Wikipedia
Clemente VII, nato Giulio di Giuliano de' Medici (Firenze, 26 maggio
1478 – Roma, 25 settembre 1534), esponente della famiglia fiorentina
dei Medici, fu il 219º papa della Chiesa cattolica e il
127° sovrano dello Stato Pontificio dal 1523 alla morte.
Biografia
Giovinezza
Giulio era figlio naturale, poi legittimato di Giuliano de' Medici,
ucciso nella Congiura dei Pazzi un mese prima della sua nascita, e
di una certa Fioretta, forse figlia di Antonio Gorini. Da giovane fu
affidato, dallo zio Lorenzo il Magnifico, alle cure di Antonio da
Sangallo. Dopo poco tempo, però, lo zio lo prese direttamente
sotto la sua protezione. Nel 1488 riuscì a convincere
Ferdinando I d'Aragona a concedergli il priorato di Capua
dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, beneficio prestigioso e
molto remunerativo.
Nel 1495, a causa delle sollevazioni popolari contro il cugino
Piero, scappò da Firenze per rifugiarsi prima a Bologna, poi
a Pitigliano, Città di Castello e Roma, dove visse per molto
tempo ospite del cugino cardinale Giovanni, il futuro papa Leone X.
Arcivescovo di Firenze
Il 9 maggio 1513 fu eletto arcivescovo di Firenze dal cugino papa
Leone X, che aveva ripreso la città sconfiggendo le truppe
francesi alleate dei repubblicani fiorentini, e il 14 agosto dello
stesso anno Giulio fece il suo ingresso a Firenze. Alla morte del
cugino Lorenzo duca di Urbino divenne anche signore della
città. Sia come arcivescovo che come governatore si
dimostrò un abile uomo di governo. Pur ricevendo spesso
incarichi e missioni diplomatiche per conto del Papa non
trascurò mai la sua arcidiocesi e con la collaborazione del
suo vicario generale Pietro Andrea Gammaro volle conoscere,
attraverso i singoli inventari, la situazione di tutte le chiese
sotto la sua giurisdizione. Nel 1517 tenne un sinodo di tutto il
clero. Da cardinale diacono nel frattempo fu dichiarato cardinale
prete con il titolo di San Clemente (26 giugno 1513) e poi di San
Lorenzo in Damaso.
Sventò una congiura tramata contro di lui e fu inflessibile
contro i suoi nemici (1522).
I pontificati di Leone X e di Adriano VI
Nel 1513, con l’elezione di Leone X, Giulio ebbe la concessione
dell’arcidiocesi di Firenze e, il 29 settembre dello stesso anno,
dopo una serie di procedure e dispense per superare lo scoglio della
sua nascita illegittima, fu creato cardinale. Dopo questa nomina
iniziò la sua ascesa, caratterizzata da una grande ricchezza
di benefici ecclesiastici e da un ruolo molto delicato all'interno
della politica pontificia. Tra le sue azioni è da ricordare
il tentativo di costituire un’alleanza con l'Inghilterra per aiutare
Leone X a contrastare le mire egemoniche di Francia e Spagna; per
questo motivo fu nominato cardinale protettore d'Inghilterra. La
caratteristica principale della politica di questo periodo fu la
ricerca di un equilibrio tra i principi cristiani e l’indizione del
Concilio Lateranense V (1512-1517), durante il quale Giulio si
interessò di lotta contro le eresie.
Il 9 marzo 1517 fu nominato Vicecancelliere di Santa Romana Chiesa,
incarico che gli diede modo di mettere alla prova le sue
qualità diplomatiche, mostrando un contegno serio e
apparentemente illibato in confronto a quello mondano e dissoluto
del cugino. Mentre cercava di organizzare una crociata contro i
turchi, che Leone X reputava assolutamente necessaria, dovette
risolvere due problemi: la protesta luterana, e la successione
dell'Impero che, dopo Massimiliano I, toccò al nipote Carlo,
già re di Napoli. Nel corso del 1521 la situazione di Firenze
(di cui era Governatore cittadino) lo fece allontanare abbastanza
spesso da Roma, ma l'improvvisa morte del papa, avvenuta nello
stesso anno, lo costrinse a tornare a Roma per partecipare al
conclave. Fu eletto Adriano VI, di cui aveva sostenuto la
candidatura per ottenere l’appoggio di Carlo V. L’anno successivo fu
vittima di una congiura, senza conseguenze, ordita dai repubblicani.
