BUONARROTI Filippo
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Uomo politico rivoluzionario (Pisa 1761 - Parigi 1837); esule
volontario in Corsica poco dopo lo scoppio della Rivoluzione francese,
cittadino francese dal 1793, dopo essere stato agente nazionale a
Oneglia (1794) e aver subito una breve prigionia, si legò nel 1795 con
F.-N. Babeuf, della cui cospirazione fu uno dei capi. Condannato per
questo alla deportazione e vissuto dal 1806 a Ginevra (con una breve
parentesi a Grenoble nel 1814), poi a Bruxelles (1824-30), restò fedele
all'idea egualitario-comunista della gioventù (Conspiration pour
l'Égalité dite de Babeuf, 1828), e divenne l'occulto artefice d'una
vasta organizzazione settaria (Adelfi, Sublimi Maestri Perfetti,
Mondo), che - dietro lo schermo della massoneria e della carboneria -
tese a realizzare una rivoluzione europea a carattere repubblicano e
con presupposti comunisteggianti. Rientrò in Francia dopo la
rivoluzione del 1830; l'azione politica del B. cessò solo con la sua
morte.
*
DBI
di Armando Saitta
Primogenito di Leonardo, tenente del reggimento dei dragoni di stanza a
Pisa, e della nobile senese Giulia Bizzarini, nacque a Pisa l'11 nov.
1761 (certificato di battesimo in G. Romano Catania, F. B., p. 1).
La famiglia apparteneva a un ramo collaterale dei Buonarroti, quello
dei Buonarroti-Simoni, già illustrato dall'etruscologo senatore Filippo
e poi ascritta, in virtù della legge 1º ott. 1750, al patriziato
fiorentino (all'espletamento della pratica relativa risale l'albero
genealogico esistente in Arch. di Stato di Firenze, Processi di
Nobiltà, filza V e pubblicato da M. A. Morelli in Critica storica, IV
[1965], p. 521). Il patrimonio di Leonardo Buonarroti consisteva in non
grossi appezzamenti fondiari e in varie case nel quartiere fiorentino
di S. Croce (negli anni 1733-36iscritto a decima per fiorini 33.17.3).
Nel 1774 troviamo il B. (ignoriamo l'anno del trasferimento della
famiglia da Pisa a Firenze) allievo presso la scuola della celebre
badia fiorentina dei benedettini cassinesi, e in particolare scolaro di
Bernardo de Rossi. L'affermazione risalente a uno dei primi biografi,
U. Trélat, essere stato egli educato "in un collegio dei Gesuiti" non
ha trovato sino ad oggi conferma; comunque, sia avvenuta la prima
educazione presso i gesuiti o altrove, il giudizio del B. adulto su di
essa sarà totalmente negativo ("Je fus superstitieux et mal élevé
jusqu'à l'âge de douze ans"), laddove un buon ricordo dovette egli
conservare della badia fiorentina se ancora nel 1794 era in
corrispondenza con Bernardo de Rossi.
Il padre fu assai premuroso procacciante di favori granducali per il
figlio: paggio d'onore del granduca Pietro Leopoldo dal luglio 1773,
dispensato dal servizio nel 1775 mantenendo però i relativi assegni per
i successivi quattro anni, dopo un primo tentativo non riuscito a
cagione dell'età (1775) ottenne il 12 nov. 1778 di vestire l'abito di
cavaliere di S. Stefano e di entrare nella carovana di Pisa per
compiervi i prescritti quattro anni necessari a "conseguire
l'anzianità". Sarà dichiarato "anziano" il 23 nov. 1782. Ma a Pisa egli
non fu certo un modello di studiosa serietà e offrì materia di vive
preoccupazioni al cav. Albizzi e ai successivi rettori della carovana
Angelo Pasquali e Angelo Fabbroni (questo secondo però, pur deplorando
la vita dissipata del B., "un non so che di romanzesco" nel suo
temperamento e la mancanza di metodo, parlava di "raro talento" e lo
trovava "franco nella lingua francese, poco men che maestro nella
musica, e sufficientemente versato nella filosofia"). Dopo alcuni
amoretti (con la gentildonna Inghirami, tra l'altro), il 1º luglio 1780
fuggì a Marsiglia, ove la mancanza di mezzi lo costrinse ad arruolarsi
nel reggimento "Royal-Italien" e successivamente a invocare il perdono
paterno. Ottenuto il disingaggio dal reggimento francese grazie a una
forte somma pagata dallo stesso granduca e rimpatriato sulla tartana
del capitano Passani (12 ag. 1780), fu accolto a Pisa dalla famiglia
ivi trasferitasi per non lasciarlo più solo; ma seguì un nuovo periodo
di contrasti familiari e di colpi di testa, provocato dal fidanzamento
con la contessina Elisabetta Conti, dimorante a Pisa e figlia del
console toscano a Genova. Tale fidanzamento fu sulle prime visto di
buon occhio dai genitori del B.; successivamente, per ragioni che ci
sfuggono, violentemente avversato e la Segreteria di stato divenne il
bersaglio degli infuocati memoriali dell'una e dell'altra parte
(un'udienza concessa da Pietro Leopoldo finì con l'ordine per il B. di
recarsi a Siena). Infine il matrimonio fu celebrato lo stesso giorno
della laurea del B., l'8 giugno 1782 (certificato di matrimonio in
Arch. di Stato di Firenze, Processi diNobiltà, filza V); da tali nozze
nasceranno quattro figlie (Giovanna, Carolina, la poetessa Faustina e
Antonia) e un figlio, Cosimo, nato a Bastia il 5 nov. 1790 e futuro
ministro di Leopoldo II.
Gli studi di diritto si erano conclusi grazie a un permesso granducale,
che sanava alcune manchevolezze della carriera scolastica. Com'è noto,
egli ebbe a maestri Giovanni Maria Lampredi, professore di diritto
canonico e di diritto pubblico, e Cristoforo Sarti, professore di
istituzioni dialettiche e di metafisica. Per il Lampredi però la
notizia va forse ridimensionata, i documenti attestano che il B.
frequentò il corso di diritto pubblico solo nel primo anno di carovana;
nel biennio 1780-82egli lavorò soprattutto con Leopoldo Andrea
Guadagni, professore ordinario di pandette, e con Migliorotto Maccioni
"professore d'ordinaria civile, coll'obbligo di leggere le rubriche
straordinarie solamente". Ma se resta dubbio il reale effetto
dell'insegnamento del Lampredi, che agli studiosi si presenta su una
posizione conservatrice che non quadra molto con quanto ne disse il B.
ormai vecchio, una dichiarazione del Fabbroni nel resoconto annuale
della carovana del 30 giugno 1782 non lascia alcun dubbio per il Sarti:
parlando del B., egli vi scrive: "Sotto la direzione del professore di
metafisica Sarti ha fatto una dissertazione sull'esistenza di Dio, che
voleva stampare, e che con miglior consiglio ha poi tenuta occulta,
perché avrebbe fatto poco onore al maestro e allo scolaro".
Conseguita la laurea, si iscrisse come praticante presso l'avv. Bruni
in Pisa; ma poco dopo, sebbene su sua richiesta la Segreteria
granducale avesse obbligato il padre a passargli un assegno di 200
scudi l'anno, si trasferì in Firenze nella speranza di trovare più
facilmente i mezzi di sostentamento. Li cercò dapprima nel commercio
dei libri, importando dalla Francia non poche opere illuministiche e
libertine; ma una perquisizione della polizia pose fine a tale attività
nel novembre 1786 (il catalogo di tali libri trovasi a cura di M. A.
