Cipólla, Carlo

 

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Storico italiano (Verona 1854 - Tregnago 1917). Insegnò dal 1882 nell'univ. di Torino, dal 1906 a Firenze; socio nazionale dei Lincei (1896). Tra la sua vastissima produzione si ricordano: Storia delle Signorie italiane dal 1318 al 1530 (1881); Per la storia d'Italia e dei suoi conquistatori nel Medioevo più antico (1895); La supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del Medioevo (1900-1901).

DBI

di Raoul Manselli

Nacque il 26 sett. 1854 a Verona da Giulio e da Laura Balladoro, in una nobile ed antica famiglia che si fregiava del titolo comitale; dopo gli studi medi, compiuti nella città natia, fu scolaro all'università di Padova di due maestri insigni, quali lo storico G. De Leva e il paleografo e diplomatista A. Gloria.

Apprese da essi una sicura perizia critica ed una vivace sensibilità ai problemi di natura politica e documentaria. Dal De Leva, in particolare, fu spinto ad interessarsi dei problemi relativi all'Italia tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, come si ricava dalla sua prima pubblicazione, degna di rilievo, Fra' Girolamo Savonarola e la costituzione veneta (in Arch. ven., VII [1874], pp. 68-79; VIII [1875], pp. 51, 80).

Addottorato da un anno, mostrava subito quella varietà e pluralità di interessi che resteranno uno dei tratti cararteristici della sua fisionomia di erudito, prima ancora che di storico: nello stesso giro di anni si interessava, infatti, di una lapide a Villafranca e dei Dicta Catonis in un manoscritto della Biblioteca capitolare di Verona, del giudizio di Petrarca su Pante, di istituzioni veneziane. Si tratta di contributi particolari; mostrano, comunque, una perizia tecnica che indica, ad un tempo, quanto egli avesse bene appreso la lezione del suoi maestri e come mantenesse una sua libertà di scelta di argomenti del tutto individuale e meritevole di molto apprezzamento, se solo si tenga presente che sono lavori di un giovane, tra i diciotto e ventidue anni.

Negli anni successivi veniva preparando l'opera che, per molti aspetti, fu ed è rimasta la sua più importante, la Storia delle Signorie italiane dal 1313 al 1530 (Milano 1881): è uno dei volumi della prima serie di quella che sarà, poi, nelle sue varie redazioni, la Storia d'Italia scritta da una società di professori, edita da Francesco Vallardi.
In questa prima serie è, senza dubbio, l'opera di maggiore valore, ancora oggi apprezzabile per sicurezza d'informazione, rigore di esposizione, capacità di cogliere i nodi politici e diplomatici di due secoli, fra i più complessi nella storia dei nostro paese. Certo; come ha notato Benedetto Croce, nella sua Storia della storiografia italiana nel secolo XIX (Bari 1921, II, pp. 180 ss.), in quest'opera si rileva facilmente quell'insistenza moralistica che, troppe volte, turba il giudizio del C., ma, ciò riconosciuto, va senz'altro posto in luce come egli, ancora sotto l'influenza viva del suo maestro, ne riprenda l'arte di racconto delle, vicende politico-diplomatiche colte nel loro intreccio, e presentate, con accortezza, nel gioco delle reciproche influenze e conseguenze.

Si tratta, come è ovvio, di un libro di storia politica, ma il tessuto degli avvenimenti vi risulta da una viva, attenta esperienza delle forze in azione. 16 vero che talvolta la massa dei dati e delle vicende sembra travolgere la linea di racconto, ma è anche vero che a tutt'oggi, pur con il grande progresso degli studi per i due secoli di cui il C. si occupa, rimane, a nostro avviso, un punto di partenza obbligato.

Il libro, che ebbe un'accoglienza molto favorevole, gli valse la cattedra universitaria a Torino, nel 1882, dove successe ad E. Ricotti, di cui, nella sua prolusione, tenuta il 16 nov. 1882, iniziando il suo corso di storia moderna, dichiarò di voler continuare l'insegnamento, animato, ad un tempo, da spirito nazionale e da rigoroso impegno di critica storica.

