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DBI
di Andreina De Clementi
Nacque ad Imola il 30 nov. 1851 da Pietro Casadio e da Rosa Tozzi.
Il padre, che sposò poi in seconde nozze Teresa Selvatici,
era domestico in casa Orsini; Orso Orsini fu padrino di battesimo
del suo primo figlio, e per lui suggerì il nome di Andrea; il
cognome Costa era quello del presunto nonno paterno. Pietro Casadio
nel 1861 lasciava gli Orsini e apriva una bottega di granaglie.
Imbevuto dei clima sanfedista allora imperante ad Imola,
città che vantava i natali di G. M. Mastai Ferretti, avrebbe
voluto avviare il figlio al seminario. Il giovane C.
frequentò invece il liceo di Bologna.
Nel 1866 tentava inutilmente di arruolarsi tra i garibaldini, una
prima volta dichiarando di avere 17 anni, e una seconda volta
insinuandosi sul treno che portava a Brescia i volontari imolesi, ma
fu scoperto e rimpatriato dalla polizia. Finito il liceo, dovette
impiegarsi come scritturale nell'agenzia imolese delle Assicurazioni
generali di Venezia. Contemporaneamente, si iscrisse come uditore
alla facoltà di filosofia e lettere di Bologna; spesso, per
frequentare i corsi, doveva percorrere a piedi i trentacinque
chilometri di distanza da Imola. Fu assiduo alle lezioni di G.
Carducci, che lo prese a benvolere (lo chiamava "il romagnolino") e
con lui avrebbe intrattenuto un lungo rapporto fatto di affettuosa e
reciproca stima. L'insegnamento del Carducci lasciò un segno
indelebile nella sua formazione, ne definì e coordinate
umanistiche e lo sfondo ribellistico-retorico. Le ristrettezze
finanziarie indussero il C. a inoltrare al sindaco di Imola due
richieste di sussidio. La prima non ebbe risposta; la seconda,
corredata da una presentazione del Carducci, fu respinta con una
motivazione che rinviava alla "sua fama di ribelle ad ogni
tradizione". Il diniego segnò la sua sorte: alla fine del
1871 il C. abbandonava gli studi.
Il 27 novembre dello stesso anno era sorto a Bologna il Fascio
operaio locale. Oltre ad essere la prima filiazione
dell'Internazionale in Emilia, era anche la prima organizzazione
regionale libera dalla tutela del Mazzini. Sull'onda dell'entusiasmo
per la Comune di Parigi e tramite E. Bignami il C. si iscrisse
all'Associazione internazionale dei lavoratori, e il Consiglio
generale di Londra gli attribuì la matricola 1243.
Rivelò subito un'attitudine di leader e il suo orientamento
influenzò quello di tutto il gruppo; collaborava al periodico
dell'associazione bolognese (Fascio operaio. Periodico democratico
sociale organo dell' associazione di tal nome della sezione di
Bologna) diretto da E. Pescatori, e cominciò a prodigare
tutte le sue energie nell'attività politica.
"Tutto ricadde su di me", scrisse nel diario redatto in carcere nel
1898 rievocando quel periodo (cit. in Schiavi) "ed io mi presi
addosso tutto. Non v'era compito che mi spaventasse, che mi
imbarazzasse. Giornale, corrispondenza, propaganda, discorsi,
amministrazione". Il suo attivismo divenne in breve proverbiale, e i
risultati non mancarono. Dell'impegno del C. in questo periodo resta
la testimonianza resa dal procuratore del re nella requisitoria al
processo di Bologna del 1876. Questi gli attribuì, non senza
una punta d'ammirazione, "il rapido formarsi dell'Internazionale
italiana", e a sostegno di ciò esibì la documentazione
contenuta nel carteggio della Commissione di corrispondenza della
Federazione italiana, relativo al 1872-71 sequestrato dalla polizia
all'imputato F. Natta. Il carteggio era, secondo il procuratore, "un
monumento prezioso, che rivela quale fosse la di lui [del C.]
prodigiosa attività, qual predominante influenza esercitasse
e come in breve tempo riuscisse a dare alla Federazione un
organamento e un assetto vigoroso e promettente". Il C. fu insomma
il protagonista del primo anarchismo italiano, e la sua biografia fu
per qualche tempo inscindibile dalla storia di quest'ultimo.
La ripulsa del Mazzini per la Comune di Parigi aveva diviso e messo
in crisi gli ambienti internazionalisti italiani e aperto una fase
di competizione e di confronto. In questo clima si svolse il primo
congresso del Fascio operaio di Bologna (17-19 marzo 1872), dove
intervennero quattordici sezioni emiliane. Il gruppo romagnolo fece
blocco con i napoletani e questo connubio garantì il successo
alla tendenza più radicale; la vecchia direzione E.
Pescatori-C. Ceretti, di matrice garibaldina, venne sostituita di
fatto dal binomio L. Nabruzzi-A. Costa, reso più forte da un
accordo intervenuto tra quest'ultimo e C. Cafiero.
Era dunque in atto un tentativo di emancipazione dai padri fondatori
della democrazia italiana, e il C., che era stato tra i primi a
resistere al carisma del Mazzini, non era più tenero con
l'altro: o Garibaldi - aveva scritto - è per noi più
pericoloso di Mazzini. Alla fine le teorie mazziniane sono un tutto
organico che possiamo combattere per mezzo della scienza e che il
popolo non comprenderà mai; ma la dittatura militare
garibaldina è una terribile realtà, alla quale non
manca che l'occasione favorevole per manifestarsi e che troverebbe
facilmente la sua sanzione nella coscienza popolare" (cit. in
Schiavi).
Le cause del distacco dal Mazzini non erano soltanto di ordine
ideologico; richiamando infatti l'attenzione sulle campagne, il
congresso di Bologna pose anche le premesse sociologiche di una
strategia alternativa. Se non è dato sapere quanto ciò
fu dovuto all'iniziativa dei C., è certo però che egli
vi si impegnò col consueto fervore e divenne in breve un
"propagandista della domenica", approfittava cioè della
giornata festiva per diffondere tra i contadini i germi della
rivolta sociale. Questa esperienza, derivata dalle suggestioni
populiste importate da M. Bakunin, arricchì il C. di una
capacità di penetrazione del mondo contadino che
resterà una dimensione peculiare del suo approccio alla
politica e che verrà poi smarrita dal socialismo italiano.
Quando si costituì la Federazione italiana
dell'Internazionale (Rimini, 4-6 ag. 1872), il C. fu nominato
segretario della Commissione di corrispondenza con sede a Bologna. A
Rimini, la dissociazione dal repubblicanesimo mazziniano e dal
democratismo garibaldino progredì ed ebbe nel C. il suo
più convinto assertore. Questo radicalismo, l'atteggiamento
distaccato e la propensione per i toni sferzanti rinviavano anche
alla età giovanile del C.; a differenza di gran parte degli
altri militanti, la sua adesione all'Internazionale non era un punto
d'approdo: egli apparteneva alla nuova generazione che non aveva
vissuto gli entusiasmi, le illusioni e le aspettative del periodo
risorgimentale. Ma rinnegare un passato come questo non era impresa
dappoco, e neppure un'esigenza così imprescindibile. Fatto
sta che G. Garibaldi fece pervenire a Rimini la sua adesione, e la
sua versatilità politica lo rese padrino anche della nuova
organizzazione. La conferenza di Rimini fu l'esito di un travagliato
processo di aggregazione, ma fu anche la sede del primo emergere di
contrasti destinati ad approfondirsi col tempo. Il C. trovò
un valido alleato in C. Cafiero, più versato nella
problematica teorica. I due si schierarono contro O. Gnocchi Viani,
che poneva l'accento sugli interessi materiali della classe operaia,
e gli contrapposero l'organizzazione politica e il lavoro
cospirativo. Entrambi erano dunque conquistati allo universo
simbolico di M. Bakunin e si preparavano a capeggiare la secessione
dal Consiglio generale di Londra.
La controversia italiana venne temporaneamente sdrammatizzata al
congresso antiautoritario di Saint-Imier (15 sett. 1872) grazie a
una duplice formula organizzativa, che prevedeva una struttura
pubblica e ampia fondata su un solidarismo e una
conflittualità operaia innestati su aspettative
escatologiche, e una ristretta e segreta, invece, dedita alla
cospirazione antistatale.
Il C. aveva preliminarmente inviato alle federazioni spagnola e
belga un messaggio di esortazione all'autonomia dal Consiglio
generale di Londra, e la delegazione italiana, comprendente anche C.
Cafiero, L. Nabruzzi, E. Malatesta e G. Fanelli, fu una delle
protagoniste dei congresso. Lo statuto approvato in quella sede
adottò per l'organizzazione cospirativa il modello massonico:
gli affiliati erano inquadrati in una struttura gerarchica al
vertice della quale si trovavano i "fratelli internazionali",
seguivano i "fratelli nazionali" e infine, alla base della piramide,
i "fratelli provinciali". Gli unici "internazionali" italiani erano
C. Cafiero, il C., L. Nabruzzi, G. Fanelli e E. Malatesta, ma "solo
il primo e l'ultimo pare possedessero tutto il cuore del loro
maestro" (Romano).
