Marco Tullio Cicerone

 

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Scrittore e oratore latino (Arpino 3 genn. 106 a. C. - Formia 7 dic. 43 a. C.). Nato da agiata famiglia equestre, ebbe a Roma maestri di diritto i due Scevola, l'augure e il pontefice, di filosofia l'accademico Filone di Larissa e lo stoico Diodoto, di eloquenza specialmente Apollonio Molone di Rodi.

Entrò nell'arengo forense nell'81 a. C., nell'attività politica nell'80 con la difesa di Sesto Roscio Amerino accusato di parricidio per un intrigo a sfondo politico che faceva capo a Crisogono, liberto di Silla. C. vinse, ma poi compì un viaggio in Grecia e in Asia, si mormorò per sottrarsi alla vendetta politica. Al suo ritorno, ottenne la questura per la Sicilia occidentale (75). Là si guadagnò la gratitudine dei Siciliani, che poi lo vollero loro patrono nella causa da essi intentata contro Verre. C. sventò i tentativi di salvataggio operati dagli oligarchi in favore di Verre, e appena presentò i risultati della sua inchiesta (Actio I in Verrem), Verre partì volontariamente in esilio. Ma C. pubblicò anche la sua seconda requisitoria (Actio II) in cinque orazioni.

Edile curule nel 69; pretore nel 66 sostenne la legge che dava a Pompeo il comando (Pro lege Manilia o De imperio Cn. Pompei) della guerra contro Mitridate, perché, sebbene incostituzionale, rispondeva, secondo l'istintiva sua capacità di adeguarsi alle situazioni, alle necessità del momento. Questa stessa sua capacità, unita a un innato buonsenso e al temperamento alieno dagli eccessi, lo aveva inizialmente reso avverso all'oligarchia portandolo su una posizione di centro. Ma avversò anche con pari fermezza nell'anno del suo consolato (63) quelli che riteneva eccessi dei popolari, opponendosi alla legge agraria di Servilio Rullo, difendendo Gaio Rabirio, e, dopo avere stroncato il tentativo di Catilina di giungere al potere per vie legali, reprimendo quello di conseguirlo con la violenza. La congiura nella quale si sapevano implicati personaggi come Crasso e Cesare fu scoperta e soffocata nel sangue, anche per vie illegali, ma certo con coraggio e decisione. Da allora la forza stessa delle cose lo spinse nel campo dei conservatori stretti attorno a Pompeo; divenuto un ostacolo fastidioso per i triunviri, Cesare si sbarazzò di lui provocandone l'esilio con la rogatio di Clodio (atto illegale in quanto retroattivo), perché come magistrato aveva fatto giustiziare dei cittadini romani senza regolare processo (58).

C. tornò dall'esilio un anno più tardi, mentre Milone e Clodio si battevano per le vie e Clodio non lasciava occasione per aggredire C.; questi, dopo aver difese contro Clodio la casa stessa e le sostanze (De domo sua), tentò invano di persuadere gli ottimati a non alienarsi Pompeo al punto da spingerlo ad accordarsi con Cesare (De haruspicum responso). Dovette invece, con l'orazione De provinciis consularibus, assecondare la volontà e le intenzioni dei triunviri. Il raccoglimento in cui poi si chiuse ci ha fruttato il De oratore e il De republica. Poi l'uccisione di Clodio e il conseguente processo contro Milone: e C., per lo spiegamento di forze operato da Pompeo, non poté pronunziare in difesa di lui l'orazione che pubblicò più tardi. Nel 51 fu mandato proconsole in Cilicia, dove per un piccolo successo militare fu proclamato imperator.

Ma urgeva la guerra civile. C. si adoperò vanamente per scongiurarla, e dopo lungo tergiversare si schierò dalla parte di Pompeo; dopo Farsalo (48) si riaccostò a Cesare accettandone la vittoria senza molta dignità e tributando persino qualche elogio al dittatore (nel Brutus e nel Pro Marcello). Fu questo il periodo più tormentato della vita di C.; alle angustie politiche si aggiungevano quelle familiari: nel 47 il divorzio da Terenzia, nel 45 la morte della figlia Tullia, e poco dopo il divorzio dalla seconda moglie, la giovane Publilia. C. allora cercò rifugio negli studî (sono di questo tempo le principali sue opere filosofiche). Poi, ucciso Cesare alle idi di marzo del 44 e aggravatasi in Roma la situazione pur dopo la riconquistata libertà, C. abbandonò la città dove tornò alla fine di agosto. Contro Antonio, che mostrava di voler succedere a Cesare, scagliò le 14 Filippiche, organizzò la lotta e sostenne perfino Ottaviano. Formatosi però il secondo triunvirato, C., sacrificato da Ottaviano alla vendetta di Antonio, fu il primo dei proscritti: venne ucciso dai sicarî di Antonio nelle vicinanze della sua villa di Formia.

