da
http://www.homolaicus.com/storia/contemporanea/rivoluzione_bolscevica/bucharin.htm
Nikolai Bucharin, 50 anni dopo esser caduto vittima delle purghe
staliniane, è stato riabilitato dalla perestrojka
gorbacioviana nel febbraio 1988, allorché il plenum della
Corte suprema della ex-URSS ha respinto la sentenza che lo accusava
di aver partecipato al cosiddetto "blocco antisovietico dei
trotskisti di destra". Non si è trattato semplicemente del
riconoscimento di un gravissimo errore giudiziario, ma anche, in
positivo, del tentativo di far comprendere all'umanità la
necessità di distinguere la lotta ideologica da quella
politica, le idee dagli uomini che le professano, ma anche del
tentativo di far comprendere che nella storia esistono sempre
diverse alternative nei cui confronti si gioca la libertà
degli uomini, e che quella risultata alla fine vincente non per
questo va considerata la migliore.
Nel momento in cui Bucharin fu chiamato a svolgere un ruolo
più significativo nella lotta che andava svolgendosi in seno
al partito negli anni '20 e '30, egli aveva una considerevole
esperienza politica. Già durante la rivoluzione russa del
1905-907, egli aveva aderito alle manifestazioni antigovernative e
al Posdr (così il Pcus di allora). Lavorava come agitatore e
organizzatore a Mosca. Dopo essere stato più volte arrestato,
fu inviato in esilio, da dove riuscì a evadere, emigrando in
Polonia. Nell'autunno 1912 conobbe a Cracovia Lenin, il quale lo
convinse a lavorare per i circoli socialisti russi di Vienna.
Proprio a quell'epoca egli cominciò a maturare un forte
interesse per l'economia.
Durante la Ia guerra mondiale, Bucharin si trovava su posizioni
diverse da quelle di Lenin relativamente alla questione dello Stato
e del diritto delle nazioni all'autodeterminazione, in quanto l'uno
privilegiava la lotta per la democrazia, l'altro quella per il
socialismo. Lenin tuttavia non dava molta importanza a tali
divergenze, ritenendole non fondamentali.
Nell'ottobre 1916 Bucharin lasciò l'Europa per gli Stati
Uniti. A New York iniziò a collaborare attivamente per il
giornale The New World. Lenin era pienamente soddisfatto della lotta
che allora Bucharin conduceva contro Trotski. Fu solo dopo la
rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 ch'egli
rientrò in Russia. Nell'agosto successivo venne eletto membro
del C.C. al VI congresso del partito bolscevico. In quel momento
egli s'opponeva a coloro che esitavano sulla necessità d'una
insurrezione armata contro il Governo provvisorio di Kerenski.
Infatti, dopo la rivoluzione d'ottobre a Leningrado, fu tra i capi
dell'insurrezione di Mosca.
Nel 1918 assunse una posizione errata a proposito della pace con la
Germania: contro essa sosteneva l'esigenza d'una guerra
rivoluzionaria. Più tardi però ammise d'essersi
sbagliato. Nel contempo, egli svolgeva un lavoro assai proficuo in
qualità di capo-redattore della Pravda, organo centrale del
partito. Si può dire, nel complesso, che negli anni 1919-20
le concezioni di Bucharin si caratterizzavano per un "romanticismo
rivoluzionario" assai marcato e per una concezione politica
gauchiste. In un certo senso egli personificava lo spirito del
"comunismo di guerra", che allora albergava in tutti i membri del
partito.
Il "comunismo di guerra" -come noto- forzatamente adottato in
seguito alla guerra civile e alla crisi economica, consisteva in una
mobilitazione di tutte le forze e risorse per la difesa. Suoi
elementi essenziali furono: la nazionalizzazione dell'intera grande
e media industria, nonché di una buona parte delle piccole
imprese, la massima centralizzazione della direzione della
produzione industriale e della distribuzione, la cessione
obbligatoria allo Stato, da parte dei contadini, a prezzi fissi, di
tutte le eccedenze di grano e di altri prodotti che superassero le
norme stabilite per il consumo personale e per i bisogni economici,
l'interdizione del commercio privato, l'approvvigionamento
alimentare pianificato della popolazione e il livellamento dei
salari.