Dopo Saint-Imier, l'iniziativa internazionalista si
intensificò. Il C. si trattenne qualche settimana in Svizzera
presso M. Bakunin per compilare un Programma oggetto della
Federazione italiana. Sotto la guida di quest'ultimo, preparò
anche un giornale, La Rivoluzione sociale, da introdurre e
diffondere clandestinamente in Italia. Bakunin stava allora
meditando su un piano insurrezionale di raggio europeo con epicentro
in Italia e in Spagna. La rivoluzione spagnola del 1873
sembrò confermarne la fondatezza, e gli ambienti
internazionalisti italiani ne furono galvanizzati. L'appuntamento
decisivo fu il congresso federale di Bologna (15-17 marzo 1873). che
si svolse in un clima movimentato. Era stato in origine convocato a
Mirandola, ma qui, il 15 marzo, vennero effettuati alcuni arresti;
il C. venne avvertito per tempo dal Nabruzzi e riuscì a
dileguarsi. A Bologna si tenne tra l'altro una seduta speciale e
riservatissima su C. Terzaghi, leader del gruppo torinese, di cui
era stata accertata l'attività delatoria. In base a una
relazione preparata dal C., ne fu decretata l'espulsione.
Alla conclusione dei lavori il C. venne arrestato con altri compagni
e rimase in carcere per due mesi. Ma le autorità non
riuscirono a trovare prove sufficienti a condannarli: i documenti
sequestrati al momento dell'arresto erano già comparsi sui
giornali e non potevano fungere da corpi di reato.
Uscito di prigione, si gettò di nuovo a capofitto nel lavoro
organizzativo. Fondò nuove sezioni nelle Marche, in Romagna,
in Emilia e in Toscana; organizzò a Bologna due gruppi di
studenti e due di donne, e fu in quell'occasione che conobbe
Violetta Dall'Alpi, una sartina quindicenne, figlia di un tipografo
internazionalista, segretaria della sezione bolognese. Il C. se ne
innamorò e da quel legame sarebbe nato il suo primo figlio,
Andreino.
Partecipò quindi al congresso dell'Internazionale
antiautoritaria tenuto a Ginevra (16 sett. 1873), delegato dalla
federazione umbro-marchigiana, dalle sezioni di Venezia, Poggibonsi,
Siena, Imola, Faenza, Pisa, Menfi e dai circoli di propaganda
socialista di Taranto e di Palermo. Tracciò una breve storia
della Federazione italiana e delle cause del suo rapidissimo
sviluppo; disapprovò l'esclusivismo operaio recepito dallo
statuto generale in funzione dei rapporti col gruppo marxista, e
contrappose lo sciopero generale, integrato nel programma
insurrezionale, allo sciopero parziale, che definì "polvere
negli occhi".
Le tensioni sociali avevano intanto raggiunto in Italia il livello
di guardia; nel novembre, il C. fotografava in termini solo
apparentemente generici lo stato di estremo disagio e di profonda
inquietudine delle classi subalterne: "La miseria che aumenta con
l'avvicinarsi dell'inverno, gli errori e gli atti arbitrari del
governo, la colpevole indifferenza di chi è felice, fanno
ingrossare il malcontento e le passioni rivoluzionarie delle plebi
affamate. Interrogate gli operai delle campagne, interrogate quelli
delle città: tutti vi diranno che non può più
andare così, che bisogna farla finita con i signori e che il
popolo sa che cosa deve fare per risolvere la situazione" (lettera
del 28 nov. 1873, pubbl. da: Boll. della Fed. italiana, 7 dic.
1873).
In dicembre incontrò con altri in Svizzera Bakunin e Cafiero
e fu messo a punto il progetto insurrezionale. Si decise di
sollecitare la mobilitazione di altri gruppi e di provvedere ad
iniziative di propaganda; la Federazione si mutò in Comitato
italiano per la rivoluzione sociale. Il C., sempre instancabile,
compì alla fine dell'anno innumerevoli viaggi per la
penisola, dove, in seno alle federazioni più numerose,
promosse la costituzione di comitati dell'Alleanza, e parecchi in
Svizzera, per tenere i contatti con Bakunin. La polizia, forse
preavvertita da C. Terzaghi, era al corrente dei suoi movimenti.
Sotto la supervisione di Bakunin, redasse i tre Bollettini del
Comitato e due Manifesti, dei quali ultimi il primo, del gennaio
1874, venne spedito a Firenze, nuova sede della Commissione di
corrispondenza, stampato e affisso a Roma; il secondo, che
parafrasava un manoscritto di Bakunin, era indirizzato "al popolo
italiano" e venne reso noto nel marzo. Il primo Bollettino
uscì a capodanno, il secondo il 2 maggio, e in questo si
leggeva tra l'altro: "Non date ascolto a Garibaldi; il socialismo
quale egli lo intende è un equivoco; quelle che egli chiama
le esagerazioni dei socialisti sono i principi fondamentali; egli
vorrebbe che le associazioni operaie dovessero essere press'a poco
tante Società di mutuo soccorso: togliete alle medesime il
programma e il carattere rivoluzionario e saranno la più
meschina cosa del mondo, di cui rideranno i borghesi. Su via,
rovesciamo questo mondo che ci schiaccia, distruggiamo questa
società che ci rinnega, vendichiamo tutte le onte, gli
insulti, le ignominie, le abbiezioni che soffrimmo e che soffriamo".
Il terzo appello, del luglio, fu il segnale dell'insurrezione,
rivolto al popolo e all'esercito "Perché s'uniscano ai
ribelli per abbattere il privilegio, insorgendo tutti contro i
poteri costituiti".
Mentre fervevano questi preparativi, il C. fu coinvolto in un
episodio che dà la misura del prestigio da lui raggiunto in
questo periodo nelle campagne romagnole, di un legame con le masse
contadine che né il passare del tempo né il mutare
della situazione riusciranno ad incrinare, e che non sarà
peraltro scevro da una sua angustia regionale. Il disagio annonario
aveva già provocato tumulti in quasi tutto il paese. Il 2
luglio 1874 un gruppo di donne esasperate si raccolse alla stazione
di Imola per impedire la partenza di tre vagoni di grano; un
centinaio di uomini si tenevano in disparte, silenziosi, pronti a
farsi avanti in loro aiuto alla prima occasione. Un drappello di
carabinieri teneva a bada i dimostranti. L'atmosfera si stava
surriscaldando quando il C. scese dal treno proveniente da Bologna.
Le donne gli si fecero incontro chiamandolo per nome e
sollecitandolo a intervenire. Il C. parlamentò con gli uni e
con gli altri, e riuscì a scongiurare la partenza del grano.
La data dell'insurrezione venne fissata al congresso straordinario
di Bruxelles (12 ag. 1874). Il C. lesse un rapporto della
Commissione di corrispondenza della Federazione italiana e
dichiarò di poter contare su 30.000 uomini., 4.000 fucili
Wetterly e 1.000 bombe. Le armi erano state acquistate con gli
ultimi residui del patrimonio di C. Cafiero e raccolte dal C. e da
E. Malatesta alla Baronata, la residenza svizzera di Bakunin. Nel
tentativo di coinvolgere i repubblicani, venne convocato a Genova un
convegno segreto che non approdò a nulla, e C. Ceretti
accusò in seguito il C. di aver fatto precipitare le cose per
contrastare un'alleanza a lui sgradita. L'inizio dell'insurrezione
fu comunicato alle sezioni dell'Internazionale con la frase
convenzionale: "Le note operazioni commerciali saranno notificate in
agosto". Il C., che aveva assunto per l'occasione lo pseudonimo di
Antonio De Andreis, era di fatto il primo aiutante di campo di
Bakunin, che dell'insurrezione era il capo. L'epicentro prescelto
era Bologna e lìvenne fissato il quartier generale; ma
l'inopinato arresto del C., il 5 agosto, provocò un subitaneo
disorientamento tra i congiurati e, malgrado sporadiche
sollevazioni, decretò il fallimento dell'impresa e l'arresto
di una folta schiera di internazionalisti. Il 9 agosto il governo
sciolse tutte le sezioni dell'Internazionale, la cui direzione fu
assunta dal Cafiero.
Dalla delusione si passò alle recriminazioni: il C. fu
accusato di ottimismo e di superficialità, errori che
più tardi, nel diario del 1898, ebbe anch'egli ad ammettere.
Rimase in carcere fino al 18 giugno 1876. Passava il tempo immerso
nello studio delle lingue straniere, l'inglese, il russo e lo
spagnolo; non dimentico della sua formazione umanistica, leggeva
Plutarco, Platone, Dante. I processi agli internazionalisti
mobilitarono l'opinione pubblica assai più di ogni loro
precedente iniziativa autonoma. La generosità e la
dignità del contegno degli imputati, nonché
l'impopolarità dello Stato che essi avrebbero voluto
abbattere, suscitarono in tutto il paese una viva ondata di
simpatia. Il filosofo E. Ferrari sconcertò gli ambienti
democratici pronunciando alla Camera un discorso in loro difesa.
Il C. fu il protagonista assoluto del processo di Bologna, che
convogliò l'attenzione maggiore. Lo difendeva un principe del
foro, l'avvocato repubblicano G. Ceneri, e a deporre in suo favore
si presentarono l'antico maestro G. Carducci e il leader
repubblicano A. Saffi. La partecipazione popolare divenne imponente
il giorno dell'interrogatorio del C.: "Quando si seppe in
città che esso doveva avere inizio", si legge nel resoconto
comparso sul Bulletin della Fédération jurassienne del
24marzo 1876, "la folla accorse in proporzioni maggiori del solito.
Si è notato che gli allievi delle scuole hanno abbandonato le
lezioni per venire all'udienza e ascoltare Costa".
Gli imputati negarono quasi tutti l'esistenza del complotto. Il C.
rifece la storia dell'Internazionale e pronunciò una vera e
propria autodifesa: Del nome di malfattori", disse tra l'altro, io e
i miei compagni non ci occupiamo. Teniamo pertanto conto di questo:
che i borghesi, quegli stessi borghesi che un secolo fa erano
chiamati dalla nobiltà straccioni e senza brache, oggi,
saliti al potere, per mezzo di loro rappresentanti ci chiamano
malfattori e peggio che malfattori. Ebbene, questo titolo lo
accettiamo come fece un giorno la borghesia e chi sa che un giorno,
come la croce da strumento di infamia divenne simbolo di redenzione,
questo nome di malfattori dato a noi e da noi accettato, non indichi
i precursori di una rigenerazione novella".
