CARPI, Leone

wikipedia

Leone Carpi (Cento, 7 settembre 1810 – Roma, 19 gennaio 1898) è stato un economista, politico e giornalista italiano.

Biografia Nel 1849 fu un personaggio di spicco nella difesa della Repubblica Romana. Dopo la caduta di quest'ultima, andò in esilio. Carpi fu il primo deputato ebreo eletto al Parlamento Italiano, dalla città di Ferrara. Alla fine del suo mandato, divideva il suo tempo tra Bologna e Roma, dove fu un collaboratore del giornale Il Popolo romano. Mise in luce le condizioni sociali e morali dell'Italia unita con le informazioni raccolte presso tutti gli uffici governativi.

Tra i suoi lavori vanno menzionati: Non più illusioni. Cenni sugli attuali avvenimenti italiani, Torino, 1860 Del riordinamento amministrativo del Regno, Bologna, 1860 Dell'Emigrazione Italiano all'Estero, nei Suoi Rapporti coll'Agricoltura, coll'Industria, e col Commercio, Firenze, 1871 Delle Colonie e dell'Emigrazione degl'Italiani all'Estero nei Loro Rapporti coll'Agricoltura, Industria, e Commercio, Milano, 1874 Statistica Illustrata dell'Emigrazione, Roma, 1878 L'Italia Vivente, Studi Sociali, Milano, 1878 Il Risorgimento Italiano: Biografie Storico-Politiche d'Illustri Italiani Contemporanei, Milano, 1884 L'Italia all'Estero, Roma, 1887.

Nel suo Dell'Emigrazione, riportò che circa 550.000 italiani vivevano in ciò che chiamò "colonie" dell'Italia all'estero. Quasi la metà di questi vivevano in Sud America, principalmente in Argentina, Uruguay, e Brasile meridionale. Il 9% vivevano in Nord America, principalmente negli Stati Uniti. Un altro terzo viveva nell'Europa transalpina e il 15% in Nord Africa, Grecia e Medio Oriente. Il suo unico scritto relativo a tematiche ebraiche è Alcune Parole Sugli Israeliti in Occasione di un Decreto Pontificio d'Interdizione, Firenze, 1847.

*

www.treccani.it

DBI

di Raffaele Romanelli

Nacque il 7 sett. 1810 a Cento (Ferrara) da Lazzaro, in antica famiglia della locale comunità ebraica. Nella città, che ospitava un antico ghetto, gli ebrei avevano goduto di particolari privilegi già prima della Rivoluzione francese; sembra testimoniarlo anche la sorte della famiglia Carpi, un cui esponente, Moisè, nel 1774 era stato nominato "famigliare" del cardinal Albani, decano del Sacro Collegio (vedi l'atto in L'Educatore israelita, XIII [1865], pp. 335 s.).

Nato nell'anno 1776, il padre del C., Lazzaro, nel 1800 divenne tenente, e in seguito capitano, della locale Guardia nazionale, e conservò la buona posizione sociale anche sotto il restaurato governo pontificio; nella Cento di quegli anni "promosse la fondazione di regolari mercati di bestiame, e la loro frequenza, come l'ampliamento delle Fiere, ottenendo lettera d'encomio e di ringraziamento dal Cardinale Consalvi, segretario di Stato" (Il Vessillo israelitico, XXX [1882], p. 204). Di sentimenti liberali, forse massone e carbonaro, Lazzaro fu però implicato nei moti del '21, arrestato, processato a Milano, di là espulso, poi di nuovo processato a Bologna per preteso alto tradimento e infine assolto per mancanza di prove anche per le pratiche svolte dal suo primogenito, Alessandro. Il primo arresto era avvenuto a Ficarolo, paese in provincia di Rovigo, sulla riva sinistra del Po, dunque al confine con lo Stato pontificio ma in territorio lombardo, dove grazie alla meno severa legislazione antiebraica la famiglia aveva potuto acquistare una proprietà terriera e spesso risiedeva e dove un altro figlio di Lazzaro, Settimio, più tardi sarebbe stato a lungo sindaco.

