Buddha e Buddismo
www.sapere.it
Il nome dato tradizionalmente al fondatore del buddhismo ,
Siddhartha Gautama (o Gotama) del clan Sākya (a capo di uno staterello
dell'attuale Nepal). Siddhartha sarebbe stato il figlio del re dei
Sākya, e quindi un membro della casta dei guerrieri; mentre secondo
un'altra tradizione sarebbe appartenuto alla casta dei brahmani
(sacerdoti). Gli studiosi moderni fissano le sue date di nascita e di
morte, rispettivamente, al 560 e al 480 a. C. Numerose leggende
compongono la sua biografia tradizionale: tutte con un particolare
significato metastorico. A prescindere dalla verità storica, e tanto
per dare un senso all'azione del Buddha, ricorderemo lo schema
biografico essenziale. Siddhartha, educato a corte lontano dalle
miserie del mondo, scopre il dolore incontrando casualmente, durante
una passeggiata, un vecchio, un ammalato, un cadavere e un monaco.
Decide perciò di abbandonare la vita mondana, la moglie e il figlio per
abbracciare la via dell'ascesi e segue gli insegnamenti dei due
brahmani, maestri di yoga, Arāḍa Kālāma e Udraka Rāmaputra. Non pago
della loro dottrina, si sottopone a straordinarie privazioni che gli
procurano l'ammirazione di cinque discepoli. Poi però comprende
l'inutilità dell'ascesi e abbandona tale vita. I discepoli delusi lo
lasciano e se ne vanno a Benares. Siddharta, solo, si reca in un bosco
e, sedutosi sotto un albero di pippal (Ficus religiosa), fa voto
solenne di non muoversi di lì finché non avrà raggiunto la conoscenza.
Facendo uso di tutte le pratiche yoga, attraverso una serie di
meditazioni profonde, giunge infine alla “Verità”, “Conquista”,
“Illuminazione” e diventa onnisciente. Decide di proclamare questa
“verità” agli uomini e, per primi, ai cinque discepoli che lo avevano
abbandonato.
Il "discorso di Benares"
Egli li raggiunge a Benares, dove rivela loro di essere Buddha (ossia
un “illuminato”) e pronuncia il celebre “discorso di Benares”, che
costituisce il nucleo fondamentale del buddhismo: essenza della vita è
il dolore (prima verità), che trova la sua origine nella sete di
vivere, prodotta dai desideri dei sensi e dall'ignoranza (seconda
verità). È quindi necessario distruggere il dolore (terza verità)
attraverso l'ottuplice sentiero, che porta alla liberazione
dall'esistenza, al nirvana (quarta verità). Per quarant'anni il Buddha
predicò con incessante attività la sua dottrina, facendo molti
discepoli e proseliti e morì a 80 anni, dicendo allo sconsolato
discepolo Ananda che “il credente sa vincere anche il dolore del
distacco”, raccomandando ancora una volta l'osservanza della dottrina e
ricordando che “tutto è transitorio”.
*
www.filosofico.net
IL BUDDHISMO
A cura di Diego Fusaro
Le origini
Il termine Buddha in lingua pali significa "chi conosce o raggiunge
l'illuminazione". Il fondatore del Buddhismo si chiamava in
realtà Siddharta, ed aveva come patronimico quello di Gautama
o Gotama. Nacque in una famiglia principesca, del clan dei Sakya,
che viveva a Kapilavastu, in una regione che oggi fa parte del
Nepal, a 170 chilometri circa dall'odierna Benares. Nacque verso la
metà del 6° secolo a.C. Suo padre si chiamava Suddhodana
e la madre Mahamaya. Il giovane principe venne allevato in mezzo al
lusso, avendo a disposizione tutte le comodità ed i piaceri.
A 19 anni sposò una donna bellissima, Yasodhara. Per molti
anni condusse una vita fatta di lusso e felicità domestica.
Ma un giorno il giovane incontrò un vecchio, un malato, un
morto ed un monaco. Quelle quattro realtà lo colpirono
profondamente. Dopo essersi reso conto che la vecchiaia, la malattia
e la morte sono la sorte dell'umanità e che vi sono delle
persone che aspirano ad una vita diversa, decise di dedicarsi anche
lui alla ricerca della verità. Aveva 29 anni quando decise di
lasciare tutto e di ritirarsi in luoghi solitari per meditare. Si
addentrò nella foresta, si rase il capo, indossò
l'abito giallo di un eremita e per sei lunghi anni cercò una
soluzione. Interrogò famosi sapienti, si diede all'ascetismo
più rigido ma non riuscì a trovare la Risposta. Una
notte, infine, si sedette sotto un albero e promise che non si
sarebbe mosso da lì finché non avesse trovato la
Risposta. Sotto quell'albero combatté l'ultima battaglia,
quella contro le inclinazioni e i desideri del cuore umano, la
battaglia contro l'amore per il mondo, l'illusione, l'aspirazione ad
esistere e a gioire, contro il desiderio dell'onore, della
felicità, della vita familiare, del benessere, del potere
ecc. Fu assalito dal demone Mara, ma Siddharta superò le
tentazioni. Dopo quarantanove giorni di meditazione, in una notte di
luna piena del mese di maggio, in un luogo noto come Buddhagaya,
egli raggiunse l'illuminazione. Da allora fu noto come "il Buddha".
Aveva circa trentacinque anni. Da quel giorno percorse per altri
quarantacinque anni il nord dell'India insegnando e predicando il
suo messaggio di speranza e di felicità. Buddha morì
all'età di 80 anni a Kusinara, in una notte di luna piena nel
mese di karttika (ottobre-novembre).
Alla sua comunità, Buddha aveva lasciato solo la dottrina
(Dhamma o Dharma), che è conosciuta come le Quattro Nobili
Verità. Esse sono: 1) c'è il dolore; 2) il dolore ha
una causa; 3) il dolore può essere superato; 4) il modo per
eliminare il dolore è pratica l'Ottuplice Sentiero. Vediamo
in breve i vari punti.
Il dolore o la sofferenza (dukkha) è un
fatto universale. "E questa, o monaci, è la santa
verità circa il dolore: la nascita è dolore, la
vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte
è dolore; l'unione con quel che dispiace è dolore; la
separazione da ciò che piace è dolore; non ottenere
ciò che si desidera è dolore; in una parola, dolore
sono i cinque elementi dell'esistenza individuale".
La causa del dolore è il desiderio ovvero
brama ovvero sete (tauha). "Questa, o monaci, è la santa
verità circa l'origine del dolore: essa è quella sete
che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia
e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di
piacere, sete di esistenza, sete di estinzione".
Come può cessare il dolore? "Questa, o
monaci, è la santa verità circa la soppressione del
dolore: è la soppressione di questa sete, annientando
completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il
liberarsi da essa, il distaccarsi". Esiste dunque uno stato in cui
c'è libertà completa dalla sofferenza e da ogni
schiavitù, uno stato in cui si gode della pace assoluta, che
è il Nirvana (o Nibbana).
La via che conduce alla soppressione del dolore
è l'Ottuplice Sentiero: "Questa, o monaci, è la santa
verità circa il sentiero che conduce alla soppressione del
dolore: è l'augusto ottuplice sentiero, e cioè: retta
fede, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto
sforzo, retto ricordo, retta concentrazione". Questo Ottuplice
Sentiero porta a prendere coscienza di sé, del proprio
intimo, porta alla sapienza e fuga l'ignoranza; il suo frutto
consiste nella serenità, nella conoscenza e nella
illuminazione, che è il Nirvana, lo stato di pace perfetta e
di perfetta felicità.
Per chiarire meglio in che cosa consiste il Nirvana, dobbiamo
ricordare che il Buddhismo ha ereditato dall'Induismo il concetto
del karma. Il karma è la nostra azione o, meglio, in senso
morale, è il frutto della nostra azione, il nostro merito o
demerito. Fintanto che vi sarà karma, un essere
nascerà e rinascerà. Questa però non vuole
essere una dottrina deterministica poiché si è sempre
liberi di agire per il meglio o per il peggio. È la
volontà e non tanto la sola azione che riveste importanza nel
produrre nuovo karma. Questa situazione è forse destinata a
continuare per sempre? No, per il Buddhismo non sarà sempre
così. C'è infatti la possibilità di arrivare al
Nirvana per porre fine alle sofferenze, per essere liberati dalla
ruota delle nascite e delle rinascite. Si tratta di uno stato di
beatitudine suprema, di pace e di tranquillità interiore,
accompagnato dalla certezza di aver ottenuto la liberazione;
è uno stato non descrivibile a parole; solo chi lo ha
sperimentato può sapere che cos'è. Infatti può
essere raggiunto in questa vita e non in uno stato futuro. Né
è una condizione che solo pochi possono fare propria. Tutti
sono in grado di raggiungerlo, anche se sono molto pochi coloro che
vi giungono in maniera perfetta durante questa vita. La beatitudine
dei perfetti (Arahat) dopo la morte è chiamata Parinirvana, e
costituisce ovviamente l'ultimo stadio del nirvana.Tale è il
traguardo a cui l'Ottuplice Sentiero può condurre il fedele.
La teoria della anatta. Il Buddhismo respinge la nozione di anima
intesa come la sostanza individuale, personale, autonoma e immortale
nei confronti del corpo. Esso sostiene al contrario che non
c'è nessuna anima, dunque c'è una non-anima, che
chiama anatta. In altre parole, l'anima o l'io o il sé non
esistono. Quel che è detto "io" è una combinazione
continuamente mutevole di forze ed energie mentali e fisiche, che
sono di per sé vuote, irreali. Noi siamo abituati a dire che
il corpo o le abitudini o i pensieri di una persona appartengono ad
un sé, ed in questo modo suggeriamo che, oltre a ciò
che è posseduto, vi sia anche un possessore - l'io - di tali
processi. In realtà, secondo il Buddhismo, questo è
soltanto un modo di dire: la dottrina della anatta nega insomma che
il cosiddetto sé sia una sostanza indipendente dai processi
che formano una persona. Si tenga inoltre presente che per il
Buddhismo la credenza in un sé sostanziale è proprio
alla base della sofferenza, perché tale credenza rende
possibile l'attaccamento dei vari processi appunto ad un sé
che soffrirebbe: io soffro, io gioisco, io agisco… Questo errore
fondamentale, questo ignorare quale sia la verità (per il
Buddhismo) permette l'attaccamento e rende perciò reale la
sofferenza ed impossibile a superarsi.
Il Sangha. Un altro concetto molto importante nel Buddhismo è
la "comunità" o sangha. Il sangha è l'ordine dei
monaci buddhisti (bhikku). Oggi il Buddhismo è diviso, grosso
modo, nella scuola meridionale o Theravada ( diffuso in Birmania,
Sri Lanka, Thailandia, Cambogia), chiamata anche Piccolo Veicolo, e
nella scuola settentrionale, forse più conosciuta ai profani,
del Mahayana (diffuso in Tibet, Mongolia meridionale, Cina,
Giappone, Corea, Vietnam), chiamata Grande Veicolo. Queste due
scuole sono due aspetti complementari di un tutto. Il Buddhismo, pur
sorto in India, ha saputo adattarsi ai popoli e alle culture in cui
si è diffuso. Il primo Buddhismo era contrario ai riti e alle
cerimonie, alle preghiere e alle osservanze. Buddha stesso non
designò alcun successore né diede direttive riguardo
una forma particolare di organizzazione. Col passare del tempo fu
però necessario ricorrere a qualche forma di organizzazione
per tenere insieme la comunità (sangha). Essa è stata
così costretta a stabilire vari gradi all'interno della
comunità. Vi è dunque il novizio; quindi il monaco
vero e proprio; poi l'anziano e in ultimo il grande anziano. Tra i
monaci non esistono comunque segni di distinzione. La disciplina
è regolata da un codice, Patimokkha, che contiene 227
precetti. È cosa relativamente semplice farsi buddhista:
buddhista è chi venera il Buddha come la guida o il maestro
spirituale più alto, e che si sforza di vivere in
conformità ai suoi insegnamenti. Chiunque vuole diventare
seguace di Buddha dichiara la propria intenzione usando la formula
seguente, detta Tirasana (i tre rifugi), recitata abitualmente in
lingua pali, che si può tradurre così: "Al Buddha come
rifugio io vado; al Dharma come rifugio io vado; al Sangha come
rifugio io vado".
