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di Felice Del Beccaro
Nato a Firenze il 14 luglio 1884 da Cesare - d'origine campagnola,
lavorava in un negozio di ferramenta - e da Marianna Sani, secondo
di sei figli, trascorse l'infanzia e l'adolescenza in un ambiente
patriarcale, di rapporti affettuosi, segnato peraltro da non poche
sventure.
Dalla lunga malattia della primogenita Annunziata, morta di tisi nel
1902 a vent'anni, il padre uscì distrutto. Rievocando nel
diario il dramma, il C. si confortava riandando ai suoi primi
contatti con l'arte. Si recava spesso incontro al padre quando
usciva dal lavoro, e questi, in silenzio, lo conduceva in chiesa:
"Si passavano insieme tante ore, ch'era quasi buio, inginocchiati su
quelle panche ... Il mio pensiero sbandava, divagava; o cercava di
afferrarsi alle forme architettoniche e alle immagini che si
scorgevano nella penombra. Non era più quella visione
meravigliata, estatica, di quando, da fanciullo, alle funzioni
splendenti di lumiere, fragorose di canti e dei suoni dell'organo,
per la prima volta m'ero accostato al mondo dell'arte, senza quasi
poter separarlo e distinguerlo da quello in cui vivevo" (Taccuini,
pp. 581 s.). In una notadel 1917 confessa: "ho bisogno di immagini,
sulle quali riconosco i miei stati d'animo quasi con altrettanta
prontezza e precisione che sugli scritti di un autore" (ibid., p.
276); e poco più oltre (p. 298): "ilmio mondo è
stipato di figure". M. Praz, cogliendo questo motivo, poté
affermare che il C. faceva critica per immagini (E. C. e la cattedra
della terza pagina, in L'Approdo letterario, ottobre-dicembre 1967,
pp. 7-16).
Frequentò le scuole elementari dei padri scolopi, poi quelle
comunali; passò alle scuole tecniche, da queste all'istituto
tecnico commerciale, e nel 1901 si diplomò ragioniere. In
premio venne mandato in vacanza presso un prozio paterno a San
Quirico d'Orcia, dove riprese certi tentativi di pittura già
iniziati a dodici anni. A Firenze frequentò il Gabinetto
Vieusseux dove lesse per la prima volta opere di G. D'Annunzio e, in
parte, la Storia della pittura in Italia di G. R. Cavalcaselle-J. A.
Crowe; egli fece anche schemi di dipinti che lo avevano interessato,
conobbe G. Stuparich e D. Garoglio, che fu insegnante di G. Papini e
gli consigliò appropriate letture. Quest'incontro e l'altro
con V. Scialoia influirono certamente sulla sua prima formazione.
Nel 1902 trovò un impiego temporaneo in una banca, e alla
fine dell'anno iniziò, sempre a Firenze, il servizio
militare.
L'ambiente culturale cittadino, che era allora il più aperto
e il più vivace d'Italia, lo attraeva sempre di più.
Nel 1903 anche il fratello Guido si ammalava di tisi (e ne
morì nel 1905). Quell'anno il C. diventava amico di Papini e
del pittore A. Spadini, prendeva a frequentare gli studenti
dell'istituto di studi superiori, fra i quali G. A. Borgese, G.
Prezzolini e A. Soffici in particolare, ed esordiva come scrittore
con l'articolo Il concerto (in Leonardo, I[1903], 8, pp. 5-7), che
egli finnava con lo pseudonimo di "Aymerillot".
Lo scritto registra influssi del Papini ideologo, quello della
"cultura dell'anima", e del Borgese (per il fascino di questo, si
veda, del C., Ricordo di Borgese, in Di giorno in giorno, Milano
1954, pp. 357-60). Si trattava comunque di una prosa ancora incerta,
faticosa, nella quale, avverso il positivismo, affermava la
sublimazione delle anime mediante le arti, ritenute interdipendenti
con a capo la musica, dalla quale la poesia riceve il ritmo e la
pittura il colore. Un influsso del Borgese è da scorgere in
taluni parallelismi che, sia pure in sordina, riconducono
all'estetica crociana. Due anni più tardi lesse Vico, ed
è appunto in base a questi primi orientamenti che in seguito
poté affermare di aver sempre cercato di attenersi ad un
esercizio critico fondato su Vico, De Sanctis e Croce (cfr. Ricordi
crociani, Milano-Napoli 1965).
Altri scritti comparvero in quegli anni nel Regno e nel quotidiano
fiorentino Il Nuovo Giornale. Gliargomenti erano motivati in maggior
misura da letture e da visite a mostre d'arte. Merita di essere
ricordato l'articolo a firma "Ortensio", relativo ad una mostra di
tre pittori (E. Zoir, A. De Karolis e G.Costetti), intitolato Tre
anime (in Leonardo, I [1903],11-12, pp. 15-18), dove egli dà
preziose indicazioni della pluralità dei suoi interessi,
diffondendosi anche su vari problemi teorici relativi sia all'arte
sia alla critica.
C'è una insistente ricerca di chiarimenti, che va di pari
passo con la conquista della piena coscienza di se stesso. Il suo
credo estetico ha per obiettivo un'arte considerata bellezza
assoluta, sicché l'esercizio critico gli risulta impotente a
formulare un giudizio, capace al massimo di un'approssimazione:
concetti che denotano un influsso del Carducci di fronte al realismo
positivistico, con in più una evidente suggestione
dannunziana. Più mobile è ora la ricerca sperimentale
del C., in quegli scritti coevi o di poco posteriori pubblicati nel
Regno, chehanno per oggetto le letterature straniere, con una
predilezione quasi congeniale per la letteratura inglese. La
traduzione della Defence of Poetry di Shelley (Lanciano 1910) porta
la data di stesura del 1903. Ed è anche significativo, per il
suo sviluppo di critico, che l'esame dei singoli scrittori comporti
un'evidente attenzione ad un più vasto panorama culturale e
storico, ed una particolare insistenza sul problema morale, a
principiare dalle stesse scelte, un preludere alla sua posizione
durante il periodo vociano. Si tratta di articoli sulla letteratura
russa, tedesca e inglese; quest'ultima oggetto di alcuni indicativi
interventi nel corso del 1906, in particolare quelli su A. Ch.