Il 3 agosto 1523 l’opera diplomatica di Giulio giunse alla sua
conclusione: venne ratificata l'alleanza tra il papato e Carlo V.
Poco dopo, nel settembre 1523 morì Adriano VI e Giulio, con
l’appoggio dell’imperatore, dopo un conclave lungo (50 giorni) e
difficoltoso, fu eletto al soglio di Pietro. Il 19 novembre Giulio
de' Medici assunse il nome di Clemente VII.
I primi anni di pontificato
L’elezione del nuovo pontefice venne salutata con entusiasmo, anche
se certe aspettative si dimostrarono mal riposte: Giulio de' Medici
risultò incapace di risolvere con decisione i problemi che
dovette affrontare. Cercò di mantenere una politica di
neutralità nella contesa tra Carlo V e Francesco I di Valois
per il predominio sull'Italia e sull'Europa; Carlo V era
intenzionato a restaurare l'Impero ammodernando le sue strutture
amministrative e perseguendo una politica espansionistica che lo
portava in rotta di collisione con il re di Francia. Nell’ottobre
1524, quando Francesco I conquistò Milano, il delicato
apparato diplomatico messo in piedi da Clemente VII andò in
crisi. Il papa, mentre l’arcivescovo di Capua, Niccolò
Schomberg, lo spingeva a intraprendere una politica filoimperiale,
mandò a trattare il datario apostolico, il filofrancese Gian
Matteo Giberti, che dovette tornare indietro all’arrivo delle truppe
imperiali in Lombardia. In quel periodo anche la Riforma si andava
espandendo sempre più in Germania. Nella seconda dieta di
Norimberga, del febbraio 1524, gli stati tedeschi ratificarono
l'editto di Worms come legge dell'Impero, promettendo, però,
al legato pontificio, cardinale Lorenzo Campegio, di mandarlo in
esecuzione soltanto “nei limiti del possibile” e chiedendo un
concilio nazionale che avrebbe dovuto aver luogo a Spira nello
stesso anno. Sia il papa che l'imperatore negarono tale
eventualità.
Il 24 febbraio 1525 le truppe imperiali sconfissero quelle francesi
a Pavia, catturando lo stesso Francesco I e deportandolo a Madrid.
Francesco venne umiliato, dovette perdonare Carlo di Borbone e
reinsediarlo nelle sue terre, fu costretto a lasciare in ostaggio i
suoi due figli e fu invitato a sposare la sorella di Carlo V,
Eleonora. Nel 1526 fu costretto ad accettare la pace di Madrid,
secondo la quale doveva rinunciare a Milano, a Napoli e alla
Borgogna; dopo aver firmato la pace, il 18 marzo, Francesco I fu
rilasciato.
La Lega di Cognac
Francesco I, dopo essere tornato in Francia, lamentando di essere
stato costretto con la violenza ad accettare i patti, si
rifiutò di ratificare il trattato di Madrid. Il 22 maggio
1526 a Cognac sur la Charente, stipulò con Clemente VII,
Firenze, Venezia e Francesco Maria Sforza, una lega per scacciare
gli imperiali dall’Italia. I confederati si obbligavano a mettere
insieme 2.500 cavalieri, 3.000 cavalli e 30.000 fanti; Francesco I
avrebbe dovuto mandare un esercito in Lombardia e un altro in
Spagna, mentre i veneziani e il pontefice avrebbero dovuto assalire
il regno di Napoli con una flotta di ventotto navi. Cacciati gli
spagnoli, il papa avrebbe dovuto mettere sul trono napoletano un
principe italiano, che avrebbe dovuto pagare al re di Francia un
canone annuo di 75.000 fiorini. Francesco I non tenne mai fede ai
patti e, per tutto il 1526 non partecipò alle operazioni,
preferendo trattare con Carlo V il riscatto dei figli.
Il fatto più grave che occorse al papa fu il tradimento del
cardinale Pompeo Colonna, questi, incoraggiato da Carlo V con
promesse e ricompense, nella notte tra il 19 ed il 20 settembre
1526, occupò con un esercito di 8000 uomini la porta di San
Giovanni in Laterano e Trastevere, spingendosi lungo il Borgo
Vecchio fino al Vaticano. Clemente VII si rifugiò a Castel
Sant'Angelo lasciando che il Vaticano venisse saccheggiato dalle
truppe del cardinale. Il papa, vedendo che gli alleati non onoravano
i patti, concluse una tregua di 8 mesi con l’imperatore, ma Carlo di
Asburgo non accettò l'armistizio.
