Buddha e Buddismo


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 Il nome dato tradizionalmente al fondatore del buddhismo , Siddhartha Gautama (o Gotama) del clan Sākya (a capo di uno staterello dell'attuale Nepal). Siddhartha sarebbe stato il figlio del re dei Sākya, e quindi un membro della casta dei guerrieri; mentre secondo un'altra tradizione sarebbe appartenuto alla casta dei brahmani (sacerdoti). Gli studiosi moderni fissano le sue date di nascita e di morte, rispettivamente, al 560 e al 480 a. C. Numerose leggende compongono la sua biografia tradizionale: tutte con un particolare significato metastorico. A prescindere dalla verità storica, e tanto per dare un senso all'azione del Buddha, ricorderemo lo schema biografico essenziale. Siddhartha, educato a corte lontano dalle miserie del mondo, scopre il dolore incontrando casualmente, durante una passeggiata, un vecchio, un ammalato, un cadavere e un monaco. Decide perciò di abbandonare la vita mondana, la moglie e il figlio per abbracciare la via dell'ascesi e segue gli insegnamenti dei due brahmani, maestri di yoga, Arāḍa Kālāma e Udraka Rāmaputra. Non pago della loro dottrina, si sottopone a straordinarie privazioni che gli procurano l'ammirazione di cinque discepoli. Poi però comprende l'inutilità dell'ascesi e abbandona tale vita. I discepoli delusi lo lasciano e se ne vanno a Benares. Siddharta, solo, si reca in un bosco e, sedutosi sotto un albero di pippal (Ficus religiosa), fa voto solenne di non muoversi di lì finché non avrà raggiunto la conoscenza. Facendo uso di tutte le pratiche yoga, attraverso una serie di meditazioni profonde, giunge infine alla “Verità”, “Conquista”, “Illuminazione” e diventa onnisciente. Decide di proclamare questa “verità” agli uomini e, per primi, ai cinque discepoli che lo avevano abbandonato.

Il "discorso di Benares"

Egli li raggiunge a Benares, dove rivela loro di essere Buddha (ossia un “illuminato”) e pronuncia il celebre “discorso di Benares”, che costituisce il nucleo fondamentale del buddhismo: essenza della vita è il dolore (prima verità), che trova la sua origine nella sete di vivere, prodotta dai desideri dei sensi e dall'ignoranza (seconda verità). È quindi necessario distruggere il dolore (terza verità) attraverso l'ottuplice sentiero, che porta alla liberazione dall'esistenza, al nirvana (quarta verità). Per quarant'anni il Buddha predicò con incessante attività la sua dottrina, facendo molti discepoli e proseliti e morì a 80 anni, dicendo allo sconsolato discepolo Ananda che “il credente sa vincere anche il dolore del distacco”, raccomandando ancora una volta l'osservanza della dottrina e ricordando che “tutto è transitorio”.

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IL BUDDHISMO

A cura di Diego Fusaro

Le origini

Il termine Buddha in lingua pali significa "chi conosce o raggiunge l'illuminazione". Il fondatore del Buddhismo si chiamava in realtà Siddharta, ed aveva come patronimico quello di Gautama o Gotama. Nacque in una famiglia principesca, del clan dei Sakya, che viveva a Kapilavastu, in una regione che oggi fa parte del Nepal, a 170 chilometri circa dall'odierna Benares. Nacque verso la metà del 6° secolo a.C. Suo padre si chiamava Suddhodana e la madre Mahamaya. Il giovane principe venne allevato in mezzo al lusso, avendo a disposizione tutte le comodità ed i piaceri. A 19 anni sposò una donna bellissima, Yasodhara. Per molti anni condusse una vita fatta di lusso e felicità domestica. Ma un giorno il giovane incontrò un vecchio, un malato, un morto ed un monaco. Quelle quattro realtà lo colpirono profondamente. Dopo essersi reso conto che la vecchiaia, la malattia e la morte sono la sorte dell'umanità e che vi sono delle persone che aspirano ad una vita diversa, decise di dedicarsi anche lui alla ricerca della verità. Aveva 29 anni quando decise di lasciare tutto e di ritirarsi in luoghi solitari per meditare. Si addentrò nella foresta, si rase il capo, indossò l'abito giallo di un eremita e per sei lunghi anni cercò una soluzione. Interrogò famosi sapienti, si diede all'ascetismo più rigido ma non riuscì a trovare la Risposta. Una notte, infine, si sedette sotto un albero e promise che non si sarebbe mosso da lì finché non avesse trovato la Risposta. Sotto quell'albero combatté l'ultima battaglia, quella contro le inclinazioni e i desideri del cuore umano, la battaglia contro l'amore per il mondo, l'illusione, l'aspirazione ad esistere e a gioire, contro il desiderio dell'onore, della felicità, della vita familiare, del benessere, del potere ecc. Fu assalito dal demone Mara, ma Siddharta superò le tentazioni. Dopo quarantanove giorni di meditazione, in una notte di luna piena del mese di maggio, in un luogo noto come Buddhagaya, egli raggiunse l'illuminazione. Da allora fu noto come "il Buddha". Aveva circa trentacinque anni. Da quel giorno percorse per altri quarantacinque anni il nord dell'India insegnando e predicando il suo messaggio di speranza e di felicità. Buddha morì all'età di 80 anni a Kusinara, in una notte di luna piena nel mese di karttika (ottobre-novembre).

Alla sua comunità, Buddha aveva lasciato solo la dottrina (Dhamma o Dharma), che è conosciuta come le Quattro Nobili Verità. Esse sono: 1) c'è il dolore; 2) il dolore ha una causa; 3) il dolore può essere superato; 4) il modo per eliminare il dolore è pratica l'Ottuplice Sentiero. Vediamo in breve i vari punti.

    Il dolore o la sofferenza (dukkha) è un fatto universale. "E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l'unione con quel che dispiace è dolore; la separazione da ciò che piace è dolore; non ottenere ciò che si desidera è dolore; in una parola, dolore sono i cinque elementi dell'esistenza individuale".

    La causa del dolore è il desiderio ovvero brama ovvero sete (tauha). "Questa, o monaci, è la santa verità circa l'origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione".

    Come può cessare il dolore? "Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa sete, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi". Esiste dunque uno stato in cui c'è libertà completa dalla sofferenza e da ogni schiavitù, uno stato in cui si gode della pace assoluta, che è il Nirvana (o Nibbana).

    La via che conduce alla soppressione del dolore è l'Ottuplice Sentiero: "Questa, o monaci, è la santa verità circa il sentiero che conduce alla soppressione del dolore: è l'augusto ottuplice sentiero, e cioè: retta fede, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione". Questo Ottuplice Sentiero porta a prendere coscienza di sé, del proprio intimo, porta alla sapienza e fuga l'ignoranza; il suo frutto consiste nella serenità, nella conoscenza e nella illuminazione, che è il Nirvana, lo stato di pace perfetta e di perfetta felicità.

Per chiarire meglio in che cosa consiste il Nirvana, dobbiamo ricordare che il Buddhismo ha ereditato dall'Induismo il concetto del karma. Il karma è la nostra azione o, meglio, in senso morale, è il frutto della nostra azione, il nostro merito o demerito. Fintanto che vi sarà karma, un essere nascerà e rinascerà. Questa però non vuole essere una dottrina deterministica poiché si è sempre liberi di agire per il meglio o per il peggio. È la volontà e non tanto la sola azione che riveste importanza nel produrre nuovo karma. Questa situazione è forse destinata a continuare per sempre? No, per il Buddhismo non sarà sempre così. C'è infatti la possibilità di arrivare al Nirvana per porre fine alle sofferenze, per essere liberati dalla ruota delle nascite e delle rinascite. Si tratta di uno stato di beatitudine suprema, di pace e di tranquillità interiore, accompagnato dalla certezza di aver ottenuto la liberazione; è uno stato non descrivibile a parole; solo chi lo ha sperimentato può sapere che cos'è. Infatti può essere raggiunto in questa vita e non in uno stato futuro. Né è una condizione che solo pochi possono fare propria. Tutti sono in grado di raggiungerlo, anche se sono molto pochi coloro che vi giungono in maniera perfetta durante questa vita. La beatitudine dei perfetti (Arahat) dopo la morte è chiamata Parinirvana, e costituisce ovviamente l'ultimo stadio del nirvana.Tale è il traguardo a cui l'Ottuplice Sentiero può condurre il fedele.

La teoria della anatta. Il Buddhismo respinge la nozione di anima intesa come la sostanza individuale, personale, autonoma e immortale nei confronti del corpo. Esso sostiene al contrario che non c'è nessuna anima, dunque c'è una non-anima, che chiama anatta. In altre parole, l'anima o l'io o il sé non esistono. Quel che è detto "io" è una combinazione continuamente mutevole di forze ed energie mentali e fisiche, che sono di per sé vuote, irreali. Noi siamo abituati a dire che il corpo o le abitudini o i pensieri di una persona appartengono ad un sé, ed in questo modo suggeriamo che, oltre a ciò che è posseduto, vi sia anche un possessore - l'io - di tali processi. In realtà, secondo il Buddhismo, questo è soltanto un modo di dire: la dottrina della anatta nega insomma che il cosiddetto sé sia una sostanza indipendente dai processi che formano una persona. Si tenga inoltre presente che per il Buddhismo la credenza in un sé sostanziale è proprio alla base della sofferenza, perché tale credenza rende possibile l'attaccamento dei vari processi appunto ad un sé che soffrirebbe: io soffro, io gioisco, io agisco… Questo errore fondamentale, questo ignorare quale sia la verità (per il Buddhismo) permette l'attaccamento e rende perciò reale la sofferenza ed impossibile a superarsi.

Il Sangha. Un altro concetto molto importante nel Buddhismo è la "comunità" o sangha. Il sangha è l'ordine dei monaci buddhisti (bhikku). Oggi il Buddhismo è diviso, grosso modo, nella scuola meridionale o Theravada ( diffuso in Birmania, Sri Lanka, Thailandia, Cambogia), chiamata anche Piccolo Veicolo, e nella scuola settentrionale, forse più conosciuta ai profani, del Mahayana (diffuso in Tibet, Mongolia meridionale, Cina, Giappone, Corea, Vietnam), chiamata Grande Veicolo. Queste due scuole sono due aspetti complementari di un tutto. Il Buddhismo, pur sorto in India, ha saputo adattarsi ai popoli e alle culture in cui si è diffuso. Il primo Buddhismo era contrario ai riti e alle cerimonie, alle preghiere e alle osservanze. Buddha stesso non designò alcun successore né diede direttive riguardo una forma particolare di organizzazione. Col passare del tempo fu però necessario ricorrere a qualche forma di organizzazione per tenere insieme la comunità (sangha). Essa è stata così costretta a stabilire vari gradi all'interno della comunità. Vi è dunque il novizio; quindi il monaco vero e proprio; poi l'anziano e in ultimo il grande anziano. Tra i monaci non esistono comunque segni di distinzione. La disciplina è regolata da un codice, Patimokkha, che contiene 227 precetti. È cosa relativamente semplice farsi buddhista: buddhista è chi venera il Buddha come la guida o il maestro spirituale più alto, e che si sforza di vivere in conformità ai suoi insegnamenti. Chiunque vuole diventare seguace di Buddha dichiara la propria intenzione usando la formula seguente, detta Tirasana (i tre rifugi), recitata abitualmente in lingua pali, che si può tradurre così: "Al Buddha come rifugio io vado; al Dharma come rifugio io vado; al Sangha come rifugio io vado".