Swinburne (Nuovo Giornale, 17 aprile) e su G. Meredith (Nuova
Antologia, 1º settembre, pp. 25-31; seguito quattro anni
più tardi da un altro ne Il Marzocco, 11 dic. 1910). Nello
scritto su Meredith c'è (R. Macchioni Jodi, L'esordio
criticodi E. C.)una più manifesta attenzione alle componenti
mitologiche, metaforiche e pittoresche dell'arte dello scrittore
inglese, e più specialmente ai rapporti tra arte e vita, che
anticipano alcuni dei postulati fondamentali della poetica del C.
prosatore.
La collaborazione al Nuovo Giornale sollecitò il C. ad
esaminare alcuni problemi dell'attività giornalistica
(L'avvenire del giornalismo, 27 giugno 1906), che egli voleva
trasformata su modelli statunitensi, e con la capacità di
"rinnovare il mondo con una buona ondata di poesia e di fantasia".
Sul giornalismo e i giornalisti si soffermò più volte,
discutendone talvolta al di là di pratiche possibilità
di realizzazione. Spunti polemici e più articolate
riflessioni si trovano nei Taccuini (ad es. p. 10, alla fine del
1911) e in una lettera a G. Boine del 28 maggio 1913 (G. Boine,
Carteggio, II, G. Boine-E. Cecchi, 1911-1917, a cura di M.
Marchione-S. E. Scalia, Roma 1972). In quest'ultima si legge fra
l'altro: "...il mio giornalismo è la cosa che mi rimorde
meno... Credo che mi sono accostato, attraverso ad una fatica
talvolta molto dura, superando delle terribili stanchezze, al mio
destino ch'è di scrittore, di artista".
Nel 1906, conseguita da privatista la licenza liceale, si iscrisse
all'istituto di studi superiori di Firenze, e seguì
assiduamente i corsi di lettere, senza peraltro portarli a
compimento: un esame fallito gli impedì di usufruire
dell'esenzione dalle tasse scolastiche. Nell'autunno dello stesso
1906 conosceva la pittrice Leonetta Pieraccini, di Poggibonsi, che
sposerà cinque anni dopo. Si interessò alla filosofia
recensendo sempre nel 1906 Il crepuscolo dei filosofi di Papini (Il
Regno, 12 febbraio; poi in Cultura sociale del 21 marzo), Ciò
che è vivo e ciò che è morto della filosofia di
Hegel di Croce (Il Nuovo Giornale, 3 novembre) e scrivendo Una
filosofia che non vuole parole sul pragmatismo contemporaneo (Il
Nuovo Giornale, 15maggio). Sempre nel 1906 si occupò di
problemi della cultura, dandone una definizione orientata secondo un
proprio ideale ("tendenze girovaghe nomadi volubili": I pregiudizi
della cultura, in Il Nuovo Giornale, 3 ag.). La collaborazione alle
tre riviste di R. Murri, Athena, Cultura sociale e Rivista di
cultura, frequente durante il 1906, per diradarsi nel 1907 e
concludersi nel marzo del 1909, è un'altra testimonianza di
un interesse speculativo che non esclude altri problemi, tutti o
quasi riconducibili ad un appassionato sperimentalismo.
Il C., con questa complessa attività culturale, mostra
già nel 1906 chiare indicazioni del suo futuro di critico e
di scrittore. Soprattutto l'interesse verso le letterature straniere
e la collaborazione meno programmatica, più libera, al Nuovo
Giornale rispetto a quella data alle riviste, rivelano un C.
più personale, più consapevole dei propri mezzi,
già in buona parte svincolato dagli ambienti del Leonardo, di
Hermes e del Regno, ai cui eccessi si sottrae gradatamente, non
senza l'influsso moderatore dell'equilibrio crociano. Si avvicina,
insomma, al periodo segnato dall'attività della Voce, rivista
alla quale darà il suo apporto anche nella fase preparatoria.
Nel 1907 fece amicizia col critico musicale e compositore G.
Bastianelli, che fu il primo a fargli da giudice confidenziale, non
senza suscitare talvolta malumori e stizza. L'anno seguente fu un
periodo difficile, forse il più drammatico della sua vita.
Nei Taccuini (p. 13), riferendosi alla stagione invernale, annota:
"epoca di dolore infinito e di grande bujo intorno". Alla fine di
febbraio si definì senza più speranze la malattia del
padre, che vivrà ancora miseramente per sei anni; e il C.
dovette sostituirlo nel negozio. Poi fu la malattia della sorella
Amalia - rimasta sempre cagionevole, turbata pure da depressioni
nervose - che gli era spiritualmente molto vicina, anche per il
comune amore della musica.