Le feste buddhiste. Il giorno di riposo è il sabato. Le tre
feste più importanti sono il Capodanno, il Giorno del Buddha
e la Quaresima. Il Capodanno cade in genere nel mese di aprile. La
celebrazione dei primi due giorni del nuovo anno comprende la Festa
dell'acqua. La gente offre recipienti di acqua fresca ai suoi
anziani e regala loro dei doni utili in segno di rispetto e per
chiedere la loro benedizione; a loro volta gli anziani rispondono
elargendo quattro grazie, e cioè lunga vita, bell'aspetto,
tranquillità ed energia. Inoltre si getta per divertimento
dell'acqua addosso ai passanti. Le due pratiche sono interpretate
come un lavaggio dalla "sporcizia" accumulata nel corso dell'anno.
L'acqua viene gettata addosso agli altri anche allo scopo di
ottenere pioggia più abbondante nella imminente stagione
della semina del riso. Infine la festa serve anche a farsi dei
meriti andando a visitare i propri defunti. La gente, dopo aver
offerto del cibo ai monaci nei monasteri, affolla le pagode dove
sono sepolte le ceneri e le ossa cremate degli antenati.
Nel Giorno del Buddha si commemorano la nascita, l'illuminazione e
la morte di Buddha. Infatti in un giorno di luna piena del mese di
maggio venne alla luce Siddharta Gautama; in un giorno di luna piena
di maggio egli ebbe l'illuminazione, e in un giorno di maggio
morì o, per meglio dire, entrò nel Parinirvana.
La Quaresima buddhista dura tre mesi, dalla luna piena di luglio
alla luna piena di ottobre. In questo periodo, i monaci non possono
viaggiare e non possono passare la notte fuori dal monastero se non
in caso di gravi necessità. In tale epoca non si possono
celebrare matrimoni, non si possono svolgere giochi e altre forme di
divertimento pubblico, ed i devoti cercano di osservare il sabato
più spesso che possono.
L'etica buddhistica
Fin dagli inizi il buddhismo distinse certi valori umani assoluti,
universali, validi per tutti, e dei precetti più rigidi la
cui osservanza è propria dei monaci. Le cinque regole
raccomandate ai laici sono (Panca sila): rispetto della vita,
astenersi dal furto, castità, non mentire, non bere bevande
alcoliche. Le cinque regole obbligatorie per i monaci, oltre alle
cinque precedenti, sono: disciplina nell'ora dei pasti (cioè
mangiare nel momento prescritto), non ricercare i piaceri mondani,
evitare unguenti ed ornamenti; non usare letti ampi e comodi, non
ricevere denaro. In queste prescrizioni il buddhismo non fu
originale: un catalogo simile si ritrova ad es. nello Yoga.
L'originalità del buddhismo è altrove. I precetti
morali non hanno di mira l'individuo singolo, isolato, che ha di
mira la propria salvezza; piuttosto considerano l'uomo come vivente
in mezzo agli altri: non basta non fare del male, non basta non
uccidere o non offendere, bisogna altresì partecipare amorosi
alla vita altrui, avere simpatia per i propri simili, rallegrarsi
delle loro gioie e commiserare e alleviare i loro dolori. In altre
parole, simpatia e pietà introducono un elemento positivo
nella morale; la quale non è più l'eliminazione o
cessazione del male ma diventa un comandamento positivo: qualche
cosa che bisogna fare, e a fare non per sé ma per gli altri.
La morale buddhistica immette cioè nella morale indiana il
senso del collettivo. L'uomo è sì artefice del proprio
destino, deve evitare il male e superare le passioni e l'egoismo, ma
questa purificazione non è un rigido ed austero estraniarsi
dal mondo; essa trova il proprio esercizio e il terreno fecondo
nella vita consociata. La morale del laico si differenzia per questo
dalla morale dell'asceta: il quale necessariamente deve sottostare
ad altri obblighi e limitazioni. Il contrasto tra le due morali non
è stato forse per nessuna scuola così palese come nel
Buddhismo: accanto a quei comandamenti universalmente validi,
abbiamo la tecnica sottile, ingiunta ai monaci, per detergere tutte
le macchie, distrazioni ed egoismi dal più profondo della
mente, e rendere questa cristallina e pura, onde le passioni e il
karma conseguente non abbiano più presa sull'uomo. Su questa
prassi si innesta il processo della meditazione, dell'ottenimento
della perfetta quieta, della soppressione intera della passione,
della restituzione della mente alla sua assoluta, immobile
serenità. Ma sulla morale laica, riscaldata dai principi
della simpatia e della pietà, fiorì lo spirito di
rinuncia e di sacrificio che rappresenta il centro del Grande
Veicolo. Nel Mahayana infatti l'amore trionfa nella figura del
Bodhisattva, che è tutto abnegazione e sacrificio. Le sei o
dieci perfezioni che deve praticare il Bodhsattva per tramutarsi in
Buddha muovono dalla perfezione della Legge, dalla pazienza, dalla
rinuncia di se medesimi, dalla costanza: virtù che
l'agiografia tradizionale celebra di continuo ad edificazione dei
fedeli, ripetendo le gesta del Buddha. Tale spirito di sacrificio
è assoluto, nel senso che non basta sacrificare i propri beni
o la propria vita. Il Bodhsattva rinuncia al risultato karmico del
bene che compie, e fa voto di assumere su di sé i peccati
altrui e trasferire la propria gioia e i propri meriti agli altri.
Questo supremo sacrificio si chiama parinamana, trasferimento del
karma altrui sul Bodhisattva; esso diventa uno dei fattori necessari
della elevazione spirituale e sta a significare l'assoluta
abnegazione che deve animare il Bodhisattva.
Nagarjuna
Visse verso la fine del 2° secolo d.C. Secondo una biografia
mitica cinese, era nato nell'India meridionale. Di casta brahmanica,
studiò i Veda e apprese tutte le scienze, compresa la magia,
grazie alla quale sapeva rendersi invisibile. Approfittando di
quest'arte, penetrò nell'harem del re; scoperto,
riuscì a fuggire e si fece monaco buddhista, e diffuso il
buddhismo nell'India meridionale. È considerato il fondatore
di una importante scuola del buddhismo, quella dei Sunya-vadin,ed
è l'autore di un celebre testo, i Madhyamikakarika, oltre a
numerose altre opere.
Nagarjuna dimostra che le cose, essendo reciprocamente condizionate,
non hanno realtà in sé. Non c'è un soggetto e
un oggetto. Nessuna cosa è esistente in sé: esiste in
quanto in relazione con le altre. La sua individualità e
singolarità è una supposizione erronea. Del mondo
dell'esperienza non si può, in verità, predicare
nulla: esso è contraddittorio e nessun concetto è
valido per spiegarlo. Nagarjuna cerca di ridurre all'assurdo ogni
possibile teoria. È un criticismo estremo che afferma la
relatività di ogni pensiero e di ogni essere: come ogni cosa
non ha un'esistenza reale e il suo essere è puramente
apparente, così nessun concetto è indipendente.
Pensare è supporre sempre una relazione; quando il processo
dialettico ha dimostrato l'insostenibilità logica di tutto il
pensato, quella cessazione o arresto è il vuoto, la
vacuità, l'inesprimibile, al di là di ogni
designazione. Nagarjuna fa l'esempio di un malato agli occhi che
immagina di vedere macchie o punti. Chi non sappia di essere malato
prende quelle macchie per vere e reali; chi sa di essere malato, pur
non potendo eliminare quel difetto, sa che la persona sana ne
è priva e per lei quelle macchie non esistono. Così la
vera vista è quella che scopre l'identità estrema
oltre tutti gli opposti e tutti i concetti, identità nella
quale appunto samsara e buddhità si equivalgono: il reale
trascende ogni dualità. La vacuità (sunyata) è
il fondamento di tutto. Essa non è il puro nulla ma la
negazione, come già accennato, di ogni categoria mentale,
anche la più generale e astratta, per cui della realtà
in sé non si può dire né che esiste né
che non esiste perché trascende il nostro pensiero. Anche il
Buddha, il nirvana e le altre categorie buddhistiche sono in
sé inesistenti, hanno soltanto un valore strumentale e
servono come ideali a cui deve tendere la nostra azione. Chi crede
nella realtà dei fenomeni si irretisce nel ciclo delle
nascite e rinascite, chi invece si convince della loro
illusorietà e crede nella vacuità, non si attacca al
mondo e ottiene la liberazione.
Il Buddhismo tibetano
Il Buddhismo tibetano pratica la forma del "Veicolo di
diamante"(vajrayana).Secondo la tradizione, la penetrazione del
buddhismo nel Tibet è legata all'opera del re
Sron-btsan-sgam-po (620-649 ca.) ma è probabile che una prima
penetrazione di dottrine buddhiste di provenienza cinese e
centro-asiatica si sia verifica ancora prima di quest'epoca. Il
periodo che va dal X al XV secolo vide il consolidamento del
Buddhismo in Tibet e la definitiva sistemazione del Canone, che
risultò diviso in due grandi sezioni, una contene l'altra la
letteratura esegetica. ente i sutra, il tantra, le regole di
disciplina. La crescente mondanizzazione della setta Sa skya pa
(così chiamata dal monastero di Sa Skya, fondato nel 1073),
finì con l'accentrare il potere temporale nelle mani dei
religiosi e consentì loro di esercitare per esecoli un forte
dominio teocratico su tutto il paese. Tale potere venne legittimato
politicamente dallo stesso Kubilai khan (capo dei tartari, nipote di
Gengis Khan) nel XIII secolo, che concesse loro la sovranità
(ereditaria di fatto, in quanto gli abati di questa setta, non
vincolati al celibato, potevano contrarre matrimonio e quindi
trasmettere il potere ai propri figli) su tutto il Tibet. Si
stabilirono in questo modo quelle relazioni ufficiali tra i due
popoli che porteranno al vassallaggio del Tibet sotto i Mongoli e
poi sotto la Cina.
Il buddhismo tibetano è chiamato lamaismo dal termine lama,
cioè maestro. Il potere teocratico del lamaismo si esercita
attraverso una comunità fortemente gerarchizzata a capo della
quale sono due Lama: il Dalai Lama (=maestro che è oceano di
saggezza) e il Pan c'en-Lama. Il primo risiedeva nel convento Potala
a Lhasa e deteneva il potere supremo sul Tibet; il secondo invece
dimorava nel monastero di Ta-shi-lhum-po e deteneva il potere
spirituale. In ordine di dignità ai due grandi Lama, seguono
180 Hutuktu, considerati incarnazioni di bodhisattva e di
dèi. Ogni volta che un Lama muore, i dignitari religiosi si
pongono alla ricerca di un bambino nel quale si può avere la
certezza (in base ad eventi straordinari) che si è rifugiata
l'anima del Lama defunto: ove le prescritte prove di accertamento
confermino la validità delle scelte, il predestinato viene ad
occupare di diritto il posto del Lama deceduto.
Tra i culti più notevoli praticati dai lamaisti vi è
quello dei "Buddha viventi", ossia dei grandi monaci i quali,
durante le funzioni liturgiche, sono fatti oggetto di venerazione
come esseri divini. Il Lamaismo è oggi presente, oltre che in
Tibet, in Mongolia, nella Cina del Nord e dell'Ovest, in Turkestan,
Nepal, Bhutan e Sikkim.
Il Buddhismo Zen
Lo Zen è una forma particolare di Buddhismo. La parola zen
è un termine giapponese derivato dal cinese ch'an o shan, a
sua volta trascrizione del sanscrito dhyana, ossia meditazione.