Le feste buddhiste. Il giorno di riposo è il sabato. Le tre feste più importanti sono il Capodanno, il Giorno del Buddha e la Quaresima. Il Capodanno cade in genere nel mese di aprile. La celebrazione dei primi due giorni del nuovo anno comprende la Festa dell'acqua. La gente offre recipienti di acqua fresca ai suoi anziani e regala loro dei doni utili in segno di rispetto e per chiedere la loro benedizione; a loro volta gli anziani rispondono elargendo quattro grazie, e cioè lunga vita, bell'aspetto, tranquillità ed energia. Inoltre si getta per divertimento dell'acqua addosso ai passanti. Le due pratiche sono interpretate come un lavaggio dalla "sporcizia" accumulata nel corso dell'anno. L'acqua viene gettata addosso agli altri anche allo scopo di ottenere pioggia più abbondante nella imminente stagione della semina del riso. Infine la festa serve anche a farsi dei meriti andando a visitare i propri defunti. La gente, dopo aver offerto del cibo ai monaci nei monasteri, affolla le pagode dove sono sepolte le ceneri e le ossa cremate degli antenati.

Nel Giorno del Buddha si commemorano la nascita, l'illuminazione e la morte di Buddha. Infatti in un giorno di luna piena del mese di maggio venne alla luce Siddharta Gautama; in un giorno di luna piena di maggio egli ebbe l'illuminazione, e in un giorno di maggio morì o, per meglio dire, entrò nel Parinirvana.

La Quaresima buddhista dura tre mesi, dalla luna piena di luglio alla luna piena di ottobre. In questo periodo, i monaci non possono viaggiare e non possono passare la notte fuori dal monastero se non in caso di gravi necessità. In tale epoca non si possono celebrare matrimoni, non si possono svolgere giochi e altre forme di divertimento pubblico, ed i devoti cercano di osservare il sabato più spesso che possono.

L'etica buddhistica

Fin dagli inizi il buddhismo distinse certi valori umani assoluti, universali, validi per tutti, e dei precetti più rigidi la cui osservanza è propria dei monaci. Le cinque regole raccomandate ai laici sono (Panca sila): rispetto della vita, astenersi dal furto, castità, non mentire, non bere bevande alcoliche. Le cinque regole obbligatorie per i monaci, oltre alle cinque precedenti, sono: disciplina nell'ora dei pasti (cioè mangiare nel momento prescritto), non ricercare i piaceri mondani, evitare unguenti ed ornamenti; non usare letti ampi e comodi, non ricevere denaro. In queste prescrizioni il buddhismo non fu originale: un catalogo simile si ritrova ad es. nello Yoga. L'originalità del buddhismo è altrove. I precetti morali non hanno di mira l'individuo singolo, isolato, che ha di mira la propria salvezza; piuttosto considerano l'uomo come vivente in mezzo agli altri: non basta non fare del male, non basta non uccidere o non offendere, bisogna altresì partecipare amorosi alla vita altrui, avere simpatia per i propri simili, rallegrarsi delle loro gioie e commiserare e alleviare i loro dolori. In altre parole, simpatia e pietà introducono un elemento positivo nella morale; la quale non è più l'eliminazione o cessazione del male ma diventa un comandamento positivo: qualche cosa che bisogna fare, e a fare non per sé ma per gli altri. La morale buddhistica immette cioè nella morale indiana il senso del collettivo. L'uomo è sì artefice del proprio destino, deve evitare il male e superare le passioni e l'egoismo, ma questa purificazione non è un rigido ed austero estraniarsi dal mondo; essa trova il proprio esercizio e il terreno fecondo nella vita consociata. La morale del laico si differenzia per questo dalla morale dell'asceta: il quale necessariamente deve sottostare ad altri obblighi e limitazioni. Il contrasto tra le due morali non è stato forse per nessuna scuola così palese come nel Buddhismo: accanto a quei comandamenti universalmente validi, abbiamo la tecnica sottile, ingiunta ai monaci, per detergere tutte le macchie, distrazioni ed egoismi dal più profondo della mente, e rendere questa cristallina e pura, onde le passioni e il karma conseguente non abbiano più presa sull'uomo. Su questa prassi si innesta il processo della meditazione, dell'ottenimento della perfetta quieta, della soppressione intera della passione, della restituzione della mente alla sua assoluta, immobile serenità. Ma sulla morale laica, riscaldata dai principi della simpatia e della pietà, fiorì lo spirito di rinuncia e di sacrificio che rappresenta il centro del Grande Veicolo. Nel Mahayana infatti l'amore trionfa nella figura del Bodhisattva, che è tutto abnegazione e sacrificio. Le sei o dieci perfezioni che deve praticare il Bodhsattva per tramutarsi in Buddha muovono dalla perfezione della Legge, dalla pazienza, dalla rinuncia di se medesimi, dalla costanza: virtù che l'agiografia tradizionale celebra di continuo ad edificazione dei fedeli, ripetendo le gesta del Buddha. Tale spirito di sacrificio è assoluto, nel senso che non basta sacrificare i propri beni o la propria vita. Il Bodhsattva rinuncia al risultato karmico del bene che compie, e fa voto di assumere su di sé i peccati altrui e trasferire la propria gioia e i propri meriti agli altri. Questo supremo sacrificio si chiama parinamana, trasferimento del karma altrui sul Bodhisattva; esso diventa uno dei fattori necessari della elevazione spirituale e sta a significare l'assoluta abnegazione che deve animare il Bodhisattva.

Nagarjuna

Visse verso la fine del 2° secolo d.C. Secondo una biografia mitica cinese, era nato nell'India meridionale. Di casta brahmanica, studiò i Veda e apprese tutte le scienze, compresa la magia, grazie alla quale sapeva rendersi invisibile. Approfittando di quest'arte, penetrò nell'harem del re; scoperto, riuscì a fuggire e si fece monaco buddhista, e diffuso il buddhismo nell'India meridionale. È considerato il fondatore di una importante scuola del buddhismo, quella dei Sunya-vadin,ed è l'autore di un celebre testo, i Madhyamikakarika, oltre a numerose altre opere.

Nagarjuna dimostra che le cose, essendo reciprocamente condizionate, non hanno realtà in sé. Non c'è un soggetto e un oggetto. Nessuna cosa è esistente in sé: esiste in quanto in relazione con le altre. La sua individualità e singolarità è una supposizione erronea. Del mondo dell'esperienza non si può, in verità, predicare nulla: esso è contraddittorio e nessun concetto è valido per spiegarlo. Nagarjuna cerca di ridurre all'assurdo ogni possibile teoria. È un criticismo estremo che afferma la relatività di ogni pensiero e di ogni essere: come ogni cosa non ha un'esistenza reale e il suo essere è puramente apparente, così nessun concetto è indipendente. Pensare è supporre sempre una relazione; quando il processo dialettico ha dimostrato l'insostenibilità logica di tutto il pensato, quella cessazione o arresto è il vuoto, la vacuità, l'inesprimibile, al di là di ogni designazione. Nagarjuna fa l'esempio di un malato agli occhi che immagina di vedere macchie o punti. Chi non sappia di essere malato prende quelle macchie per vere e reali; chi sa di essere malato, pur non potendo eliminare quel difetto, sa che la persona sana ne è priva e per lei quelle macchie non esistono. Così la vera vista è quella che scopre l'identità estrema oltre tutti gli opposti e tutti i concetti, identità nella quale appunto samsara e buddhità si equivalgono: il reale trascende ogni dualità. La vacuità (sunyata) è il fondamento di tutto. Essa non è il puro nulla ma la negazione, come già accennato, di ogni categoria mentale, anche la più generale e astratta, per cui della realtà in sé non si può dire né che esiste né che non esiste perché trascende il nostro pensiero. Anche il Buddha, il nirvana e le altre categorie buddhistiche sono in sé inesistenti, hanno soltanto un valore strumentale e servono come ideali a cui deve tendere la nostra azione. Chi crede nella realtà dei fenomeni si irretisce nel ciclo delle nascite e rinascite, chi invece si convince della loro illusorietà e crede nella vacuità, non si attacca al mondo e ottiene la liberazione.

Il Buddhismo tibetano

Il Buddhismo tibetano pratica la forma del "Veicolo di diamante"(vajrayana).Secondo la tradizione, la penetrazione del buddhismo nel Tibet è legata all'opera del re Sron-btsan-sgam-po (620-649 ca.) ma è probabile che una prima penetrazione di dottrine buddhiste di provenienza cinese e centro-asiatica si sia verifica ancora prima di quest'epoca. Il periodo che va dal X al XV secolo vide il consolidamento del Buddhismo in Tibet e la definitiva sistemazione del Canone, che risultò diviso in due grandi sezioni, una contene l'altra la letteratura esegetica. ente i sutra, il tantra, le regole di disciplina. La crescente mondanizzazione della setta Sa skya pa (così chiamata dal monastero di Sa Skya, fondato nel 1073), finì con l'accentrare il potere temporale nelle mani dei religiosi e consentì loro di esercitare per esecoli un forte dominio teocratico su tutto il paese. Tale potere venne legittimato politicamente dallo stesso Kubilai khan (capo dei tartari, nipote di Gengis Khan) nel XIII secolo, che concesse loro la sovranità (ereditaria di fatto, in quanto gli abati di questa setta, non vincolati al celibato, potevano contrarre matrimonio e quindi trasmettere il potere ai propri figli) su tutto il Tibet. Si stabilirono in questo modo quelle relazioni ufficiali tra i due popoli che porteranno al vassallaggio del Tibet sotto i Mongoli e poi sotto la Cina.

Il buddhismo tibetano è chiamato lamaismo dal termine lama, cioè maestro. Il potere teocratico del lamaismo si esercita attraverso una comunità fortemente gerarchizzata a capo della quale sono due Lama: il Dalai Lama (=maestro che è oceano di saggezza) e il Pan c'en-Lama. Il primo risiedeva nel convento Potala a Lhasa e deteneva il potere supremo sul Tibet; il secondo invece dimorava nel monastero di Ta-shi-lhum-po e deteneva il potere spirituale. In ordine di dignità ai due grandi Lama, seguono 180 Hutuktu, considerati incarnazioni di bodhisattva e di dèi. Ogni volta che un Lama muore, i dignitari religiosi si pongono alla ricerca di un bambino nel quale si può avere la certezza (in base ad eventi straordinari) che si è rifugiata l'anima del Lama defunto: ove le prescritte prove di accertamento confermino la validità delle scelte, il predestinato viene ad occupare di diritto il posto del Lama deceduto.

Tra i culti più notevoli praticati dai lamaisti vi è quello dei "Buddha viventi", ossia dei grandi monaci i quali, durante le funzioni liturgiche, sono fatti oggetto di venerazione come esseri divini. Il Lamaismo è oggi presente, oltre che in Tibet, in Mongolia, nella Cina del Nord e dell'Ovest, in Turkestan, Nepal, Bhutan e Sikkim.

Il Buddhismo Zen

Lo Zen è una forma particolare di Buddhismo. La parola zen è un termine giapponese derivato dal cinese ch'an o shan, a sua volta trascrizione del sanscrito dhyana, ossia meditazione. È infatti una corrente del buddhismo che ebbe origine in Cina al principio del 6° sec. d. C. Dalla Cina si diffuse in Giappone con il monaco Eisai verso il 1190. Qui lo Zen ebbe grande fioritura e diede vita a numerose correnti (Rinzai, Soto ecc.), molte delle quali ancora attive.