Quasi sopraffatto da questi eventi, si chiuse in sé mettendo
da parte ogni attività culturale: tollerò solo la
lettura di Shakespeare. Ma poi, durante l'estate, lavorò
intorno a un'opera di poesia, uscita l'anno stesso col titolo Inno
primo (una ristampa si ebbe tre anni dopo a Lanciano), le cui prime
prove erano comparse in Hermes (n. 7, maggio 1905) e nella Rivista
di Roma (gennaio 1906). Altre poesie, le prime delle quali recano la
data del 1909, uscirono nella Riviera ligure dal 1913 al 1916. Di
quest'opera dette infine una edizione E. Falqui col titolo L'uva
acerba (Milano 1947): il C. in una breve nota parla del suo primo
libretto di versi come un prodotto di "fanatismo storicistico", e
accenna a "tono mutato" per i versi del 1915-16. Le poche
osservazioni pertinenti fatte su questo settore della sua
creatività si accordano su di una prevalente linea
tradizionale, che parte dal Carducci per raccogliere echi pascoliani
e dannunziani (soprattutto di Alcyone) e di poeti di nuove
esperienze quali i crepuscolari e i futuristi. W. Binni (Formula per
C.) vi coglie una dissoluzione della pienezza carducciana negli
aggettivi "che insinuano quel misto di sensibilità e di
trovata che sarà poi sempre più la qualità
essenziale della sua arte". Fu un'esperienza che si esaurì in
se stessa, dove semmai è da notare che la sua visione della
natura rivela i segni di quella vibratilità ed inquietudine
che di lì a poco saranno presenti nei primi saggi di
notevoleimportanza, quelli su Kipling (1910) e su Pascoli (1912).
Alla fine del 1908 usciva il primo numero della Voce. Sistemati gli
affari paterni, ora il C. lavorava metodicamente; dette a leggere i
suoi primi saggi di maggior consistenza all'amico Prezzolini, e nel
1909 prese a scrivere i Taccuini annotando anche eventi e
riflessioni di anni precedenti. La sua collaborazione alla Voce
è limitata agli anni 1909-1911, durante la direzione di G.
Prezzolini; poi c'è il salto del 1912 (dall'aprile
all'ottobre la rivista venne diretta da Papini), quando il C.
collaborò soltanto alla Tribuna. Col ritorno di Prezzolini
alla direzione pubblicò ancora tre articoli nel corso del
1911, per concludere la collaborazione all'Almanacco della Voce nel
1915.
Il primo periodo vociano è certamente quello che lo
trovò più consenziente, aperto a molteplici interessi
ed esperienze. Del resto, tra i responsabili della Voce godeva di
una già notevole autorità (cfr. una lettera di
Prezzolini a Papini del 24 ott. 1909, in Papini-Prezzolini, Storia
di un'amicizia, p. 245). In quel periodo vi pubblicò articoli
su D'Annunzio, Pascoli, Gozzano, Panzini, Benelli, Beltramelli. Meno
persuaso dovette essere quando, al ritorno di Prezzolini, si
convinse che la Voce era, in effetti, una "rivista di idealismo
militante" orientata verso G. Gentile.
La sua collaborazione, nell'insieme, rispetto all'indirizzo
programmatico si distingue per un più marcato atteggiamento
morale: il rimpianto dell'ormai perduto umanesimo che fu del
Carducci lo portò ad un ritorno a De Sanctis, e di
conseguenza al ricorso a modelli classici quali Foscolo, Manzoni,
Leopardi. Il suo moralismo nasce da quella religiosità la cui
assenza lamentava dall'anima moderna, causa prima della crisi
dell'inizio del XX sec. (P. Leoncini, C. e D'Annunzio, Roma 1976, p.
26).
Documento autorevole per una verifica della sua posizione nella Voce
è lo scritto Intorno a B. Crocee G. D'Annunzio, steso nel
luglio del 1911 e pubblicato in Aprutium (ottobre-novembre 1913, pp.
485-505), poi ripreso e rielaborato in altre due stesure (il testo
definitivo è in Ritratti e profili, Milano 1957, e in Ricordi
crociani, cit.). Vi si può misurare il garbato dissenso dal
Croce: "La filosofia crociana dice di essere nell'anello del reale,
ma è invece fuori, come una proiezione ...: dice di essere
una cosa con la storia, ma nostalgicamente, per quella pressione
formidabile che gli pseudo-concetti esercitano sul vuoto del
concetto. Si finisce in un agnosticismo estetico. Non esiste
filosofia, verità: questa è in continua emersione come
storia... Di assoluto non c'è che l'arte (ma tutto è
arte): l'attimo della bellezza e l'espressione della bellezza; tutte
le altre forme non sono che transiti..." (ibid., pp. 27 s.). La
maturità del C., prese corpo allora, dal 1912 al '15. Se il
periodo vociano risulta, tutto sommato, di innegabile importanza, a
prescindere dagli inevitabili dissensi (significativo documento, una
lettera a Prezzolini del 19 nov. 1914), bisogna tener conto che la
collaborazione alla Tribuna, iniziata alla fine del 1910 e
proseguita attivissima fino al 1923, contribuì a renderlo
più padrone di sé, non condizionato cioè da
impegni programmatici sia pure di carattere generale.
Il saggio su Kipling uscì sulla Voce (1º dic. 1910) e
poi, subito dopo, nei Quaderni della Voce (n. 4, 1911). In una nota
del febbraio del '12 (Taccuini, p. 22) scriveva: "Il saggio su
Kipling, determinato in me da quella crisi oggettiva e di realismo
morale che attraversai quando cominciai ad uscire dagli anni penosi
della mia vita sola e data a occupazioni non congeniali...;
l'incontro con la figura letteraria di Kipling fu casuale. Si trova,
anche esso, sulla linea dell'Inno; come una degenerazione, starei
per dire materialistica delle idee e dei sentimenti che l'Inno
rappresentava". E concludeva negli anni '50 (ibid., p. 602) con la
riflessione: "Il peggior servizio che un critico possa rendere, per
sua deficienza, è quando riduce un poeta e un artista nei
suoi oggetti; come io feci da ragazzo per Kipling...". Le
qualità dello scrittore, ancora entusiasta di fronte alle
"scoperte", prevalsero al punto di fare di una monografia una sorta
di rievocazione appassionata della personalità e del cursus
di Kipling sullo sfondo di una natura esotica inquietante. R. Serra
rimase impressionato dal saggio, tanto da scriverne al C. "...ho
letto con gran piacere... Kipling, lo scrittore che io amo tanto da
non volerne parlare... Ma questa volta me ne parlano così
bene: il suo giudizio critico coincide con l'impressione del lettore
innamorato. E tutto il ritratto è semplice, fluido, ricco..."