Il processo si concluse con un'assoluzione generale, sia
perché il carattere preventivo della repressione aveva
impedito la raccolta delle prove, sia perché esso ebbe luogo
nel vivo di una svolta politica che aveva suscitato grandi
aspettative e ingenerato un clima di pacificazione sociale: la
caduta della Destra e l'avvento al potere della Sinistra.
Uscito dal carcere, il C. si adoperò ad attenuare il
rigorismo cospirativo impresso dal Cafiero all'Internazionale;
dissipò l'idea di un nuovo progetto insurrezionale e
gestì il ritorno dell'organizzazione alla legalità. Il
settarismo del Cafiero e i mutamenti politico-sociali in atto
riacutizzavano lacerazioni non nuove nel campo del socialismo
anarchico, ma ora non più circoscritte a singoli individui:
il 10 luglio 1876 si era costituita la Federazione lombarda
dell'Associazione internazionale, dal 1718 febbr. 1877, col secondo
congresso dei socialisti legalitari, Federazione Alta Italia, che
dava segni di sempre maggiore insofferenza per il millenarismo
bakuninista. La reazione iniziale fu cauta e temporeggiatrice,
specie nei confronti del periodico La Plebe, la voce più
autorevole del nuovo dissenso. Nel 1877 la socialdemocrazia tedesca
iniziava la sua irresistibile ascesa elettorale. La Plebe la
commentò con compiacimento; il C. si assunse invece il ruolo
di custode della purezza simbolica originaria e giudicò le
elezioni tedesche una sconfitta del socialismo, foriere di illusioni
e preludio a itinerari funesti. Nella formazione dei partiti
socialisti il C. intravvedeva un pericolo oligarchico che sarebbe
poi stato analizzato con ben altri strumenti metodologici, e
denunciava il primato della leadership politica su masse rese
inesorabilmente passive, indifferenti all'appello socialista, facili
prede della reazione. La vera partecipazione alla lotta, scrisse su
La Plebe (25 febbr. 1877), è possibile solo con la
rivoluzione "popolare, violenta, distruggitrice, terribile e ... non
può essere che la guerra civile".
Il protagonismo politico delle masse e la necessità di
conquistarle alla coscienza dei propri diritti erano motivo di
conflitto anche tra il C. e la componente anarchica cospirativa
impersonata in Italia dal Cafiero. Il radicamento nella
realtà sociale e una certa sensibilità per il mutare
degli atteggiamenti collettivi furono forse il nucleo più
coeso di una personalità incostante e irrequieta come quella
del C. quello che può fornire la chiave meno controversa a
cui ricondurre una vicenda biografica poco incline alla coerenza. La
rottura col socialismo legalitario si era consumata al congresso
della Federazione emiliano-romagnola (16 luglio 1876); il C., che
del congresso era stato "anima e mente" (Romano), ne fu l'artefice
maggiore. Frattanto, per onorare la memoria di Bakunin, morto nel
1876, la federazione di Bologna era stata incaricata di curarne la
biografia; le prime quarantotto pagine furono redatte dal C. e
pubblicate nel 1877.
Il 24 ag. 1876, mentre stava per raggiungere Jesi, sede del
congresso delle Marche e dell'Umbria, veniva arrestato e colpito da
ammonizione come "ozioso e vagabondo". Il gruppo marchigiano era
molto legato al leader romagnolo, e le Marche erano allora uno dei
maggiori punti di forza della mappa dell'internazionalismo italiano;
esso vi contava un notevole seguito, specie a Fabriano, dove era
penetrato tra gli artigiani urbani e tra gli operai delle antiche
cartiere, e a Jesi, il centro più industrializzato della
regione. Nelle due città si stampava IlMartello che, dopo un
tentativo fallito di collaborazione con i mazziniani,
contribuì alla ripresa organizzativa dell'Internazionale a
seguito del processo di Bologna. In un secondo momento, il C. ne
fece trasferire a Bologna la redazione. Il Martello divenne
così organo della Federazione umbro-marchigiana e, di fatto,
portavoce ufficiale dell'anarchismo. Della nuova redazione facevano
parte il C., A. Casalini e A. Faggioli. Il periodico ospitò
l'esordiente polemica contro i socialisti autoritari "addormentatori
del popolo" e una violenta campagna contro il ministro degli Interni
G. Nicotera, ritenuto tra l'altro responsabile della morte
"misteriosa" di G. Fanelli nel manicomio di Nocera Inferiore.
Nell'ottobre del 1876 il C. si era intanto recato a Firenze, ospite
del repubblicano G. Corsi, per preparare il congresso della
Federazione italiana convocato a Pontassieve; il 19 era stato
arrestato per contravvenzione all'ammonizione, e il congresso si era
tenuto alla meglio fuori città sotto la pioggia. L'epicentro
dell'attività internazionalista venne allora spostato nel
Mezzogiorno; la Commissione di corrispondenza venne trasferita a
Napoli e qui si stabilirono anche, alla fine dell'anno, E. Malatesta
e C. Cafiero. Il delinearsi della dissidenza settentrionale aveva
infatti messo in crisi la leadership del C. e favorito l'ala
più radicale. Cafiero e Malatesta erano risoluti a passare
quanto prima dalle parole ai fatti.
All'inizio del 1877 venne concepito un moto insurrezionale di
ispirazione molto diversa dal precedente, modellato sulla esperienza
del brigantaggio. Il C. si mostrò restio e dubbioso: senza
una preparazione attraverso la stampa e senza una propaganda
adeguata, l'impresa gli sembrava votata all'insuccesso.
Un'obbiezione piuttosto debole, poi contraddetta dal suo stesso
intervento al congresso di Verviers.
Forse il lungo periodo trascorso in carcere lo aveva reso meno
disponibile all'insurrezionalismo, e forse al suo relativo
disimpegno contribuì anche il vedersi messo in disparte dalla
nuova leadership. Difatto, questo fu il primo episodio di
dissociazione dalla strategia internazionalista; ma passeranno ben
tre anni prima che il C. arrivi a maturare il suo distacco ed
è lecito ipotizzare che le sue reticenze non celassero
riserve di carattere generale. Certo è che su questa vicenda
egli eluse anche in seguito qualsiasi chiarificazione. Dopo la sua
svolta politica, nella lettera di replica "Agli amici e agli
avversari" (15 sett. 1881), si scagionò dalle accuse in
proposito in questo modo: "È vero che non l'approvai [il moto
del Matese], è falso che nulla abbia fatto perché
riuscisse. Non l'approvai perché il momento mi parve male
scelto e perché i tanti sui quali si contava non esistevano
purtroppo se non nella calda fantasia di alcuni" (cit. in Avanti!,
20 genn. 1910).
G. Nicotera aveva dichiarato una guerra senza quartiere al
sovversivismo italiano, senza peritarsi di ricorrere anche all'arma
della diffamazione: in piena Camera, rispondendo a un'interrogazione
di F. Cavallotti sull'espulsione dall'Italia di Benoît Malon,
aveva dichiarato che gli anarchici italiani erano diversi da quelli
degli altri paesi, e che "in Romagna erano accoltellatori, nel
Napoletano camorristi, mafiosi in Sicilia". La risposta non
tardò. Il 18 marzo 1877, primo anniversario dell'ascesa al
potere della Sinistra, il C. preannunciò su Il Martello
l'imminente insurrezione e scrisse una violenta requisitoria contro
il Nicotera: "Mentitore sfacciato, - lo apostrofava - calunniatore
per sistema, ignorante e borioso, voi siete un degno ministro del
Regno d'Italia. Se un giorno abbiamo potuto discutere, oggi non
discutiamo più. Onorevole barone Nicotera, voi siete un
vile!". La replica del ministro venne con la repressione del moto
beneventano: inviò 12.000 soldati contro una banda di cento
persone, istigò alla giustizia sommaria degli arrestati e
tentò anche, al processo, di corrompere i giurati.
La sfortunata vicenda del moto è nota, e del resto non
appartiene alla biografia del C.; mentre i suoi compagni si davano
convegno nel Beneventano, egli se ne restò in Romagna,
coll'intesa di estendervi la rivolta in caso di successo. Appena,
però, la notizia si diffuse, i giornali attribuirono al C. la
paternità dell'insurrezione abortita ed egli fece appena in
tempo a riparare in Svizzera. La giustizia italiana, comunque, non
si dimenticò di lui: il 27 luglio 1877 il pretore di Imola,
che già gli aveva comminato, alla fine del 1876, un mese di
carcere e sei di sorveglianza speciale, lo condannò di nuovo
in contumacia a tre mesi di carcere e sei di sorveglianza speciale,
pene poi condonate con l'amnistia del 19 genn. 1878.
Questo soggiorno all'estero durò circa due anni, e furono
anni densi di avvenimenti, sia sul piano politico sia su quello
affettivo. Dopo una sosta iniziale a Ginevra, si fermò a
Berna, dove si guadagnò da vivere dipingendo insegne di
negozi; passò poi a Lugano, e lì conobbe nel
settembre, in casa di F. Pezzi, Anna Kuliscioff. Da quest'incontro
nacque un nuovo legame sentimentale che fu anche un lungo sodalizio
politico; la ricca e volitiva personalità della Kuliscioff
influenzò profondamente l'intera sua vita. Nello stesso
periodo, prese parte a due consessi internazionali, il congresso
convocato a Verviers dall'Internazionale anarchica (6-8 sett. 1877)
e quello di Gand (9 sett. 1877).
