito distinta dalla
attività teoretica; non esiste una terza attività,
quella del sentimento. Con il sentimento si indica impropriamente
l'intuizione o il concetto puro, quando questi non sono chiaramente
definiti. L'attività teoretica precede quella pratica, ma
nell'unità dello spirito esse sono compresenti, nel senso che
l'atto pratico richiede la conoscenza storica, per cui "azione
è conoscenza e volontà è sapienza, cioè
... volere ed operare ... presuppongono conoscere e sapere". I
concetti e i giudizi pratici sono posteriori all'azione. Nell'azione
concreta intenzione e volizione coincidono, come, nell'estetica,
coincidono intuizione ed espressione; però bisogna
distinguere tra volizione e successo o accadimento, e quest'ultimo
non testimonia il valore intrinseco all'azione. All'atto volitivo
consegue il giudizio pratico, che è un giudizio storico, in
quanto ciò che è accaduto viene collocato nella
categoria pratica che gli è propria. Poiché volizione
e azione coincidono, coincidono anche la libertà del volere e
la libertà dell'azione: l'atto volitivo "è necessitato
e libero insieme", perché nasce in una situazione storica
determinata, ma produce qualcosa di nuovo. La libertà non
è quindi arbitrio ed è il bene. Il male è la
sua antitesi, la non libertà. L'individuo è
sollecitato da una molteplicità di volizioni che "genera il
momento dell'arbitrio, della contraddizione, del male".
L'attività pratica consiste nella"volizione che vince le
volizioni"; essa si realizza nell'individuo che progredisce
continuamente, così come la realtà nel suo complesso
è"un continuo crescere su se stessa". L'attività
teoretica e quella pratica sono nella realtà (spirito) in
rapporto circolare, cioè l'una condiziona l'altra.
Nella seconda parte dell'opera vengono distinte le due forme
dell'attività pratica: l'economia e l'etica. La prima
è volizione di fini individuali, la seconda di fini
universali. Vengono poi criticate le teorie morali fondate
sull'utile, che è invece amorale e premorale. Economia ed
etica sono due gradi dell'attività pratica. La filosofia
dell'economia non va confusa con la scienza dell'economia, che
è utile, ma ha carattere matematico e non filosofico. Ogni
morale che non faccia coincidere la forma etica con l'attuazione
dello spirito in universale non è morale, ma deve essere
ricondotta ad altre forme dello spirito. Nella terza parte si tratta
della legge, che è "atto volitivo che ha per contenuto una
serie o classi di azioni"ed è un prodotto dell'individuo.
È falsa ogni distinzione tra leggi giuridiche, sociali o
altre. Le leggi sono sempre imperative, mutevoli per il loro
contenuto contingente; non esiste un codice eterno o un diritto
naturale; esse non devono essere confuse con i principi pratici, che
vogliono l'universale.
Ognuna delle tre parti del volume si conclude con interessanti
annotazioni storiche. In quest'opera Croce definisce il rapporto tra
i quattro gradi dello spirito ed enuncia un concetto, che lo
guiderà anche in campo storiografico e nel ripensamento della
sua estetica: la coincidenza del bene universale con la
libertà.
Il quarto volume (Teoria e Storia della storiografia, pubblicato nel
1917), esamina la storia come processo dello spirito. La storia
è sempre contemporanea, perché "solo un interesse
della vita presente ci può muovere ad indagare un fatto
passato, il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse
della vita presente, non risponde ad un interesse passato ma
presente". La storia passata è cronaca: "La storia è
la storia viva, la cronaca la storia morta ... La storia è
precipuamente un atto del pensiero, la cronaca un atto di
volontà". Diverse sono le pseudostorie: quella filologica,
quella poetica, l'oratoria o retorica, ma l'unica vera storia
è quella dell'universale, in quanto il suo soggetto è
lo spirito (non però lo spirito empirico, individuale, ma
quello universale). È storia dell'universale, ma non è
"storia universale", perché non presume di ridurre in un
unico quadro tutti i fatti del genere umano, è "conoscenza
dell'eterno presente"e perciò si identifica con la filosofia.
In questo modo la filosofia diventa metodologia della storia,
cioè ricerca dei concetti puri concreti nella storia. Lo
spirito si identifica con lo svolgimento storico, che si attua nei
concetti puri universali concreti che sono oggetto della filosofia;
perciò realtà, spirito, storia, filosofia coincidono.
Non è perciò possibile una filosofia della storia, che
"rappresenta la concezione trascendente del reale", così come
una falsa concezione immanente del reale genera il determinismo
storico: l'una e l'altra "abbandonano la realtà della
storia". La storia non va giudicata con giudizi morali, è
sempre positiva e non muore mai, in quanto è continuo
processo. Essa è "opera dell'uomo", "prodotto dall'intelletto
e dal volere umani", perciò la storia è "umanistica",
nel senso che è "lo spirito eternamente individuantesi".
Tutti i fatti sono storici in quanto pensati, cioè se non
sono solo oggetto di erudizione. In questo volume è
chiaramente definito quello storicismo, di derivazione idealistica e
vichiana, consistente nell'identificazione realtà
spirito-storia, al quale Croce rimarrà costantemente fedele.
*
Wikipedia
Opere di B. Croce
L'opera Teoria e storia della storiografia è una raccolta di
brevi testi che Benedetto Croce aveva già pubblicato in
riviste filosofiche specializzate italiane tra il 1912 e il 1913.
Il volume stampato originariamente in Germania col titolo Zur
Theorie und Geschichte der Historiographie, nel 1915, fu pubblicato
in Italia nel 1917 ampliato con tre brevi saggi.
Nel 1927 fu aggiunta al libro la parte dei Marginalia, consistente
in annotazioni esplicative.
In una successiva edizione dell'opera Croce nell'Introduzione
avvertiva il lettore che un «completamento alla Teoria e
Storia della Storiografia ho dato col libro: La Storia come pensiero
e come azione (1938), e con i "Paralipomeni" raccolti nell'altro
volume: Il carattere della filosofia moderna (1941)».
Nella prefazione all'opera, Croce spiega al lettore perché
consideri la sua opera come un "quarto" volume della "Filosofia
dello Spirito" da non considerare superfluo e ridondante ma
«piuttosto approfondimento ed ampliamento alla teoria della
storiografia già delineata in alcuni capitoli della seconda
parte, ossia della Logica.»
Se egli quindi riprende il tema già trattato lo fa
perché ritiene che tutta la vita dello Spirito
«è svolgimento e storia» e quindi
«ripigliare di proposito, dopo il lungo giro compiuto, il
discorso sulla storiografia, traendolo fuori dai limiti della prima
trattazione, era la più naturale conclusione che si potesse
dare all'opera intera.»
La struttura dell'opera
L'opera è divisa in quattro parti:
Teoria della storiografia
Tre appendici aggiunte al testo italiano e che mancano in quello in
tedesco
Storia della storiografia
Le Marginalia fanno da conclusione.
Teoria della storiografia
La storia contemporanea
La prima questione affrontata tratta della Storia contemporanea. La
contemporaneità però è tale solo nell'attimo
presente che sarà immediatamente sostituito da un altro.
Dunque come può darsi una storia contemporanea?
Croce ritiene che la contemporaneità di cui tratta la storia
non è quella impossibile degli eventi che si svolgono nel
tempo ma quella che riguarda quegli avvenimenti che il pensiero
dello storico sta pensando alla luce dei documenti che sta
analizzando.
