BUONARROTI Filippo


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Uomo politico rivoluzionario (Pisa 1761 - Parigi 1837); esule volontario in Corsica poco dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, cittadino francese dal 1793, dopo essere stato agente nazionale a Oneglia (1794) e aver subito una breve prigionia, si legò nel 1795 con F.-N. Babeuf, della cui cospirazione fu uno dei capi. Condannato per questo alla deportazione e vissuto dal 1806 a Ginevra (con una breve parentesi a Grenoble nel 1814), poi a Bruxelles (1824-30), restò fedele all'idea egualitario-comunista della gioventù (Conspiration pour l'Égalité dite de Babeuf, 1828), e divenne l'occulto artefice d'una vasta organizzazione settaria (Adelfi, Sublimi Maestri Perfetti, Mondo), che - dietro lo schermo della massoneria e della carboneria - tese a realizzare una rivoluzione europea a carattere repubblicano e con presupposti comunisteggianti. Rientrò in Francia dopo la rivoluzione del 1830; l'azione politica del B. cessò solo con la sua morte.

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DBI

di Armando Saitta

Primogenito di Leonardo, tenente del reggimento dei dragoni di stanza a Pisa, e della nobile senese Giulia Bizzarini, nacque a Pisa l'11 nov. 1761 (certificato di battesimo in G. Romano Catania, F. B., p. 1).

La famiglia apparteneva a un ramo collaterale dei Buonarroti, quello dei Buonarroti-Simoni, già illustrato dall'etruscologo senatore Filippo e poi ascritta, in virtù della legge 1º ott. 1750, al patriziato fiorentino (all'espletamento della pratica relativa risale l'albero genealogico esistente in Arch. di Stato di Firenze, Processi di Nobiltà, filza V e pubblicato da M. A. Morelli in Critica storica, IV [1965], p. 521). Il patrimonio di Leonardo Buonarroti consisteva in non grossi appezzamenti fondiari e in varie case nel quartiere fiorentino di S. Croce (negli anni 1733-36iscritto a decima per fiorini 33.17.3).

Nel 1774 troviamo il B. (ignoriamo l'anno del trasferimento della famiglia da Pisa a Firenze) allievo presso la scuola della celebre badia fiorentina dei benedettini cassinesi, e in particolare scolaro di Bernardo de Rossi. L'affermazione risalente a uno dei primi biografi, U. Trélat, essere stato egli educato "in un collegio dei Gesuiti" non ha trovato sino ad oggi conferma; comunque, sia avvenuta la prima educazione presso i gesuiti o altrove, il giudizio del B. adulto su di essa sarà totalmente negativo ("Je fus superstitieux et mal élevé jusqu'à l'âge de douze ans"), laddove un buon ricordo dovette egli conservare della badia fiorentina se ancora nel 1794 era in corrispondenza con Bernardo de Rossi.

Il padre fu assai premuroso procacciante di favori granducali per il figlio: paggio d'onore del granduca Pietro Leopoldo dal luglio 1773, dispensato dal servizio nel 1775 mantenendo però i relativi assegni per i successivi quattro anni, dopo un primo tentativo non riuscito a cagione dell'età (1775) ottenne il 12 nov. 1778 di vestire l'abito di cavaliere di S. Stefano e di entrare nella carovana di Pisa per compiervi i prescritti quattro anni necessari a "conseguire l'anzianità". Sarà dichiarato "anziano" il 23 nov. 1782. Ma a Pisa egli non fu certo un modello di studiosa serietà e offrì materia di vive preoccupazioni al cav. Albizzi e ai successivi rettori della carovana Angelo Pasquali e Angelo Fabbroni (questo secondo però, pur deplorando la vita dissipata del B., "un non so che di romanzesco" nel suo temperamento e la mancanza di metodo, parlava di "raro talento" e lo trovava "franco nella lingua francese, poco men che maestro nella musica, e sufficientemente versato nella filosofia"). Dopo alcuni amoretti (con la gentildonna Inghirami, tra l'altro), il 1º luglio 1780 fuggì a Marsiglia, ove la mancanza di mezzi lo costrinse ad arruolarsi nel reggimento "Royal-Italien" e successivamente a invocare il perdono paterno. Ottenuto il disingaggio dal reggimento francese grazie a una forte somma pagata dallo stesso granduca e rimpatriato sulla tartana del capitano Passani (12 ag. 1780), fu accolto a Pisa dalla famiglia ivi trasferitasi per non lasciarlo più solo; ma seguì un nuovo periodo di contrasti familiari e di colpi di testa, provocato dal fidanzamento con la contessina Elisabetta Conti, dimorante a Pisa e figlia del console toscano a Genova. Tale fidanzamento fu sulle prime visto di buon occhio dai genitori del B.; successivamente, per ragioni che ci sfuggono, violentemente avversato e la Segreteria di stato divenne il bersaglio degli infuocati memoriali dell'una e dell'altra parte (un'udienza concessa da Pietro Leopoldo finì con l'ordine per il B. di recarsi a Siena). Infine il matrimonio fu celebrato lo stesso giorno della laurea del B., l'8 giugno 1782 (certificato di matrimonio in Arch. di Stato di Firenze, Processi diNobiltà, filza V); da tali nozze nasceranno quattro figlie (Giovanna, Carolina, la poetessa Faustina e Antonia) e un figlio, Cosimo, nato a Bastia il 5 nov. 1790 e futuro ministro di Leopoldo II.

Gli studi di diritto si erano conclusi grazie a un permesso granducale, che sanava alcune manchevolezze della carriera scolastica. Com'è noto, egli ebbe a maestri Giovanni Maria Lampredi, professore di diritto canonico e di diritto pubblico, e Cristoforo Sarti, professore di istituzioni dialettiche e di metafisica. Per il Lampredi però la notizia va forse ridimensionata, i documenti attestano che il B. frequentò il corso di diritto pubblico solo nel primo anno di carovana; nel biennio 1780-82egli lavorò soprattutto con Leopoldo Andrea Guadagni, professore ordinario di pandette, e con Migliorotto Maccioni "professore d'ordinaria civile, coll'obbligo di leggere le rubriche straordinarie solamente". Ma se resta dubbio il reale effetto dell'insegnamento del Lampredi, che agli studiosi si presenta su una posizione conservatrice che non quadra molto con quanto ne disse il B. ormai vecchio, una dichiarazione del Fabbroni nel resoconto annuale della carovana del 30 giugno 1782 non lascia alcun dubbio per il Sarti: parlando del B., egli vi scrive: "Sotto la direzione del professore di metafisica Sarti ha fatto una dissertazione sull'esistenza di Dio, che voleva stampare, e che con miglior consiglio ha poi tenuta occulta, perché avrebbe fatto poco onore al maestro e allo scolaro".

