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Giacinto Carini (Palermo, 20 maggio 1821 – Roma, 16 gennaio 1880) è stato un politico italiano. Partecipò alla rivoluzione indipendentista siciliana del 1848, fu garibaldino e deputato al Parlamento.
Biografia
Nel 1848, non ancora ventisettenne, partecipò alla rivoluzione per l'indipendenza siciliana scoppiata il 12 gennaio: il Carini fu tra i componenti del Primo comitato. Venne nominato colonnello da Ruggero Settimo (capo del governo che si venne ad istituire provvisoriamente), che gli affidò il comando del I reggimento di cavalleria: il compito di Giacinto Carini era quello di ristabilire l'ordine a Burgio, nel circondario di Bivona (provincia di Girgenti), paese in preda ai tumulti e agli eccessi. Quando venne restaurato il regime borbonico, trovò rifugio a Parigi, città in cui visse fino al 1860.
In seguito, spinto dalla voglia di liberare la Sicilia dal dominio dei Borboni, si aggregò insieme ai Mille guidati da Giuseppe Garibaldi: salpò con essi da Quarto e combatté valorosamente nelle battaglie di Calatafimi e di Palermo. Il 29 maggio 1860 venne ferito a Porta di Termini, come viene ricordato da una lapide murata sulla fiancata del muraglione dove un tempo era fissata la porta.
Dopo l'unità d'Italia, entrò nell'esercito regolare italiano, dove raggiunse il grado di generale. Fu eletto deputato al Parlamento per cinque legislature (dall'ottava alla tredicesima), rappresentando il collegio elettorale di Bivona.
Morì a Roma il 16 gennaio 1880: venne seppellito nella sua città natale, Palermo, nella chiesa di San Domenico.
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DBI
di Francesco Brancato
Nato a Palermo il 20 maggio 1821 da Giacinto e da Marianna Anania,
in una famiglia di fedeli funzionari borbonici, aveva perso il
padre, direttore delle Finanze in Sicilia, quando aveva appena
undici anni, ereditando un cospicuo patrimonio che continuò
poi ad amministrare con grande cura. Di spirito intraprendente e
amante della libertà, preferì, in un secondo tempo,
darsi al commercio, agevolato dal patrimonio paterno da lui
incrementato; e pare abbia avuto anche molto successo, se
riuscì a impiantare una vera e propria industria agraria con
moderni macchinari a vapore per la mondatura del sommacco, che per
primo avrebbe introdotto nell'isola. Ciò valse ad
acquistargli anche popolarità.
Non risulta che abbia conseguito titoli accademici; dal complesso
però della sua attività si può arguire che
dovesse avere seguito i normali corsi superiori, quali appunto si
addicevano a chi apparteneva al suo ceto. Formatosi spiritualmente
alla epoca del maggiore risentimento antiborbonico per la dura
repressione seguita ai moti separatisti del 1837, avvertì
anche egli l'esigenza, per l'attività stessa che svolgeva, di
riforme in senso liberale. Le sue maggiori amicizie furono pertanto
quelle di uomini di tendenze liberali, come M. Stabile, M. Bertolami
e, particolarmente, S. Vigo, dal quale soprattutto, essendo
impiegato presso gli uffici del ministero per l'Interno a Napoli,
ebbe consigli per le sue iniziative economiche e qualche volta anche
favori.
Nel '48 fu tra gli insorti. Cominciate le polemiche circa le
modalità da tenere per la convocazione del Parlamento,
espresse anch'egli il suo parere, sostenendo in un opuscolo a
stampa, secondo le idee già manifestate da M. Amari nel noto
Catechismo siciliano, che venisse ripristinata, la costituzione del
1812 con quelle modificazioni che erano però
indispensabilmente richieste dai nuovi tempi. Nominato colonnello di
cavalleria dell'esercito rivoluzionario per il suo moderatismo ebbe
l'incarico di intervenire in quei comuni in cui erano avvenuti
tumulti, per reprimerli, occorrendo, anche con la forza.
