BOSELLI Paolo
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Uomo politico italiano (Savona 1838 - Roma 1932); dal 1871
titolare a Roma della prima cattedra di scienza delle finanze, iniziò
nel 1870 la carriera di deputato durata fino al 1921. Appartenne sempre
al centro-destra, più volte ministro con Crispi, con Pelloux, con
Sonnino, stabilì come ministro del Tesoro (1899-1900) il saldo
ordinamento della Banca d'Italia. Presidente della Dante Alighieri
(1907), favorevole all'intervento nella prima guerra mondiale, fu alla
Camera (maggio 1915) l'entusiasta relatore del progetto di legge per i
pieni poteri del gabinetto Salandra.
Incaricato, alla caduta di Salandra, di formare un ministero a larga
base nazionale (18 giugno 1916), fallì nel suo intento e, dopo la
disfatta di Caporetto, si dovette dimettere (25 ott. 1917).
Collare dell'Annunziata (1916), senatore (1921), fu in senato (marzo
1929) relatore del progetto per l'approvazione dei Patti Lateranensi.
Cultore di studî storici, creò a Roma il Museo del risorgimento
italiano e fu presidente dell'Istituto storico italiano. Fu socio
nazionale dei Lincei (1918).
*
DBI
di Raffaele Romanelli
Nacque a Savona l'8 giugno 1838 dal notaio Paolo e da Marina
Pizzorno. Il padre, di famiglia che vantava ascendenze illustri nel
governo della città, era un liberale che nel 1821 era dovuto
fuggire per breve tempo in Francia, accusato di aver favorito la
fuga di S. di Santarosa e di A. Ramina da Savona. Il B., compiuti
gli studi nel collegio degli scolopi di Savona, si iscrisse nel 1856
alla facoltà di giurisprudenza di Torino, dove ebbe maestri
nomi illustri dell'emigrazione intellettuale, come L. A. Melegari,
F. Ferrara, P. S. Mancini, M. Pescatore, A. Scialoja, che ne
apprezzarono le capacità, di modo che quando si
laureò, il 23 giugno 1860, aveva ormai stretto numerosi
legami con gli ambienti politici e culturali della capitale. A
Torino sposò Corinna Cambieri, cognata del suo insegnante G.
Buniva, dalla quale ebbe tre figli, Silvio, primogenito, che
diverrà penalista, Maria e Luisa. Mentre compiva pratica
legale presso lo studio di C. Astengo - assieme al quale, e con G.
Bisio, pubblicò nel 1865 a Milano una Guida
amministrativa,ossia commentario della legge comunale e provinciale
-, collaborò con recensioni di testi politici, economici e
amministrativi alla Rivista contemporanea italiana e all'Italia
letteraria, diretta da A. De Gubernatis, che si stampavano a Torino,
e poi, dal 1865, e con maggiore frequenza, alla fiorentina
Civiltà italiana.
Erano gli anni nei quali la classe dirigente moderata doveva
rapidamente formare gli ordinamenti e il personale direttivo del
nuovo regno. Nel 1862 il B. risultò primo in un concorso alla
carriera superiore amministrativa, e il presidente della
commissione, il ministro Des Ambrois, lo destinò al Consiglio
di Stato come auditore. Tre anni dopo era nominato consigliere alla
prefettura di Milano. Ma i suoi interessi culturali e i legami con
gli ambienti piemontesi lo attirarono verso nuove attività.
Nel 1867 era nominato conservatore al Museo industriale di Torino,
con incarico di insegnamento di economia industriale; poco dopo
l'allora ministro dell'Agricoltura, F. Cordova, che l'aveva
conosciuto al Consiglio di Stato, lo nominò segretario
generale della commissione italiana all'Esposizione universale di
Parigi. Qui nell'autunno sempre del 1867 il B. si strinse d'amicizia
con Luigi Luzzatti, che vi rappresentava le banche popolari e le
società cooperative italiane. Alla fine del 1869 fu indicato
da Francesco Ferrara come professore di economia politica alla
scuola superiore di commercio, istituita l'anno prima a Venezia per
iniziativa del Luzzatti e diretta dallo stesso Ferrara. Rifiutato
l'incarico veneziano, all'indomani del trasferimento della capitale
il B. fu chiamato da Cesare Correnti all'università di Roma a
coprire la prima cattedra di scienza della finanza istituita in
Italia. In seguito, nel 1874, rinunciò all'insegnamento per
dedicarsi completamente all'attività politica, con un
interesse particolare per il problema dello sviluppo economico e
industriale del paese, sulla scia di quei settori della Destra ai
quali il B., tramite Luzzatti e Sella, si era avvicinato.
Come segretario generale dell'Esposizione didattica di Torino del
settembre 1869 aveva svolto una relazione sull'istruzione
secondaria, nella quale propugnava l'obbligatorietà
dell'istruzione fino ai 12 anni. Lo stesso anno, per interessamento
di Luzzatti, era stato nominato relatore al II Congresso nazionale
delle Camere di commercio, che si svolse nel settembre-ottobre a
Genova, al quale il B. rappresentava le Camere di Savona e di Ascoli
Piceno. Parlando "Delle scuole industriali popolari d'arti e
mestieri", il B. sostenne l'urgenza di un energico programma
governativo di impulso e di organizzazione dell'insegnamento tecnico
fino ai livelli universitari, optando quindi per l'impostazione data
al problema dal Luzzatti.
Quando, sempre nel 1869, era stata nominata una commissione
presieduta da Q. Sella per studiare l'organizzazione di una
esposizione da tenersi a Torino, il B. ne fu relatore. Da allora
entrò a far parte di varie commissioni con le quali i governi
moderati intendevano rendere più incisivo l'intervento
pubblico in campo economico e sociale. Fu prima membro e poi
presidente della Giunta permanente di Finanza, e partecipò,
tra le altre, ai lavori della commissione per il riordinamento
dell'imposta fondiaria, di quella per il riordinamento dei tributi
locali, e della commissione consultiva sulle istituzioni di
previdenza e sul lavoro, istituita alla fine del 1869. Il 4 giugno
del 1870 propose a quest'ultima di affiancare alle inchieste
industriale e agraria, che si andavano preparando in quel periodo
(il B. sarebbe poi stato commissario di quella industriale), una
terza che raccogliesse notizie sulle "condizioni fisiche morali e
intellettuali degli operai". La proposta fu approvata da una
commissione della quale il B. fece parte insieme, tra gli altri, a
Depretis, Luzzatti, Lampertico, Di Rudinì e Guerzoni, che ne
fu il relatore.