Conseguita la laurea, si iscrisse come praticante presso l'avv. Bruni in Pisa; ma poco dopo, sebbene su sua richiesta la Segreteria granducale avesse obbligato il padre a passargli un assegno di 200 scudi l'anno, si trasferì in Firenze nella speranza di trovare più facilmente i mezzi di sostentamento. Li cercò dapprima nel commercio dei libri, importando dalla Francia non poche opere illuministiche e libertine; ma una perquisizione della polizia pose fine a tale attività nel novembre 1786 (il catalogo di tali libri trovasi a cura di M. A. Morelli in Critica storica, III [1964], pp. 470 s.). Dopo tale infortunio, si rivolse al giornalismo e diede vita al Journal politique (autorizzazione granducale concessa in data 26 dic. 1786 purché si trattasse "di pura gazzetta che rapporti le nuove, e nulla più"). Di questo giornale solo di recente sono stati rinvenuti il prospetto e il n. 47 in data 23 nov. 1787 (in Critica storica, VI [1967]). Il Journal politique dovette cessare le pubblicazioni attorno all'aprile-maggio 1788, se proprio in questo periodo il B. prese a collaborare alla Gazzetta universale che a Firenze pubblicava l'ab. Vincenzo Piombi. Se l'episodio del commercio librario da solo non era sufficiente a caratterizzare politicamente il B., tutt'altra luce proietta la sua collaborazione giornalistica (il console olandese a Firenze lo denunziò per offese allo statolder Gugliemo V inserite sulla Gazzetta universale) e comunque non c'è dubbio che al 1787 risale il suo primo ingresso diretto nel mondo delle società segrete con la sua adesione alla massoneria. Comunque il bisogno economico e fors'anche l'esigenza di realizzare le proprie idee lo spinsero nella primavera del 1789 a chiedere di essere nominato aiuto dell'auditore Michele Ciani incaricato di sovrintendere alla compilazione del codice toscano; non riuscì nell'intento ma alla sua supplica restò allegato un memoriale che ci illumina sullo sviluppo del suo pensiero: egli vi esprime con chiarezza l'esigenza di un frazionamento della grande proprietà terriera, anche se resta dubbio se il contesto programmatico riformatore e fisiocratico entro il quale esso si esprime sia dovuto a motivi di prudenza o non piuttosto a un ancora non realizzato raggiungimento di esiti democratici e rousseauiani.

Tali esiti, comunque, non tardarono a giungere con lo scoppio della Rivoluzione francese. Nell'ottobre 1789 lasciò di sua piena volontà la Toscana, trasferendosi in Corsica, a Bastia, ove sarà poi raggiunto dalla moglie. Quivi ebbe calda accoglienza nell'ambiente rivoluzionario, ritrovando anche alcuni condiscepoli dell'università pisana, come Saliceti; fredda invece nel più largo ambiente isolano, poiché la sua propaganda apertamente anticlericale feriva il comune sentimento. Personaggio influente nella locale Società patriottica, incaricato della direzione degli affari ecclesiastici e dei beni nazionali da parte del Direttorio del dipartimento, esplicò la sua più importante azione mercé la stampa, pubblicando a partire dal 3 apr. 1790 il settimanale Giornale patriottico della Corsica (se ne conoscono 32 numeri, sino al 27 nov. 1790; è notizia inesatta invece che il B. abbia dato vita nello stesso tempo a un secondo giornale intitolato L'Amico della libertà italiana). Il giornale svolse una politica favorevole a Pasquale Paoli, allorché questi ritornò in patria con l'aureola di "eroe della libertà" (il B. l'accolse a Bastia il 17 luglio con un discorso che fu ampiamente diffuso); ma proprio sul problema ecclesiastico è avvertibile una prima incrinatura con parte dell'opinione pubblica corsa e infatti l'introduzione nell'isola della costituzione civile del clero, provocando la sommossa degli abitanti di Bastia contro il nuovo vescovo costituzionale e il Direttorio del dipartimento, fece correre un grosso pericolo al B.: il 2 giugno 1791 la folla riunita nella chiesa di S. Giovanni Battista decise di espellerlo dalla città, sotto l'accusa di spargere "delle massime contrarie alla Religione e tendenti ad inspirare del disprezzo contro i ministri degli altari", e l'indomani lo costrinse a forza a imbarcarsi su un piccolo legno. Sbarcato a Livorno e rinchiuso nella segreta del Pretorio, il B. costituiva un caso complicato per le autorità granducali: sei mesi prima il Consiglio di reggenza per Ferdinando III, ancora assente, gli aveva ingiunto di non rimettere piede sul suolo toscano, pena l'arresto, se prima non si fosse giustificato degli scritti e delle azioni rivoluzionarie; d'altra parte il suo sbarco a Livorno non era dipeso dalla sua volontà e il ministro francese a Firenze sollecitava un pronto rilascio. E così le autorità granducali, il cui imbarazzo si era accresciuto a motivo dell'invio di una supplica dell'interessato al granduca per ritrattare "formalmente e solennemente" i suoi trascorsi e chiedere di restare "in Toscana per godervi pacificamente di tutti i diritti di cittadino", furono ben liete il 12 giugno di liberarlo. Due giorni prima erano rientrati dalla Corsica la moglie e i figli; tuttavia il B., che pur aveva avuto il permesso di restare in Toscana e si era trasferito a Firenze, non esitò ad accogliere l'invito del Direttorio dipartimentale corso, di stanza ormai a Corte, che egli raggiunse nel luglio. Accolto con onore, indennizzato per le perdite subite e reintegrato nell'ufficio, fu ammesso all'unanimità nella Società degli amici della costituzione.

L'opera del B. da Corte fu essenzialmente di propaganda rivoluzionaria, di attività pubblicistica (fu personalmente interessato alla stamperia ivi aperta dal lucchese Antonio Riccomini) e di diffusione dell'insegnamento e della cultura democratica; pur non potendosene dare i particolari, si può asserire che tale attività si estendeva anche all'Italia. E certamente a scopi politici ubbidì il suo secondo viaggio in Toscana (aprile 1792), sotto il pretesto di riprendere la famiglia. Sbarcato il 12 aprile a Livorno, si trasferì subito a Pisa, ove prese a diffondere stampati rivoluzionari e a "reclutare dei giovani per condurli in Corsica". Sottoposto a perquisizione per ordini venuti da Firenze, ove intanto erano state sequestrate lettere da lui inviate a persone sospette come l'ab. Vincenzo Piombi, si sottrasse all'arresto con uno stratagemma e si rifugiò con la moglie e una delle figlie prima a Sarzana e poi a Genova. Pochi giorni dopo però fu sfrattato da Genova e, mentre la moglie con la bambina ritornava in Toscana (da questo momento cessò ogni contatto di Filippo con la propria famiglia), egli, che nel maggio veniva colpito da formale bando di sfratto da tutto il territorio della Toscana, fece ritorno in Corsica.