Morelli in Critica storica, III [1964], pp. 470 s.). Dopo tale
infortunio, si rivolse al giornalismo e diede vita al Journal politique
(autorizzazione granducale concessa in data 26 dic. 1786 purché si
trattasse "di pura gazzetta che rapporti le nuove, e nulla più"). Di
questo giornale solo di recente sono stati rinvenuti il prospetto e il
n. 47 in data 23 nov. 1787 (in Critica storica, VI [1967]). Il Journal
politique dovette cessare le pubblicazioni attorno all'aprile-maggio
1788, se proprio in questo periodo il B. prese a collaborare alla
Gazzetta universale che a Firenze pubblicava l'ab. Vincenzo Piombi. Se
l'episodio del commercio librario da solo non era sufficiente a
caratterizzare politicamente il B., tutt'altra luce proietta la sua
collaborazione giornalistica (il console olandese a Firenze lo denunziò
per offese allo statolder Gugliemo V inserite sulla Gazzetta
universale) e comunque non c'è dubbio che al 1787 risale il suo primo
ingresso diretto nel mondo delle società segrete con la sua adesione
alla massoneria. Comunque il bisogno economico e fors'anche l'esigenza
di realizzare le proprie idee lo spinsero nella primavera del 1789 a
chiedere di essere nominato aiuto dell'auditore Michele Ciani
incaricato di sovrintendere alla compilazione del codice toscano; non
riuscì nell'intento ma alla sua supplica restò allegato un memoriale
che ci illumina sullo sviluppo del suo pensiero: egli vi esprime con
chiarezza l'esigenza di un frazionamento della grande proprietà
terriera, anche se resta dubbio se il contesto programmatico
riformatore e fisiocratico entro il quale esso si esprime sia dovuto a
motivi di prudenza o non piuttosto a un ancora non realizzato
raggiungimento di esiti democratici e rousseauiani.
Tali esiti, comunque, non tardarono a giungere con lo scoppio della
Rivoluzione francese. Nell'ottobre 1789 lasciò di sua piena volontà la
Toscana, trasferendosi in Corsica, a Bastia, ove sarà poi raggiunto
dalla moglie. Quivi ebbe calda accoglienza nell'ambiente
rivoluzionario, ritrovando anche alcuni condiscepoli dell'università
pisana, come Saliceti; fredda invece nel più largo ambiente isolano,
poiché la sua propaganda apertamente anticlericale feriva il comune
sentimento. Personaggio influente nella locale Società patriottica,
incaricato della direzione degli affari ecclesiastici e dei beni
nazionali da parte del Direttorio del dipartimento, esplicò la sua più
importante azione mercé la stampa, pubblicando a partire dal 3 apr.
1790 il settimanale Giornale patriottico della Corsica (se ne conoscono
32 numeri, sino al 27 nov. 1790; è notizia inesatta invece che il B.
abbia dato vita nello stesso tempo a un secondo giornale intitolato
L'Amico della libertà italiana). Il giornale svolse una politica
favorevole a Pasquale Paoli, allorché questi ritornò in patria con
l'aureola di "eroe della libertà" (il B. l'accolse a Bastia il 17
luglio con un discorso che fu ampiamente diffuso); ma proprio sul
problema ecclesiastico è avvertibile una prima incrinatura con parte
dell'opinione pubblica corsa e infatti l'introduzione nell'isola della
costituzione civile del clero, provocando la sommossa degli abitanti di
Bastia contro il nuovo vescovo costituzionale e il Direttorio del
dipartimento, fece correre un grosso pericolo al B.: il 2 giugno 1791
la folla riunita nella chiesa di S. Giovanni Battista decise di
espellerlo dalla città, sotto l'accusa di spargere "delle massime
contrarie alla Religione e tendenti ad inspirare del disprezzo contro i
ministri degli altari", e l'indomani lo costrinse a forza a imbarcarsi
su un piccolo legno. Sbarcato a Livorno e rinchiuso nella segreta del
Pretorio, il B. costituiva un caso complicato per le autorità
granducali: sei mesi prima il Consiglio di reggenza per Ferdinando III,
ancora assente, gli aveva ingiunto di non rimettere piede sul suolo
toscano, pena l'arresto, se prima non si fosse giustificato degli
scritti e delle azioni rivoluzionarie; d'altra parte il suo sbarco a
Livorno non era dipeso dalla sua volontà e il ministro francese a
Firenze sollecitava un pronto rilascio. E così le autorità granducali,
il cui imbarazzo si era accresciuto a motivo dell'invio di una supplica
dell'interessato al granduca per ritrattare "formalmente e
solennemente" i suoi trascorsi e chiedere di restare "in Toscana per
godervi pacificamente di tutti i diritti di cittadino", furono ben
liete il 12 giugno di liberarlo. Due giorni prima erano rientrati dalla
Corsica la moglie e i figli; tuttavia il B., che pur aveva avuto il
permesso di restare in Toscana e si era trasferito a Firenze, non esitò
ad accogliere l'invito del Direttorio dipartimentale corso, di stanza
ormai a Corte, che egli raggiunse nel luglio. Accolto con onore,
indennizzato per le perdite subite e reintegrato nell'ufficio, fu
ammesso all'unanimità nella Società degli amici della costituzione.
L'opera del B. da Corte fu essenzialmente di propaganda rivoluzionaria,
di attività pubblicistica (fu personalmente interessato alla stamperia
ivi aperta dal lucchese Antonio Riccomini) e di diffusione
dell'insegnamento e della cultura democratica; pur non potendosene dare
i particolari, si può asserire che tale attività si estendeva anche
all'Italia. E certamente a scopi politici ubbidì il suo secondo viaggio
in Toscana (aprile 1792), sotto il pretesto di riprendere la famiglia.
Sbarcato il 12 aprile a Livorno, si trasferì subito a Pisa, ove prese a
diffondere stampati rivoluzionari e a "reclutare dei giovani per
condurli in Corsica". Sottoposto a perquisizione per ordini venuti da
Firenze, ove intanto erano state sequestrate lettere da lui inviate a
persone sospette come l'ab. Vincenzo Piombi, si sottrasse all'arresto
con uno stratagemma e si rifugiò con la moglie e una delle figlie prima
a Sarzana e poi a Genova. Pochi giorni dopo però fu sfrattato da Genova
e, mentre la moglie con la bambina ritornava in Toscana (da questo
momento cessò ogni contatto di Filippo con la propria famiglia), egli,
che nel maggio veniva colpito da formale bando di sfratto da tutto il
territorio della Toscana, fece ritorno in Corsica.
Con l'agosto 1792 nell'isola incominciò a profilarsi sempre più chiara
la rottura tra il gruppo dei seguaci di Paoli e quello dei democratici,
con i quali (Saliceti, Giuseppe e Napoleone Bonaparte) il B. strinse
rapporti sempre più amichevoli. Avvenuta l'elezione dei sei deputati
della Corsica alla Convenzione (è errata la notizia che colloca a tale
momento il primo viaggio del B. a Parigi con l'amico Saliceti), fu
nominato commissario presso il tribunale del distretto di Corte;
insegnò inoltre in quel locale liceo diritto pubblico e diede buona
parte della propria attività alla "Société des Amis du Peuple". Nella
spedizione navale contro la Sardegna, il B. fu aggregato alla stessa
quale "apostolo della libertà", ossia con il compito di svolgere per
conto della Società degli amici del popolo una missione tipicamente
rousseauiana tesa a "predicare al buon popolo di Sardegna la dottrina
della libertà e della felicità". Della spedizione fece parte anche
Napoleone Bonaparte, legato allora da stretti vincoli di amicizia con
il B.; essa, com'è noto, fallì nell'impresa su Cagliari (23-25 genn.
