CECCHI, Emilio

 

www.treccani.it

di Felice Del Beccaro

Nato a Firenze il 14 luglio 1884 da Cesare - d'origine campagnola, lavorava in un negozio di ferramenta - e da Marianna Sani, secondo di sei figli, trascorse l'infanzia e l'adolescenza in un ambiente patriarcale, di rapporti affettuosi, segnato peraltro da non poche sventure.

Dalla lunga malattia della primogenita Annunziata, morta di tisi nel 1902 a vent'anni, il padre uscì distrutto. Rievocando nel diario il dramma, il C. si confortava riandando ai suoi primi contatti con l'arte. Si recava spesso incontro al padre quando usciva dal lavoro, e questi, in silenzio, lo conduceva in chiesa: "Si passavano insieme tante ore, ch'era quasi buio, inginocchiati su quelle panche ... Il mio pensiero sbandava, divagava; o cercava di afferrarsi alle forme architettoniche e alle immagini che si scorgevano nella penombra. Non era più quella visione meravigliata, estatica, di quando, da fanciullo, alle funzioni splendenti di lumiere, fragorose di canti e dei suoni dell'organo, per la prima volta m'ero accostato al mondo dell'arte, senza quasi poter separarlo e distinguerlo da quello in cui vivevo" (Taccuini, pp. 581 s.). In una notadel 1917 confessa: "ho bisogno di immagini, sulle quali riconosco i miei stati d'animo quasi con altrettanta prontezza e precisione che sugli scritti di un autore" (ibid., p. 276); e poco più oltre (p. 298): "ilmio mondo è stipato di figure". M. Praz, cogliendo questo motivo, poté affermare che il C. faceva critica per immagini (E. C. e la cattedra della terza pagina, in L'Approdo letterario, ottobre-dicembre 1967, pp. 7-16).

Frequentò le scuole elementari dei padri scolopi, poi quelle comunali; passò alle scuole tecniche, da queste all'istituto tecnico commerciale, e nel 1901 si diplomò ragioniere. In premio venne mandato in vacanza presso un prozio paterno a San Quirico d'Orcia, dove riprese certi tentativi di pittura già iniziati a dodici anni. A Firenze frequentò il Gabinetto Vieusseux dove lesse per la prima volta opere di G. D'Annunzio e, in parte, la Storia della pittura in Italia di G. R. Cavalcaselle-J. A. Crowe; egli fece anche schemi di dipinti che lo avevano interessato, conobbe G. Stuparich e D. Garoglio, che fu insegnante di G. Papini e gli consigliò appropriate letture. Quest'incontro e l'altro con V. Scialoia influirono certamente sulla sua prima formazione. Nel 1902 trovò un impiego temporaneo in una banca, e alla fine dell'anno iniziò, sempre a Firenze, il servizio militare.

L'ambiente culturale cittadino, che era allora il più aperto e il più vivace d'Italia, lo attraeva sempre di più. Nel 1903 anche il fratello Guido si ammalava di tisi (e ne morì nel 1905). Quell'anno il C. diventava amico di Papini e del pittore A. Spadini, prendeva a frequentare gli studenti dell'istituto di studi superiori, fra i quali G. A. Borgese, G. Prezzolini e A. Soffici in particolare, ed esordiva come scrittore con l'articolo Il concerto (in Leonardo, I[1903], 8, pp. 5-7), che egli finnava con lo pseudonimo di "Aymerillot".

Lo scritto registra influssi del Papini ideologo, quello della "cultura dell'anima", e del Borgese (per il fascino di questo, si veda, del C., Ricordo di Borgese, in Di giorno in giorno, Milano 1954, pp. 357-60). Si trattava comunque di una prosa ancora incerta, faticosa, nella quale, avverso il positivismo, affermava la sublimazione delle anime mediante le arti, ritenute interdipendenti con a capo la musica, dalla quale la poesia riceve il ritmo e la pittura il colore. Un influsso del Borgese è da scorgere in taluni parallelismi che, sia pure in sordina, riconducono all'estetica crociana. Due anni più tardi lesse Vico, ed è appunto in base a questi primi orientamenti che in seguito poté affermare di aver sempre cercato di attenersi ad un esercizio critico fondato su Vico, De Sanctis e Croce (cfr. Ricordi crociani, Milano-Napoli 1965).

Altri scritti comparvero in quegli anni nel Regno e nel quotidiano fiorentino Il Nuovo Giornale. Gliargomenti erano motivati in maggior misura da letture e da visite a mostre d'arte. Merita di essere ricordato l'articolo a firma "Ortensio", relativo ad una mostra di tre pittori (E. Zoir, A. De Karolis e G.Costetti), intitolato Tre anime (in Leonardo, I [1903],11-12, pp. 15-18), dove egli dà preziose indicazioni della pluralità dei suoi interessi, diffondendosi anche su vari problemi teorici relativi sia all'arte sia alla critica.