È infatti una corrente del buddhismo che ebbe origine in Cina
al principio del 6° sec. d. C. Dalla Cina si diffuse in Giappone
con il monaco Eisai verso il 1190. Qui lo Zen ebbe grande fioritura
e diede vita a numerose correnti (Rinzai, Soto ecc.), molte delle
quali ancora attive.
Lo Zen non conosce dèi, non ricerca l'immortalità e
non ammette concetti come peccato o anima. Non è né
una religione né una filosofia in senso occidentale; è
semmai un sistema di vita. Che cosa fa una persona che segue lo Zen?
Essa si educa gradualmente a cogliere la realtà senza
mediazioni intellettuali ma vivendola nella pienezza del momento.
È la qualità dell'esperienza qui e ora, e non la
precisione della ragione, che assume la massima importanza per il
seguace dello Zen. La pratica fondamentale dello Zen è lo
zazen, che viene intrapresa al fine di ottenere le condizioni
ottimali per vedere direttamente in se stessi e scoprire nella
purezza della propria esistenza la vera natura dell'essere. Lo Zen
crede che la persona comune sia presa in un groviglio di idee,
teorie, riflessioni, pregiudizi, sentimenti ed emozioni tali che non
le permettono di cogliere la verità e la realtà ma
solo frammenti di essa. Lo scopo dello zazen è dunque quello
di liberare l'individuo e di consentirgli di entrare in modo pieno e
diretto nella realtà. Vi sono tre mete che lo zazen si
propone. La prima consiste nell'aumentare i poteri di concentrazione
eliminando tutti i fattori di distrazione e tutti i dualismi
(soggetto e oggetto, realtà e apparenza, bene e male ecc.).
La seconda mira al conseguimento del satori, ossia di una sorta di
illuminazione (essa presuppone un intenso allenamento: per ottenere
il satori, vengono in aiuto i koan, stratagemmi usati dal maestro
per far ottenere l'illuminazione al discepolo). La terza infine
consiste nel vivere l'illuminazione nella vita di tutti i giorni. In
questo modo qualsiasi azione e qualsiasi momento sono vissuti nella
pienezza e nella profondità della verità.
Storie Zen
Nan-in, un Maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette
la visita di un professore universitario che era andato da lui per
interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il te. Colmò la
tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore
guardò traboccare il te, poi non riuscì più a
contenersi. "E’ ricolma. Non ce n’entra più!". "Come questa
tazza" disse Nan-in "tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture.
Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza ?".
Gli insegnanti di Zen abituano i loro giovani allievi a esprimersi.
Due templi Zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra
tutti. Ogni mattina uno di questi bambini, andando a comprare le
verdure, incontrava l’altro per la strada. "Dove vai?"
domandò il primo. "Vado dove vanno i miei piedi" rispose
l’altro. Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che
andò a chiedere aiuto al suo maestro. "Quando domattina
incontrerai quel bambino" gli disse l’insegnante "fagli la stessa
domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu
domandagli: "Fa’ conto di non avere i piedi: dove vai, in quel
caso?". Questo lo sistemerà. La mattina dopo i bambini si
incontrarono di nuovo. "Dove vai?" domandò il primo bambino.
"Vado dove soffia il vento" rispose l’altro. Anche stavolta il
piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al maestro la
propria sconfitta. "E tu domandagli dove va se non c’è vento"
gli consigliò il maestro. Il giorno dopo i ragazzi si
incontrarono per la terza volta. "Dove vai ?" domandò il
primo bambino. "Vado al mercato a comprare le verdure" rispose
l’altro.
Il grande santo buddhista Nagarjuna andava in giro tutto nudo, con
solo il perizoma e, paradossalmente, una ciotola dorata per
raccogliere l’elemosina, dono del re che era suo discepolo. Una sera
stava per mettersi a dormire, fra le rovine di un antico monastero,
quando si accorse che un ladro lo stava spiando da dietro una
colonna. "Tieni, prendila", disse Nagarjuna, porgendogli la ciotola.
"Così non mi verrai a disturbare quando sarò
addormentato". Il ladro arraffò la ciotola e fuggì
via, per ritornare però il mattino seguente con la ciotola e
una richiesta: "Quando ieri sera mi hai regalato questa ciotola con
tanta generosità, mi hai fatto sentire molto povero.
Insegnami come fai a procurarti la ricchezza che ti permette di
avere questo sereno distacco dalle cose".
Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino.
Il suo insegnante aveva una preziosa tazza da tè, un oggetto
antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu ruppe questa tazza e ne fu
molto imbarazzato. Sentendo i passi dell’insegnante, nascose i cocci
della tazza dietro la schiena. Quando comparve il maestro, Ikkyu gli
domandò: "Perché le gente deve morire?" "Questo
è naturale" spiegò il vecchio. "Ogni cosa deve morire
e deve vivere per il tempo che le è destinato." Ikkyu,
mostrando la tazza rotta, disse: "Per la tua tazza era venuto il
tempo di morire".
Un giovane andò da un maestro e gli chiese: "Quanto tempo
potrò impiegare per raggiungere l’illuminazione?" Rispose il
maestro: "Dieci anni". Il giovane era sbalordito. "Così
tanto?" domandò incredulo. Replicò l’altro: "No, mi
sono sbagliato, ci vorranno venti anni". Il giovane chiese: "
Perché hai raddoppiato la cifra?" Allora il maestro
spiegò: "Adesso che ci penso, nel tuo caso ce ne vorranno
probabilmente trenta".
Ti sei svegliato prima dell'alba, ma il tuo nemico non l'hai
trovato. Quando il sole era basso hai attraversato tutta la pianura,
ma il tuo nemico non l'hai trovato. Mentre il sole era alto nel
cielo hai cercato tra le piante di tutta la foresta, ma il tuo
nemico non l'hai trovato. Il sole era rosso nel cielo mentre tu
cercavi sulla cima di tutte le colline, ma il tuo nemico non l'hai
trovato. Ora sei stanco e ti riposi sulla riva di un ruscello,
guardi nell'acqua ed ecco il tuo nemico: l'hai trovato.
Un uomo perse il suo anello più prezioso; cercò
ovunque per ritrovarlo, ma nonostante la sua fatica non ci
riuscì. Si sedette su una pietra, disperato, cercando
inutilmente di sopprimere la sua disperazione. Come al solito il suo
cane gli si avvicinò cercando le carezze del padrone. Il
vicino di casa lo salutò come ogni sera. Gli amici gli fecero
vedere i pesci che avevano pescato e gliene regalarono alcuni. La
moglie e i figli lo accolsero con affetto al suo arrivo a casa
esattamente come accadeva sempre. La giornata si concluse nella pace
familiare. Purtroppo il tormento per la perdita dell'anello
perseguitava ancora l'uomo, il quale però pensò:
"nessuno si è accorto che ho perso l'anello, tutti si sono
comportati con me come sempre, perché proprio io devo
comportarmi in modo diverso con me stesso?". Fu così che si
addormentò sereno.
Il maestro Tanzan era in viaggio con il suo allievo Ekido lungo una
strada fangosa. Ad un certo punto incontrarono una bella ragazza in
kimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare quella melma,
senza rovinare il suo bel vestito. Senza problemi, Tanzan la prese
in braccio e la trasportò sull’altro lato della strada. Ekido
rimase pensieroso per tutto il giorno. Alla sera, non resistendo
più, chiese apertamente al maestro: "Noi monaci non
avviciniamo le donne, è pericoloso. Perché l’hai
fatto?" Tanzan rispose: "Io quella ragazza l’ho lasciata
laggiù. Tu la stai ancora portando con te"
Non cercare di seguire le orme dei saggi. Cerca ciò che essi
cercavano.
*
wikipedia
Siddhārtha Gautama, meglio conosciuto come Gautama Buddha, il Buddha
storico, Buddha Śākyamuni o semplicemente Buddha
(Lumbini, 566 a.C. – Kuśināgara, 486 a.C.), è stato un monaco
buddhista, filosofo, mistico e asceta indiano, fondatore del
Buddhismo, una delle più importanti figure spirituali e
religiose dell'Asia.
Visse approssimativamente tra il 566 a.C. e il 486 a.C. e proveniva
da una famiglia ricca e nobile del clan degli Śākya, da cui anche
l'appellativo Śākyamuni (l'asceta o il saggio della famiglia Śākya).
Un solo Gautama Buddha, diversi nomi
Il termine sanscrito e pāli Buddha indica, nel contesto religioso e
culturale indiano, "colui che si è risvegliato" o "colui che
ha raggiunto l'illuminazione".
Altri appellativi con cui viene spesso indicato Gautama Buddha sono
i termini sanscriti:
* Tathāgata: "Il Così Andato" o "Il
Così Venuto", epiteto con cui Gautama Buddha indica sé
stesso nei suoi sermoni, uguale alla forma pāli che compare di
frequente nel canone pāli;
* Śākyamuni: "Il saggio dei Śākya" (riferito al
clan a cui apparteneva Gautama Buddha), utilizzato soprattutto nella
letteratura del Buddhismo Mahāyāna (Sakyamuni nel canone pāli);
* Sugata: "Il Bene Andato", utilizzato
soprattutto nell'ambito delle scritture del Buddhismo Vajrayāna ma
frequente anche nel canone pāli;
* Bhagavān: "Signore", "Venerabile", "Illustre",
Beato, Sublime, Perfetto. Dal sostantivo sanscrito bhaga,
"ricchezza", "fortuna". Nella letteratura buddhista indica il
Buddha.
* Bodhisattva: "colui che sta percorrendo la via
per diventare un buddha", o "colui che cerca di conseguire il
'Risveglio'" o "colui la cui mente (sattva) è fissa sulla
bodhi", usato per indicare Gautama prima del conseguimento della
buddhità.
* Nella letteratura di scuola Theravāda viene
indicato con il nome pāli di Gotama Buddha.
La vita di Gautama Buddha secondo le tradizioni buddhiste
A rigore la vita di Gautama, nella tradizione buddhista, è
preceduta da innumerevoli altre rinascite, non dettate da una
trasmigrazione di un'anima individuale, né di alcuna forma di
reincarnazione ma dalla successione di vite legate fra loro dalla
trasmissione degli effetti del karma.
Queste vite anteriori, che nella tradizione fanno parte integrante
della vita di Gautama, vennero incluse nel canone, sono formate da
547 racconti edificanti in cui compaiono animali, déi, e
uomini delle più diverse estrazioni sociali e castali.
Le fonti
Sulla vita di Gautama Buddha esistono numerose tradizioni canoniche.
La più antica biografia autonoma di Gautama Buddha ancora
oggi disponibile è il Mahāvastu, un'opera della scuola
Lokottaravāda del Buddhismo dei Nikāya risalente agli inizi della
nostra Era, redatta in sanscrito ibrido.
Poi conserviamo anche il Lalitavistara, l'Abhiniṣkramaṇasūtra (di
questo sutra disponiamo ben cinque versioni nel Canone cinese conservate nel Běnyuánbù) e il Buddhacarita di
Aśvaghoṣa.
Più tarda (IV, V secolo d.C.) è la raccolta
biografica, sempre autonoma, contenuta nel
Mūla-sarvāstivāda-vinaya-vibhaṅga. Episodi della sua vita (ma non
come biografie autonome) si conservano anche nelle raccolte dei suoi
discorsi riportati negli Āgama-Nikāya.
Secondo Erich Frauwallner tutto questo materiale biografico
(autonomo o inserito nelle raccolte dei sermoni di Gautama Buddha)
farebbe parte di una prima biografia composta un secolo dopo la sua
morte, e inserita come introduzione allo Skandhaka, a sua volta un
testo del Vinaya. Di diverso avviso sono altri studiosi come
Étienne Lamotte e André Bareau per i quali invece le
biografie di Gautama Buddha hanno subìto una graduale
evoluzione partendo proprio dalle narrazioni episodiche contenute
negli Āgama-Nikāya e nei Vinaya per poi evolversi nelle raccolte
autonome come il Mahāvastu.