Questa prolusione - uno dei pochi scritti teorici del C. -, intitolata I metodi e i fini nella esposizione della storia italiana (edita nella sua Per la storia d'Italia e de' suoi conquistatori nel Medio Evo più antico, Bologna 1895, pp. 7-56), ha importanza perché ci consente di cogliere la concezione che aveva della sua missione di storico e dei modi di realizzarla. Egli. dichiara, infatti, di voler continuare la tradizione culturale della storiografia romantica cattolica, tenendo presente soprattutto il Balbo (è singolare che non vi compaia il nome di Carlo Troya), ma, d'altra parte, riconosce che il clima intellettuale, nel quale egli si trovava a vivere ed operare, esigeva, sempre più e meglio, i fatti.

Distingue perciò nell'attività storiografica tre momenti: i primi due sono propri dello storico, la cronaca, che raccoglie i dati a disposizione e li dispone ordinatamente, e la storia, che questi dati cronachistici utilizza per il racconto di vicende a più lungo periodo, di cui, poi; studia i nessi tinificanti. Il terzo momento è, viceversa, quello del filosofo della storia, che dei dati storici si serve per elevarsi a sintesi universale. Di quest'impostazione, che è piuttosto diffusa nell'epoca del C., egli si riservò i primi due momenti, rinunciando a quello filosofico, e promettendo "l'indagine amorosa e sincera del vero e l'assiduità di lavoro".

Se in questa prolusione introduce, come d'obbligo, i ricordi veronesi di Scipione Maffei e quelli piemontesi, come si diceva, del Balbo e degli altri studiosi che lo avevano preceduto sulla cattedra, fra i moderni non manca di prendere posizione verso colui il quale era effettivamente la personalità di maggior rilievo nella storiografia italiana dell'epoca, e cioè Pasquale Viliari. Il C. dichiara di distaccarsi, in pieno, dal suo positivismo filosofico, apprezzandone, tuttavia, l'impegno ed il valore di studioso; della sua attività rileva la leggera, ma pur percepibile evoluzione metodologica che era passata, da un'adesione al Comte ed al Mill, ad un'impostazione di critica dei fatti, senza presupposti teorici. Questa prolusione è, comunque, estremamente significativa perché, più che esporre una concezione metodologica, serve a comprendere i limiti entro i quali va collocata l'opera e l'attività del C. stesso.

Negli anni successivi alla sua cattedra torinese, la sua biografia va colta più nelle pubblicazioni che non nei pochissimi eventi della sua esistenza. La sua attività di studioso si articola in gruppi di lavori, di cui si daranno qui le indicazioni essenziali, dopo di avere, ancora una volta, sottolineato il fatto che l'operosità del C. si muove sempre, contemporaneamente, su fronti diversi. Basterà, inoltre, aggiungere che egli ben presto ebbe notevole rilievo fra gli studiosi, anche stranieri, collaborando con l'Institut für Öster-reichische Geschichtsforschung, poi con i Monumenta Germaniae Historica e con la Revue historique.

Una parte di notevole rilievo della sua attività riguarda l'edizione delle fonti, per cui va anche precisato che si preoccupò della metodologia più opportuna per pubblicarle, studiando norme di edizione. Ciò detto, bisognerà citare di lui almeno alcune delle edizioni di maggior impegno, per quanto riguarda sia le fonti narrative sia quelle documentarie.

Fra le prime ha particolare importanza il complesso delle Antiche cronache veronesi, pubblicate a Venezia nel 1890, per cui si servì della collaborazione del fratello Francesco, ma che sono opere sue per tutto quello che riguarda il commento storico. Non meno importanti sono i Monumenta Novaliciensa vetustiora, in due volumi, pubblicati (1898-1901) nelle Fonti per la storia d'Italia dell'Istituto storico italiano. Nell'ediz. di fonti documentarie, senza tenere conto dei documenti isolati o particolari, basterà ricordare il Codice diplomatico del monastero di S. Colombo di Bobbio, pubblicato ancora nelle Fonti Per la storia d'Italia, già citate, in tre volumi, nel 1918. Ancora fonti archivistiche sono raccolte nei due volumi Documenti per la storia delle relazioni diplomatiche fra Verona e Mantova, nel sec. XIII, Milano 1901, e Docc. ... nel sec. XIV, in Miscell. di storia veneta, s. 2, XII, Venezia 1907, A parte, anche per la sua importanza, va considerato l'ultima opera di edizione, della sua vita e cioè Ferreto dei Ferreti Historia rerum in Italia gestarum, di cui l'ultimo volume è postumo, ancora una volta nelle Fonti per la storia d'Italia (1914-1918), accompagnata da un'importante raccolta di poesie riguardanti gli Scaligeri.