C'è una insistente ricerca di chiarimenti, che va di pari passo con la conquista della piena coscienza di se stesso. Il suo credo estetico ha per obiettivo un'arte considerata bellezza assoluta, sicché l'esercizio critico gli risulta impotente a formulare un giudizio, capace al massimo di un'approssimazione: concetti che denotano un influsso del Carducci di fronte al realismo positivistico, con in più una evidente suggestione dannunziana. Più mobile è ora la ricerca sperimentale del C., in quegli scritti coevi o di poco posteriori pubblicati nel Regno, chehanno per oggetto le letterature straniere, con una predilezione quasi congeniale per la letteratura inglese. La traduzione della Defence of Poetry di Shelley (Lanciano 1910) porta la data di stesura del 1903. Ed è anche significativo, per il suo sviluppo di critico, che l'esame dei singoli scrittori comporti un'evidente attenzione ad un più vasto panorama culturale e storico, ed una particolare insistenza sul problema morale, a principiare dalle stesse scelte, un preludere alla sua posizione durante il periodo vociano. Si tratta di articoli sulla letteratura russa, tedesca e inglese; quest'ultima oggetto di alcuni indicativi interventi nel corso del 1906, in particolare quelli su A. Ch. Swinburne (Nuovo Giornale, 17 aprile) e su G. Meredith (Nuova Antologia, 1º settembre, pp. 25-31; seguito quattro anni più tardi da un altro ne Il Marzocco, 11 dic. 1910). Nello scritto su Meredith c'è (R. Macchioni Jodi, L'esordio criticodi E. C.)una più manifesta attenzione alle componenti mitologiche, metaforiche e pittoresche dell'arte dello scrittore inglese, e più specialmente ai rapporti tra arte e vita, che anticipano alcuni dei postulati fondamentali della poetica del C. prosatore.

La collaborazione al Nuovo Giornale sollecitò il C. ad esaminare alcuni problemi dell'attività giornalistica (L'avvenire del giornalismo, 27 giugno 1906), che egli voleva trasformata su modelli statunitensi, e con la capacità di "rinnovare il mondo con una buona ondata di poesia e di fantasia". Sul giornalismo e i giornalisti si soffermò più volte, discutendone talvolta al di là di pratiche possibilità di realizzazione. Spunti polemici e più articolate riflessioni si trovano nei Taccuini (ad es. p. 10, alla fine del 1911) e in una lettera a G. Boine del 28 maggio 1913 (G. Boine, Carteggio, II, G. Boine-E. Cecchi, 1911-1917, a cura di M. Marchione-S. E. Scalia, Roma 1972). In quest'ultima si legge fra l'altro: "...il mio giornalismo è la cosa che mi rimorde meno... Credo che mi sono accostato, attraverso ad una fatica talvolta molto dura, superando delle terribili stanchezze, al mio destino ch'è di scrittore, di artista".

Nel 1906, conseguita da privatista la licenza liceale, si iscrisse all'istituto di studi superiori di Firenze, e seguì assiduamente i corsi di lettere, senza peraltro portarli a compimento: un esame fallito gli impedì di usufruire dell'esenzione dalle tasse scolastiche. Nell'autunno dello stesso 1906 conosceva la pittrice Leonetta Pieraccini, di Poggibonsi, che sposerà cinque anni dopo. Si interessò alla filosofia recensendo sempre nel 1906 Il crepuscolo dei filosofi di Papini (Il Regno, 12 febbraio; poi in Cultura sociale del 21 marzo), Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel di Croce (Il Nuovo Giornale, 3 novembre) e scrivendo Una filosofia che non vuole parole sul pragmatismo contemporaneo (Il Nuovo Giornale, 15maggio). Sempre nel 1906 si occupò di problemi della cultura, dandone una definizione orientata secondo un proprio ideale ("tendenze girovaghe nomadi volubili": I pregiudizi della cultura, in Il Nuovo Giornale, 3 ag.). La collaborazione alle tre riviste di R. Murri, Athena, Cultura sociale e Rivista di cultura, frequente durante il 1906, per diradarsi nel 1907 e concludersi nel marzo del 1909, è un'altra testimonianza di un interesse speculativo che non esclude altri problemi, tutti o quasi riconducibili ad un appassionato sperimentalismo.

Il C., con questa complessa attività culturale, mostra già nel 1906 chiare indicazioni del suo futuro di critico e di scrittore. Soprattutto l'interesse verso le letterature straniere e la collaborazione meno programmatica, più libera, al Nuovo Giornale rispetto a quella data alle riviste, rivelano un C. più personale, più consapevole dei propri mezzi, già in buona parte svincolato dagli ambienti del Leonardo, di Hermes e del Regno, ai cui eccessi si sottrae gradatamente, non senza l'influsso moderatore dell'equilibrio crociano. Si avvicina, insomma, al periodo segnato dall'attività della Voce, rivista alla quale darà il suo apporto anche nella fase preparatoria.

Nel 1907 fece amicizia col critico musicale e compositore G. Bastianelli, che fu il primo a fargli da giudice confidenziale, non senza suscitare talvolta malumori e stizza. L'anno seguente fu un periodo difficile, forse il più drammatico della sua vita. Nei Taccuini (p. 13), riferendosi alla stagione invernale, annota: "epoca di dolore infinito e di grande bujo intorno". Alla fine di febbraio si definì senza più speranze la malattia del padre, che vivrà ancora miseramente per sei anni; e il C. dovette sostituirlo nel negozio. Poi fu la malattia della sorella Amalia - rimasta sempre cagionevole, turbata pure da depressioni nervose - che gli era spiritualmente molto vicina, anche per il comune amore della musica.