Lo Zen non conosce dèi, non ricerca l'immortalità e non ammette concetti come peccato o anima. Non è né una religione né una filosofia in senso occidentale; è semmai un sistema di vita. Che cosa fa una persona che segue lo Zen? Essa si educa gradualmente a cogliere la realtà senza mediazioni intellettuali ma vivendola nella pienezza del momento.

È la qualità dell'esperienza qui e ora, e non la precisione della ragione, che assume la massima importanza per il seguace dello Zen. La pratica fondamentale dello Zen è lo zazen, che viene intrapresa al fine di ottenere le condizioni ottimali per vedere direttamente in se stessi e scoprire nella purezza della propria esistenza la vera natura dell'essere. Lo Zen crede che la persona comune sia presa in un groviglio di idee, teorie, riflessioni, pregiudizi, sentimenti ed emozioni tali che non le permettono di cogliere la verità e la realtà ma solo frammenti di essa. Lo scopo dello zazen è dunque quello di liberare l'individuo e di consentirgli di entrare in modo pieno e diretto nella realtà. Vi sono tre mete che lo zazen si propone. La prima consiste nell'aumentare i poteri di concentrazione eliminando tutti i fattori di distrazione e tutti i dualismi (soggetto e oggetto, realtà e apparenza, bene e male ecc.). La seconda mira al conseguimento del satori, ossia di una sorta di illuminazione (essa presuppone un intenso allenamento: per ottenere il satori, vengono in aiuto i koan, stratagemmi usati dal maestro per far ottenere l'illuminazione al discepolo). La terza infine consiste nel vivere l'illuminazione nella vita di tutti i giorni. In questo modo qualsiasi azione e qualsiasi momento sono vissuti nella pienezza e nella profondità della verità.

Storie Zen

Nan-in, un Maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il te. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il te, poi non riuscì più a contenersi. "E’ ricolma. Non ce n’entra più!". "Come questa tazza" disse Nan-in "tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza ?".

Gli insegnanti di Zen abituano i loro giovani allievi a esprimersi. Due templi Zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni mattina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure, incontrava l’altro per la strada. "Dove vai?" domandò il primo. "Vado dove vanno i miei piedi" rispose l’altro. Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere aiuto al suo maestro. "Quando domattina incontrerai quel bambino" gli disse l’insegnante "fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu domandagli: "Fa’ conto di non avere i piedi: dove vai, in quel caso?". Questo lo sistemerà. La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo. "Dove vai?" domandò il primo bambino. "Vado dove soffia il vento" rispose l’altro. Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al maestro la propria sconfitta. "E tu domandagli dove va se non c’è vento" gli consigliò il maestro. Il giorno dopo i ragazzi si incontrarono per la terza volta. "Dove vai ?" domandò il primo bambino. "Vado al mercato a comprare le verdure" rispose l’altro.

Il grande santo buddhista Nagarjuna andava in giro tutto nudo, con solo il perizoma e, paradossalmente, una ciotola dorata per raccogliere l’elemosina, dono del re che era suo discepolo. Una sera stava per mettersi a dormire, fra le rovine di un antico monastero, quando si accorse che un ladro lo stava spiando da dietro una colonna. "Tieni, prendila", disse Nagarjuna, porgendogli la ciotola. "Così non mi verrai a disturbare quando sarò addormentato". Il ladro arraffò la ciotola e fuggì via, per ritornare però il mattino seguente con la ciotola e una richiesta: "Quando ieri sera mi hai regalato questa ciotola con tanta generosità, mi hai fatto sentire molto povero. Insegnami come fai a procurarti la ricchezza che ti permette di avere questo sereno distacco dalle cose".

Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino. Il suo insegnante aveva una preziosa tazza da tè, un oggetto antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu ruppe questa tazza e ne fu molto imbarazzato. Sentendo i passi dell’insegnante, nascose i cocci della tazza dietro la schiena. Quando comparve il maestro, Ikkyu gli domandò: "Perché le gente deve morire?" "Questo è naturale" spiegò il vecchio. "Ogni cosa deve morire e deve vivere per il tempo che le è destinato." Ikkyu, mostrando la tazza rotta, disse: "Per la tua tazza era venuto il tempo di morire".

Un giovane andò da un maestro e gli chiese: "Quanto tempo potrò impiegare per raggiungere l’illuminazione?" Rispose il maestro: "Dieci anni". Il giovane era sbalordito. "Così tanto?" domandò incredulo. Replicò l’altro: "No, mi sono sbagliato, ci vorranno venti anni". Il giovane chiese: " Perché hai raddoppiato la cifra?" Allora il maestro spiegò: "Adesso che ci penso, nel tuo caso ce ne vorranno probabilmente trenta".

Ti sei svegliato prima dell'alba, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Quando il sole era basso hai attraversato tutta la pianura, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Mentre il sole era alto nel cielo hai cercato tra le piante di tutta la foresta, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Il sole era rosso nel cielo mentre tu cercavi sulla cima di tutte le colline, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Ora sei stanco e ti riposi sulla riva di un ruscello, guardi nell'acqua ed ecco il tuo nemico: l'hai trovato.

Un uomo perse il suo anello più prezioso; cercò ovunque per ritrovarlo, ma nonostante la sua fatica non ci riuscì. Si sedette su una pietra, disperato, cercando inutilmente di sopprimere la sua disperazione. Come al solito il suo cane gli si avvicinò cercando le carezze del padrone. Il vicino di casa lo salutò come ogni sera. Gli amici gli fecero vedere i pesci che avevano pescato e gliene regalarono alcuni. La moglie e i figli lo accolsero con affetto al suo arrivo a casa esattamente come accadeva sempre. La giornata si concluse nella pace familiare. Purtroppo il tormento per la perdita dell'anello perseguitava ancora l'uomo, il quale però pensò: "nessuno si è accorto che ho perso l'anello, tutti si sono comportati con me come sempre, perché proprio io devo comportarmi in modo diverso con me stesso?". Fu così che si addormentò sereno.

Il maestro Tanzan era in viaggio con il suo allievo Ekido lungo una strada fangosa. Ad un certo punto incontrarono una bella ragazza in kimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare quella melma, senza rovinare il suo bel vestito. Senza problemi, Tanzan la prese in braccio e la trasportò sull’altro lato della strada. Ekido rimase pensieroso per tutto il giorno. Alla sera, non resistendo più, chiese apertamente al maestro: "Noi monaci non avviciniamo le donne, è pericoloso. Perché l’hai fatto?" Tanzan rispose: "Io quella ragazza l’ho lasciata laggiù. Tu la stai ancora portando con te"

Non cercare di seguire le orme dei saggi. Cerca ciò che essi cercavano.

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Siddhārtha Gautama, meglio conosciuto come Gautama Buddha, il Buddha storico, Buddha Śākyamuni  o semplicemente Buddha (Lumbini, 566 a.C. – Kuśināgara, 486 a.C.), è stato un monaco buddhista, filosofo, mistico e asceta indiano, fondatore del Buddhismo, una delle più importanti figure spirituali e religiose dell'Asia.

Visse approssimativamente tra il 566 a.C. e il 486 a.C. e proveniva da una famiglia ricca e nobile del clan degli Śākya, da cui anche l'appellativo Śākyamuni (l'asceta o il saggio della famiglia Śākya).

Un solo Gautama Buddha, diversi nomi

Il termine sanscrito e pāli Buddha indica, nel contesto religioso e culturale indiano, "colui che si è risvegliato" o "colui che ha raggiunto l'illuminazione".

Altri appellativi con cui viene spesso indicato Gautama Buddha sono i termini sanscriti:

    * Tathāgata: "Il Così Andato" o "Il Così Venuto", epiteto con cui Gautama Buddha indica sé stesso nei suoi sermoni, uguale alla forma pāli che compare di frequente nel canone pāli;
    * Śākyamuni: "Il saggio dei Śākya" (riferito al clan a cui apparteneva Gautama Buddha), utilizzato soprattutto nella letteratura del Buddhismo Mahāyāna (Sakyamuni nel canone pāli);
    * Sugata: "Il Bene Andato", utilizzato soprattutto nell'ambito delle scritture del Buddhismo Vajrayāna ma frequente anche nel canone pāli;
    * Bhagavān: "Signore", "Venerabile", "Illustre", Beato, Sublime, Perfetto. Dal sostantivo sanscrito bhaga, "ricchezza", "fortuna". Nella letteratura buddhista indica il Buddha.
    * Bodhisattva: "colui che sta percorrendo la via per diventare un buddha", o "colui che cerca di conseguire il 'Risveglio'" o "colui la cui mente (sattva) è fissa sulla bodhi", usato per indicare Gautama prima del conseguimento della buddhità.
    * Nella letteratura di scuola Theravāda viene indicato con il nome pāli di Gotama Buddha.

La vita di Gautama Buddha secondo le tradizioni buddhiste

A rigore la vita di Gautama, nella tradizione buddhista, è preceduta da innumerevoli altre rinascite, non dettate da una trasmigrazione di un'anima individuale, né di alcuna forma di reincarnazione ma dalla successione di vite legate fra loro dalla trasmissione degli effetti del karma.
Queste vite anteriori, che nella tradizione fanno parte integrante della vita di Gautama, vennero incluse nel canone, sono formate da 547 racconti edificanti in cui compaiono animali, déi, e uomini delle più diverse estrazioni sociali e castali.

Le fonti

Sulla vita di Gautama Buddha esistono numerose tradizioni canoniche. La più antica biografia autonoma di Gautama Buddha ancora oggi disponibile è il Mahāvastu, un'opera della scuola Lokottaravāda del Buddhismo dei Nikāya risalente agli inizi della nostra Era, redatta in sanscrito ibrido.

Poi conserviamo anche il Lalitavistara, l'Abhiniṣkramaṇasūtra (di questo sutra disponiamo ben cinque versioni nel Canone cinese conservate nel Běnyuánbù) e il Buddhacarita di Aśvaghoṣa.

Più tarda (IV, V secolo d.C.) è la raccolta biografica, sempre autonoma, contenuta nel Mūla-sarvāstivāda-vinaya-vibhaṅga. Episodi della sua vita (ma non come biografie autonome) si conservano anche nelle raccolte dei suoi discorsi riportati negli Āgama-Nikāya.

Secondo Erich Frauwallner tutto questo materiale biografico (autonomo o inserito nelle raccolte dei sermoni di Gautama Buddha) farebbe parte di una prima biografia composta un secolo dopo la sua morte, e inserita come introduzione allo Skandhaka, a sua volta un testo del Vinaya. Di diverso avviso sono altri studiosi come Étienne Lamotte e André Bareau per i quali invece le biografie di Gautama Buddha hanno subìto una graduale evoluzione partendo proprio dalle narrazioni episodiche contenute negli Āgama-Nikāya e nei Vinaya per poi evolversi nelle raccolte autonome come il Mahāvastu.

La nascita

Nel complesso queste biografie tradizionali narrano della sua nascita avvenuta nel Nepal meridionale, a Lumbinī (non distante da Kapilavastu), e raccolgono numerosi racconti e leggende che hanno l'obiettivo di evidenziare la straordinarietà dell'avvenimento: miracoli che ne annunciano il concepimento, chiari segnali che il bimbo che stava per venire al mondo sarebbe stato un Buddha.

La sua famiglia di origine (gli Śākya significa "potenti" ) si dice fosse ricca: una stirpe guerriera che dominava il paese e che aveva come capostipite leggendario il re Ikṣvāku.

Il padre di Siddartha, il rāja Śuddhodana, regnava su uno dei numerosi stati in cui era politicamente divisa l'India del nord. La madre di nome Māyā (o Mahāmāyā) è descritta di grande bellezza.