1793), ma riuscì nella conquista dell'isoletta di San Pietro (8 genn.),
ribattezzata in Isola della Libertà e dallo stesso B. dotata di una
costituzione ispirata ai principî del più puro Rousseau. Questa
costituzione fu esposta in uno scritto intitolato Code de la nature
(segnalato nel 1950 da A. Saitta, non è stato ancora ritrovato).
Partito per Parigi, onde presentare alla Convenzione il voto degli
abitanti dell'Isola della Libertà di essere riuniti alla Francia, nella
seduta del 29 aprile perorò la propria richiesta di ottenere la
cittadinanza francese, che gli fu accordata il 27 maggio. A questo suo
primo viaggio a Parigi risale la conoscenza diretta che il B. fece di
Robespierre e dei suoi amici, come Lebas e Duplay. In questi due mesi
(aprile-maggio 1793) si produsse anche il divorzio tra Paoli e la
Francia rivoluzionaria: il B., che già dopo la non felice conclusione
della spedizione di Sardegna aveva attaccato Paoli nei clubs, diede
alle stampe a Parigi una virulenta denunzia dal titolo Les grandes
trahisons de Pascal Paoli ed ottenne (7 giugno 1793) dal Consiglio
esecutivo provvisorio la nomina a commissario civile in Corsica. Ma,
giunto a Lione, nel frattempo divenuta teatro della rivolta
federalista, fu imprigionato. Riacquistata la libertà dopo diciassette
giorni, fu costretto a proseguire il viaggio attraverso gli impervi
sentieri delle montagne dei dipartimenti delle Alte e Basse Alpi; ma a
Nizza fu raggiunto dalla disposizione del Comitato di salute pubblica
che annullava tutte le missioni già ordinate dal Consiglio esecutivo
provvisorio. Rinviato a Parigi dai rappresentanti in missione Ricord e
A. Robespierre, fu confermato nella precedente missione dal Comitato di
salute pubblica (ottobre o novembre 1793); tuttavia nemmeno questa
volta poté raggiungere la Corsica e i rappresentanti Saliceti e A.
Robespierre, per l'impossibilità di superare il blocco navale inglese,
ne modificarono la missione destinandolo alle zone liguri (Oneglia,
ecc.) occupate dalle truppe francesi.
Il B. non doveva rivedere mai più la Corsica: del suo amore per l'isola
restavano ormai, estreme testimonianze, numerosi memoriali redatti per
patrocinare questa o quella riforma (e qualcuno di essi a stampa, come
il Tableau du Département de la Corse, Paris 1793) e, soprattutto,
l'opuscolo La conjuration de Corse entièrement dévoilée, rifacimento
del precedente sui tradimenti del Paoli, pubblicato sulla fine
dell'anno a Parigi.
Questo scritto, violento contro Paoli e i suoi seguaci e da costoro
ripagato di ugual moneta (il B. dovette trascinare in tribunale il
deputato Antonio Costantini e il comandante Ferrandi che furono
condannati per diffamazione), segna - al di là delle precise
contingenze del momento - una svolta nel pensiero del B.: la sua azione
politica è definitivamente guadagnata al robespierrismo, la valutazione
politica comincia a disporsi entro un giudizio di passione morale di
tipo giacobino-montagnardo, si profila infine un vasto programma di
rivendicazioni sociali, non ancora comuniste ma estremamente
egualitarie.
Nominato commissario nazionale con il compito di esercitare
"provvisoriamente l'autorità amministrativa di polizia e di sicurezza
generale nel territorio di Oneglia, Loano e parti conquistate al di qua
di Mentone" (decreti dei rappresentanti Saliceti e A. Robespietre del 9
e del 22 apr. 1794), il B. si preoccupò subito di dare un ordinamento
amministrativo al paese. Diede particolari cure all'istruzione e
all'educazione degli abitanti, provvedendo a delle pubblicazioni presso
la tipografia Montanara di Straforello e C. di Fort Hercule (Monaco) e
istituendo un apposito Comitato d'istruzione per "far conoscere ai
popoli la saggezza e la bontà del popolo francese" (decreto del 4
giugno 1794), e applicò tutta la legislazione di guerra e di vincolismo
economico che la Convenzione da Parigi andava ordinando (requisizione
della fabbrica di panni esistente ad Ormea, applicazione del maximum
dei prezzi e dei salari in maniera tale da non rovinare le risorse del
paese consistenti nella produzione di olio e sapone e nel commercio di
transito con il Piemonte, lotta contro i falsi assegnati
particolarmente numerosi nella zona data la vicinanza di Genova, ove
essi giungevano dall'Inghilterra). La politica svolta ad Oneglia dal B.
va ricordata anche per un altro aspetto, e non certo il meno
importante: l'aspetto italiano; il B. infatti al rivoluzionamento
dell'umanità sentito in termini rousseauiano-robespierristici univa
sentimenti e idee che gli assegnano già negli anni di Oneglia un posto
cospicuo nella storia del Risorgimento italiano. Per sua cura la
vallata di Oneglia divenne un centro di raccolta di profughi politici
italiani, che egli utilizzò nell'amministrazione locale insieme con non
pochi Corsi, con i quali era stato precedentemente in rapporto; e non è
da escludere che sposata prima ad un corso, tal Badi, anch'esso
utilizzato ad Oneglia, fosse Teresa Poggi, con la quale il B.,
approfittando della nuova legislazione matrimoniale francese, si unì in
matrimonio, rompendo così ogni legame con Elisabetta Conti. Con questi
profughi Oneglia diventa un primo crogiuolo del sentimento unitario
quale si manifesterà con estrema chiarezza da parte del B. nel 1795-96.