Quasi sopraffatto da questi eventi, si chiuse in sé mettendo da parte ogni attività culturale: tollerò solo la lettura di Shakespeare. Ma poi, durante l'estate, lavorò intorno a un'opera di poesia, uscita l'anno stesso col titolo Inno primo (una ristampa si ebbe tre anni dopo a Lanciano), le cui prime prove erano comparse in Hermes (n. 7, maggio 1905) e nella Rivista di Roma (gennaio 1906). Altre poesie, le prime delle quali recano la data del 1909, uscirono nella Riviera ligure dal 1913 al 1916. Di quest'opera dette infine una edizione E. Falqui col titolo L'uva acerba (Milano 1947): il C. in una breve nota parla del suo primo libretto di versi come un prodotto di "fanatismo storicistico", e accenna a "tono mutato" per i versi del 1915-16. Le poche osservazioni pertinenti fatte su questo settore della sua creatività si accordano su di una prevalente linea tradizionale, che parte dal Carducci per raccogliere echi pascoliani e dannunziani (soprattutto di Alcyone) e di poeti di nuove esperienze quali i crepuscolari e i futuristi. W. Binni (Formula per C.) vi coglie una dissoluzione della pienezza carducciana negli aggettivi "che insinuano quel misto di sensibilità e di trovata che sarà poi sempre più la qualità essenziale della sua arte". Fu un'esperienza che si esaurì in se stessa, dove semmai è da notare che la sua visione della natura rivela i segni di quella vibratilità ed inquietudine che di lì a poco saranno presenti nei primi saggi di notevoleimportanza, quelli su Kipling (1910) e su Pascoli (1912).

Alla fine del 1908 usciva il primo numero della Voce. Sistemati gli affari paterni, ora il C. lavorava metodicamente; dette a leggere i suoi primi saggi di maggior consistenza all'amico Prezzolini, e nel 1909 prese a scrivere i Taccuini annotando anche eventi e riflessioni di anni precedenti. La sua collaborazione alla Voce è limitata agli anni 1909-1911, durante la direzione di G. Prezzolini; poi c'è il salto del 1912 (dall'aprile all'ottobre la rivista venne diretta da Papini), quando il C. collaborò soltanto alla Tribuna. Col ritorno di Prezzolini alla direzione pubblicò ancora tre articoli nel corso del 1911, per concludere la collaborazione all'Almanacco della Voce nel 1915.

Il primo periodo vociano è certamente quello che lo trovò più consenziente, aperto a molteplici interessi ed esperienze. Del resto, tra i responsabili della Voce godeva di una già notevole autorità (cfr. una lettera di Prezzolini a Papini del 24 ott. 1909, in Papini-Prezzolini, Storia di un'amicizia, p. 245). In quel periodo vi pubblicò articoli su D'Annunzio, Pascoli, Gozzano, Panzini, Benelli, Beltramelli. Meno persuaso dovette essere quando, al ritorno di Prezzolini, si convinse che la Voce era, in effetti, una "rivista di idealismo militante" orientata verso G. Gentile.

La sua collaborazione, nell'insieme, rispetto all'indirizzo programmatico si distingue per un più marcato atteggiamento morale: il rimpianto dell'ormai perduto umanesimo che fu del Carducci lo portò ad un ritorno a De Sanctis, e di conseguenza al ricorso a modelli classici quali Foscolo, Manzoni, Leopardi. Il suo moralismo nasce da quella religiosità la cui assenza lamentava dall'anima moderna, causa prima della crisi dell'inizio del XX sec. (P. Leoncini, C. e D'Annunzio, Roma 1976, p. 26).

Documento autorevole per una verifica della sua posizione nella Voce è lo scritto Intorno a B. Crocee G. D'Annunzio, steso nel luglio del 1911 e pubblicato in Aprutium (ottobre-novembre 1913, pp. 485-505), poi ripreso e rielaborato in altre due stesure (il testo definitivo è in Ritratti e profili, Milano 1957, e in Ricordi crociani, cit.). Vi si può misurare il garbato dissenso dal Croce: "La filosofia crociana dice di essere nell'anello del reale, ma è invece fuori, come una proiezione ...: dice di essere una cosa con la storia, ma nostalgicamente, per quella pressione formidabile che gli pseudo-concetti esercitano sul vuoto del concetto. Si finisce in un agnosticismo estetico. Non esiste filosofia, verità: questa è in continua emersione come storia... Di assoluto non c'è che l'arte (ma tutto è arte): l'attimo della bellezza e l'espressione della bellezza; tutte le altre forme non sono che transiti..." (ibid., pp. 27 s.). La maturità del C., prese corpo allora, dal 1912 al '15. Se il periodo vociano risulta, tutto sommato, di innegabile importanza, a prescindere dagli inevitabili dissensi (significativo documento, una lettera a Prezzolini del 19 nov. 1914), bisogna tener conto che la collaborazione alla Tribuna, iniziata alla fine del 1910 e proseguita attivissima fino al 1923, contribuì a renderlo più padrone di sé, non condizionato cioè da impegni programmatici sia pure di carattere generale.

Il saggio su Kipling uscì sulla Voce (1º dic. 1910) e poi, subito dopo, nei Quaderni della Voce (n. 4, 1911). In una nota del febbraio del '12 (Taccuini, p. 22) scriveva: "Il saggio su Kipling, determinato in me da quella crisi oggettiva e di realismo morale che attraversai quando cominciai ad uscire dagli anni penosi della mia vita sola e data a occupazioni non congeniali...; l'incontro con la figura letteraria di Kipling fu casuale. Si trova, anche esso, sulla linea dell'Inno; come una degenerazione, starei per dire materialistica delle idee e dei sentimenti che l'Inno rappresentava". E concludeva negli anni '50 (ibid., p. 602) con la riflessione: "Il peggior servizio che un critico possa rendere, per sua deficienza, è quando riduce un poeta e un artista nei suoi oggetti; come io feci da ragazzo per Kipling...". Le qualità dello scrittore, ancora entusiasta di fronte alle "scoperte", prevalsero al punto di fare di una monografia una sorta di rievocazione appassionata della personalità e del cursus di Kipling sullo sfondo di una natura esotica inquietante. R. Serra rimase impressionato dal saggio, tanto da scriverne al C. "...ho letto con gran piacere... Kipling, lo scrittore che io amo tanto da non volerne parlare... Ma questa volta me ne parlano così bene: il suo giudizio critico coincide con l'impressione del lettore innamorato. E tutto il ritratto è semplice, fluido, ricco..." (24 genn. 1911, in Epistolario, Firenze 1953).