La nascita
Nel complesso queste biografie tradizionali narrano della sua
nascita avvenuta nel Nepal meridionale, a Lumbinī (non distante da
Kapilavastu), e raccolgono numerosi racconti e leggende che hanno
l'obiettivo di evidenziare la straordinarietà
dell'avvenimento: miracoli che ne annunciano il concepimento, chiari
segnali che il bimbo che stava per venire al mondo sarebbe stato un
Buddha.
La sua famiglia di origine (gli Śākya significa "potenti" ) si dice
fosse ricca: una stirpe guerriera che dominava il paese e che aveva
come capostipite leggendario il re Ikṣvāku.
Il padre di Siddartha, il rāja Śuddhodana, regnava su uno dei
numerosi stati in cui era politicamente divisa l'India del nord. La
madre di nome Māyā (o Mahāmāyā) è descritta di grande
bellezza.
Nel Buddhacarita, Mahāmāyā sognò che un elefante bianco le
penetrò nel corpo senza alcun dolore e ricevette nel grembo,
"senza alcuna impurità", Siddharta che fu partorito nel bosco
di Lumbinī dove il figlio le nacque da un fianco senza alcun dolore.
Siddharta, sempre secondo il racconto del Buddhacarita, nacque
pienamente cosciente e con un corpo perfetto e luminoso e dopo sette
passi pronunciò le seguenti parole:
«Per conseguire l'Illuminazione io sono nato, per il
bene degli esseri senzienti; questa è la mia ultima esistenza
nel mondo»
(Aśvaghoṣa. Buddhacarita, canto I, 15)
Sempre secondo il Buddhacarita (canto I) dopo la nascita di
Siddartha furono invitati a corte brahmani e asceti per una
cerimonia di buon auspicio. Durante questa cerimonia si racconta che
il vecchio saggio Asita trasse, com'era consuetudine, l'oroscopo del
nuovo nato e riferì ai genitori dell'eccezionale
qualità del neonato e la straordinarietà del suo
destino: tra le lacrime, spiegò che egli sarebbe infatti
dovuto diventare o un Monarca universale (Chakravartin, sans.,
Cakkavattin, pāli), oppure un asceta rinunciante destinato a
conseguire il risveglio, che avrebbe scoperto la Via che conduce al
di là della morte, ossia un Buddha[7]. Alla richiesta di
spiegazioni sulla ragione delle sue lacrime, il vecchio saggio
spiegò che erano dovute sia alla gioia d'aver scoperto un
tale essere al mondo, sia alla tristezza che gli derivava il
constatare che la sua età troppo avanzata non gli avrebbe
permesso di ascoltare e di beneficiare degli insegnamenti di un tale
essere realizzato. Si fece pertanto giurare dal nipote Nālaka che
lui avrebbe seguito il Maestro una volta che fosse cresciuto e che
ne avrebbe imparato e messo in pratica gli insegnamenti.
Il padre rimase turbato dalla possibilità che il figlio lo
abbandonasse, privandolo della legittima successione al trono, e
organizzò tutto quanto potesse impedire l'evento premonito.
La madre Māyā morì a soli sette giorni dal parto e il bimbo
venne quindi allevato dalla seconda moglie del re Suddhodana,
Pajāpatī, una sorella minore della defunta Māyā, nel più
grande sfarzo. Figlio, quindi, di un rāja, cioè di un capo
eletto dai maggiorenti cui era affidata la responsabilità del
governo, ricevette il nome di Siddharta (="quegli che ha raggiunto
lo scopo") Gautama ("l'appartenente al ramo Gotra degli Śākya").
Siddharta mostrò una precoce tendenza contemplativa, mentre
il padre l'avrebbe voluto guerriero e sovrano anziché monaco.
Il principe si sposò giovane, all'età di sedici anni,
con la cugina Bhaddakaccānā, nota anche con il nome di Yashodharā,
con la quale ebbe, tredici anni più tardi un figlio, Rāhula.
Nonostante però fosse stato allevato in mezzo alle
comodità e al lusso principesco e fatto partecipare alla vita
di corte in qualità di erede al trono, la profezia del saggio
Asita puntualmente s'avverò.
La fuga
All'età di 29 anni, ignaro della realtà che si
presentava fuori della reggia, uscito dal palazzo reale paterno per
vedere la realtà del mondo circostante, testimoniò la
crudezza della vita in un modo che lo lasciò attonito.
Incontrando un vecchio, un malato e un morto (altre fonti narrano di
un funerale), comprese improvvisamente che la sofferenza accomuna
tutta l'umanità e che le ricchezze, la cultura, l'eroismo e
tutto quanto gli avevano insegnato a corte erano valori effimeri e
caduchi. Capì che la sua era una prigione dorata e
cominciò interiormente a rifiutare agi e ricchezze. Poco dopo
essersi imbattuto in un monaco mendicante, calmo e sereno,
stabilì di rinunciare alla famiglia, alla ricchezza, alla
gloria ed al potere per cercare la liberazione[9]. Secondo il
Buddhacarita (canto V), una notte, mentre la reggia era avvolta nel
silenzio e tutti dormivano, complice il fedele auriga Chandaka,
montò sul suo cavallo Kanthaka e abbandonò la famiglia
ed il reame per darsi alla vita ascetica[10]. Secondo un'altra
tradizione comunicò piuttosto la propria decisione ai
genitori e, nonostante le loro suppliche e lamenti, si rase il capo
e il volto, smise i suoi ricchi abiti e lasciò la famiglia e
la casa. Fece voto di povertà e compì un percorso
tormentato d'introspezione critica. La tradizione vuole ch'egli
abbia intrapreso la ricerca dell'illuminazione a 29 anni (536 a.C.).
La pratica della meditazione
Dopo la fuga dalla società, abhiniṣkramaṇa, Gautama si
diresse dall'asceta Āḷāra Kālāma che soggiornava nela regione del
Kosala. Lì si esercitò sotto la sua guida nella
meditazione e nell'ascesi, per conseguire la
ākiñcaññayatana, la "sfera di nullità"
che per Āḷāra Kālāma coincideva col fine ultimo della liberazione,
mokṣa.
Insoddisfatto del conseguimento, Gautama si spostò quindi
verso la capitale del regno Magadha per seguire gli insegnamenti di
Uddaka Rāmaputta. Per questi la liberazione era conseguibile
attraverso la meditazione che, una volta esercitata tramite le
quattro jhāna, portava alla sfera del
nevasaññānāsaññāyatana, la sfera della
né percezione né non-percezione.
Pur avendo raggiunto la meta indicata dal maestro, Gautama non si
ritenne soddisfatto e decise di lasciarlo per stabilirsi presso il
piccolo villaggio di Uruvelā, dove il fiume Nerañjarā
(l'odierno Nīlājanā) confluisce nel Mohanā per formare il fiume
Phalgu, a pochi kilometri dall'odierna Bodh Gaya. Qui trascorse gli
ultimi anni prima dell'illuminazione, insieme a cinque discepoli di
famiglia brahmanica: i venerabili Añña
Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e Assaji di cui
era divenuto a sua volta maestro spirituale. Le pratiche ascetiche,
dietetiche e meditative che sviluppò in questo periodo non
sono altrimenti note, anche se la tradizione successiva vuole che
fossero particolarmente austere.
Ciò che la letteratura religiosa riporta è che ad un
certo punto anche questa strada si dimostrò priva di sbocchi
e, comprendendo l'inutilità delle pratiche ascetiche estreme
e dell'automacerazione e tornò a una dieta normale accettando
una tazza di riso bollito nel latte offertogli da una ragazza di
nome Sujatā. Ciò gli costò l'alienazione e la perdita
dell'ammirazione dei suoi discepoli, che videro nel suo gesto un
segno di debolezza e di conseguenza lo abbandonarono. Desideroso di
conoscere le cause della miseria presente nel mondo, Gautama
capì che la conoscenza salvifica poteva essere trovata solo
nella meditazione di profonda visione e che questa poteva essere
sostenuta solo se il corpo fosse stato in buone condizioni e non
spossato dalla fame, sete e sofferenze autoinflitte.
L'illuminazione
All'età di 35 anni, nel 530 a.C., dopo sette settimane di
profondo raccoglimento ininterrotto, in una notte di luna piena del
mese di maggio, seduto sotto un albero di fico a Bodh Gaya, a lui si
spalancò l'illuminazione perfetta: egli meditò una
notte intera fino a raggiungere il Nirvāṇa.
Il Buddha conseguì, con la meditazione, livelli sempre
maggiori di consapevolezza: afferrò la conoscenza delle
Quattro nobili verità e dell'Ottuplice sentiero e visse a
quel punto la Grande Illuminazione, che lo liberò per sempre
dal ciclo della rinascita (da non confondersi con la dottrina
induista della reincarnazione, che fu esplicitamente rigettata con
la dottrina del "non Sé", anatman).
Foglia dell'albero di pippal, o ficus religiosa
La prima settimana dopo l'illuminazione Gautama Buddha rimase in
meditazione sotto la ficus religiosa. Le ulteriori tre settimane
seguenti le passò meditando sotto tre altri alberi: la prima
sotto un ajapāla (Ficus benghalensis o Ficus indica), la seconda
sotto un mucalinda (sanscrito: mucilinda; Barringtonia acutangula),
la terza sotto un rājāyatana (Buchanania latifolia).
Sotto l'ajapāla fu raggiunto da un brāhmaṇa che lo interrogò
sulla natura dell'essere brāhmaṇa, e la risposta fu che tale
è chi ha sradicato il male e parla in accordo con il Dhamma,
smentendo così implicitamente che fosse dovuto a una
condizione dettata dalla nascita e dall'appartenenza di casta.
Durante la meditazione sotto il mucalinda si sviluppò un
temporale che durò sette giorni, al che, uno spirito-serpente
del luogo, un nāga, protesse il Buddha dalla pioggia e dal freddo.
Sotto il rājāyatana il Buddha sperimentò la gioia della
liberazione dalle rinascite. In quella circostanza gli fecero visita
due mercanti, Tapussa e Bhallika, che gli offrirono dei dolci al
miele e presero rifugio nel Buddha e nel suo Dhamma, divenendo
così i primi upāsaka, seguaci laici. Nella settimana seguente
il Buddha tornò a meditare sotto l'ajapāla, dove si
interrogò se dovesse diffondere la dottrina o se dovesse
mantenerla solo per sé, essendo "difficile da comprendere, al
di là della ragione, comprensibile solo ai saggi". Brahmā, il
"Signore del Mondo", giunse di fronte al Buddha e inginocchiatosi lo
implorò a diffondere la sua dottrina "per aprire i cancelli
dell'immortalità" e permettere al mondo di udire il Dhamma.
Avendo dunque il Buddha deciso di diffondere a chiunque la sua
dottrina, senza alcuna distinzione, dopo aver escluso i suoi
precedenti maestri, Āḷāra Kālāma e Uddaka Rāmaputta, in quanto
conscio della loro già avvenuta morte, decise di recarsi
dapprima a Sārnāth, nei pressi di Varanasi (Benares) dai suoi primi
cinque discepoli, i pañcavaggiyā.
Giunto nei pressi di Sārnāth, si imbatté nell'asceta Upaka,
della scuola degli Ājīvika, deterministi che non accettavano l'idea
di una causa né nella possibilità di modificare il
destino. Interrogato su di chi fosse seguace, il Buddha rispose di
non aver più maestri e di essere perfettamente illuminato
"quanti hanno vinto l'illusione sono come me vittoriosi. Ho vinto
quanto è male e così, Upaka, sono il vittorioso".
Upaka ribatté "può darsi" e se ne andò.
La messa in moto della Ruota del Dharma
Il Buddha giunse infine a Sārnāth, nel Parco delle Gazzelle, dove
trovò i pañcavaggiyā che, vedendolo arrivare, avevano
in animo di ignorarlo. Ma il suo aspetto radioso e completamente
rilassato li vinse immediatamente. Alla notizia che aveva conseguito
il Perfetto Risveglio lo accolsero come maestro e gli chiesero di
apprendere quanto aveva scoperto.
Le parole che pronunciò allora si sono conservate nel primo
sūtra, il Dhammacakkappavattana-vagga Sutta (La messa in moto della
Ruota della Dottrina).