Nel Buddhacarita, Mahāmāyā sognò che un elefante bianco le penetrò nel corpo senza alcun dolore e ricevette nel grembo, "senza alcuna impurità", Siddharta che fu partorito nel bosco di Lumbinī dove il figlio le nacque da un fianco senza alcun dolore. Siddharta, sempre secondo il racconto del Buddhacarita, nacque pienamente cosciente e con un corpo perfetto e luminoso e dopo sette passi pronunciò le seguenti parole:
  
 «Per conseguire l'Illuminazione io sono nato, per il bene degli esseri senzienti; questa è la mia ultima esistenza nel mondo»
    (Aśvaghoṣa. Buddhacarita, canto I, 15)

Sempre secondo il Buddhacarita (canto I) dopo la nascita di Siddartha furono invitati a corte brahmani e asceti per una cerimonia di buon auspicio. Durante questa cerimonia si racconta che il vecchio saggio Asita trasse, com'era consuetudine, l'oroscopo del nuovo nato e riferì ai genitori dell'eccezionale qualità del neonato e la straordinarietà del suo destino: tra le lacrime, spiegò che egli sarebbe infatti dovuto diventare o un Monarca universale (Chakravartin, sans., Cakkavattin, pāli), oppure un asceta rinunciante destinato a conseguire il risveglio, che avrebbe scoperto la Via che conduce al di là della morte, ossia un Buddha[7]. Alla richiesta di spiegazioni sulla ragione delle sue lacrime, il vecchio saggio spiegò che erano dovute sia alla gioia d'aver scoperto un tale essere al mondo, sia alla tristezza che gli derivava il constatare che la sua età troppo avanzata non gli avrebbe permesso di ascoltare e di beneficiare degli insegnamenti di un tale essere realizzato. Si fece pertanto giurare dal nipote Nālaka che lui avrebbe seguito il Maestro una volta che fosse cresciuto e che ne avrebbe imparato e messo in pratica gli insegnamenti.

Il padre rimase turbato dalla possibilità che il figlio lo abbandonasse, privandolo della legittima successione al trono, e organizzò tutto quanto potesse impedire l'evento premonito. La madre Māyā morì a soli sette giorni dal parto e il bimbo venne quindi allevato dalla seconda moglie del re Suddhodana, Pajāpatī, una sorella minore della defunta Māyā, nel più grande sfarzo. Figlio, quindi, di un rāja, cioè di un capo eletto dai maggiorenti cui era affidata la responsabilità del governo, ricevette il nome di Siddharta (="quegli che ha raggiunto lo scopo") Gautama ("l'appartenente al ramo Gotra degli Śākya").

Siddharta mostrò una precoce tendenza contemplativa, mentre il padre l'avrebbe voluto guerriero e sovrano anziché monaco. Il principe si sposò giovane, all'età di sedici anni, con la cugina Bhaddakaccānā, nota anche con il nome di Yashodharā, con la quale ebbe, tredici anni più tardi un figlio, Rāhula. Nonostante però fosse stato allevato in mezzo alle comodità e al lusso principesco e fatto partecipare alla vita di corte in qualità di erede al trono, la profezia del saggio Asita puntualmente s'avverò.

La fuga

All'età di 29 anni, ignaro della realtà che si presentava fuori della reggia, uscito dal palazzo reale paterno per vedere la realtà del mondo circostante, testimoniò la crudezza della vita in un modo che lo lasciò attonito. Incontrando un vecchio, un malato e un morto (altre fonti narrano di un funerale), comprese improvvisamente che la sofferenza accomuna tutta l'umanità e che le ricchezze, la cultura, l'eroismo e tutto quanto gli avevano insegnato a corte erano valori effimeri e caduchi. Capì che la sua era una prigione dorata e cominciò interiormente a rifiutare agi e ricchezze. Poco dopo essersi imbattuto in un monaco mendicante, calmo e sereno, stabilì di rinunciare alla famiglia, alla ricchezza, alla gloria ed al potere per cercare la liberazione[9]. Secondo il Buddhacarita (canto V), una notte, mentre la reggia era avvolta nel silenzio e tutti dormivano, complice il fedele auriga Chandaka, montò sul suo cavallo Kanthaka e abbandonò la famiglia ed il reame per darsi alla vita ascetica[10]. Secondo un'altra tradizione comunicò piuttosto la propria decisione ai genitori e, nonostante le loro suppliche e lamenti, si rase il capo e il volto, smise i suoi ricchi abiti e lasciò la famiglia e la casa. Fece voto di povertà e compì un percorso tormentato d'introspezione critica. La tradizione vuole ch'egli abbia intrapreso la ricerca dell'illuminazione a 29 anni (536 a.C.).

La pratica della meditazione

Dopo la fuga dalla società, abhiniṣkramaṇa, Gautama si diresse dall'asceta Āḷāra Kālāma che soggiornava nela regione del Kosala. Lì si esercitò sotto la sua guida nella meditazione e nell'ascesi, per conseguire la ākiñcaññayatana, la "sfera di nullità" che per Āḷāra Kālāma coincideva col fine ultimo della liberazione, mokṣa.
Insoddisfatto del conseguimento, Gautama si spostò quindi verso la capitale del regno Magadha per seguire gli insegnamenti di Uddaka Rāmaputta. Per questi la liberazione era conseguibile attraverso la meditazione che, una volta esercitata tramite le quattro jhāna, portava alla sfera del nevasaññānāsaññāyatana, la sfera della né percezione né non-percezione.

Pur avendo raggiunto la meta indicata dal maestro, Gautama non si ritenne soddisfatto e decise di lasciarlo per stabilirsi presso il piccolo villaggio di Uruvelā, dove il fiume Nerañjarā (l'odierno Nīlājanā) confluisce nel Mohanā per formare il fiume Phalgu, a pochi kilometri dall'odierna Bodh Gaya. Qui trascorse gli ultimi anni prima dell'illuminazione, insieme a cinque discepoli di famiglia brahmanica: i venerabili Añña Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e Assaji di cui era divenuto a sua volta maestro spirituale. Le pratiche ascetiche, dietetiche e meditative che sviluppò in questo periodo non sono altrimenti note, anche se la tradizione successiva vuole che fossero particolarmente austere.

Ciò che la letteratura religiosa riporta è che ad un certo punto anche questa strada si dimostrò priva di sbocchi e, comprendendo l'inutilità delle pratiche ascetiche estreme e dell'automacerazione e tornò a una dieta normale accettando una tazza di riso bollito nel latte offertogli da una ragazza di nome Sujatā. Ciò gli costò l'alienazione e la perdita dell'ammirazione dei suoi discepoli, che videro nel suo gesto un segno di debolezza e di conseguenza lo abbandonarono. Desideroso di conoscere le cause della miseria presente nel mondo, Gautama capì che la conoscenza salvifica poteva essere trovata solo nella meditazione di profonda visione e che questa poteva essere sostenuta solo se il corpo fosse stato in buone condizioni e non spossato dalla fame, sete e sofferenze autoinflitte.

L'illuminazione

All'età di 35 anni, nel 530 a.C., dopo sette settimane di profondo raccoglimento ininterrotto, in una notte di luna piena del mese di maggio, seduto sotto un albero di fico a Bodh Gaya, a lui si spalancò l'illuminazione perfetta: egli meditò una notte intera fino a raggiungere il Nirvāṇa.

Il Buddha conseguì, con la meditazione, livelli sempre maggiori di consapevolezza: afferrò la conoscenza delle Quattro nobili verità e dell'Ottuplice sentiero e visse a quel punto la Grande Illuminazione, che lo liberò per sempre dal ciclo della rinascita (da non confondersi con la dottrina induista della reincarnazione, che fu esplicitamente rigettata con la dottrina del "non Sé", anatman).
Foglia dell'albero di pippal, o ficus religiosa

La prima settimana dopo l'illuminazione Gautama Buddha rimase in meditazione sotto la ficus religiosa. Le ulteriori tre settimane seguenti le passò meditando sotto tre altri alberi: la prima sotto un ajapāla (Ficus benghalensis o Ficus indica), la seconda sotto un mucalinda (sanscrito: mucilinda; Barringtonia acutangula), la terza sotto un rājāyatana (Buchanania latifolia).

Sotto l'ajapāla fu raggiunto da un brāhmaṇa che lo interrogò sulla natura dell'essere brāhmaṇa, e la risposta fu che tale è chi ha sradicato il male e parla in accordo con il Dhamma, smentendo così implicitamente che fosse dovuto a una condizione dettata dalla nascita e dall'appartenenza di casta.
Durante la meditazione sotto il mucalinda si sviluppò un temporale che durò sette giorni, al che, uno spirito-serpente del luogo, un nāga, protesse il Buddha dalla pioggia e dal freddo.

Sotto il rājāyatana il Buddha sperimentò la gioia della liberazione dalle rinascite. In quella circostanza gli fecero visita due mercanti, Tapussa e Bhallika, che gli offrirono dei dolci al miele e presero rifugio nel Buddha e nel suo Dhamma, divenendo così i primi upāsaka, seguaci laici. Nella settimana seguente il Buddha tornò a meditare sotto l'ajapāla, dove si interrogò se dovesse diffondere la dottrina o se dovesse mantenerla solo per sé, essendo "difficile da comprendere, al di là della ragione, comprensibile solo ai saggi". Brahmā, il "Signore del Mondo", giunse di fronte al Buddha e inginocchiatosi lo implorò a diffondere la sua dottrina "per aprire i cancelli dell'immortalità" e permettere al mondo di udire il Dhamma.

Avendo dunque il Buddha deciso di diffondere a chiunque la sua dottrina, senza alcuna distinzione, dopo aver escluso i suoi precedenti maestri, Āḷāra Kālāma e Uddaka Rāmaputta, in quanto conscio della loro già avvenuta morte, decise di recarsi dapprima a Sārnāth, nei pressi di Varanasi (Benares) dai suoi primi cinque discepoli, i pañcavaggiyā.

Giunto nei pressi di Sārnāth, si imbatté nell'asceta Upaka, della scuola degli Ājīvika, deterministi che non accettavano l'idea di una causa né nella possibilità di modificare il destino. Interrogato su di chi fosse seguace, il Buddha rispose di non aver più maestri e di essere perfettamente illuminato "quanti hanno vinto l'illusione sono come me vittoriosi. Ho vinto quanto è male e così, Upaka, sono il vittorioso". Upaka ribatté "può darsi" e se ne andò.

La messa in moto della Ruota del Dharma

Il Buddha giunse infine a Sārnāth, nel Parco delle Gazzelle, dove trovò i pañcavaggiyā che, vedendolo arrivare, avevano in animo di ignorarlo. Ma il suo aspetto radioso e completamente rilassato li vinse immediatamente. Alla notizia che aveva conseguito il Perfetto Risveglio lo accolsero come maestro e gli chiesero di apprendere quanto aveva scoperto.

Le parole che pronunciò allora si sono conservate nel primo sūtra, il Dhammacakkappavattana-vagga Sutta (La messa in moto della Ruota della Dottrina).

Il breve sūtra si apre con la condanna delle due vie estreme: l'estremismo connesso alla mera appagazione dei sensi, in quanto volgare e dannoso, e l'estremismo connesso all'automortificazione, parimenti doloroso, volgare e dannoso.