Alla fine del febbr. 1911, dopo le nozze, si trasferì da Firenze a Roma. Iniziò, nell'agosto, la corrispondenza con Boine, conosciuto a Roma nel maggio del 1910, continuata fino al gennaio del 1917, a poco prima della morte. All'inizio del '12 un nuovo dolore: il primogenito nacque morto. A Roma aveva ritrovato V. Cardarelli, già conosciuto a Firenze; conoscenze importanti di quel tempo: B. Berenson e G. Deledda. Pubblica uno dei suoi maggiori saggi, La poesia di G. Pascoli (Napoli 1912), un lavoro ancora fondamentalmente valido. Al Pascoli restò fedele, con apporti sempre acuti tendenti a riconoscere, con l'evoluzione dell'esegesi dell'opera, la sua importanza quale precursore della poesia italiana del Novecento. Polemizzò con Croce, dopo che questi, con una Postilla pubblicata ne La Critica del 20 sett. 1919, ne condannò in maniera definitiva l'opera; l'intervento del C. (Pascoli ricrocifisso, nella Tribuna, 18 ott. 1919) fu particolarmente severo. Riuniva in volume (Studi critici, Ancona 1912) trentaquattro articoli, dei quali poco meno della metà usciti sulla Tribuna e sette sulla Voce. Vi erano esaminati libri di vario valore, in alcuni casi persino insignificanti; quel che contava era spesso l'occasione, il pretesto per associare al lavoro del critico quello dello scrittore talché le due attività possono considerarsi coesistenti in una sorta di equilibrio instabile.

Nei Taccuini è traccia di uno schema di romanzo con implicazioni, pare, autobiografiche, tentativo che ritorna nel 1915. Di questi anni sono talune prove di narrativa pochissimo conosciute, che confermano la sua passione plurisperimentale. Del resto il C., intorno agli anni '40, fece annunciare più volte dall'editore Mondadori un romanzo, da intitolarsi Gnu, mai arrivato in porto. Della varia collaborazione di quegli anni (non vanno dimenticati anche Il Marzocco e la Nuova Antologia) rimangono appunto quattro racconti: Miss Violet (Nuova Antologia, 16 ott. 1910, pp. 594-600), Letizia in ritiro (Ventesimo, 1º dic. 1910), L'educazione di Clara (Moda del giorno, gennaio 1911) e Lalla in città (Nuova Antologia, 16 giugno 1911, pp. 616-626), i cui esiti si bilanciano fra echi del D'Annunzio narratore e il preannuncio, ancora incerto ma già in precedenza avvertito, del prossimo prosatore d'arte.

Nel 1911, salvo quel poco dato alla Voce e ad altri periodici, continuò a collaborare assiduamente alla Tribuna. Il C. non approvò la Voce letteraria, divenuta tale col numero del 15 dic. 1914, la cosidetta "Voce bianca", quella che fu diretta da De Robertis: era già stato contrario ad un precedente analogo progetto di trasformazione (cfr. la lettera citata di Prezzolini a Papini del 1909).

Il suo articolo False audacie (La Tribuna, 13febbr. 1915), che recensiva le Cento pagine di poesia di Papini, fu l'esca di una violenta polemica. La Voce letteraria del 28 febbraio pubblicò la stroncatura papiniana del C. (La Sor'Emilia; poiraccolta da Papini in Stroncature) - il C. rispose con una nota, Pietosa aggressione, nella Tribuna del 3 marzo 1915 - e un articolo di De Robertis, Sfoghi, spine, e verità, che commentava come totalmente negativo il giudizio sul C. di Serra. Boine difese l'amico (in Riviera ligure, s. 4, XXI[1915], n. 39; poi in Frantumi seguiti da "Plausi e botte", Firenze 1918, pp. 172 ss.) con una recensione a Le lettere di Serra (Roma 1914), dove si trova il giudizio discusso (pp. 175, 178-182), non certo del tutto limpido, ma di fatto, a parte alcune riserve, positivo.

Nel '15, con l'entrata dell'Italia nel conflitto, il C. venne mobilitato e raggiunse le retrovie, da dove inviò alla Tribuna alcune corrispondenze, la prima il 28 giugno. Intanto usciva la Storia della letteratura inglese nel secolo XIX (Milano 1915), opera importante non solo nei limiti del curriculum del C., frutto di un lungo e impegnativo lavoro che aveva le origini nel suo interesse per la letteratura inglese sin dai tempi del Leonardo.

L'impegno del C. in proposito è attestato, oltre che da varie pagine e abbozzi, da uno schema nei Taccuini del metodo da seguire, in data 12 dic. 1912 (p. 8): accanto a componenti storiche di fondo, vi si parla di una serie di ritratti e, per ciò che riguarda la struttura, di "una parte architettonica e una parte lirica". Sempre per l'impegno, si veda l'articolo-prefazione che il C. preparò per la seconda edizione (in Amor di libro, il bollettino della casa editrice Sansoni di Firenze, gennaio-febbraio 1948, pp. 1-3) che venne realizzata molto più tardi col titolo mutato e numerosi rimaneggiamenti: I grandi romantici inglesi (Firenze 1961). È interessante soprattutto la parte che riguarda le riserve, mosse al libro quando uscì, sul metodo e sul contenuto. Il C. è severo critico di se stesso: giustifica le sue analisi stilistiche facendo notare che il tempo in cui il libro fu preparato e composto coincise con la scoperta da parte sua del mondo delle arti figurative, e definisce il lavoro "un documento della felice ed illusa gioventù". E scrive: "Lamb e De Quincey: ecco due veri santi della prosa; se altri mai furono nell'Ottocento inglese". Nomi indicativi, ai quali si potrà aggiungere semmai Chesterton, per comprendere da quali fonti gli vennero gli stimoli a fare del saggio, se non proprio un'opera storica, una prima sicura immagine di se stesso come compiuto scrittore.