Al primo era stato delegato da trentacinque sezioni e svolse
un'importante relazione sulla situazione italiana, in cui illustrava
le ragioni del moto di Benevento da un'angolatura oscillante tra
antropologismo e romanticismo politico: "È necessario che vi
rendiate conto dapprima", disse tra l'altro, "delle condizioni
generali dove avvennero i fatti. In quasi tutte le province
meridionali d'Italia, la propaganda come la si intende nei paesi
d'occidente è press'a poco impossibile; i mezzi di
comunicazione mancano in gran parte; centri operai non ve ne sono,
grandi città neanche; e la popolazione è composta su
per giù di contadini che, allogati di giorno in giorno per il
lavoro della terra, non hanno giammai preso parte ad una vita
sociale qualsiasi, non sanno o sanno appena leggere e scrivere e
vivono nella più grande miseria. Il solo mezzo che essi
ebbero fino ad ora per sottrarsi al despotismo del governo e dei
signori fu ben primitivo, presero un fucile, raccozzarono alcuni
compagni e si fecero briganti. I briganti non sono generalmente
odiati dal popolo, perché dapprima sono gente che il popolo
conosce - uomini che ebbero a che fare con la giustizia, disertori o
altro - e poi non toccano il bene del povero, ma fanno ai ricchi e
alle autorità una guerra implacabile. Che cosa ci vuole per
rendere il brigantaggio popolare? una bandiera. Qual focolare
immenso di rivoluzione quando il brigantaggio potesse farsi generale
e le moltitudini sollevate - a cui le bande offrirebbero un rifugio
in caso di disfatta - vi prendessero parte! Allora, protette dai
luoghi, sostenute dal popolo, queste bande sarebbero invincibili. Si
trattava dunque di provocare un movimento di popolo, ed a mal andare
di propagare almeno le nostre idee per mezzo della dimostrazione
pratica della loro attuazione... ". A Verviers, il C. si
schierò con Paul Brousse all'estrema sinistra del movimento
anarchico e riuscì a far approvare una mozione avversa
all'azione politica, sinonimo allora di azione parlamentare, che
così concludeva: "Il Congresso dichiara che non esiste alcuna
differenza tra i diversi partiti quando essi perseguono un programma
politico, si dichiarino o no socialisti: secondo il Congresso tutti
questi partiti, senza distinzione alcuna, formano una massa
reazionaria, ed esso crede che sia suo dovere combatterli tutti"
(ed. in Romano).
Un mese prima, gli autori del moto beneventano, detenuti nel carcere
di Santa Maria Capua Vetere, avevano delegato il C., con una lettera
clandestina, a rappresentarli al congresso di Gand. E Gand fu
l'arena di nuovi scontri. La delegazione italiana comprendeva il C.
e il maloniano T. Zanardelli, e durante la discussione si
fronteggiarono due correnti: i collettivisti, cui apparteneva il C.,
e i cosiddetti comunisti autoritari, fautori dello Stato e del
parlamentarismo. Lo Zanardelli lesse un lungo rapporto anonimo, ma
redatto dal Malon, pieno di recriminazioni contro gli
internazionalisti italiani e ostile agli insorti di Benevento. Esso
suscitò energiche proteste e lo Zanardelli, rimasto isolato,
dovette ritrattare.
L'episodio irrigidì l'atteggiamento del C.: giudicò
irrealizzabile la proposta di un patto di solidarietà tra le
due tendenze e, col Brousse e pochi altri, si oppose alla
costituzione di un ufficio di statistica comune. Ribadì anche
la sua avversione per il parlamentarismo, e respinse l'ipotesi di
una federazione sindacale internazionale sostenendo che in Italia,
come lo era la grande industria, anche le organizzazioni operaie
erano un fenomeno marginale e quelle esistenti erano più
d'intralcio che di aiuto al socialismo.
Alla luce degli sviluppi successivi, però, si può
presumere che una difesa così intransigente dei principi
originari del socialismo anarchico fosse interrelata e proporzionale
a uno stato di crisi e di profonda incertezza.
Nel novembre abbandonò la Svizzera e si stabilì con la
Kuliscioff a Parigi. La coppia era angustiata da ristrettezze
finanziarie e dalla salute cagionevole di Anna; il C. fu costretto a
impiegarsi in un negozio di fiori. Gli antichi compagni lo stavano
abbandonando, ed egli prese a frequentare i dissenzienti; L.
Nabruzzi e T. Zanardelli erano i più assidui, e con essi
condivise poco dopo l'arresto. Durante il soggiorno parigino,
collaborò con P. Kropotkin e Guesde alla riorganizzazione dei
gruppi anarchici; tra il gennaio e il febbraio 1878,
partecipò al congresso operaio di Lione e sulla via del
ritorno fece un giro di propaganda a Montluçon, Commentry,
Gannat. Rientrato a Parigi, il 22 marzo venne arrestato e il 4
maggio condannato a due anni di reclusione e a 500 franchi di multa
per essersi affiliato ad associazioni internazionaliste. La sua
compagna fu espulsa dal paese.
Il carcere lo rese disorientato e depresso; progettò di
scrivere un'opera letteraria ed entrò in corrispondenza col
Carducci e con l'avvocato G. Ceneri, che l'aveva difeso a Bologna,
chiedendo loro di inviargli il materiale necessario. Il suo stato
d'animo peggiorò quando seppe dell'arresto della Kuliscioff,
a Firenze, dove era andata per un congresso internazionale.
Il 1878 fu l'anno più critico per l'Internazionale italiana.
Le sue ripetute sconfitte e la sordità dello Stato alla
domanda sociale provocarono un'ondata terroristica. La risposta fu
la più vasta operazione repressiva fin'allora attuata ai
danni dell'Internazionale, equiparata a un'associazione "di
malfattori". Il suo prestigio morale ne uscì rafforzato, ma
il bilancio registrò la decapitazione quasi totale del
movimento. Esso cominciò ad apparire, anche al detenuto C.,
in preda alla disgregazione e senza prospettive.
L'elezione di Jules Grévy alla presidenza della Repubblica
francese fu solennizzata da un'amnistia, applicata anche al C. il 5
giugno 1879. Pochi giorni prima di riguadagnare la libertà,
il 24 maggio, anticipò in una lettera a S. Mazzotti i motivi
dell'imminente svolta e, consapevole delle reazioni che avrebbe
suscitato, concludeva: "Sarò forse in disaccordo con qualcuno
dei nostri, ma che fare? ". Espulso dalla Francia, raggiunse prima
Ginevra e poi Lugano; qui incontrò alcuni esponenti del
socialismo milanese, tra cui B. Malon e E. Bignami, con i quali
verosimilmente si consultò in vista della prossima, clamorosa
presa di posizione pubblica; la lettera del 27 luglio 1879,
indirizzata Ai miei amici di Romagna, apparve infatti su La Plebe (3
agosto).
Malgrado si tratti di un documento assai noto, è opportuno
riportarne i passi più salienti. Non senza, però,
richiamare preliminarmente l'attenzione sulla scelta dei destinatari
della storica lettera, gli amici "di Romagna", una delimitazione
tanto più singolare quanto più essa conteneva diagnosi
e proposte intese a mettere in crisi la realtà complessiva
del movimento italiano e non certo un suo segmento regionale. Forse
una civetteria, un tributo di modestia, ma talmente incomprensibili
e ingiustificati da confermare piuttosto quella dose di
provincialismo che fu una delle costanti, e dei limiti, della
personalità del Costa.
Dopo un breve esordio, a parziale riepilogo delle sue ultime
traversie, scriveva: "Miei cari amici! Noi ci troviamo, ormai, alla
vigilia di un rinnovamento. Noi sentiamo tutti o quasi tutti che
ciò che abbiamo fatto fino ad ora non basta più a
soddisfare né la nostra attività né quel
bisogno di movimento senza cui un partito non esiste: noi sentiamo
insomma che dobbiamo rinnovarci o che i frutti dal lavoro che
abbiamo fatto fin qui saran raccolti da altri. Io son ben lungi dal
negare il passato. Ciò che facemmo ebbe la sua ragion
d'essere; ma se noi non ci volgessimo, se noi non offrissimo maggior
spazio alla nostra attività, se non tenessimo conto delle
lezioni che l'esperienza di sette od otto anni ci ha date, noi ci
fossilizzeremmo: noi potremmo fare oggi a noi stessi le medesime
accuse che facevamo ai mazziniani nel '71 e nel '72 .... Noi
rilevammo energicamente ed affermammo la forza viva del secolo - la
classe operaia .... Nel tempo stesso che noi affermavamo
l'emancipazione dei lavoratori ... noi sollevammo ed agitammo tutte
le questioni che vi si riferiscono: proprietà, famiglia,
stato, religione, dando ad esse una soluzione in armonia con la
scienza e con la rivoluzione .... Ma i tentativi di rivoluzione
falliti, avendoci privati per anni interi della libertà, o
avendoci condannato all'esilio, noi ci disavvezzammo
disgraziatamente dalle lotte quotidiane e dalla pratica della vita
reale: noi ci racchiudemmo troppo in noi stessi e ci preoccupammo
assai più della logica delle nostre idee e della composizione
di un programma rivoluzionario che ci sforzammo di attuare senza
indugio, anziché dello studio delle condizioni economiche e
morali del popolo e de' suoi bisogni sentiti e immediati. Noi
trascurammo così fatalmente molte manifestazioni della vita,
noi non ci mescolammo abbastanza al popolo: e quando, spinti da un
impulso generoso, noi abbiamo tentato di innalzare la bandiera della
rivolta, il popolo non ci ha capiti e ci ha lasciati soli .... Noi
dobbiamo fare assai più di quel che facemmo fino ad ora; ma
in sostanza dobbiamo restare quel che fumino, un partito di azione
.... Ma essere un partito di azione non significa voler l'azione ad
ogni costo e ad ogni momento.... La rivoluzione è
inevitabile, ma l'esperienza ci ha, credo, dimostrato che non
è affare né di un giorno né di un anno.