Quella del Buddha si presenta invece come una "Via di mezzo [...] apportatrice di chiara visione e di conoscenza" che "conduce alla calma, alla conoscenza trascendente, al risveglio, al nibbāna"[28]

Quindi il Buddha passa ad analizzare il contenuto della "via di mezzo", esplicitando l'Ottuplice Sentiero, ovvero la base del comportamento etico quale causa necessaria per il conseguimento del risveglio. Ma, procedendo a ritroso, il Buddha esplicita il motivo per cui questo Sentiero apporta l'approdo alla sponda opposta al Saṃsāra: questo è dettato dalle Quattro nobili verità.

La prima delle Quattro verità è quella del dolore "l'unione con quel che non si ama è dolore, la separazione da quel che si ama è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore"[29]. Quindi la combinazione dell'impermanenza dell'esistente e l'attaccamento è la causa del dolore, la seconda verità. Questa sarebbe poi stata ampiamente discussa e analizzata dal Buddha nel corso di tutta la sua predicazione, fino a trovare la sua formalizzazione nella paṭicca samuppāda, la catena della coproduzione condizionata, in cui ogni causa ha un effetto in una spirale apparentemente invincibile.

Ma la distruzione della schiavitù del dolore è possibile, questo viene proclamato nella terza verità: la liberazione è possibile. E come sia possibile è il tema della quarta verità, che rimanda al Ottuplice Sentiero da cui si era partiti.
Il Buddha quindi proclama che ciascuna di queste verità è stata da lui riconosciuta, compresa e visualizzata, e questo triplice momento della quadripartizione della verità lo ha portato al "supremo perfetto risveglio".

A questo punto Añña Kondañña divenne Arhat ed esclamò: "tutto quello che nasce è destinato a perire!" e gli dei ctoni e di tutti i paradisi gridarono di gioia, il sistema dei diecimila mondi ebbe un sussulto e apparve un grandioso splendore: la ruota del Dharma era stata avviata.

Añña Kondañña divenne primo Bhikkhu a essere ordinato, con la celebre esclamazione del Buddha "Ehi Bhikkhu!" ("Vieni monaco!") che diverrà la formula tradizionale di ordinazione buddhista, e dando così origine al Saṅgha.

La predicazione del Buddha segnò sotto molti aspetti un punto di radicale rottura con la dottrina del Brahmanesimo (che successivamente prenderà la forma di Induismo) e dell'ortodossia religiosa indiana dell'epoca. Infatti, in maniera non dissimile da quello del fondatore del Jainismo, Mahāvīra, il suo insegnamento non riconosceva il predominio della casta brahmanica sull'ufficio della religione e la conoscenza della verità, bensì a tutte le creature che vi aspirino praticando il Dharma.

Predicazione ed insegnamento

Negli anni successivi al nirvāṇa, il Buddha si spostò lungo la pianura gangetica predicando ai laici, accogliendo nuovi monaci e fondando comunità monastiche che accoglievano chiunque, indipendentemente dalla condizione sociale e dalla casta di appartenenza, fondando infine il primo ordine monastico mendicante femminile della storia. A condizione che l'adepto accettasse le regole della nuova dottrina, ognuno era ammesso nel sangha.

Scansione dei Vassa

A causa dell'assenza di una tradizione storiografica e cronologica in India, la scansione dei suoi spostamenti non fu registrata che molti secoli dopo gli eventi, e anche questa in maniera frammentaria nei vari sutra e nei Vinaya delle varie tradizioni. Tra i testi più interessanti per la cronologia spiccano due testi tradotti in cinese, il Badalingta Minghao jing[33] (T.32:773b) e il Sengqieluocha suoqi jing (T. 4:144b), e un testo tibetano, il Chos-ḥbyung di Bu-ston. Nella tradizione birmana si riscontrano altre cronologie. Dalla comparazione di queste fonti, scandite per anno di vita del Buddha, si enumerano i luoghi in cui passò il Vassa, o periodo monsonico dedicato alla sosta in un medesimo posto che è norma del sangha. Nonostante le tradizioni così diverse, spazialmente e temporalmente, si ottiene un quadro notevolmente uniforme per localizzazione geografica della vita del Buddha.
[...]

Le prime conversioni

Dopo la conversione dei pañcavaggiyā a Sārnāth, Gautama convertì Yasa, figlio di un ricco mercante di Vārāṇasī. Fu il primo non asceta ad entrare nella comunità monastica, presto seguito dai suoi amici, Vimala, Subāhu, Puṇṇaji e Gavaṃpati, figli di altre facoltose famiglie mercantili[38]. Quindi i genitori di Yasa divennero i primi laici a essere riconosciuti come tali e a prendere rifugio nei Tre Gioielli, ed di lì seguirono altre decine di conversioni e numerosi giovani di Vārāṇasī entrarono nel Sangha. A questo punto, un anno dopo, il Buddha si diresse nuovamente al luogo dove aveva conseguito l'illuminazione.

Nella zona dell'attuale Bodh Gaya a quel tempo vi predicavano tre fratelli: Uruvela Kassapa, Nadī Kassapa e Gayā Kassapa, dediti al culto del fuoco (è ipotizzabile fosse un culto vedico, dedicato ad Agni, o locale e post-vedico). Dopo averli superati nelle arti magiche che praticavano[39], li convertì assieme a un migliaio dei loro seguaci. Quindi, andato il Buddha con tutti questi nuovi membri del sangha, verso la capitale Rajgir, espose sul monte Gayāsīsa il Sūtra del Fuoco[40]. "Monaci! Tutto è in fiamme!" esordì, e proseguì elencando gli organi di senso in fiamme, fiamme che si estendono alle funzioni mentali, le sensazioni che provano dovute alle percezioni e individuando la causa nell'avidità, nell'odio e nell'illusione (i tre veleni). Solo con la liberazione da questi veleni i discepoli si sarebbero potuti liberare e sconfiggere la morte.

L'arrivo del Buddha nella capitale del regno Magadha provocò un'ondata di conversioni, compresa quella del sovrano Bimbisāra, allora a capo del più potente stato dell'India settentrionale. Questi, in segno di devozione, regalò al Buddha il monastero di Veṇuvana[41], sito nel Bosco di Bambù poco oltre la porta settentrionale della capitale Rajgir. In questo periodo si colloca anche la conversione, grazie ad Assaji, di Sāriputta e Moggallāna, che diverranno i due discepoli principali del Buddha.

A Kapilavatthu e nel Kosala

Dopo aver completato la permanenza a Rajgir con la conversione, nei pressi di Gaya, di Mahā-Kassapa (destinato a diventare un famoso discepolo), il Buddha si diresse a Kapilavatthu, la capitale dei Sakya, sua terra natale.

Lì, dopo aver chiesto cibo in elemosina casa per casa, fu fatto accedere alla sala del congresso della nobiltà Sakya per tenere un sermone[42]. Quindi il Buddha fece visita a suo padre Suddhodana e a sua moglie Yasodharā, convertendoli. Ordinò quindi suo fratellasto Nanda[43] e suo figlio Rāhula.

Le conversioni compresero sia appartenenti alla nobiltà Sakya che membri delle caste più infime, come il caso del barbiere Upāli. Fu in questa occasione che divenne norma che l'ordine di rispetto tra i monaci dovesse essere basato esclusivamente sull'anzianità calcolata dal giorno della presa dei voti, tanto che i giovani nobili Sakya chiesero di essere ordinati immediatamente dopo Upāli per doverlo omaggiare e sconfiggere così la loro superbia. Tra i convertiti che espressero questa scelta anche Ānanda, il cugino del Buddha, e Devadatta[44].

Lasciata la sua terra natale, la repubblica nobiliare dei Sakya, il Buddha si diresse nel Kosala, il regno che deteneva l'egemonia su Kapilavatthu. Il Kosala a quei tempi era retto dal re Prasenadi (sanscrito: Prasenajit), con cui il Buddha ebbe numerosi incontri cordiali.

Nella capitale del Kosala, Sāvatthī (sanscrito: Śrāvastī), il facoltoso mercante Sudatta Anāthapiṇḍika (precedentemente convertito a Rajgir) comprò un grande appezzamento di terreno nella periferia meridionale della città da Jeta, un principe figlio di Prasenadi. Questo fu quindi donato al sangha divenendo uno dei principali luoghi di sosta del Buddha e grande centro di diffusione del Dharma, noto come il monastero Jetavana (il "Parco di Jeta")[45]. Fu in questo luogo che il Buddha visitò il monaco Pūtigatta Tissa, seriamente ammalato, lo lavò e se ne prese cura fino alla sua morte. Qui esortò i monaci a prendersi cura reciprocamente, non avendo più famiglia né mezzi e avendo reciso i legami con il mondo avrebbero dovuto aver cura l'uno dell'altro.
   
« Yo bhikkhave maṃ upaṭṭaheyya so gilānan upaṭṭaheyya »
 « Chi mi serve serva i malati[46] »
   
In un altro sutra che tratta della stessa vicenda il Buddha esplicita:[47]
 
«Non c'è differenza di meriti nel fare donazioni a me e aver cura dei malati, accudire i malati è servire il Buddha»
 
Gli elenchi dei convertiti nel Kosala mostrano come l'origine castale sia dei monaci che dei laici fosse di prevalenza di casta brahmanica e mercantile (come Subhūti), con minoranze tra la casta guerriera, cui apparteneva lo stesso Buddha, e le classi inferiori.

A Rajgir

A Rajgir, nella capitale del Magadha, oltre al monastero di Venuvana fuori dalla porta Settentrionale concesso dal sovrano Bimbisāra, il saṅgha ebbe in dono il monastero di Jīvakarana, nei pressi del "Boschetto di Manghi" (Ambavana), dono di Jīvaka Komārabhacca, medico personale del sovrano, che desiderava che il Buddha soggiornasse più vicino alla sua dimora[48].
Fu in quella sede che il Buddha espose il Jīvaka Sutta, in cui si fa divieto ai monaci di mangiare carne se hanno conoscenza che l'animale sia stato ucciso solo per essere dato loro in pasto, e parimenti fa divieto ai laici di uccidere animali con lo scopo di nutrire i monaci.

Non lontano da Rajgir, a Gayāsīsa, soggiornava il monaco Devadatta, che godeva dei favori del figlio del re Bimbisāra, Ajātasattu. In presenza di monaci, laici e del sovrano di Rajgir, Devadatta chiese al Buddha, ormai in età avanzata, di prendere il controllo del Sangha. Tra le riforme che avrebbe voluto introdurre tutte volgevano ad una maggiore austerità: obbligo di dimora nelle foreste; vestirsi solo di abiti trovati nelle discariche; non accettare inviti a pranzo dai laici; astenersi dalla carne anche se offerta. Il Buddha rifiutò di nominarlo a capo della comunità monastica.
Devadatta, intravedendo nella fedeltà di Bimbisāra al Buddha l'ostacolo principale nella sua ascesa, convinse il principe Ajātasattu a perpetrare un colpo di stato. In seguito Bimbisāra fu imprigionato e lasciato morire di fame, nonostante questi avesse volontariamente abdicato in favore del figlio.

Ottenuto l'appoggio del nuovo sovrano, Devadatta tentò di assassinare il Buddha con l'aiuto di alcuni arceri di Ajātasattu, che si rifiutarono. Quindi Devadatta stesso provò l'omicidio: prima lanciando un masso dal Gijjhakūta, il "Picco dell'Avvoltoio" (le ferite riportate dal Buddha furono alleviate dai trattamenti medici di Jīvaka Komārabhacca), quindi ubriacando un elefante reale (Nalāgiri) che avrebbe dovuto schiacciare il Buddha, che invece lo affrontò, placandolo. Il Buddha, tornato la sera al monastero Venuvana, raccontò la storia Cullahamsa Jātaka in onore della fedeltà di Ānanda.