Proprio nel 1920 apparve L'economia del periodo di transizione,
l'opera di Bucharin che meglio generalizzava e assolutizzava la
prassi politica ed economica del suddetto comunismo, il cui valore
avrebbe solo dovuto essere transitorio. Non era quello il libro che
avrebbe potuto introdurre la Nuova Politica Economica (NEP) che lo
Stato sovietico applicò dal 1921 al 1929. Come noto, la NEP
voleva essere l'antitesi del "comunismo di guerra": essa infatti
autorizzava il commercio privato, le piccole imprese capitalistiche
sotto rigoroso controllo dello Stato, sollecitava l'industria
statale all'autonomia finanziaria, trasformava le cessioni del
surplus agricolo in imposte in natura. L'essenza di quest'ultima
innovazione consisteva nel fatto che il contadino, dopo la consegna
della prestabilita imposta in natura, poteva amministrare
liberamente il prodotto della sua azienda. Naturalmente tale imposta
era inferiore alle consegne obbligatorie. Fu questa politica
economica che consolidò le basi economiche dell'alleanza tra
operai e contadini, che sviluppò non solo i legami
dell'industria socialista con la piccola produzione agricola, usando
i rapporti mercantili-monetari, ma anche le leve economiche nella
gestione dell'economia.
Nei più recenti studi della suddetta opera economica, spesso
si critica Bucharin per aver fatto della "coercizione
extraeconomica" il principale metodo di costruzione del socialismo.
Con ciò tuttavia si dimentica di sottolineare il radicale
mutamento di posizione di Bucharin dopo il passaggio alla NEP,
nonché il fatto che lo stesso Lenin tendeva a condividere
l'uso di tale coercizione (a condizione naturalmente che l'autore ne
fosse il proletariato). Altri piuttosto erano gli errori segnalati
da Lenin: scolasticismo e antidialetticità. Ma forse il
conflitto maggiore tra Lenin e Bucharin fu quello degli anni
'20-'21, allorché Lenin impedì che i sindacati si
staccassero dal partito, temendo l'indebolirsi di quest'ultimo,
appena uscito dalla durissima lotta contro gli interventisti
stranieri e le guardie bianche.
Bucharin, insieme ad altri gruppi frazionisti, era dell'avviso che
la democrazia politica e lo sviluppo produttivo avrebbero tratto
beneficio dall'autonomia dei sindacati, poiché la politica
del "comunismo di guerra" aveva scontentato tutti. Il X Congresso
del Pc(b) (marzo 1921) pose fine al dibattito emanando due
importanti risoluzioni: una, politica, sull'unità del
partito, con cui si vietava qualsiasi attività frazionistica;
l'altra, economica, sull'imposta in natura, che costituì il
fondamento della NEP. Tuttavia, nonostante questo conflitto teorico,
non ci fu mai alcuna rottura fra Lenin e Bucharin. Significativo
è inoltre il fatto che tutto quanto sarà rimproverato
a Bucharin, al tempo del processo staliniano, non troverà
alcun riscontro nella polemica con Lenin.
Gli anni 1921-27 vedono l'ascesa politica di Bucharin. Nel 1924
viene eletto membro dell'ufficio politico e gli si affidano posti di
responsabilità non soltanto nel C.C. ma anche nel C.C.
esecutivo (che è stato il più importante organo
statale dal 1922 al 1936), nonché nel comitato esecutivo
dell'Internazionale comunista. Egli inoltre faceva parte dello staff
del Komsomol, del consiglio centrale dei sindacati e di vari
comitati scientifici e culturali (ad es. capo-redattore della
Pravda, poi della rivista Bolschevik, ecc.). Sovente rappresentava
il partito all'estero.