Perciò, aspettando e provocando il suo avvenimento fatale,
cerchiamo qual'è il programma generale intorno a cui si
raccolgono tutte le forze vive e progressive della generazione
nostra. Questo programma è secondo me: il Collettivismo come
mezzo, l'Anarchia come fine - programma d'oggi, che fu il nostro
programma di ieri .... Or mi resterebbe a dirvi quali mezzi pratici
io penso che si debbano mettere in opera .... Per ora, secondo me,
la cosa più importante da farsi è quella di
ricostituire il Partito socialista rivoluzionario italiano, che
continuerà l'opera incominciata dall'Internazionale e che,
federandosi o prima o poi, coi partiti simili esistenti negli altri
paesi, ristabilirà su basi solide l'Internazionale che ora
dappertutto è in sfacelo. L'Internazionale, come
esisté fino ad ora, rappresentò un momento storico
della vita delle plebi; ma non potrebbe rappresentare tutta la loro
vita: noi non abbandoneremo peraltro il nome dell'Internazionale; ma
vogliamo che non sia un semplice spauracchio, sì bene che si
fondi sull'organamento solido dei partiti socialisti esistenti ne'
paesi diversi. Questo, amici miei, - asseriva nella parte conclusiva
-, è quanto doveva dirvi. Come vedete, non si tratta di
rigettare il nostro passato, di cui, nonostante le sventure e i
molti disinganni sofferti, possiamo per sempre andare fieri:
né di cessar di essere quel che fummo: si tratta solamente di
far più e di far meglio".
Oltre al travaglio e alla riflessione personale, all'influsso della
Kuliscioff, del socialismo lombardo e di Malon, è stata
avanzata l'ipotesi che alla svolta del C. abbia contribuito anche il
suo accostamento alla socialdemocrazia tedesca (Ragionieri),
un'esperienza che condivise con il gruppo di La Plebe. Sul
settimanale Der Sozialdemokrat comparvero infatti in questo periodo
corrispondenze anonime sul socialismo italiano, attribuite al C., a
E. Kerbs ed a O. Gnocchi Viani. Ma l'indizio di maggior rilievo a
questo proposito sarebbe costituito dalla centralità,
rivestita nella lettera, dell'obbiettivo partitico.
Le congetture sulla genesi della lettera sono state tutte più
o meno ritenute di difficile verifica e anche sul significato da
attribuirle le valutazioni divergono: qualcuno ha ritenuto che essa
sia stata considerata a torto un'opzione "riformistico-legalitaria"
e ne ha proposto una lettura in chiave di adesione al marxismo, di
espressione cioè "della convinzione che base indispensabile
di un'azione rivoluzionaria è il miglioramento economico e
politico delle classi lavoratrici" (Romano); altri ne hanno
sottolineato lo aspetto accattivante rispetto a quello conflittuale
(Della Peruta, 1958).
Il tono discorsivo e affettivo della lettera disorientò in
una certa misura i suoi vecchi compagni. Con l'eccezione di E.
Malatesta, essi stentarono a recepirne immediatamente le
implicazioni politiche, e la risposta di F. S. Merlino, pubblicata
anch'essa su La Plebe il 17 ag. 1879 non lasciava presagire la
rottura. Una rottura che neppure il C. voleva. La sua collaborazione
a Der Sozialdemokrat cessò infatti con il congresso di Weyden
(20-23 ag. 1880) che adottò severe misure disciplinari a
carico dei simpatizzanti con l'anarchismo, ed espulse J. Most e W.
Hasselmann. Le epurazioni di Weyden furono per il C. una grossa
delusione, perché "vedeva svanite o di molto rimandate nel
tempo le sue aspettative per la costituzione di una nuova
Internazionale che riunisse tutte le più disparate fazioni
dei socialismo europeo" (Ragionieri, 1961). Si accostò allora
al possibilismo francese, capeggiato dall'antico alleato dei
congressi anarchici P. Brousse. Il succedersi di questi tentativi
sembra suggerire l'intenzione di convogliare l'intero anarchismo
italiano verso la nuova rotta, in modo da sostituire alla precedente
contrapposizione frontale l'integrazione politica delle classi
subalterne.
Prima di passare ad una nuova fase operativa, trascorsero alcuni
mesi. La Kuliscioff, dopo aver subito a Firenze una lunga
carcerazione, resa più penosa da un grave attacco polmonare,
fu assolta e liberata. Nel febbraio del 1880 il C. rientrò
clandestinamente in Italia e si stabilì con lei a Milano;
insieme parteciparono al convegno di Bologna (14 marzo 1880), dal
quale emerse il profilo di un partito socialista libero da
pregiudiziali ideologiche. Il 27 marzo successivo veniva condannato
dal tribunale di Bologna per contravvenzione all'ammonizione.
Motivo ricorrente della riflessione del C. era stata, in questo
periodo, un'esigenza di approfondimento teorico. I problemi solo
enunciati nella lettera del 1879 vennero quindi ripresi e sviluppati
sulla Rivista internazionale del socialismo, fondata dal C. il
1º maggio 1880 a Milano, assieme ai socialisti di La Plebe.
Rievocando qualche anno dopo le sollecitazioni che l'avevano mosso,
scrisse che il socialismo doveva avere finalmente
"quell'elaborazione scientifica propria, senza della quale non
può uscire dallo stato di cospirazione e assumere una forma
chiara, determinata, comprensibile per tutti e capace di soddisfare
coloro, che lo interpretano male e lo svisano" (cit. in Lipparini).
Ma l'impresa ebbe vita difficile e breve. Il C. venne di nuovo
arrestato ancor prima dell'uscita del primo numero, e dovette
interrompere a metà un articolo scritto per l'occasione. La
Rivista cessò le pubblicazioni il 31 dic. 1880, col n. 2 del
II volume.
Il 1º nov. 1880 la Società operaia di Mutuo soccorso di
Imola, che contava un migliaio di soci, delegò il C. con
votazione plebiscitaria, a rappresentarla al congresso indetto a
Bologna per il suffragio universale dalla locale Società
democratica radicale e presieduto da A. Saffi. Il discorso
pronunciato allora riecheggiava i temi cari al socialismo lombardo:
"Il suffragio universale", asserì, "non è che il primo
passo nelle lotte tra le classi sociali. La questione vera è
di indole economica: è la lotta tra il capitale e il lavoro.
Non si otterrà nulla coi mezzi legali e giuridici, ma colla
forza". Il pubblico intervenuto al comizio non si lasciò
però persuadere e approvò quasi unanime l'o. d. g. di
tutt'altro tenore proposto dal Saffi. La sera stessa il C. veniva
arrestato. Durante la sua detenzione nel carcere di Perugia, il
congresso di Chiasso (5-6 dic. 1880) recideva definitivamente
qualsiasi legame dell'anarchismo col socialismo legalitario.
Dominatore del congresso fu C. Cafiero.
Scontato il carcere, il C. dovette anche sottostare a sei mesi di
sorveglianza speciale a Imola. Qui venne raggiunto dalla Kuliscioff,
ma i loro rapporti si stavano facendo sempre più tormentati e
difficili, intristiti anche da immancabili problemi finanziari, e
neppure la nascita della seconda figlia Andreina (8 dic. 1881)
riuscirà a risolverne la crisi; e qui fondò lo
Avanti!, periodico settimanale socialista (n. 1. 3 apr. 1881).
L'indirizzo programmatico, pervaso dalla inconfondibile retorica del
C., diceva tra l'altro: "Che cosa vogliono quelle donne pallide e
smunte, quei fanciulli cenciosi, quegli esseri umani, che la miseria
e l'ignoranza abbrutiscono e le lunghe fatiche accasciano, che
soffrono la fame in mezzo all'abbondanza, che non hanno di che
coprirsi, mentre i magazzini rigurgitano di panni, che sentono,
pensano e ragionano, come pensavano, sentivano e ragionavano le
generazioni passate, e talvolta le generazioni primitive, mentre
tanta luce di scienza rischiara il mondo?".
La sorte dell'Avanti! non fu migliore di quella della precedente
esperienza giornalistica del C.; i suoi quattordici numeri furono
tutti sequestrati, ma ebbero ugualmente una certa diffusione. Quando
venne infine arrestato il redattore responsabile A. Mancini, la
pubblicazione fu sospesa. I compagni di Cesena gli misero allora a
disposizione le colonne del Catilina; accettò con qualche
riluttanza, poco entusiasta del titolo e dell'orientamento dei
giornale: "Io penso", ebbe a dire, "che lungi dallo spaventare la
pubblica opinione, noi dobbiamo per quanto è da noi cercare
di conciliarcela". Sull'Avanti! saltò il fossato dell'impegno
elettorale.
Le incertezze del presente lo indussero ad assecondare la sua mai
sopita vocazione letteraria: dette alle stampe (Almanacco popolare,
Imola 1882) una sorta di romanzo utopistico, Un sogno, in cui
immaginava una Imola trasformata in cittadella socialista. Con
stupore dell'autore, esso venne ristampato più volte su
settimanali socialisti e in opuscolo. Nella prefazione alla quinta
edizione (Firenze 1900), ricostruì la situazione che glielo
aveva ispirato: "Eravamo nel 1881. La vecchia Internazionale si era
venuta via via trasformando e rimodernando, ma non si trasformava
né si rimodernava la condotta del governo verso di noi... In
tanto squallore di vita, resa ogni azione impossibile, che far
potevamo se non sognare? E sognai anch'io questo modestissimo
sogno". L'interesse per questo genere paraletterario non si
esaurì qui. Il C. firmò anche la prefazione a un'altra
operetta di intonazione utopistica, Un comune socialista (Brescia
1884), di Giovanni Rossi (pseud.: Cardias).