A partire dal 1832, la famiglia si era intanto trasferita a Bologna e vi aveva iniziato l'attività commerciale; aprendo nella sua casa bolognese un oratorio, Lazzaro aveva inoltre gettato il primo fondamento della comunità ebraica della città. Trascorsi i moti del 1831, il nome di Lazzaro e quelli di tre dei suoi sette figli, Alessandro, Anselmo e il C., comparvero nel "libro dei compromessi politici" fatto redigere dal commissario straordinario alle Legazioni di Romagna cardinale Giuseppe Albani (Libro dei compromessi politici nella rivoluzione del 1831-32, a cura di A. Sorbelli, Roma 1935, p. 34). Detti "commercianti e possidenti", i Carpi erano segnalati come gravemente avversi al regime anche perché ebrei, ma non si faceva cenno di una loro partecipazione ai moti o all'organizzazione cospirativa; nel 1841 il C. ottenne poi la cancellazione del suo nome in quanto dichiarò di risiedere stabilmente a Ficarolo per attendere esclusivamente all'amministrazione del patrimonio agrario del padre e alle cure della famiglia che nel frattempo aveva formato insieme con Pamela Anau, dalla quale ebbe tre figli maschi e una femmina. Ciò non toglie che egli avesse occasione di frequentare ambienti liberali, sia nella sua attività di imprenditore agricolo, sia nei frequenti viaggi al di fuori dello Stato che, al pari dei familiari, egli compiva per l'azienda paterna, alla quale faceva capo, oltre "il commercio di seterie e panni", anche "una grande e lucrosa fabbrica" (Loevinson, p. 270). Per questi motivi gli fu tolto il passaporto dal '43 al '46, mentre il fratello Alessandro si trasferì, e a lungo risiedette, in Toscana, e il terzo, Anselmo, che era entrato nelle organizzazioni cospirative e aveva partecipato ai moti del '45, avrebbe poi attirato su di sé lo sdegno dei gruppi liberali per il sospetto che egli fosse divenuto confidente della polizia come sembrò accertato dai documenti del governo pontificio venuti in mano liberale nel 1849(cfr. Menghini).

Nel luglio del 1848 il C. si trovava a Sermide - paese del Mantovano non discosto da Ficarolo, ma sulla riva destra del fiume - allorché la cittadinanza insorse e il comitato di difesa lo incaricò di percorrere i paesi vicini per suscitarvi solidarietà. Ma la mattina seguente, giunta notizia di Custoza, gli Austriaci bombardarono Sermide e il C. fuggì verso Bondeno.

All'inizio del '49 fu eletto a Bologna con 11.ooo voti alla Costituente romana, ai cui lavori prese poi parte attiva. Discutendosi la forma del governo, il C., schierandosi sulle posizioni moderate del gruppo vicino a Mamiani, votò l'8 febbraio la proposizione Audinot che dichiarava la decadenza del potere temporale, ma rimetteva alla Costituente italiana la definizione dell'ordinamento politico, e, respinta quella, si astenne sulla proposizione Filopanti che proclamò la Repubblica. Ebbe poi soprattutto ad occuparsi di questioni finanziarie come relatore della commissione di finanze e segretario generale con i ministri Guiccioli e Manzoni. A più riprese si batté per segnalare le gravissime condizioni finanziarie in cui versava la Repubblica, il suo scarso credito, e la necessità di adottare pronti provvedimenti, oltre che per far fronte ai pagamenti immediati e alla scarsità di moneta circolante, anche per l'acquisto di armi all'estero. Per questo propose una legge, poi votata, che proclamava il debito pubblico "nazionale e inviolabile"; appoggiò il progetto di autorizzare la Banca Romana ad una emissione di 1.300.000 scudi di biglietti a corso coattivo progetto approvato il 19 febbraio dopo lunga discussione e tra accesi contrasti dovuti alla repugnanza di molti ad appoggiare la Repubblica a un istituto che si sapeva pilastro del deposto regime -, ed espose poi l'altro disegno, approvato il 25 febbraio, che decretava l'esazione di un prestito forzoso di 3.300.000 scudi con carattere progressivo in ragione del censo.

Col procedere dei giorni, tuttavia, tali provvedimenti tardavano ad avere concreta applicazione, e giungevano a Roma le lagnanze delle province per i danni che la carenza di numerario recava al commercio: il C. stesso espresse in aula la protesta dei Bolognesi. Il governo, alle inadempienze del quale si addebitava la situazione, fu costretto alle dimissioni l'8 marzo. Discutendosi nel frattempo la partecipazione romana alla guerra, venne in luce, insieme con la disorganizzazione dell'esercito, anche l'insuccesso di alcune ordinazioni di armi effettuate a Parigi da vari rappresentanti della Repubblica. Il C., che forse si trovava ormai a disagio per l'insuccesso delle misure finanziarie da lui caldeggiate, e che comunque aveva già suggerito di inviare nuovi, più fidati rappresentanti, fu investito della missione alla fine di marzo. Giunto a Parigi il 17 aprile, quando ormai lo stesso governo francese ostacolava gli sforzi dei Romani, non poté riscuotere i fondi promessi sulla Banca Rothschild e proseguì poco dopo per Londra, dove si trovava ancora nel giugno e dove nuove difficoltà incontrate gli rivelavano l'ostilità di fatto che anche quel governo mostrava per la Repubblica romana, nel frattempo clamorosamente aggredita dai Francesi.