Quest'insieme di edizioni, già di per sé imponente, ha ancora maggior rilievo ed importanza se ricordiamo che si tratta di testi ai quali il C. aggiunse sempre una serie d'indicazioni riguardanti gli autori e le vicende che essi espongono, discutendo questa documentazione anche dal punto di vista storicocritico. Così, tanto per dare un esempio, i due volumi sulle Relazioni diplomatiche costituiscono, oltre che una pubblicazione di, documenti, anche un contributo al racconto delle vicende dei rapporti tra le due città.

Nell'ambito di queste pubblicazioni documentarie, non si può tacere l'interesse che il C. ebbe sempre vivacissimo per l'epigrafia, alla quale egli rivolse la sua attenzione, con contributi particolari, tanto numerosi, da essere praticamente impossibile ricordarli; purtroppo sono stati, di fatto, trascurati dagli studiosi anche perché, da un'operosità così intensa. il C. non ricavò mai delle conclusioni orientative generali. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un'ingente mole di dati particolari, che finiscono per dare l'impressione di un accumulo di materiale, episodico più che organico, e non, com'è, in realtà, dell'utilizzazione coerente e sistematica di una esperienza acquisita, che sembra sorretta da un vivace interesse, non meramente di erudito curioso.

Il centro dei suoi interessi di studioso rimane, però, il mondo germanico e i suoi rapporti con l'Italia: a questo proposito se, come nei casi precedenti, bisogna lasciare da parte i contributi particolari, non si possono trascurare i lavori che egli raccolse nel volume già citato Per la storia d'Italia e de' suoi conquistatori, dedicato al suo maestro, G. De Leva, dove, oltre alla prolusione già ricordata, sono raccolti due ampi studi Il diritto famigliare considerato quale criterio per giudicare della civiltà dei Germani antichi e Studi teodoriciani (importante ancora oggi quello Per la leggenda di re Teodorico in Verona). Si tratta di due lavori, che, in parte, sembrano collegarsi alla vecchia tematica risorgimentale della condizione dei vinti Romani sotto i Longobardi e al problema della fusione dei due popoli. In realtà, sono anche un impegnato tentativo di affrontare il mondo germanico come civiltà indoeuropea nel rapporto reciproco con le altre, della stessa origine, per poi valutarne l'apporto all'interno dell'Italia, già romana. Il problema è trattato, di nuovo e con specifico impegno, in un gruppo di note dal titolo: Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del Medio Evo, in Rendiconti della Regia Accademia nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, stor. e filos., s. 5, IX (1900; poi Roma 1901), ove la questione viene allargata anche tenendo conto del Problema etnologico e culturale, sì da diventare, in taluni suoi aspetti, il punto di partenza per una storia dell'individualità nazionale italiana. I due centri del suo discorso sono, appunto, il mondo gotico ed il mondo longobardo, che egli affronta e discute con singolare e decisa perizia, senza mancare, poi, negli studi particolari, di sottoporre a critica gli aspetti anche più minuti dei problemi in discussione.

In parte legata a Teodorico ed ai problemi del mondo gotico e longobardo, in parte connessa con i suoi studi di storia delle Signorie - e di quella Scaligera, in particolare -, in parte, infine, emergente dall'amore della città natia, è il suo rapido, ma incisivo e lucidissimo Compendio della storia politica di Verona (Verona 1899), recentemente ripubblicato in volume (Verona 1958), a cui si affiancano ben venti Note di storia veronese, pubblicate regolarmente nell'ambito del NuovoArchivio veneto, tra il 1892 ed il 1907, Sempre di storia veronese sono le Briciole di storia scaligera, in tre serie (Verona 1889).

