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La cavalleria medievale seguì l'evoluzione che la
società, l'economia e la tecnica bellica ebbero nel Medioevo,
influenzate, fra l'altro, dall'affacciarsi sullo scenario storico
europeo di nuove popolazioni con nuovi usi e nuovi modi di
guerreggiare.
Fu una evoluzione lenta ma costante, qualche volta tumultuosa in
coincidenza con l'arrivo di nuovi attori sui campi di battaglia, ma
sempre coerente con i cambiamenti del contesto socioeconomico che ne
era il supporto.
La crisi che colpì i liberi coltivatori romani del periodo
repubblicano inferse un duro colpo alla potenza della fanteria
legionaria, ben più grave ed irrimediabile dei colpi subiti
dalla stessa ad opera dei cavalieri Parti e Sarmati.
Quella potenza legionaria che aveva conquistato un impero
iniziò a decadere con la decadenza di quell'archetipo
dell'uomo romano che ne era stato la base e la forza.
Teorie sull'origine
Negli anni Trenta del XX secolo Marc Bloch sostenne che all'inizio
dell'XI secolo lo sviluppo e la diffusione di signorie di banno
incentrate sui castelli e dei legami feudali avevano contribuito ad
alimentare una crescente cerchia di specialisti della guerra,
formati dai signori e dai loro vassalli. Il mestiere di cavaliere
andò sempre più specializzandosi e circoscrivendosi a
una élite ristretta che diede vita a una cerimonia di
iniziazione del cavalierato, l'adoubement, che contribuì alla
percezione della cavalleria come gruppo limitato. Tra il XII e il
XIII secolo essa, definedosi in un ceto chiuso a base ereditaria,
passa dalla condizione di "nobiltà di fatto", ovvero
dall'organizzazione in forme aperte e fluide, alla condizione di
"nobiltà di diritto".
Alla tesi di Bloch che sostenne che la cavalleria si fosse
costituita come emanazione della condizione nobiliare, Jean Flori ha
eccepito un'altra teoria, del tutto opposta, che considerava la
cavalleria come una professione alla quale la nobilità si
avvicinò e della cui dignità, col tempo, si
appopriò. Il mestiere del cavaliere era inizialmente stato
riservato a persone di estrazione variegata e anche di umile
origine, come dimostra l'etimologia del termine knight che deriva da
cnith che designava il "servitore". Solo nel XIII secolo, anche
attraverso la formazione di un'etica e di un codice di comportamento
del cavaliere, il cavalierato e la carica nobiliare conoscono una
chiara sovrapposizione. Fu in quest'epoca che si diffuse la pratica
dell'adubement che assegnava alla cavallieria il significato di
"ordine" ristretto ed esclusivo.
I Barbari
Popolazioni nuove, ora si direbbe giovani, premevano sull'Impero:
alcune erano formate da provetti cavalieri che passavano la maggior
parte della propria vita letteralmente e materialmente sul cavallo,
come gli Unni, gli Alani ed, in genere, i popoli della steppa.
Questi popoli, che basavano la propria forza militare su una
cavalleria organizzata, non riuscirono, tuttavia, a innervarsi in
quella società europea che per loro era solo occasione di
scorrerie, rapine e bottino. Altre popolazioni, invece, fecero
proprio quell'Impero tante volte combattuto e subìto. Furono
i Franchi, i Sassoni, i Frisoni, i Longobardi, gli Juti che si
imposero, ricreando, o contribuendo a ricreare, quel nuovo Impero
che il Papato avrebbe cercato di rendere unito come comunità
cristiana e di subordinare a sé stesso.