(24 genn. 1911, in Epistolario, Firenze 1953).
Alla fine del febbr. 1911, dopo le nozze, si trasferì da
Firenze a Roma. Iniziò, nell'agosto, la corrispondenza con
Boine, conosciuto a Roma nel maggio del 1910, continuata fino al
gennaio del 1917, a poco prima della morte. All'inizio del '12 un
nuovo dolore: il primogenito nacque morto. A Roma aveva ritrovato V.
Cardarelli, già conosciuto a Firenze; conoscenze importanti
di quel tempo: B. Berenson e G. Deledda. Pubblica uno dei suoi
maggiori saggi, La poesia di G. Pascoli (Napoli 1912), un lavoro
ancora fondamentalmente valido. Al Pascoli restò fedele, con
apporti sempre acuti tendenti a riconoscere, con l'evoluzione
dell'esegesi dell'opera, la sua importanza quale precursore della
poesia italiana del Novecento. Polemizzò con Croce, dopo che
questi, con una Postilla pubblicata ne La Critica del 20 sett. 1919,
ne condannò in maniera definitiva l'opera; l'intervento del
C. (Pascoli ricrocifisso, nella Tribuna, 18 ott. 1919) fu
particolarmente severo. Riuniva in volume (Studi critici, Ancona
1912) trentaquattro articoli, dei quali poco meno della metà
usciti sulla Tribuna e sette sulla Voce. Vi erano esaminati libri di
vario valore, in alcuni casi persino insignificanti; quel che
contava era spesso l'occasione, il pretesto per associare al lavoro
del critico quello dello scrittore talché le due
attività possono considerarsi coesistenti in una sorta di
equilibrio instabile.
Nei Taccuini è traccia di uno schema di romanzo con
implicazioni, pare, autobiografiche, tentativo che ritorna nel 1915.
Di questi anni sono talune prove di narrativa pochissimo conosciute,
che confermano la sua passione plurisperimentale. Del resto il C.,
intorno agli anni '40, fece annunciare più volte dall'editore
Mondadori un romanzo, da intitolarsi Gnu, mai arrivato in porto.
Della varia collaborazione di quegli anni (non vanno dimenticati
anche Il Marzocco e la Nuova Antologia) rimangono appunto quattro
racconti: Miss Violet (Nuova Antologia, 16 ott. 1910, pp. 594-600),
Letizia in ritiro (Ventesimo, 1º dic. 1910), L'educazione di
Clara (Moda del giorno, gennaio 1911) e Lalla in città (Nuova
Antologia, 16 giugno 1911, pp. 616-626), i cui esiti si bilanciano
fra echi del D'Annunzio narratore e il preannuncio, ancora incerto
ma già in precedenza avvertito, del prossimo prosatore
d'arte.
Nel 1911, salvo quel poco dato alla Voce e ad altri periodici,
continuò a collaborare assiduamente alla Tribuna. Il C. non
approvò la Voce letteraria, divenuta tale col numero del 15
dic. 1914, la cosidetta "Voce bianca", quella che fu diretta da De
Robertis: era già stato contrario ad un precedente analogo
progetto di trasformazione (cfr. la lettera citata di Prezzolini a
Papini del 1909).
Il suo articolo False audacie (La Tribuna, 13febbr. 1915), che
recensiva le Cento pagine di poesia di Papini, fu l'esca di una
violenta polemica. La Voce letteraria del 28 febbraio
pubblicò la stroncatura papiniana del C. (La Sor'Emilia;
poiraccolta da Papini in Stroncature) - il C. rispose con una nota,
Pietosa aggressione, nella Tribuna del 3 marzo 1915 - e un articolo
di De Robertis, Sfoghi, spine, e verità, che commentava come
totalmente negativo il giudizio sul C. di Serra. Boine difese
l'amico (in Riviera ligure, s. 4, XXI[1915], n. 39; poi in Frantumi
seguiti da "Plausi e botte", Firenze 1918, pp. 172 ss.) con una
recensione a Le lettere di Serra (Roma 1914), dove si trova il
giudizio discusso (pp. 175, 178-182), non certo del tutto limpido,
ma di fatto, a parte alcune riserve, positivo.
Nel '15, con l'entrata dell'Italia nel conflitto, il C. venne
mobilitato e raggiunse le retrovie, da dove inviò alla
Tribuna alcune corrispondenze, la prima il 28 giugno. Intanto usciva
la Storia della letteratura inglese nel secolo XIX (Milano 1915),
opera importante non solo nei limiti del curriculum del C., frutto
di un lungo e impegnativo lavoro che aveva le origini nel suo
interesse per la letteratura inglese sin dai tempi del Leonardo.
L'impegno del C. in proposito è attestato, oltre che da varie
pagine e abbozzi, da uno schema nei Taccuini del metodo da seguire,
in data 12 dic. 1912 (p. 8): accanto a componenti storiche di fondo,
vi si parla di una serie di ritratti e, per ciò che riguarda
la struttura, di "una parte architettonica e una parte lirica".
Sempre per l'impegno, si veda l'articolo-prefazione che il C.
preparò per la seconda edizione (in Amor di libro, il
bollettino della casa editrice Sansoni di Firenze, gennaio-febbraio
1948, pp. 1-3) che venne realizzata molto più tardi col
titolo mutato e numerosi rimaneggiamenti: I grandi romantici inglesi
(Firenze 1961). È interessante soprattutto la parte che
riguarda le riserve, mosse al libro quando uscì, sul metodo e
sul contenuto. Il C. è severo critico di se stesso:
giustifica le sue analisi stilistiche facendo notare che il tempo in
cui il libro fu preparato e composto coincise con la scoperta da
parte sua del mondo delle arti figurative, e definisce il lavoro "un
documento della felice ed illusa gioventù". E scrive: "Lamb e
De Quincey: ecco due veri santi della prosa; se altri mai furono
nell'Ottocento inglese". Nomi indicativi, ai quali si potrà
aggiungere semmai Chesterton, per comprendere da quali fonti gli
vennero gli stimoli a fare del saggio, se non proprio un'opera
storica, una prima sicura immagine di se stesso come compiuto
scrittore.