Al margine e in continuazione alla sua storia delle Signorie, vanno collocate, oltre che alle Briciole or ora indicate, i suoi studi relativi alla realtà ed all'azione politica di Dante e di Petrarca, che egli seppe attentamente studiare e discutere, con particolare riferimento agli spunti di azione e di pensiero politico, impliciti nelle opere di questi due grandi.

Non sarebbe, però, completo il quadro, sia pur panoramico e necessariamente sintetico, di una così vasta attività, di studioso, se non si facesse almeno un cenno della sua opera di informatore di storia e di cultura italiana all'estero, quale risulta dalla sua collaborazione data per molti anni alle Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung e alla Revue historique, di cui si è già fatto cenno. Addirittura mirabile è la bibliografa storica italiana, disposta anno per anno, ad uso degli studiosi tedeschi, negli Jahresberichte der Geschichtswissenschaft, continuata per trentaquattro anni, dal 1878 al 1911, con una tenacia di cui il minimo che si possa dire è chè ammirevole. Altrettanto fece per il Nuovo Archivio veneto tra il 1890 e il 1910.

Quanto la sua operosità ed il suo impegno di studioso fossero universalmente apprezzati lo prova il fatto che nel 1906, quando Pasquale Villari lasciò nell'Istituto di studi superiori di Firenze la sua cattedra di storia moderna per passare a quella di propedeutica storica, chiamava a succedergli, appunto, il Cipolla. Purtroppo, poco poté dare in questa sua nuova sede perché, nel 1909, veniva colto da una emiplegia che, gli diminuì gravemente la capacità di lavoro. Continuò, tuttavia, con grande spirito di abnegazione il suo dovere di professore, fin quando, nel settembre del 1917, su sua domanda, andava a riposo, morendo pochi mesi dopo, il 2-3 novembre dello stesso anno, nella sua villa avita di Tregnago presso Verona.

Da una così incessante e fervida attività di studioso emerge facilmente la constatazione che egli, dedito totalmente agli studi, poco si preoccupò di problemi politici - in questo assai diverso dal Villari -, anche se tutta la sua opera è percorsa da una profonda, ed intensa consapevolezza della validità dell'impegno nazionale che aveva animato gli uomini del Risorgimento, come, del resto, non aveva mancato di rilevare egli stesso, nella sua prolusione torinese, e come aveva ribadito nell'altra sua prolusione, L'origine fiorentina della storia italiana, tenuta in Firenze il 14 dic. 1906, rivolta a porre in luce l'importanza della cronachistica e della storiografia fiorentina come forza trainante di tutta quella italiana.

Questo sentimento patriottico egli inserì in una fede cattolica, vissuta con un'intensità profonda, di cui non mancano d'aversi indicazioni interessanti, come la partecipazione ad iniziative che, soprattutto all'inizio del secolo XX, percorsero la cultura italiana. Tale fu la Società cattolica italiana per gli studi scientifici, che, per la varietà, non riuscì a ben collocarlo, tanto che il suo nome risulta fra gli "aderenti dei quali non si conoscono gli studi" (Aspetti della, cultura cattolica nell'età di Leone XIII, Roma 1961, p. 565).

In realtà, avviandoci a dare su di lui un giudizio sintetico, il C. va collocato fra gli studiosi che, mantenendo fede all'adesione della filosofia provvidenzialistica caratteristica della tradizione cristiana rinverdita e rinnovata in età romantica, vi inserirono, in perfetta aderenza a precise esigenze del loro tempo, il culto positivistico (che quella filosofica della storia non contraddiceva) per la verità dei fatti.

Il lavoro erudito. quindi, diventava un impegno sacro, un dovere indegorabile, per l'affermazione della propria fede religiosa. In questo senso il C., come altri dei suo tempo, merita un posto più alto di quello che non gli venga oggi riconosciuto nella storiografia italiana di indirizzo cattolico.