Il 31 marzo l'imperatore passò il Reno nei pressi di Bologna
e si diresse verso la Toscana. Le truppe della Lega comandate da
Francesco Maria I della Rovere e dal marchese di Saluzzo si
accamparono vicino a Firenze per proteggerla dall'esercito invasore,
ma questo attraverso il territorio di Arezzo e quindi di Siena si
diresse verso Roma. Lungo il tragitto Carlo di Borbone
devastò Acquapendente e San Lorenzo alle Grotte,
occupò Viterbo e Ronciglione. Il 5 maggio gli invasori
giunsero sotto le mura di Roma, che era difesa da una milizia
piuttosto raffazzonata comandata da Renzo da Ceri.
Contro i luterani
Nel 1524 Clemente VII ordinò ai vescovi di Trento, Venezia e
Napoli di raccogliere i libri luterani e di bruciarli, facendo
riferimento ad un generico divieto relativo ai libri contrari alla
fede. A Bologna, seconda città dello Stato ecclesiastico e
maggiormente esposta alle infiltrazioni luterane, il 12 marzo 1524
fu emesso un primo editto con il quale il vicario vescovile ingiunse
di consegnare i libri di Lutero. I primi roghi di libri erano stati
accesi nel 1523 a Milano e a Lucca, e proseguirono il 29 giugno 1524
a Venezia, e poi ancora a Roma, Napoli, Siena e Firenze[1].
Il Sacco di Roma
L’assalto alle mura del Borgo iniziò la mattina del 6 maggio
1527 e si concentrò tra il Gianicolo e il Vaticano. Per
essere di esempio ai suoi, Carlo di Borbone, fu tra i primi ad
attaccare, ma mentre saliva su una scala fu colpito a morte da una
palla d'archibugio, che sembra sia stata tirata da Benvenuto
Cellini. La sua morte accrebbe l'impeto degli assalitori, che, a
prezzo di gravi perdite, riuscirono ad entrare in città.
Durante l'assalto Clemente VII pregava nella sua cappella privata e,
quando capì che la città era perduta, si
rifugiò a Castel Sant'Angelo insieme ai cardinali e gli altri
prelati. Nel frattempo gli invasori trucidavano i soldati pontifici.
L’esercito imperiale era composto di circa 40.000 uomini,
così suddivisi: 6.000 spagnoli agli ordini di Carlo di
Asburgo, a cui si erano aggiunte le fanterie italiane di Fabrizio
Maramaldo, di Sciarra Colonna e di Luigi Gonzaga "Rodomonte"; molti
cavalieri si erano posti sotto il comando di Ferrante I Gonzaga e
del principe d'Orange Filiberto di Chalons, che era succeduto al
Borbone; inoltre si erano accodati anche molti disertori della lega,
i soldati licenziati dal papa e numerosi banditi attratti dalla
speranza di rapine. A questi si aggiunsero i 14.000 lanzichenecchi
comandati da Georg von Frundsberg, mercenari bavaresi, svevi e
tirolesi, tutti luterani esasperati dalla fame e dal ritardo nei
pagamenti, che consideravano il papa come l'anticristo e Roma come
la Babilonia corruttrice, attratti dalla possibilità di
arricchirsi saccheggiando la città.
Furono profanate tutte le chiese, furono rubati i tesori e furono
distrutti gli arredi sacri. Le monache furono violentate,
così come le donne che venivano strappate dalle loro case.
Furono devastati tutti i palazzi dei prelati e dei nobili, ad
eccezione di quelli fedeli all'imperatore. La popolazione fu
sottoposta ad ogni tipo di violenza e di angheria. Le strade erano
disseminate di cadaveri e percorse da bande di soldati ubriachi che
si trascinavano dietro donne di ogni condizione, e da saccheggiatori
che trasportavano oggetti rapinati.
L’8 maggio il cardinale Pompeo Colonna entrò a Roma seguito
da molti contadini dei suoi feudi, che si vendicarono dei saccheggi
subiti per ordine del papa saccheggiando tutte le case in cui ancora
rimaneva qualcosa da rubare o da distruggere.