Molte iniziative del B. furono nel frattempo dirette a rafforzare i
legami con la città natale. Già nel '62 e nel '65
aveva pubblicato due opuscoli a favore della ricostituzione della
provincia di Savona, abolita nel 1859; nel 1870 ne pubblicò
un altro sulla ferrovia di Savona. In quell'anno divenne consigliere
comunale della città e alle elezioni politiche del novembre
fu eletto deputato di quel collegio, che era prima stato di G.
Astengo - nominato senatore - e poi dell'ex ministro della Marina
gen. Federico Pescetto, vinto dal B. in ballottaggio. L'anno dopo
rappresentava di nuovo Savona al congresso di Napoli delle Camere di
commercio e entrava anche nel consiglio comunale di Torino in
rappresentanza dei mandamenti di None e Cumiana, località
quest'ultima dove stabilì da allora la propria residenza
estiva.
Eletto alla commissione del bilancio della Camera ancor prima della
convalida della sua elezione, il B. svolse da allora una intensa
attività parlamentare, riferendo e intervenendo
prevalentemente su temi finanziari ed economici. Politicamente si
schierò a Destra, e alla caduta del ministero Lanza-Sella nel
giugno 1873, Minghetti progettò di offrirgli un segretariato
generale. Il B. tuttavia preferì affiancarsi al gruppo
piemontese guidato da Sella, seguendone le sorti anche quando si
fece più acuto il dissenso di Sella per le aperture di
Minghetti alla Sinistra.
Nel frattempo la proposta di inchiesta governativa sugli operai
veniva affiancata dalla proposta di inchiesta parlamentare sui
contadini, presentata alla fine del '71 dalla Sinistra e illustrata
il 3 giugno 1872 da A. Bertani, il suo maggior sostenitore. Per far
fronte alla proposta Bertani il governo riprese un progetto di
inchiesta agraria, nel quale confluì quello di Boselli.
Giunte le due proposte alla Camera, il B. fu nominato relatore del
progetto governativo, ma le due commissioni finirono col fondersi e
col presentare il 13 maggio 1874 una relazione comune, in calce alla
quale figuravano le firme del B. e di Bertani.
Il contrasto tra le due proposte - che veniva così appianato
- riguardava il diverso atteggiamento della Sinistra e della Destra
di fronte ai temi sociali. Mentre Bertani insisteva perché
l'inchiesta riguardasse esclusivamente le classi popolari e ne
denunciasse le terribili condizioni di vita, i conservatori invece,
per timore di incoraggiare una pericolosa presa di coscienza
sociale, tendevano a mantenere l'inchiesta nell'ambito ristretto di
una indagine amministrativa sui problemi tecnici della
proprietà terriera. La relazione Boselli-Bertani, e poi una
nuova, più documentata relazione che il B. presentò il
16 giugno 1875, intendevano mediare queste posizioni, rifiutando
ogni taglio classista ma comprendendo nell'inchiesta una minuziosa
indagine delle condizioni di vita contadine. L'"Inchiesta agraria e
sulle condizioni della classe agricola in Italia" - come si
chiamò nella nuova dizione - comprendeva dunque nella classe
agricola sia i proprietari sia i contadini. Simile apertura
"scientifica" al tema sociale era propria del gruppo moderato
più avanzato e vicino alle nuove scuole economiche
"sperimentali", i cui temi si ritrovano nella relazione Boselli.
Procedendo con "imparzialità", vi si legge, alla raccolta di
notizie sui contratti agrari, sul sistema fiscale, sui salari, i
consumi, i risparmi, l'istruzione popolare, i reati, l'emigrazione,
ecc., l'inchiesta avrebbe dimostrato la bontà
"dell'applicazione del metodo sperimentale nelle questioni sociali e
nell'arte di Stato", consentendo infine di disporre di un quadro
completo per l'intervento risanatore e preventivo dello Stato.
Più volte rinviata, la discussione della legge si svolse
infine nell'aprile del 1876 sul testo nuovamente presentato dal
governo il 13 marzo, solo pochi giorni prima della caduta della
Destra. Il 28 aprile il B. interveniva di nuovo illustrando i motivi
che erano stati alla base dell'inchiesta.Con questo spirito, negli
anni seguenti il B. prese più volte posizione sulla
"questione sociale", contribuendo alla discussione di temi attuali,
come la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli o l'abolizione
della tassa sul sale, che egli sostenne stilando fra l'altro il
manifesto di un apposito comitato che si costituì nel 1881.
Egli parlava come rappresentante della corrente di pensiero che si
era contrapposta al liberismo classico propugnando l'intervento
regolatore dello Stato in campo economico e sociale. Nel 1874,
quando la polemica dottrinaria fra Ferrara e Luzzatti era
rapidamente sfociata in campo politico, il B. aveva partecipato alla
convocazione del congresso degli economisti italiani in difesa delle
nuove teorie e, secondo quanto ricorda Luzzatti, aveva anzi svolto
una parte di primo piano nel reclutare gli aderenti piemontesi, tra
i quali era Sella. Due anni dopo, nel marzo del '76, giunto a
maturazione il tema che dava maggior peso politico al dibattito
dottrinario, quello della politica ferroviaria, il B. si unì
ai sostenitori dell'indirizzo statalista - Spaventa, Sella, Luzzatti
- e ne difese le ragioni insieme con Leone Carpi nella sede della
Società Adamo Smith di Firenze, centro degli interessi
privatisti. Caduta la Destra, intervenne il 23 giugno 1876 al
dibattito parlamentare sulle convenzioni di Basilea, nel quale la
polemica toccò il suo culmine.
Condannando con dure parole il cosiddetto socialismo della cattedra,
il B. riprese gli argomenti liberisti usati da Minghetti e
soprattutto da Spaventa per difendere la gestione statale delle
ferrovie: essendo le ferrovie un pubblico servizio, lo Stato doveva
"intervenire a difesa dell'individuo contro la tirannia della
collettività", cioè contro la "nuova feudalità"
delle "consorterie ferroviarie" e dei, grandi monopoli privati. Il
B. coloriva il suo discorso con una venatura di filosofia
industrialista, tracciando il quadro dell'inevitabile sviluppo della
grande industria e dei problemi sociali connessi ad un regime di
massa, e attaccava le società ferroviarie in nome dei
principî liberisti, echeggiando così il rigore ideale
con il quale era combattuta quella battaglia dai teorici della
Destra. Tuttavia egli, privo della tensione morale che agitava i
moderati della generazione precedente, della questione esaltava
piuttosto l'aspetto tecnico-economico (per es. sottolineava il danno
arrecato dalle società ferroviarie all'industria nazionale
con la politica di approvvigionamento sui mercati esteri), mentre di
fatto piegava quei principî ai legami che andava stringendo
con il mondo e gli interessi dell'industria.