Con l'agosto 1792 nell'isola incominciò a profilarsi sempre più chiara la rottura tra il gruppo dei seguaci di Paoli e quello dei democratici, con i quali (Saliceti, Giuseppe e Napoleone Bonaparte) il B. strinse rapporti sempre più amichevoli. Avvenuta l'elezione dei sei deputati della Corsica alla Convenzione (è errata la notizia che colloca a tale momento il primo viaggio del B. a Parigi con l'amico Saliceti), fu nominato commissario presso il tribunale del distretto di Corte; insegnò inoltre in quel locale liceo diritto pubblico e diede buona parte della propria attività alla "Société des Amis du Peuple". Nella spedizione navale contro la Sardegna, il B. fu aggregato alla stessa quale "apostolo della libertà", ossia con il compito di svolgere per conto della Società degli amici del popolo una missione tipicamente rousseauiana tesa a "predicare al buon popolo di Sardegna la dottrina della libertà e della felicità". Della spedizione fece parte anche Napoleone Bonaparte, legato allora da stretti vincoli di amicizia con il B.; essa, com'è noto, fallì nell'impresa su Cagliari (23-25 genn. 1793), ma riuscì nella conquista dell'isoletta di San Pietro (8 genn.), ribattezzata in Isola della Libertà e dallo stesso B. dotata di una costituzione ispirata ai principî del più puro Rousseau. Questa costituzione fu esposta in uno scritto intitolato Code de la nature (segnalato nel 1950 da A. Saitta, non è stato ancora ritrovato).

Partito per Parigi, onde presentare alla Convenzione il voto degli abitanti dell'Isola della Libertà di essere riuniti alla Francia, nella seduta del 29 aprile perorò la propria richiesta di ottenere la cittadinanza francese, che gli fu accordata il 27 maggio. A questo suo primo viaggio a Parigi risale la conoscenza diretta che il B. fece di Robespierre e dei suoi amici, come Lebas e Duplay. In questi due mesi (aprile-maggio 1793) si produsse anche il divorzio tra Paoli e la Francia rivoluzionaria: il B., che già dopo la non felice conclusione della spedizione di Sardegna aveva attaccato Paoli nei clubs, diede alle stampe a Parigi una virulenta denunzia dal titolo Les grandes trahisons de Pascal Paoli ed ottenne (7 giugno 1793) dal Consiglio esecutivo provvisorio la nomina a commissario civile in Corsica. Ma, giunto a Lione, nel frattempo divenuta teatro della rivolta federalista, fu imprigionato. Riacquistata la libertà dopo diciassette giorni, fu costretto a proseguire il viaggio attraverso gli impervi sentieri delle montagne dei dipartimenti delle Alte e Basse Alpi; ma a Nizza fu raggiunto dalla disposizione del Comitato di salute pubblica che annullava tutte le missioni già ordinate dal Consiglio esecutivo provvisorio. Rinviato a Parigi dai rappresentanti in missione Ricord e A. Robespierre, fu confermato nella precedente missione dal Comitato di salute pubblica (ottobre o novembre 1793); tuttavia nemmeno questa volta poté raggiungere la Corsica e i rappresentanti Saliceti e A. Robespierre, per l'impossibilità di superare il blocco navale inglese, ne modificarono la missione destinandolo alle zone liguri (Oneglia, ecc.) occupate dalle truppe francesi.

Il B. non doveva rivedere mai più la Corsica: del suo amore per l'isola restavano ormai, estreme testimonianze, numerosi memoriali redatti per patrocinare questa o quella riforma (e qualcuno di essi a stampa, come il Tableau du Département de la Corse, Paris 1793) e, soprattutto, l'opuscolo La conjuration de Corse entièrement dévoilée, rifacimento del precedente sui tradimenti del Paoli, pubblicato sulla fine dell'anno a Parigi.

Questo scritto, violento contro Paoli e i suoi seguaci e da costoro ripagato di ugual moneta (il B. dovette trascinare in tribunale il deputato Antonio Costantini e il comandante Ferrandi che furono condannati per diffamazione), segna - al di là delle precise contingenze del momento - una svolta nel pensiero del B.: la sua azione politica è definitivamente guadagnata al robespierrismo, la valutazione politica comincia a disporsi entro un giudizio di passione morale di tipo giacobino-montagnardo, si profila infine un vasto programma di rivendicazioni sociali, non ancora comuniste ma estremamente egualitarie.

Nominato commissario nazionale con il compito di esercitare "provvisoriamente l'autorità amministrativa di polizia e di sicurezza generale nel territorio di Oneglia, Loano e parti conquistate al di qua di Mentone" (decreti dei rappresentanti Saliceti e A. Robespietre del 9 e del 22 apr. 1794), il B. si preoccupò subito di dare un ordinamento amministrativo al paese. Diede particolari cure all'istruzione e all'educazione degli abitanti, provvedendo a delle pubblicazioni presso la tipografia Montanara di Straforello e C. di Fort Hercule (Monaco) e istituendo un apposito Comitato d'istruzione per "far conoscere ai popoli la saggezza e la bontà del popolo francese" (decreto del 4 giugno 1794), e applicò tutta la legislazione di guerra e di vincolismo economico che la Convenzione da Parigi andava ordinando (requisizione della fabbrica di panni esistente ad Ormea, applicazione del maximum dei prezzi e dei salari in maniera tale da non rovinare le risorse del paese consistenti nella produzione di olio e sapone e nel commercio di transito con il Piemonte, lotta contro i falsi assegnati particolarmente numerosi nella zona data la vicinanza di Genova, ove essi giungevano dall'Inghilterra). La politica svolta ad Oneglia dal B. va ricordata anche per un altro aspetto, e non certo il meno importante: l'aspetto italiano; il B. infatti al rivoluzionamento dell'umanità sentito in termini rousseauiano-robespierristici univa sentimenti e idee che gli assegnano già negli anni di Oneglia un posto cospicuo nella storia del Risorgimento italiano. Per sua cura la vallata di Oneglia divenne un centro di raccolta di profughi politici italiani, che egli utilizzò nell'amministrazione locale insieme con non pochi Corsi, con i quali era stato precedentemente in rapporto; e non è da escludere che sposata prima ad un corso, tal Badi, anch'esso utilizzato ad Oneglia, fosse Teresa Poggi, con la quale il B., approfittando della nuova legislazione matrimoniale francese, si unì in matrimonio, rompendo così ogni legame con Elisabetta Conti. Con questi profughi Oneglia diventa un primo crogiuolo del sentimento unitario quale si manifesterà con estrema chiarezza da parte del B. nel 1795-96.