Chiarirà ulteriormente in un'opera successiva che «Il
bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico,
conferisce a ogni storia il carattere di "storia contemporanea",
perché, per remoti e remotissimi che sembrino
cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in
realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione
presente, nella quale quei fatti propagano le loro
vibrazioni.»
Documenti e narrazione
Ma non bastano i documenti a fare la storia occorre che questi
rientrino nella interpretazione storiografica dello storico
attraverso la narrazione che egli ne fa.
Documentazione e narrazione costituiscono un nesso inscindibile per
la storia altrimenti se quel nesso si rompe «...ciò che
resta non è più storia (perché la storia altra
non era che quel nesso), e si può seguitare a chiamare storia
solo a quel modo che si chiama ancora uomo il cadavere di un uomo,
non perciò quel che resta è nulla [...]»
è semplicemente cronaca.
La cronaca
La cronaca è l'insieme dei documenti a disposizione della
narrazione storica ma questa è preminente poiché prima
viene la storia viva e poi la cronaca morta e sarebbe inutile per la
storia conservare negli archivi e nelle biblioteche i documenti
morti che potranno al più servire per la cronaca.
Le pseudo storie
Una falsa storia è quella che egli chiama la storia
filologica che si basa sulle tradizioni e i documenti. Anche questa
non è storia ma semplicemente cronaca, una elencazione di
eventi senza l'interpretazione di ciò che i documenti
attestano.
Un'altra pseudo storia è la storia poetica che pretende
basarsi come la storia antica, ma anche quella rinascimentale e
risorgimentale, sui valori individuali.
Anche qui siamo di fronte a una falsa storia: «per convertire
la biografia poetica in biografia veramente storica bisogna
reprimere, come si suol inculcare ai biografi, i nostri amori, le
nostre lacrime, i nostri sdegni, e ricercare a quale ufficio abbia
adempiuto l'individuo, di cui si narra la vita, nell'opera sociale o
della civiltà; e il medesimo deve farsi per la storia
nazionale e per quella dell'umanità, e per qualunque ordine
di accadimenti: bisogna superare, ossia trasformare, i valori di
sentimento in valori di pensiero.»
Infine vi è la pseudo storia della storia oratoria che viene
recitata per suscitare buoni sentimenti in chi l'ascolta per
incitarlo ad agire nel modo voluto dallo storico oratore, alterando
così la funzione principale della storia che mira alla
conoscenza e non alla pratica.
Si invoca da più parti, dice Croce, una riforma della storia,
ma la storia viva non ha nessun bisogno di essere riformata. Sono le
pseudo storie che sentono la loro inadeguatezza e che proclamano la
necessità di essere riformate. In vero esse non vanno
riformate ma eliminate.
La storia universale
Assurda poi è la pretesa di scrivere una storia universale
quando è già arduo delineare l'intera vita di un
singolo personaggio. È impossibile conoscere tutti gli eventi
che si sono susseguiti dall'origine del mondo sino alla
contemporaneità.
Ma poi, anche se fosse possibile delineare una storia universale
questa risulterebbe inutile proprio per la sua vastità.
Molto meglio concentrare le forze sulle piccole storie anche
perché «la via del processo all'infinito è
larghissima al pari della via dell'inferno, e, se non conduce
all'inferno, conduce di certo al manicomio.» E non sarebbe
neppure una rinunzia quella di mettere da parte il tentativo di
scrivere una storia universale perché «... si rinunzia
a cosa, che non si è mai posseduta perché non si
poteva possedere; e che perciò tale rinunzia non è
punto dolorosa».
Storia e filosofia, filosofia e storia
Come ogni particolare per essere inteso deve riferirsi
all'universale e questo acquista significato concreto se riportato
ai particolari, così la storia vera è sempre quella
pensata dallo storico, riportata nella sua particolarità ad
un significato universale che a sua volta avrà bisogno di
essere riferito ad eventi particolari per avere senso, così
come ad esempio accade se si chiede a chiunque quale sia l'oggetto
della poesia, non sarà certo risposto Dante o Shakespeare, ma
la Poesia stessa (cioè un universale). Ma per parlare della
poesia, nessuno mai parlerà della Poesia, bensì si
parlerà, appunto, dei vari autori (un particolare).
Ogni storia dunque riporta alla filosofia, ogni evento storico
è contemporaneo perché interpretato alla luce delle
concezioni filosofiche del tempo attuale così come la
filosofia è sempre quella incarnata da un filosofo
storicamente determinato, vissuto nel suo tempo ma che viene
considerato alla luce degli interessi filosofici attuali per cui
ogni storia della filosofia è filosofia.
« La storia, facendosi storia attuale, come la filosofia
facendosi filosofia storica, si sono liberate l'una dall'ansia di
non poter conoscere ciò che non si conosce solo perché
fu o sarà conosciuto, e l'altra dalla disperazione di non
raggiungere mai la verità definitiva: cioè entrambe si
sono liberate del fantasma della cosa in sé. »
Il determinismo storico
L'assurdità di voler cercare nella storia le cause prime
degli eventi è tipica del determinismo storico che di fronte
all'impossibilità di risalire nella catena cause-effetti alla
causa prima sostiene che lo storico si limiterà a ricercare
le cause "prime-prossime" quelle cioè che gli siano
più vicine nel tempo. Il che vuol dire spostare
arbitrariamente il problema non risolverlo.
Non diversamente operano gli storici che ricercano il fine ultimo
degli eventi che incappano nella stessa difficoltà dei
deterministi: ricercare un significato ultimo di una
complessità di fatti così come i deterministi
cercavano di concatenare tutti i fatti insieme.
In realtà è la mente dello storico che pensa e
costruisce il fatto. Che dunque non è un punto di partenza
per la ricerca storica, ma è la storia stessa. Non va dunque
cercata una causa o un fine al di fuori dei fatti, perché
è già tutto insito in loro.
La positività della storia
Nella storia è errato credere ad una presenza del negativo,
del male, ma vi è invece sempre un progresso inarrestabile
che fa della negatività un gradino su cui esercitare la forza
del positivo. Se così non è stato nella visione
storica questo è accaduto per l'insuffcienza dell'analisi
storica che ha portato a condanne arbitrarie come quella nei
riguardi del Medioevo, condannato nel Rinascimento ed apprezzato
invece nel Romanticismo.
Una storia solo negativa è una non storia, una pseudo storia
poetica dove prevalgono i sentimenti e i giudizi morali.
Certo periodi critici esistono nella storia ma questi vanno
considerati non in sé ma come momenti di passaggio da un
periodo, per certi aspetti positivo, ad un altro migliore.
La storia umanistica
La storia umanistica è quella che fa protagonista degli
eventi storici il singolo uomo capace di operare grandemente in base
alla teoria delle «piccole cause e dei grandi effetti»
che non ha senso se non si suppone l'intervento sull'agire del
singolo di un'entità esterna che il più delle volte
viene indicata nella Provvidenza che guiderebbe la storia dell'uomo.
In realtà c'è un elemento che fa parte della storia
umana e le dà un significato superiore alla storia degli
individui e questo «è l'umanità comune agli
uomini, anzi all'universo tutto, che tutto è umanità,
cioè spiritualità.»