Il breve sūtra si apre con la condanna delle due vie estreme:
l'estremismo connesso alla mera appagazione dei sensi, in quanto
volgare e dannoso, e l'estremismo connesso all'automortificazione,
parimenti doloroso, volgare e dannoso.
Quella del Buddha si presenta invece come una "Via di mezzo [...]
apportatrice di chiara visione e di conoscenza" che "conduce alla
calma, alla conoscenza trascendente, al risveglio, al nibbāna"[28]
Quindi il Buddha passa ad analizzare il contenuto della "via di
mezzo", esplicitando l'Ottuplice Sentiero, ovvero la base del
comportamento etico quale causa necessaria per il conseguimento del
risveglio. Ma, procedendo a ritroso, il Buddha esplicita il motivo
per cui questo Sentiero apporta l'approdo alla sponda opposta al
Saṃsāra: questo è dettato dalle Quattro nobili verità.
La prima delle Quattro verità è quella del dolore
"l'unione con quel che non si ama è dolore, la separazione da
quel che si ama è dolore, il non ottenere ciò che si
desidera è dolore"[29]. Quindi la combinazione
dell'impermanenza dell'esistente e l'attaccamento è la causa
del dolore, la seconda verità. Questa sarebbe poi stata
ampiamente discussa e analizzata dal Buddha nel corso di tutta la
sua predicazione, fino a trovare la sua formalizzazione nella
paṭicca samuppāda, la catena della coproduzione condizionata, in cui
ogni causa ha un effetto in una spirale apparentemente invincibile.
Ma la distruzione della schiavitù del dolore è
possibile, questo viene proclamato nella terza verità: la
liberazione è possibile. E come sia possibile è il
tema della quarta verità, che rimanda al Ottuplice Sentiero
da cui si era partiti.
Il Buddha quindi proclama che ciascuna di queste verità
è stata da lui riconosciuta, compresa e visualizzata, e
questo triplice momento della quadripartizione della verità
lo ha portato al "supremo perfetto risveglio".
A questo punto Añña Kondañña divenne
Arhat ed esclamò: "tutto quello che nasce è destinato
a perire!" e gli dei ctoni e di tutti i paradisi gridarono di gioia,
il sistema dei diecimila mondi ebbe un sussulto e apparve un
grandioso splendore: la ruota del Dharma era stata avviata.
Añña Kondañña divenne primo Bhikkhu a
essere ordinato, con la celebre esclamazione del Buddha "Ehi
Bhikkhu!" ("Vieni monaco!") che diverrà la formula
tradizionale di ordinazione buddhista, e dando così origine
al Saṅgha.
La predicazione del Buddha segnò sotto molti aspetti un punto
di radicale rottura con la dottrina del Brahmanesimo (che
successivamente prenderà la forma di Induismo) e
dell'ortodossia religiosa indiana dell'epoca. Infatti, in maniera
non dissimile da quello del fondatore del Jainismo, Mahāvīra, il suo
insegnamento non riconosceva il predominio della casta brahmanica
sull'ufficio della religione e la conoscenza della verità,
bensì a tutte le creature che vi aspirino praticando il
Dharma.
Predicazione ed insegnamento
Negli anni successivi al nirvāṇa, il Buddha si spostò lungo
la pianura gangetica predicando ai laici, accogliendo nuovi monaci e
fondando comunità monastiche che accoglievano chiunque,
indipendentemente dalla condizione sociale e dalla casta di
appartenenza, fondando infine il primo ordine monastico mendicante
femminile della storia. A condizione che l'adepto accettasse le
regole della nuova dottrina, ognuno era ammesso nel sangha.
Scansione dei Vassa
A causa dell'assenza di una tradizione storiografica e cronologica
in India, la scansione dei suoi spostamenti non fu registrata che
molti secoli dopo gli eventi, e anche questa in maniera frammentaria
nei vari sutra e nei Vinaya delle varie tradizioni. Tra i testi
più interessanti per la cronologia spiccano due testi
tradotti in cinese, il Badalingta Minghao jing[33] (T.32:773b) e il
Sengqieluocha suoqi jing (T. 4:144b), e un testo tibetano, il
Chos-ḥbyung di Bu-ston. Nella tradizione birmana si riscontrano
altre cronologie. Dalla comparazione di queste fonti, scandite per
anno di vita del Buddha, si enumerano i luoghi in cui passò
il Vassa, o periodo monsonico dedicato alla sosta in un medesimo
posto che è norma del sangha. Nonostante le tradizioni
così diverse, spazialmente e temporalmente, si ottiene un
quadro notevolmente uniforme per localizzazione geografica della
vita del Buddha.
[...]
Le prime conversioni
Dopo la conversione dei pañcavaggiyā a Sārnāth, Gautama
convertì Yasa, figlio di un ricco mercante di Vārāṇasī. Fu il
primo non asceta ad entrare nella comunità monastica, presto
seguito dai suoi amici, Vimala, Subāhu, Puṇṇaji e Gavaṃpati, figli
di altre facoltose famiglie mercantili[38]. Quindi i genitori di
Yasa divennero i primi laici a essere riconosciuti come tali e a
prendere rifugio nei Tre Gioielli, ed di lì seguirono altre
decine di conversioni e numerosi giovani di Vārāṇasī entrarono nel
Sangha. A questo punto, un anno dopo, il Buddha si diresse
nuovamente al luogo dove aveva conseguito l'illuminazione.
Nella zona dell'attuale Bodh Gaya a quel tempo vi predicavano tre
fratelli: Uruvela Kassapa, Nadī Kassapa e Gayā Kassapa, dediti al
culto del fuoco (è ipotizzabile fosse un culto vedico,
dedicato ad Agni, o locale e post-vedico). Dopo averli superati
nelle arti magiche che praticavano[39], li convertì assieme a
un migliaio dei loro seguaci. Quindi, andato il Buddha con tutti
questi nuovi membri del sangha, verso la capitale Rajgir, espose sul
monte Gayāsīsa il Sūtra del Fuoco[40]. "Monaci! Tutto è in
fiamme!" esordì, e proseguì elencando gli organi di
senso in fiamme, fiamme che si estendono alle funzioni mentali, le
sensazioni che provano dovute alle percezioni e individuando la
causa nell'avidità, nell'odio e nell'illusione (i tre
veleni). Solo con la liberazione da questi veleni i discepoli si
sarebbero potuti liberare e sconfiggere la morte.
L'arrivo del Buddha nella capitale del regno Magadha provocò
un'ondata di conversioni, compresa quella del sovrano Bimbisāra,
allora a capo del più potente stato dell'India
settentrionale. Questi, in segno di devozione, regalò al
Buddha il monastero di Veṇuvana[41], sito nel Bosco di Bambù
poco oltre la porta settentrionale della capitale Rajgir. In questo
periodo si colloca anche la conversione, grazie ad Assaji, di
Sāriputta e Moggallāna, che diverranno i due discepoli principali
del Buddha.
A Kapilavatthu e nel Kosala
Dopo aver completato la permanenza a Rajgir con la conversione, nei
pressi di Gaya, di Mahā-Kassapa (destinato a diventare un famoso
discepolo), il Buddha si diresse a Kapilavatthu, la capitale dei
Sakya, sua terra natale.
Lì, dopo aver chiesto cibo in elemosina casa per casa, fu
fatto accedere alla sala del congresso della nobiltà Sakya
per tenere un sermone[42]. Quindi il Buddha fece visita a suo padre
Suddhodana e a sua moglie Yasodharā, convertendoli. Ordinò
quindi suo fratellasto Nanda[43] e suo figlio Rāhula.
Le conversioni compresero sia appartenenti alla nobiltà Sakya
che membri delle caste più infime, come il caso del barbiere
Upāli. Fu in questa occasione che divenne norma che l'ordine di
rispetto tra i monaci dovesse essere basato esclusivamente
sull'anzianità calcolata dal giorno della presa dei voti,
tanto che i giovani nobili Sakya chiesero di essere ordinati
immediatamente dopo Upāli per doverlo omaggiare e sconfiggere
così la loro superbia. Tra i convertiti che espressero questa
scelta anche Ānanda, il cugino del Buddha, e Devadatta[44].
Lasciata la sua terra natale, la repubblica nobiliare dei Sakya, il
Buddha si diresse nel Kosala, il regno che deteneva l'egemonia su
Kapilavatthu. Il Kosala a quei tempi era retto dal re Prasenadi
(sanscrito: Prasenajit), con cui il Buddha ebbe numerosi incontri
cordiali.
Nella capitale del Kosala, Sāvatthī (sanscrito: Śrāvastī), il
facoltoso mercante Sudatta Anāthapiṇḍika (precedentemente convertito
a Rajgir) comprò un grande appezzamento di terreno nella
periferia meridionale della città da Jeta, un principe figlio
di Prasenadi. Questo fu quindi donato al sangha divenendo uno dei
principali luoghi di sosta del Buddha e grande centro di diffusione
del Dharma, noto come il monastero Jetavana (il "Parco di
Jeta")[45]. Fu in questo luogo che il Buddha visitò il monaco
Pūtigatta Tissa, seriamente ammalato, lo lavò e se ne prese
cura fino alla sua morte. Qui esortò i monaci a prendersi
cura reciprocamente, non avendo più famiglia né mezzi
e avendo reciso i legami con il mondo avrebbero dovuto aver cura
l'uno dell'altro.
« Yo bhikkhave maṃ upaṭṭaheyya so gilānan upaṭṭaheyya »
« Chi mi serve serva i malati[46] »
In un altro sutra che tratta della stessa vicenda il Buddha
esplicita:[47]
«Non c'è differenza di meriti nel fare donazioni a me
e aver cura dei malati, accudire i malati è servire il Buddha»
Gli elenchi dei convertiti nel Kosala mostrano come l'origine
castale sia dei monaci che dei laici fosse di prevalenza di casta
brahmanica e mercantile (come Subhūti), con minoranze tra la casta
guerriera, cui apparteneva lo stesso Buddha, e le classi inferiori.
A Rajgir
A Rajgir, nella capitale del Magadha, oltre al monastero di Venuvana
fuori dalla porta Settentrionale concesso dal sovrano Bimbisāra, il
saṅgha ebbe in dono il monastero di Jīvakarana, nei pressi del
"Boschetto di Manghi" (Ambavana), dono di Jīvaka Komārabhacca,
medico personale del sovrano, che desiderava che il Buddha
soggiornasse più vicino alla sua dimora[48].
Fu in quella sede che il Buddha espose il Jīvaka Sutta, in cui si fa
divieto ai monaci di mangiare carne se hanno conoscenza che
l'animale sia stato ucciso solo per essere dato loro in pasto, e
parimenti fa divieto ai laici di uccidere animali con lo scopo di
nutrire i monaci.
Non lontano da Rajgir, a Gayāsīsa, soggiornava il monaco Devadatta,
che godeva dei favori del figlio del re Bimbisāra, Ajātasattu. In
presenza di monaci, laici e del sovrano di Rajgir, Devadatta chiese
al Buddha, ormai in età avanzata, di prendere il controllo
del Sangha. Tra le riforme che avrebbe voluto introdurre tutte
volgevano ad una maggiore austerità: obbligo di dimora nelle
foreste; vestirsi solo di abiti trovati nelle discariche; non
accettare inviti a pranzo dai laici; astenersi dalla carne anche se
offerta. Il Buddha rifiutò di nominarlo a capo della
comunità monastica.
Devadatta, intravedendo nella fedeltà di Bimbisāra al Buddha
l'ostacolo principale nella sua ascesa, convinse il principe
Ajātasattu a perpetrare un colpo di stato. In seguito Bimbisāra fu
imprigionato e lasciato morire di fame, nonostante questi avesse
volontariamente abdicato in favore del figlio.