Comunque, l'azione del B. a Oneglia, avallata dai rappresentanti montagnardi in missione come Saliceti, Ricord e A. Robespierre, si svolse costantemente su una piattaforma robespierrista-terrorista: il discorso pronunziato il 20 pratile dell'anno II (8 giugno 1794) per la festa dell'Essere Supremo non fu semplice esecuzione di un decreto della Convenzione bensì convinta adesione al credo robespierrista (edito in opuscolo bilingue dalla tipografia Montanara, èstato ripubblicato in A. Saitta, F. B., I, pp. 252-257) e fu sempre posto in massimo risalto il nesso terrorista tra guerra esterna e violenza rivoluzionaria interna; il B. partecipò anche a fatti d'arme, come l'espugnazione del Colle Ardente, e alla repressione dell'insurrezione in massa dei contadini delle province di Acqui, Alba e Mondovì (primi del luglio 1794). Il 9 termidoro (27 luglio) non segnò subito la fine del governo del B., i cui poteri non furono diminuiti dalla duplicazione della carica di agente nazionale generale in favore del corso Pompei; ancora per sette mesi egli rimase a capo della vita civile e amministrativa di Oneglia e il meglio della sua attività in favore della propaganda rivoluzionaria e dell'organizzazione scolastica fu realizzato durante la reazione termidoriana, pur entro il contesto di una situazione radicalmente modificata. Con una circolare del 14 ott. 1794 iniziò la propaganda per la unione del paese alla Francia; il primo atto concreto di essa fu la riunione dell'assemblea degli elettori del distretto di Stellanello, che non senza contrasti votò l'annessione nel febbraio 1795. Prima che si tenessero altre assemblee, però, la sorte del B. a Oneglia fu decisa: impegnato a fondo nella lotta antifeudale contro il marchese Del Carretto, cittadino genovese, per il feudo di Balestrino e con altra potente famiglia per la contea di Lingueglia, provocò con il sequestro di questi feudi le vibrate proteste di Genova e l'incidente diplomatico fornì a sua volta ai termidoriani di Parigi il pretesto per liberarsi di lui. Il B. aveva già inviato il 6 dic. 1794 le proprie dimissioni chiedendo d'imbarcarsi nella spedizione navale che si preparava per riconquistare la Corsica; mentre un decreto del Comitato di salute pubblica del 5 ventoso dell'anno III (23 febbr. 1795), nel dare una nuova organizzazione amministrativa al paese, si limitava a invitare il B. a recarsi a Parigi dopo aver insediato la nuova amministrazione per fare un rapporto al Comitato stesso, un ordine del Comitato di sorveglianza generale il 4 marzo ne dispose l'arresto e la sua traduzione nella capitale in stato di detenzione. Nonostante la difesa fattane dal deputato Turreau, il B. fu arrestato il 5 marzo e, dopo essere stato portato a Nizza e a Bordighera (questa era in territorio genovese e ivi fu data - pare - al B. la possibilità di fuggire, ma egli non accettò), giunse a Parigi il 23 aprile. Tradotto nella prigione del Plessis, solo il 29 giugno ebbe comunicazione della motivazione del suo arresto, avvenuto perché "partigiano del sistema del terrore e dello spopolamento, sospetto d'intelligenza coi nemici della Repubblica e di avere attentato alle persone e alle proprietà di alcuni cittadini della Svizzera e della Repubblica di Genova, alleate della Repubblica francese".

Si aprì allora per il B. un periodo di meditazione sulle cause del fallimento del grande sforzo montagnardo, che lo porterà al comunismo, grazie anche alle discussioni intrecciate con altri rivoluzionari nella prigione del Plessis, divenuta vero focolaio di libertà e di cospirazione. Dopo la giornata realista del 13 vendemmiaio dell'anno IV (5 ott. 17951, il Direttorio sentì il bisogno di non far del tutto divorzio dalle forze di sinistra e con l'amnistia del 4 brumaio dell'anno IV (26 ott. 1795) ridiede la libertà ai democratici che languivano in prigione. Tra gli amnistiati erano il B. e molti altri che, come Darthé o lo stesso Babeuf prigioniero ad Arras, saranno tra i protagonisti della prossima cospirazione degli Eguali. Tale momentanea alleanza con il Direttorio permise l'apertura nel cuore di Parigi della società popolare del Panthéon, ben presto trasformatasi, grazie proprio al B. che più volte la presiedette, in un centro di viva opposizione. Contemporaneamente il B. dibatteva alcuni temi mercé la stampa; pubblicò un opuscolo, a noi non giunto, sul modo di come porre fine alla guerra vandeana e un altro, anonimo, La paix perpétuelle avec les Rois (edito da Saitta, F.B., I), per caldeggiare la formazione di una barriera di repubbliche sorelle attorno alla Francia. Tra la fine del 1795 e gli inizi del 1796 numerosi progetti furono annodati, sia in seno al Panthéon sia al di fuori di esso, per lottare contro il Direttorio. Non è possibile far luce su tutti questi centri di opposizione e sui loro rapporti; si può solo affermare che sul finire del 1795 o agli inizi del 1796 si costituì in Parigi un comitato segreto, già guadagnato alle idee della comunione dei beni e dei lavori, per preparare un'insurrezione contro il regime direttoriale. Di esso faceva parte il B. ma non Babeuf, il quale anzi lo avversava ispirando la propria azione a tutt'altro centro; in un secondo tempo tale disaccordo ebbe fine e si addivenne a un nuovo comitato direttivo segreto (Direttorio segreto di salute pubblica), istituito il 10 germinale dell'anno IV (30 marzo 1796) con la partecipazione di Babeuf, Antonelle, Sylvain Maréchal, Félix Lepeletier ai quali si aggiunsero quasi subito Darthé, Debon e Buonarroti.

La cospirazione aveva lo scopo essenziale di dar vita ad un movimento armato parigino, dilagante nella Francia tutta, per rendere effettiva la sovranità del popolo e al tempo stesso realizzare la comunione dei beni e dei lavori; ciò doveva legarsi ad una ripresa della politica montagnarda della guerra, nella prospettiva di una Francia circondata da repubbliche sorelle, e non vassalle, libere e ordinate sugli stessi principi robespierristico-babuvistici. Studi recenti, infatti, hanno documentato l'esistenza di numerosi legami e tentativi d'azione comune tra gli Eguali di Parigi e alcuni elementi dell'opposizione democratica della Repubblica batava o del giacobinismo italiano.

Di questa cospirazione il B. fu non un semplice aderente, bensì uno dei capi: a lui si deve infatti uno dei testi fondamentali del programma e della propaganda dei cospiratori, la Réponse à une lettre signée M. V., che ben distingueva la nuova dottrina della comunion dei beni e dei lavori dall'antica dottrina della legge agraria: bisognava riunire tutte le ricchezze esistenti nelle mani della Repubblica e far lavorare tutti i cittadini validi, ciascuno secondo la sua capacità e le sue attitudini, raccogliere continuamente nei depositi pubblici tutti i prodotti della terra e dell'industria, distribuire equamente i beni e i piaceri.

Contemporaneamente il B. non dimenticava i progetti italiani del periodo della Corsica e di Oneglia: entro il contesto del programma dei cospiratori di annodare gli avvenimenti francesi con la ripresa della guerra montagnarda, egli si trasformò, in compagnia di alcuni profughi italiani, come il valdostano Cerise, nel portavoce a Parigi dei numerosi nuclei di patrioti italiani (tra cui assai attivo era quello che si era costituito a Nizza e che attraverso Genova teneva i contatti con le forze democratiche esistenti all'interno della penisola). Mentre il gruppo nizzardo operava presso il nuovo generale in capo dell'"armée d'Italie" Bonaparte, il B. si fece interprete delle esigenze espresse dal giacobinismo italiano a Parigi presso il ministro degli Esteri Delacroix e presso lo stesso Direttorio e mise a punto tutto un progetto di "rivoluzionamento" del Piemonte onde porre un governo provvisorio locale tra la popolazione "liberata" e le truppe francesi di occupazione e impedire che la liberazione si trasformasse in una conquista. Tra alterne vicende, con numerosi alti e bassi, il progetto fu preso in considerazione dal Direttorio e il B. ebbe l'incarico di una missione ufficiale presso l'"armée d'Italie" (22 marzo 1796). Le necessità della cospirazione dovettero indurre il B. a procrastinare la partenza; finalmente stava per mettersi in viaggio, allorché la delazione di un falso congiurato, il capitano Grisel, fece scoprire tutte le fila della cospirazione (10 maggio 1796). Arrestato, il B. fu con gli altri cospiratori sottoposto al giudizio di una Alta corte di giustizia, istituita a Vendôme (procedura eccezionale resa possibile dalla incriminazione del deputato Drouet); il lungo processo si chiuse il 25 maggio 1797 con la condanna a morte di Babeuf e di Darthé e con quella della deportazione a vita per il B. e altri sette compagni.