La prima prosa destinata poi ad entrare nella raccolta Pesci rossi (Firenze 1920) uscì sulla Tribuna (1° febbr. 1916): è Compagnomorto, che nel libro figura col titolo Indilectissimum, ricordo di un caro amico, Arnaldo Cantù di Brescia, critico promettente, caduto in combattimento nel novembre 1915. Intanto, nel '16, trasferiva provvisoriamente a Firenze la famiglia, che rientrerà a Roma solo nel 1919. Raggiunse poi il fronte (era capitano di fanteria); rimangono di questa esperienza molte note nei Taccuini, generalmente appunti rapidi che fermano impressioni, incontri, non di rado circostanze che contrastano con l'assurda tragedia della guerra. Oltre le corrispondenze, e la collaborazione ai "giornali d'Armata", continuò a scrivere qualche recensione; quella alle Poesie giapponesi tradotte da H. Shinoi e G. Marone la intitolò Ipesci rossi (La Tribuna, 23 ag. 1917), e suggerì poi il titolo dell'intera raccolta. Nel novembre del 1918 venne inviato dalla Tribuna aLondra, da dove inviò al giornale corrispondenze fra cui alcune note politiche.

Nell'aprile del 1919 uscì il primo numero della rivista La Ronda, alla cui fondazione il C. dette un autorevole apporto, insieme con R. Bacchelli, A. Baldini, B. Barilli, V. Cardarelli, L. Montano e A. E. Saffi. Ne scrisse anzi un significativo articolo nella Tribuna del 19 maggio 1919, intitolato Ritorno all'ordine. Nella Voce il C. era ancora un esordiente, anche se vi acquistò presto una posizione di prestigio; ma nella Ronda aveva ormai raggiunto una sua autonomia e una personalità ben definita.

La rivista fu condizionata dalla presenza di Cardarelli, che la volle in certo qual modo a sua misura, come cautela e difesa di alcuni valori tradizionali e di principi conservatori e perciò ambigua ed equivocabile nel contesto dell'epoca. Una prosa del C. coeva alla preparazione della rivista assume quasi un valore emblematico: Dello stare a sedere (Tribuna, 22 febbr. 1919; poi in Pesci rossi). Vidispiega una pacata ma ferma difesa dell'isolamento del letterato, contro le considerazioni di P. Gobetti (Energie nuove, s. 2, n. 5 e n. 7 del 1919) che esortava gli intellettuali e in specie i letterati a prendere parte alla vita pubblica, a non ignorare la realtà circostante in un momento delicato come quello del dopoguerra. Di questa tendenza conservatrice della Ronda partecipò anche il C., nella misura che glielo consentiva il suo habitus di uomo e di letterato. Evidentemente il C. critico, nella cui attività era ancora presente, per quanto attenuata, la componente crociana, non poteva condividere la linea di Cardarelli, antidesanctisiana e fondamentalmente antistorica. Ma quello che più ha contato, nel quadro di ambiguità e "doppiezza" dell'attività rondista, è che i migliori avessero la possibilità di seguire la loro strada, soprattutto nella libera applicazione di una inquieta volontà di ricerca, quale appunto nel C.; e questa possibilità veniva a costituire nello stesso tempo l'apertura della rivista, l'intesa di reciproca tolleranza. Nuovi suoi saggi e recensioni a proposito di scrittori inglesi e americani acquistarono in quegli anni in ordine e chiarezza; la natura del suo saggio e dell'elzeviro ne sortì una più stabile definizione; incontri con altri autori arricchirono la sua personalità (ad es., l'opera di C. Cattaneo) o autori già a lui noti gli riservarono la sorpresa di nuove scoperte (Manalive di Chesterton, che pure tradusse). Tra i contributi più personali che il C. offrì alla incerta fisionomia della rivista, sono stati ricordati il patrimonio linguistico "di toscano antico (granducale più che mediceo)" e la proposta di un dissidio, che fu già in Poe e Baudelaire, tra il gusto classico e la ricerca stilistica (G. Raimondi, C. nella "Ronda",in Immagine, II [1949], 1, pp. 15 ss.).

Nell'aprile del '19 il C. divenne corrispondente dall'Italia del quotidiano Manchester Guardian, restandolo fino al giugno 1925 (gli articoli, in italiano e quasi tutti non firmati, venivano tradotti a cura del giornale). Il 1919 ed il 1920 furono per il C., anni di intensa attività. Usciva Pesci rossi, il libro che viene considerato il suo più caratterizzante, raccolta di prose scritte fra il '16 ed il '19: diciassette (in realtà diciotto, perché una è fusione di due scritti) pubblicate sulla Tribuna, e tre sulla Ronda (una uscì però anche negli Annali di filologia).

Le occasioni sono varie: avvenimenti pubblici e privati, talvolta cronaca minima, letture, incontri, ricordi di persone, osservazioni della natura animale e vegetale. Col libro - l'unico che resterà inalterato nelle successive edizioni - il C. inaugura un nuovo genere che campeggerà nel panorama letterario italiano fra le due guerre. Nelle soluzioni migliori è il critico che controlla lo scrittore, e la misura della prosa dipende dal rapporto tra le due qualità, ma i risultati tendono ad una sorta di lirismo sorvegliato e contenuto, al punto di ingenerare un senso di distacco scambiato talvolta per impassibilità. Il correttivo consiste in un'apertura verso l'arguzia, verso un umorismo scaltro e copertamente scanzonato.