Storia delle masse o degli individui
Da qui nasce un nuovo problema, quello del dualismo che è
stato creato tra Storia delle masse e Storia degli individui:
problema che, o è una follia, o è un falso problema:
se per massa s'intende un insieme d'individui, allora è una
follia, perché non può esistere una storia di un
insieme d'individualità; se invece per massa s'intende lo
spirito che guida l'insieme degli individui, allora è un
falso problema, perché si parla della Provvidenza.
Da questo problema, Croce prende spunto per criticare chi pensa di
poter fare una storia sociologica: «chi taglia fuori dalla
storia gl'individui, osservi bene, e si accorgerà che o non
li ha tagliati punto via, come immaginava, o ha tagliato fuori, con
essi, la storia stessa».
Storia ed erudizione
Croce continua la sua opera, tornando all'inizio, ovvero ponendosi
la domanda di chi ha deciso finora, e con che mezzi cosa fosse
storia e cosa non lo fosse.
La risposta sono gli eruditi: uomini che sceglievano cosa fosse
storia e cosa no, unicamente sulla base dei loro interessi e delle
loro idee, confondendo la storia con l'erudizione.
Infatti, io posso anche decidere di studiare solo una parte di
storia, ma non per questo il resto non lo è. Non si
può certo fare la differenza tra fatti storici e fatti non
degni di essere storia.
La periodizzazione storica
Altro discorso Croce lo fa riferendosi alla periodizzazione della
storia: è ovvio che serva una periodizzazione per meglio
pensarla, ma ciò non vuol dire che questa sia reale.
È, infatti, indubbiamente più comoda la suddivisione
in Storia Antica, Medievale, Moderna e Contemporanea, rispetto al
dover parlare di un'unica storia dagli antichi ai giorni nostri; ma
cosa succederà tra mille anni? Cosa ci sarà dopo la
storia contemporanea? Una contemporaneissima?
È forse più facile che siano riviste le
periodizzazioni e, magari, anche i nomi dati ai diversi periodi.
Ed è importante smantellare la valenza ontologica che diedero
i cristiani ai vari periodi: è assurdo pensare alla storia
come a una vita sulla falsa riga di quella umana: la storia non ha
un inizio, e non ha una fine.
Legato a questo, Croce parla della distinzione e della divisione
della Storia: una distinzione all'interno della Storia non esiste, e
non potrà mai esistere, perché non si può, ad
esempio, distinguere la materia storica dalla forma storica.
Altro discorso, invece, è quello riguardante le divisioni:
è lecito, e anche più comodo, dividere la storia in
vari periodi, o in varie materie, sempre che non si metta in
discussione che si sta sempre e comunque parlando di un unicum.
La storia della Natura
Per finire la prima parte di trattazione della teoria della
storiografia, Croce si pone il problema della "Storia della Natura"
che dovrebbe ritenersi una storia astratta in quanto la natura
considerata nella sua interezza è un'astrazione.
Ma in realtà, l'uomo e la natura dinanzi al pensiero storico
non hanno nulla di diverso, e dunque non può esistere una
storia della natura che prenda le mosse dall'astratto. Questa
è solo un'altra pseudo storia.
La verità è che la natura allo stesso tempo non ha
storia e l'ha: la natura come ente di ragione ed escogitazione
astratta non ha storia, perché non è nulla di reale;
allo stesso tempo la natura ha storia, perché facendo parte
della realtà, unica e sola, ha uno svolgimento e una vita, e
dunque ha anche una storia.
Storia della storiografia
La storia della storiografia scritta da benedetto Croce è
particolare, perché più che una storia vera e propria,
sembra maggiormente una riesposizione delle teorie espresse nella
prima parte dell'opera, ma da un punto di vista cronologico.
Erodoto e Tucidide
Croce inizia subito, stravolgendo le origini stesse della
storiografia: i compilatori di elenchi cronologici, altro non erano
che cronisti.
Erodoto, altro non era che uno storico poetico, e dunque non vero
storico.
Il primo vero storico, fu Tucidide, che per primo cercò di
analizzare le fonti, e di capire quali fossero vere e quali no, e
condusse la sua ricerca storica impegnandosi nella stessa
realtà storica.
Fu, insomma, il primo che intuì quale fosse, veramente, il
compito di uno storico. Non di meno, mancò in lui e in tutta
la storiografia antica la ricerca di come si siano formati i
concetti e i sentimenti nel corso della storia, il vero compito di
uno storico. Mancanza che non fu percepita come tale da parte degli
storici antichi, che per questo sono da biasimare.
Aristotele
In particolare, Croce riconosce in due opere il primo segnale che
qualcosa sta veramente cambiando nel mondo classico: nel primo libro
della Metafisica di Aristotele, Croce vede l'evoluzione del pensiero
filosofico greco verso la giusta direzione; nello incipit dell'opera
di Tucidide, invece, vede degli accenni all'evoluzione del pensiero
storico, da una falsa storia al vero modo di fare storia, propugnato
da Tucidide stesso. D'altra parte si rende anche conto di come la
filosofia non abbia mai ricercato il concetto di spirito, e per
questo è stata sempre vista come antistorica.
Catone e Polibio
Nota inoltre come la storia del pensiero, soprattutto romano, sia
percorso da un'onda amara nei confronti della storia, il cui
paladino è Catone: un eterno rimpianto del passato, che nulla
ha a che vedere con la storia.
Prima di terminare il suo ragionamento sulla storiografia
greco–romana, Croce fa un accenno a Polibio, che considera lo
storico che si sia maggiormente avvicinato al giusto modo di fare,
ma che, non essendoci riuscito, va criticato al pari de suoi
predecessori.
La storiografia medioevale
Se parlando della storiografia greco–romana la si può
intendere come una storia umanistica, per la storiografia medioevale
bisogna parlare di una caduta, di un passo indietro: la
divinità si mescola antropomorficamente alle faccende degli
uomini, e il mito e il miracolo, già presenti presso gli
antichi, diventano più complessi di prima, dato che diventano
un pensiero e un pregio spirituale comune a tutti gli uomini, le cui
virtù sono al centro di tutto e riconducibili tutte alla fede
in Dio.
La storia di questo periodo è una storia della verità,
perché storia del Cristianesimo, e pervasa dalla provvidenza
che guida l'uomo verso un fine ben preciso: Dio. Un Dio che,
però, nel pensiero degli uomini medievali è
incompleto, vista la massiccia presenza di prodigi e miracoli che
servono a spiegare tutto ciò che non ha una spiegazione
razionale.
Nel Medioevo la storia era vista al pari della vita di un uomo:
aveva un inizio, delle fasi spirituali al suo interno, grazie alle
quali si evolveva, e poi arrivava alla morte, che nel caso della
storia era il Giudizio Universale: una data non ancora stabilita, ma
che certamente sarebbe arrivata, presto o tardi.
Ma la Storia veniva anche vista come il dramma spirituale della
comunità, e questo provocava l'indebolimento del falso
concetto antico ed eteronomo della storia indirizzata a
somministrare degli insegnamenti. Ed essendo un dramma, il modo
più utilizzato per raccontarlo, era l'epica.
Nel Basso Medioevo ci fu uno sviluppo alla razionalizzazione della
storia, che contenne molti meno miti e allegorie. E nel momento in
cui non ci furono più le storie fantastiche, ma delle
cronache attente, ci fu la negazione del miracolo cristiano;
negazione che portò alla nascita di un nuovo modo di pensare:
il Rinascimento.