Dopo la condanna il B. fu rinchiuso nel forte dell'isolotto Pelée di fronte a Cherbourg in attesa di essere deportato nella Guiana; vi restò invece tre anni e successivamente Bonaparte, divenuto primo console, ne autorizzò il trasferimento nell'isola di Oléron e infine (16 febbr. 1803) a Sospello (Alpi Marittime). Il 23 giugno 1806 fu inviato in residenza sorvegliata a Ginevra, ormai francese (dipartimento del Lemano).

Il soggiorno a Sospello e ancor di più quello a Ginevra segnarono una ripresa di contatti con il mondo politico esterno e l'inizio di una attività in seno alle società segrete antibonapartiste, in particolare nelle due sette dei Filadelfi e degli Adelfi, fusesi più tardi nell'unica Adelfia. Sul primo soggiorno ginevrino siamo assai scarsamente informati (frequentò la loggia massonica degli "Amis sincères", che aveva una struttura di tipo filadelfico); esso ebbe inopinatamente fine nel febbraio 1813 per effetto indiretto della congiura parigina del generale Malet: allarmato, il prefetto Capelle sollecitò l'ordine di trasferimento e il B. scelse come nuova residenza Grenoble. La scelta fu estremamente significativa, giacché attraverso il dipartimento dell'Isère passavano non pochi fili dell'organizzazione settaria del tempo e Grenoble era la città di J. Rey e di altri amici, con i quali il B. manterrà a lungo stretti rapporti politici e ideologici. Dopo la prima abdicazione di Napoleone, egli si fece rilasciare dal prefetto dell'Isère il 24 apr. 1814 un passaporto per Ginevra, ove la sua presenza è nuovamente attestata il 16 maggio (oltre che negli "Amis sincères" con funzioni direttive, egli è attivo nelle altre due logge massoniche dell'"Union des Coeurs" e degli "Anciens Réunis"). Ma la sua attività più importante non stava in questa palese collaborazione massonica, bensì nell'azione segreta che andava svolgendo mercé le organizzazioni settarie che per prudenza nascondeva sotto ben note strutture massoniche (delle tre logge ricordate certamente quella degli "Amis sincères" serviva da copertura all'organizzazione buonarrotiana vera e propria). Se nell'Adelfia la sua posizione dovette essere nei primi anni piuttosto subalterna a quella dell'amico Luigi Angeloni, con il tempo la sua posizione cambiò radicalmente ed egli fece sempre più figura di vero capo. È il momento questo della trasformazione dell'Adelfia nella Società dei sublimi maestri perfetti (dalla maggior parte degli studiosi fissata attorno al 1818, ma non senza dubbi e oscillazioni che spingono altri ad antidatare il fatto al 1812 o a posticiparlo sino al 1822; più tardi, tra il 1828 e il 1830, la Società dei sublimi maestri perfetti subirà delle riforme trasformandosi nel Mondo).

Grazie a tale riforma l'organizzazione segreta buonarrotiana si trasformò da orizzontale in verticale, divenendo un "ordine", ossia trasformò la precedente gerarchia di funzioni in gerarchia di gradi (in numero di tre) e in progressivo e graduale possesso della verità e dell'autentico programma. La setta, in altri termini, pur continuando ad essere, come già l'Adelfia, un'arma di battaglia contro la società e il regime che si vuole abbattere, diventa anche una palestra per lo sviluppo di quella "filosofia", che deve rendere possibile la riforma della società e il miglioramento interiore dell'uomo. In tal modo l'adepto che passa dal grado inferiore al superiore non solo riceve compiti più importanti nell'azione rivoluzionaria, ma è anche una goscienza che maggiormente si è aperta agli imperativi morali che la setta impone. Il contenuto programmatico concreto della setta buonarrotiana lo si evince con chiarezza nella professione di fede dei tre gradi. L'adepto del primo grado, detto sublime maestro perfetto, professava la religione naturale con i due postulati che il B. aveva sempre affermato d'accordo con Robespierre, quello dell'esistenza di Dio e della immortalità dell'anima, il principio della carità universale, dell'eguaglianza tra tutti gli uomini sanzionata dal patto sociale, della volontà generale come origine della legge e della libertà come obbedienza alla legge vera, della illegittimità di qualsivoglia governo basato su altri principi. Quello del secondo grado, detto sublime eletto, conosce e proclama di più: la sanzione popolare della legge, la funzione pubblica derivata sempre dalla elezione a tempo determinato, la dottrina del tirannicidio, la libertà affidata ad un insieme di sentimenti morali e a una mediocre agiatezza. Come si vede, non si va al di là dell'ideale politico dell'anno II, del momento robespierrista e sanculotto della Rivoluzione francese; ma la professione di fede per il terzo grado, il cui adepto non sappiamo che titolo avesse, svela l'intero programma: tutto il male è venuto dalla improvvida divisione della terra, si strappino i confini, tutti i beni si riducano ad un solo comune patrimonio e la patria sia l'unica padrona e, madre dolcissima, somministri a tutti i diletti e liberi figli suoi egualmente i mezzi di sussistenza, l'educazione e il lavoro".