La stessa impostazione il B. dava, fin dal suo ingresso alla Camera,
al tema dello sviluppo della marina mercantile e dell'industria
cantieristica che egli, come deputato di un importante collegio
marittimo, pose da allora al centro della propria attività
politica.
All'inizio, degli anni '70, quando la marina italiana sembrava poter
riconquistare la posizione di prestigio di cui aveva in precedenza
goduto, il B. si mantenne nell'ambito delle concezioni economiche
fino, ad allora professate, dichiarandosi contrario ad una politica
di premi e più volte prendendo la parola affinché lo
Stato intervenisse a rimuovere gli ostacoli di natura fiscale e
burocratica che impedivano un libero sviluppo concorrenziale.
Soltanto quando fu manifesto che la flotta italiana non era in grado
di sostenere la concorrenza straniera senza una accelerata
trasformazione tecnica e un maggiore afflusso di capitali, il B.
mitigò il proprio liberismo, ritenendo ormai necessario che
lo Stato sostenesse più attivamente l'industria
cantieristica.
Nel 1877, membro della commissione relatrice sulle convenzioni
postali e commerciali con Florio e Rubattino, si discostò
dalla posizione assunta dalla Destra e approvò la legge,
sostenendo che le sovvenzioni ai servizi postali dovevano avere
intenti commerciali e industriali, e quindi che l'esigenza, sia
economica sia politica, di sostenere il commercio internazionale
dell'Italia giustificava l'estensione delle sovvenzioni alle rotte
estere. Il 31 marzo 1879, in sede di discussione dei bilanci, di
nuovo sollecitò sgravi fiscali per la marina denunciando,
questa volta con toni più marcati, la grave crisi
dell'industria cantieristica ed accompagnando un suo ordine del
giorno con la firma di quarantadue deputati.
Benché rimanesse politicamente schierato con il centro-destra
e il suo nome venisse fatto ancora nel 1881 in occasione di uno
degli ultimi tentativi di Sella di creare una alleanza di governo,
la sua posizione di sostenitore degli interessi cantieristici e
marittimi lo distaccava nel frattempo dagli schieramenti di partito
e lo attirava nel clima "trasformistico" che andava creandosi con la
Sinistra.
Pur avendo ribadito ancora l'anno precedente il suo sfavore per i
premi di navigazione, nel gennaio dell'80 rinviò ad uno
studio da compiersi appositamente la definizione delle opportune
provvidenze per la marina e il 26 giugno dava corpo a un suo vecchio
progetto svolgendo una proposta di inchiesta parlamentare sulle
condizioni della marina mercantile e sui mezzi per promuoverne lo
sviluppo, proposta presentata con lui da 14 deputati di collegi
marittimi tra i quali Crispi e Brin. Relatore del disegno di legge
sull'inchiesta, fu poi vicepresidente e relatore dell'inchiesta
stessa, di modo che poté acquisire nuova e diretta conoscenza
dei problemi del mondo cantieristico e armatoriale. Le 38
conclusioni alle quali giungeva l'inchiesta - incluse nell'ultimo
dei sette volumi presentati alla Camera nel febbraio 1882 -
contenevano un ampio arco di proposte per un sollecito aiuto alla
marina, tra le quali l'istituzione di un ministero della Marina
mercantile, una serie di riforme fiscali fino all'esenzione della
ricchezza mobile, la preferenza dell'industria e della bandiera
nazionale sulle marine estere, alcune disposizioni per le
convenzioni internazionali e la navigazione di cabotaggio, infine
l'istituzione di premi di costruzione e di navigazione.
Tali misure vennero sostanzialmente recepite dalla legge 6 dic. 1885
sulla marina mercantile, della quale il B. fu relatore alla Camera,
e nella quale, caduta l'esenzione della ricchezza mobile, venivano
istituiti i premi, collegandoli con l'utilizzazione, da parte dei
cantieri, della produzione nazionale. Nel dibattito parlamentare il
B. dichiarava che la sua "conversione" ai premi non lo allontanava
dai principî liberisti perché, di fronte alla crisi
procurata alla marina dalla concorrenza internazionale e
dall'improvvida politica dei governi precedenti, era necessario che
lo Stato facilitasse la nascita di una metallurgia nazionale e
restituisse alla marina le sue capacità concorrenziali. Gli
oppositori misero invece in evidenza l'artificiale sostegno dato nel
corso dell'inchiesta e nella legge ai più forti gruppi
marittimi, da poco riuniti nella Navigazione generale italiana.
Di fatto la legge avviava il nuovo indirizzo di diretto intervento
dello Stato nella creazione di una siderurgia nazionale che sarebbe
culminato nella tariffa protezionistica del 1887. Lo stesso B.
collocava del resto la difesa della marina in un quadro politico
più vasto, nel quale lo Stato doveva sostenere con decisione
tutta l'industria nazionale, non solo la marittima.
Il 5 apr. 1883, svolgendo anche a nome di Luzzatti una interpellanza
sui rapporti tra industria e amministrazione dello Stato,
invitò i dicasteri militari e dei Lavori pubblici a
garantire, con una politica di commesse, la continuità della
produzione e la sua distribuzione tra le varie industrie del paese.
Pur dichiarandosi fermamente contrario a una politica di protezione
doganale, e favorevole solo all'incoraggiamento alle forze
produttive spontanee, egli sottolineava anche gli aspetti
politico-strategici e sociali di una politica di "potenza marittima"
e di difesa del "lavoro nazionale". Parlando delle ferrovie,
elogiava poi l'operato del ministro Baccarini, che aveva allora
presentato convenzioni ferroviarie che tutelavano la produzione
italiana. Quando infatti furono votate le nuove convenzioni
stipulate da Depretis, tra l'84 e l'85, il B. votò le mozioni
di Baccarini e Luzzatti per l'esercizio governativo, associandosi,
con la pattuglia della Destra "spaventiana", al grosso
dell'opposizione pentarchica, che era invece privatista. Riprendendo
i motivi liberisti di lotta ai monopoli ferroviari, il B. esprimeva
anche gli interessi degli armatori liguri, che avversavano la
politica tariffaria delle società private.