Tre giorni dopo il principe d'Orange ordinò che si cessasse
il saccheggio; ma i lanzichenecchi non ubbidirono e Roma
continuò ad essere violata finché vi rimase qualcosa
di cui impossessarsi. Il giorno stesso in cui cedettero le difese di
Roma, il capitano pontificio Guido II Rangoni, si spinse fino al
Ponte Salario con una schiera di cavalli e di archibugieri, ma,
vista la situazione, si ritirò ad Otricoli. Francesco Maria
della Rovere, che si era riunito alle truppe del marchese di
Saluzzo, si accampò a Monterosi in attesa di novità.
Il 6 giugno Clemente VII capitolò, obbligandosi a versare al
principe d’Orange 400.000 ducati, di cui 100.000 immediatamente e il
resto entro tre mesi; era inoltre pattuita la consegna di Parma,
Piacenza e Modena. Clemente VII, per evitare di ottemperare alle
condizioni imposte dall'imperatore, abbandonò Roma e, il 16
dicembre 1527, si ritirò ad Orvieto.
La pace con Carlo V
Carlo inviò un'ambasciata presso il papa per fare ammenda
dell'episodio. E Clemente alla fine, non ritenendolo responsabile,
lo perdonò. Dopo questi accordi, intorno alla fine del 1529,
fu stipulata la Pace di Barcellona, secondo i termini della quale,
il papa, il 24 febbraio 1530, incoronò Carlo V imperatore,
come segno di riconciliazione tra papato e impero. Carlo si
impegnò anche ad aiutare il papa a restaurare i Medici a
Firenze abbattendo la repubblica fiorentina e a concedere la
Borgogna a Francesco I, che si impegnava a disinteressarsi degli
affari italiani. Firenze fu consegnata ad Alessandro de' Medici
(figlio illegittimo di Lorenzo), che sposò Margherita, figlia
naturale di Carlo V. Facendo una parentesi su Alessandro de' Medici,
molti storici sostengono ormai che la genealogia da Lorenzo Duca di
Urbino fosse una semplice copertura del fatto che egli fosse in
realtà figlio del papa stesso, nato nel 1511 quando egli era
ancora cardinale, da una relazione con una serva di sua zia
Alfonsina Orsini, chiamata Simonetta da Collevecchio e probabilmente
di colore.
Con i problemi della riforma che infuocavano la Germania,
l'imperatore si allontanò da Roma e, con i turchi che
imperversavano persino sul litorale laziale, il papa si
riavvicinò alla Francia. Carlo V allora, con l’intenzione di
rompere la nuova amicizia, propose al papa una lega di tutti gli
stati italiani contro i turchi e gli propose di convocare un
concilio generale per pacificare la Germania. Clemente VII accolse
di buon animo la proposta della lega, ma non accettò la
proposta del concilio, temendo di procurare un'arma per i suoi
avversari. L’unica cosa che fu disposto a concedere fu un accordo
segreto, consacrato con la bolla del 24 febbraio 1533, in cui il
papa si impegnava a convocare il concilio a data da destinarsi.
Nel 1532 si impadronì, con un'abile manovra di copertura,
della repubblica di Ancona: la costruzione a spese pontificie di una
fortezza, in posizione dominante sulla città e sul porto,
servì come cavallo di Troia per impadronirsi del potere
nottetempo e soffocare sul nascere i tentativi di riprendere la
libertà perduta. I denari pagati al papa dal cardinale che
sarebbe stato il legato pontificio della città servirono a
rimpinguare le casse papali depauperate dal sacco di Roma[2].
Nell’autunno del 1533, il papa celebrò le nozze tra la nipote
Caterina de' Medici, figlia di Lorenzo II de' Medici, e il
secondogenito di Francesco I di Francia, Enrico di Valois.
Lo scisma anglicano
Clemente VII fu talmente attento alla politica italiana ed europea
che trascurò e sottovalutò il movimento protestante,
in special modo quello inglese. Enrico VIII non aveva un erede
maschio e di questo incolpava la moglie Caterina d'Aragona, la cui
unica figlia era la principessa Maria. Dopo numerose relazioni con
altrettante dame di corte, si innamorò di Anna Bolena, una
delle più belle signore del tempo, ma protestante. Dal 1527
Enrico iniziò a cercare un modo per far annullare il suo
matrimonio con Caterina, prendendo come scusa che il matrimonio con
la vedova del fratello non poteva essere valido.