Sorpreso all'estero dalla caduta dei governi repubblicani e bandito dagli Stati del papa e dell'Austria, soggiornò negli anni successivi oltre che in Inghilterra anche in Francia, in Belgio e in Spagna, e si stabilì infine con la famiglia in Piemonte, dove poté frequentare i maggiori esponenti dell'emigrazione, tra i quali Luigi Carlo Farini, che a Bologna appoggiava ai Carpi i suoi interessi finanziari.

Il primo scritto del C., un breve opuscolo comparso a Firenze nel 1847, sosteneva la causa dell'emancipazione degli ebrei prendendo spunto da un decreto pontificio che li aveva esclusi dalla guardia civica; sempre intorno all'emancipazione e ai mezzi da usarsi per ottenerla scrisse l'anno dopo, in polemica con il cognato Salvatore Anau, anche egli presente come deputato di Ferrara alla Costituente romana. In difesa della causa ebraica intervenne, sia pure sporadicamente, anche in altre occasioni, poiché mantenne sempre sentimenti religiosi e stretti vincoli con la comunità; nel 1858, ad esempio, quando uno degli ultimi episodi di conversione forzata al cristianesimo di un bambino ebreo fece esplodere a Bologna il "caso Mortara" e mise a rumore l'opinione pubblica di tutta Europa, il C. appoggiò presso gli ambienti governativi di Torino l'azione che suo padre andava svolgendo in varie parti d'Italia raccogliendo fondi e adesioni assieme all'altro suo figlio, Alessandro. Rientrato a Bologna dopo il soggiorno toscano, quest'ultimo divenne in seguito assessore comunale e all'opera del padre, prendendone infine il posto, come capo della corporazione israelitica, alla morte di lui, avvenuta a Bologna il 7 febbraio 1869.

I temi a cui il C. si dedicò nel periodo torinese sono invece altri, di carattere economico, riguardanti in particolare le implicazioni sociali del sistema finanziario, fiscale e creditizio. Sensibile al problema del finanziamento all'agricoltura anche per le sue personali esperienze di imprenditore ("da oltre otto lustri esercito la piccola e la grande cultura in varie provincie italiane, e vivo in mezzo ai campagnoli quale affittuale", così scriverà nel 1862), nel 1854 entrò in polemica con una memoria sul credito fondiario pubblicata dal conte Ruggiero Gabaleone di Salmour, influente deputato e banchiere intimo di Cavour, ed intese dimostrare in vari scritti corredati di una buona documentazione statistica (cfr. Del credito agrario e fondiario e delle casse di risparmio: lavoro e sussidi, Torino 1854; Del credito delle banche e delle casse di risparmio nei loro rapporti con la agricoltura, Torino 1857; La verità vera sulle banche di credito fondiario ed agricolo, Torino 1862) come sulla base della fondiaria gli istituti di credito compissero operazioni che, lungi dal recare un reale sollievo all'agricoltura, facevano affluire ingenti capitali nelle città sotto la protezione dello Stato. Si batté quindi perché dal credito fondiario si distinguesse quello agricolo, soprattutto a breve termine, ed a questo si vincolasse chiaramente l'attività degli istituti; all'indomani dell'Unità, membro di una commissione ministeriale presieduta dal conte di Salmour che esaminava una proposta francese per la fondazione di una banca privilegiata di credito agricolo a Torino, si oppose al progetto e contribuì a farlo respingere. Sempre a favore di un credito agricolo correttamente inteso si espresse più tardi collaborando alla stesura della legge sull'ordinamento del credito agrario del 1869.

Una esplicita preoccupazione sociale a sfondo conservatore ispirava queste sue prese di posizione. Consapevole che i processi economici dei suoi tempi erano portatori di radicali sommovimenti nei rapporti sociali - in particolare nelle campagne, che potevano diventare fertile terreno per la propaganda rivoluzionaria -, egli si convinceva che l'applicazione in Italia di un programma liberista in economia e liberale in politica avrebbe dovuto essere corretto da opportuni interventi regolatori che favorendo uno sviluppo economico equilibrato allontanassero i pericoli della "questione sociale". Ma ciò significava innanzi tutto dissociarsi dall'ottimismo liberista e liberale che pervadeva gli ambienti cavouriani; e forse anche per queste sue posizioni espresse con troppo anticipo rispetto alle successive revisioni del liberismo, e che per il momento non lo assegnavano ad alcun schieramento politico determinato, egli non godette delle simpatie di Cavour, il quale nel 1861 si espresse assai duramente nei suoi confronti (cfr. Carteggi di C. Cavour, V, Bologna 1961, p. 250), e non ebbe successo nella carriera politica che brevemente intraprese come deputato del II collegio di Ferrara nella VII legislatura (maggio '60-genn. '61).