Fra i temi più congeniali prevalgono quello di un passato irrevocabile, lontano o vicino, e l'altro più possessivo degli animali, sulla cui vita il C. si china come su esponenti diun mistero che attrae e al tempo stesso comunica un senso di oscuro disagio (vedi la passione, più che la curiosità, per gli zoo, quale si manifesta tra l'altro nella monografia Lo Zoo, n. 4 di Vedere, Milano 1937). I precedenti e più prossimi stimoli vanno ricercati nella complessa formazione del C.: per ciò che concerne lo spirito e il taglio delle prose vale l'esempio dei saggisti inglesi dell'Ottocento, del Lamb in particolare, che s'incontra con la lezione decadente di certa prosa dannunziana, quella ad esempio che culminò poi nel Notturno. Ma non era estranea quella sua disposizione morale ed estetica che il programma della Ronda aveva tenuto nella dovuta considerazione, e che si accordava, sia pure inconsapevolmente e d'istinto, con le mutazioni politiche in corso.

La prosa del C. trovò in lui stesso il teorizzatore e lo storico, e aprì una serie di discussioni e di chiarimenti anche sulla valutazione di merito del C. critico e del C. scrittore. Al tempo del suo esordio, era corrente persuasione che lo scrivere per i giornali nuocesse a chi aveva qualità letterarie, vale a dire stilistiche. Il C. lottò per sconfiggere questo pregiudizio, e la sua arma fa appunto la prosa d'arte.

Si vedano due suoi scritti: Dell'articolo di giornale (sulla Stampa dell'11 genn. 1924, poi nella raccolta L'osteria del cattivo tempo, Milano 1927), e l'altro, quando ormai la distanza aveva chiarito la reale natura e la collocazione del "genere" Saggioe prosa d'arte (in Immagine, II[1949], n. 11 e n. 13; poi in Letteratura italiana del Novecento, II, Milano 1972, pp. 1336-1346). Nel secondo il C. distingue i due generi, il saggio e la prosa d'arte; dichiara di propendere per il primo, ma in pratica non tiene conto di simile distinzione. All'interno della sua stessa attività letteraria, il C. era in grado di pervenire a distinzioni, come il seguente giudizio che è definizione delle sue qualità: "Un saggista ed un critico, alla fine dei conti, sarà sempre lo storico e il commentatore d'una realtà effettuale... Il suo discorso è più sommesso, ed in un certo senso gli appartiene meno del discorso del romanziere o del grande poeta. Non tanto nella sua pagina parla il suo talento personale quanto la voce stessa della vita e delle cose" (Confessioni di scrittori, Torino 1951).

Nelle analoghe opere successive (ma è impossibile stabilire delle nette separazioni), quali sarebbero La giornata delle belle donne (Roma 1924), L'osteria del cattivo tempo (Milano 1927), Qualche cosa (Lanciano 1931), Corse al trotto, saggi, capricci, fantasie (Firenze 1936), riedite e sottoposte a rimaneggiamenti e arricchimenti, la linea di sviluppo da un lato è perfezionamento della costruzione, del "taglio" e dall'altro affinamento dello stile. Il culmine di quest'arte e insieme il suo limite è forse da individuare in Inverno (in Corse al trotto), una misteriosa storia d'amore che accompagna l'evocazione di fantastiche tigri bianche in un Oriente immaginario. F. Fortini fu il primo ad avvertirne la situazione di limite (Lettura di "Inverno" di C., in Lettere d'oggi, III [1941], pp. 15-19). Del resto, a proposito di Corse al trotto lo stesso C. ha dichiarato che in tutto il libro "l'attenzione sulle cose dell'anima e del mondo è come raddolcita da un malinconico presentimento della vecchiezza" (Confessioni di scrittori).

Dal 15 luglio 1921 al30 nov. 1923 tenne sulla Tribuna una rubrica settimanale di critica letteraria, "Libri nuovi e usati" (titolo ripreso per una raccolta di articoli edita nel 1958), firmandosi "Il tarlo". Fu con questa rubrica che acquistò sempre più autorità, avviandosi a quell'egemonia culturale che lo distinse, come critico e come scrittore, negli anni successivi, soprattutto dal '30 al '40. Dal 1924 ebbe l'incarico della critica letteraria del quotidiano Il Secolo, in sostituzione di E. Thovez ammalato, e di critica scrisse, in quegli anni, anche sulla Stampa e sul Tevere.

All'anno 1922 annota, fra gli avvenimenti di rilievo, la "conquista del potere da parte di Mussolini". Prima e dopo questo evento troviamo nei Taccuini non poche annotazioni che permettono di rilevare un atteggiamento dignitoso nei confronti del fascismo, l'atteggiamento proprio di un liberale dell'epoca, anche se poi si lasciò invischiare dalle lusinghe del potere, sicché, privato nel 1935 del premio della critica della Quadriennale d'arte perché non iscritto al partito fascista, ebbe l'anno seguente, auspice Pirandello, quello dell'Accademia d'Italia, della quale venne nominato socio nel 1940, a meno di un mese dall'entrata dell'Italia in guerra.