Ajātasattu, pieno di rimorsi, smise di sostenere Devadatta e chiese perdono al Buddha, che lo accolse tra i fedeli laici.

Devadatta, avendo perso l'appoggio regale e conscio dell'impossibilità di controllare il sangha, decise per lo scisma, seguito dai monaci Kokālika, Samuddadatta, Katamorakatissa e Khandadeviyāputta, oltre a qualche centinaio di discepoli favorevoli a una regola monastica più austera. Il Buddha non vietò maggiore austerità, ma ritenne che dovesse applicarsi solo su base volontaria, non come regola.

Il Buddha quindi inviò Sāriputta e Moggallāna presso Devadatta. Questi gli lasciarono credere che avessero abbandonato il Buddha, e non appena ebbero l'attenzione di tutti i suoi seguaci li convinsero della necessità di interrompere lo scisma e rientrare nel sangha. Una volta rimasto solo Devadatta vomitò sangue. Dopo nove mesi Devadatta si mise in cammino per incontrarsi con il Buddha, ma il terreno si aprì e sprofondò nell'inferno Avīci.

Il parinirvāṇa del Buddha

Dopo aver passato l'ultimo vassa nel monastero di Venuvana il Buddha si recò nuovamente a Rajgir. Lì il sovrano Ajātashatru, per mezzo del suo ministro Varśakāra, gli chiese un vaticinio per la sua progettata guerra contro la repubblica dei Vriji. Il Buddha rispose che, finché questi fossero stati rispettosi della tradizione assembleare e il popolo contento, non sarebbero stati vinti[58]. Quindi, salito sul Picco dell'Avvoltoio, il Buddha predicò ai monaci le 49 regole monastiche che avrebbero dovuto seguire per mantenere in vita il sangha.
Salutato dalla nobiltà del Magadha e dal ministro Varśakāra, il Buddha e i monaci si diressero quindi verso i territori dei Lichchavi più a settentrione, predicando nei vari villaggi in cui facevano sosta. Giunti a Pātaligrāma il Buddha pensò che:
  
 «Mi accadde di attraversare questo fiume [il Gange] sur una navicella; oggi non conviene che col mezzo medesimo torni a passarlo. Il Buddha è ormai maestro nel trasportar gli uomini all'altra riva; perrocchè insegna a tutti il modo di traversar l'oceano delle esistenze»

Quindi tutti i monaci si ritrovarono sulla sponda settentrionale del Gange[60], a Koṭigrāma. Lì malattie e carestie infuriavano e, polemicamente, fu chiesto al Buddha come mai anche dieci suoi fedeli laici fossero morti. Il Buddha preconizzò che quella sarebbe stata la loro ultima esistenza e di altri trecento predisse solo altre sette rinascite prima di giungere alla perfezione.
 
«Tutti i viventi moriranno; come in pari modo tutti i buddha, dai tempi passati fino al presente sono ormai nel Nirvāna: e oggi a me, fatto Buddha, spetta la stessa sorte»
  
Giunto nei pressi di Vaiśālī fu invitato a pranzo dalla cortigiana Amarpālī, assieme a tutti i monaci, rifiutando un analogo invito dei nobili Lichchavi, che avevano rivolto l'invito solo successivamente.

Il Buddha decise di soggiornare nei pressi di Vaiśālī ma, per non pesare troppo sulla popolazione locale oppressa dalla carestia, diede ordine ai monaci di disperdersi in tutte le direzioni, mantenendo accanto a sé solo Ānanda. Lì il Buddha annunciò ad Ānanda che entro tre mesi sarebbe entrato nel parinirvāṇa. Diede inoltre ordine ad Ānanda di ricordare tutti i suoi discorsi, in modo da ripeterli poi qualora dei monaci li avessero dimenticati. Ripreso quindi a vagare nella pianura del Gange il Buddha tenne numerosi discorsi ricapitolando tutti i temi principali della sua dottrina.
Giunto a Pāvā fu invitato a pranzo da un certo Cunda, lì tenne un discorso sui monaci, alcuni dei quali "sono malvagi come le erbacce in un campo" e ammonendo a non considerare la veste, ma il cuore retto come segno di eccellenza.
Lasciata la casa di Cunda e diretto a Kuśināgara il Buddha si sentì male e, sedutosi, chiese ad Ānanda di procurargli dell'acqua. Passò quindi un nobile, Pukkusa, che donò un tessuto giallo affinché il Buddha potesse coricarvisi. Quindi disse ad Ānanda che fu il cibo di Cunda a condurlo alla fine, e che l'indomani sarebbe dovuto andare a ritrovarlo per ringraziarlo e che non piangesse per questo, ma che se ne rallegresse.

Giunse allora il monaco Kapphina che chiese al Buddha di rimandare la sua estinzione, al ché il Buddha rispose che:
  
«Come le case degli uomini, col lungo andare del tempo, rovinano, ma il suolo dove erano resta; così resta la mente del Buddha, e il suo corpo rovina come una vecchia casa.»
   
Nel frattempo giunsero monaci e laici da Kuśināgara, avvertiti da Ānanda che entro la mezzanotte il Buddha sarebbe entrato nella totale estinzione. Chiesero quali fossero le ultime volontà in merito alle spoglie. Il Buddha, dopo aver risposto, chiese ai monaci se vi fossero ancora dei dubbi in merito alla dottrina, dicendo che era la loro ultima occasione per poterli dissipare. I monaci risposero che non vi erano punti oscuri e che tutto era a loro chiaro.

Secondo la tradizione, Siddharta Gautama morì a Kuśināgara, in India, a ottant'anni[63], nel 486 a.C. circondato dai suoi discepoli, tra i quali l'affezionato attendente prediletto Ānanda, al quale lasciò le sue ultime disposizioni. Tradizionalmente si riportano le sue ultime parole:
    «Handa dāni, bhikkave, āmantayāmi vo: "vayadhammā saṅkhārā appamādena sampādethā"ti.»
 
    «Ricordate, o monaci, queste mie parole: tutte le cose composte sono destinate a disintegrarsi! Dedicatevi con diligenza alla vostra propria salvezza! »
   
Quindi il Buddha si stese vòlto a settentrione, reclinato sul fianco destro, e spirò.

La cremazione

La descrizione dei riti funerari, sarīrapūjā, che accompagnarono la cremazione di Gautama Buddha sono strettamente correlati con la successiva venerazione per le reliquie, sarīra (sanscrito: śarīrāḥ), e vanno intese come rappresentazione del valore che queste hanno in ambito buddhista. Si assiste anche a uno slittamento semantico dal corpo fisico di Gautama alla rappresentazione dello stato di buddhità fornito dalle sarīra.

Il clan dei Malla di Kuśināgara approntò un funerale degno di un sovrano universale: il corpo fu avvolto in cinquecento pezze di cotone e immerso in una vasca di ferro (taila-droṇī)[66] piena d'olio. Quindi, con l'accompagnamento di una folla che portava ghirlande di fiori, ballava e suonava, il corpo attraversò la città. Passarono sette giorni prima che si approntasse la pira funeraria. Questo diede tempo a Mahākassapa, il più autorevole dei monaci dopo la morte, avvenuta poco prima, di Sāriputta e Mahāmoggallāna, di giungere a Kuśināgara e prendere parte ai riti funebri.

Ānanda, dopo essere stato per tutta la vita l'attendente del Buddha Gautama, si fece carico anche di tutta l'organizzazione delle cerimonie inerenti al suo corpo. Il giorno della cremazione, nell'ultimo saluto, diede la precedenza alle donne Malla di Kuśināgara: furono loro le prime a circumambulare Gautama, lanciare fiori e bagnare di pianto i suoi piedi. Quindi, contrariamente alle prescrizioni brahmaniche, il corpo fu portato in processione dentro la città (da Ānanda, il re di Malla, Śakra e Brahmā[68]).

La pira fu accesa da Mahakassapa, con un simbolismo inverso, dato che usualmente in India i sannyasin non vengono cremati ma rilasciati nei fiumi. È vestito come un principe, quando fu proprio l'abbandono della sua veste principesca che aveva marcato l'origine della ricerca spirituale che lo aveva portato a divenire un Buddha[69].

Una volta estinto il fuoco furono raccolte le sarīra e conservate in una scatola d'oro al centro Kuśināgara.

La notizia della scomparsa del Buddha e della permanenza delle sarīra attirò una intensa competizione per impossessarsene: oltre ai Malla di Kuśināgara le reclamarono anche i Malla di Pāvā, il re Ajātashatru del Magadha, i Bulaka di Calakalpa, i Krauḍya di Rāmagrāma, i brahmini di Viṣṇudvīpa, i Lichchavi di Vaiśālī e i Śākya di Kapilavastu. Le richieste furono sottolineate dall'invio di eserciti a Kuśināgara.

Il Brahmano Droṇa fu scelto come arbitro: divise le sarīra in otto parti per gli otto pretendenti, per sé tenne l'urna (kumbha) con cui aveva eseguito la partizione, le ceneri della pira andarono al brahmano Pippalāyana, giunto dopo la cremazione. Una volta distribuite le sarīra ciascuna parte costruì un grande stūpa per venerarle. Lì rimasero finché il sovrano Aśoka non le aprì per ri-suddividerle e diffonderle in stūpa eretti in tutto l'impero Maurya.

[...]

La vita di Gautama Buddha secondo la storiografia contemporanea

L'indagine storico-critica della figura di Gautama Buddha si avviò a partire dalla fine del XIX secolo. Studiosi come Thomas William Rhys Davids (1843-1922), Caroline Augusta Foley Rhys Davids (1857-1942) e Hermann Oldenberg (1854-1920) analizzando il Canone buddhista scritto in lingua pāli cercarono di eliminarne gli evidenti contenuti mitici per tentare una ricostruzione storica della figura del fondatore del Buddhismo. Tale approccio è tuttavia oggi ritenuto superato[84] e se anche la maggioranza degli studiosi ritiene l'esistenza storica di Gautama Buddha un fatto acclarato[85] considera estremamente difficile ricostruirne la vita e, persino, stabilire con certezza il periodo dell'esistenza.

Scarse sono infatti le testimonianze storiche circa la vita del fondatore del Buddhismo e controverse sono le stesse date. Risulta pertanto arduo separare leggenda e realtà e collocare storicamente le vicende della vita del Buddha, poiché i riscontri a noi pervenuti non sono sempre attendibili. Gran parte delle fonti sono infatti posteriori di almeno duecento anni rispetto agli eventi della vita di Siddhartha Gautama. In più, le cronache storiche indiane non sono rigorose nel separare eventi reali dal mito e dalla leggenda.

Tutte le fonti tradizionali concordano tuttavia sul fatto che Siddhārtha Gautama sia vissuto per ottanta anni.

    * Secondo le cronache singalesi riportate nel Dīvapaṃsa e nel Mahāvaṃsa Siddhartha Gautama sarebbe nato 298 anni prima dell'incoronazione del re indiano Aśoka e morto (parinirvāṇa) 218 anni prima dello stesso evento. Queste cronache indicano come il 326 a.C. l'anno della salita al trono da parte di questo re indiano. In base a questa tradizione, diffusa nei paesi buddhisti theravāda (Sri Lanka, Thailandia, Birmania, Cambogia e Laos), Siddhārtha Gautama sarebbe nato nel 624 a.C. e morto nel 544 a.C.[86]

    * Gli studiosi occidentali e indiani, seguendo fonti greche, spostano la data dell'incoronazione di Aśoka al 268 a.C. e quindi ritengono che Siddhārtha Gautama sia nato nel 566 a.C. e morto nel 486 a.C.

