BOSELLI Paolo


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 Uomo politico italiano (Savona 1838 - Roma 1932); dal 1871 titolare a Roma della prima cattedra di scienza delle finanze, iniziò nel 1870 la carriera di deputato durata fino al 1921. Appartenne sempre al centro-destra, più volte ministro con Crispi, con Pelloux, con Sonnino, stabilì come ministro del Tesoro (1899-1900) il saldo ordinamento della Banca d'Italia. Presidente della Dante Alighieri (1907), favorevole all'intervento nella prima guerra mondiale, fu alla Camera (maggio 1915) l'entusiasta relatore del progetto di legge per i pieni poteri del gabinetto Salandra.

Incaricato, alla caduta di Salandra, di formare un ministero a larga base nazionale (18 giugno 1916), fallì nel suo intento e, dopo la disfatta di Caporetto, si dovette dimettere (25 ott. 1917).

Collare dell'Annunziata (1916), senatore (1921), fu in senato (marzo 1929) relatore del progetto per l'approvazione dei Patti Lateranensi.

Cultore di studî storici, creò a Roma il Museo del risorgimento italiano e fu presidente dell'Istituto storico italiano. Fu socio nazionale dei Lincei (1918).

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DBI

di Raffaele Romanelli

Nacque a Savona l'8 giugno 1838 dal notaio Paolo e da Marina Pizzorno. Il padre, di famiglia che vantava ascendenze illustri nel governo della città, era un liberale che nel 1821 era dovuto fuggire per breve tempo in Francia, accusato di aver favorito la fuga di S. di Santarosa e di A. Ramina da Savona. Il B., compiuti gli studi nel collegio degli scolopi di Savona, si iscrisse nel 1856 alla facoltà di giurisprudenza di Torino, dove ebbe maestri nomi illustri dell'emigrazione intellettuale, come L. A. Melegari, F. Ferrara, P. S. Mancini, M. Pescatore, A. Scialoja, che ne apprezzarono le capacità, di modo che quando si laureò, il 23 giugno 1860, aveva ormai stretto numerosi legami con gli ambienti politici e culturali della capitale. A Torino sposò Corinna Cambieri, cognata del suo insegnante G. Buniva, dalla quale ebbe tre figli, Silvio, primogenito, che diverrà penalista, Maria e Luisa. Mentre compiva pratica legale presso lo studio di C. Astengo - assieme al quale, e con G. Bisio, pubblicò nel 1865 a Milano una Guida amministrativa,ossia commentario della legge comunale e provinciale -, collaborò con recensioni di testi politici, economici e amministrativi alla Rivista contemporanea italiana e all'Italia letteraria, diretta da A. De Gubernatis, che si stampavano a Torino, e poi, dal 1865, e con maggiore frequenza, alla fiorentina Civiltà italiana.

Erano gli anni nei quali la classe dirigente moderata doveva rapidamente formare gli ordinamenti e il personale direttivo del nuovo regno. Nel 1862 il B. risultò primo in un concorso alla carriera superiore amministrativa, e il presidente della commissione, il ministro Des Ambrois, lo destinò al Consiglio di Stato come auditore. Tre anni dopo era nominato consigliere alla prefettura di Milano. Ma i suoi interessi culturali e i legami con gli ambienti piemontesi lo attirarono verso nuove attività. Nel 1867 era nominato conservatore al Museo industriale di Torino, con incarico di insegnamento di economia industriale; poco dopo l'allora ministro dell'Agricoltura, F. Cordova, che l'aveva conosciuto al Consiglio di Stato, lo nominò segretario generale della commissione italiana all'Esposizione universale di Parigi. Qui nell'autunno sempre del 1867 il B. si strinse d'amicizia con Luigi Luzzatti, che vi rappresentava le banche popolari e le società cooperative italiane. Alla fine del 1869 fu indicato da Francesco Ferrara come professore di economia politica alla scuola superiore di commercio, istituita l'anno prima a Venezia per iniziativa del Luzzatti e diretta dallo stesso Ferrara. Rifiutato l'incarico veneziano, all'indomani del trasferimento della capitale il B. fu chiamato da Cesare Correnti all'università di Roma a coprire la prima cattedra di scienza della finanza istituita in Italia. In seguito, nel 1874, rinunciò all'insegnamento per dedicarsi completamente all'attività politica, con un interesse particolare per il problema dello sviluppo economico e industriale del paese, sulla scia di quei settori della Destra ai quali il B., tramite Luzzatti e Sella, si era avvicinato.

Come segretario generale dell'Esposizione didattica di Torino del settembre 1869 aveva svolto una relazione sull'istruzione secondaria, nella quale propugnava l'obbligatorietà dell'istruzione fino ai 12 anni. Lo stesso anno, per interessamento di Luzzatti, era stato nominato relatore al II Congresso nazionale delle Camere di commercio, che si svolse nel settembre-ottobre a Genova, al quale il B. rappresentava le Camere di Savona e di Ascoli Piceno. Parlando "Delle scuole industriali popolari d'arti e mestieri", il B. sostenne l'urgenza di un energico programma governativo di impulso e di organizzazione dell'insegnamento tecnico fino ai livelli universitari, optando quindi per l'impostazione data al problema dal Luzzatti.