Ottenuto l'appoggio del nuovo sovrano, Devadatta tentò di
assassinare il Buddha con l'aiuto di alcuni arceri di Ajātasattu,
che si rifiutarono. Quindi Devadatta stesso provò l'omicidio:
prima lanciando un masso dal Gijjhakūta, il "Picco dell'Avvoltoio"
(le ferite riportate dal Buddha furono alleviate dai trattamenti
medici di Jīvaka Komārabhacca), quindi ubriacando un elefante reale
(Nalāgiri) che avrebbe dovuto schiacciare il Buddha, che invece lo
affrontò, placandolo. Il Buddha, tornato la sera al monastero
Venuvana, raccontò la storia Cullahamsa Jātaka in onore della
fedeltà di Ānanda.
Ajātasattu, pieno di rimorsi, smise di sostenere Devadatta e chiese
perdono al Buddha, che lo accolse tra i fedeli laici.
Devadatta, avendo perso l'appoggio regale e conscio
dell'impossibilità di controllare il sangha, decise per lo
scisma, seguito dai monaci Kokālika, Samuddadatta, Katamorakatissa e
Khandadeviyāputta, oltre a qualche centinaio di discepoli favorevoli
a una regola monastica più austera. Il Buddha non
vietò maggiore austerità, ma ritenne che dovesse
applicarsi solo su base volontaria, non come regola.
Il Buddha quindi inviò Sāriputta e Moggallāna presso
Devadatta. Questi gli lasciarono credere che avessero abbandonato il
Buddha, e non appena ebbero l'attenzione di tutti i suoi seguaci li
convinsero della necessità di interrompere lo scisma e
rientrare nel sangha. Una volta rimasto solo Devadatta vomitò
sangue. Dopo nove mesi Devadatta si mise in cammino per incontrarsi
con il Buddha, ma il terreno si aprì e sprofondò
nell'inferno Avīci.
Il parinirvāṇa del Buddha
Dopo aver passato l'ultimo vassa nel monastero di Venuvana il Buddha
si recò nuovamente a Rajgir. Lì il sovrano
Ajātashatru, per mezzo del suo ministro Varśakāra, gli chiese un
vaticinio per la sua progettata guerra contro la repubblica dei
Vriji. Il Buddha rispose che, finché questi fossero stati
rispettosi della tradizione assembleare e il popolo contento, non
sarebbero stati vinti[58]. Quindi, salito sul Picco dell'Avvoltoio,
il Buddha predicò ai monaci le 49 regole monastiche che
avrebbero dovuto seguire per mantenere in vita il sangha.
Salutato dalla nobiltà del Magadha e dal ministro Varśakāra,
il Buddha e i monaci si diressero quindi verso i territori dei
Lichchavi più a settentrione, predicando nei vari villaggi in
cui facevano sosta. Giunti a Pātaligrāma il Buddha pensò che:
«Mi accadde di attraversare questo fiume [il Gange] sur
una navicella; oggi non conviene che col mezzo medesimo torni a
passarlo. Il Buddha è ormai maestro nel trasportar gli uomini
all'altra riva; perrocchè insegna a tutti il modo di
traversar l'oceano delle esistenze»
Quindi tutti i monaci si ritrovarono sulla sponda settentrionale del
Gange[60], a Koṭigrāma. Lì malattie e carestie infuriavano e,
polemicamente, fu chiesto al Buddha come mai anche dieci suoi fedeli
laici fossero morti. Il Buddha preconizzò che quella sarebbe
stata la loro ultima esistenza e di altri trecento predisse solo
altre sette rinascite prima di giungere alla perfezione.
«Tutti i viventi moriranno; come in pari modo tutti i buddha,
dai tempi passati fino al presente sono ormai nel Nirvāna: e oggi a
me, fatto Buddha, spetta la stessa sorte»
Giunto nei pressi di Vaiśālī fu invitato a pranzo dalla cortigiana
Amarpālī, assieme a tutti i monaci, rifiutando un analogo invito dei
nobili Lichchavi, che avevano rivolto l'invito solo successivamente.
Il Buddha decise di soggiornare nei pressi di Vaiśālī ma, per non
pesare troppo sulla popolazione locale oppressa dalla carestia,
diede ordine ai monaci di disperdersi in tutte le direzioni,
mantenendo accanto a sé solo Ānanda. Lì il Buddha
annunciò ad Ānanda che entro tre mesi sarebbe entrato nel
parinirvāṇa. Diede inoltre ordine ad Ānanda di ricordare tutti i
suoi discorsi, in modo da ripeterli poi qualora dei monaci li
avessero dimenticati. Ripreso quindi a vagare nella pianura del
Gange il Buddha tenne numerosi discorsi ricapitolando tutti i temi
principali della sua dottrina.
Giunto a Pāvā fu invitato a pranzo da un certo Cunda, lì
tenne un discorso sui monaci, alcuni dei quali "sono malvagi come le
erbacce in un campo" e ammonendo a non considerare la veste, ma il
cuore retto come segno di eccellenza.
Lasciata la casa di Cunda e diretto a Kuśināgara il Buddha si
sentì male e, sedutosi, chiese ad Ānanda di procurargli
dell'acqua. Passò quindi un nobile, Pukkusa, che donò
un tessuto giallo affinché il Buddha potesse coricarvisi.
Quindi disse ad Ānanda che fu il cibo di Cunda a condurlo alla fine,
e che l'indomani sarebbe dovuto andare a ritrovarlo per ringraziarlo
e che non piangesse per questo, ma che se ne rallegresse.
Giunse allora il monaco Kapphina che chiese al Buddha di rimandare
la sua estinzione, al ché il Buddha rispose che:
«Come le case degli uomini, col lungo andare del tempo,
rovinano, ma il suolo dove erano resta; così resta la mente
del Buddha, e il suo corpo rovina come una vecchia casa.»
Nel frattempo giunsero monaci e laici da Kuśināgara, avvertiti da
Ānanda che entro la mezzanotte il Buddha sarebbe entrato nella
totale estinzione. Chiesero quali fossero le ultime volontà
in merito alle spoglie. Il Buddha, dopo aver risposto, chiese ai
monaci se vi fossero ancora dei dubbi in merito alla dottrina,
dicendo che era la loro ultima occasione per poterli dissipare. I
monaci risposero che non vi erano punti oscuri e che tutto era a
loro chiaro.
Secondo la tradizione, Siddharta Gautama morì a Kuśināgara,
in India, a ottant'anni[63], nel 486 a.C. circondato dai suoi
discepoli, tra i quali l'affezionato attendente prediletto Ānanda,
al quale lasciò le sue ultime disposizioni. Tradizionalmente
si riportano le sue ultime parole:
«Handa dāni, bhikkave, āmantayāmi vo:
"vayadhammā saṅkhārā appamādena sampādethā"ti.»
«Ricordate, o monaci, queste mie parole:
tutte le cose composte sono destinate a disintegrarsi! Dedicatevi
con diligenza alla vostra propria salvezza! »
Quindi il Buddha si stese vòlto a settentrione, reclinato sul
fianco destro, e spirò.
La cremazione
La descrizione dei riti funerari, sarīrapūjā, che accompagnarono la
cremazione di Gautama Buddha sono strettamente correlati con la
successiva venerazione per le reliquie, sarīra (sanscrito: śarīrāḥ),
e vanno intese come rappresentazione del valore che queste hanno in
ambito buddhista. Si assiste anche a uno slittamento semantico dal
corpo fisico di Gautama alla rappresentazione dello stato di
buddhità fornito dalle sarīra.
Il clan dei Malla di Kuśināgara approntò un funerale degno di
un sovrano universale: il corpo fu avvolto in cinquecento pezze di
cotone e immerso in una vasca di ferro (taila-droṇī)[66] piena
d'olio. Quindi, con l'accompagnamento di una folla che portava
ghirlande di fiori, ballava e suonava, il corpo attraversò la
città. Passarono sette giorni prima che si approntasse la
pira funeraria. Questo diede tempo a Mahākassapa, il più
autorevole dei monaci dopo la morte, avvenuta poco prima, di
Sāriputta e Mahāmoggallāna, di giungere a Kuśināgara e prendere
parte ai riti funebri.
Ānanda, dopo essere stato per tutta la vita l'attendente del Buddha
Gautama, si fece carico anche di tutta l'organizzazione delle
cerimonie inerenti al suo corpo. Il giorno della cremazione,
nell'ultimo saluto, diede la precedenza alle donne Malla di
Kuśināgara: furono loro le prime a circumambulare Gautama, lanciare
fiori e bagnare di pianto i suoi piedi. Quindi, contrariamente alle
prescrizioni brahmaniche, il corpo fu portato in processione dentro
la città (da Ānanda, il re di Malla, Śakra e Brahmā[68]).
La pira fu accesa da Mahakassapa, con un simbolismo inverso, dato
che usualmente in India i sannyasin non vengono cremati ma
rilasciati nei fiumi. È vestito come un principe, quando fu
proprio l'abbandono della sua veste principesca che aveva marcato
l'origine della ricerca spirituale che lo aveva portato a divenire
un Buddha[69].
Una volta estinto il fuoco furono raccolte le sarīra e conservate in
una scatola d'oro al centro Kuśināgara.
La notizia della scomparsa del Buddha e della permanenza delle
sarīra attirò una intensa competizione per impossessarsene:
oltre ai Malla di Kuśināgara le reclamarono anche i Malla di Pāvā,
il re Ajātashatru del Magadha, i Bulaka di Calakalpa, i Krauḍya di
Rāmagrāma, i brahmini di Viṣṇudvīpa, i Lichchavi di Vaiśālī e i
Śākya di Kapilavastu. Le richieste furono sottolineate dall'invio di
eserciti a Kuśināgara.
Il Brahmano Droṇa fu scelto come arbitro: divise le sarīra in otto
parti per gli otto pretendenti, per sé tenne l'urna (kumbha)
con cui aveva eseguito la partizione, le ceneri della pira andarono
al brahmano Pippalāyana, giunto dopo la cremazione. Una volta
distribuite le sarīra ciascuna parte costruì un grande stūpa
per venerarle. Lì rimasero finché il sovrano Aśoka non
le aprì per ri-suddividerle e diffonderle in stūpa eretti in
tutto l'impero Maurya.
[...]
La vita di Gautama Buddha secondo la storiografia contemporanea
L'indagine storico-critica della figura di Gautama Buddha si
avviò a partire dalla fine del XIX secolo. Studiosi come
Thomas William Rhys Davids (1843-1922), Caroline Augusta Foley Rhys
Davids (1857-1942) e Hermann Oldenberg (1854-1920) analizzando il
Canone buddhista scritto in lingua pāli cercarono di eliminarne gli
evidenti contenuti mitici per tentare una ricostruzione storica
della figura del fondatore del Buddhismo. Tale approccio è
tuttavia oggi ritenuto superato[84] e se anche la maggioranza degli
studiosi ritiene l'esistenza storica di Gautama Buddha un fatto
acclarato[85] considera estremamente difficile ricostruirne la vita
e, persino, stabilire con certezza il periodo dell'esistenza.
Scarse sono infatti le testimonianze storiche circa la vita del
fondatore del Buddhismo e controverse sono le stesse date. Risulta
pertanto arduo separare leggenda e realtà e collocare
storicamente le vicende della vita del Buddha, poiché i
riscontri a noi pervenuti non sono sempre attendibili. Gran parte
delle fonti sono infatti posteriori di almeno duecento anni rispetto
agli eventi della vita di Siddhartha Gautama. In più, le
cronache storiche indiane non sono rigorose nel separare eventi
reali dal mito e dalla leggenda.
Tutte le fonti tradizionali concordano tuttavia sul fatto che
Siddhārtha Gautama sia vissuto per ottanta anni.
* Secondo le cronache singalesi riportate nel
Dīvapaṃsa e nel Mahāvaṃsa Siddhartha Gautama sarebbe nato 298 anni
prima dell'incoronazione del re indiano Aśoka e morto (parinirvāṇa)
218 anni prima dello stesso evento. Queste cronache indicano come il
326 a.C. l'anno della salita al trono da parte di questo re indiano.