Dopo la morte di Lenin egli s'impegnò nel partito, a fianco
di Stalin, contro le idee di Trotski, Zinoviev e Kamenev. Bucharin
si lanciò in una polemica così accanita che spesso
restava completamente sordo agli argomenti sensati dei suoi
avversari. L'intransigenza ideologica tendeva a trasformarsi in una
sorta di antipatia personale. Stalin, che Trotski accusava, non
senza ragione, di "centralismo senza princìpi", seppe
approfittare della situazione per imporre le sue concezioni
politiche, estromettendo prima Trotski, poi Zinoviev e Kamenev dalla
direzione del partito. In seguito la storia si preoccuperà di
dimostrare che molte delle concezioni teoriche di Stalin erano
più vicine a quelle di Trotski che non a quelle di Bucharin.
Gli anni '20 furono per Bucharin un periodo di grande
attività teorica. Rivedendo alcune sue posizioni, egli
sviluppò l'idea leniniana dell'alleanza operaio-contadina
come fondamento del potere sovietico e condizione obbligata della
costruzione del socialismo. Egli inoltre fu uno dei primi a porre la
questione del contributo teorico di Lenin al marxismo. In
particolare egli cercò di sviluppare ulteriormente il
concetto di NEP, in funzione delle concrete condizioni degli anni
'20. Nel libro La via al socialismo e l'unità
operaio-contadina (1925), egli tenta di fondare teoricamente la
costruzione del socialismo sulla base della NEP, riprendendo le idee
di Lenin sulla necessità di misure transitorie per condurre
al socialismo un paese in cui dominava la piccola proprietà
contadina. In tal senso egli condivideva pienamente l'idea di Lenin
secondo cui il socialismo doveva essere "un sistema di cooperatori
civilizzati". Ciononostante lo schema di Bucharin presentava una
lacuna di non poco conto, in quanto la sua concezione si basava
sull'idea che la NEP avrebbe perso progressivamente ogni ragion
d'essere e che il socialismo si sarebbe radicato lentamente nel
paese, senza salti qualitativi né transizioni rivoluzionarie.
Oggi si è addirittura arrivati a credere che tali "salti"
sono indispensabili per lo sviluppo di tutto il socialismo e non
solo del suo periodo di transizione.
Quando uscì il libro di Bucharin, si stava scatenando
un'aspra lotta politica in seno al partito, a causa della
contraddittorietà di certe decisioni prese in precedenza. Da
un lato infatti si prospettava l'ulteriore sviluppo della NEP
"classica" attraverso l'estensione dei rapporti mercantili-monetari,
il libero scambio, il permesso di assumere manodopera, di prendere o
cedere in affitto, la soppressione dell'imposta in natura e
l'organizzazione delle forniture alimentari cittadine su basi
mercantili. Misure queste destinate a favorire le iniziative
individuali e quindi l'industrializzazione del paese. Dall'altro
lato però, il partito si cominciava a chiedere come
conciliare questa libertà della piccola produzione con gli
obiettivi dell'industrializzazione. Nel 1925 il problema veniva
praticamente regolamentato dallo scambio non equivalente fra la
città e la campagna. Ma un'economia equilibrata non poteva
tollerare questo pompaggio di risorse, anche perché il
partito era costretto a ricercare compromessi sempre più
complicati.
Di fatto le linee programmatiche degli anni 1925-27 si basavano
sulla concezione di Bucharin, secondo cui i colcos non erano il
mezzo principale per arrivare al socialismo. Di qui il ritardo della
cooperazione produttiva agricola rispetto all'inizio
dell'industrializzazione del paese, la mancata soluzione del
problema cerealicolo e la necessità di far entrare il paese
nella tappa storicamente inevitabile del socialismo attraverso -come
dirà più tardi lo stesso Bucharin- "la porta delle
misure straordinarie". È significativo però che sin
dal 1926-27 Bucharin comincerà ad abbandonare l'idea dello
sviluppo economico lento e regolare, prospettando invece cadenze
più rapide. Egli cioè riconosceva alcuni limiti nella
politica lanciata nel 1925.