Questo gradualismo imprimeva all'Ordine buonarrotiano una direzione tipicamente autoritaria: i supremi dirigenti, ignoti a tutti, manovravano in maniera dittatoriale la grande massa dei vari settari. Tanto più che il B. non limitava la propria azione alla sua dichiarata organizzazione dei sublimi maestri perfetti o, più tardi, del Mondo: oltre a creare in questa una molteplicità di gradi, egli aveva istituito una molteplicità di altre sette inferiori, secondarie, che ignoravano la dipendenza dall'organizzazione principale, ma non per questo erano libere nella loro azione. Erano queste società secondarie e queste federazioni a rendere possibile l'onnipresenza delle direttive buonarrotiane in buona parte dell'Europa, avvolgendo i paesi della Santa Alleanza in una fitta rete insurrezionale. I federati piemontesi del 1821 come i congiurati lombardi del conte Confalonieri avevano un bell'ignorare i legami che li univano al patriarca comunista del 1796 ed essere convinti di lottare per un programma esclusivamente di monarchia costituzionale; non per questo erano meno manovrati segretamente dai buonarrotiani sublimi maestri perfetti. Similmente la carboneria italiana conobbe la stessa autonomia e la stessa dipendenza: sia essa sorta nel 1812 o alcuni anni prima, certo all'origine non ebbe nulla a che vedere con il B., dal quale la dividevano molte concezioni di fondo; ma è indubbio che verso il 1818 il suo progressivo diffondersi dal Meridione verso zone tipicamente massoniche, come le Marche e le Romagne, finì con il richiamare l'attenzione del B., che assai presto riuscì nell'intento di far penetrare la propria organizzazione in essa. Così la carboneria, sino allora costituita dai due soli gradi di apprendista e di maestro, si "massonizzò" e conobbe un terzo e ultimo grado, quello di gran maestro, che aveva come scopo precipuo la realizzazione della legge agraria; considerando infatti la carboneria come una società inferiore e sussidiaria, il B. non assegnava ad essa la dottrina della comunione dei beni e dei lavori. Dopo questa riforma è possibile cogliere la presenza di qualche vendita carbonara in zone ove l'Ordine buonarrotiano era già fiorente, come il Polesine, ove fu sequestrato all'Oroboni il primo esemplare del catechismo del gran maestro con la richiesta della legge agraria, come la Lombardia o il Piemonte, ove la prima vendita carbonara risale al 1919. Questo tipico metodo buonarrotiano di entrare in rapporti federativi con altre associazioni segrete e di operarvi delle riforme è possibile documentarlo anche per la setta degli Indipendenti in Svizzera e in Germania, grazie alla collaborazione con l'amico Gioacchino Prati, e più tardi per la carboneria francese; tale metodo spiega a sufficienza quella costante e ostinata tendenza accentratrice che non pochi contemporanei esperimentarono e sarà non piccola parte nella genesi del futuro contrasto tra il B. e Giuseppe Mazzini. Va, comunque, precisato che tale sistema, unito al gradualismo dottrinario, se rendeva estremamente pericolosa l'organizzazione buonarrotiana e ne faceva per le polizie e i governi del tempo un'idra dalle cento teste, la rendeva altresì estremamente fragile sul piano delle realizzazioni pratiche. Masse di congiurati, muovendosi, al momento dell'azione, in funzione di un programma che non era quello vero, difficilmente avrebbero potuto essere controllate a lungo dai pochi capi che quel vero programma conoscevano; la gradualità era destinata a provocare contrasti interni e paralisi effettive.

Il fallimento dei moti napoletano e piemontese del 1820-21 (da una lettera di un oscuro sansimoniano Duchesne esistente alla Biblioteca nazionale di Parigi, Nouv. acq. fr. 24613, f. 526, e probabilmente ancora inedita, si desume che nel 1821 il B. reclutava giovani per la carboneria napoletana), pur spezzando le fila della trama settaria in Italia, diede come un maggior sprone all'attività del B.: si accentuano infatti i rapporti con il grenoblese Joseph Rey, un'attiva vendita è creata a Bons-Saint-Didier, in Savoia, grazie anche all'appoggio dell'ex convenzionale François Gentil, numerosi incontri si svolgono con Gioacchino Prati, che assieme a Wilhehn Snell svolge un notevole lavoro cospirativo a Losanna e nel cantone di Vaud, e il ginevrino James Fazy fa da trait-d'unión tra il B. e la carboneria francese, appena creata. Infine, proprio in connessione con questo sforzo di riorganizzazione e di galvanizzazione, fu decisa la missione dell'Andryane in Italia (1822-23), la cui scoperta segnò per il B. la fine del soggiorno svizzero. Su pressione dell'Austria e delle altre potenze reazionarie, il governo federale svizzero dovette emettere il 24 apr. 1823 un ordine di espulsione del B., che per qualche mese cercò di sfuggire all'ineluttabile rifugiandosi nel cantone di Vaud, ma alla fine dovette partire munito di un passaporto per l'Inghilterra. Giunto a Bruxelles il 6 maggio 1824, vi fissò la propria residenza sotto il nome di Jean-Jacques Raymond, insieme con una nuova compagna, la svizzera Sarah Desbains, che dopo il 1830 lo accompagnerà anche a Parigi, ove morrà il 20 apr. 1835.

Costretto, come già a Ginevra, a dare lezioni di musica e di italiano per vivere, fu colpito nel 1825 da una grave malattia agli occhi; tuttavia gli anni del soggiorno in Belgio costituiscono nella sua biografia il secondo momento più importante, dopo quello della cospirazione del 1796. Impegnato a fondo nella direzione della vendita centrale della carboneria francese a Bruxelles sotto il nome settario di Camille, egli da un lato vive a contatto stretto con i testimoni del grande passato, gli ex convenzionali e altri rivoluzionari che avevano trovato un rifugio nel regno dei Paesi Bassi, da Vadier (divenuto ormai suo amicissimo) e Barère a Cambon, Cavaignac, Prieur de la Marne e finanche Sieyès, e ciò contribuisce a rinvigorire quell'attesa messianica con la quale aveva attraversato gli anni della Rivoluzione; dall'altro trova un nuovo vigore nell'entusiasmo con il quale un gruppo belga di giovani liberali da Louis De Potter a Félix e Alexandre Delhasse, da Félix Temmerman ai fratelli Colignon, tutti insofferenti del giogo olandese sulle province del Belgio, lo accolsero. Certo si è, comunque, che, se il periodo ginevrino era stato quello dei sublimi maestri perfetti e dell'appoggio dato ai moti italiani, durante il periodo di Bruxelles l'Italia, a proposito della quale scrive molto all'Angeloni (notevoli alcune lettere del 1826-1828 edite da G. Romano Catania), è solo uno dei punti della sua azione e del suo pensiero, giacché proprio dal Belgio riesce a concretizzare una tela veramente e ampiamente europea. Con i Delhasse, i De Potter, i Colignon, anche se molti di costoro non possono essere considerati dei babuvisti, il B. opera effettivamente nella realtà belga e crea nella libreria dell'amico Fontana, ad Anversa, una fiorente centrale settaria; in Francia conquista due reclute di inestimabile valore nella persona del democratico Charles Teste e in quella di un pari di Francia, il marchese Marc Voyer d'Argenson, attivo carbonaro e ora conquistato integralmente alle dottrine babuviste: grazie ad essi egli può indirizzare verso i propri scopi non poche forze dell'opposizione liberale francese, influenzare la carboneria e in essa contrastare il predominio, ritenuto dannoso, di un Lafayette; lo sguardo del B. infine incomincia a rivolgersi anche verso l'Inghilterra, ove già si annoda qualche rapporto con i futuri cartisti.