Per perorare la sua causa Enrico mandò a Roma Thomas More,
grande umanista e abile giurista. Nonostante le motivazioni addotte,
il papa riteneva impossibile l'annullamento del matrimonio,
soprattutto perché l’imperatore Carlo V era nipote di
Caterina ed il papa non voleva renderselo nemico. Allora Enrico
cominciò ad esercitare pressioni sul papa, arrivando, nel
1529 alla soppressione dell'indipendenza degli ecclesiastici inglesi
e ad arrogarsi il diritto di nominare i vescovi. Nel gennaio del
1533 Enrico VIII sposò Anna Bolena e, nel maggio dello stesso
anno, il precedente matrimonio con Caterina d'Aragona fu dichiarato
ufficialmente nullo dall’Arcivescovo di Canterbury. Dopo alcuni
mesi, il 7 settembre 1533 nacque la futura regina Elisabetta, figlia
di Enrico VIII e Anna Bolena. Enrico venne scomunicato ed il papa
continuava a ritenere legittimo il solo matrimonio con Caterina. Il
re rispose allora con l'Atto di Supremazia, votato dal Parlamento il
3 novembre 1534, che lo dichiarava Re supremo e unico Capo della
Chiesa d'Inghilterra, attribuendosi quel potere spirituale che fino
a quella data era stato appannaggio esclusivo del pontefice. Chi
(come lo stesso Thomas More) rifiutò di accettare con
giuramento il provvedimento e di riconoscere il nuovo matrimonio del
re con il relativo ordine di successione al trono, fu considerato
reo di alto tradimento e punito con morte.
Lo scisma era ormai compiuto. Tutti i pagamenti che prima erano
versati al papa ora venivano versati alla corona; il Parlamento
escluse la principessa Maria dalla successione al trono in favore
della figlia di Anna Bolena, nella speranza di un futuro erede
maschio. La Bibbia venne tradotta in inglese, ai preti fu permesso
sposarsi e le reliquie dei santi vennero distrutte. Tuttavia la
religione di Enrico rimase quella cattolica.
La politica interna e culturale di Clemente VII
Nei periodi in cui non dovette dedicarsi alla politica, Clemente VII
fu un grande mecenate, con un occhio particolare alla ricerca di
uomini particolarmente arguti che lo distraessero durante i pasti.
Il 17 dicembre 1524, con la bolla Inter sollicitudines et coram
nobis, indisse il IX giubileo. promulgata il 17 dicembre. Il papa
aprì personalmente la Porta Santa. Ma l'affluenza dei
pellegrini fu scarsa a causa delle guerre, del timore dell'avanzata
turca e della rivolta dei contadini in Germania. Inoltre,
nell'agosto del 1525 si ebbe una nuova epidemia di peste.
Il 25 gennaio 1525, concesse un indulto ai Domenicani del Convento
di Forlì per celebrare la messa del Beato Giacomo Salomoni
ogni volta che, durante l'anno, la loro devozione li spingesse a
farlo. Questo indulto è considerato importante nella storia
delle celebrazioni ecclesiastiche, tanto da risultare come il
più antico citato da Benedetto XIV nel documento De
canonizatione[1].
Tornato a Roma dopo la permanenza ad Orvieto, Clemente VII
proseguì la sua opera di mecenate: sviluppò la
Biblioteca Vaticana, continuò la costruzione della Basilica
di S.Pietro, portò a termine i lavori del Cortile di San
Damaso e di Villa Madama. Incaricò, inoltre, Michelangelo di
affrescare la Cappella Sistina con il Giudizio Universale,
seguendone personalmente i lavori. Commentò e fece pubblicare
tutte le opere di Ippocrate. Nel 1528 approvò l'Ordine dei
Cappuccini e, nel 1530, approvò i Chierici Regolari di San
Paolo (detti Barnabiti).
+Morte del papa
Di ritorno dal matrimonio della nipote (1533), Clemente VII si
riammalò della malattia che lo aveva colpito nel 1529 e che
spesso tornava a visitarlo. Il papa morì a Roma il 25
settembre 1534, a soli 56 anni, dopo aver mangiato l'amanita
phalloides (un fungo mortale). Alla sua morte sotto la statua di
Pasquino, venne posto un ritratto dell'Archiatra Pontificio Matteo
Curti, con l'ironica scritta: «Ecce aqnus Dei, ecce qui tollit
peccata mundi», segno che fu un Papa poco amato dal popolo
romano. Era stato un pontificato intensissimo e controverso, segnato
dall'onta del Sacco di Roma, durato undici anni. Clemente VII venne
sepolto in Santa Maria sopra Minerva. Il suo mausoleo si trova di
fronte a quello del cugino Leone X e fu disegnato da Antonio da
Sangallo il Giovane.