Occorre comunque ricordare la sua adesione al Manifesto degli intellettuali italiani antifascisti, promosso da G. Amendola e redatto da B. Croce, pubblicato da Il Mondo del 1º maggio 1925.Era la risposta all'assassinio di G. Matteotti, e al discorso di Mussolini del 3 genn. 1925 che segnava la drammatica fine dello Stato liberale. Sui suoi rapporti col fascismo si vedano i Taccuini alle pp. 381 e 456 s., dove fra l'altro è riprodotto il testo di una lettera a G. Bottai del 22 dic. 1928. Il C. lamenta la radiazione dal sindacato giornalisti, che gli avrebbe impedito dilavorare, e chiede al gerarca di aiutarlo adducendo ragioni semplicemente umane, di necessità vitale: è un testo senza enfasi, che indulge soltanto ad una generica "italianità".

Nel 1927 prese a collaborare al Corriere della Sera; nel 1930, su invito della University of California insegnò a Berkeley per un anno cultura italiana. E prima di rientrare in Italia, appagò un suo vecchio desiderio di conoscere il Messico.

Le sue opere di solito classificate come "letteratura di viaggio" non si differenziano in sostanza da quelle inaugurate con Pesci rossi: è una partizione di comodo che riguarda i contenuti, le occasioni, che consente un'unità esteriore e di stile. Tra queste spicca per felicità di riuscita Messico (Milano-Roma 1932), la raccolta dei suoi articoli "messicani" inviati al Corriere della Sera. Affascinato dal mistero di una civiltà remota, dalle testimonianze che appaiono oggetti e insieme simboli di stupore e di orrore, il C. non sfugge mai al controllo dell'intelligenza, celebra il mistero di un'antica realtà pressoché inafferrabile, invano mascherata dalla decadente magnificenza dei conquistatori. Non altrettanto felice è il successivo frutto di un viaggio in Grecia compiuto col figlio Dario nel 1934, Et in Arcadia ego (Milano 1936), che ripete un itinerario divenuto in certo qual modo d'obbligo, mentre un vivo interesse suscita il pur discutibile America amara (Firenze 1939), nato dall'esperienza statunitense del 1930-31 (qualcosa aveva anticipato in Messico a proposito di Hollywood) e da un ulteriore viaggio nel 1937-38, sotto la solita forma di articoli di inviato speciale usciti nel Corriere della Sera.

Il libro si legge con piacere anche dove è più lontano dalle competenze del C., quando tratta per esempio - ma come impressioni - di problemi sociali (si veda la discriminazione razziale, e il gangsterismo). Quando però simili problemi vengono discussi nelle loro interferenze e conseguenze politico-economiche, risalta una tale incomprensione della vita americana da indurre ad abbagli ed errori da misoneista e reazionario, anche se poi il C. non partecipava alla propaganda ed alle polemiche del fascismo, che però profittava di tali affermazioni. Diverso e lontano più che mai risulta il C. da giovani come E. Vittorini e C. Pavese, nei quali l'attrazione verso l'America - comune ad una certa Europa degli anni Trenta - era determinata da una passione di libertà capace di scorgere nella civiltà d'oltreoceano un nuovo, positivo aspetto del reale.

Tra le sue opere di viaggio si trovano inoltre Appunti per un periplo dell'Africa (Milano-Napoli 1954); un'aggiunta alle impressioni messicane (Messico rivisitato), in Nuovo Continente (Firenze 1958) che comprende anche Messico e America amara; infine una serie di osservazioni relative a viaggi in Inghilterra e in Francia, in Saggi e vagabondaggi (Milano 1962), che comprende, riedite, le più note raccolte di saggi o prose d'arte e alcune sezioni della letteratura di viaggio.

Scrittori inglesi e americani (Lanciano 1935) riunì una serie di saggi critici tra i quali prevalevano, per numero, quelli di argomento inglese. I saggi americani aumentarono nelle successive edizioni indicando, seppure fra contraddizioni, una crescita di comprensione rispetto al predominante impressionismo di America amara.

Il C. aveva già dedicato alla poesia di Poe, sia pure recensendone una traduzione francese, un articolo in Cronache letterarie del 12giugno 1910, poi un altro, per una traduzione in italiano, nella Tribuna del 9 febbr. 1913. E fuuno dei primi in Italia ad occuparsi di Melville (Corriere della Sera, 27 nov. 1931).Notevole è anche un saggio su Faulkner (in Pan, II[1934], 5 pp. 64-70), incluso in questa raccolta, per lo sforzo di penetrazione e di ampliamento, di prospettiva (venne poi fuso con un altro articolo uscito nel Corriere della Sera del 29 dic. 1951 e successivamente in Prospetti della primavera 1954).Sempre in questo campo va ricordato Emily Dickinson (Brescia 1939),che è una revisione della tesi di laurea della figlia Giuditta, e comprende la biografia della poetessa americana e un'analisi della sua poesia. Scrisse anche l'introduzione ad Americana, raccolta di narratori curata da Vittorini (Milano 1942), la cui prima edizione (1941) era stata sequestrata dalla censura fascista. Nell'introduzione il C. si adeguava alla situazione politica del momento, inasprita dalla guerra in corso, denunciando la letteratura impegnata e la democrazia degli Stati Uniti.

Durante la seconda guerra mondiale il C. rimase a Roma, tranne un soggiorno in Svizzera nel '42 per le nozze della figlia Giuditta col pittore A. Bartoli. Riprese l'attività nel 1945; tornò a collaborare al Corriere della Sera nel 1946, e nel '47 fu fatto socio dell'Accademia dei Lincei. Assunse la critica letteraria de L'Europeo dal '48 al gennaio del '53. Nel 1952 otteneva dai Lincei il premio per la saggistica, auspice B. Croce, e relatore L. Russo che aveva modo di correggere l'opinione in parte negativa prima espressa ne La critica letteraria contemporanea (II, Bari 1942, pp. 286-90).