Comunque, l'azione del B. a Oneglia, avallata dai rappresentanti
montagnardi in missione come Saliceti, Ricord e A. Robespierre, si
svolse costantemente su una piattaforma robespierrista-terrorista: il
discorso pronunziato il 20 pratile dell'anno II (8 giugno 1794) per la
festa dell'Essere Supremo non fu semplice esecuzione di un decreto
della Convenzione bensì convinta adesione al credo robespierrista
(edito in opuscolo bilingue dalla tipografia Montanara, èstato
ripubblicato in A. Saitta, F. B., I, pp. 252-257) e fu sempre posto in
massimo risalto il nesso terrorista tra guerra esterna e violenza
rivoluzionaria interna; il B. partecipò anche a fatti d'arme, come
l'espugnazione del Colle Ardente, e alla repressione dell'insurrezione
in massa dei contadini delle province di Acqui, Alba e Mondovì (primi
del luglio 1794). Il 9 termidoro (27 luglio) non segnò subito la fine
del governo del B., i cui poteri non furono diminuiti dalla
duplicazione della carica di agente nazionale generale in favore del
corso Pompei; ancora per sette mesi egli rimase a capo della vita
civile e amministrativa di Oneglia e il meglio della sua attività in
favore della propaganda rivoluzionaria e dell'organizzazione scolastica
fu realizzato durante la reazione termidoriana, pur entro il contesto
di una situazione radicalmente modificata. Con una circolare del 14
ott. 1794 iniziò la propaganda per la unione del paese alla Francia; il
primo atto concreto di essa fu la riunione dell'assemblea degli
elettori del distretto di Stellanello, che non senza contrasti votò
l'annessione nel febbraio 1795. Prima che si tenessero altre assemblee,
però, la sorte del B. a Oneglia fu decisa: impegnato a fondo nella
lotta antifeudale contro il marchese Del Carretto, cittadino genovese,
per il feudo di Balestrino e con altra potente famiglia per la contea
di Lingueglia, provocò con il sequestro di questi feudi le vibrate
proteste di Genova e l'incidente diplomatico fornì a sua volta ai
termidoriani di Parigi il pretesto per liberarsi di lui. Il B. aveva
già inviato il 6 dic. 1794 le proprie dimissioni chiedendo d'imbarcarsi
nella spedizione navale che si preparava per riconquistare la Corsica;
mentre un decreto del Comitato di salute pubblica del 5 ventoso
dell'anno III (23 febbr. 1795), nel dare una nuova organizzazione
amministrativa al paese, si limitava a invitare il B. a recarsi a
Parigi dopo aver insediato la nuova amministrazione per fare un
rapporto al Comitato stesso, un ordine del Comitato di sorveglianza
generale il 4 marzo ne dispose l'arresto e la sua traduzione nella
capitale in stato di detenzione. Nonostante la difesa fattane dal
deputato Turreau, il B. fu arrestato il 5 marzo e, dopo essere stato
portato a Nizza e a Bordighera (questa era in territorio genovese e ivi
fu data - pare - al B. la possibilità di fuggire, ma egli non accettò),
giunse a Parigi il 23 aprile. Tradotto nella prigione del Plessis, solo
il 29 giugno ebbe comunicazione della motivazione del suo arresto,
avvenuto perché "partigiano del sistema del terrore e dello
spopolamento, sospetto d'intelligenza coi nemici della Repubblica e di
avere attentato alle persone e alle proprietà di alcuni cittadini della
Svizzera e della Repubblica di Genova, alleate della Repubblica
francese".
Si aprì allora per il B. un periodo di meditazione sulle cause del
fallimento del grande sforzo montagnardo, che lo porterà al comunismo,
grazie anche alle discussioni intrecciate con altri rivoluzionari nella
prigione del Plessis, divenuta vero focolaio di libertà e di
cospirazione. Dopo la giornata realista del 13 vendemmiaio dell'anno IV
(5 ott. 17951, il Direttorio sentì il bisogno di non far del tutto
divorzio dalle forze di sinistra e con l'amnistia del 4 brumaio
dell'anno IV (26 ott. 1795) ridiede la libertà ai democratici che
languivano in prigione. Tra gli amnistiati erano il B. e molti altri
che, come Darthé o lo stesso Babeuf prigioniero ad Arras, saranno tra i
protagonisti della prossima cospirazione degli Eguali. Tale momentanea
alleanza con il Direttorio permise l'apertura nel cuore di Parigi della
società popolare del Panthéon, ben presto trasformatasi, grazie proprio
al B. che più volte la presiedette, in un centro di viva opposizione.
Contemporaneamente il B. dibatteva alcuni temi mercé la stampa;
pubblicò un opuscolo, a noi non giunto, sul modo di come porre fine
alla guerra vandeana e un altro, anonimo, La paix perpétuelle avec les
Rois (edito da Saitta, F.B., I), per caldeggiare la formazione di una
barriera di repubbliche sorelle attorno alla Francia. Tra la fine del
1795 e gli inizi del 1796 numerosi progetti furono annodati, sia in
seno al Panthéon sia al di fuori di esso, per lottare contro il
Direttorio. Non è possibile far luce su tutti questi centri di
opposizione e sui loro rapporti; si può solo affermare che sul finire
del 1795 o agli inizi del 1796 si costituì in Parigi un comitato
segreto, già guadagnato alle idee della comunione dei beni e dei
lavori, per preparare un'insurrezione contro il regime direttoriale. Di
esso faceva parte il B. ma non Babeuf, il quale anzi lo avversava
ispirando la propria azione a tutt'altro centro; in un secondo tempo
tale disaccordo ebbe fine e si addivenne a un nuovo comitato direttivo
segreto (Direttorio segreto di salute pubblica), istituito il 10
germinale dell'anno IV (30 marzo 1796) con la partecipazione di Babeuf,
Antonelle, Sylvain Maréchal, Félix Lepeletier ai quali si aggiunsero
quasi subito Darthé, Debon e Buonarroti.
La cospirazione aveva lo scopo essenziale di dar vita ad un movimento
armato parigino, dilagante nella Francia tutta, per rendere effettiva
la sovranità del popolo e al tempo stesso realizzare la comunione dei
beni e dei lavori; ciò doveva legarsi ad una ripresa della politica
montagnarda della guerra, nella prospettiva di una Francia circondata
da repubbliche sorelle, e non vassalle, libere e ordinate sugli stessi
principi robespierristico-babuvistici. Studi recenti, infatti, hanno
documentato l'esistenza di numerosi legami e tentativi d'azione comune
tra gli Eguali di Parigi e alcuni elementi dell'opposizione democratica
della Repubblica batava o del giacobinismo italiano.
Di questa cospirazione il B. fu non un semplice aderente, bensì uno dei
capi: a lui si deve infatti uno dei testi fondamentali del programma e
della propaganda dei cospiratori, la Réponse à une lettre signée M. V.,
che ben distingueva la nuova dottrina della comunion dei beni e dei
lavori dall'antica dottrina della legge agraria: bisognava riunire
tutte le ricchezze esistenti nelle mani della Repubblica e far lavorare
tutti i cittadini validi, ciascuno secondo la sua capacità e le sue
attitudini, raccogliere continuamente nei depositi pubblici tutti i
prodotti della terra e dell'industria, distribuire equamente i beni e i
piaceri.
Contemporaneamente il B. non dimenticava i progetti italiani del
periodo della Corsica e di Oneglia: entro il contesto del programma dei
cospiratori di annodare gli avvenimenti francesi con la ripresa della
guerra montagnarda, egli si trasformò, in compagnia di alcuni profughi
italiani, come il valdostano Cerise, nel portavoce a Parigi dei
numerosi nuclei di patrioti italiani (tra cui assai attivo era quello
che si era costituito a Nizza e che attraverso Genova teneva i contatti
con le forze democratiche esistenti all'interno della penisola). Mentre
il gruppo nizzardo operava presso il nuovo generale in capo dell'"armée
d'Italie" Bonaparte, il B. si fece interprete delle esigenze espresse
dal giacobinismo italiano a Parigi presso il ministro degli Esteri
Delacroix e presso lo stesso Direttorio e mise a punto tutto un
progetto di "rivoluzionamento" del Piemonte onde porre un governo
provvisorio locale tra la popolazione "liberata" e le truppe francesi
di occupazione e impedire che la liberazione si trasformasse in una
conquista. Tra alterne vicende, con numerosi alti e bassi, il progetto
fu preso in considerazione dal Direttorio e il B. ebbe l'incarico di
una missione ufficiale presso l'"armée d'Italie" (22 marzo 1796). Le
necessità della cospirazione dovettero indurre il B. a procrastinare la
partenza; finalmente stava per mettersi in viaggio, allorché la
delazione di un falso congiurato, il capitano Grisel, fece scoprire
tutte le fila della cospirazione (10 maggio 1796). Arrestato, il B. fu
con gli altri cospiratori sottoposto al giudizio di una Alta corte di
giustizia, istituita a Vendôme (procedura eccezionale resa possibile
dalla incriminazione del deputato Drouet); il lungo processo si chiuse
il 25 maggio 1797 con la condanna a morte di Babeuf e di Darthé e con
quella della deportazione a vita per il B. e altri sette compagni.