La prima prosa destinata poi ad entrare nella raccolta Pesci rossi
(Firenze 1920) uscì sulla Tribuna (1° febbr. 1916):
è Compagnomorto, che nel libro figura col titolo
Indilectissimum, ricordo di un caro amico, Arnaldo Cantù di
Brescia, critico promettente, caduto in combattimento nel novembre
1915. Intanto, nel '16, trasferiva provvisoriamente a Firenze la
famiglia, che rientrerà a Roma solo nel 1919. Raggiunse poi
il fronte (era capitano di fanteria); rimangono di questa esperienza
molte note nei Taccuini, generalmente appunti rapidi che fermano
impressioni, incontri, non di rado circostanze che contrastano con
l'assurda tragedia della guerra. Oltre le corrispondenze, e la
collaborazione ai "giornali d'Armata", continuò a scrivere
qualche recensione; quella alle Poesie giapponesi tradotte da H.
Shinoi e G. Marone la intitolò Ipesci rossi (La Tribuna, 23
ag. 1917), e suggerì poi il titolo dell'intera raccolta. Nel
novembre del 1918 venne inviato dalla Tribuna aLondra, da dove
inviò al giornale corrispondenze fra cui alcune note
politiche.
Nell'aprile del 1919 uscì il primo numero della rivista La
Ronda, alla cui fondazione il C. dette un autorevole apporto,
insieme con R. Bacchelli, A. Baldini, B. Barilli, V. Cardarelli, L.
Montano e A. E. Saffi. Ne scrisse anzi un significativo articolo
nella Tribuna del 19 maggio 1919, intitolato Ritorno all'ordine.
Nella Voce il C. era ancora un esordiente, anche se vi
acquistò presto una posizione di prestigio; ma nella Ronda
aveva ormai raggiunto una sua autonomia e una personalità ben
definita.
La rivista fu condizionata dalla presenza di Cardarelli, che la
volle in certo qual modo a sua misura, come cautela e difesa di
alcuni valori tradizionali e di principi conservatori e
perciò ambigua ed equivocabile nel contesto dell'epoca. Una
prosa del C. coeva alla preparazione della rivista assume quasi un
valore emblematico: Dello stare a sedere (Tribuna, 22 febbr. 1919;
poi in Pesci rossi). Vidispiega una pacata ma ferma difesa
dell'isolamento del letterato, contro le considerazioni di P.
Gobetti (Energie nuove, s. 2, n. 5 e n. 7 del 1919) che esortava gli
intellettuali e in specie i letterati a prendere parte alla vita
pubblica, a non ignorare la realtà circostante in un momento
delicato come quello del dopoguerra. Di questa tendenza
conservatrice della Ronda partecipò anche il C., nella misura
che glielo consentiva il suo habitus di uomo e di letterato.
Evidentemente il C. critico, nella cui attività era ancora
presente, per quanto attenuata, la componente crociana, non poteva
condividere la linea di Cardarelli, antidesanctisiana e
fondamentalmente antistorica. Ma quello che più ha contato,
nel quadro di ambiguità e "doppiezza" dell'attività
rondista, è che i migliori avessero la possibilità di
seguire la loro strada, soprattutto nella libera applicazione di una
inquieta volontà di ricerca, quale appunto nel C.; e questa
possibilità veniva a costituire nello stesso tempo l'apertura
della rivista, l'intesa di reciproca tolleranza. Nuovi suoi saggi e
recensioni a proposito di scrittori inglesi e americani acquistarono
in quegli anni in ordine e chiarezza; la natura del suo saggio e
dell'elzeviro ne sortì una più stabile definizione;
incontri con altri autori arricchirono la sua personalità (ad
es., l'opera di C. Cattaneo) o autori già a lui noti gli
riservarono la sorpresa di nuove scoperte (Manalive di Chesterton,
che pure tradusse). Tra i contributi più personali che il C.
offrì alla incerta fisionomia della rivista, sono stati
ricordati il patrimonio linguistico "di toscano antico (granducale
più che mediceo)" e la proposta di un dissidio, che fu
già in Poe e Baudelaire, tra il gusto classico e la ricerca
stilistica (G. Raimondi, C. nella "Ronda",in Immagine, II [1949], 1,
pp. 15 ss.).
Nell'aprile del '19 il C. divenne corrispondente dall'Italia del
quotidiano Manchester Guardian, restandolo fino al giugno 1925 (gli
articoli, in italiano e quasi tutti non firmati, venivano tradotti a
cura del giornale). Il 1919 ed il 1920 furono per il C., anni di
intensa attività. Usciva Pesci rossi, il libro che viene
considerato il suo più caratterizzante, raccolta di prose
scritte fra il '16 ed il '19: diciassette (in realtà
diciotto, perché una è fusione di due scritti)
pubblicate sulla Tribuna, e tre sulla Ronda (una uscì
però anche negli Annali di filologia).
Le occasioni sono varie: avvenimenti pubblici e privati, talvolta
cronaca minima, letture, incontri, ricordi di persone, osservazioni
della natura animale e vegetale. Col libro - l'unico che
resterà inalterato nelle successive edizioni - il C. inaugura
un nuovo genere che campeggerà nel panorama letterario
italiano fra le due guerre. Nelle soluzioni migliori è il
critico che controlla lo scrittore, e la misura della prosa dipende
dal rapporto tra le due qualità, ma i risultati tendono ad
una sorta di lirismo sorvegliato e contenuto, al punto di ingenerare
un senso di distacco scambiato talvolta per impassibilità. Il
correttivo consiste in un'apertura verso l'arguzia, verso un
umorismo scaltro e copertamente scanzonato.