Al XV congresso del partito (dicembre 1927) la direzione presenta un
programma unanime per una graduale "ricostruzione" della NEP, volto
a una maggiore applicazione della cooperazione produttiva e
pianificata, e volto anche a un'offensiva più vigorosa contro
gli elementi capitalistici urbani e rurali. Tuttavia, la direzione
non fece alcun cenno al grave problema dello stoccaggio dei cereali.
Ma dopo alcuni mesi dal congresso, la crisi della situazione
internazionale e delle forniture di grano indussero l'ufficio
politico a esercitare pressioni amministrative e giudiziarie a
carico dei kulaki (contadini ricchi) e dei contadini medi,
affinché provvedessero a rifornire di grano le città.
La decisione venne presa da tutti i membri della direzione, fra cui
Rykov (ministro degli interni), Tomski (leader dei sindacati),
Bucharin e Stalin. Quest'ultimo, in particolare, era sempre
più convinto che non si poteva più effettuare il
pompaggio o pensare di risolvere il problema dei cereali con l'aiuto
dei meccanismi tradizionali della NEP. Egli cioè si rendeva
conto che il ricorso esclusivo a misure eccezionali, nei confronti
della proprietà contadina individuale, avrebbe comportato
inevitabilmente un calo del volume della semina e dei cereali
destinati alla vendita. Ecco perché Stalin escogitò
l'idea di costruire coattivamente i colcos (azienda collettiva),
quali nuovo canale di pompaggio, sviluppando parallelamente aziende
cerealicole di tipo sovcosiano (statale).
All'inizio nessuno dell'ufficio politico protestò contro
questa nuova forma di pompaggio. Si discuteva soltanto delle sue
modalità e dei limiti. Sarà all'inizio del giugno 1928
che Bucharin scriverà una lettera a Stalin sostenendo che la
costruzione dei colcos non avrebbe potuto far uscire il paese dalla
crisi in un lasso di tempo molto breve, anche perché lo Stato
non era in grado di fornire immediatamente ai colcos i capitali e i
materiali necessari. Egli in pratica rimproverava a Stalin una
politica improvvisata, troppo empirica e, col pretesto di misure
eccezionali, assai diversa dalla linea del XV congresso.
Per Bucharin, in sostanza, la questione si poneva nei termini
seguenti: non essendo i colcos in grado di fornire sufficiente
grano, nell'immediato, occorreva rilanciare le aziende individuali,
normalizzando i rapporti coi ceti rurali. Stalin era invece di
tutt'altro avviso: fino a quando i colcos non sarebbero stati in
grado di risolvere il problema cerealicolo, egli riteneva
indispensabile ricorrere alle misure straordinarie. A quel tempo il
principale disaccordo fra i due riguardava meno le questioni dei
ritmi di sviluppo o quella di saper se bisognava o no creare dei
colcos, e molto più la questione di sapere come gestirli, in
quanto che essi non erano ancora in numero sufficiente e non
producevano grano.
Nel luglio 1928, al plenum del C.C., Stalin avanza la sua teoria del
"tributo", cioè di una soprattassa a carico dei contadini,
cui si era momentaneamente costretti -a suo giudizio- "per mantenere
e accelerare gli attuali ritmi dello sviluppo industriale". Bucharin
non si oppose al pompaggio né alla sottrazione di una parte
della produzione agricola a beneficio dell'industria pesante, anche
se auspicava l'uso di una grande moderazione.