La storiografia rinascimentale
La storiografia rinascimentale viene criticata aspramente da Croce,
accusandola di non aver fatto altro che ricercare costantemente di
tornare al fantomatico modello degli antichi, con l'unica
conseguenza di fare un passo indietro nella conoscenza storica.
Anche perché l'esperienza medioevale non era passata senza
lasciare tracce. Non di meno ci fu chi, come il Machiavelli,
cercò di andare oltre «il paludamento troppo ricco di
pieghe e di strascichi», e individuò l'errore commesso
dai suoi contemporanei.
Tuttavia, anche in lui persistevano dei residui inevitabili del
passato, come il forte pragmatismo delle sue opere (basti pensare al
Il principe) e la sua ricerca del fine ultimo non dentro la storia
stessa, ma fuori di essa.
Dal mondo medievale quella rinascimentale prendeva la forte presenza
di un'entità superiore, che non è più il Dio
medioevale, ma l'Umanità.
Non mancò, inoltre, un ricorso smodato alla storiografia
poetica, al fine di esaltare le virtù dei personaggi storici.
La storiografia illuministica
La storiografia che seguì quella rinascimentale, ebbe un
procedere spregiudicato e radicale, spingendo all'estremo la duplice
aporia dell'antichità e del Medioevo, e distruggendo la
parvenza di copia del mondo greco–romano che aveva in origine:
all'autorità degli antichi che rappresentavano la Ragione del
loro tempo, segue l'autorità della Ragione stessa;
all'umanismo (che considerava positivamente solo alcuni popoli) si
sostituisce l'umanitarismo (il culto dell'umanità).
Il tutto sottoponendo sotto un'aspra critica di tutto ciò che
viene dal passato, al fine di scoprire cosa ci fosse di vero, e cosa
invece fosse solo frutto della fantasia e delle false credenze degli
antichi.
È questo il periodo in cui «il sole della Ragione
è alto sull'orizzonte e rischiara gli intelletti», ma
non di meno il pensiero cristiano–teologico persiste e anzi si
potenzia: il progresso non aveva uno svolgimento, ma era un tirarsi
fuori dal passato che è visto con sommo disprezzo.
Ci fu così chi, come Rousseau, vide l'ideale della Ragione,
non come ideale da raggiungere nel futuro, ma come lo stato che
c'era nel passato preistorico, in quello "stato di natura" da cui
poi la storia si era discostata.
Ma per Croce questo è solo un esercizio retorico:
considerando che lo stato di natura non è mai esistito nella
realtà che si è fatta storia, rimane allora sempre e
comunque un ideale da raggiungere nel futuro.
Ma con questi presupposti, cos'è l'illuminismo se non un
cristianesimo ateo? Basta invertire Dio con la Ragione, e tutto
rimane inalterato.
In ugual modo crebbe notevolmente l'aporia storiografica antica del
pragmatismo: esempio lampante è Voltaire, che loda
Machiavelli e il suo modo di fare storia. E con il pragmatismo
rimase quel fine estrinseco che portò alle stesse conseguenze
antiche e rinascimentali: la storia oratoria.
La storiografia illuministica fu una storiografia fatta di eccessi
ed esagerazioni, ma fu comunque un passo in avanti rispetto alla
storiografia rinascimentale: «Il Voltaire storiografo meritava
di essere difeso perché egli avvertì in modo vivo il
bisogno di riportare la storia dall'esterno all'interno e si
sforzò di appagarlo.».
Per Croce gli illuministi furono i primi a capire che la storia,
quella vera, era altra cosa rispetto a quella raccontata fino
allora. Furono inoltre i primi ad accostarsi in maniera corretta
alle storie speciali (che si moltiplicarono e perfezionarono): non
storie distinte tra loro, ma divise.
Inoltre gli Illuministi misero a frutto i vari reperti e documenti
che gli esploratori rinascimentali avevano riportato dai loro
viaggi, ampliando cronologicamente e territorialmente la portata dei
loro studi.
Inoltre, grazie al loro senso critico, gli illuministi affinarono il
pragmatismo antico, assottigliandolo e spiritualizzandolo, cadendo a
volte in eccessi dovuti a una scarsa chiarezza.
Venne così a crearsi uno Spirito, che aleggiava su tutto, e
che secondo il campo di riferimento, assumeva ora un significato,
ora un altro; ed era uno Spirito “salterino”: non procedeva nel
corso della storia con un moto ripercorribile, ma saltava da un
periodo all'altro, presentandosi con gradi diversi, ed essendo
totalmente assente per lunghi tratti, o in molti luoghi.
La storiografia romantica
La reazione a questa storiografia fu il Romanticismo, con la sua
storiografia nostalgica e quella restauratrice.
Sarebbe riduttivo far consistere la storiografia nostalgica solo in
alcune opere, considerando che fu un sentimento che pervase
direttamente gli animi delle persone a tal punto che venne a crearsi
un nuovo genere letterario: il romanzo storico.
Questa per Croce non può essere considerata una vera
storiografia, ma piuttosto una pseudo – storiografia, quella
poetica.
Per quanto riguarda la storiografia restauratrice, si nota come lo
spirito fosse di cercare le proprie basi nel passato, e appoggiarsi
a esse senza nuovi studi o approfondimenti, e fu una storiografia
che influenzò notevolmente la politica, l'economia e gli
studi a esse collegate (basti pensare a Marx e al suo socialismo).
Come ovvio, neanche questa può essere considerata come la
vera storiografia del Romanticismo, che si concentrò in modo
polemico sulla forma del pensiero illuministico: non ci sarà
più, dunque, il dualismo precedente, né uno Spirito
salterino, bensì ci sarà il concetto di "svolgimento"
della storia. Concetto che prima di allora solo pochi filosofi
isolati avevano utilizzato, ma capendone appieno le implicazioni.
Implicazioni che risaltano e sono al centro del sistema hegeliano,
che sovrasta ogni altro schema, compreso il positivismo
evoluzionistico di Auguste Comte, o gli studi di Schopenhauer.
Ora la Storia, per la prima volta, viene vista in maniera vicina al
vero, ossia come svolgimento necessario, e come tale non accusabile
degli accadimenti negativi al suo interno.
Grande merito c'è, inoltre, per lo sforzo fatto nel cercare
un organico congiungimento di tutte le singole storie di valori
spirituali (valori che vengono ora messi al centro della storia).
E, inoltre, grande riconoscimento va a chi capì che gli
eruditi non potessero essere che storici, e viceversa, formando
così dei sapienti che riunirono in sé filosofia e
filologia.
Grazie a quest'opera, questo secolo fu, giustamente, chiamato
"Secolo della Storia", anche in considerazione del fatto che molte
delle pseudo storie individuate da Croce, furono già
accantonate come erronee dai romantici.
Nondimeno questo secolo non fu esente da gravi errori: basti pensare
che la filosofia della storia, intesa come quella che Croce aveva
avversato tra le pseudo storie, nacque proprio in seno agli
storiografi romantici, che cercarono con questa formula di salvare
quel poco che per loro c'era di buono negli storiografi precedenti,
quando, invece, questo poco non esisteva.
Oltretutto, alcuni tra i più fervidi propugnatori di questa
filosofia della storia, non si accorgevano che, di fatto, il loro
ideale li avrebbe portati a cercare di eliminare proprio
quell'erudizione che era, invece, alla base delle loro stesse
teorie. E, sempre a causa di questa filosofia della storia,
tornarono prepotentemente alla ribalta quelle storie universali che
erano state, invece, faticosamente fatte sparire dalle menti degli
storiografi nei secoli precedenti.