Fra i temi più congeniali prevalgono quello di un passato
irrevocabile, lontano o vicino, e l'altro più possessivo
degli animali, sulla cui vita il C. si china come su esponenti diun
mistero che attrae e al tempo stesso comunica un senso di oscuro
disagio (vedi la passione, più che la curiosità, per
gli zoo, quale si manifesta tra l'altro nella monografia Lo Zoo, n.
4 di Vedere, Milano 1937). I precedenti e più prossimi
stimoli vanno ricercati nella complessa formazione del C.: per
ciò che concerne lo spirito e il taglio delle prose vale
l'esempio dei saggisti inglesi dell'Ottocento, del Lamb in
particolare, che s'incontra con la lezione decadente di certa prosa
dannunziana, quella ad esempio che culminò poi nel Notturno.
Ma non era estranea quella sua disposizione morale ed estetica che
il programma della Ronda aveva tenuto nella dovuta considerazione, e
che si accordava, sia pure inconsapevolmente e d'istinto, con le
mutazioni politiche in corso.
La prosa del C. trovò in lui stesso il teorizzatore e lo
storico, e aprì una serie di discussioni e di chiarimenti
anche sulla valutazione di merito del C. critico e del C. scrittore.
Al tempo del suo esordio, era corrente persuasione che lo scrivere
per i giornali nuocesse a chi aveva qualità letterarie, vale
a dire stilistiche. Il C. lottò per sconfiggere questo
pregiudizio, e la sua arma fa appunto la prosa d'arte.
Si vedano due suoi scritti: Dell'articolo di giornale (sulla Stampa
dell'11 genn. 1924, poi nella raccolta L'osteria del cattivo tempo,
Milano 1927), e l'altro, quando ormai la distanza aveva chiarito la
reale natura e la collocazione del "genere" Saggioe prosa d'arte (in
Immagine, II[1949], n. 11 e n. 13; poi in Letteratura italiana del
Novecento, II, Milano 1972, pp. 1336-1346). Nel secondo il C.
distingue i due generi, il saggio e la prosa d'arte; dichiara di
propendere per il primo, ma in pratica non tiene conto di simile
distinzione. All'interno della sua stessa attività
letteraria, il C. era in grado di pervenire a distinzioni, come il
seguente giudizio che è definizione delle sue qualità:
"Un saggista ed un critico, alla fine dei conti, sarà sempre
lo storico e il commentatore d'una realtà effettuale... Il
suo discorso è più sommesso, ed in un certo senso gli
appartiene meno del discorso del romanziere o del grande poeta. Non
tanto nella sua pagina parla il suo talento personale quanto la voce
stessa della vita e delle cose" (Confessioni di scrittori, Torino
1951).
Nelle analoghe opere successive (ma è impossibile stabilire
delle nette separazioni), quali sarebbero La giornata delle belle
donne (Roma 1924), L'osteria del cattivo tempo (Milano 1927),
Qualche cosa (Lanciano 1931), Corse al trotto, saggi, capricci,
fantasie (Firenze 1936), riedite e sottoposte a rimaneggiamenti e
arricchimenti, la linea di sviluppo da un lato è
perfezionamento della costruzione, del "taglio" e dall'altro
affinamento dello stile. Il culmine di quest'arte e insieme il suo
limite è forse da individuare in Inverno (in Corse al
trotto), una misteriosa storia d'amore che accompagna l'evocazione
di fantastiche tigri bianche in un Oriente immaginario. F. Fortini
fu il primo ad avvertirne la situazione di limite (Lettura di
"Inverno" di C., in Lettere d'oggi, III [1941], pp. 15-19). Del
resto, a proposito di Corse al trotto lo stesso C. ha dichiarato che
in tutto il libro "l'attenzione sulle cose dell'anima e del mondo
è come raddolcita da un malinconico presentimento della
vecchiezza" (Confessioni di scrittori).
Dal 15 luglio 1921 al30 nov. 1923 tenne sulla Tribuna una rubrica
settimanale di critica letteraria, "Libri nuovi e usati" (titolo
ripreso per una raccolta di articoli edita nel 1958), firmandosi "Il
tarlo". Fu con questa rubrica che acquistò sempre più
autorità, avviandosi a quell'egemonia culturale che lo
distinse, come critico e come scrittore, negli anni successivi,
soprattutto dal '30 al '40. Dal 1924 ebbe l'incarico della critica
letteraria del quotidiano Il Secolo, in sostituzione di E. Thovez
ammalato, e di critica scrisse, in quegli anni, anche sulla Stampa e
sul Tevere.
All'anno 1922 annota, fra gli avvenimenti di rilievo, la "conquista
del potere da parte di Mussolini". Prima e dopo questo evento
troviamo nei Taccuini non poche annotazioni che permettono di
rilevare un atteggiamento dignitoso nei confronti del fascismo,
l'atteggiamento proprio di un liberale dell'epoca, anche se poi si
lasciò invischiare dalle lusinghe del potere, sicché,
privato nel 1935 del premio della critica della Quadriennale d'arte
perché non iscritto al partito fascista, ebbe l'anno
seguente, auspice Pirandello, quello dell'Accademia d'Italia, della
quale venne nominato socio nel 1940, a meno di un mese dall'entrata
dell'Italia in guerra.