In sintesi: Stalin riteneva che lo scambio non equivalente (tra
industria e agricoltura) e il mercato fossero due cose
incompatibili, in quanto il secondo ostacolava il primo. Bucharin
invece sosteneva che il pompaggio delle risorse agricole dovesse
effettuarsi attraverso i meccanismi di mercato, sulla base delle
aziende individuali, per un periodo di tempo piuttosto lungo. In
altre parole, Bucharin non negava che i colcos e i sovcos fossero lo
strumento più adatto a questo pompaggio: il problema, per
lui, era ch'essi non potevano fornire immediatamente allo Stato i
cereali destinati alla vendita. Chi dei due aveva ragione? Né
l'uno né l'altro. Da un lato infatti era assurdo pensare -e
Bucharin più tardi lo comprenderà- che attraverso il
mercato privato fosse possibile travasare le risorse delle aziende
agricole individuali nell'industria pesante, dall'altro era
altrettanto evidente che il ricorso a misure eccezionali avrebbe
compromesso l'alleanza operaio-contadina, mettendo il Paese
sull'orlo della guerra civile. Soltanto lo sforzo di una riflessione
collettiva avrebbe permesso di elaborare un programma costruttivo
per il periodo in cui i colcos non erano ancora in grado di fornire
la quantità necessaria di cereali. E comunque il plenum del
C.C. nel luglio 1928 decise a maggioranza di sottoscrivere l'appello
alla prudenza lanciato da Bucharin, Rykov e Tomski.
Nella pratica, tuttavia, le cose andarono ben diversamente, in
quanto era il discorso di Stalin sul "tributo" che in ultima istanza
portava avanti la politica del partito. Di fronte a questa
contraddizione, Bucharin cercò di reagire nell'autunno 1928,
segnalando che la situazione economica stava alquanto peggiorando.
Al plenum del C.C. di novembre egli riuscì a far adottare una
risoluzione comune avente come punto fondamentale il riconoscimento
che i contadini poveri e medi andavano incoraggiati. Ma la
risoluzione, benché votata all'unanimità, venne ben
presto dimenticata, col risultato che alla fine del '28 il Paese era
piombato in una terribile crisi cerealicola. I debiti con l'estero
non potevano più essere pagati. S'imposero immediatamente il
razionamento del pane e i tagli all'import. Tutti i programmi
produttivi rischiavano di fallire.
Il 30 gennaio 1929, ai membri dell'ufficio politico e il 9 febbraio
al presidium del commissione centrale di controllo del partito,
Bucharin, Rykov e Tomski dichiarano che il dualismo fra la prassi e
le decisioni prese dal partito dipendono dalla posizione personale
di Stalin, il quale avendo accumulato dei poteri straordinari, ne
usa in modo arbitrario. Stalin viene accusato di "etichettare le
persone" e di nascondere la verità delle cose, ma neppure i
suoi collaboratori vengono risparmiati. In particolare, l'ala
buchariniana sostiene di non aver mai contestato le decisioni
ufficiali del partito e ch'essa si batteva soltanto contro le
deformazioni imposte a queste decisioni da Stalin e dal suo staff,
ovvero contro le misure eccezionali e contro il fatto di mettere
Stalin e il partito sullo stesso piano. Infine si chiedeva di non
considerare questo attacco a Stalin come un attacco a tutto il
partito. "Noi pensiamo -scriveva il gruppo di Bucharin- che il
compagno Stalin dovrebbe seguire il consiglio (assai saggio) dato da
Lenin, rispettando il principio della collegialità. Noi
riteniamo che chiunque debba poter criticare il compagno Stalin,
come ogni altro membro dell'ufficio politico, senza paura di passare
per un 'nemico del popolo'". Un'esigenza, come si può
facilmente notare, che non poteva certo far pensare ad ambizioni di
potere personale da parte di Bucharin.
Nel suo discorso al plenum del C.C. d'aprile 1929, Bucharin accusa
Stalin d'aver preso delle misure contro tre membri dell'ufficio
politico, al fine di discreditarli pubblicamente, senza che vi fosse
alcun giudizio emesso dall'organo politico competente. Oltre a
ciò Bucharin critica la concezione staliniana secondo cui la
lotta di classe s'inasprisce in rapporto ai progressi della
società socialista. Con questa teoria infatti (che Stalin
prese da Trotski e che formulò nel luglio 1928) si poteva
giustificare il ricorso alle "misure straordinarie". Essa in pratica
confondeva, a giudizio di Bucharin, due cose differenti: "un periodo
momentaneo di acuta lotta di classe con il corso generale dello
sviluppo".