Resta famosa la spedizione C. condotta con due squadroni di
cavalleria, con pezzi da montagna e 600 uomini contro Burgio
nell'Agrigentino, ai primi di aprile, dove la sollevazione popolare
aveva dato luogo a qualche incidente. Affrontò in un vero e
proprio combattimento i rivoltosi nel Piano di Santa Maria, dove
eseguì anche fucilazioni, dopo un giudizio sommario di un
improvvisato consiglio di guerra.Nell'ultima fase, declinante, della
rivoluzione, protestò fortemente contro le calunnie rivolte
contro il governo e i ministri, accusati di aver tradito la "causa
siciliana" (cfr. L'Indipendenza e la Lega, Palermo 18 agosto 1848).
Stroncata la rivoluzione, egli riparò a Parigi, dove
riuscì a riprendere in nuova forma l'attività
commerciale a lui congeniale. In conseguenza delle nuove esperienze
e dei nuovi contatti con esuli anche di altre regioni, venne intanto
modificando le sue idee politiche, con spiccata tendenza
all'unitarismo di stampo mazziniano. Con altri protestò
quindi contro l'imposta ritrattazione in Sicilia dell'atto di
decadenza della monarchia borbonica del 13 apr. 1848,
partecipò alla celebrazione, promossa da R. Pilo,
dell'anniversario del 12 gennaio, e firmò una pubblica
protesta contro il decreto del re di Napoli del 15 dic. 1849 con cui
era stato imposto all'isola un debito pubblico di 20 milioni di
ducati annullando con grave danno dei Siciliani il debito contratto
nel '48 dal governo rivoluzionario.
Nel '54 aprì a Parigi un "Office de commission
Franco-Italien", una specie di agenzia per la importazione e
propaganda in Francia dei prodotti agricoli e industriali, e dal
novembre dello stesso anno lo affiancò anche con un periodico
settimanale, la Revue Franco-italienne, con il significativo
sottotitolo Sciences - Industrie - Commerce - Litterature -
Beaux-Arts - Théâtres, chiamando a collaborarvi
scrittori francesi e italiani (v. collezione completa presso la
Bibl. com. di Palermo).
Con tale "Office" e con tale periodico il C., oltre che un organo di
informazione internazionale e interdisciplinare, creò un
punto d'incontro per tutti gli esuli italiani, non senza
intendimenti politici, richiamandoli continuamente a ciò che
più poteva interessare l'Italia. Ebbe modo così di
allacciare relazioni con numerosi patrioti, fra cui G. Ricciardi, P.
Maestri, A. Vannucci, G. La Farina, come pure con numerosi liberali
francesi, fra cui, in prima linea, il Michelet e V. Hugo.
Riuscì in tal modo a creare anche un notevole corpo di
collaboratori per la sua Revue.Meraviglia la perfetta organizzazione
e la vasta rete d'informazioni di cui disponeva fin dai primi
numeri, e la varietà stessa dei problemi di cui si
occupò, dai ricordi storici all'esame critico di opere
letterarie (vi si esamina, per esempio, la Divina Commedia nel
giudizio della critica francese del '700 e dell'800, l'opera del
Foscolo, ecc.) a questioni economiche e di scienza. Ebbe pure
corrispondenti in Italia, e pubblicò perciò anche
notizie di quanto avveniva nella penisola, e recensioni di libri.
Mentre la pubblicazione del periodico coincideva con la svolta e gli
indirizzi della nuova politica del Cavour, anche il C., se pure
aveva avuto qualche propensione repubblicana, si convertiva, come
altri esuli, in una prospettiva di più realistica
possibilità di soluzione unitaria, alla monarchia. Dopo il
convegno di Plombières, per il favore che venne acquistandosi
anche dal governo napoleonico, modificò il titolo al
periodico in Courrier Franco-italien, avendo cominciato a
interessarsi indirettamente di politica in appoggio all'azione della
Francia nei confronti dell'Italia. Ebbe infine esplicita
autorizzazione dallo stesso Napoleone III a trattare di politica e a
fare uscire il Courrier quotidianamente (vedi del giornale il numero
del 14 apr. 1859; coll. completa presso la Bibl. Nat. di Parigi).