L'età romantica fu, insomma, per Croce un'età
contrastata al suo interno: si passava da chi era stato a un passo
dal capire quale fosse la vera Storia, a chi, invece, vanificava
questi passi in avanti con altrettanti, se non di più, passi
indietro.
La filosofia della storia, aveva fatto saltare tre punti che sono,
invece, basilari per la vera Storia: l'integrità degli
avvenimenti storici; l'unità della narrazione con il
documento e l'immanenza dello svolgimento.
La storiografia positivista
E proprio da questi tre punti partono le tre critiche che, insieme,
formano la storiografia positivista.
La prima cosa che i positivisti criticano duramente è
l'unione di storia e filosofia, seguendo il motto «La Storia
debba essere storia, e non già filosofia»; e criticano,
inoltre, il ricorso smodato alle storie universali, alle quali
preferiscono quelle particolari.
La storiografia positivista si può, in ogni modo, suddividere
in tre filoni: gli storici diplomatici, i filologi e i filosofi.
I primi erano propugnatori della teoria «della via di
mezzo»: non c'erano mai da parte loro delle chiusure decise
nei confronti di qualcuno, o di una qualche teoria, ma c'era sempre
un qualcosa di vero in quello che tutti dicevano.
I filologi propugnavano un ritorno allo studio dei testi come
univoca fonte del sapere.
I filosofi, infine, furono i creatori della sociologia, andando a
ricercare le cause ultime di tutto nel comportamento degli uomini.
Inutile a dirsi, queste tre visioni avevano più punti di
discordia che in comune: ad esempio, gli storici erano fortemente
contrari all'erudizione nuda e cruda propugnata dai filologi, che
d'altro canto accusavano gli storici di un'eccessiva disinvoltura
negli studi e nelle faccende umane; i filosofi, infine, criticavano
storici e filologi perché, a loro modo di vedere, erano
futili, e guardavano le cose unicamente in superficie.
Tutti e tre erano, però, d'accordo su una ferma opposizione
alla trascendenza nella storia, e alla possibilità che la
storia e la filosofia potessero formare una materia, anche solo di
studio, unica.
Indubbiamente, per Croce il Romanticismo è molto migliore del
Positivismo, che non è, però, tutto da buttare. Alcune
cose, infatti, erano state mantenute dal Romanticismo (quali lo
svolgimento, chiamato ora Evoluzione o le diverse fasi della
storia), o addirittura migliorate (come la connessione tra gli
ideali, che ora viene cercata nella maniera più organica
possibile).
Un caso a parte lo merita la connessione tra spirito e natura:
questo dualismo era stato lasciato aperto dai romantici, per cui era
lo Spirito che, alla fine, sovrastava la natura; ora, invece, per i
positivisti è il contrario: la Natura che sovrasta lo
Spirito.
La realtà, però, è che sono in errore entrambi:
questo dualismo non dovrebbe esistere, essendo entrambi parti di un
unicum, che dovrebbe essere indissolubile.
Ultime considerazioni
Per concludere il suo libro, Croce fa un breve accenno a quella che
è la nuova filosofia del suo periodo: una filosofia che
riprende le forme migliori del Romanticismo, sopravvissute al
Positivismo, dichiarato fallito dagli stessi ultimi positivisti.
Non sa come trattarla, perché non può dirla finita,
però non può neanche far finta che non esista, e
dunque ricorre a brevi accenni: dice che è una filosofia che
richiede di guardare dentro sé, e non al di fuori, e che
dichiara che la Realtà è Spirito.
Prendendo le mosse da un libro di Storia appena uscito, Croce dice
anche che bisogna trovare il giusto mezzo tra l'universalismo e il
particolarismo, ma non ci dice come fare. Ma di una cosa è
certo: alla fine, tra tutte le teorie filosofiche ha prevalso,
almeno per ora, l'Hegelismo.
I Marginalia
A concludere veramente il libro ci sono I Marginalia, ovvero una
serie di appunti e riflessioni fatte da Croce durante la stesura
dell'opera, o in momenti successivi.
Indubbiamente l'appunto più importante è quello
riguardante la storia etico – politica, ovvero quella da lui
propugnata: per lui la storia deve puntare soprattutto sui valori
morali e ideali, e sulla vita civile.
Precisa, inoltre, che la sua non è una ricerca della "storia
più storia delle altre", ricerca molto comune, invece, in
quel periodo, ma un'indicazione di studio per chi, invece, cerca una
storia che sia la più vicina possibile all'uomo. Così
una storia della vita morale e della Civiltà.
La storia come pensiero e come azione di Benedetto Croce è il
primo di una serie di saggi che costituiscono l'intera opera
pubblicata nel 1938 che porta lo stesso titolo e che è
così strutturata:
La storia come pensiero e come azione
Lo storicismo e la sua storia
La storiografia come problema storico
La certezza e la verità storica
Storiografia e politica
Storiografia e morale
Prospettive storiografiche
Considerazioni finali
Appendice
Recenti controversie intorno all'unità della storia d'Italia
Noterella filologica
Nell'introduzione al volume Croce sinteticamente accenna al clima
politico in cui l'opera nasce (il fascismo nella sua fase
ascendente) e al significato stesso del tema trattato:
«Un'insistenza particolare è messa in questo volume sul
rapporto tra storiografia e azione pratica» non tanto per
respingere le proteste di chi si pone come portatore di «un
astratto assolutismo morale» e dichiarando di agire in basi a
valori morali assoluti si oppone a quella morale che si invera nella
storia e ne assume la realtà. Questa «gente... ha i
suoi buoni motivi per porre la moralità fuori dalla storia,
ben in alto, la quale posizione ne agevola la riverenza da lontano e
l'inosservanza da vicino...» Quindi non rispondere a questi
ipocriti oppositori è lo scopo dell'opera ma per mostrare
come «il pensiero storico nasce da un travaglio di passione
pratica, lo trascende liberandosene», elaborando cioè
un pensiero vero che si tradurrà in azione.
Il problema sottinteso in questa concezione è quello di
stabilire il rapporto tra teoria e pratica: se la storia è
conoscenza cosa spinge la teoria a concretarsi nella pratica?
La storicità di un libro di storia
Un libro di storia non va giudicato come un libro di buona
letteratura: anche se fosse mal scritto esso conserva il suo
pensiero storico. Un'opera di storia non ha la sua validità
nell'abbondanza delle notizie che esso riporta poiché in
questo caso siamo di fronte alla cronaca non alla storia. Le notizie
riportate dalla cronaca per essere storia devono diventare
«verità nostra, che val quanto dire, prodotta da noi,
sulla nostra esperienza interiore.»
Un libro di storia non è tale se ecciti più o meno la
mia immaginazione o mi commuova o mi annoi: in questi casi ci
troveremo di fronte a opere di vario genere: poetiche, esortatorie,
satiriche.
«Il giudizio di un libro di storia deve farsi, dunque, secondo
la sua s t o r i c i t à » intesa come «un atto
di comprensione e d'intelligenza» che nasca dall'esigenza
pratica che non potrà diventare concreta azione se prima non
diventi chiaro il problema teorico da risolvere. «Un bisogno
di vita pratica» che può essere «un bisogno
morale» che presuppone la conoscenza della situazione in cui
ci si trovi per poi agire bene, o un bisogno economico per decidere
come conseguire il proprio utile o un bisogno d'altra natura.