Il pensiero di Bucharin intanto evolveva verso la convinzione che le
difficoltà non stavano nei ritmi accelerati
dell'industrializzazione, in quanto tali ritmi avrebbero potuto
essere ancora più sostenuti se si fosse pensato di più
a sviluppare l'agricoltura, proteggendo in modo particolare la
produzione cerealicola. Queste difficoltà tuttavia risalivano
in gran parte alle decisioni del 1925. Se il problema cerealicolo
s'era imposto in termini così acuti, ciò in parte era
dipeso dal fatto che si era deciso di industrializzare il Paese
puntando a valorizzare le aziende individuali contadine e non la
cooperazione produttiva. I colcos, creati per risolvere il problema
cerealicolo, offrivano appunto la possibilità di una rapida
industrializzazione. A questa conclusione Stalin era arrivato nel
gennaio 1928, senza l'aiuto di Bucharin: cosa che se si fosse
verificata prima, in una situazione diversa, avrebbe reso inutile
l'adozione di misure straordinarie, mentre Bucharin, dal canto suo,
non avrebbe pagato le conseguenze della politica che lui stesso
aveva promosso nel 1925.
Nell'aprile 1929, Bucharin constata che il piccolo produttore non
vende più il suo grano ma lo consegna allo Stato e che, di
conseguenza, il mercato fra città e campagna è stato
rotto. L'introduzione di misure straordinarie e la forzata
concessione di grano allo Stato avevano avuto un effetto assai
demotivante sulla produzione individuale. La moneta era in corso di
svalutazione, non esistevano incentivi di sorta, le pressioni
amministrative aumentavano e anzi di diversificavano, i tentativi di
combinare lo sviluppo degli scambi con i nuovi legami economici fra
città e campagna fallirono del tutto. Il principale problema
di gestione consisteva nel fatto che elementi moderni di regolazione
economica si trovavano ad essere affiancati da misure eccezionali
incompatibili con la NEP.
Poggiando su quest'analisi, Bucharin elaborò un programma
alternativo. Egli suggerì d'importare il grano, di rinunciare
definitivamente alle misure straordinarie, di ristabilire la
legalità rivoluzionaria, di servirsi dei prezzi come mezzo di
regolazione e d'intensificare la produzione agricola. Oltre a
ciò, egli sosteneva che i prezzi d'acquisto del grano
dovevano essere flessibili e non rigorosamente fissati, in quanto
andavano rapportati all'andamento della stagione e alle diverse zone
regionali. Non una parola però contro lo scambio iniquo tra
città e campagna, contro il pompaggio delle risorse agricole.
Tale progetto non venne approvato dalla maggioranza dei membri del
C.C. Essenzialmente a causa del primo punto, quello su cui Bucharin
era irremovibile. La sua proposta d'importare il grano venne
percepita come un passo indietro, privo di sbocchi per il futuro. In
effetti, la questione principale era quella di scegliere non fra
l'import del grano e le misure eccezionali, ma fra tale import e
l'industrializzazione, e la direzione del partito non aveva dubbi
sulla necessità di favorire la seconda strada.
L'atteggiamento intransigente di Bucharin su questo aspetto, indusse
la direzione a rifiutare tutte le sue proposte, compresa quella,
così importante, del rispetto della legalità
rivoluzionaria. Nonostante ciò si decise lo stesso di
confermare la sua presenza nell'ufficio politico.
Malgrado la natura controversa del programma di Bucharin e la
polemica che sollevò, la maggioranza dei membri del C.C.
mostrò buon senso, e Bucharin rispettò la loro
volontà, ammettendo la possibilità di una rapida
industrializzazione. D'altra parte sia il plenum del C.C. che la XVI
conferenza del partito riconoscevano nell'aprile 1929 l'esistenza
simultanea di ritmi elevati dell'industrializzazione e di ritmi
relativamente modesti della collettivizzazione. L'ala buchariniana
apprezzò, come tutto il partito, alla fine del '29, i
risultati raggiunti nel campo dei lavori pubblici e del movimento
colcosiano. Ma, nonostante queste valutazioni convergenti, Bucharin,
Rykov e Tomski continuarono a proclamare l'inammissibilità
delle misure straordinarie. Purtroppo, appoggiando Stalin su tale
questione, il C.C. commise un errore fatale, di cui si
renderà conto solo molto tempo dopo.