Occorre comunque ricordare la sua adesione al Manifesto degli
intellettuali italiani antifascisti, promosso da G. Amendola e
redatto da B. Croce, pubblicato da Il Mondo del 1º maggio
1925.Era la risposta all'assassinio di G. Matteotti, e al discorso
di Mussolini del 3 genn. 1925 che segnava la drammatica fine dello
Stato liberale. Sui suoi rapporti col fascismo si vedano i Taccuini
alle pp. 381 e 456 s., dove fra l'altro è riprodotto il testo
di una lettera a G. Bottai del 22 dic. 1928. Il C. lamenta la
radiazione dal sindacato giornalisti, che gli avrebbe impedito
dilavorare, e chiede al gerarca di aiutarlo adducendo ragioni
semplicemente umane, di necessità vitale: è un testo
senza enfasi, che indulge soltanto ad una generica
"italianità".
Nel 1927 prese a collaborare al Corriere della Sera; nel 1930, su
invito della University of California insegnò a Berkeley per
un anno cultura italiana. E prima di rientrare in Italia,
appagò un suo vecchio desiderio di conoscere il Messico.
Le sue opere di solito classificate come "letteratura di viaggio"
non si differenziano in sostanza da quelle inaugurate con Pesci
rossi: è una partizione di comodo che riguarda i contenuti,
le occasioni, che consente un'unità esteriore e di stile. Tra
queste spicca per felicità di riuscita Messico (Milano-Roma
1932), la raccolta dei suoi articoli "messicani" inviati al Corriere
della Sera. Affascinato dal mistero di una civiltà remota,
dalle testimonianze che appaiono oggetti e insieme simboli di
stupore e di orrore, il C. non sfugge mai al controllo
dell'intelligenza, celebra il mistero di un'antica realtà
pressoché inafferrabile, invano mascherata dalla decadente
magnificenza dei conquistatori. Non altrettanto felice è il
successivo frutto di un viaggio in Grecia compiuto col figlio Dario
nel 1934, Et in Arcadia ego (Milano 1936), che ripete un itinerario
divenuto in certo qual modo d'obbligo, mentre un vivo interesse
suscita il pur discutibile America amara (Firenze 1939), nato
dall'esperienza statunitense del 1930-31 (qualcosa aveva anticipato
in Messico a proposito di Hollywood) e da un ulteriore viaggio nel
1937-38, sotto la solita forma di articoli di inviato speciale
usciti nel Corriere della Sera.
Il libro si legge con piacere anche dove è più lontano
dalle competenze del C., quando tratta per esempio - ma come
impressioni - di problemi sociali (si veda la discriminazione
razziale, e il gangsterismo). Quando però simili problemi
vengono discussi nelle loro interferenze e conseguenze
politico-economiche, risalta una tale incomprensione della vita
americana da indurre ad abbagli ed errori da misoneista e
reazionario, anche se poi il C. non partecipava alla propaganda ed
alle polemiche del fascismo, che però profittava di tali
affermazioni. Diverso e lontano più che mai risulta il C. da
giovani come E. Vittorini e C. Pavese, nei quali l'attrazione verso
l'America - comune ad una certa Europa degli anni Trenta - era
determinata da una passione di libertà capace di scorgere
nella civiltà d'oltreoceano un nuovo, positivo aspetto del
reale.
Tra le sue opere di viaggio si trovano inoltre Appunti per un
periplo dell'Africa (Milano-Napoli 1954); un'aggiunta alle
impressioni messicane (Messico rivisitato), in Nuovo Continente
(Firenze 1958) che comprende anche Messico e America amara; infine
una serie di osservazioni relative a viaggi in Inghilterra e in
Francia, in Saggi e vagabondaggi (Milano 1962), che comprende,
riedite, le più note raccolte di saggi o prose d'arte e
alcune sezioni della letteratura di viaggio.
Scrittori inglesi e americani (Lanciano 1935) riunì una serie
di saggi critici tra i quali prevalevano, per numero, quelli di
argomento inglese. I saggi americani aumentarono nelle successive
edizioni indicando, seppure fra contraddizioni, una crescita di
comprensione rispetto al predominante impressionismo di America
amara.
Il C. aveva già dedicato alla poesia di Poe, sia pure
recensendone una traduzione francese, un articolo in Cronache
letterarie del 12giugno 1910, poi un altro, per una traduzione in
italiano, nella Tribuna del 9 febbr. 1913. E fuuno dei primi in
Italia ad occuparsi di Melville (Corriere della Sera, 27 nov.
1931).Notevole è anche un saggio su Faulkner (in Pan,
II[1934], 5 pp. 64-70), incluso in questa raccolta, per lo sforzo di
penetrazione e di ampliamento, di prospettiva (venne poi fuso con un
altro articolo uscito nel Corriere della Sera del 29 dic. 1951 e
successivamente in Prospetti della primavera 1954).Sempre in questo
campo va ricordato Emily Dickinson (Brescia 1939),che è una
revisione della tesi di laurea della figlia Giuditta, e comprende la
biografia della poetessa americana e un'analisi della sua poesia.
Scrisse anche l'introduzione ad Americana, raccolta di narratori
curata da Vittorini (Milano 1942), la cui prima edizione (1941) era
stata sequestrata dalla censura fascista. Nell'introduzione il C. si
adeguava alla situazione politica del momento, inasprita dalla
guerra in corso, denunciando la letteratura impegnata e la
democrazia degli Stati Uniti.
Durante la seconda guerra mondiale il C. rimase a Roma, tranne un
soggiorno in Svizzera nel '42 per le nozze della figlia Giuditta col
pittore A. Bartoli. Riprese l'attività nel 1945; tornò
a collaborare al Corriere della Sera nel 1946, e nel '47 fu fatto
socio dell'Accademia dei Lincei. Assunse la critica letteraria de
L'Europeo dal '48 al gennaio del '53. Nel 1952 otteneva dai Lincei
il premio per la saggistica, auspice B. Croce, e relatore L. Russo
che aveva modo di correggere l'opinione in parte negativa prima
espressa ne La critica letteraria contemporanea (II, Bari 1942, pp.
286-90).