    * Studiosi giapponesi e lo studioso tedesco Heinz Bechert[87] seguendo fonti indiane riportate nei canoni buddhisti cinese e tibetano che attestano la nascita di Siddhārtha Gautama 180 anni prima della incoronazione di Aśoka e la sua morte 100 anni prima, le incrociano con le fonti greche e giungono invece a ritenere che l'anno di nascita del fondatore del Buddhismo sia il 448 a.C. mentre la morte sia avvenuta nel 368 a.C.

Altro non si può sostenere e, come ricorda Étienne Lamotte[88], il tentativo di ricostruire o tracciare la vita di Gautama Buddha è «una impresa priva di speranza».

L'unica cosa che si può affermare con contezza è quindi che il Buddha visse in India in un periodo compreso tra il VI e il IV secolo a.C. comunque proprio in quel particolare periodo a cui Karl Jaspers[89] ha dato il nome di "periodo assiale" della storia mondiale.
  
 « In questo periodo si concentrano i fatti più straordinari. In Cina vissero Confucio e Lǎozǐ, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mòzǐ, Zhuāng Zǐ, Lìe Yǔkòu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upaniṣad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibiltà filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra propagò l'eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidide e Archimede. Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell'Occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle altre. La novità di quest'epoca è che in tutti e tre i mondi l'uomo prende coscienza dell' "Essere" nella sua interezza (umgreifende: ulteriorità onnicomprensiva), di se stesso e dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali. Di fronte all'abbisso anela alla liberazione e alla redenzione. Comprendendo coscientemente i suoi limiti si propone gli obiettivi più alti. Incontra l'assolutezza nella profondità dell'essere-se-stesso e nella chiarezza della trascendenza,. Ciò si svolse nella riflessione. La coscienza divenne ancora una volta consapevole di se stessa, il pensiero prese il pensiero ad oggetto. »
   
(Karl Jaspers, in Vom Ursprung und Ziel des Geschichte. Artemis, Zurigo 1949; Piper, München 1949 (1983); trad. it., Origine e senso della storia, a cura di A. Guadagnin, Comunità, Milano, 1965, pag.20. )

In altri termini, nel periodo assiale, sembra che l'umanità abbia fatto un incredibile salto nell approfondimento della conoscenza di sé e si sia operata una trasformazione globale dell'essere umano a cui, sempre secondo Jaspers, «si può dare il nome di spiritualizzazione».

Premesso ciò, della vita di Gautama Buddha possiamo ricostruire solo un quadro piuttosto generico: fu un rinunciante e asceta, unitamente ad altri rinuncianti indiani ebbe una visione "critica" del mondo e delle sue "illusioni" e praticò e predicò delle tecniche meditative (yoga). Predicò anche una vita comunitaria tra rinuncianti disciplinata da alcune precise regole e raccolse intorno a sé altri monaci, ma anche laici, che ne seguivano gli insegnamenti. Fu senza dubbio una personalità carismatica.

A questo quadro, gli storici Frank E. Reynolds e Charles Hallisey[90] aggiungono alcune altre informazioni che, nella loro peculiarità e specificità, ritengono difficilmente "inventate" dalla successiva tradizione; per questi autori è molto probabile che Gautama Buddha:

    * appartenesse alla casta degli kṣatrya;
    * nacque nel clan degli Śākya;
    * fosse sposato ed ebbe un figlio;
    * abbracciò la vita di asceta itinerante senza il permesso del padre;
    * andò incontro ad un fallimento quando per la prima volta comunicò la sua esperienza dell'illuminazione;
    * rischiò di perdere la guida della comunità da lui fondata a causa di un suo cugino che propose delle regole maggiormente ascetiche;
    * morì in un luogo remoto dopo aver mangiato del cibo avariato.


 wikipedia

l Buddhismo o Buddismo (sanscrito buddha-śāsana) è una delle discipline spirituali più antiche e più diffuse al mondo. Originato dagli insegnamenti di Siddhārtha Gautama, comunemente si compendia nelle dottrine fondate sulle Quattro nobili verità (sanscrito Catvāri-ārya-satyāni). Con il termine Buddhismo si indica più in generale l'insieme di tradizioni, sistemi di pensiero, pratiche e tecniche spirituali, individuali e devozionali, nate dalle differenti interpretazioni di queste dottrine, che si sono evolute in modo anche molto eterogeneo e diversificato. Sorto nel VI secolo a.C., a partire dall'India il buddhismo si diffuse nei secoli successivi soprattutto nel Sud-est asiatico e in Estremo Oriente, giungendo, a partire dal XX secolo, anche in Occidente.


Origini del termine

La parola Buddhismo è di recente coniatura, introdotta in Europa nel XIX secolo per riferirsi a ciò che è correlabile agli insegnamenti di Siddhārtha Gautama in quanto Buddha. In realtà un'unica parola per esprimere questo concetto non esiste in nessuno dei paesi asiatici originari di tale tradizione religiosa.La traduzione dei termini originari letteralmente va intesa come "insegnamento del Buddha" (sanscrito buddha-śāsana, pāli buddha-sāsana, cinese 佛教 pinyin fójiào Wade-Giles fo-tsung, giapponese bukkyō, tibetano sangs rgyas kyi bka' , coreano 불교 pulgyo, vietnamita phật giáo). Originariamente "l'insegnamento del Buddha" si denominava come DharmaVinaya (pāli dhamma-vinaya, cinese 法律 fǎlǜ, giapponese hōritsu, tibetano chos 'dul ba, coreano 법률 pŏmnyul, vietnamita phật pháp), ma questa denominazione non ha avuto quella diffusione nelle lingue asiatiche diverse dal sanscrito quanto invece la denominazione buddha-śāsana. Altri termini sanscriti con cui viene indicato il Buddhismo, nella sua accezione di religione esposta dal Buddha Shakyamuni, sono: buddhânuśāsana, jinaśāsana, tathāgataśāsana, dharma, buddhânuśāsti, śāsana, śāstuḥ ma anche buddha-dharma e buddha-vacana.

Storia

La storia del Buddhismo inizia nel VI secolo a.C., con la predicazione di Siddhārtha Gautama. Nel lungo periodo della sua esistenza, la religione si è evoluta adattandosi ai vari Paesi, epoche e culture che ha attraversato, aggiungendo alla sua originale impronta indiana elementi culturali ellenistici, dell'Asia Centrale, dell'Estremo Oriente e del Sud-Est Asiatico; la sua diffusione geografica fu considerevole al punto di aver influenzato in diverse epoche storiche gran parte del continente asiatico. La storia del Buddhismo, come quella delle maggiori religioni, è anche caratterizzata da numerose correnti di pensiero e scismi, con la formazione di varie scuole; tra queste, le più importanti attualmente esistenti sono la scuola Theravāda, le scuole del Mahāyāna e le scuole Vajrayāna.

I fondamenti del Buddhismo

All'origine ed a fondamento del Buddhismo troviamo le Quattro nobili verità. Si narra che il Buddha, meditando sotto l'albero della bodhi, le comprese nel momento del proprio risveglio spirituale.

Esse sono riportate nel Dhammacakkappavattana Sutta del Saṃyutta Nikāya del Canone pāli e nel Canone cinese nello Záhánjīng (雜含經, giapp. Zōgon agonkyō, collocato nello Āhánbù, T.D. 99.2.1a-373b) che poi è la traduzione in cinese del testo sanscrito Saṃyuktāgama al cui interno è collocato il Dharmaçakrapravartana Sūtra.

Questo è, sempre secondo la tradizione, il primo discorso del Buddha, tenuto nel parco delle gazzelle nei pressi di Sarnath vicino Varanasi (detta anche Benares) nel 528 a.C. ai suoi primi cinque discepoli, all'età di 35 anni, dopo che nei pressi del villaggio di Bodhgaya, nell'odierno stato del Bihar, aveva raggiunto il risveglio spirituale.

Questo discorso è quindi anche detto il "Discorso di Benares", fondamentale per il Buddhismo, che da questo prende le mosse, tanto da farlo considerare l'evento che dà inizio al Dharma (sans., Dhamma, pāli), ossia la dottrina buddhista. La ricorrenza di questo evento è infatti festeggiata nei paesi di tradizione theravāda con la festa di Magā Puja, il "giorno del Dhamma". Da altri è invece considerato il punto d'inizio della prima comunità buddhista, formata proprio da quei cinque asceti che lo avevano abbandonato anni prima sfiduciati, dopo essere stati a lungo suoi discepoli.

In questo discorso si identifica il Buddhismo come "La Via di Mezzo" (sanscrito Madhyamāpratipad, pāli Majjhimā pāṭipada) in cui si riconosce che la retta condotta risiede nella linea mediana di condotta di vita evitando tanto gli eccessi e gli assolutismi, quanto il lassismo e l'individualismo.

Nell'esposizione di questo insegnamento il Buddha enuncia le Quattro nobili verità, frutto del proprio risveglio spirituale testé raggiunto. Queste "Quattro Nobili Verità" contemplano l'aspetto pratico della condotta di vita e della pratica spirituale buddhista nel cosiddetto Nobile ottuplice sentiero, che costituisce il secondo cardine dottrinale del Buddhismo.

I punti salienti della visione buddhista della "realtà percettiva" indirizzata dall'insegnamento del Buddha, sono:

   1. la dottrina della sofferenza o duḥkha (sans., dukkha, pāli), ossia che tutti gli aggregati (fisici o mentali) sono causa di sofferenza qualora li si voglia trattenere ed essi cessano, oppure si voglia separarsene ed essi permangono.
   2. la dottrina dell'impermanenza o anitya (sans., anicca, pāli), ossia che tutto quanto è composto di aggregati (fisici o mentali) è soggetto alla nascita ed è quindi soggetto a decadenza ed estinzione con la decadenza ed estinzione degli aggregati che lo sostengono;
   3. la dottrina dell'assenza di un io eterno e immutabile, la cosiddetta dottrina dell'anātman (sans., anattā, pāli) come conseguenza di una riflessione sui due punti precedenti.

Tale visione è integrata nella:

    * dottrina della coproduzione condizionata (sans. pratītyasamutpāda, pāli paṭicca samuppāda), ossia del meccanismo di causa ed effetto che lega l'uomo alle illusioni e agli attaccamenti che costituiscono la base della sofferenza esistenziale;
    * dottrina della vacuità (sans. śunyātā, pāli: suññatā) che insiste sull'inesistenza di una proprietà intrinseca nei composti e nei processi che formano la realtà e sulla stretta interdipendenza degli stessi.