A questo periodo appartengono alcuni interventi sulle grosse questioni politiche del momento, come l'assetto amministrativo del nuovo Stato e il problema finanziario. Un suo opuscolo, Del riordinamento amministrativo del Regno. Considerazioni (Bologna 1860), fu uno dei primi interventi nel dibattito sul decentramento aperto dalla nota inviata da Farini alla commissione che studiava i progetti di leggi amministrative. Alle aperture decentratrici del ministro il C. mosse le obiezioni che poi diverranno consuete a molta pubblicistica antiregionalistica: benché favorevole al principio dell'autoamministrazione, e quindi critico verso il decentramento burocratico accompagnato dall'estensione uniforme delle leggi sarde, egli si dichiarava contrario al decentramento soprattutto per l'immaturità della società italiana del tempo a recepirlo. Sempre convinto che l'unificazione e la concessione delle libertà politiche dovessero essere solo l'inizio della costruzione di un nuovo regime, commentò poi le gravi vicende finanziarie di quegli anni auspicando una chiara gestione del bilancio e un intervento deciso in materia di esproprio dei beni ecclesiastici e di legislazione bancaria, temi sui quali in un volume su La Spagna e l'Italia. Politica. Finanze. Beni delle Manomorte. Banche. Agricoltura (Torino 1865) portò ad esempio alcune riforme introdotte in Spagna.

Le pagine più originali della produzione del C. sono però quelle in cui vengono anticipati e confusi i diversi temi attraverso i quali, nel clima di "delusione" per l'assetto economico e sociale postunitario, verrà sviluppandosi la revisione del liberismo: una preoccupata sensibilità sociale, innanzi tutto, ispirata alla salvaguardia di equilibri tradizionali ma nella prospettiva di un moderno sviluppo capitalistico, per il quale la borghesia italiana e la sua classe politica si sono mostrate del tutto inadeguate; quindi la concezione di uno Stato che intervenga più attivamente nei processi sociali, se non addirittura l'invocazione di una "ragion di Stato" superiore ai dettami di un liberalismo formale; e infine, in questo quadro, l'istanza apertamente protezionistica.

Sono questi i motivi ispiratori delle indagini che il C. compì negli anni successivi, dapprima con un volume, Dell'emigrazione italiana all'estero, nei suoi rapporti coll'agricoltura, coll'industria e col commercio. Studi (Firenze 1871), al quale fu assegnato il premio Ravizza indetto dal liceo Beccaria di Milano, relatore C., Cantù, poi con una seconda opera, che nel '73 ricevette un premio del ministero della Pubblica Istruzione, assegnato, per la Società di economia politica, da una commissione formata da Minghetti, Scialoia, Messedaglia e Protonotari e che nel 1874 fu pubblicata in quattro volumi a Milano col titolo Delle colonie e dell'emigrazione d'Italiani all'estero sotto l'aspetto dell'industria, commercio ed agricoltura, e infine con una Statistica illustrata della emigrazione all'estero nel triennio 1874-76 edita a Roma nel 1878, che completa i dati fino al 1876, anno a partire dal quale si dispone di statistiche di fonte governativa. L'esigenza di documentare statisticamente i fenomeni sociali ed economici nasce infatti proprio in quegli anni, e per lo più a sostegno delle tesi "revisionistiche"; i dati del C., raccolti privatamente attraverso le prefetture e i consolati benché in seguito considerati lacunosi e malcerti, sono tuttavia la prima fonte di cui si disponga sul fenomeno migratorio.

Questa documentazione è però raccolta a sostegno di una precisa tesi politica (dalla quale i commissari governativi vollero infatti dissociarsi): fenomeno dalle profonde radici, ma insieme conseguenza di un indirizzo politico, l'emigrazion italiana mette in evidenza insieme al gravissimo pauperismo che scuote le campagne italiane anche la scarsa modernità della borghesia terriera e l'insuccesso del suo programma liberale. E tuttavia il fenomeno può avere aspetti positivi, purché sia regolato e organizzato dallo Stato: insieme con l'allentamento della pressione politica e sindacale in patria, con le rimesse degli emigranti e la nascita di nuove correnti commerciali, l'emigrazione può costituire l'occasione per dar vita a un esperimento coloniale italiano. L'argomento, a cui il C. dedica il terzo volume della sua opera sulle colonie, è trattato da un punto di vista particolare, a cui spingeva allora l'aumento della cosiddetta criminalità sociale, quello delle penitenziarie transoceaniche, che il C. decisamente, con argomenti che lo collocano tra "i più audaci precursori del nostro colonialismo" (Battaglia, p. 157).