«Tutte le storie di tutti i tempi e di tutti i popoli»
sono nate per soddisfare nuovi bisogni dopo aver resa chiara la
«situazione reale» di partenza per la loro
soddisfazione. Dalla storia quindi nasce la necessità di
capire, rendere chiaro, risolvere un problema teorico che
troverà la sua soluzione per una successiva azione nella
storia
«Molte volte la storicità di un libro è per noi
inerte o morta» lo leggiamo per erudizione, per piacere
emotivo ma accade che i bisogni del tempo presente che «si
accendono in noi», ci portano a collegarci a quella storia
passata finalmente per capirla e tentare di risolvere così i
bisogni che quelli che ci precederono avevano risolto.
La verità di un libro di storia
Il bisogno pratico che sta a fondamento di ogni conoscenza storica
fa sì che ogni storia sia storia contemporanea, perché
per quanto lontani da noi nel tempo siano i fatti che essa tratta
«essa è in realtà sempre storia riferita al
bisogno e alla situazione presente nella quale quei fatti propagano
le loro vibrazioni».
Quelli stessi che nella storiografia costituiscono i documenti
storici passerebbero dallo storico inosservati se non suscitassero
in lui emozioni, interessi e sentimenti. Ma il bisogno pratico e lo
stato d'animo dello storico non possono di per sé costituire
storia, questa si avrà quando quel materiale darà
luogo alla conoscenza, suprema sintesi di particolare (i fatti) e
universale (la loro interpretazione):
« I fatti dimostrano la teoria, e la teoria i fatti »
L'unità di un libro di storia
L'oggetto che rende unitario un libro di storia è il problema
che lo storico definisce logicamente a conclusione e soluzione del
suo lavoro: si tratta quindi di un'unità logica che non si
ritrova in tutti quei libri che pretendono di scrivere storia ma che
hanno la loro unità non in un problema ma in una cosa come le
storie di una nazione, di una città, di un singolo individuo
o di un gruppo d'individui. Queste se svolte in modo coerente sono
tutt'al più cronache ordinate riguardo ad un oggetto oppure
sono un'incoerente mescolanza di pensieri storici con fantasie.
« ...queste morbose e mostruose storie di cose mostruose e
morbose si manifestano ai giorni nostri come storie
"nazionalistiche" o "razzistiche", e come "biografie" che per una
sorta di consapevolezz che hanno della natura loro, si dicono
"romanzate", cioè si riconoscono da sè non
storiche....Quanta e quale letteratura si produca di questa sorte
particolarmente e anzi quasi unicamente ai nostri giorni in
Germania, sanno tutti. »
Il significato storico della necessità
«Il giudizio nel pensare un fatto lo pensa quale esso è
e non già come sarebbe se non fosse quello che
è...Questo è il significato della necessità
storica.»
La storia non può essere divisa in fatti necessari e in fatti
contingenti. Immaginare una storia diversa da quella che è
stata "se" si fosse verificato un certo fatto, è un gioco
della nostra fantasia.
Una necessità che dobbiamo escludere dalla storia è
poi quella che ci fa pensare che ci sia una catena di fatti nella
quale i precedenti determinano i successivi, in una sorta di
rapporto di causa ed effetto. Ma il concetto di causa appartiene
alla scienza e non alla storia e nessuno storico è mai
riuscito a dimostrare che un evento si sia prodotto per delle cause
determinanti. In realtà noi abbiamo la tendenza a ricercare
una causa necessitante nell'evento che attraversiamo quando
presupponevano che si verificasse il fatto atteso e invece se ne
è verificato uno inaspettato.
È pur vero che nella storia c'è una logica
«perché se la logica è nell'uomo è anche
nella storia» la quale appunto l'uomo pensa logicamente; ma la
logica della storia non è quella che viene chiamata
logicità, cioè l'idea che nella storia ci sia un
progetto, un piano predeterminato a cui gli avvenimenti si adeguano
e si svolgono secondo quanto stabilito, e che tocca allo storico
identificare e rivelare. Gli storici siffatti si sono sempre trovati
nella difficoltà di trovare i documenti a sostegno di questo
progetto trascendente la storia. «Al pari della
causalità, il Dio trascendente è straniero alla storia
umana...»
Collegata a questa idea della necessità storica è
quella che si possa prevedere il corso degli eventi
«perché se del programma divino era rivelato l'atto
ultimo (per esempio la venuta dell'Anticristo, la fine del mondo...)
[di] tutto il resto intermedio tra il presente e quello [...] un
qualche tratto ne poteva essere per grazia rivelato a qualche pio
uomo...».
Il medesimo atteggiamento si ritrova nella concezione causalistica
della storia ma alla fine sia la prima idea di prevedibilità
falliva dinanzi alla imperscrutabile volontà di Dio, sia la
seconda si trovava avviluppata nella complessità delle cause
degli eventi.
La conoscenza storica come tutta la conoscenza
« Non basta dire che la storia è il giudizio storico,
ma bisogna soggiungere che ogni giudizio è giudizio storico,
o storia senz'altro. Se il giudizio è rapporto di soggetto e
predicato, il soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si
giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un
processo in corso, perché fatti immobili non si ritrovano
né si concepiscono nel mondo della realtà. [...] per
esempio che l'oggetto che mi ritrovo dinanzi al piede è un
sasso e che esso non volerà via da sé come un
uccellino al rumore dei miei passi, onde converrà che io lo
discosti col piede o col bastone, [anche questo è un fatto
storico] perché il sasso è un processo in corso che
resiste alle forze di disgregazione o cede solo poco a poco, e il
mio giudizio si riferisce a un aspetto della sua storia. »
Ogni conoscenza, come quella rappresentata dal giudizio storico
è collegata alla vita, all'azione che interverrà, come
nel caso del sasso che dopo aver conosciuto come un impaccio,
scanserò dal mio percorso.
Non esiste un conoscere per il conoscere: senza lo stimolo pratico
non vi è neppure conoscenza.
Si è voluto anche distinguere una conoscenza filosofica
rivolta alle cose del cielo da cui essa attende che le provenga la
verità. Ma questa filosofia trascendente è stata
sottoposta al giudizio critico della storia che l'ha interpretata
come nascente da bisogni storicamente determinati di modo che alla
fine è stata "storicizzata" al punto che essa «non
è più filosofia ma storia o, che viene a dire il
medesimo, filosofia in quanto storia e storia in quanto
filosofia.»
Le categorie della storia e le forme dello spirito
Avere escluso la trascendenza dalla storia ha generato l'errore di
negare la distinzione delle categorie dal giudizio poiché si
dice che quando esprimo un giudizio, ad esempio: «questo
quadro è bello» la categoria della bellezza
verrà storicizzata, si immedesimerà con quella
particolare pittura perdendo ogni carattere di trascendenza.
L'errore qui consiste nella confusione di distinzione e
trascendenza. Le categorie infatti non cambiano: il cambiamento
riguarda i nostri concetti sulle categorie: cambierà il
nostro intendere la bellezza ma la categoria di bellezza
rimarrà costante e distinta dalla storia.
La distinzione di azione e pensiero
Una distorta concezione dell'immanenza ha portato a voler negare
quello che la filosofia e il senso comune hanno sempre riconosciuto:
la distinzione tra il pensiero e l'azione.