L'esigenza di un nuovo partito, enunciata nella lettera Agli amici
di Romagna del 1879, si materializzò al convegno segreto di
Rimini con la costituzione del Partito socialista rivoluzionario di
Romagna (agosto 1881), poi Partito socialista rivoluzionario
italiano (Forlì, 29 luglio 1884). Accanto al C. si trovarono,
tra gli altri, protagonisti vecchi e nuovi del socialismo italiano,
da N. Baldini a L. Musini a G. Zirardini ad A. Leonesi. La
maggioranza confluì sulle posizioni del leader romagnolo,
avverso all'identificazione della nuova formazione politica in
federazione anarchica; la stessa denominazione prescelta doveva a
suo avviso alludere a un modello di aggregazione non selettivo,
aperto a tutte le tendenze socialiste.
Il partito costiano, a struttura federativa, fu l'antesignano del
Partito socialista italiano e, per qualche tempo, l'unica
organizzazione socialista di consistenza reale. Il programma,
giudicato il frutto più maturo dei pensiero del C. (Della
Peruta), derivava dalla fusione di elementi marxisti e blanquisti.
Esso rifletteva anche una delle più radicate convinzioni del
suo fondatore, l'idea cioè che in una società come
quella italiana, scarsamente industrializzata, anche l'ancoraggio
sociale di un partito rivoluzionario dovesse essere più
popolare che operaio. Nel delineare la strategia politica del nuovo
partito fu molto attento all'esperienza d'Oltralpe. Lo Avanti!
pubblicò nell'agosto 1882 il programma del Parti ouvrier
français, e precedenti tentativi di integrazione della vita
amministrativa effettuati da comitati operai parigini non dovettero
essere estranei alla campagna per il suffragio universale
amministrativo e per la riforma della legge comunale e provinciale
inaugurata dal C. l'8 luglio con un comizio al politeama Golinelli
di Imola. Essa era concepita come una mobilitazione unitaria e
poté valersi dell'apporto radicale e repubblicano, ma fu
intensa quanto breve e priva di risultati immediati. Nel corso di
questa campagna, il Partito socialista rivoluzionario rilevò
per primo, in Italia, le potenzialità democratiche delle
amministrazioni locali, provvide quindi all'elaborazione di un
programma di governo e coniò la formula "impadroniamoci dei
comuni" su cui il Partito socialista italiano fonderà in
seguito tante delle sue fortune. Come strumento del progetto
più ambizioso del C., però, il nuovo partito si
rivelò fallimentare. Mancò infatti il suo obiettivo
aggregante, la sua fluidità ideologica si rivelò un
requisito inadeguato a calamitare le forze socialiste già
esistenti, inetto ad arginarne la vocazione centrifuga.
Dal momento della fondazione del Partito socialista rivoluzionario
Ravenna divenne il quartier generale del C., e sarà anche il
suo primo collegio elettorale. La riforma elettorale del 1882
confermò e definì una volta per tutte la sua nuova
rotta politica. L'iniziale astensionismo dell'opposizione romagnola,
egemonizzata dai repubblicani, indusse dapprima il C. a recedere
sulle cosiddette candidature di protesta, candidature cioè
puramente simboliche, svincolate dall'impegno parlamentare. Egli
guardò poi di buon occhio il profilarsi, in Romagna, di un
accordo tra repubblicani e socialisti: "Quivi - scrisse - è
ancora possibile che la parte migliore della borghesia dia la mano
al popolo e combatta con esso". Il 27 ag. 1882 repubblicani,
socialisti e democratici di tutta la regione si dettero convegno per
redigere una piattaforma elettorale comune. Si costituì
l'Unione democratica romagnola e il C. venne candidato.
Il messaggio socialista raggiunse così per la prima volta le
campagne imolesi; il programma elettorale fu distribuito in migliaia
di copie sotto forma di opuscolo dal titolo Per chi dovete votare;il
manifesto con l'immagine del C. recava la dicitura: "Volete la tassa
sul macinato? Votate per Codronchi [l'antagonista moderato]. Volete
l'abolizione della tassa sul macinato? Votate per Costa".
Candidature socialiste erano state presentate per la prima volta in
trentatré collegi, ma il C. fu l'unico eletto. Il suo nome
venne inserito in oltre dieci liste e ottenne in tutto 15.000 voti,
quelli determinanti però furono i 3.654 riportati a Ravenna;
a Imola, sua città natale, il voto dei centri rurali del
basso Bolognese premiò invece i moderati.
Ebbe così inizio una lunga carriera parlamentare, che avrebbe
conosciuto solo una breve parentesi e si sarebbe protratta fino alla
fine di una vita intensa quanto relativamente breve. Ma la svolta
politica dell'79 aveva portato il C. su un terreno dove le sue
risorse non erano più concorrenziali; la nuova generazione
socialista avrebbe da allora in poi guardato a lui con rispetto ma
anche con malcelato fastidio. Il giudizio riduttivo espresso alcuni
anni più tardi da C. Lazzari sulla sua elezione a deputato ne
fu una delle prime avvisaglie: "Costa", scrisse Lazzari in un
rapporto destinato al congresso americano di Buffalo, "doveva la sua
riuscita più alla simpatia che ispirava il suo apostolato
coraggioso che alla diffusione dei suoi principi" (cit. in Perli).
Al momento dell'opzione elettorale, i vecchi compagni lo avevano
accusato di tradimento, e quando egli, all'ingresso in Parlamento,
giurò la fedeltà al re prevista dallo statuto, la loro
reazione assunse toni di inusitata virulenza. Gli si addebitò
di godere di privilegi borghesi, mentre le ristrettezze finanziarie
continuavano a perseguitarlo e la carica parlamentare non prevedeva
ancora alcuna indennità. Inoltre, il caso, o le
autorità costituite, vollero che i giornali su cui doveva
comparire la giustificazione di questo gesto venissero tutti
sequestrati e solo il 28 genn. 1883 Il Moto di Imola poté
pubblicarne la dichiarazione: "Il giuramento, vi diceva, è un
impegno morale a chi lo compie liberamente. Chi vi si sottomette per
necessità non contrae nessun dovere, perché egli nulla
promette. " Una professione di nicodemismo politico che non poteva
certo mettere a tacere i suoi detrattori. Quando il giornale Tito
Vezio di Milano, diretto da C. Monticelli, poi passato nelle file
socialiste, lo attaccò duramente, il C. si recò a
Milano per sostenere un contraddittorio, presieduto dal
venticinquenne F. Turati. La sua linea di condotta vi riscosse un
largo consenso. Qualche mese prima, del resto, O. Gnocchi Viani lo
aveva ragguagliato in questi termini sulla situazione milanese: "In
mezzo ai repubblicani prevalgono idee di astensione o delle
candidature non giuranti: tra gli operai invece è dominante
il concetto dei deputati che alla Camera parlino in loro nome"(cit.
in Schiavi).
La carica di deputato lo costringeva ora a frequenti viaggi a Roma,
ed egli ne approfittò per stringere una serie di legami con
gli ambienti operai della capitale. Si trovò in piena febbre
edilizia, quando la grande immigrazione agricola, potenziale
serbatoio sociale dell'anarchismo, dette la impressione che Roma
potesse capeggiare la riscossa contro il socialismo legalitario. Il
C. cercò di riprendere i contatti con gli ambienti
internazionalisti, nell'intento di riorganizzarli e conquistarli
alle sue posizioni. I suoi nuovi seguaci e i bakuninisti
irriducibili riprodussero così anche a Roma il conflitto tra
anarchismo e socialismo.
Il movimento romano era dominato dalla democrazia radicale, in mano
agli artefici dello sviluppo edilizio della capitale; uno dei
personaggi più popolari dello schieramento era Ricciotti
Garibaldi, che godeva il riflesso del mito paterno, assai vivo tra
il proletariato urbano, e aveva instaurato un solido controllo su di
esso "attraverso la rete dei capi-popolo e dei capi operai che
formavano l'ossatura della democrazia romana" (Cafagna). Il C.
riuscì a ribaltare tali rapporti di forza e si
assicurò per qualche anno una leadership incontrastata. Tale
era il suo impegno e tanta l'importanza attribuita a questa
situazione che, nel 1884, trasferì a Roma la redazione del
risorto Avanti!. Quando sopraggiunse la crisi edilizia, promosse la
fondazione della Federazione operaia socialista, dove vecchi
internazionalisti erano affiancati da elementi più giovani,
ma poi non riuscì più a controllare la marea montante
dell'esasperazione operaia e il suo moderatismo dovette cedere alla
nuova generazione anarchica.
Il C. perseguiva in questo periodo, difficile dire con quanta
lucidità, e vi insisterà fino alla tardiva adesione al
Partito socialista italiano, due linee strategiche alquanto
divergenti: la ricerca incessante e quasi puntigliosa di contatti
con l'internazionalismo di base, che egli intendeva, si è
detto, guadagnare all'integrazione politica e, al tempo stesso, di
ampie coalizioni democratiche di tipo verticistico e
parlamentaristico. Fu così tra i promotori del Fascio
democratico (8 ag. 1883), sorto dall'appuntamento congressuale di
trecentoquindici associazioni radicali e socialiste, svoltosi alla
presenza degli esponenti più in vista del momento, da F.