Dalle argomentazioni di carattere politico, come l'istanza antisocialista, o quella di cementare lo Stato attorno a un progetto che egli sa superiore alle reali possibilità economiche del paese, il C. passa ad unavalutazione di quelle possibilità in relazione alle linee di politica economica fino ad allora seguite. Il quarto volume dell'opera è infatti interamente dedicato all'analisi della politica commerciale liberistica, considerata esiziale per le sorti del paese, e a una accesa difesa del protezionismo, visto non solo con specifico riferimento alle necessità di singoli rami produttivi - e di quello siderurgico in particolare -, ma anche come principio generale, informatore della vita di ogni moderno consorzio civile.

Il C. arriva così a dare veste compiuta all'ideologia protezionistica. Se nell'aprile del '76 lo troviamo accanto a P. Boselli - esponente della Destra che si avvia a diventare sostenitore degli interessi cantieristici e armatoriali - a difendere i progetti governativi di statizzazione delle ferrovie contro i liberisti della Società Adamo Smith, con l'avvento al potere della Sinistra egli sposa decisamente la causa del protezionismo sostenendone le ragioni e l'intero ventaglio di proposte dalle colonne del Popoloromano. Ma tali posizioni, che ancora nessun gruppo politico fa interamente proprie, non tardano a tradursi in una critica radicale dell'intera classe dirigente liberale.

Sintesi di questa critica è un volume, L'Italia vivente. Studi sociali (Milano 1878), anch'esso compilato sulla base di questionari inviati ai prefetti, ma questa volta sulle "classi alte", cioè l'aristocrazia, distinta in "nobiliare" e "del denaro e degli uomini d'affari", la "borghesia alta e media", il "clero alto e basso" e la burocrazia. Nel quadro offerto dal C., alle masse sociali poverissime si contrappone una "aristocrazia del denaro", vero "flagello d'Italia", le cui attività speculative l'autore non esita a identificare con la peggiore usura; ad essa si affianca poi un ceto medio corrotto, privo di alte energie, tutto dedito alla caccia all'impiego e alla corsa al denaro facile. I fenomeni propri dell'età capitalistica, che pure si presentano nell'Italia postunitaria - come l'urbanizzazione, la concentrazione del capitale anonimo o la espansione dei ceti medi burocratici - non significano qui la crescita di forze produttive di tipo moderno, di quelle solide classi medie che altrove costituiscono "la vita, il vigore ed il nerbo delle nazioni"; le loro iniziative sono state schiacciate dall'applicazione dogmatica dei principi della libertà economica, legittimazione dottrinaria delle prepotenze dei forti.

Frutto del vasto ripensamento sulle attitudini capitalistiche della borghesia italiana che fu proprio degli ambienti filoindustriali, il volume del C. ne coglie con vigore alcuni limiti destinati a rimanere e a pesare anche sul successivo sviluppo del paese. Per questo l'opera gli sopravvisse, occasionalmente citata anche da autori posteriori, come B. Croce o R. Giolli. Con essa tuttavia il C., ormai anziano, doveva chiudere la sua originale opera di pubblicista. Da tempo collaboratore di vari giornali, tra i quali Il Sole, La Gazzetta piemontese, Il Secolo e con più frequenza Il Popolo romano, egli continuò la sua attività di scrittore soprattutto per far fronte alle non buone condizioni economiche. Anche per questo si dedicò dopo il 1880 alla redazione di un'opera a dispense, comparsa in quattro volumi tra il 1884 e il 1888a Milano col titolo Il Risorgimento Italiano. Biografie storico-politiche d'illustri italiani contemporanei, nella quale il progetto di alleviare il grigiore dei tempi presenti col ricordo delle glorie patrie lo induceva a toni celebrativi di scarso rigore documentario. Ricca tuttavia di voci, l'opera raccoglie anche scritti di collaboratori illustri, da A. Mario (per C. Cattaneo)a A. Loria (G.Arrivabene), da A. Saffi (G.Mazzini)a L. Luzzatti (M. Minghetti).

Il C. morì a Roma, dove da tempo si era stabilito, il 19 genn. 1898.