Intanto, a mano a mano che gli scritti critici sulla letteratura
italiana consentivano un raggruppamento secondo criteri
classificatori, il C. ne curò la raccolta in volume. Nacquero
così, riveduti e ordinati, i volumi Di giorno in giorno (Note
di letteratura italiana contemporanea, 1945-1954), Milano 1954;
Ritratti e profili (Saggi e note di letteratura italiana), ibid.
1957; Libri nuovi e usati (Note di letteratura italiana
contemporanea, 1947-1958), Napoli 1958. A questi vanno aggiunti i
Ricordi crociani, con un'appendice di quattordici lettere di Croce.
Stessa cura riservò ai saggi sulle letterature straniere, a
principiare da quella inglese che predilesse, e dall'americana. Le
edizioni si susseguirono accresciute e talvolta, secondo la
necessità, riordinate e diversamente ripartite: così
dicasi della Storia della letteratura inglese nel secolo XIX
(già annunciata come primo vol. dell'edizione del 1915) che
assunse nella seconda ediz. del 1961 il titolo I grandi romantici
inglesi,e della raccolta Scrittori inglesi e americani che, a
partire dalla terza ediz. (Milano 1954), fu divisa in due volumi.
Una raccolta di saggi sulla letteratura francese uscì postuma
(Aiuola di Francia, a cura di M. D'Amico-P. Citati-N. Gallo, Milano
1969). Postumi uscirono una nuova edizione de La poesia di G.
Pascoli con altri scritti pascoliani (1911-1962), a cura, di P.
Citati (ibid. 1968); una raccolta di saggi in prevalenza di
letteratura italiana, I cipressi di Bolgheri, a cura di E.
Montale-V. Branca (Firenze 1969); un'altra di testimonianze
dell'amore del C. per la città natale, Firenze (Milano 1969);
i suoi contributi alla Storia della letteratura italiana, da lui
diretta con N. Sapegno (IX, Il Novecento, ibid. 1969); infine una
scelta della saggistica italiana, Letteratura italiana del
Novecento, I-II,a cura di P. Citati (ibid. 1972). Si ricordano pure
le numerose voci di letteratura e d'arte scritte per l'Enciclopedia
Italiana.
Importanza primaria infatti nella produzione del C. ebbe la critica
d'arte, praticata fin dall'esordio. C'era una sua disposizione
naturale, che manifestò sempre e coltivò sempre
acquistando un'eccezionale sicurezza di conoscitore e di giudizio.
Montale, recensendo Pittura italiana dell'Ottocento (Il Lavoro, 23
giugno 1926),rilevava come il C. vi ritornasse al fervore e
all'impeto di certe pagine giovanili, stimolato anche
dall'originalità di taluni artisti (Segantini, Fontanesi,
Galli). All'affinamento del critico contribuì certamente la
quotidiana frequentazione di pittori e scultori tra i maggiori del
suo tempo, nonché l'amicizia con critici e storici dell'arte
quali B. Berenson, di cui tradusse buona parte delle opere e
soprattutto R. Longhi. La sua metodologia in questo campo non si
allontana da quella seguita nell'esame delle opere letterarie. Non
di rado, riflettendo sull'opera d'arte, ne ricercava i rapporti con
l'opera letteraria, per quella interdipendenza delle arti che aveva
sostenuto fin dagli anni giovanili. I suoi maggiori interessi
andarono al primo Rinascimento fiorentino, e alla pittura italiana
dell'Ottocento che sentiva consone al suo gusto oltre che alla sua
formazione culturale. Nel secondo caso si ingegnò persino a
far risalire ad origini italiane quei fatti pittorici che vengono
considerati tributari dell'impressionismo francese, e di questo
scrisse come di una lontana filiazione veneto-spagnola.
Tralasciando le innumerevoli prefazioni a cataloghi per mostre ed i
brevi profili di artisti non entrati in volume, vanno ricordate, fra
le opere più impegnate o indicative delle sue predilezioni e
degli esiti critici, Note d'arte a Valle Giulia,., Roma 1912;
Pittura italiana dell'Ottocento, Roma-Milano 1926; Trecentisti
senesi, Roma 1928; Pietro Lorenzetti, Milano 1930; Cipriano E. Oppo,
trad. di J. Chuzeville, Paris 1934; Giotto, Milano 1937; Donatello,
Roma 1942; La scultura fiorentina del Quattrocento, Milano 1956;
Diario di Iacopo da Pontormo, Firenze 1956; Piaceri della pittura
(Saggi e note di critica d'arte con quarantasette tavole), Venezia
1960; Macchiaioli toscani d'Europa, con note critiche di M.
Borgiotti, Firenze 1963; la pref. al Taccuino 1870-1884 di G. De
Nittis, Bari 1964.
Nella sua vasta attività non va trascurato il settore
riguardante il cinema, e il relativo apporto critico. Negli anni
1931-33 si occupò della Cines, della quale fu direttore di
produzione dal 1º apr. 1932 durante la gestione di L. Toeplitz.
Vi si dedicò con molto impegno, com'era suo costume, e come
egli stesso testimonia "con l'esclusione di ogni altro lavoro".
Ritornò alla Cines in qualità di collaboratore anche
dopo la seconda guerra mondiale, dal 1949 al 1953. Parallelamente
scrisse di critica cinematografica, in particolare su L'Italia
letteraria (ex Fiera letteraria), trattando anche dei rapporti fra
cinema e letteratura.
Nel 1955 ebbe il premio Saint-Vincent di giornalismo; nel 1958 gli
venne conferita dall'università di Firenze la laurea in
lettere honoris causa. Nel 1959 gli fu assegnata la "Penna d'oro"
del presidente della Repubblica.
Nel '64 i disturbi dell'età si aggravarono; la morte della
figlia Giuditta (16 luglio 1966) lo abbatté ancor di
più. Morì a Roma poco dopo, il6 sett. 1966.