L'attività del B. in questo campo ebbe anche un rilevante
risvolto internazionale. Più volte infatti l'antico allievo
di Mancini all'università di Torino s'era occupato di
questioni di diritto internazionale. Svolgendo un ampio e
dettagliato intervento sul trattato di commercio con la Francia e
sull'atto addizionale relativo alla futura convenzione di
navigazione, il B. sostenne il 4 maggio 1882la necessità di
tutelare, mediante un accordo di completa reciprocità, il
cabotaggio italiano, e propose anche per l'Italia l'instaurazione
delle surtaxes d'entrepôt francesi, vale a dire delle tasse
sulle merci trasportate in Italia da porti non di origine.
Attaccando la convenzione di navigazione del 1862, vero "privilegio
della bandiera estera a danno della bandiera nazionale", e chiedendo
una ritorsione contro eventuali nuovi atti unilaterali francesi, il
B. riteneva inevitabile quella che sarebbe stata la guerra
commerciale con la Francia. Contrariamente a quanto egli aveva
sostenuto, in mancanza di una nuova convenzione, fu più volte
rinnovata quella del '62. Ma, una volta approvata la legge sui
premi, lo stesso B., nel frattempo divenuto presidente del Consiglio
superiore della marina mercantile, fu incaricato da Depretis e da Di
Robilant di negoziare la nuova convenzione sulla base del principio
della completa reciprocità, da lui stesso posto come
condizione delle trattative. Insieme a Di Robilant, il B.
trattò con i francesi Decrais e Rouvier e firmò a Roma
il 30 aprile 1886 una convenzione che, approvata nel giugno dalla
Camera italiana, fu respinta il mese seguente da quella francese.
Nel 1885ilB., che tre anni prima era stato segretario della
commissione relatrice sul codice di commercio, fu uno dei delegati
del governo italiano al congresso internazionale di diritto
commerciale e marittimo che ebbe luogo ad Anversa; in
quell'occasione pubblicò a Torino, e distribuì ai
congressisti, il volume Le droit maritime en Italie. Notes do P. B.,
nel quale trattava degli studi e delle leggi di diritto marittimo
italiano dal 1860 al 1885e di altre questioni presentate al
congresso, relative ad una auspicata legislazione internazionale nei
principali istituti di diritto marittimo e commerciale.
Il ruolo svolto nelle vicende marittime e nella legislazione
protezionista segna il culmine della vita politica del B.; nell'anno
1886 ottiene il massimo successo elettorale nel collegio savonese -
divenuto con lo scrutinio di lista il II di Genova - che dal 1870 lo
rinviava alla Camera con numero sempre maggiore di voti. Ai
riconoscimenti ufficiali si univano le iniziative di appositi
comitati che secondo l'uso dell'epoca gli offrivano medaglie,
ricordi e pergamene a Savona, a Cumiana e a Torino, dove dal 1882 il
B. era presidente del consiglio provinciale. Nel 1888 un comitato di
esponenti armatoriali savonesi stampava in suo onore una raccolta di
suoi scritti e discorsi con una biografia pubblicata anche a Torino:
(Discorsi e scritti varii..., a cura di I. Marchini).
Ma nel 1888, il B. era ormai ministro. Lo inseriva nel nuovo clima
politico creatosi con la morte di Depretis non solo il peso che
avevano assunto in quegli anni gli interessi da lui rappresentati,
ma anche il modo con cui egli li aveva sostenuti, trovando alte
parole per ricordare i fini di potenza e di grandezza che dovevano
porsi a un paese di grandi tradizioni di espansione marinara come
l'Italia.
Membro del comitato della deputazione subalpina che organizzò
il banchetto del 25 ottobre del 1887 a Torino, con il quale ebbe
inizio il periodo dell'amministrazione crispina, il B. si
staccò ben presto dai "dissidenti di centro" precedendoli nel
legarsi a Crispi. Ai primi di settembre era stato da questo inviato
a Parigi per concordare col presidente del Consiglio Rouvier la
ripresa dei negoziati segreti sul trattato di commercio; il 17
febbr. 1888, dimessosi il ministro della Pubblica Istruzione Coppino
sotto la pressione di agitazioni studentesche filocrispine e
radicali, Crispi lo sostituì con il B., rafforzando
così a destra le basi del ministero. Questa sua funzione di
tramite con il centro-destra venne confermata nella crisi parziale
del marzo 1889, quando egli ottenne di rimanere nel ministero
nonostante l'iniziale sfavore di Crispi.
Convinto, come Sella e come molti della scuola moderata,
dell'importanza dell'istruzione per lo sviluppo economico del paese,
il B. se ne era già più volte occupato. Aveva tra
l'altro presieduto la commissione sulla riforma dell'istruzione
tecnica che aveva preceduto la riforma Coppino del 1880, abolita
l'anno seguente e parzialmente ripresa nel 1885. Ora condusse in
porto il regolamento di Coppino sull'istruzione elementare e si
accinse a una vasta opera di riorganizzazione della scuola.
Condivideva le conclusioni presentate alla Camera nel dicembre 1888
da Martini, relatore sulla riforma della scuola, per la creazione di
una scuola secondaria inferiore unica. Non giungendo però a
conclusione l'iter legislativo della legge, anche per le numerose
polemiche che andavano rinviando da anni una riforma organica, il B.
tentò di creare a mezzo di decreti le basi della nuova scuola
media. Istituì un esame dopo il terzo anno di ginnasio,
stabilendo che desse l'accesso, oltre che alla quarta ginnasiale,
anche alla scuola normale e, previo esame integrativo, all'istituto
tecnico; arricchì i programmi del ginnasio inferiore,
introducendovi tra l'altro la storia. L'intento di tali
provvedimenti era dare maggiore dignità agli studi tecnici,
dando contemporaneamente all'istruzione secondaria comune più
solide basi culturali. Tuttavia la mancata organicità di
queste riforme - e in particolare il mantenere la scuola tecnica,
senza potenziare l'istruzione professionale autonoma - ne fecero
fallire lo scopo, tanto che esse furono poi abolite, restando
così la questione insoluta.