Gli anni di Bruxelles sono anche gli anni di una intensa meditazione ideologica. Il B. non solo polemizza in una nutrita corrispondenza con l'Angeloni sulla diversa concezione filosofica che li divide (egli considerava il principio della forza proprio dell'Angeloni "più atto a rovinare che a fondamentare quella stessa libertà da me e da te teneramente amata") e non manca di lanciare frequenti strali contro l'eclettismo filosofico che con Victor Cousin trionfava in Francia; ma viene a contatto con altre esperienze socialiste e le sottopone a critica, per saggiarne la validità al lume del proprio babuvismo. Attraverso J. Rey e Francis Wright egli è tenuto al corrente delle idee di Robert Owen, alla cui dottrina e ai cui tentativi pratici in America guarda con simpatia, anche se resta scettico circa il modo di esecuzione intrapreso: la forza persuasiva dell'esempio non basta agli occhi dell'antico giacobino-babuvista, per il quale l'auspicata riforma sociale è strettamente legata alla detenzione del potere politico. Ancora più critico è verso il sansimonismo (un suo memoriale al riguardo è giunto a noi purtroppo solo parzialmente): la dottrina sansimoniana è insufficiente, propugnando l'abolizione dell'eredità invece di quella della proprietà, pericolosa, volendo l'eguaglianza della donna prima dellariforma dei costumi e implicando la peggior forma di dittatura, quella dei dotti e dei tecnici. Ma il fatto più importante del periodo belga fu la pubblicazione dell'opera in due volumi Conspiration pour l'Egalité dite de Babeuf,suivie du procès auquel elle donna lieu et des pièces justificatives (Bruxelles 1828) resa possibile anche dall'aiuto finanziario del De Potter. Proprio questa pubblicazione permise al B. di incidere profondamente nella storia del sec. XIX in quanto presentava il suo programma non più a pochi eletti legati da relazioni personali e dal vincolo latomico, ma in pubblico e presso ceti e persone, ove la sua azione diretta non era mai arrivata. Funzione preziosa e insostituibile, ora che il momento dell'azione stava per ritornare.

La rivoluzione parigina del luglio 1830 colse, infatti, il B. in piena attività cospirativa: Belgio, Francia, Italia erano per lui casi particolari di un unico e inscindibile problema; se sul piano ideologico molti suoi appunti mostrano che egli accentua la distinzione tra il momento della rivoluzione e quello dell'ordinamento futuro ma affida l'uno e l'altro alla stessa unica volontà dittatoriale designata dalla setta, su quello dell'azione incominciavano a profilarsi nuovi accordi con il mondo latomico francese e forse si era iniziata la creazione di quei nuovi strumenti d'azione per l'Italia che saranno gli Apofasimeni (dubbio però se questa società segreta risalga al B. o non piuttosto a Carlo Bianco di Saint-Jorioz). Il 20 agosto 1830 rientrò in Francia e, fedele ai ricordi del 1793-96, dispose la nuova azione entro la vecchia cornice montagnarda dell'iniziativa di Parigi sugli altri settori geografici. Per la Francia si assiste subito ad una vera e propria biforcazione dell'attività buonarrotiana: da un lato si fa ricorso all'azione legale e si agisce sui poteri costituiti e sull'opinione pubblica per la conquista del suffragio universale e per far accettare - mercé un'incessante propaganda - un programma sociale minimo (critica delle imposte indirette e difesa dell'imposta progressiva, emancipazione delle classi lavoratrici); dall'altro non si trascura l'azione settaria e cospiratoria tesa al colpo di forza, se non proprio comunista, almeno repubblicano e con premesse comuniste. Inoltre assai attiva fu la partecipazione del B. e dei suoi amici a quel mondo, sorto con la rivoluzione di luglio, intermedio tra la legalità e le sette, che fu costituito dalle varie società popolari e dai clubs (in particolare la "Société des Amis du Peuple" e successivamente quella dei "Droits de l'homme et du citoyen"). Come già nel 1796, il B. guarda al di là della Francia e, scoppiata la rivoluzione in Belgio, collabora all'invio da parte degli "Amis du Peuple" di un battaglione di volontari che si distinguerà in più di uno scontro e insiste perché si giunga al più presto alla proclamazione della repubblica. In tal senso pubblica il 3 nov. 1830, sul giornale La Révolution de 1830, l'articolo Sur la forme républicaine à donner au Gouvernement belge e, innanzi all'evolvere della situazione in senso opposto e al sempre più chiaro declino dell'autorità di L. De Potter, sollecitò la missione del fedelissimo Charles Teste a Bruxelles (18 nov. 1830). Oltre che il Belgio la rivoluzione di luglio mise in fermento anche il composito mondo degli esuli italiani: fu creata a Parigi una Giunta liberatrice italiana, tra i cui membri fu scelto un supremo Direttorio liberatore, costituito da Pietro Mirri, da Salfi e dallo stesso B.; tale Direttorio preparò un'azione di forza verso l'Italia e in vista di essa lanciò un proclama con una chiara affermazione repubblicana e unitaria ("cadano i troni, si infrangano le corone, e sulle loro ruine sorga la repubblica una e indivisibile dalle Alpi al mare") forse intempestiva, che suscitò la protesta di aristocratici e moderati in esilio, come la Belgioioso e il barone Poerio. E ben presto lo stesso B., il cui comunismo non mancava di suscitare diffidenze anche in esuli schiettamente democratici e suoi amici come il De Meester o Francesco Tadini, fu scavalcato. Il colpo di forza, che egli meditava in connessione con una nuova insurrezione repubblicana in Francia, si tramutò in una semplice scaramuccia alla frontiera savoiarda provocata dall'ambiguo Pisani Dossi (25 febbraio-10 marzo 1831), e il B., sdegnato, abbandonò il Direttorio liberatore. Di questo suo tentativo di ripresa dell'azione in Italia non rimase altro che l'opuscolo Riflessi sul governo federativo applicato all'Italia, pubblicato a Parigi nel marzo 1831, che denunziava il federalismo come "opera di quella fazione nobilesca e signorile, che si adopera a tutta possa onde sradicare dal cuore de' loro paesani ogni seme di affetto veramente popolare".

Deluso dagli avvenimenti italiani e da quelli belgi, ove era nata una monarchia costituzionale sotto il futuro genero dell'inviso Luigi Filippo, non per questo rinunziò a chiamare a raccolta tutte le giovani energie per il trionfo delle proprie idee in Francia. Il processo del gennaio 1832 gli sottrasse per sempre il prezioso strumento della società degli "Amis du Peuple"; il fallimento della cruenta giornata popolare del giugno 1832 a Parigi restrinse ulteriormente l'angusto campo che, dopo la prima insurrezione degli operai di Lione nel 1831, la monarchia di luglio aveva lasciato ai repubblicani per un'azione legale; infine il proprio programma comunista, ivi difeso da Voyer d'Argenson, mise a soqquadro la società dei "Droits de l'homme et du citoyen" e provocò una scissione in essa e in tutto il partito repubblicano, rinfocolando vecchi contrasti con i gruppi di obbedienza lafayettiana. Ma ostinatamente, nel 1833, il B. - attraverso la penna di Teste - ribadì i suoi ben noti principi rivoluzionari in un Projet de constitution republicaine et déclaration des principes fondamentaux de la société, pubblicato non come manifestazione del pensiero di un singolo bensì come il risultato del lavoro collettivo di tutto un gruppo. Contemporaneamente collaborò alla stesura e pubblicazione dell'agile pamphlet di Voyer d'Argenson Boutade d'un riche à sentimens populaires. Accanto a questa attività pubblicistica si assiste a tutto un lavorio da parte del B. per ripiegare di nuovo dai clubs ad organismi segreti del tipo di quelli che aveva creato al tempo della Restaurazione. L'organizzazione centrale del Mondo non era certo mai scomparsa; ma con 2 dicembre del 1832 si assiste alla creazione di nuovi centri settari che dovranno cooperare alla realizzazione del programma: la Carboneria riformata prima e la Carboneria democratica universale poi (questa seconda fu creata nell'autunno, 1833: cfr. Kuypers). Questi nuovi centri, settari presentano un certo snellimento rispetto alle organizzazioni precedenti; la vecchia vendita carbonara sussiste sempre, ma al suo interno vengono create tre commissioni permanenti che assicurano una direzione unitaria delle varie vendite. Di estremo interesse sono i formulari della Carboneria democratica universale, ove, tra l'altro, si afferma che "poiché l'ineguaglianza estende i suoi flagelli su tutta l'Europa, questa ha ovunque bisogno di una riforma sociale" e l'esistenza delle società segrete è giustificata con la corruzione del mondo circostante (motivo quest'ultimo tipicamente weishauptiano).