Certo il pensiero è anche azione e che quindi «il
pensiero non stia fuori dalla vita, ma anzi sia funzione vitale,
è da considerare risultamento di tutta la filosofia
moderna» ma volere con questo negare che ci sia una
distinzione tra conoscenza e volontà, tra pensiero e azione
è un sofisma che va superato considerando che il
pensiero-conoscenza precede sempre l'azione, la prassi e «se
il conoscere è necessario alla praxis, altrettanto la praxis
è necessaria al conoscere» quando appunto si osservi
come il pensiero attivamente «porga e risolva problemi».
Così pensiero e azione realizzano la circolarità dello
spirito mentre «identificato con la volontà e coi fini
della volontà, il pensiero cesserebbe di essere creatore di
verità e, facendosi tendenzioso, decadrebbe a menzogna; e la
volontà e l'azione, non più rischiarata dalla
verità, si abbasserebbe a spasimo e furore passionale e
patologico.» Ma questo non accade perché lo spirito si
oppone a che «gli interessi pratici [cerchino] di attraversare
e sviare la logica della verità e di continuo lavora a
cangiare la cieca passionalità in illuminata volontà e
azione.»
Purtroppo la negazione della unità-distinzione tra pensiero e
azione non rimane un'affermazione astratta e assurda poiché
«è favorita da ben note malsanie dei nostri tempi [...]
Basta guardarsi attorno [...] per trovarsi dinanzi le manifestazioni
dell'indifferenza e dell'irriverenza per la critica e la
verità e l'attivismo privo di ideale e tuttavia irruente e
prepotente»
La storiografia come liberazione dalla storia
In questi tempi malsani assistiamo ad una serie di accuse di essere
proprio il pensiero storico, lo "storicismo", la causa di queste
storture; lo si accusa di fatalismo, di passatismo, di quietismo:
accuse, atteggiamenti e comportamenti che non hanno a che fare con
la storia ma con la morale e tutt'al più con i difetti dello
storico come accade con il conservatorismo di Hegel. In vero il
pensiero storico esprime tutto l'opposto di quei comportamenti.
Noi siamo prodotti del passato: per compiere azioni nuove e
dirompenti con il passato che è in noi: l'unica via è
quella di analizzare con il pensiero il passato, «ridurlo a
problema mentale, e risolverlo in una proposizione di verità,
che sarà l'ideale premessa per la nostra nuova azione e nuova
vita.» È del resto quello che accade nella vita comune
di tutti noi quando, attraversando una fase difficile, invece di
ripiegarci inerti su noi stessi a commiserarci, esaminiamo quali
errori abbiamo compiuto, programmiamo come rimediarvi e, infine,
agiamo.
La storiografia, intesa come esame critico del passato e fonte di
conoscenza vera, ci libera dalla storia del passato e ci avvia
all'azione.
La storiografia come premessa della lotta del valore col disvalore
Gli avversari della storiografia sostengono la beatitudine dei
popoli privi di storia ed esaltano quella storia fatta di semplici
fatti senza alcuna interpretazione di essi così come
sosteneva Ranke: «Esporre le cose così come
propriamente sono state». Ma in vero i fatti non si possono
esporre senza determinarne la qualità: dovremo sempre capire
se si tratti di un fatto politico, religioso o di altra natura e per
questo sarà necessario giudicarlo, formulare su di esso un
giudizio, inteso come atto del pensiero.
Da questo giudizio, inteso come «legame del predicato di
esistenza dal predicato qualificativo»[2] è da
escludere quello morale che si avanza nei confronti di eventi e
personaggi del passato. Questa è veramente una pronunzia di
condanna o di assoluzione nei confronti di uomini che non vivono
più. Questi ormai «non sono responsabili dinanzi a
nessun nuovo tribunale appunto perché uomini del passato,
entrati nella pace del passato, e come tali oggetto solo di storia,
non sopportano altro giudizio che quello che penetra nello spirito
dell'opera loro e li comprende. Li comprende e non già
insieme...li perdona, perché ormai stanno al di là
dalla severità e dall'indulgenza, come dal biasimo e dalla
lode.»
«Solo il giudizio storico, che libera lo spirito dalla stretta
del passato...mantiene la sua neutralità , ed attende
unicamente a fornire la luce che gli si chiede...ed apre la via allo
svolgersi dell'azione» concreta che dovrà travagliarsi
per far prevalere il bene contro il male, l'utile contro il dannoso,
il bello contro il brutto, il vero contro il falso.
« Il letteratuccio dei vecchi tempi, adulatore dei potenti del
giorno, era sempre pronto ed instancabile a sermoneggiare e
condannare i personaggi della storia, avvolgendosi nella
dignità di storico togato, austero e incorruttibile; tranne
il caso che quei personaggi non trovassero nel presente altri
potenti che ne prendevano a cuore la riputazione a tutela della loro
propria, poiché allora colui prontamente cambiave registro.
Bisogna impedire che questo vecchio tipo di storiografo ,
così adatto ai tempi servili, ricompaia nei nostri tempi,
desiderabilmente non servili; ma la sospirata restaurazione della
storiografia tribunalizia prenunzia , o certamente favorisce la sua
riapparizione. »
La storia come azione
La storiografia, la conoscenza della realtà, si traduce nel
fare secondo le quattro forme della vita dello spirito, nella sfera
del bello, del vero, dell'utile, del buono tramite un agire che
«tutte le anima...il principio della libertà, sinonimo
dell'attività o spiritualità , che non sarebbe tale se
non fosse perpetua creazione di vita» . La stessa
attività è caratterizzata dal progresso che, al di
là delle apparenze, non cessa mai di essere nella storia:
«non c'è mai decadenza che non sia insieme formazione o
preparazione di nuova vita, e, pertanto progresso.»
Gli scettici e i negatori del progresso nella storia sono coloro che
si illudono di poter vivere una vita facile e comoda e immaginano
un'età di progresso infinito: un'illusione, la loro,
destinata a scomparire. Così coloro che non accettano i
travagli della vita vissuta negano il progresso relegandolo in un al
di là fantasticato.
Anche nella filosofia hegeliana il progresso era concepito come
«uno stato terminale e paradisiaco» dove esso si arresta
«di sé soddisfatto e beato» giungendo così
ad una perfetta stasi dove la vita non è più vita.
L'attività morale
Il fine dell'attività morale, escludendo quella che si limita
ad obbedire ai comandamenti divini e quella che afferma che essa
consiste nell'ascesi cioè nella rinuncia a vivere, è
quello di promuovere la vita.
Le forme dello spirito assolvono già a questo compito con la
creazione di opere di bellezza, utilità, verità alle
quali la morale aggiunge la volontà di combattere il male per
il trionfo del bene. Bene e male sono la vita stessa.
La morale attraversa tutte le forme dello spirito e le loro opere:
« L'attività morale che per un verso non fa alcuna
opera particolare, per un altro verso essa le faccia tutte , e regga
e corregga l'opera dell'artista e del filosofo, non meno che quella
dell'agricoltore, dell'industriale...rispettandole nella loro
autonomia e di tutte convalidando l'autonomia col mantenere ciascuna
nei suoi confini. »
La storia come storia della libertà
L'asserzione di Hegel che "la storia sia storia di libertà"
era inquadrata nella sua concezione dialettica della libertà
vista nel suo iniziale nascere, nel successivo crescere ed infine
nel raggiungimento di uno stadio finale e definitivo di
maturità.