Cavallotti a A. Saffi, a G. Bovio, ecc. Il Fascio si prefiggeva di
"promuovere l'unione delle forze vive del popolo contro gli attuali
ordinamenti politici e sociali, tanto nelle agitazioni pacifiche
quanto nelle agitazioni rivoluzionarie" (cit. in Lupparini). Il C.
entrò con Cavallotti e Bovio nel Comitato centrale della
coalizione, ma questo gesto venne censurato da alcuni ambienti
socialisti. Kerbs in particolare criticò con durezza una
vocazione unitaria che rischiava di compromettere un'identità
e un'autonomia socialista ancora precarie. Anche l'astio degli
antichi compagni si rinvigorì; gli furono rinfacciate la
morte prematura di Bakunin e la perdita della ragione patita da
Cafiero, rinchiuso dal 1883 nel manicomio di San Bonifacio
(Firenze). A Parigi, dove andò a presiedere un congresso
internazionale, alcuni italiani lo apostrofarono di assassino e
traditore. Questa campagna diffamatoria trovò echi anche
nella stampa conservatrice.
Furono forse questi gli anni più amari. La malattia di A.
Kuliscioff si aggravò ed ella dovette cercare sollievo nel
clima mite di Napoli; il C. la raggiunse, ma questa sollecitudine
non compensò la reciproca freddezza, che ormai aveva
soppiantato gli antichi slanci. L'anno successivo, Anna si
trasferì a Milano e si legò a F. Turati, allora molto
vicino al Costa. L'attivismo indefesso non l'avevaabbandonato, ma
tendeva ora a confondersi con un impulso di evasione da una
realtà fatta di molte durezze. Dopo aver subito un nuovo
processo per un vilipendio mai perpetrato e una condanna a un anno
di reclusione, il C. partì per Napoli, dove era scoppiata
un'epidemia di colera. Lì prese contatto con il Comitato
della Croce verde, composto di volontari appartenenti alla
massoneria e ai partiti estremi, diretto da G. Bovio, gran maestro
della loggia napoletana. Si prodigò con grande abnegazione
tra l'ammirazione generale e altrettanto fece, l'anno successivo,
1885, in circostanza analoga, a Palermo. Alla fine del soggiorno
napoletano, venne accolto nella massoneria, dove avrebbe raggiunto
il grado 32. Questa nuova appartenenza gli costò la rottura
dei rapporti personali con E. Malatesta, che era uscito dalla
massoneria nel 1876.
Non si può dire che il C., nella sua prima esperienza
parlamentare, avesse troppo brillato. Presentò due
interrogazioni per la libertà di riunione e contro la
ammonizione (seduta del 21 giugno 1884); illustrò un o. d. g.
sulle convenzioni ferroviarie e a favore della statalizzazione
dell'esercizio ferroviario, e manifestò il suo dissenso
dall'impresa africana.
Nel 1886 venne eletto di nuovo a Ravenna con 5.234 suffragi, e di
nuovo Imola gli negò il necessario quoziente di voti. La
campagna elettorale mise in luce la sua sempre crescente
popolarità; quando si presentava per tenere un comizio, e ne
fece innumerevoli, veniva spesso accolto dalla banda musicale al
suono dell'inno di Garibaldi.
La decisione del partito operaio di cimentarsi con queste elezioni
provocò una isterica reazione dei radicali; timorosi di
perdere l'elettorato operaio, imbastirono una campagna calunniosa
contro il partito operaio accusato di essere foraggiato dal governo.
Quando, nel clima di tensione generato dalle lotte contadine del
Mantovano, il partito venne sciolto e molti suoi capi arrestati (2
giugno), la solidarietà espressa dal C. in Parlamento fu il
logico corollario di un imparentamento politico che risaliva al
secondo congresso operaista (Mantova, 25 apr. 1886). Ormai persuaso
della intenzione radicale di fagocitare il movimento socialista,
egli aveva abbandonato il Fascio della democrazia e si era
avvicinato al Partito operaio portando con sé molti circoli
anarchici.
Il ventilato progetto fusionista aveva richiamato a Mantova una
folta rappresentanza di socialisti romagnoli, ma né gli
esponenti del Partito operaio italiano e neppure forse lo stesso C.
erano troppo convinti di una soluzione del genere. Il C. propendeva
piuttosto per una sorta di divisione del lavoro tra le due
formazioni e alla tribuna congressuale teorizzò la
complementarietà tra lotta politica e lotta economica,
espressioni della stessa classe sociale. Il congresso si concluse
con un patto di azione comune e la Commissione federale venne
dislocata a Parma, dove il costiano Musini contava qualche legame
con l'ambiente bracciantile.
Rispetto alla nuova formazione politica, il C. si attribuì
anche un ruolo di mediatore; difese l'enfasi economicista del
partito operaio dalle sollecitazioni anarchiche per una piattaforma
programmatica meno riduttiva, e al congresso successivo (Pavia,
18-19 sett. 1887) cercò senza successo di allargare
l'appartenenza operaista dai lavoratori manuali a "tutti quei
cittadini che credono di accettarne il programma".
Nel 1886 A. Lanzone fondava a Lugo la Rivista italiana del
socialismo, una sorta di riedizione della prima rivista del C., che
fece pervenire al direttore una lettera augurale in cui ricordava il
suo precedente tentativo e assicurava la sua collaborazione. Ma
anche di questa videro la luce pochi numeri, per le solite
difficoltà finanziarie. Il Lanzone fu costretto ad emigrare.
L'Italia stava allora attraversando uno dei suoi momenti più
critici; si era in piena recessione economica e la classe politica
governativa manovrava per dirottare verso prospettive colonialiste
l'inquietudine e il malessere sociale. Ma le imprese africane si
stavano traducendo in ulteriori frustrazioni collettive, e il C.
riuscì a fornire al disorientamento generale una efficace
chiave di lettura e di mobilitazione politica. Il 1º febbr.
1887 Depretis lesse alla Camera il telegramma con cui il gen.
Gené notificava la sconfitta di Dogali, e presentò un
o. d. g. volto ad ottenere l'autorizzazione ad una spesa
straordinaria di cinque milioni. Due giorni dopo, lo storico
intervento del C.: egli criticò con durezza l'imperialismo
governativo, accusandolo di incostituzionalità, di
finalità oscure, di estraneità a qualsiasi esigenza
reale del paese, e chiese il ritiro delle truppe dall'Africa. Il
discorso poté essere portato a termine solo tra molte
interruzioni, e il C. così concluse: "Or bene, noi,
francamente, per un'impresa non nobile, non ci sentiamo di dare
né un uomo né un soldo. Richiamate le milizie
dall'Africa e vi apriremo tutti i crediti che chiederete, ma per
continuare nelle pazzie africane, noi non vi daremo, ripeto,
né un uomo né un soldo".
Il discorso del C. fu uno dei prototipi di un anticolonialismo
socialista ancora in nuce in tutta l'Europa, su cui ben poco era
stato scritto o detto, e fu quindi una dimostrazione,
oltreché di coraggio, di tempestività e di inventiva
politica. Nel corso di un'importante conferenza tenutasi a Siena il
18 aprile di quell'anno, ebbe modo di approfondire e precisare il
suo pensiero. Egli dichiarò un'ostilità non
pregiudiziale verso la politica coloniale; condivideva anzi l'enfasi
positivista sulla missione della "civiltà" verso la
"barbarie": o la civiltà, disse, ha il diritto di
diffondersi, e però di abbattere gli ostacoli che le si
possono opporre sul suo cammino". Ma riteneva che i mezzi più
adatti non fossero né le conquiste né le violenze
né la distruzione sistematica, ma un'azione come "da buoni
padri ... verso i figli", l'aiuto "a percorrere la spinosa carriera
della civiltà", il sostegno "negli sforzi che [i popoli
"barbari"] far possono per progredire". Il suo anticolonialismo era
dunque sostanziato di pacifismo, e l'espansionismo italiano era per
lui delegittimato dalla presenza dell'Africa in Italia, dalla
possibilità della colonizzazione interna, dal fatto insomma
che il vero problema da risolvere fosse la miseria delle masse
operaie e contadine della penisola.
Come è stato di recente osservato, questa argomentazione non
era esente né da ambiguità, né perciò
stesso da fragilità (Rampazzi), ma la posizione del C. funse
ugualmente da pietra miliare nel faticoso e contraddittorio
dispiegarsi del successivo anticolonialismo socialista. Inoltre,
l'efficacia simbolica delle sue formule riassuntive ("né un
uomo né un soldo" e "via dall'Africa") le abilitò ad
una penetrazione di massa certamente molto superiore a quella di
argomentazioni teorico-politiche, tanto da farle diventare un
veicolo di socializzazione politica collettiva.
La popolarità della presa di posizione del C. fu enorme.
L'intervento fu pubblicato sulla Rivista italiana del socialismo e
largamente riprodotto sui giornali popolari; Marabini ricorda di
averne diffuso tra i contadini il testo stampato sul settimanale
imolese Il Moto. Esso introdusse poi un motivo di chiarificazione, e
di divisione, tra le forze democratiche: il Fascio operaio
appoggiò la tesi del C. e aprì una sottoscrizione per
l'agitazione "Il ritiro delle truppe dall'Africa", mentre il
radicale Consolato operaio si dissociò da questa posizione.
La crisi politico-sociale in cui versava il paese non cessava
intanto di approfondirsi. Durante uno dei suoi soggiorni a Roma, il
C. prese parte a una dimostrazione di edili disoccupati seguita ad
una commemorazione di G. Oberdan. Gli scontri con la polizia furono
molto duri. Il C., che si trovava alla testa del corteo,
cercò di difendersi agitando un ombrello, e ne ebbe una
condanna a tre anni, ma il Parlamento rifiutò
l'autorizzazione a procedere.