Cavaliere
Queste nuove genti germaniche e nordiche, che in effetti non
possedevano una cavalleria nel senso militare del termine,
combattevano a piedi anche se il cavallo era il loro mezzo di
locomozione. Il cavallo era considerato più un segno di
distinzione di cui godevano e si fregiavano i capi che non un mezzo
bellico, e ciò sia per il suo costo, particolarmente elevato,
sia per la simbologia sacrale che gli era connessa. Il cavallo
accompagnava il guerriero nella sepoltura per l'ultimo viaggio,
secondo una tradizione che risaliva alle saghe germaniche conferendo
così al cavaliere quell'alone di mito che lo
accompagnerà nelle epoche in cui la funzione della cavalleria
sarebbe venuta meno e che le canzoni di gesta epiche avrebbero
perpetuato.
Il cavaliere non si improvvisava, veniva addestrato fin dalla
fanciullezza e, quindi, armato con un equipaggiamento il cui costo
poteva superare quello di 20 buoi, in pratica una piccola
proprietà terriera.
Era fatale, così, che si sviluppasse nella società una
divisione netta o meglio una frattura incolmabile fra il cavaliere
consapevole del proprio costo e della propria funzione e
« la massa dei rustici che si vedevano sospinti insieme con la
gente dei campi di origine servile verso un ruolo indifferenziato di
produttori di mezzi di sostentamento. »
(Cardini F. - Il Guerriero e il Cavaliere.)
Si formò spontaneamente un gruppo elitario, separato e
autoreferente che si autocelebrava anche attraverso il racconto
delle proprie imprese, sempre eccezionali, e anche attraverso quella
che sarà una vera e propria liturgia dell'iniziazione e
dell'accettazione o cooptazione in un circolo sempre più
chiuso. La letteratura epica si incaricherà di idealizzarne e
celebrarne gli aspetti eroici, il più delle volte usurpati.
Sorse, anche, l'esigenza di distinguersi e di rendersi riconoscibili
sia in battaglia che nei tornei, e quindi si diffuse l'uso di colori
e di emblemi posti sullo scudo del cavaliere, che daranno origine
all'Araldica, o scienza del Blasone.
Lentamente si consolidò quella che era una fraternitas, la
cavalleria medievale, con regole sempre più rigorose che
subiranno, tuttavia, continue eccezioni. La separazione dal mondo
dei rustici aumentò sempre di più ed il solco iniziale
divenne una voragine. Da una parte pochi eletti, dall'altra la massa
disprezzata e sfortunata degli inermi o pauperes che avevano una
sola possibilità di riscatto: mettere la propria vita in
gioco nei campi di battaglia al servizio di qualche Senior.
Il mito
Era un mito quello che il cavaliere medievale coltivava, esaltandolo
in quelle fraternitas che daranno luogo ad una vera e propria classe
sociomilitare particolarmente rigida ed impermeabile alla cui base
c'era lo spirito di gruppo e di corpo.
« Questo è forse il senso più riposto ma anche
più evidente dell'immagine raffigurata nel controsigillo
dell'Ordine Templare, che mostra due cavalieri su un solo cavallo.
»
(Cardini F. - Il Guerriero e il Cavaliere)
La storia concorrerà notevolmente all'affermazione di questa
nuova classe di guerrieri, separandola sempre di più dal
resto della società, gli inermes, che venivano subordinati e
sottoposti a quei bellatores equestri che costituivano la base del
potere.
Le opportunità
Certo il servizio militare, oltre ai rischi, offriva notevoli
vantaggi a quei soggetti che, per capacità o fortuna, ne
sapevano approfittare. Le opportunità di arricchimento a
seguito delle azioni belliche erano grandi, sia attraverso i bottini
rapinati sia attraverso il riscatto dei prigionieri, specie se di
alto lignaggio. Ciò costituiva un valido compenso per il
rischio di perdere la vita, rischio sempre presente e sempre messo
in conto.
Il miraggio era quello di passare dal servizio presso altri alla
formazione di una propria dinastia, e, magari, acquisire una propria
signoria o conquistare un proprio regno. Fu quello che seppero fare
i Normanni, vere e proprie bande di avventurieri al servizio di
signori in guerra tra loro, signori che prima aiutavano e ai quali
poi si sostituirono approfittando della favorevole situazione
politico-militare dei territori che occupavano.