Opere

Dei primi cimenti giovanili di C. nella poesia resta a noi poco più della metà della libera sua traduzione in esametri dei Fenomeni di Arato, ma C. stesso più si compiacque dei suoi poemi che celebravano le sue glorie personali, De suo consulatu e De temporibus suis, in 3 libri ciascuno, del primo dei quali egli riporta nel De divinatione un frammento di 78 versi del 2o libro: il resto è perduto, come son perdute le altre sue opere poetiche.

Le orazioni: le orazioni giunte a noi sono 58, mentre abbiamo notizie di altre 48 con frammenti di 17 di esse. Esse sono, in ordine cronologico: 1. Pro Quinctio, 81; 2. Pro Sex. Roscio Amerino, 80; 3. Pro Q. Roscio comoedo, 76 (altri la dicono anteriore, altri del 67 o 66), conservata in parte; 4. Pro M. Tullio, 72 o 71, conservata in parte; 5. In Q. Caecilium divinatio, 70; 6-11. In C. Verrem, 70; 12. Pro M. Fonteio, 69, conservata in parte; 13. Pro A. Caecina, 69 o 68; 14. De imperio Cn. Pompei o pro lege Manilia, 66; 15. Pro A. Cluentio Habito, 66; 16-18. De lege agraria, 63; 19. Pro C. Rabirio perduellionis reo, 63; 20-23. In Catilinam orationes, 63; 24. Pro L. Murena, 63; 25. Pro Sulla, 62; 26. Pro Archia, 62; 27. Pro Valerio Flacco, 59; 28. Oratio post reditum in Senatu, 57; 29. Oratio post reditum ad Quirites, 57; 30. De (Pro) domo sua ad pontifices, 57; 31. De haruspicum responso, 56; 32. Pro P. Sestio, 56; 33. In P. Vatinium, 56; 34. Pro M. Caelio, 56; 35. De provinciis consularibus, 56; 36. Pro L. Balbo, 56; 37. In L. Pisonem, 55; 38. Pro Cn. Plancio, 54; 39. Pro Aemilio Scauro, 54; 40. Pro C. Rabirio Postumo, 54; 41. Pro T. Annio Milone, 52; 42. Pro M. Marcello, 46; 43. Pro Q. Ligario, 46; 44. Pro rege Deiotaro, 45; 45-58. In M. Antonium Phil., 44-43.

Opere retoriche.

Sono: il trattato De inventione (o Rhetorici libri), in due libri, composto nell'82-81; doveva essere un completo trattato di retorica, ma C. si fermò alla prima parte, la inventio (dovevano seguire: dispositio, elocutio, memoria, pronuntiatio); fu nel Medioevo detto Rhetorica vetus per distinguerlo dalla Rhetorica ad Herennium, opera di Cornificio, ma ritenuta per secoli di Cicerone e detta Rhetorica nova. Il De oratore, in 3 libri, dialogo fra gli oratori Antonio, Crasso, Scevola, Cesare Strabone, che tratta, in modo originale, della scienza necessaria all'oratore (1° l.), dell'invenzione (2° l.) e della disposizione dello stile (3° l.). Le Partitiones oratoriae, al figlio Marco del 54, breve riassunto di retorica. Il brutus, del 46, in cui è esposta la storia dell'eloquenza romana. L'Orator, del 46, che presenta un ritratto dell'oratore perfetto, anch'esso come il Brutus in polemica coi neo-atticisiti; importante è in esso la teoria ciceroniana dello stile e del numerus oratorio. Il De optimo genere oratorum, forse del 46, introduzione alla traduzione dei discorsi di Eschine e di Demostene per la corona. I Topica, composti nel 44 e dedicati al giureconsulto Trebazio Testa, tratato sui loci communes (τόποι), i luoghi comuni utili all'oratore. C. è il solo dei grandi oratori antichi che abbia esposto nei particolari la propria teoria oratoria che, partendo dalle regole tecniche dei retori e da principî filosofici dell'Accademia, si era venuta sviluppando secondo la personale esperienza.

Le lettere: la corrispondenza di C. comprende 864 lettere (di cui 90 indirizzate a C.) in 4 raccolte: Epistulae, dette dallo Stefano in poi Ad familiares, in 16 libri, dal 62 al 43; Ad Atticum, dal 68 al 44, in 16 libri; sono le più importanti per noi, per le confidenze di C. che ci svelano i retroscena della politica e della società romana del suo tempo; Ad Quintum fratrem, in 3 libri, dal 60 al 54 (29 lettere): Ad Brutum, in 2 libri, del 43. Le lettere ad Attico furono pubblicate da Attico stesso nel 33, le altre dopo la morte di Cicerone forse dal liberto Tirone.

Opere filosofiche: nelle opere filosofiche, scritte, ad eccezione del De officiis, in forma dialogica, C. rivela una sostanziale adesione al platonismo e allo stoicismo e un chiaro rifiuto dell'epicureismo. Nella prima di esse, il De republica (iniziata nel 54 e, dopo varî rimaneggiamenti, compiuta nel 51), C. si occupa dello Stato e della migliore forma di governo. Le dottrine platoniche e aristoteliche, che ne forniscono lo spunto, vengono qui rielaborate in funzione della situazione di fatto e della realtà romane e si risolvono nella concezione che la forma mista di governo (monarchia, oligarchia e democrazia) sia la migliore. Il 6° libro dell'opera, il cosiddetto Somnium Scipionis, che espone la dottrina dell'immortalità dell'anima, ha avuto enorme fortuna.