Dopo la condanna il B. fu rinchiuso nel forte dell'isolotto Pelée di
fronte a Cherbourg in attesa di essere deportato nella Guiana; vi restò
invece tre anni e successivamente Bonaparte, divenuto primo console, ne
autorizzò il trasferimento nell'isola di Oléron e infine (16 febbr.
1803) a Sospello (Alpi Marittime). Il 23 giugno 1806 fu inviato in
residenza sorvegliata a Ginevra, ormai francese (dipartimento del
Lemano).
Il soggiorno a Sospello e ancor di più quello a Ginevra segnarono una
ripresa di contatti con il mondo politico esterno e l'inizio di una
attività in seno alle società segrete antibonapartiste, in particolare
nelle due sette dei Filadelfi e degli Adelfi, fusesi più tardi
nell'unica Adelfia. Sul primo soggiorno ginevrino siamo assai
scarsamente informati (frequentò la loggia massonica degli "Amis
sincères", che aveva una struttura di tipo filadelfico); esso ebbe
inopinatamente fine nel febbraio 1813 per effetto indiretto della
congiura parigina del generale Malet: allarmato, il prefetto Capelle
sollecitò l'ordine di trasferimento e il B. scelse come nuova residenza
Grenoble. La scelta fu estremamente significativa, giacché attraverso
il dipartimento dell'Isère passavano non pochi fili dell'organizzazione
settaria del tempo e Grenoble era la città di J. Rey e di altri amici,
con i quali il B. manterrà a lungo stretti rapporti politici e
ideologici. Dopo la prima abdicazione di Napoleone, egli si fece
rilasciare dal prefetto dell'Isère il 24 apr. 1814 un passaporto per
Ginevra, ove la sua presenza è nuovamente attestata il 16 maggio (oltre
che negli "Amis sincères" con funzioni direttive, egli è attivo nelle
altre due logge massoniche dell'"Union des Coeurs" e degli "Anciens
Réunis"). Ma la sua attività più importante non stava in questa palese
collaborazione massonica, bensì nell'azione segreta che andava
svolgendo mercé le organizzazioni settarie che per prudenza nascondeva
sotto ben note strutture massoniche (delle tre logge ricordate
certamente quella degli "Amis sincères" serviva da copertura
all'organizzazione buonarrotiana vera e propria). Se nell'Adelfia la
sua posizione dovette essere nei primi anni piuttosto subalterna a
quella dell'amico Luigi Angeloni, con il tempo la sua posizione cambiò
radicalmente ed egli fece sempre più figura di vero capo. È il momento
questo della trasformazione dell'Adelfia nella Società dei sublimi
maestri perfetti (dalla maggior parte degli studiosi fissata attorno al
1818, ma non senza dubbi e oscillazioni che spingono altri ad
antidatare il fatto al 1812 o a posticiparlo sino al 1822; più tardi,
tra il 1828 e il 1830, la Società dei sublimi maestri perfetti subirà
delle riforme trasformandosi nel Mondo).
Grazie a tale riforma l'organizzazione segreta buonarrotiana si
trasformò da orizzontale in verticale, divenendo un "ordine", ossia
trasformò la precedente gerarchia di funzioni in gerarchia di gradi (in
numero di tre) e in progressivo e graduale possesso della verità e
dell'autentico programma. La setta, in altri termini, pur continuando
ad essere, come già l'Adelfia, un'arma di battaglia contro la società e
il regime che si vuole abbattere, diventa anche una palestra per lo
sviluppo di quella "filosofia", che deve rendere possibile la riforma
della società e il miglioramento interiore dell'uomo. In tal modo
l'adepto che passa dal grado inferiore al superiore non solo riceve
compiti più importanti nell'azione rivoluzionaria, ma è anche una
goscienza che maggiormente si è aperta agli imperativi morali che la
setta impone. Il contenuto programmatico concreto della setta
buonarrotiana lo si evince con chiarezza nella professione di fede dei
tre gradi. L'adepto del primo grado, detto sublime maestro perfetto,
professava la religione naturale con i due postulati che il B. aveva
sempre affermato d'accordo con Robespierre, quello dell'esistenza di
Dio e della immortalità dell'anima, il principio della carità
universale, dell'eguaglianza tra tutti gli uomini sanzionata dal patto
sociale, della volontà generale come origine della legge e della
libertà come obbedienza alla legge vera, della illegittimità di
qualsivoglia governo basato su altri principi. Quello del secondo
grado, detto sublime eletto, conosce e proclama di più: la sanzione
popolare della legge, la funzione pubblica derivata sempre dalla
elezione a tempo determinato, la dottrina del tirannicidio, la libertà
affidata ad un insieme di sentimenti morali e a una mediocre agiatezza.
Come si vede, non si va al di là dell'ideale politico dell'anno II, del
momento robespierrista e sanculotto della Rivoluzione francese; ma la
professione di fede per il terzo grado, il cui adepto non sappiamo che
titolo avesse, svela l'intero programma: tutto il male è venuto dalla
improvvida divisione della terra, si strappino i confini, tutti i beni
si riducano ad un solo comune patrimonio e la patria sia l'unica
padrona e, madre dolcissima, somministri a tutti i diletti e liberi
figli suoi egualmente i mezzi di sussistenza, l'educazione e il lavoro".
Questo gradualismo imprimeva all'Ordine buonarrotiano una direzione
tipicamente autoritaria: i supremi dirigenti, ignoti a tutti,
manovravano in maniera dittatoriale la grande massa dei vari settari.
Tanto più che il B. non limitava la propria azione alla sua dichiarata
organizzazione dei sublimi maestri perfetti o, più tardi, del Mondo:
oltre a creare in questa una molteplicità di gradi, egli aveva
istituito una molteplicità di altre sette inferiori, secondarie, che
ignoravano la dipendenza dall'organizzazione principale, ma non per
questo erano libere nella loro azione. Erano queste società secondarie
e queste federazioni a rendere possibile l'onnipresenza delle direttive
buonarrotiane in buona parte dell'Europa, avvolgendo i paesi della
Santa Alleanza in una fitta rete insurrezionale. I federati piemontesi
del 1821 come i congiurati lombardi del conte Confalonieri avevano un
bell'ignorare i legami che li univano al patriarca comunista del 1796
ed essere convinti di lottare per un programma esclusivamente di
monarchia costituzionale; non per questo erano meno manovrati
segretamente dai buonarrotiani sublimi maestri perfetti. Similmente la
carboneria italiana conobbe la stessa autonomia e la stessa dipendenza:
sia essa sorta nel 1812 o alcuni anni prima, certo all'origine non ebbe
nulla a che vedere con il B., dal quale la dividevano molte concezioni
di fondo; ma è indubbio che verso il 1818 il suo progressivo
diffondersi dal Meridione verso zone tipicamente massoniche, come le
Marche e le Romagne, finì con il richiamare l'attenzione del B., che
assai presto riuscì nell'intento di far penetrare la propria
organizzazione in essa. Così la carboneria, sino allora costituita dai
due soli gradi di apprendista e di maestro, si "massonizzò" e conobbe
un terzo e ultimo grado, quello di gran maestro, che aveva come scopo
precipuo la realizzazione della legge agraria; considerando infatti la
carboneria come una società inferiore e sussidiaria, il B. non
assegnava ad essa la dottrina della comunione dei beni e dei lavori.