I Normanni
I Normanni riuscirono, senza grande difficoltà, non solo a
sostituirsi ai loro, per così dire, datori di lavoro ma a
fondare, oltre che un regno importantissimo nell'Italia meridionale,
una dinastia dai cui lombi discese una progenie destinata alla
dignità imperiale. L'avventura dei numerosissimi cavalieri
normanni giunti prima nel meridione dell'Italia continentale e
successivamente in Sicilia è fantastica ed affascinante.
È impressionante vedere come un manipolo di uomini decisi, ma
sostanzialmente dei briganti quasi emigranti ante litteram,
costretti a lasciare le loro terre di origine, la Normandia sulle
coste nordoccidentali della Francia, riuscirono a inserirsi nelle
lotte intestine di quel che restava del Ducato di Benevento, dei
vari principati longobardi e del declinante Impero Bizantino
nell'Italia meridionale e a prendere il sopravvento. Vi fu anche il
fortunato gioco di circostanze favorevoli che, sapientemente
sfruttate, contribuirono alla loro affermazione politico-militare.
I Normanni, che stavano per impadronirsi dell'intero Meridione
d'Italia, ottennero il riconoscimento del loro potere e delle loro
conquiste dal papa Niccolò II prima di lanciarsi alla
conquista della Sicilia: questo riconoscimento papale
legittimò quello che era un puro atto di violenza.
Il nuovo
Si svilupparono nuove tecniche militari sotto la spinta delle
milizie di fanti che, inquadrate dal Comune, non erano più
quella massa incoerente di contadini armati di forcone contro cui la
carica della cavalleria aveva avuto sempre successo.
Le milizie cittadine si proposero come strutture sempre meglio
organizzate e coese, dotate dell'addestramento acquisito nelle gare
cittadine, gare che avevano sviluppato non solo lo spirito
d'emulazione ma, cosa ben più importante, lo spirito civico
rendendo i cittadini combattenti consapevoli, decisi e, quindi,
temibili.
Questi uomini che, normalmente, svolgevano nella vita quotidiana
altri compiti, che non le arti marziali, esprimevano, nel momento
del combattimento, sotto il gonfalone civico, tutta la loro
determinazione bellica, frutto del rancore contro l'aristocrazia
militare: essi trascuravano quell'aspetto ludico che era stato una
caratteristica del combattimento dei cavalieri. Questi cittadini nel
combattimento erano micidiali, le loro picche e le loro quadrelle
non lasciavano scampo.
Nuove armi
Le nuove armi vincenti erano le picche, l'arco e la balestra, che,
in un'unione simbiotica dietro il pavese, un grande scudo,
costituivano per i cavalieri un ostacolo, o, per meglio dire, un
muro insuperabile, quasi sempre letale.
Il cavallo che era stato un'arma vincente si trasformò in un
gravissimo punto di debolezza ed impedimento.
In questo nuovo modo di combattere il cavallo soccombette sotto i
colpi di coltello del fante che strisciando per terra lo sventrava,
in un'azione inconcepibile per il cavaliere e per il suo codice
deontologico: al cavaliere rinchiuso nella sua pesante corazza
d'acciaio non rimaneva che fuggire o, disarcionato e circondato,
morire come un povero crostaceo[5] sotto i colpi della plebaglia a
piedi. Queste nuove battaglie si concludevano in un'orgia di sangue,
in un tripudio di vendette e di rivalse da parte dei rustici contro
un mondo, quello feudale, che ormai volgeva alla fine.
Era un mondo carico di valori, forse mai realmente esistiti ma
sicuramente idealizzati e vagheggiati, che sopravviverà solo
nelle chansons. I cavalieri, superstiti di questo mondo sentito da
loro come unico e vero, andranno lietamente a farsi scannare da
rozzi bottegai e cupi artigiani che combattevano solo per affermare,
in un duello, da loro vissuto come mortale, la loro esistenza
civile, la loro capacità economica e la necessità di
continuare a sviluppare liberamente quelle attività
economico-commerciali dal cui successo derivavano rilevanza sociale
e forza politica.