In base a questa tradizione, diffusa nei paesi buddhisti theravāda
(Sri Lanka, Thailandia, Birmania, Cambogia e Laos), Siddhārtha
Gautama sarebbe nato nel 624 a.C. e morto nel 544 a.C.[86]
* Gli studiosi occidentali e indiani, seguendo
fonti greche, spostano la data dell'incoronazione di Aśoka al 268
a.C. e quindi ritengono che Siddhārtha Gautama sia nato nel 566 a.C.
e morto nel 486 a.C.
* Studiosi giapponesi e lo studioso tedesco Heinz
Bechert[87] seguendo fonti indiane riportate nei canoni buddhisti
cinese e tibetano che attestano la nascita di Siddhārtha Gautama 180
anni prima della incoronazione di Aśoka e la sua morte 100 anni
prima, le incrociano con le fonti greche e giungono invece a
ritenere che l'anno di nascita del fondatore del Buddhismo sia il
448 a.C. mentre la morte sia avvenuta nel 368 a.C.
Altro non si può sostenere e, come ricorda Étienne
Lamotte[88], il tentativo di ricostruire o tracciare la vita di
Gautama Buddha è «una impresa priva di speranza».
L'unica cosa che si può affermare con contezza è
quindi che il Buddha visse in India in un periodo compreso tra il VI
e il IV secolo a.C. comunque proprio in quel particolare periodo a
cui Karl Jaspers[89] ha dato il nome di "periodo assiale" della
storia mondiale.
« In questo periodo si concentrano i fatti più
straordinari. In Cina vissero Confucio e Lǎozǐ, sorsero tutte le
tendenze della filosofia cinese, meditarono Mòzǐ, Zhuāng Zǐ,
Lìe Yǔkòu e innumerevoli altri. In India apparvero le
Upaniṣad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le
possibiltà filosofiche fino allo scetticismo e al
materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra
propagò l'eccitante visione del mondo come lotta fra bene e
male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a
Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia. La Grecia vide Omero, i
filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidide e
Archimede. Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in
pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e
nell'Occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle
altre. La novità di quest'epoca è che in tutti e tre i
mondi l'uomo prende coscienza dell' "Essere" nella sua interezza
(umgreifende: ulteriorità onnicomprensiva), di se stesso e
dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e
la propria impotenza. Pone domande radicali. Di fronte all'abbisso
anela alla liberazione e alla redenzione. Comprendendo
coscientemente i suoi limiti si propone gli obiettivi più
alti. Incontra l'assolutezza nella profondità
dell'essere-se-stesso e nella chiarezza della trascendenza,.
Ciò si svolse nella riflessione. La coscienza divenne ancora
una volta consapevole di se stessa, il pensiero prese il pensiero ad
oggetto. »
(Karl Jaspers, in Vom Ursprung und Ziel des Geschichte. Artemis,
Zurigo 1949; Piper, München 1949 (1983); trad. it., Origine e
senso della storia, a cura di A. Guadagnin, Comunità, Milano,
1965, pag.20. )
In altri termini, nel periodo assiale, sembra che l'umanità
abbia fatto un incredibile salto nell approfondimento della
conoscenza di sé e si sia operata una trasformazione globale
dell'essere umano a cui, sempre secondo Jaspers, «si
può dare il nome di spiritualizzazione».
Premesso ciò, della vita di Gautama Buddha possiamo
ricostruire solo un quadro piuttosto generico: fu un rinunciante e
asceta, unitamente ad altri rinuncianti indiani ebbe una visione
"critica" del mondo e delle sue "illusioni" e praticò e
predicò delle tecniche meditative (yoga). Predicò
anche una vita comunitaria tra rinuncianti disciplinata da alcune
precise regole e raccolse intorno a sé altri monaci, ma anche
laici, che ne seguivano gli insegnamenti. Fu senza dubbio una
personalità carismatica.
A questo quadro, gli storici Frank E. Reynolds e Charles
Hallisey[90] aggiungono alcune altre informazioni che, nella loro
peculiarità e specificità, ritengono difficilmente
"inventate" dalla successiva tradizione; per questi autori è
molto probabile che Gautama Buddha:
* appartenesse alla casta degli kṣatrya;
* nacque nel clan degli Śākya;
* fosse sposato ed ebbe un figlio;
* abbracciò la vita di asceta itinerante
senza il permesso del padre;
* andò incontro ad un fallimento quando
per la prima volta comunicò la sua esperienza
dell'illuminazione;
* rischiò di perdere la guida della
comunità da lui fondata a causa di un suo cugino che propose
delle regole maggiormente ascetiche;
* morì in un luogo remoto dopo aver
mangiato del cibo avariato.
wikipedia
l Buddhismo o Buddismo (sanscrito buddha-śāsana) è una delle
discipline spirituali più antiche e più diffuse al
mondo. Originato dagli insegnamenti di Siddhārtha Gautama,
comunemente si compendia nelle dottrine fondate sulle Quattro nobili
verità (sanscrito Catvāri-ārya-satyāni). Con il termine
Buddhismo si indica più in generale l'insieme di tradizioni,
sistemi di pensiero, pratiche e tecniche spirituali, individuali e
devozionali, nate dalle differenti interpretazioni di queste
dottrine, che si sono evolute in modo anche molto eterogeneo e
diversificato. Sorto nel VI secolo a.C., a partire dall'India il
buddhismo si diffuse nei secoli successivi soprattutto nel Sud-est
asiatico e in Estremo Oriente, giungendo, a partire dal XX secolo,
anche in Occidente.
Origini del termine
La parola Buddhismo è di recente coniatura, introdotta in
Europa nel XIX secolo per riferirsi a ciò che è
correlabile agli insegnamenti di Siddhārtha Gautama in quanto
Buddha. In realtà un'unica parola per esprimere questo
concetto non esiste in nessuno dei paesi asiatici originari di tale
tradizione religiosa.La traduzione dei termini originari
letteralmente va intesa come "insegnamento del Buddha" (sanscrito
buddha-śāsana, pāli buddha-sāsana, cinese 佛教 pinyin
fójiào Wade-Giles fo-tsung, giapponese bukkyō,
tibetano sangs rgyas kyi bka' , coreano 불교 pulgyo, vietnamita phật
giáo). Originariamente "l'insegnamento del Buddha" si
denominava come DharmaVinaya (pāli dhamma-vinaya, cinese 法律 fǎlǜ,
giapponese hōritsu, tibetano chos 'dul ba, coreano 법률 pŏmnyul,
vietnamita phật pháp), ma questa denominazione non ha avuto
quella diffusione nelle lingue asiatiche diverse dal sanscrito
quanto invece la denominazione buddha-śāsana. Altri termini
sanscriti con cui viene indicato il Buddhismo, nella sua accezione
di religione esposta dal Buddha Shakyamuni, sono:
buddhânuśāsana, jinaśāsana, tathāgataśāsana, dharma,
buddhânuśāsti, śāsana, śāstuḥ ma anche buddha-dharma e
buddha-vacana.
Storia
La storia del Buddhismo inizia nel VI secolo a.C., con la
predicazione di Siddhārtha Gautama. Nel lungo periodo della sua
esistenza, la religione si è evoluta adattandosi ai vari
Paesi, epoche e culture che ha attraversato, aggiungendo alla sua
originale impronta indiana elementi culturali ellenistici, dell'Asia
Centrale, dell'Estremo Oriente e del Sud-Est Asiatico; la sua
diffusione geografica fu considerevole al punto di aver influenzato
in diverse epoche storiche gran parte del continente asiatico. La
storia del Buddhismo, come quella delle maggiori religioni, è
anche caratterizzata da numerose correnti di pensiero e scismi, con
la formazione di varie scuole; tra queste, le più importanti
attualmente esistenti sono la scuola Theravāda, le scuole del
Mahāyāna e le scuole Vajrayāna.
I fondamenti del Buddhismo
All'origine ed a fondamento del Buddhismo troviamo le Quattro nobili
verità. Si narra che il Buddha, meditando sotto l'albero
della bodhi, le comprese nel momento del proprio risveglio
spirituale.
Esse sono riportate nel Dhammacakkappavattana Sutta del Saṃyutta
Nikāya del Canone pāli e nel Canone cinese nello
Záhánjīng (雜含經, giapp. Zōgon agonkyō, collocato nello
Āhánbù, T.D. 99.2.1a-373b) che poi è la
traduzione in cinese del testo sanscrito Saṃyuktāgama al cui interno
è collocato il Dharmaçakrapravartana Sūtra.
Questo è, sempre secondo la tradizione, il primo discorso del
Buddha, tenuto nel parco delle gazzelle nei pressi di Sarnath vicino
Varanasi (detta anche Benares) nel 528 a.C. ai suoi primi cinque
discepoli, all'età di 35 anni, dopo che nei pressi del
villaggio di Bodhgaya, nell'odierno stato del Bihar, aveva raggiunto
il risveglio spirituale.
Questo discorso è quindi anche detto il "Discorso di
Benares", fondamentale per il Buddhismo, che da questo prende le
mosse, tanto da farlo considerare l'evento che dà inizio al
Dharma (sans., Dhamma, pāli), ossia la dottrina buddhista. La
ricorrenza di questo evento è infatti festeggiata nei paesi
di tradizione theravāda con la festa di Magā Puja, il "giorno del
Dhamma". Da altri è invece considerato il punto d'inizio
della prima comunità buddhista, formata proprio da quei
cinque asceti che lo avevano abbandonato anni prima sfiduciati, dopo
essere stati a lungo suoi discepoli.
In questo discorso si identifica il Buddhismo come "La Via di Mezzo"
(sanscrito Madhyamāpratipad, pāli Majjhimā pāṭipada) in cui si
riconosce che la retta condotta risiede nella linea mediana di
condotta di vita evitando tanto gli eccessi e gli assolutismi,
quanto il lassismo e l'individualismo.
Nell'esposizione di questo insegnamento il Buddha enuncia le Quattro
nobili verità, frutto del proprio risveglio spirituale
testé raggiunto. Queste "Quattro Nobili Verità"
contemplano l'aspetto pratico della condotta di vita e della pratica
spirituale buddhista nel cosiddetto Nobile ottuplice sentiero, che
costituisce il secondo cardine dottrinale del Buddhismo.
I punti salienti della visione buddhista della "realtà
percettiva" indirizzata dall'insegnamento del Buddha, sono:
1. la dottrina della sofferenza o duḥkha (sans.,
dukkha, pāli), ossia che tutti gli aggregati (fisici o mentali) sono
causa di sofferenza qualora li si voglia trattenere ed essi cessano,
oppure si voglia separarsene ed essi permangono.
2. la dottrina dell'impermanenza o anitya (sans.,
anicca, pāli), ossia che tutto quanto è composto di aggregati
(fisici o mentali) è soggetto alla nascita ed è quindi
soggetto a decadenza ed estinzione con la decadenza ed estinzione
degli aggregati che lo sostengono;
3. la dottrina dell'assenza di un io eterno e
immutabile, la cosiddetta dottrina dell'anātman (sans., anattā,
pāli) come conseguenza di una riflessione sui due punti precedenti.
Tale visione è integrata nella:
* dottrina della coproduzione condizionata (sans.
pratītyasamutpāda, pāli paṭicca samuppāda), ossia del meccanismo di
causa ed effetto che lega l'uomo alle illusioni e agli attaccamenti
che costituiscono la base della sofferenza esistenziale;
* dottrina della vacuità (sans. śunyātā,
pāli: suññatā) che insiste sull'inesistenza di una
proprietà intrinseca nei composti e nei processi che formano
la realtà e sulla stretta interdipendenza degli stessi.