Maggior successo ebbero i provvedimenti, di minore eco politica, in
materia di antichità e belle arti. Il B. caldeggiò
numerosi restauri, gettò le basi di una nuova tutela del
patrimonio archeologico e artistico, dividendo il paese in dodici
commissariati, promosse la costruzione del portico della basilica di
S. Paolo, istituì i musei nazionali per le antichità
di Roma e dell'Umbria alle Terme di Diocleziano e a Villa Giulia,
tutte opere che ben contribuirono alla crescita monumentale della
Roma crispina.
A questa attività, alla quale vanno aggiunti numerosi decreti
e circolari sui programmi e l'organizzazione degli studi, il B.
affiancò la pubblicazione di alcuni brevi saggi di
storiografia sabauda, comparsi tra il '92 e il '93 sugli Atti della
R. Accademia delle Scienze di Torino, e vari incoraggiamenti a
istituzioni culturali e agli studi di storia. Nell'esempio del B.,
esponente di interessi industriali e esperto di cose economiche,
queste attività suggeriscono i particolari legami che sulla
fine del secolo uniscono l'ideologia industrialista all'esaltazione
della cultura nazionale e della storia patria. In un discorso
dell'agosto 1886, il B. si era definito un monarchico, non
appartenente ad alcun partito ma aperto al progresso e ai problemi
sociali. Le sue concezioni politiche - non molto articolate, ma
aperte alle più svariate soluzioni - tendevano infatti a
riassumersi nella difesa dell'istituto monarchico, inteso come
depositario delle conquiste risorgimentali e garante di un ordinato
progresso. In questi anni egli divenne infatti intimo degli ambienti
di corte.
Alla fine del 1893, di fronte alla gravissima crisi economica e
politica che fece cadere il governo Giolitti, il B. rifiutò -
come Saracco e Sonnino - di entrare in un gabinetto Zanardelli,
contribuendo così ad imporre, d'accordo con la corona il
ritorno di Crispi, che infatti gli affidò il 15 dicembre il
dicastero dell'Agricoltura, Industria e Commercio.
Nel febbraio del 1894 ripresentò, modificandolo, il disegno
di legge Giolitti sulla quotizzazione dei demani comunali nel
Mezzogiorno e in Sicilia, che non giunse però in porto. Tutto
lo sforzo del ministero era infatti incentrato sulle misure di
risanamento delle finanze e della circolazione elaborate da Sonnino,
e il B., che nel '93 si era tenuto su una linea di compromesso
dichiarandosi in un primo tempo favorevole alle economie militari,
si associò ora alla linea fiscale del ministro del Tesoro e
delle Finanze, stringendosi al Centro sonniniano anche contro la
Destra di Saracco.
Allineandosi sulle posizioni di Sonnino, il B. si manteneva nella
classica linea "selliana" di difesa delle finanze e degli interessi
dello Stato contro le pressioni dei grandi interessi speculativi,
svolgendo nello stesso tempo anche una funzione di mediazione presso
il suo elettorato. Appoggiò il genovese Grillo, il direttore
della Banca d'Italia, che fu presto costretto alle dimissioni, e
quando si inasprì la tensione fra il governo e i gruppi di
azionisti della Banca Nazionale (confluita nella Banca d'Italia), in
gran parte liguri, difese i decreti Sonnino, che appunto rigettavano
sugli azionisti il maggior onere del risanamento della circolazione,
smentendo poi in una intervista al giornale genovese Il Caffaro le
voci di una statalizzazione della banca. Questa sua posizione
subordinata alla più forte personalità di Sonnino non
mutò neanche quando, il 14 giugno 1894, gli subentrò
al ministero delle Finanze, cedendo il dicastero dell'Agricoltura al
moderato toscano Barazzuoli, gradito al partito degli agrari. La
crisi parziale, dovuta all'opposizione incontrata dai provvedimenti
finanziari specie presso gli agrari, dimostrò tutta
l'abilità di Crispi: mentre il B. era ritenuto più
duttile di Sonnino, questi rimaneva al dicastero del Tesoro e
continuava a dirigere la politica finanziaria del governo, sia pure
con i cambiamenti ottenuti dalle opposizioni.
Dal banco del nuovo dicastero, il 20 giugno 1894 il B. prese la
parola sui provvedimenti finanziari sostenendo, contro il maggior
aumento chiesto dagli agrari, il dazio sul grano a 7 lire (portato
nel dicembre a 7,50), come giusto punto d'equilibrio tra criterio
fiscale e "criterio economico e di tecnica agraria", disconoscendo
quindi ancora una volta il puro significato protezionistico del
provvedimento.
Motivazioni simili il B. addusse nel presentare assieme a Sonnino
alla nuova Camera nel giugno 1895 le leggi sui provvedimenti
finanziari, in gran parte varati per decreto nel dicembre
precedente, e contenenti nuovi inasprimenti fiscali, tra i quali
l'introduzione di tasse sui fiammiferi e su gas e luce. Sulla via
già intrapresa di raggiungere il pareggio con qualche
concessione ai fautori delle economie, ma soprattutto facendo
ricorso a una pressione tributaria diffusa, i provvedimenti
colpivano settori dell'economia che già si mostravano in
ripresa, e il B. li discuteva alla Camera illustrando questa
prospettiva favorevole e giudicando necessario dirigerne i vantaggi
a beneficio dell'erario. Era dunque per motivi fiscali che non
veniva diminuita la barriera protettiva (che era anzi aumentata, nel
caso del dazio sugli zuccheri, facendo leva sulla diminuzione del
prezzo) o, dove ciò avveniva, i benefici erano sottratti al
consumo. Tale il caso della discussa introduzione del dazio sul
cotone greggio, giustificata con la generale ripresa della
produzione, che colpiva la produzione tessile a solo vantaggio delle
finanze pubbliche. In vista del pareggio, e di fronte alle
necessità militari, nuovi provvedimenti erano presentati
nell'esercizio seguente, con i quali tra l'altro si abbandonava il
catasto e si alzava nuovamente il dazio sulle farine. Ma la caduta
del ministero, per i fatti di Adua, ne fermò il corso.