Croce fa proprio questo detto hegeliano chiarendo però che
non si vuole «assegnare alla storia il tema del formarsi di
una libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma
per affermare la libertà come l'eterna formatrice della
storia, soggetto stesso di ogni storia. Come tale essa è per
un verso , il principio esplicativo del corso storico e, per
l'altro, l'ideale morale dell'umanità.»
Alcuni storici, senza ben rendersi conto di quello che scrivono,
sostengono che ormai la libertà ha abbandonato la scena della
storia. Ma affermare che la libertà è morta vorrebbe
dire che è morta la vita. Non esiste nella storia un ideale
che possa sostituire quello della libertà «che è
l'unica che faccia battere il cuore dell'uomo, nella sua
qualità di uomo.»
Ma si dice che queste affermazioni sono il tipico parlare del
filosofo perso in un mondo tutto suo lontano da ogni realtà:
di fronte alle sopraffazioni, violenze, persecuzioni e altri simili
terribili eventi di cui è ricca la storia umana, sembrebbe
che sostenere che la storia sia storia di libertà apparirebbe
come una «balordaggine»
Ma la filosofia non si lascia sopraffare dall'immaginazione: essa
interpreta razionalmente la realtà. «Così,
indagando e interpretando , essa, la quale ben sa come l'uomo che
rende schiavo l'altro uomo sveglia nell'altro la coscienza di
sé e lo avviva alla libertà, vede serenamente
succedere a periodi di maggiore altri di minore libertà,
perché quanto più stabilito e indisputato è un
ordinamento liberale, tanto più decade ad abitudine, e,
scemando nell'abitudine la vigile coscienza di sè stesso e la
prontezza della difesa, si dà luogo ad un vichiano ricorso di
ciò che si credeva non sarebbe mai riapparso al mondo, e che
a sua volta aprirà un nuovo corso.»
Nei tempi in cui è diffusa la libertà gli uomini hanno
l'impressione che siano molti quelli che condividono i loro
sentimenti, al contrario nei tempi illiberali si ha l'impressione di
essere in solitudine o quasi. Ottimistica la prima illusione come
pessimistica la seconda. La filosofia renderà chiaro che la
storia non è un idillio ma neppure una tragedia di orrori, un
dramma dove i protagonoisti sono colpevoli-incolpevoli «misti
di bene e di male, e tuttavia il pensiero direttivo è in essa
sempre il bene, a cui il male finisce per servire da stimolo...la
libertà non può vivere diversamente da come è
vissuta e vivrà sempre nella storia, di vita pericolosa e
combattente...un mondo di libertà senza contrasti...senza
oppressioni [è] un'immagine peggio che della morte, della
noia infinita.»
Cultura e vita morale è un'opera di Benedetto Croce,
pubblicata per la prima volta nel 1914 dall'editore Laterza. Per la
stessa casa editrice ne è uscita una seconda edizione
raddoppiata nel 1926 ed una terza nel 1955. Infine ristampata, nel
1993, da Bibliopolis, che ha in corso la pubblicazione dell'edizione
nazionale delle opere di Croce.
« Il mondo corre rapido, e spesso non facciamo a tempo neppure
a dir male dei mali, perché, mentre stiamo terminando
proposizione incominciata,
quei mali già sono trapassati e sostituiti da altri! »
(B. Croce, «Avvertenza» a Cultura e vita morale, Bari
1914)
I temi trattati
Giustino Fortunato
Dedicato a Giustino Fortunato, il volume raccoglie una serie di
interventi, o più precisamente di Intermezzi polemici
(sottotitolo dell'opera), usciti per lo più nella rivista La
critica, mediante i quali il filosofo intendeva chiarire degli
aspetti pregiudizievoli che si configuravano come ostacoli alla
circolazione di idee di ordine sociale e politico. Pur essendo
trascorso del tempo dalla loro pubblicazione, con la conseguente
perdita di efficacia, Croce riteneva che la loro raccolta in volume
potesse essere ugualmente di giovamento.
Si tratta, quindi, di riflessioni polemiche sotto forma di articoli
che toccano ambiti e temi diversi, caratterizzati, tuttavia, dalla
ricerca di una risposta che, come precisava l'autore, era costruita
attraverso il passaggio dall'analisi etica a quella logica, come suo
bisogno di segnalare i mali della società, mettendone in
guardia senza indulgere alla «predica moralistica o
filosofica». Sotto quest'aspetto, il volume raccoglie
spunti sul risveglio filosofico in relazione alla cultura
italiana, sulla rinascita dell'idealismo e del positivismo,
come sulla filosofia e sul metodo empirico e sulla pietra di
paragone delle diverse posizioni. Vi si affermano, inoltre, le
contraddizioni degli scrittori, la mancanza di senso scientifico
nei testi filosofici, l'attualità del pensiero di
Giordano Bruno, al pari delle riflessioni volte a contrastare il
regionalismo, la massoneria, l'astrattismo e il materialismo della
politica.
Ad articoli sulla critica letteraria e sulla libertà di
coscienza, ne seguono altri, poi, riservati all'universo
giovanile.
I laureati al bivio
Fra i temi riservati alle "nuove leve", si segnalano gli intermezzi
su L'aristocrazia e i giovani[13] e, in particolar modo, I laureati
al bivio. Il bivio rappresenta, in sostanza, la scelta che devono
compiere, fra insegnamento e giornalismo, i giovani usciti dalle
facoltà di Lettere e filosofia, quelli che non hanno
possibilità di far altro se vogliono avere di che vivere,
perché «Corti e mecenati, benefizî e prebende,
che facevano vivere i Petrarchi, gli Ariosti e i Tassi, non sono
più cose dei tempi nostri».
In Scienza e università, fra i più attuali articoli
compresi nel volume, Croce poneva l'attenzione sui mali
dell'accademia italiana, per combatterne il mondo ma non già
l'istituzione: «Chiunque osservi la vita universitaria,
è continuamente offeso da manifestazioni pesudoscientifiche,
che sono manifestazioni d'interessi. Raro è ormai che i
giovani, che si dànno agli studî di filosofia, abbiano
quel periodo di lotta interna, di angoscia, di tristezza, che
precede ogni serio convincimento. I più, sotto la spinta
della ricerca di collocamento, a vent'anni, hanno già preso
il loro partito». Il pragmatismo di quel mondo, se lo si
osservava a fondo, non confluiva come avrebbe dovuto, a detta del
filosofo, nella ricerca e nei dibattiti scientifici, ma era
finalizzato soltanto ad una mera promozione, «una promozione
da "straordinario" a "ordinario"», oppure al soddisfacimento
di un desiderio, del «passaggio da una cattedra a un'altra, da
un'università a un'altra».
Sempre nello stesso contesto, da un esempio all'altro, Croce
evidenziava anche quei professori che, una volta vinti i concorsi,
sistemavano «il loro cervello come una casa nella quale si
conti passare comodamente tutto il resto della vita», e che si
attivavano solo quando veniva leso il loro status, dunque non per la
difesa di una verità ideale ma per quella, materiale, della
posizione acquisita. Secondo l'autore, per questi mali delle
università italiane serviva, non la contrapposizione fra
scienza e scienza, non la distruzione di un istituto, ma un rimedio
da cogliere nel sentimento: «sentimento della dignità,
nella libertà interiore, nello scrupolo morale, nella forza
del volere». Perché queste «disposizioni
morali», concludeva il Croce, non erano privilegio di
nessuno.