Questo però cessava col foglio del 5 maggio, dove veniva
riportato il proclama con cui Napoleone due giorni prima aveva
annunziato al popolo francese la guerra contro l'Austria a fianco
del Piemonte. Il C., piantando improvvisamente l'"Office" e il
Courrier, corse ad arruolarsi nei Cacciatori delle Alpi di
Garibaldi. Partecipò quindi l'anno successivo all'impresa dei
Mille e, dopo la battaglia di Calatafimi, fu da Garibaldi posto al
comando di una delle due legioni in cui venne ordinato l'esercito
per l'occupazione di Palermo. Ma il 30 maggio a porta Termini fu
gravemente ferito da una pallottola al braccio sinistro, rimanendo
immobilizzato per tutta la campagna di liberazione. Passato poi ai
servizi sedentari, fu nominato da Garibaldi ispettore generale della
cavalleria. Fu contro l'annessione incondizionata, e scrisse in
proposito una lunga lettera al Cavour per mostrargli la
necessità di un'amministrazione particolare per la Sicilia.
Fece quindi parte del Consiglio straordinario di Stato chiamato a
studiare e proporre gli "ordini" e le "istituzioni" maggiormente
convenienti all'isola in conciliazione con gli interessi generali
dell'Italia. Dopo l'annessione fu nel primo Consiglio di
luogotenenza e comandante della guardia nazionale di Palermo.
Integrato il 10 apr. 1862 con il grado di generale nell'esercito
nazionale, fu nella guerra per la liberazione del Veneto al comando
della brigata Regina, distinguendosi per la sua sagacia nell'assedio
di Borgoforte, sicché ne ebbe una medaglia al valore
militare. Promosso nel 1871 luogotenente generale, comandò
dal 1871 al 1877 la divisione di Perugia. Fu inoltre deputato al
Parlamento quale rappresentante, di volta in volta, di Palermo, di
Piacenza, di Sant'Arcangelo di Romagna e di Iesi nell'VIII, X, XI e
XIII legislatura.
Trascorse gli ultimi anni in grande amarezza e malinconia, sia per
essersi vista riaccendere in modo inguaribile la ferita riportata a
Palermo al tempo dei Mille, sia perché scontento dell'andazzo
politico e deluso per non avere visto realizzata l'unità nei
modi da lui sperati, sia infine per essere stato anzitempo dal
ministro della Guerra, L. Mezzacapo, che, con G. Pepe, aveva
abbandonato l'esercito borbonico nel 1848, agli inizi del 1878 messo
in disponibilità, vedendo così, a suo parere,
misconosciuti i suoi meriti acquistati con quanto aveva sofferto per
l'unificazione.
Ritenne anzi questo provvedimento un affronto diretto alla sua
persona, e tanto più grave in quanto, comportando esso una
forte riduzione dello stipendio, lo avrebbe messo anche in grandi
difficoltà economiche, mentre, per le condizioni della sua
salute, maggiormente avrebbe avuto bisogno di aiuto.
Del provvedimento nei suoi riguardi attribuì la
responsabilità alla Sinistra salita al potere, e alla pleiade
di "eroi borboni" "famosi guerrieri" che non avevano saputo neppure
difendere il loro re, ora chiamati a prendere "i primi posti". E
riteneva la sua rimozione dal servizio attivo una "vendetta" del
Mezzacapo per il suo "doppio titolo di Siciliano e di Garibaldino".
Ma ne vedeva l'origine nella sua amicizia, mal tollerata dal
governo, con il cardinale Pecci, salito poi al pontificato con il
nome di Leone XIII.
Morì a Roma il 16 genn. 1880.