Il B. tornò al governo nel secondo ministero Pelloux (maggio
1899-giugno 1900), quando, nella situazione politica aggravata dalla
crisi dell'anno precedente, fu tentata una coalizione di tipo
crispino ispirata da Sonnino, che rimaneva però fuori dal
governo. Lo spostamento a destra doveva garantire il passaggio dei
provvedimenti restrittivi delle libertà statutarie, sulle
quali si impegnò tutta l'attività del ministero. In
questa situazione il Tesoro, retto dal B., perdeva gran parte della
sua importanza, e il B. si mantenne su di una linea interlocutoria,
diretta all'assestamento del bilancio, rinviando ogni riforma
tributaria e di alleggerimento fiscale. Nell'esposizione finanziaria
del 28 nov. 1899 il B., nel rilevare il generale risveglio
dell'attività economica, la floridità del credito, la
ripresa di antiche industrie, il moltiplicarsi delle nuove,
sembrò additare, più che la necessità di una
politica di repressione, i motivi profondi della svolta politica
liberale che andava maturando.
Nei primi anni del secolo il B. rimase vicino a Sonnino, ed
entrò nel suo breve governo del 1906, assumendo il dicastero
della Istruzione Pubblica. Era ancora aperta la questione della
riforma della scuola media, affidata l'anno prima allo studio di una
commissione presieduta dallo stesso B., e da lui ministro ancora
presieduta fino all'anno successivo, quando si sciolse senza
successo. Venivano invece portate a compimento la legge sullo stato
giuridico e la carriera degli insegnanti medi, e l'istituzione del
Museo del Risorgimento in Roma.
Dopo il 1906 il B. entrò apertamente nel campo giolittiano,
tanto che durante la crisi del 1910 fu fatto il suo nome come capo
di un governo di incontro tra sonniniani e giolittiani. In questi
anni, tuttavia, ormai estraneo al nuovo corso giolittiano, egli
diradò i suoi interventi parlamentari e iniziò
piuttosto una ancor lunga attività di oratore, di celebratore
di glorie dinastiche e risorgimentali, di titolare di cariche
onorifiche di prestigio. Tale il primo segretariato dell'Ordine
mauriziano, conferitogli da Vittorio Emanuele III nel 1908, che
suggellava i suoi legami con l'ambiente di corte.
I suoi centri di interesse si spostavano definitivamente a Torino.
Dopo l'annullamento della sua prima elezione ad Avigliana (Torino)
nel marzo del 1893 - dove era stato caldamente appoggiato da
Giolitti -, fu rieletto un mese dopo e confermato anche nelle
elezioni successive. Sempre presidente del Consiglio provinciale di
Torino, ebbe nel 1904 anche la presidenza del Museo industriale,
già tenuta nel 1885-87. Poté così seguire e
sostenere la fusione del museo con la scuola degli ingegneri e la
creazione del politecnico, avvenuta nel 1906 con una legge della
quale egli stesso fu relatore dinnanzi alla Camera.
Nell'ottobre del 1907 successe a Luigi Rava nella presidenza della
Società nazionale Dante Alighieri, che doveva tenere fino
alla morte. Mentre all'interno della società erano
inizialmente ancora aperte le polemiche sui legami con la massoneria
e le discussioni circa la prevalenza dell'indirizzo irredentistico
su quello dell'assistenza all'emigrazione, più tardi si
vennero accentuando i contenuti nazionalistici, sia
dell'attività interna (si veda l'esempio della campagna
contro le insegne straniere, sostenuta da Corradini), sia,
soprattutto, della propaganda per le rivendicazioni nel Trentino e
sul confine orientale, che includevano oltre a Trieste tutta la
Dalmazia.
Nei discorsi che il B. pronunciò ai congressi annuali della
società una folla di ricordi letterari e risorgimentali
annebbiava ogni prospettiva storica per esaltare "i fini supremi
dell'italianità" che il B. poneva all'associazione, fini di
fronte ai quali la difesa della lingua e della cultura nazionali si
confondevano sempre di più in una generica passione
patriottica e nazionalista. In questa prospettiva, se pure abilmente
equilibrato dagli altri scopi sociali e culturali, l'obiettivo
irredentistico finiva col riassumere la propaganda della
società, che sembrò infine trionfare con lo scoppio
della guerra, anche per l'improvviso ritorno del presidente della
Dante sulla scena politica.
Il 16 maggio 1915, poche ore prima di respingere le dimissioni di
Salandra, e dopo che Carcano e Marcora avevano rifiutato l'incarico,
il re offrì al B. di formare un ministero nazionale che
preparasse, super partes, l'intervento italiano. Sia perché
non credeva realizzabile il progetto, sia perché favorevole a
Salandra, il B. non accettò l'incarico, e il 20 maggio, come
decano della Camera, fu relatore del disegno di legge che conferiva
al governo poteri straordinari in caso di guerra. La breve
relazione, letta tra l'entusiasmo generale e poi affissa, per
decisione della Camera, in tutti i Comuni del Regno, plaudiva alla
guerra come rinascita degli ideali del Risorgimento, come "il
compimento dei destini nazionali e la difesa del diritto di
nazionalità". Temi che il B. nel clima della guerra avrebbe
sempre più accentuato, incline a vedere nella ripresa delle
tradizioni risorgimentali "al di sopra e al di fuori delle divisioni
parlamentari" il riscatto della nazione dalle paludi del
parlamentarismo trasformista e giolittiano. Nel dicembre 1915 il B.
ricevette il collare dell'Annunziata.
La dichiarata estraneità alle divisioni politiche, la
vocazione sempre più accentuata alla retorica e insieme
l'adesione alla linea di Salandra lo condussero alla direzione del
governo nel momento di crisi e di indecisione del giugno del 1916.
Dopo un anno di guerra, di fronte alla minaccia di una offensiva
austriaca. Salandra aveva dovuto cedere a quanti chiedevano una
condotta più decisa della guerra e una maggiore
collaborazione con gli alleati. Ma i contrasti che dividevano il
campo interventista sui fini del conflitto, lo smarrimento di fronte
a impreviste realtà politiche e militari, infine il nodo
irrisolto dei rapporti tra governo e comando militare, se erano
valsi a mettere in crisi il gabinetto Salandra, non suggerirono una
nuova linea d'azione. Salandra indicò per la successione il
settantottenne B., l'unica persona di largo prestigio in grado di
rappresentare solennemente gli ideali della guerra senza dare ad
essi alcuna particolare coloritura e quindi di essere accettato da
una larga maggioranza. Ciò portò ad aumentare il
numero dei ministri e sottosegretari in misura in seguito giudicata
eccessiva; fin dalle consultazioni il B. si propose infatti di
ampliare il governo a tutti i settori parlamentari, escludendo
soltanto i dichiarati avversari della guerra, e dunque includendovi
anche i giolittiani. Ma i contatti presi a questo scopo con Facta,
che il B. avrebbe destinato al ministero di Grazia e Giustizia,
allarmarono gli ambienti della maggioranza interventista. Escluso
Facta, il gabinetto accolse però socialisti riformisti,
radicali, un repubblicano e un cattolico, oltre agli uomini del
centro e della destra, e ottenne il 1º luglio una maggioranza
larghissima alla Camera, confermata dall'unanimità del
Senato.