Dopo questa riforma è possibile cogliere la presenza di qualche vendita
carbonara in zone ove l'Ordine buonarrotiano era già fiorente, come il
Polesine, ove fu sequestrato all'Oroboni il primo esemplare del
catechismo del gran maestro con la richiesta della legge agraria, come
la Lombardia o il Piemonte, ove la prima vendita carbonara risale al
1919. Questo tipico metodo buonarrotiano di entrare in rapporti
federativi con altre associazioni segrete e di operarvi delle riforme è
possibile documentarlo anche per la setta degli Indipendenti in
Svizzera e in Germania, grazie alla collaborazione con l'amico
Gioacchino Prati, e più tardi per la carboneria francese; tale metodo
spiega a sufficienza quella costante e ostinata tendenza accentratrice
che non pochi contemporanei esperimentarono e sarà non piccola parte
nella genesi del futuro contrasto tra il B. e Giuseppe Mazzini. Va,
comunque, precisato che tale sistema, unito al gradualismo dottrinario,
se rendeva estremamente pericolosa l'organizzazione buonarrotiana e ne
faceva per le polizie e i governi del tempo un'idra dalle cento teste,
la rendeva altresì estremamente fragile sul piano delle realizzazioni
pratiche. Masse di congiurati, muovendosi, al momento dell'azione, in
funzione di un programma che non era quello vero, difficilmente
avrebbero potuto essere controllate a lungo dai pochi capi che quel
vero programma conoscevano; la gradualità era destinata a provocare
contrasti interni e paralisi effettive.
Il fallimento dei moti napoletano e piemontese del 1820-21 (da una
lettera di un oscuro sansimoniano Duchesne esistente alla Biblioteca
nazionale di Parigi, Nouv. acq. fr. 24613, f. 526, e probabilmente
ancora inedita, si desume che nel 1821 il B. reclutava giovani per la
carboneria napoletana), pur spezzando le fila della trama settaria in
Italia, diede come un maggior sprone all'attività del B.: si accentuano
infatti i rapporti con il grenoblese Joseph Rey, un'attiva vendita è
creata a Bons-Saint-Didier, in Savoia, grazie anche all'appoggio
dell'ex convenzionale François Gentil, numerosi incontri si svolgono
con Gioacchino Prati, che assieme a Wilhehn Snell svolge un notevole
lavoro cospirativo a Losanna e nel cantone di Vaud, e il ginevrino
James Fazy fa da trait-d'unión tra il B. e la carboneria francese,
appena creata. Infine, proprio in connessione con questo sforzo di
riorganizzazione e di galvanizzazione, fu decisa la missione
dell'Andryane in Italia (1822-23), la cui scoperta segnò per il B. la
fine del soggiorno svizzero. Su pressione dell'Austria e delle altre
potenze reazionarie, il governo federale svizzero dovette emettere il
24 apr. 1823 un ordine di espulsione del B., che per qualche mese cercò
di sfuggire all'ineluttabile rifugiandosi nel cantone di Vaud, ma alla
fine dovette partire munito di un passaporto per l'Inghilterra. Giunto
a Bruxelles il 6 maggio 1824, vi fissò la propria residenza sotto il
nome di Jean-Jacques Raymond, insieme con una nuova compagna, la
svizzera Sarah Desbains, che dopo il 1830 lo accompagnerà anche a
Parigi, ove morrà il 20 apr. 1835.
Costretto, come già a Ginevra, a dare lezioni di musica e di italiano
per vivere, fu colpito nel 1825 da una grave malattia agli occhi;
tuttavia gli anni del soggiorno in Belgio costituiscono nella sua
biografia il secondo momento più importante, dopo quello della
cospirazione del 1796. Impegnato a fondo nella direzione della vendita
centrale della carboneria francese a Bruxelles sotto il nome settario
di Camille, egli da un lato vive a contatto stretto con i testimoni del
grande passato, gli ex convenzionali e altri rivoluzionari che avevano
trovato un rifugio nel regno dei Paesi Bassi, da Vadier (divenuto ormai
suo amicissimo) e Barère a Cambon, Cavaignac, Prieur de la Marne e
finanche Sieyès, e ciò contribuisce a rinvigorire quell'attesa
messianica con la quale aveva attraversato gli anni della Rivoluzione;
dall'altro trova un nuovo vigore nell'entusiasmo con il quale un gruppo
belga di giovani liberali da Louis De Potter a Félix e Alexandre
Delhasse, da Félix Temmerman ai fratelli Colignon, tutti insofferenti
del giogo olandese sulle province del Belgio, lo accolsero. Certo si è,
comunque, che, se il periodo ginevrino era stato quello dei sublimi
maestri perfetti e dell'appoggio dato ai moti italiani, durante il
periodo di Bruxelles l'Italia, a proposito della quale scrive molto
all'Angeloni (notevoli alcune lettere del 1826-1828 edite da G. Romano
Catania), è solo uno dei punti della sua azione e del suo pensiero,
giacché proprio dal Belgio riesce a concretizzare una tela veramente e
ampiamente europea. Con i Delhasse, i De Potter, i Colignon, anche se
molti di costoro non possono essere considerati dei babuvisti, il B.
opera effettivamente nella realtà belga e crea nella libreria
dell'amico Fontana, ad Anversa, una fiorente centrale settaria; in
Francia conquista due reclute di inestimabile valore nella persona del
democratico Charles Teste e in quella di un pari di Francia, il
marchese Marc Voyer d'Argenson, attivo carbonaro e ora conquistato
integralmente alle dottrine babuviste: grazie ad essi egli può
indirizzare verso i propri scopi non poche forze dell'opposizione
liberale francese, influenzare la carboneria e in essa contrastare il
predominio, ritenuto dannoso, di un Lafayette; lo sguardo del B. infine
incomincia a rivolgersi anche verso l'Inghilterra, ove già si annoda
qualche rapporto con i futuri cartisti.
Gli anni di Bruxelles sono anche gli anni di una intensa meditazione
ideologica. Il B. non solo polemizza in una nutrita corrispondenza con
l'Angeloni sulla diversa concezione filosofica che li divide (egli
considerava il principio della forza proprio dell'Angeloni "più atto a
rovinare che a fondamentare quella stessa libertà da me e da te
teneramente amata") e non manca di lanciare frequenti strali contro
l'eclettismo filosofico che con Victor Cousin trionfava in Francia; ma
viene a contatto con altre esperienze socialiste e le sottopone a
critica, per saggiarne la validità al lume del proprio babuvismo.
Attraverso J. Rey e Francis Wright egli è tenuto al corrente delle idee
di Robert Owen, alla cui dottrina e ai cui tentativi pratici in America
guarda con simpatia, anche se resta scettico circa il modo di
esecuzione intrapreso: la forza persuasiva dell'esempio non basta agli
occhi dell'antico giacobino-babuvista, per il quale l'auspicata riforma
sociale è strettamente legata alla detenzione del potere politico.