Al De republica seguì il De legibus, che si ritenne quasi da tutti scritto fra il 51 e il 50; ora si tende a considerarlo come l'ultima opera di C., composta verso la fine del 44 a illustrare l'estrema difesa della legalità contro Antonio. In seguito, nell'aprile del 46, C. scrisse i Paradoxa Stoicorum ad Marcum Brutum, illustrazione di sei principî della dottrina morale stoica contrarî all'opinione comune. Nel 45, morta la figlia Tullia, compose il De consolatione, di cui sono rimasti pochi frammenti, poi l'Hortensius (in memoria del grande oratore Q. Ortensio Ortalo), per noi perduto, specie d'introduzione ed esortazione allo studio della filosofia, la cui lettura volse sant'Agostino alla filosofia. Del problema della conoscenza si occupò in due libri: Catulus e Lucullus, che poi rifece in 4 libri dedicati a Terenzio Varrone.

Noi abbiamo il primo libro della seconda edizione, Academica posteriora, volgarmente detto Varro, e il Lucullus della prima edizione, Academica priora. C. segue in queste due opere la teoria del probabilismo della nuova Accademia. Ancora nel 45 C. passò all'approfondimento del problema etico nei 5 libri del De finibus bonorum et malorum. Sulla fine del 45, mentre attendeva al Timaeus, libera traduzione dell'omonimo dialogo platonico, di cui ci sono giunti frammenti con l'introduzione, si volse a comporre le Tusculanae, 5 libri di dialoghi nei quali, fondendo insieme posizioni socratiche, platoniche e stoiche, tratta del problema della felicità, e il De natura deorum, in tre libri. Al principio del 44 compose il Cato Maior de senectute; dopo la morte di Cesare pubblicò il De divinatione, in 2 libri, dialogo fra Cicerone e il fratello Quinto sulla mantica, nel quale C. finisce con il sostenere la tesi della duplicità della religione, ufficiale e popolare da un lato, interiore e colta, dall'altro; poco tempo dopo sempre nel 44, scrisse il De fato dedicato a Aulo Irzio, pervenutoci incompleto, complementare, come il dialogo precedente, al De natura deorum, nel quale si dibatte la questione del contrasto fra destino e libero arbitrio. Ancora del 44 è l'operetta Laelius de amicitia. Si sono perduti i due libri del De gloria scritti nel luglio 44, che il Petrarca credette di possedere. L'ultima opera filosofica di C. e la più famosa è il De officiis, trattato di forma espositiva indirizzato al figlio, intorno ai doveri morali; seguiva un'appendice De virtutibus, ora perduta.

Come filosofo C. non è originale. È un eclettico, che, applicando il criterio logico degli Accademici, la verisimiglianza o probabilità (e probabile gli sembra tutto ciò che ha conferma nel senso comune o consenso delle genti, spiegato con la presenza in tutti gli uomini di nozioni innate), sceglie e riunisce temi e concetti della filosofia greca. Ma in questo eclettismo, determinato sempre meglio nel suo significato positivo della ricerca delle fonti greche di Cicerone (Panezio, Posidonio, Filodemo, Antioco di Ascalona, ecc.), è la grandezza della sua opera: opera poderosa di assimilazione della cultura greca, che continuava un indirizzo già iniziatosi nel circolo di Scipione Emiliano, ma si cimentava ora in un campo pressoché nuovo (unico antecedente notevole il poema di Lucrezio), per il quale occorreva creare perfino il mezzo di espressione, il linguaggio filosofico; opera d'importanza decisiva nella storia della cultura occisdentale. Dal vasto campo della speculazione greca, conformemente al genio suo e dei Romani, C. trasceglieva solo ciò che potesse assumersi a norma di vita, e tutto commisurava, e adeguava in fondo, alla sua umanità e urbanità; ma proprio per questo molte voci di filosofi greci acquistarono il potere di risonare ancora e di agire a lungo in ambienti - pagani, cristiani, umanistici - ignari talvolta della lingua greca, lontani comunque dalle sottigliezze speculative di quella filosofia.

Lo stile di C., particolarmente quello delle orazioni e dei trattati (le lettere sono soprattutto per noi moderni un cospicuo esempio del sermo familiaris latino), divenne ben presto esemplare; sicché a Quintiliano sembrava riprovevole l'ardire di Seneca che volutamente s'era allontanto da quei canoni di simmetria e sonorità; molti tra gli autori cristiani (s. Girolamo sopra tutti) modellarono la loro prosa sull'esempio ciceroniano, che influì poi per questo tramite sulle artes dictandi del Medioevo. Più forte ancora fu l'influsso di C. sullo stile degli umanisti (v. ciceronianismo).

Si hanno più copie di un suo ritratto, tutte risalenti a un unico originale, di stile ellenistico tardo.