La presenza nel governo di Bissolati, Bonomi e Comandini doveva
soddisfare l'interventismo democratico, ma l'insieme delle
personalità più rappresentative del ministero,
cioè lo stesso Bissolati, Sonnino e Orlando, testimoniava,
per la diversità delle posizioni di fronte al problema della
guerra, che il gabinetto più che da uno slancio di concordia
nazionale nasceva dall'equilibrio di forze politiche diverse e
quindi mancava di una direttiva omogenea e sicura. Lo stesso B.,
ritenuto uomo privo di orientamenti personali e di risolutezza dalla
maggior parte degli esponenti politici e militari, anche a lui
più vicini, cedette spesso alle autonome iniziative dei suoi
collaboratori, limitandosi a rinnovare insistentemente gli appelli
alla solidarietà nazionale. Così fece, oltre che negli
interventi parlamentari, anche in alcuni acclamati discorsi tenuti
nel corso della guerra a Torino, a Napoli, a Milano e a Roma.
Nonostante la loro genericità, in questi appelli emerge
tuttavia una concezione particolare della guerra, quella propria
degli ambienti nazionalisti. Presentando il gabinetto alla Camera il
28 giugno 1916, il B. faceva suoi gli "scopi di intensificazione
bellica e di cooperazione popolare" che avevano giustificato il
mutamento del governo, ma nel contempo ribadiva che il governo
nazionale nasceva da una concordia di ispirazione risorgimentale che
annullava le differenze politiche e che, unificando la coscienza
nazionale, avrebbe reso possibile, a guerra conclusa, "e all'infuori
di ogni particolare opinione o interesse di partito", riformare
"ogni parte della legislazione", "promuovere senza indugio tutto
ciò che si attiene alla gloria e al potere scientifico della
Nazione", preparare i quadri di una "riscossa industriale".
Di fronte al problema più spinoso lasciatogli in
eredità da Salandra, quello dei rapporti con il comando
militare e dell'autonomia di cui godeva il capo di Stato Maggiore,
il B. si adeguò subito al comportamento dei suoi
predecessori, dichiarandosi alla Camera contrario a ogni controllo
parlamentare in materia militare e dando per intero la propria
fiducia a Cadorna, omettendo d'altra parte quei più caldi
apprezzamenti che gli ambienti interventisti avrebbero desiderato,
proprio nei giorni della riscossa militare. Poco dopo, di fronte al
contrasto tra Cadorna e Bissolati - contrasto aggravato dalla
pubblicità data al memoriale del colonnello anticadorniano
Douhet - svolse opera di pacificazione, recandosi in ottobre a Udine
e premendo perché Cadorna recedesse dal suo rifiuto di
ammettere Bissolati in zona di guerra. Ma l'episodio si risolse in
un compromesso che vide di fatto mortificato il potere politico di
fronte a quello militare. Nel 1919, rispondendo alla Camera
all'accusa di aver troppo ceduto al comando militare, il B. difese
Cadorna dicendosi convinto che i governi non dovevano interferire
nella conduzione della guerra.
Ugualmente sfuggente fu la sua posizione in materia di politica
estera, benché egli si astenesse in genere dall'intervenire
nell'operato del suo ministro degli Esteri Sonnino.Fu scarsamente
entusiasta - come la maggior parte degli uomini di governo del tempo
- della dichiarazione di guerra alla Germania, avvenuta il 18 ag.
1916, che parve soddisfare la concezione di guerra europea cara agli
interventisti democratici. Nel comunicarla alla Camera il 5
dicembre, il B. annunciò anche l'invio di un contingente di
truppe a Salonicco e l'obiettivo del "dominio dell'Adriatico" e "i
diritti imprescrittibili della nostra nazionalità
sull'opposta sponda". Il giorno dopo, sempre alla Camera, il B.
respingeva la "mozione per la pace" di Turati e Treves, dichiarando
però che il compimento delle aspirazioni italiane non poteva
dissociarsi dall'obiettivo di una pace definitiva, basata sulla
giustizia e sul pieno trionfo delle nazionalità.
Nei mesi seguenti, nonostante aumentassero le preoccupazioni per la
debolezza e le oscillazioni del presidente del Consiglio, il governo
si resse per la mancanza di una alternativa e in particolare per il
timore che la caduta del B. favorisse la ripresa dei giolittiani.
Ciononostante il B. veniva più vivacemente accusato di
debolezza dagli ambienti politici ai quali egli si sentiva
più vicino, cioè dagli ambienti interventisti, che
nella prima metà del 1917 condussero una violenta campagna
contro il governo addossando alla classe politica la
responsabilità della stasi militare e del malcontento
popolare. Bersagli di questa campagna erano la politica estera di
Sonnino e soprattutto quella interna di Orlando, giudicata troppo
liberale verso le organizzazioni socialiste e in genere verso gli
ambienti neutralisti. Nel giugno del '17 queste critiche si
concretizzarono in un duplice tentativo di mettere sotto accusa il
governo.
Tra il 6 e il 13 giugno Cadorna scrisse al B. tre lettere nelle
quali accusava il governo di provocare, con la tolleranza della
propaganda sovversiva nel paese, il diffondersi degli atti di
indisciplina al fronte. Questa manifesta ingerenza del capo di Stato
Maggiore nella direzione politica del paese, che seguiva le voci
diffuse di un progettato colpo di stato militare, fu accompagnata
negli stessi giorni dalle dimissioni dei tre ministri interventisti
Bissolati, Bonomi e Comandini. Le dimissioni erano originate dalla
proclamazione del protettorato italiano sull'Albania, avvenuta il 3
giugno su iniziativa di Sonnino senza consultazione del gabinetto, e
quindi avevano il significato di una protesta contro Sonnino, ma
costituivano, più in generale, una pressione per un rimpasto
del gabinetto.