Intanto, a mano a mano che gli scritti critici sulla letteratura italiana consentivano un raggruppamento secondo criteri classificatori, il C. ne curò la raccolta in volume. Nacquero così, riveduti e ordinati, i volumi Di giorno in giorno (Note di letteratura italiana contemporanea, 1945-1954), Milano 1954; Ritratti e profili (Saggi e note di letteratura italiana), ibid. 1957; Libri nuovi e usati (Note di letteratura italiana contemporanea, 1947-1958), Napoli 1958. A questi vanno aggiunti i Ricordi crociani, con un'appendice di quattordici lettere di Croce.

Stessa cura riservò ai saggi sulle letterature straniere, a principiare da quella inglese che predilesse, e dall'americana. Le edizioni si susseguirono accresciute e talvolta, secondo la necessità, riordinate e diversamente ripartite: così dicasi della Storia della letteratura inglese nel secolo XIX (già annunciata come primo vol. dell'edizione del 1915) che assunse nella seconda ediz. del 1961 il titolo I grandi romantici inglesi,e della raccolta Scrittori inglesi e americani che, a partire dalla terza ediz. (Milano 1954), fu divisa in due volumi. Una raccolta di saggi sulla letteratura francese uscì postuma (Aiuola di Francia, a cura di M. D'Amico-P. Citati-N. Gallo, Milano 1969). Postumi uscirono una nuova edizione de La poesia di G. Pascoli con altri scritti pascoliani (1911-1962), a cura, di P. Citati (ibid. 1968); una raccolta di saggi in prevalenza di letteratura italiana, I cipressi di Bolgheri, a cura di E. Montale-V. Branca (Firenze 1969); un'altra di testimonianze dell'amore del C. per la città natale, Firenze (Milano 1969); i suoi contributi alla Storia della letteratura italiana, da lui diretta con N. Sapegno (IX, Il Novecento, ibid. 1969); infine una scelta della saggistica italiana, Letteratura italiana del Novecento, I-II,a cura di P. Citati (ibid. 1972). Si ricordano pure le numerose voci di letteratura e d'arte scritte per l'Enciclopedia Italiana.

Importanza primaria infatti nella produzione del C. ebbe la critica d'arte, praticata fin dall'esordio. C'era una sua disposizione naturale, che manifestò sempre e coltivò sempre acquistando un'eccezionale sicurezza di conoscitore e di giudizio.

Montale, recensendo Pittura italiana dell'Ottocento (Il Lavoro, 23 giugno 1926),rilevava come il C. vi ritornasse al fervore e all'impeto di certe pagine giovanili, stimolato anche dall'originalità di taluni artisti (Segantini, Fontanesi, Galli). All'affinamento del critico contribuì certamente la quotidiana frequentazione di pittori e scultori tra i maggiori del suo tempo, nonché l'amicizia con critici e storici dell'arte quali B. Berenson, di cui tradusse buona parte delle opere e soprattutto R. Longhi. La sua metodologia in questo campo non si allontana da quella seguita nell'esame delle opere letterarie. Non di rado, riflettendo sull'opera d'arte, ne ricercava i rapporti con l'opera letteraria, per quella interdipendenza delle arti che aveva sostenuto fin dagli anni giovanili. I suoi maggiori interessi andarono al primo Rinascimento fiorentino, e alla pittura italiana dell'Ottocento che sentiva consone al suo gusto oltre che alla sua formazione culturale. Nel secondo caso si ingegnò persino a far risalire ad origini italiane quei fatti pittorici che vengono considerati tributari dell'impressionismo francese, e di questo scrisse come di una lontana filiazione veneto-spagnola.

Tralasciando le innumerevoli prefazioni a cataloghi per mostre ed i brevi profili di artisti non entrati in volume, vanno ricordate, fra le opere più impegnate o indicative delle sue predilezioni e degli esiti critici, Note d'arte a Valle Giulia,., Roma 1912; Pittura italiana dell'Ottocento, Roma-Milano 1926; Trecentisti senesi, Roma 1928; Pietro Lorenzetti, Milano 1930; Cipriano E. Oppo, trad. di J. Chuzeville, Paris 1934; Giotto, Milano 1937; Donatello, Roma 1942; La scultura fiorentina del Quattrocento, Milano 1956; Diario di Iacopo da Pontormo, Firenze 1956; Piaceri della pittura (Saggi e note di critica d'arte con quarantasette tavole), Venezia 1960; Macchiaioli toscani d'Europa, con note critiche di M. Borgiotti, Firenze 1963; la pref. al Taccuino 1870-1884 di G. De Nittis, Bari 1964.

Nella sua vasta attività non va trascurato il settore riguardante il cinema, e il relativo apporto critico. Negli anni 1931-33 si occupò della Cines, della quale fu direttore di produzione dal 1º apr. 1932 durante la gestione di L. Toeplitz. Vi si dedicò con molto impegno, com'era suo costume, e come egli stesso testimonia "con l'esclusione di ogni altro lavoro". Ritornò alla Cines in qualità di collaboratore anche dopo la seconda guerra mondiale, dal 1949 al 1953. Parallelamente scrisse di critica cinematografica, in particolare su L'Italia letteraria (ex Fiera letteraria), trattando anche dei rapporti fra cinema e letteratura.

Nel 1955 ebbe il premio Saint-Vincent di giornalismo; nel 1958 gli venne conferita dall'università di Firenze la laurea in lettere honoris causa. Nel 1959 gli fu assegnata la "Penna d'oro" del presidente della Repubblica.

Nel '64 i disturbi dell'età si aggravarono; la morte della figlia Giuditta (16 luglio 1966) lo abbatté ancor di più. Morì a Roma poco dopo, il6 sett. 1966.