Un elemento importante del Buddhismo, riportato in tutti i Canoni, è la conferma dell'esistenza delle divinità come già proclamate dalla letteratura religiosa vedica (i deva, tuttavia, nel Buddhismo sono sottomessi alla legge del karma e la loro esistenza è condizionata dal saṃsāra). Così nel Majjhima Nikāya 100 II-212[ dove al brahmano Sangarava che gli chiedeva se esistessero i Deva, il Buddha storico rispose: «I Deva esistono! È questo un fatto che io ho riconosciuto e su cui tutto il mondo è d'accordo». Sempre nei testi che raccolgono i suoi insegnamenti, testi riconosciuti tra i più antichi in assoluto e conservati sia nel Canone pāli che nel Canone cinese e che la storiografia contemporanea inquadra nel termine Āgama-Nikāya, il Buddha storico consiglia a due brahmana che, dopo aver dato da mangiare a uomini santi, si debba dedicare questa azione alle divinità (Deva) locali che restituiranno l'onore concesso loro assicurando il benessere dell'individuo (Digha-nikāya, 2,88-89). È evidente, a partire da questi due antichi brani, la certezza da parte del Buddha storico che le divinità esistessero e andassero onorate. A differenza, tuttavia, delle altre correnti religiose dell'epoca, il Buddha ritiene che le divinità non possano offrire all'uomo la salvezza dal Saṃsāra, né un significato ultimo della propria esistenza. Va precisato, peraltro, che non esiste, né è mai esistita alcuna scuola buddhista al mondo che affermi, o abbia affermato, l'inesistenza delle divinità. Tuttavia la totale mancanza di centralità delle divinità nelle pratiche religiose e nelle dottrine buddhiste di tutte le epoche ha fatto considerare, da parte di alcuni studiosi contemporanei, il Buddhismo come una religione 'atea'.

I fondamenti del Buddhismo Mahāyāna

A questo quadro dottrinario, proprio del Buddhismo dei Nikāya e del Buddhismo Theravāda, il Buddhismo Mahāyāna aggiunge le dottrine esposte nei Prajñāpāramitā sūtra e nel Sutra del Loto. All'interno di questi insegnamenti la dottrina della vacuità (sans. śunyātā) acquisisce un ruolo assolutamente centrale in quanto rende correlate, nella Realtà ultima, tutte le altre realtà e dottrine. Questa unificazione nella vacuità, ovvero di privazione di sostanzialità inerente, fa dichiarare al patriarca del Mahāyāna, Nāgārjuna:
  
 «Il saṃsara è in nulla differente dal nirvāna. Il nirvāna è in nulla differente dal saṃsara. I confini del nirvāna sono i confini del saṃsara. »
    (Nāgārjuna, Mūla-madhyamaka-kārikā)

Per il Sutra del Loto inoltre
   
«A beneficio di chi cercava di diventare un ascoltatore della voce, il Buddha rispondeva esponendo la Legge delle Quattro Nobili Verità così che potesse trascendere nascita, vecchiaia, malattia e morte e ottenere il nirvana. A beneficio di chi cercava di diventare pratyekabuddha rispondeva la Legge della dodecupla catena di causalità. A beneficio del bodhisattva rispondeva esponendo le sei paramita, facendo ottenere loro l'anuttara-samyak-sambodhi e acquisire la saggezza onnicomprensiva[11]. »
   
Questa presentazione delle Quattro Nobili Verità nella parte più antica del Sutra del Loto indica che, secondo le dottrine esposte in questo Sutra e attribuite da questo testo allo stesso Buddha Śākyamuni, la dottrina delle Quattro Nobili Verità non esaurisce l'insegnamento buddhista il quale deve invece mirare all'anuttara-samyak-sambodhi ovvero all'illuminazione profonda e non limitarsi al nirvāṇa generato dalla comprensione delle Quattro Nobili Verità. Nel suo complesso anche il Sutra del Loto non insiste sulle dottrine del duḥkha (la sofferenza, la prima delle Quattro nobili verità) e dell'anitya (impermanenza dei fenomeni) quanto piuttosto su quelle dell'anatman e dello śūnyatā (assenza di sostanzialità inerente in tutti i fenomeni). Il Dharma esposto nei primi 14 capitoli del Sutra del Loto corrisponde alla verità dell'apparire dei fenomeni secondo la causazione che segue le dieci condizioni (o "talità", sanscrito tathata) descritte nel II capitolo del Sutra. Il Dharma profondo è quindi nella comprensione della causa dei fenomeni; la realizzazione spirituale, la bodhi profonda (l'anuttarā-samyak-saṃbodhi), consiste nel comprendere questa "causa" dell'esistere, mentre la verità della sofferenza (duḥkha), come anche la dottrina dell'anitya, implica solo un giudizio. Nel Sutra del Loto non viene quindi enfatizzata la verità della sofferenza contenuta nelle Quattro nobili verità. Ecco perché quando il Buddha è sollecitato a insegnare la Legge "profonda" (nel II capitolo) non la esprime con la dottrina delle Quattro Nobili Verità (considerata nel Sutra come dottrina hīnayāna) ma la esprime secondo le dieci talità (o condizioni, sanscrito tathātā, dottrina mahāyāna)[12].

I fondamenti del Buddhismo Mahāyāna-Vajrayāna

La terza grande corrente del Buddhismo esistente in epoca contemporanea, la corrente Vajrayāna (Veicolo del diamante), è essa stessa uno sviluppo del Buddhismo Mahāyāna. Alle dottrine proprie del Mahāyāna quali ad esempio la vacuità (śunyātā), karuṇā, la bodhicitta il Vajrayāna aggiunge, allo scopo di poter realizzare "in questo corpo e in questa vita" l'"illuminazione profonda", alcuni insegnamenti "segreti" denominati come tantra e riportati nella propria letteratura religiosa.

Testi buddhisti

Fra i testi più antichi del Buddhismo si annoverano i cosiddetti canoni: il Canone pāli (o Pāli Tipitaka), il Canone cinese (大藏經, Dàzàng jīng), e il Canone tibetano (composto dal Kangyur e dal Tenjur) così denominati in base alla lingua degli scritti.

Il Canone pāli è proprio del Buddhismo Theravāda, e si compone di tre piṭaka, o canestri successivamente raccolti in 57 volumi: il Vinaya Piṭaka, o canestro della disciplina, con le regole di vita dei monaci; il Sutta Piṭaka o canestro della dottrina, con i sermoni del Buddha; infine l'Abhidhamma Piṭaka o canestro della fenomenologia in ambito cosmologico, psicologico e metafisico, che raccoglie gli approfondimenti alla dottrina esposta nel Sutta Piṭaka.

Il Canone cinese si compone di 2.184 testi a cui vanno aggiunti 3.136 supplementi tutti raccolti successivamente in una edizione in 85 volumi.

Il Canone tibetano si suddivide in due raccolte, il Kangyur (composto da 600 testi, in 98 volumi, riporta discorsi attribuiti al Buddha Shakyamuni) e il Tanjur (Raccolta, in 224 volumi, di 3.626 testi tra commentari e insegnamenti).

Parte dei Canoni cinese e tibetano si rifanno ad un precedente Canone tradotto in sanscrito ibrido sotto l'Impero Kushan e poi andato in buona parte perduto. Questi due Canoni furono adottati dalla tradizione Mahāyāna che prevalse sia in Cina che in Tibet. Il Canone sanscrito riportava tutti i testi delle differenti antiche scuole e dei differenti insegnamenti presenti nell'Impero Kushan. La traduzione di tutte queste opere dalle originali lingue pracritiche a quella sanscrita (una sorta di lingua dotta 'internazionale' come lo fu il latino nel Medioevo europeo) fu voluta dagli stessi imperatori kushan. Buona parte di questi testi furono successivamente trasferiti in Tibet e in Cina sia da missionari kushani (ma anche persiani, sogdiani e khotanesi), sia riportati in patria da pellegrini. Da segnalare che le regole monastiche (Vinaya) delle scuole presenti in Tibet e in Cina derivano da due antichissime scuole indiane (vedi Buddhismo dei Nikāya), rispettivamente dalla Mūlasarvāstivāda e dalla Dharmaguptaka.

Correnti del Buddhismo

Diffusione dell'Buddhismo nel mondo

In India

Il Buddhismo si estinse in India, paese d'origine, approssimativamente attorno al XIV secolo. Tuttavia durante più di 1500 anni di storia il Buddhismo indiano ha sviluppato indirizzi e interpretazioni diverse, anche estremamente complesse. Lo sviluppo di tale complessità si rese necessario con il continuo confronto dottrinale sia all'esterno delle Comunità monastiche con le scuole brahmaniche e jaina, sia all'interno delle stesse per svelare progressivamente gli insegnamenti (soprattutto i c.d. "inesprimibili", sanscrito avyākṛtavastūni) contenuti negli antichi Āgama-Nikāya. Le scuole nate nel sub-continente indiano nel corso di questi 1500 anni di storia sono suddivisibili in tre gruppi:

    * Il Buddhismo dei Nikāya, un insieme di scuole buddhiste sorte nei primi secoli dopo la morte del Buddha Śākyamuni (vedi anche Concili buddhisti) che non riconoscevano la canonicità degli insegnamenti riportati nei Prajñāpāramitā sūtra e nel Sutra del Loto, scritture successivamente denominate come sutra Mahāyāna e che in epoca moderna compaiono nel Canone cinese e nel Canone tibetano. Da una di queste scuole del Buddhismo dei Nikāya, la Vibhajyavāda, origina l'importante scuola cingalese, ancora diffusa nel Sud-Est asiatico, denominata Theravāda.

    * Buddhismo Mahāyāna o del «Grande Veicolo», sviluppatosi a partire da alcune comunità buddhiste antiche ma con l'accoglimento degli insegnamenti riportati nei Prajñāpāramitā Sūtra e del Sutra del Loto. Buona parte del Buddhismo indiano a partire dal II secolo fino alla sua scomparsa è rappresentato o influenzato da questa corrente, in seno alla quale meritano particolare menzione gli indirizzi Madhyamaka, Cittamātra e il Buddhismo Vajrayāna. La quasi totalità delle differenti scuole presenti in Estremo Oriente appartengono a questo Veicolo.

    * Il Buddhismo Tantrico è anch'esso Mahāyāna, e rappresenta la controparte buddhista di un fenomeno più ampio nelle religioni dell'India, il Tantrismo, che ha influenzato anche l'Induismo. Si sviluppò in seno al Buddhismo Mahāyāna e ne influenzò profondamente la pratica, almeno dal VI secolo in poi. Anche noto come Mantrayāna, la sua forma più organizzata è più conosciuta come Buddhismo Vajrayāna o Veicolo del Diamante. Antiche cronache del Buddhismo come la "Storia dell'avvento del Dharma in India" (tib. rGyar-gar chos-'byung) redatta nel 1608 dallo storico tibetano Tāranātha Kunga Nyingpo attestano che, almeno dal X secolo, i centri universitari buddhisti in India dispensavano soprattutto insegnamenti tantrici. Pressoché tutte le scuole tibetane, ma anche diverse scuole estremo-orientali come la giapponese Shingon, appartengono a questo Veicolo.

Il Buddhismo fuori dall'India

Tra le tradizioni che fuori dall'India hanno avuto una lunga storia e un'evoluzione in parte indipendente ricordiamo:

    * Il Buddhismo Theravāda o degli Anziani: Sri Lanka, Myanmar, Thailandia, Cambogia e Laos.
    * Il Buddhismo cinese, che è storicamente all'origine del Buddhismo coreano, del Buddhismo giapponese e di una parte del Buddhismo vietnamita. Dal Buddhismo giapponese proviene la scuola buddhista Zen che unitamente al nuovo movimento religioso, anch'esso di origine giapponese, Soka Gakkai, risulta tra le scuole buddhiste più diffuse in Occidente.
    * Il Buddhismo tibetano praticato in Tibet e in Mongolia e in epoche diverse in Cina, Ladakh, Bhutan, parti del Nepal, presso i Tatari e i Calmucchi in Europa, nello Yunnan nord-orientale e, un tempo, come Buddhismo Vajrayāna in Asia Centrale, Kashmir, Giava, Birmania e Bengala.
    * Il Buddhismo in Occidente presente negli Stati Uniti, in Europa ma anche in Canada in Australia e Italia.