Lungo questa ripresa dell'attività settaria era inevitabile l'incontro, trasformatosi assai presto in uno scontro, tra il B. e Mazzini. Dopo il tentativo del 1831, anche per l'Italia il B. aveva ripiegato ancora una volta nel segreto lavorio settario, dando vita alla setta dei Veri Italiani, la quale - almeno per quanto è dato congetturare dal confronto dei relativi statuti - rappresenta nella scala della gerarchia settaria un grado superiore, quasi lo stato maggiore di quella massa d'urto che avrebbero dovuto essere i militi Apofasimeni. "La Società dei Veri Italiani - è precisato nell'articolo primo dello statuto - ha per oggetto l'unità, indipendenza e libertà d'Italia intendendo per libertà un governo repubblicano democratico istituito sulla sovranità del popolo e perfetta uguaglianza". Retta da una giunta centrale, tale società era costituita da "famiglie", ciascuna delle quali, composta da non meno di sette membri, era contraddistinta da un numero d'ordine progressivo, e cercò di diffondersi un po' dovunque, perfino nell'Africa settentrionale ove Raffaello Viviani e Nicola Magliulo organizzarono una famiglia a Bona. Tale lavorio fu favorito dalla nuova e più grossa ondata di proscritti del 1831, che era venuta quasi a sommergere gli antichi carbonari del 1821; tra i nuovi arrivati il B. troverà i suoi più stretti collaboratori per l'Italia come il modenese Luigi Mussi, il toscano Giuseppe Gherardi, il meridionale Gaetano Ceccarelli e il corso Carlo Guitera, il quale ultimo riuscì a costituire il 9 genn. 1833 in Livorno una seconda famiglia di Veri Italiani, che, attivissima sotto la presidenza di Alessandro Foggi, fu in rapporto anche con F. D. Guerrazzi e riuscì a stabilire una famiglia a Firenze e una forse a Lucca.

Tra i nuovi arrivati era anche G. Mazzini, che, sebbene ormai critico aspro dei metodi della carboneria, pure non se ne era ancora staccato del tutto e condivideva con il B. qualche idea, come quella che la Francia della rivoluzione di luglio avrebbe riattraversato tutte le fasi di quella del 1789 (lettera di Mazzini a Giglioli del 10 luglio 1831, in Epistolario, I, pp. 15-16). Tra i due vi fu qualche contatto epistolare, che presto si tramutò - pare su iniziativa del gruppo buonarrotiano - in invito alla collaborazione nell'azione. Si giunse così, nel settembre 1832, alla stipulazione delle "basi d'accordo tra la Giovine Italia e i Veri Italiani", che pur lasciando sussistere tra le due organizzazioni piena indipendenza per quanto si riferiva "alle forme ed al modo dei lavori" imponeva "comunione di consigli e di mezzi di propagazione" e obblighi precisi per il futuro "moto universale italiano". Tale "accordo di fratellanza" aprì le colonne della rivista Giovane Italia alla collaborazione dei buonarrotiani (Gherardi, ecc.) e lo stesso B. nel febbraio 1833 vi pubblicò, sotto il consueto pseudonimo di Camillo, l'articolo Del governo di un popolo in rivolta per conseguire la libertà, ove era ribadita la nota tesi della distinzione tra il periodo transitorio nel quale si attua la rivoluzione e quello della instaurazione dell'ordinamento definitivo della società.

L'articolo in questione segnò il punto di saturazione dei rapporti tra il B. e Mazzini: esso, infatti, fu pubblicato con due postille critiche nelle quali il Mazzini combatteva l'idea di un Comitato di salute pubblica per l'Italia e di una dittatura per esercitare la potestà rivoluzionaria. Si iniziò così il rapido deteriorarsi dei rapporti tra i due capi rivoluzionari e la freddezza si tramutò in aperta e aspra ostilità, quando Mazzini operò nel 1834 la sfortunata spedizione di Savoia (vedi il testo delle condanne di essa da parte della buonarrotiana Grande Vendita Cosmopolita di Parigi, in Romano Catania, pp. 216-225). Alla base della rottura non erano solo motivi di ordine psicologico, come la giovanile impazienza del Mazzini verso i metodi del senile cospiratore o la forte diffidenza del B. verso il carattere "ambizioso" del capo della Giovine Italia; erano anche e soprattutto motivi di ordine ideologico: Mazzini, nel suo misticismo unitario, rifiutava sia la concezione tendenzialmente classista del suo interlocutore sia il mito del primato rivoluzionario della Francia. L'uno viveva nell'atmosfera del nuovo mito della iniziativa italiana, l'altro nel ricordo visivo degli anni 1789-1796, come, del resto, è comprovato dal fatto che l'ultimo suo scritto sia costituito da quelle Observations sur Maximilien Robespierre, redatte tra il 1833 e il maggio 1836, che sotto la fraseologia socialista ritornano all'antico principio della "virtù" come canone centrale di interpretazione storica.

L'ultimo atto pubblico del B. fu costituito dalle due nobili lettere che inviò alla Corte dei pari e agli avvocati difensori dei centosessantaquattro repubblicani parigini e lionesi arrestati dopo lo scacco della seconda rivolta di Lione (1834), il cui scoppio egli aveva invano cercato di evitare, e il massacro di via Transnonain e processati in mezzo ad ogni illegalità nel mastodontico processo che ebbe inizio nell'aprile 1835. Tale processo disorganizzò radicalmente le fila del partito repubblicano e del movimento democratico francese. Comunque, dopo il 1835, invano cercheremmo traccia diretta e manifesta di un'azione esterna del B.: la sua attività è scesa più che mai nel profondo del mistero latomico. Il vincolo settario viene a coprire tutto il mondo buonarrotiano, ma non al punto che un'attenta analisi non riesca a individuare che nelle nuove formazioni segrete, come le Legioni rivoluzionarie e la Società delle famiglie, pulsano germi fecondi di un allargamento del comunismo buonarrotiano dal piano del consumo a quello della produzione e dalla massa agricola, sulle prime quasi l'unica a essere tenuta presente, al proletariato delle città e dell'industria nascente. Si dava così l'abbrivio a nuovi raggruppamenti di lotta politico-sociale e assai presto dalla buonarrotiana Società delle famiglie si passa a quella autenticamente proletaria delle Stagioni, guidata dagli eredi diretti del B. (Blanqui, Barbès, Martin Bernard).

Il B. si spense a Parigi il 17 sett. 1837, nella casa ospitale dell'amico Voyer d'Argenson invia Rocher; millecinquecento persone ne accompagnarono le spoglie al cimitero di Montmartre.