Fino al novembre 1929 le esitazioni dei membri del C.C. fecero
sì che il gruppo buchariniano continuasse a giocare il ruolo
di contrappeso politico allo stalinismo emergente. Ma con la
sconfitta di questo gruppo e la sua esclusione dall'ufficio
politico, cominciarono a moltiplicarsi gli abusi nelle campagne e le
violazioni dei princìpi leninisti riguardanti i rapporti coi
contadini. Iniziò così il terrore degli anni '30.
A partire dal novembre 1929 la biografia politica di Bucharin
diventa incerta. Gli odierni tentativi degli storici sovietici di
utilizzare i testi degli ultimi interventi di Bucharin suscitano non
poche perplessità. Alcuni addirittura ritengono che il
Bucharin degli anni '30 fu un uomo distrutto, che si sforzò
come meglio poteva di accontentare Stalin, ma questa interpretazione
è troppo semplicistica per essere vera. In realtà
Bucharin, oltre che svolgere assai attivamente il suo ruolo di
dirigente politico, di capo-redattore delle Izvestia, di accademico
e di economista, esercitava ancora molta influenza su non pochi
membri del C.C. Quest'ultimi, convinti che l'autocritica di Bucharin
fosse sincera, desideravano la sua riabilitazione politica.
Ma quando si produsse il "grande balzo in avanti", accompagnato da
enormi perdite e sacrifici, e il partito cominciò a porsi la
domanda se mantenere le misure eccezionali, contro cui aveva
protestato Bucharin nel '29, oppure se normalizzare la vita
socio-economica, scoppiarono ben presto nuove furenti polemiche.
Bucharin si fece portavoce della normalizzazione ed elaborò
un orientamento generale al plenum del gennaio 1933. Gli "umori" dei
dirigenti sembravano essergli favorevoli. Bucharin riconobbe che il
primo piano quinquennale, nonostante alcuni forti limiti, aveva
conseguito molti importanti obiettivi: l'URSS era diventata "un
nuovo Paese". La concezione economica che Bucharin aveva del
socialismo consisteva nel favorire un'economia di mercato
pianificata, in cui il commercio, posto su basi nuove, giocasse un
ruolo fondamentale (ad es. gli incentivi nell'agricoltura andavano
salvaguardati anche se regolamentati). Nel contempo, più
ancora di Rykov e di Tomski, egli sostenne che Stalin, con la sua
ferma volontà, si era conquistato il diritto di dirigere
anche in futuro il processo storico-politico del Paese. Parole,
queste, che potevano anche lasciar pensare che Bucharin volesse
restare nell'ufficio politico, per continuare a influire sugli
avvenimenti. Solo molto più tardi però ci si
accorgerà che con esse egli aveva incoraggiato, senza
volerlo, la nascita del culto della personalità.
Viceversa, Stalin non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle
misure straordinarie e, temendo il successo che le idee di Bucharin
stavano avendo negli ambienti di partito, escogitò con il suo
entourage il modo per "incastrarlo". Fu così che la polemica
resuscitò su questioni puramente terminologiche. Bucharin
definiva il mutamento dei rapporti produttivi agricoli come il
risultato della gigantesca rivoluzione agraria compiuta attraverso
la dittatura del proletariato, che comportò l'esproprio dei
mezzi produttivi dei kulaki. Al che Stalin obiettava che la politica
della collettivizzazione non doveva essere ridotta al concetto di
rivoluzione agraria. Stalin, in sostanza, tendeva a sopravvalutare i
vantaggi (presunti o reali) della collettivizzazione forzata
rispetto ad ogni altra politica agraria.