In entrambi i casi mancò una decisa iniziativa del B.; egli
comunicò il testo delle lettere di Cadorna a Orlando, che
chiese una riunione del Consiglio dei ministri presente il capo di
Stato Maggiore, ma mancò di agire nei confronti di Cadorna,
tanto che la polemica di questo si prolungò e, dopo una
quarta lettera inviata il 14 agosto, soltanto in settembre avvennero
nuovi incontri, senza alcun esito. Il dissidio tra Bissolati e
Sonnino fu composto, grazie anche all'intervento del re giunto
appositamente a Roma, con il rientro della manovra interventista, e
un generico impegno di Sonnino a render noto ai membri del gabinetto
- tramite il B. - il testo del patto di Londra.
Il rimpasto deciso nel Consiglio dei ministri del 12 giugno ebbe
natura tecnica e solo in parte soddisfece gli interventisti, con la
creazione di un nuovo ministero (delle Armi e Munizioni), retto dal
gen. Dallolio, e la sostituzione dei ministri della Guerra, della
Marina e dei Trasporti.
Giorni dopo il B. dichiarava alla Camera che i rapporti tra governo
e Stato Maggiore erano ottimi e annunciava provvedimenti contro la
propaganda pacifista, che sarebbero poi stati presi in ottobre. Ma
l'esito della crisi aveva ulteriormente indebolito il ministero e
aperto il problema della successione. Agli inizi di settembre, dopo
che i disordini popolari avvenuti a Torino nell'agosto avevano
riacceso le polemiche contro Orlando, la crisi fu ancora una volta
evitata per l'incognita della successione. Ma il B., anche se
guardava con favore alle pressioni esterne alle quali erano
sottoposti governo e parlamento, e concordava nel censurare Orlando,
aveva ormai perduto del tutto la fiducia degli ambienti
interventisti, che giunsero perfino ad augurarsi una presidenza
direttamente affidata a Orlando. La situazione parlamentare andava
d'altra parte evolvendosi nella direzione opposta, con la ripresa
degli ambienti più liberali e la riaffermazione delle
prerogative parlamentari di fronte a governo e Stato Maggiore. A
ottobre, alla riapertura della Camera, si mosse in questa direzione
un gruppo di deputati, "i 47", tra i quali emergeva Cocco-Ortu, che
si denominò "Unione parlamentare". Poi venne l'attacco duro e
circostanziato di Nitti, infine si mossero i giolittiani. Il
silenzio del B. sulla situazione politica e il suo tentativo di
rimandare la crisi con rinnovati, appelli patriottici non valsero a
impedire che il governo fosse messo in minoranza. Il che avvenne,
dopo una animata discussione parlamentare, il 25 ottobre, in
coincidenza con lo sfondamento austriaco a Caporetto. Il giorno dopo
il gabinetto rassegnava le dimissioni.
Il B. riprese il posto di decano della Camera. Il 14 dicembre
presentò un ordine del giorno di "concordia nazionale", che,
per la prima volta, ottenne i voti di tutti i gruppi parlamentari.
Ma le vicende degli anni seguenti lo estranieranno sempre di
più dalla lotta politica. I discorsi tenuti celebrando la
vittoria l'11 dic. 1918 nel Consiglio provinciale di Torino o
parlando come capolista del "Blocco della vittoria" nelle elezioni
del '19 vivono ancora dell'enfasi patriottica del momento, ma
l'amarezza per l'inchiesta di Caporetto e poi per il disordine in
cui vedrà naufragare la vittoria concluderanno
definitivamente la sua evoluzione verso il nazionalismo e infine
verso il fascismo.
Il 1º dic. 1918 al "convegno della vittoria" dei presidenti
della Dante Alighieri, il B. esordì: "In questo momento
posano le armi ma non posano le insidie. La missione irredentista
della Dante Alighieri è vittoriosa, ma non compiuta", e
rilanciò la battaglia per la Dalmazia italiana. Esaltò
quindi con entusiasmo l'impresa fiumana come nuova epopea
risorgimentale e condannò la ricerca di soluzioni
diplomatiche, senza tuttavia entrare direttamente nelle polemiche di
quei giorni, che troveranno però un'eco nella sua breve
prefazione a E. Susmel, La marcia di Ronchi, Roma 1929. In
realtà il B. era ormai volto a un passato epico che non aveva
vissuto personalmente ma di cui si sentiva uno degli ultimi
testimoni. D'Annunzio e Mussolini - che riceveranno la medaglia
d'oro "Paolo Boselli" - gli appaiono come l'incarnazione dell'"anima
della vittoria", l'ideale in cui il B. sente compiersi il
risorgimento nazionale e la gloria della tradizione sabauda. Vede
quindi nel fascismo la più pura continuità degli
ideali liberali dai quali era partito in gioventù; non
risparmia l'entusiasmo per esaltare Mussolini, "il ferito del
Carso", plaude col fascismo alla "vera, intiera, sincera
libertà", nella creazione di uno Stato forte "vindice della
dignità patria" offuscata nei giorni ingloriosi del
parlamentarismo. Così dice inaugurando il gagliardetto del
Fascio di Cumiana il 10 sett. 1923.
Persi ormai tutti i contatti con la tradizione politica prebellica e
divenuto uno dei pochi esponenti, forse il più autorevole,
della vecchia classe dirigente che aderisca con sincera convinzione
al fascismo, il B. mantiene nel nuovo regime una posizione
ufficiale. Riceve nella Pasqua del '24 la tessera ad honorem del
P.N.F. con un plauso di Mussolini, prosegue l'attività
pubblica con conferenze, commemorazioni e prefazioni di libri e
conserva la direzione della Dante, la cui attività si fonde
del tutto con le direttive del regime.
Nel frattempo continuava l'attività parlamentare dal seggio
senatoriale ottenuto nel 1921. Relatore di vari progetti di legge,
nel maggio del '29 fu presidente e relatore della commissione
centrale del Senato che esaminava gli accordi lateranensi.
Nell'atmosfera incensatrice nella quale si svolse la discussione e
in mezzo agli arditi richiami storici ai quali essa dette luogo, la
relazione del B. "sarebbe un capolavoro di caricatura della vecchia
rettorica bolsa, se non avesse il torto di essere stata scritta sul
serio" (A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento
anni, Torino 1955, p. 652).
Alla morte, avvenuta a Roma il 10 marzo 1932, il B. ebbe la
benedizione apostolica, la visita del re, funerali pubblici a spese
dello Stato, solenni onoranze. Commemorato al Senato dal presidente
Federzoni, la seduta fu tolta in segno di lutto.