Ancora più critico è verso il sansimonismo (un suo memoriale al
riguardo è giunto a noi purtroppo solo parzialmente): la dottrina
sansimoniana è insufficiente, propugnando l'abolizione dell'eredità
invece di quella della proprietà, pericolosa, volendo l'eguaglianza
della donna prima dellariforma dei costumi e implicando la peggior
forma di dittatura, quella dei dotti e dei tecnici. Ma il fatto più
importante del periodo belga fu la pubblicazione dell'opera in due
volumi Conspiration pour l'Egalité dite de Babeuf,suivie du procès
auquel elle donna lieu et des pièces justificatives (Bruxelles 1828)
resa possibile anche dall'aiuto finanziario del De Potter. Proprio
questa pubblicazione permise al B. di incidere profondamente nella
storia del sec. XIX in quanto presentava il suo programma non più a
pochi eletti legati da relazioni personali e dal vincolo latomico, ma
in pubblico e presso ceti e persone, ove la sua azione diretta non era
mai arrivata. Funzione preziosa e insostituibile, ora che il momento
dell'azione stava per ritornare.
La rivoluzione parigina del luglio 1830 colse, infatti, il B. in piena
attività cospirativa: Belgio, Francia, Italia erano per lui casi
particolari di un unico e inscindibile problema; se sul piano
ideologico molti suoi appunti mostrano che egli accentua la distinzione
tra il momento della rivoluzione e quello dell'ordinamento futuro ma
affida l'uno e l'altro alla stessa unica volontà dittatoriale designata
dalla setta, su quello dell'azione incominciavano a profilarsi nuovi
accordi con il mondo latomico francese e forse si era iniziata la
creazione di quei nuovi strumenti d'azione per l'Italia che saranno gli
Apofasimeni (dubbio però se questa società segreta risalga al B. o non
piuttosto a Carlo Bianco di Saint-Jorioz). Il 20 agosto 1830 rientrò in
Francia e, fedele ai ricordi del 1793-96, dispose la nuova azione entro
la vecchia cornice montagnarda dell'iniziativa di Parigi sugli altri
settori geografici. Per la Francia si assiste subito ad una vera e
propria biforcazione dell'attività buonarrotiana: da un lato si fa
ricorso all'azione legale e si agisce sui poteri costituiti e
sull'opinione pubblica per la conquista del suffragio universale e per
far accettare - mercé un'incessante propaganda - un programma sociale
minimo (critica delle imposte indirette e difesa dell'imposta
progressiva, emancipazione delle classi lavoratrici); dall'altro non si
trascura l'azione settaria e cospiratoria tesa al colpo di forza, se
non proprio comunista, almeno repubblicano e con premesse comuniste.
Inoltre assai attiva fu la partecipazione del B. e dei suoi amici a
quel mondo, sorto con la rivoluzione di luglio, intermedio tra la
legalità e le sette, che fu costituito dalle varie società popolari e
dai clubs (in particolare la "Société des Amis du Peuple" e
successivamente quella dei "Droits de l'homme et du citoyen"). Come già
nel 1796, il B. guarda al di là della Francia e, scoppiata la
rivoluzione in Belgio, collabora all'invio da parte degli "Amis du
Peuple" di un battaglione di volontari che si distinguerà in più di uno
scontro e insiste perché si giunga al più presto alla proclamazione
della repubblica. In tal senso pubblica il 3 nov. 1830, sul giornale La
Révolution de 1830, l'articolo Sur la forme républicaine à donner au
Gouvernement belge e, innanzi all'evolvere della situazione in senso
opposto e al sempre più chiaro declino dell'autorità di L. De Potter,
sollecitò la missione del fedelissimo Charles Teste a Bruxelles (18
nov. 1830). Oltre che il Belgio la rivoluzione di luglio mise in
fermento anche il composito mondo degli esuli italiani: fu creata a
Parigi una Giunta liberatrice italiana, tra i cui membri fu scelto un
supremo Direttorio liberatore, costituito da Pietro Mirri, da Salfi e
dallo stesso B.; tale Direttorio preparò un'azione di forza verso
l'Italia e in vista di essa lanciò un proclama con una chiara
affermazione repubblicana e unitaria ("cadano i troni, si infrangano le
corone, e sulle loro ruine sorga la repubblica una e indivisibile dalle
Alpi al mare") forse intempestiva, che suscitò la protesta di
aristocratici e moderati in esilio, come la Belgioioso e il barone
Poerio. E ben presto lo stesso B., il cui comunismo non mancava di
suscitare diffidenze anche in esuli schiettamente democratici e suoi
amici come il De Meester o Francesco Tadini, fu scavalcato. Il colpo di
forza, che egli meditava in connessione con una nuova insurrezione
repubblicana in Francia, si tramutò in una semplice scaramuccia alla
frontiera savoiarda provocata dall'ambiguo Pisani Dossi (25 febbraio-10
marzo 1831), e il B., sdegnato, abbandonò il Direttorio liberatore. Di
questo suo tentativo di ripresa dell'azione in Italia non rimase altro
che l'opuscolo Riflessi sul governo federativo applicato all'Italia,
pubblicato a Parigi nel marzo 1831, che denunziava il federalismo come
"opera di quella fazione nobilesca e signorile, che si adopera a tutta
possa onde sradicare dal cuore de' loro paesani ogni seme di affetto
veramente popolare".
Deluso dagli avvenimenti italiani e da quelli belgi, ove era nata una
monarchia costituzionale sotto il futuro genero dell'inviso Luigi
Filippo, non per questo rinunziò a chiamare a raccolta tutte le giovani
energie per il trionfo delle proprie idee in Francia. Il processo del
gennaio 1832 gli sottrasse per sempre il prezioso strumento della
società degli "Amis du Peuple"; il fallimento della cruenta giornata
popolare del giugno 1832 a Parigi restrinse ulteriormente l'angusto
campo che, dopo la prima insurrezione degli operai di Lione nel 1831,
la monarchia di luglio aveva lasciato ai repubblicani per un'azione
legale; infine il proprio programma comunista, ivi difeso da Voyer
d'Argenson, mise a soqquadro la società dei "Droits de l'homme et du
citoyen" e provocò una scissione in essa e in tutto il partito
repubblicano, rinfocolando vecchi contrasti con i gruppi di obbedienza
lafayettiana. Ma ostinatamente, nel 1833, il B. - attraverso la penna
di Teste - ribadì i suoi ben noti principi rivoluzionari in un Projet
de constitution republicaine et déclaration des principes fondamentaux
de la société, pubblicato non come manifestazione del pensiero di un
singolo bensì come il risultato del lavoro collettivo di tutto un
gruppo. Contemporaneamente collaborò alla stesura e pubblicazione
dell'agile pamphlet di Voyer d'Argenson Boutade d'un riche à sentimens
populaires. Accanto a questa attività pubblicistica si assiste a tutto
un lavorio da parte del B. per ripiegare di nuovo dai clubs ad
organismi segreti del tipo di quelli che aveva creato al tempo della
Restaurazione. L'organizzazione centrale del Mondo non era certo mai
scomparsa; ma con 2 dicembre del 1832 si assiste alla creazione di
nuovi centri settari che dovranno cooperare alla realizzazione del
programma: la Carboneria riformata prima e la Carboneria democratica
universale poi (questa seconda fu creata nell'autunno, 1833: cfr.