Bucharin inoltre considerava la soluzione del problema dei nuovi
mezzi produttivi come centrale per l'edificazione dell'economia
socialista. Stalin invece replicava col dire che anche in questo
caso Bucharin peccava di superficialità, poiché non
sapeva cogliere l'importanza dei mezzi produttivi per l'industria
pesante rispetto agli altri settori economici. Lo stesso Stalin
attaccò duramente Bucharin per aver sostenuto che la
percentuale del reddito nazionale destinata all'accumulazione era
troppo elevata e che le forze produttive erano state ridistribuite a
svantaggio di altri settori, specie quello agricolo. Senza entrare
nel merito di queste osservazioni critiche, Stalin se ne
servì per accusare il gruppo di Bucharin di
inaffidabilità, dimostrando così che le vere
divergenze non erano nominalistiche e che il problema principale
restava sempre lo stesso: normalizzare la situazione o controllarla
con la violenza?
Dopo l'omicidio di Kirov, nel 1934, cui Stalin non può essere
considerato del tutto estraneo, la spada di Damocle pendeva sulla
testa di Bucharin e di altri membri dell'opposizione. All'interno
del C.C. si era incerti sul da farsi: la figura di Bucharin non la
si vedeva in alternativa alla direzione politica, ma neppure la si
voleva escludere da essa, poiché le sue idee antiautoritarie
erano condivise. Questo tuttavia non impedì che il plenum che
C.C. di febbraio-marzo 1937, convocato per denunciare i cosiddetti
sabotatori e i trotskisti infiltrati nella leadership del partito,
si aprisse con l'esame del "caso" Bucharin e Rykov (Tomski nel
frattempo si era suicidato, prevedendo il peggio).
L'accusa sosteneva che quest'ultimi conoscevano e appoggiavano un
blocco trotskista-zinovievista clandestino e un centro trotskista
parallelo antisovietico, il cui obiettivo era quello di restaurare
il capitalismo con l'aiuto d'interventisti fascisti stranieri. Tutto
ciò era completamente inventato, e del tutto assurde erano
anche le accuse mosse contro Bucharin di aver voluto organizzare nel
1930-31 un'insurrezione contadina al fine di creare uno Stato
siberiano autonomo che facesse pressione sul regime staliniano, o
l'accusa di aver cospirato per eliminare Stalin.
Bucharin si difese egregiamente e la commissione giudicatrice,
presieduta da Mikoyan, sembrava dargli ragione. Stalin pertanto si
vide costretto a ricorrere all'intrigo (come risulta dalla
discussione su quale testo definitivo dare alla risoluzione di
condanna). Due proposte erano state fatte: la prima prevedeva
l'espulsione di Bucharin e Rykov dal C.C. e dal partito,
nonché il processo davanti al tribunale militare con
esecuzione della pena capitale (la fucilazione); la seconda
prevedeva il deferimento alla giustizia senza esecuzione.
Astutamente Stalin suggerì di non tradurli di fronte alla
giustizia ma di delegare la gestione del caso al Commissariato del
popolo per gli affari interni, col pretesto di un supplemento
d'indagine. Decisione, questa, accettata all'unanimità, salvo
le due astensioni di Bucharin e Rykov.
L'ultimo atto del dramma di Bucharin fu il processo del 2 marzo
1938, intentato contro il cosiddetto "blocco trotskista di destra".
I 21 imputati furono accusati dal procuratore A. Vychinski dei
crimini più assurdi e più gravi: dall'aver manipolato
la rotazione delle colture all'intenzione di consegnare l'Ucraina
alla Germania nazista. Il processo fu una vera farsa: tutto era
già stato predeterminato. Bucharin, che pure si era
confessato colpevole al pari degli altri (sperando di evitare
conseguenze sui familiari), respinse sino all'ultimo l'accusa per
lui più mostruosa, quella secondo cui nel 1918, all'epoca di
Brest-Litovsk, egli avrebbe progettato con i
socialisti-rivoluzionari di uccidere Lenin, così come
negò la partecipazione all'assassinio di Kirov. Dei 21
imputati, il Collegio militare della Corte suprema decise di
condannarne 18 alla fucilazione e tre a pesanti pene detentive. Con
la morte di Bucharin il terrore staliniano era riuscito ad abbattere
l'ultimo grande ostacolo.