Un elemento importante del Buddhismo, riportato in tutti i Canoni,
è la conferma dell'esistenza delle divinità come
già proclamate dalla letteratura religiosa vedica (i deva,
tuttavia, nel Buddhismo sono sottomessi alla legge del karma e la
loro esistenza è condizionata dal saṃsāra). Così nel
Majjhima Nikāya 100 II-212[ dove al brahmano Sangarava che gli
chiedeva se esistessero i Deva, il Buddha storico rispose: «I
Deva esistono! È questo un fatto che io ho riconosciuto e su
cui tutto il mondo è d'accordo». Sempre nei testi che
raccolgono i suoi insegnamenti, testi riconosciuti tra i più
antichi in assoluto e conservati sia nel Canone pāli che nel Canone
cinese e che la storiografia contemporanea inquadra nel termine
Āgama-Nikāya, il Buddha storico consiglia a due brahmana che, dopo
aver dato da mangiare a uomini santi, si debba dedicare questa
azione alle divinità (Deva) locali che restituiranno l'onore
concesso loro assicurando il benessere dell'individuo (Digha-nikāya,
2,88-89). È evidente, a partire da questi due antichi brani,
la certezza da parte del Buddha storico che le divinità
esistessero e andassero onorate. A differenza, tuttavia, delle altre
correnti religiose dell'epoca, il Buddha ritiene che le
divinità non possano offrire all'uomo la salvezza dal
Saṃsāra, né un significato ultimo della propria esistenza. Va
precisato, peraltro, che non esiste, né è mai esistita
alcuna scuola buddhista al mondo che affermi, o abbia affermato,
l'inesistenza delle divinità. Tuttavia la totale mancanza di
centralità delle divinità nelle pratiche religiose e
nelle dottrine buddhiste di tutte le epoche ha fatto considerare, da
parte di alcuni studiosi contemporanei, il Buddhismo come una
religione 'atea'.
I fondamenti del Buddhismo Mahāyāna
A questo quadro dottrinario, proprio del Buddhismo dei Nikāya e del
Buddhismo Theravāda, il Buddhismo Mahāyāna aggiunge le dottrine
esposte nei Prajñāpāramitā sūtra e nel Sutra del Loto.
All'interno di questi insegnamenti la dottrina della vacuità
(sans. śunyātā) acquisisce un ruolo assolutamente centrale in quanto
rende correlate, nella Realtà ultima, tutte le altre
realtà e dottrine. Questa unificazione nella vacuità,
ovvero di privazione di sostanzialità inerente, fa dichiarare
al patriarca del Mahāyāna, Nāgārjuna:
«Il saṃsara è in nulla differente dal nirvāna. Il
nirvāna è in nulla differente dal saṃsara. I confini del
nirvāna sono i confini del saṃsara. »
(Nāgārjuna, Mūla-madhyamaka-kārikā)
Per il Sutra del Loto inoltre
«A beneficio di chi cercava di diventare un ascoltatore della
voce, il Buddha rispondeva esponendo la Legge delle Quattro Nobili
Verità così che potesse trascendere nascita,
vecchiaia, malattia e morte e ottenere il nirvana. A beneficio di
chi cercava di diventare pratyekabuddha rispondeva la Legge della
dodecupla catena di causalità. A beneficio del bodhisattva
rispondeva esponendo le sei paramita, facendo ottenere loro
l'anuttara-samyak-sambodhi e acquisire la saggezza
onnicomprensiva[11]. »
Questa presentazione delle Quattro Nobili Verità nella parte
più antica del Sutra del Loto indica che, secondo le dottrine
esposte in questo Sutra e attribuite da questo testo allo stesso
Buddha Śākyamuni, la dottrina delle Quattro Nobili Verità non
esaurisce l'insegnamento buddhista il quale deve invece mirare
all'anuttara-samyak-sambodhi ovvero all'illuminazione profonda e non
limitarsi al nirvāṇa generato dalla comprensione delle Quattro
Nobili Verità. Nel suo complesso anche il Sutra del Loto non
insiste sulle dottrine del duḥkha (la sofferenza, la prima delle
Quattro nobili verità) e dell'anitya (impermanenza dei
fenomeni) quanto piuttosto su quelle dell'anatman e dello śūnyatā
(assenza di sostanzialità inerente in tutti i fenomeni). Il
Dharma esposto nei primi 14 capitoli del Sutra del Loto corrisponde
alla verità dell'apparire dei fenomeni secondo la causazione
che segue le dieci condizioni (o "talità", sanscrito tathata)
descritte nel II capitolo del Sutra. Il Dharma profondo è
quindi nella comprensione della causa dei fenomeni; la realizzazione
spirituale, la bodhi profonda (l'anuttarā-samyak-saṃbodhi), consiste
nel comprendere questa "causa" dell'esistere, mentre la
verità della sofferenza (duḥkha), come anche la dottrina
dell'anitya, implica solo un giudizio. Nel Sutra del Loto non viene
quindi enfatizzata la verità della sofferenza contenuta nelle
Quattro nobili verità. Ecco perché quando il Buddha
è sollecitato a insegnare la Legge "profonda" (nel II
capitolo) non la esprime con la dottrina delle Quattro Nobili
Verità (considerata nel Sutra come dottrina hīnayāna) ma la
esprime secondo le dieci talità (o condizioni, sanscrito
tathātā, dottrina mahāyāna)[12].
I fondamenti del Buddhismo Mahāyāna-Vajrayāna
La terza grande corrente del Buddhismo esistente in epoca
contemporanea, la corrente Vajrayāna (Veicolo del diamante),
è essa stessa uno sviluppo del Buddhismo Mahāyāna. Alle
dottrine proprie del Mahāyāna quali ad esempio la vacuità
(śunyātā), karuṇā, la bodhicitta il Vajrayāna aggiunge, allo scopo
di poter realizzare "in questo corpo e in questa vita"
l'"illuminazione profonda", alcuni insegnamenti "segreti" denominati
come tantra e riportati nella propria letteratura religiosa.
Testi buddhisti
Fra i testi più antichi del Buddhismo si annoverano i
cosiddetti canoni: il Canone pāli (o Pāli Tipitaka), il Canone
cinese (大藏經, Dàzàng jīng), e il Canone tibetano
(composto dal Kangyur e dal Tenjur) così denominati in base
alla lingua degli scritti.
Il Canone pāli è proprio del Buddhismo Theravāda, e si
compone di tre piṭaka, o canestri successivamente raccolti in 57
volumi: il Vinaya Piṭaka, o canestro della disciplina, con le regole
di vita dei monaci; il Sutta Piṭaka o canestro della dottrina, con i
sermoni del Buddha; infine l'Abhidhamma Piṭaka o canestro della
fenomenologia in ambito cosmologico, psicologico e metafisico, che
raccoglie gli approfondimenti alla dottrina esposta nel Sutta
Piṭaka.
Il Canone cinese si compone di 2.184 testi a cui vanno aggiunti
3.136 supplementi tutti raccolti successivamente in una edizione in
85 volumi.
Il Canone tibetano si suddivide in due raccolte, il Kangyur
(composto da 600 testi, in 98 volumi, riporta discorsi attribuiti al
Buddha Shakyamuni) e il Tanjur (Raccolta, in 224 volumi, di 3.626
testi tra commentari e insegnamenti).
Parte dei Canoni cinese e tibetano si rifanno ad un precedente
Canone tradotto in sanscrito ibrido sotto l'Impero Kushan e poi
andato in buona parte perduto. Questi due Canoni furono adottati
dalla tradizione Mahāyāna che prevalse sia in Cina che in Tibet. Il
Canone sanscrito riportava tutti i testi delle differenti antiche
scuole e dei differenti insegnamenti presenti nell'Impero Kushan. La
traduzione di tutte queste opere dalle originali lingue pracritiche
a quella sanscrita (una sorta di lingua dotta 'internazionale' come
lo fu il latino nel Medioevo europeo) fu voluta dagli stessi
imperatori kushan. Buona parte di questi testi furono
successivamente trasferiti in Tibet e in Cina sia da missionari
kushani (ma anche persiani, sogdiani e khotanesi), sia riportati in
patria da pellegrini. Da segnalare che le regole monastiche (Vinaya)
delle scuole presenti in Tibet e in Cina derivano da due
antichissime scuole indiane (vedi Buddhismo dei Nikāya),
rispettivamente dalla Mūlasarvāstivāda e dalla Dharmaguptaka.
Correnti del Buddhismo
Diffusione dell'Buddhismo nel mondo
In India
Il Buddhismo si estinse in India, paese d'origine,
approssimativamente attorno al XIV secolo. Tuttavia durante
più di 1500 anni di storia il Buddhismo indiano ha sviluppato
indirizzi e interpretazioni diverse, anche estremamente complesse.
Lo sviluppo di tale complessità si rese necessario con il
continuo confronto dottrinale sia all'esterno delle Comunità
monastiche con le scuole brahmaniche e jaina, sia all'interno delle
stesse per svelare progressivamente gli insegnamenti (soprattutto i
c.d. "inesprimibili", sanscrito avyākṛtavastūni) contenuti negli
antichi Āgama-Nikāya. Le scuole nate nel sub-continente indiano nel
corso di questi 1500 anni di storia sono suddivisibili in tre
gruppi:
* Il Buddhismo dei Nikāya, un insieme di scuole
buddhiste sorte nei primi secoli dopo la morte del Buddha Śākyamuni
(vedi anche Concili buddhisti) che non riconoscevano la
canonicità degli insegnamenti riportati nei
Prajñāpāramitā sūtra e nel Sutra del Loto, scritture
successivamente denominate come sutra Mahāyāna e che in epoca
moderna compaiono nel Canone cinese e nel Canone tibetano. Da una di
queste scuole del Buddhismo dei Nikāya, la Vibhajyavāda, origina
l'importante scuola cingalese, ancora diffusa nel Sud-Est asiatico,
denominata Theravāda.
* Buddhismo Mahāyāna o del «Grande
Veicolo», sviluppatosi a partire da alcune comunità
buddhiste antiche ma con l'accoglimento degli insegnamenti riportati
nei Prajñāpāramitā Sūtra e del Sutra del Loto. Buona parte
del Buddhismo indiano a partire dal II secolo fino alla sua
scomparsa è rappresentato o influenzato da questa corrente,
in seno alla quale meritano particolare menzione gli indirizzi
Madhyamaka, Cittamātra e il Buddhismo Vajrayāna. La quasi
totalità delle differenti scuole presenti in Estremo Oriente
appartengono a questo Veicolo.
* Il Buddhismo Tantrico è anch'esso
Mahāyāna, e rappresenta la controparte buddhista di un fenomeno
più ampio nelle religioni dell'India, il Tantrismo, che ha
influenzato anche l'Induismo. Si sviluppò in seno al
Buddhismo Mahāyāna e ne influenzò profondamente la pratica,
almeno dal VI secolo in poi. Anche noto come Mantrayāna, la sua
forma più organizzata è più conosciuta come
Buddhismo Vajrayāna o Veicolo del Diamante. Antiche cronache del
Buddhismo come la "Storia dell'avvento del Dharma in India" (tib.
rGyar-gar chos-'byung) redatta nel 1608 dallo storico tibetano
Tāranātha Kunga Nyingpo attestano che, almeno dal X secolo, i centri
universitari buddhisti in India dispensavano soprattutto
insegnamenti tantrici. Pressoché tutte le scuole tibetane, ma
anche diverse scuole estremo-orientali come la giapponese Shingon,
appartengono a questo Veicolo.
Il Buddhismo fuori dall'India
Tra le tradizioni che fuori dall'India hanno avuto una lunga storia
e un'evoluzione in parte indipendente ricordiamo:
* Il Buddhismo Theravāda o degli Anziani: Sri
Lanka, Myanmar, Thailandia, Cambogia e Laos.
* Il Buddhismo cinese, che è storicamente
all'origine del Buddhismo coreano, del Buddhismo giapponese e di una
parte del Buddhismo vietnamita. Dal Buddhismo giapponese proviene la
scuola buddhista Zen che unitamente al nuovo movimento religioso,
anch'esso di origine giapponese, Soka Gakkai, risulta tra le scuole
buddhiste più diffuse in Occidente.
* Il Buddhismo tibetano praticato in Tibet e in
Mongolia e in epoche diverse in Cina, Ladakh, Bhutan, parti del
Nepal, presso i Tatari e i Calmucchi in Europa, nello Yunnan
nord-orientale e, un tempo, come Buddhismo Vajrayāna in Asia
Centrale, Kashmir, Giava, Birmania e Bengala.
* Il Buddhismo in Occidente presente negli Stati
Uniti, in Europa ma anche in Canada in Australia e Italia.