Kuypers). Questi nuovi centri, settari presentano un certo snellimento
rispetto alle organizzazioni precedenti; la vecchia vendita carbonara
sussiste sempre, ma al suo interno vengono create tre commissioni
permanenti che assicurano una direzione unitaria delle varie vendite.
Di estremo interesse sono i formulari della Carboneria democratica
universale, ove, tra l'altro, si afferma che "poiché l'ineguaglianza
estende i suoi flagelli su tutta l'Europa, questa ha ovunque bisogno di
una riforma sociale" e l'esistenza delle società segrete è giustificata
con la corruzione del mondo circostante (motivo quest'ultimo
tipicamente weishauptiano).
Lungo questa ripresa dell'attività settaria era inevitabile l'incontro,
trasformatosi assai presto in uno scontro, tra il B. e Mazzini. Dopo il
tentativo del 1831, anche per l'Italia il B. aveva ripiegato ancora una
volta nel segreto lavorio settario, dando vita alla setta dei Veri
Italiani, la quale - almeno per quanto è dato congetturare dal
confronto dei relativi statuti - rappresenta nella scala della
gerarchia settaria un grado superiore, quasi lo stato maggiore di
quella massa d'urto che avrebbero dovuto essere i militi Apofasimeni.
"La Società dei Veri Italiani - è precisato nell'articolo primo dello
statuto - ha per oggetto l'unità, indipendenza e libertà d'Italia
intendendo per libertà un governo repubblicano democratico istituito
sulla sovranità del popolo e perfetta uguaglianza". Retta da una giunta
centrale, tale società era costituita da "famiglie", ciascuna delle
quali, composta da non meno di sette membri, era contraddistinta da un
numero d'ordine progressivo, e cercò di diffondersi un po' dovunque,
perfino nell'Africa settentrionale ove Raffaello Viviani e Nicola
Magliulo organizzarono una famiglia a Bona. Tale lavorio fu favorito
dalla nuova e più grossa ondata di proscritti del 1831, che era venuta
quasi a sommergere gli antichi carbonari del 1821; tra i nuovi arrivati
il B. troverà i suoi più stretti collaboratori per l'Italia come il
modenese Luigi Mussi, il toscano Giuseppe Gherardi, il meridionale
Gaetano Ceccarelli e il corso Carlo Guitera, il quale ultimo riuscì a
costituire il 9 genn. 1833 in Livorno una seconda famiglia di Veri
Italiani, che, attivissima sotto la presidenza di Alessandro Foggi, fu
in rapporto anche con F. D. Guerrazzi e riuscì a stabilire una famiglia
a Firenze e una forse a Lucca.
Tra i nuovi arrivati era anche G. Mazzini, che, sebbene ormai critico
aspro dei metodi della carboneria, pure non se ne era ancora staccato
del tutto e condivideva con il B. qualche idea, come quella che la
Francia della rivoluzione di luglio avrebbe riattraversato tutte le
fasi di quella del 1789 (lettera di Mazzini a Giglioli del 10 luglio
1831, in Epistolario, I, pp. 15-16). Tra i due vi fu qualche contatto
epistolare, che presto si tramutò - pare su iniziativa del gruppo
buonarrotiano - in invito alla collaborazione nell'azione. Si giunse
così, nel settembre 1832, alla stipulazione delle "basi d'accordo tra
la Giovine Italia e i Veri Italiani", che pur lasciando sussistere tra
le due organizzazioni piena indipendenza per quanto si riferiva "alle
forme ed al modo dei lavori" imponeva "comunione di consigli e di mezzi
di propagazione" e obblighi precisi per il futuro "moto universale
italiano". Tale "accordo di fratellanza" aprì le colonne della rivista
Giovane Italia alla collaborazione dei buonarrotiani (Gherardi, ecc.) e
lo stesso B. nel febbraio 1833 vi pubblicò, sotto il consueto
pseudonimo di Camillo, l'articolo Del governo di un popolo in rivolta
per conseguire la libertà, ove era ribadita la nota tesi della
distinzione tra il periodo transitorio nel quale si attua la
rivoluzione e quello della instaurazione dell'ordinamento definitivo
della società.
L'articolo in questione segnò il punto di saturazione dei rapporti tra
il B. e Mazzini: esso, infatti, fu pubblicato con due postille critiche
nelle quali il Mazzini combatteva l'idea di un Comitato di salute
pubblica per l'Italia e di una dittatura per esercitare la potestà
rivoluzionaria. Si iniziò così il rapido deteriorarsi dei rapporti tra
i due capi rivoluzionari e la freddezza si tramutò in aperta e aspra
ostilità, quando Mazzini operò nel 1834 la sfortunata spedizione di
Savoia (vedi il testo delle condanne di essa da parte della
buonarrotiana Grande Vendita Cosmopolita di Parigi, in Romano Catania,
pp. 216-225). Alla base della rottura non erano solo motivi di ordine
psicologico, come la giovanile impazienza del Mazzini verso i metodi
del senile cospiratore o la forte diffidenza del B. verso il carattere
"ambizioso" del capo della Giovine Italia; erano anche e soprattutto
motivi di ordine ideologico: Mazzini, nel suo misticismo unitario,
rifiutava sia la concezione tendenzialmente classista del suo
interlocutore sia il mito del primato rivoluzionario della Francia.
L'uno viveva nell'atmosfera del nuovo mito della iniziativa italiana,
l'altro nel ricordo visivo degli anni 1789-1796, come, del resto, è
comprovato dal fatto che l'ultimo suo scritto sia costituito da quelle
Observations sur Maximilien Robespierre, redatte tra il 1833 e il
maggio 1836, che sotto la fraseologia socialista ritornano all'antico
principio della "virtù" come canone centrale di interpretazione storica.
L'ultimo atto pubblico del B. fu costituito dalle due nobili lettere
che inviò alla Corte dei pari e agli avvocati difensori dei
centosessantaquattro repubblicani parigini e lionesi arrestati dopo lo
scacco della seconda rivolta di Lione (1834), il cui scoppio egli aveva
invano cercato di evitare, e il massacro di via Transnonain e
processati in mezzo ad ogni illegalità nel mastodontico processo che
ebbe inizio nell'aprile 1835. Tale processo disorganizzò radicalmente
le fila del partito repubblicano e del movimento democratico francese.
Comunque, dopo il 1835, invano cercheremmo traccia diretta e manifesta
di un'azione esterna del B.: la sua attività è scesa più che mai nel
profondo del mistero latomico. Il vincolo settario viene a coprire
tutto il mondo buonarrotiano, ma non al punto che un'attenta analisi
non riesca a individuare che nelle nuove formazioni segrete, come le
Legioni rivoluzionarie e la Società delle famiglie, pulsano germi
fecondi di un allargamento del comunismo buonarrotiano dal piano del
consumo a quello della produzione e dalla massa agricola, sulle prime
quasi l'unica a essere tenuta presente, al proletariato delle città e
dell'industria nascente. Si dava così l'abbrivio a nuovi raggruppamenti
di lotta politico-sociale e assai presto dalla buonarrotiana Società
delle famiglie si passa a quella autenticamente proletaria delle
Stagioni, guidata dagli eredi diretti del B. (Blanqui, Barbès, Martin
Bernard).
Il B. si spense a Parigi il 17 sett. 1837, nella casa ospitale
dell'amico Voyer d'Argenson invia Rocher; millecinquecento persone ne
accompagnarono le spoglie al cimitero di Montmartre.