Le Gentes novae
Per queste gentes novae, la guerra non era un gioco, una festa in
cui mettere in mostra le proprie virtù cavalleresche magari
per gloriarsene agli occhi di una dama o nel caso fortunato per
appropriarsi di un bottino e di un ricco riscatto, bensì un
mortale e costoso incidente che metteva a rischio le conquista
economiche acquisite, oltre che la loro stessa sopravvivenza.
Laddove il cavaliere vedeva nel cavaliere nemico un confratello in
campo opposto, il mercante che combatteva vedeva nel cavaliere solo
un soggetto che interrompeva la sua attività facendogli
perdere denaro e rischiare la vita e perciò lo doveva
eliminare, cioè uccidere.
Il mercante combatteva libero da qualsiasi deontologia militare e
sotto lo stimolo dell'urgenza di tornare presto ai propri affari
sospesi.
Tutto ciò era vissuto come scandaloso dai cavalieri: guai al
cavaliere che incontrava sul campo di battaglia qualche macellaio
armato che, pratico nello squartare l'oggetto della propria
attività lavorativa, non aveva remora alcuna a fare
altrettanto prima col cavallo e poi con il cavaliere.
Il tramonto della cavalleria
Il momento magico dei cavalieri medioevali fu l'avventura delle
Crociate, specie la prima, trascorso il quale iniziò la loro
crisi lentamente per continuare, poi, sempre più rapidamente,
crisi che culminerà nella battaglia degli Speroni d'Oro a
Courtrai, 1302. In questa battaglia, simbolicamente ritenuta la fine
dei cavalieri medioevali, come funzione militare definitiva, le
truppe formate da mercanti ed artigiani delle Fiandre massacrarono i
cavalieri francesi facendo mucchi dei loro speroni dorati.
L'introduzione delle armi da fuoco dette poi il colpo di grazia alla
cavalleria che vide sempre più le proprie cariche fermate da
piogge di proiettili di archibugio o dai tiri dei cannoni.
Fu il tramonto della cavalleria come arma anche se le sopravvisse,
sempre più mitizzata, quell'etica che era stata alla base
della fraternitas, cui una stessa mentalità ed aspirazione di
vita aveva legato i cavalieri.
Questa specie di «internazionale cavalleresca»[6], che
si era costituita tra l'XI ed il XIII secolo, perse davanti alle
nuove fanterie comunali la propria funzione militare lasciando,
tuttavia, un'eredità di valori e di miti che sarebbero durati
nei secoli successivi.
Era lo spirito cavalleresco con la sua carica di leggenda che
sopravviveva rappresentando valori che i posteri avrebbero esaltato,
per non dire creato.
Gli Ordini cavallereschi
Questo spirito sopravvisse anche grazie agli ordini cavallereschi
che ebbero una funzione reale fintanto che svolsero
un'attività politico-militare, e cioè fino al Duecento
ma che successivamente o scomparvero come i Templari ad opera di
Filippo IV di Francia o si trasformarono in istituzioni puramente
simboliche. Continuarono a sopravvivere invece quegli ordini che
nati con ideali cristiani e militari, abbandonate progressivamente
gli aspetti militareschi hanno mantenuto e rafforzato gli scopi
umanitari come nel caso dell'Ordine di Malta e dell'Ordine
teutonico.
« Così la stanca aristocrazia deride il proprio
ideale. Dopo avere abbellito, colorato e reso in forma plastica con
tutti i mezzi della fantasia, del talento, e della ricchezza il suo
sogno appassionato di una vita bella, essa considerò che in
fondo la vita non era affatto bella, e rise. »
(Huizinga - L'autunno del Medioevo)