Recatosi quindi in Francia, rappresentò l'Italia, con F. S.
Merlino e A. Cipriani, al congresso possibilista di Parigi di rue
Lancry (1889), contemporaneo a quello rivale, marxista, della sala
Petrelle. Turati gli aveva affidato l'incarico di adoperarsi per la
conciliazione tra le due tendenze, ma i preventivi negoziati
internazionali erano già irrimediabilmente falliti. Sui
lavori del congresso, il C. inviò una serie di corrispondenze
a Il Messaggero, che già nel 1886 aveva pubblicato i suoi
resoconti del processo di Venezia contro i contadini mantovani e che
altre volte aveva ospitato i suoi scritti.
L'allargamento del suffragio amministrativo segnò la fine
dell'egemonia del partito conservatore a Imola; nell'ottobre 1889 la
coalizione democratica vinse le elezioni e il C. divenne per la
prima volta consigliere comunale e provinciale. Dopo il suo rientro
in Italia, la Camera autorizzò questa volta, il 21 marzo
1890, con centocinquantanove voti contro centonove, il procedimento
giudiziario nei suoi confronti. In Parlamento, il sottosegretario di
Stato A. Fortis gli offrì di soppiatto, in evidente segno di
simpatia, del denaro per passare il confine; il C. non
accettò, ma gli amici provvidero a fargli raggiungere Nizza.
Alle elezioni politiche parziali del 1890 venne rieletto a Ravenna
con 7.041 voti e, per la prima volta, nel maggio, a Imola, con
4.398. La Camera annullò questa ultima elezione, per via del
precedente risultato ravennate e perché l'esilio gli toglieva
il diritto all'opzione. Nello stesso anno si tennero anche le
elezioni politiche generali; fu di nuovo eletto a Ravenna e a Imola
e, prima di rimpatriare, venne amnistiato. Il 5 dic. 1890 Imola gli
tributava un'accoglienza trionfale.
Gli eventi cruciali della gestazione e della nascita del Partito
socialista italiano videro il C. nell'insolita condizione di
spettatore. Malgrado le calorose esortazioni di F. Turati,
rifiutò di collaborare a Critica sociale, poco entusiasta di
una rivista che doveva fungere da tramite con gli ambienti
accademici e intellettuali e che propugnava quindi un socialismo
molto lontano da queste preoccupazioni e sempre un po' provinciale
come il suo. Tuttavia sperò fino all'ultimo di far prevalere
il suo schema di partito pluralista privo di discriminanti
antianarchiche, e quando il congresso di Genova (14-15 ag. 1892)
dette vita al Partito dei lavoratori italiani ma anche alla
secessione dagli anarchici, egli deluso e amareggiato, non
partecipò né all'una né all'altra assemblea. Il
commento del Turati fu quasi sprezzante: "Nell'insieme, disse di
lui, ha fatto una pessima figura". Al Partito socialista dei
lavoratori italiani aderì soltanto l'anno successivo, al
secondo congresso di Reggio Emilia (8-10 sett. 1893), e anche allora
si vide respingere una proposta che era stata tanta parte della sua
fase post-anarchica, la ricerca delle alleanze con i partiti
democratici. Ciò ne accentuò il progressivo
isolamento. Da allora si allontanò dalla vita di partito e si
dedicò alla attività parlamentare. La nuova
generazione socialista lo mummificò anzitempo confinandolo a
ruoli puramente simbolici, quali la presidenza di quasi tutti i
congressi.
Il clima autoritario dell'età crispina si tradusse anche in
un tentativo di maggior controllo dell'elettorato; le elezioni
politiche del novembre 1892 furono precedute da rimaneggiamenti dei
meccanismi di espressione della volontà popolare. I collegi
elettorali vennero modificati prescindendo dalle ripartizioni
amministrative circondariali e mandamentali; lo scrutinio di lista,
legato a una larga circoscrizione e a una dotazione di tre-cinque
seggi, fu sostituito dal collegio uninominale, di dimensioni molto
più ridotte. Al collegio di Imola venne sottratto il
mandamento di Medicina, noto epicentro di lotte bracciantili e base
elettorale socialista, e in sua vece venne incorporato il comune di
Ozzano, indifferente alla candidatura del C., che risultò
quindi perdente.
La delusione dovette essere forte. Mentre in Sicilia divampava il
movimento dei Fasci, il C. rifiutò la proposta del Turati di
partecipare all'inchiesta sui fatti di Caltavaturo (Palermo) a
seguito di un'invasione di terre conclusa da scontri con i
carabinieri. Si ritirò quindi nella natia Imola, dove alla
carica di presidente della Congregazione di carità (11 maggio
1891), poté aggiungere anche quella di sindaco (17 nov.
1893). Ma non poté espletare neppure queste funzioni senza
incorrere in difficoltà; alla Congregazione, la battaglia
contro la gestione autoritaria del manicomio gli costò un
duello, tre mesi di detenzione e un processo amministrativo; in
municipio, si dedicò soprattutto al potenziamento
dell'istruzione elementare. Ma questo pesante bilancio lo
scoraggiò; si persuase di non essere tagliato per la vita
amministrativa e preferì abbandonarla.
Intanto il Crispi, ricostituito subito il suo quarto ministero dopo
le dimissioni del 5 giugno 1894, faceva rapidamente approvare alcune
leggi - tra cui quella sui reati di stampa -, formalmente
antianarchiche ma di facile estensione antisocialista. Iniziava una
politica persecutoria antisocialista, culminata nel simultaneo
scioglimento, ad opera dei prefetti, delle associazioni socialiste
(22 ott. 1894). Il C., che riusciva però a sottrarsi
all'arresto riparando a Lugano, ricevette così dal tribunale
di Bologna una condanna a sei mesi per istigazione all'odio di
classe. Poco dopo, malgrado le intimidazioni subite dall'elettorato,
vinceva (1895) le elezioni parziali per la XVIII legislatura nel
collegio di Budrio, dove era morto il deputato in carica, ma non
ebbe modo di esercitare il mandato.
Il ritorno in Parlamento, nella XIX legislatura, lo rese di nuovo
protagonista dell'opposizione antiafricana. Dopo le sconfitte di
Amba Alagi e Abba Garima (1º genn. 1896), e dopo le dimissioni
di Crispi (5 marzo), il C. presentò una mozione per porre in
stato d'accusa il ministero; pochi giorni dopo intervenne di nuovo a
chiedere la completa amnistia per i fatti di Sicilia e l'abrogazione
delle sentenze dei tribunali militari e delle condanne al domicilio
coatto.
L'attività parlamentare non aveva fatto dimenticare al C.
né la sua regione né le classi contadine. Verso queste
ultime aveva sempre mostrato una disponibilità e una
sensibilità spiccate, e l'altezzosità di molti
socialisti settentrionali verso i contadini del Sud non era stata
secondaria nel sedimentare la sua dose di diffidenza verso il nuovo
partito. Il C. aveva seguito molto da vicino il sorgere e le
esperienze del socialismo agrario emiliano, era legato da una
profonda stima reciproca all'ormai leggendario G. Massarenti, fu
più volte al fianco dei braccianti di Molinella nel corso dei
grandiosi scioperi del '97-'98 e li difese in Parlamento.
Durante i moti di Milano, venne arrestato, nel maggio, all'arrivo
alla stazione e l'11 fu rinchiuso nel carcere giudiziario dove
trascorse cinquantasette giorni. Dal 26 del mese, utilizzando i
fogli protocollo passati dalla direzione del carcere,
cominciò a scrivere, sotto forma di appunti, una sorta di
autobiografia, occasione di ripensamento e sistemazione del suo
passato politico. Poco più tardi fu in prima linea, durante
l'ostruzionismo del giugno 1899 contro le leggi Pelloux e membro,
col repubblicano E. Pantano e il radicale G. L. Basetti, del
comitato unitario di coordinamento dei partiti dell'estrema
Sinistra. Un decreto reale del 30 giugno chiuse la sessione
parlamentare facendo decadere la immunità; sul C. pendeva la
condanna a sei mesi, ridotta a tre, cui si era sottratto nel 1895.
Venne quindi arrestato il giorno dopo all'uscita da Montecitorio e
tradotto nel carcere di Bologna, dove scontò la pena.
Col nuovo secolo e con la svolta giolittiana la sua immagine
pubblica si venne sempre più appannando; il C. divenne quasi
un sopravvissuto. Nel Partito socialista, col profilarsi delle prime
divisioni interne, si schierò con la corrente riformista
(Imola, settembre 1902), ma quando le segmentazioni socialiste si
moltiplicarono (Bologna, 1904). preferì il silenzio e non
nascose, in sedi meno ufficiali, la sua profonda delusione: "No",
disse nel corso di un'intervista, "a Imola non ci fu ipocrisia. A
Imola ci gettammo cordialmente, sinceramente, tutti nelle braccia
gli uni degli altri; a Imola, una nota alta di sentimento, di
entusiasmo ... comune ci univa ancora tutti".
Gli ultimi anni furono amareggiati dai pettegolezzi sulla sua vita
privata. La stampa non gli risparmiò i toni sarcastici quando
la figlia Andreina sposò con rito religioso un giovane
esponente dell'alta borghesia milanese. Al matrimonio finì
col convertirsi anche lui, e ai primi del 1906 sposò a Nizza
con rito civile la faentina Angelina Cicognani, una ricca vedova
proprietaria di una sartoria; ma non fu un'unione felice. Questa
ansia di stabilità dissimulava una perdurante inquietudine,
che ebbe una ultima impennata quando venne eletto vicepresidente
della Camera (25 marzo 1909) e, suscitando violente polemiche, si
rifiutò di portare al Quirinale la risposta al discorso della
Corona.
Morì a Imola il 19 genn. 1910.