Quando, sempre nel 1869, era stata nominata una commissione presieduta da Q. Sella per studiare l'organizzazione di una esposizione da tenersi a Torino, il B. ne fu relatore. Da allora entrò a far parte di varie commissioni con le quali i governi moderati intendevano rendere più incisivo l'intervento pubblico in campo economico e sociale. Fu prima membro e poi presidente della Giunta permanente di Finanza, e partecipò, tra le altre, ai lavori della commissione per il riordinamento dell'imposta fondiaria, di quella per il riordinamento dei tributi locali, e della commissione consultiva sulle istituzioni di previdenza e sul lavoro, istituita alla fine del 1869. Il 4 giugno del 1870 propose a quest'ultima di affiancare alle inchieste industriale e agraria, che si andavano preparando in quel periodo (il B. sarebbe poi stato commissario di quella industriale), una terza che raccogliesse notizie sulle "condizioni fisiche morali e intellettuali degli operai". La proposta fu approvata da una commissione della quale il B. fece parte insieme, tra gli altri, a Depretis, Luzzatti, Lampertico, Di Rudinì e Guerzoni, che ne fu il relatore.

Molte iniziative del B. furono nel frattempo dirette a rafforzare i legami con la città natale. Già nel '62 e nel '65 aveva pubblicato due opuscoli a favore della ricostituzione della provincia di Savona, abolita nel 1859; nel 1870 ne pubblicò un altro sulla ferrovia di Savona. In quell'anno divenne consigliere comunale della città e alle elezioni politiche del novembre fu eletto deputato di quel collegio, che era prima stato di G. Astengo - nominato senatore - e poi dell'ex ministro della Marina gen. Federico Pescetto, vinto dal B. in ballottaggio. L'anno dopo rappresentava di nuovo Savona al congresso di Napoli delle Camere di commercio e entrava anche nel consiglio comunale di Torino in rappresentanza dei mandamenti di None e Cumiana, località quest'ultima dove stabilì da allora la propria residenza estiva.

Eletto alla commissione del bilancio della Camera ancor prima della convalida della sua elezione, il B. svolse da allora una intensa attività parlamentare, riferendo e intervenendo prevalentemente su temi finanziari ed economici. Politicamente si schierò a Destra, e alla caduta del ministero Lanza-Sella nel giugno 1873, Minghetti progettò di offrirgli un segretariato generale. Il B. tuttavia preferì affiancarsi al gruppo piemontese guidato da Sella, seguendone le sorti anche quando si fece più acuto il dissenso di Sella per le aperture di Minghetti alla Sinistra.

Nel frattempo la proposta di inchiesta governativa sugli operai veniva affiancata dalla proposta di inchiesta parlamentare sui contadini, presentata alla fine del '71 dalla Sinistra e illustrata il 3 giugno 1872 da A. Bertani, il suo maggior sostenitore. Per far fronte alla proposta Bertani il governo riprese un progetto di inchiesta agraria, nel quale confluì quello di Boselli. Giunte le due proposte alla Camera, il B. fu nominato relatore del progetto governativo, ma le due commissioni finirono col fondersi e col presentare il 13 maggio 1874 una relazione comune, in calce alla quale figuravano le firme del B. e di Bertani.

Il contrasto tra le due proposte - che veniva così appianato - riguardava il diverso atteggiamento della Sinistra e della Destra di fronte ai temi sociali. Mentre Bertani insisteva perché l'inchiesta riguardasse esclusivamente le classi popolari e ne denunciasse le terribili condizioni di vita, i conservatori invece, per timore di incoraggiare una pericolosa presa di coscienza sociale, tendevano a mantenere l'inchiesta nell'ambito ristretto di una indagine amministrativa sui problemi tecnici della proprietà terriera. La relazione Boselli-Bertani, e poi una nuova, più documentata relazione che il B. presentò il 16 giugno 1875, intendevano mediare queste posizioni, rifiutando ogni taglio classista ma comprendendo nell'inchiesta una minuziosa indagine delle condizioni di vita contadine. L'"Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia" - come si chiamò nella nuova dizione - comprendeva dunque nella classe agricola sia i proprietari sia i contadini. Simile apertura "scientifica" al tema sociale era propria del gruppo moderato più avanzato e vicino alle nuove scuole economiche "sperimentali", i cui temi si ritrovano nella relazione Boselli. Procedendo con "imparzialità", vi si legge, alla raccolta di notizie sui contratti agrari, sul sistema fiscale, sui salari, i consumi, i risparmi, l'istruzione popolare, i reati, l'emigrazione, ecc., l'inchiesta avrebbe dimostrato la bontà "dell'applicazione del metodo sperimentale nelle questioni sociali e nell'arte di Stato", consentendo infine di disporre di un quadro completo per l'intervento risanatore e preventivo dello Stato.

Più volte rinviata, la discussione della legge si svolse infine nell'aprile del 1876 sul testo nuovamente presentato dal governo il 13 marzo, solo pochi giorni prima della caduta della Destra. Il 28 aprile il B. interveniva di nuovo illustrando i motivi che erano stati alla base dell'inchiesta.Con questo spirito, negli anni seguenti il B. prese più volte posizione sulla "questione sociale", contribuendo alla discussione di temi attuali, come la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli o l'abolizione della tassa sul sale, che egli sostenne stilando fra l'altro il manifesto di un apposito comitato che si costituì nel 1881. Egli parlava come rappresentante della corrente di pensiero che si era contrapposta al liberismo classico propugnando l'intervento regolatore dello Stato in campo economico e sociale. Nel 1874, quando la polemica dottrinaria fra Ferrara e Luzzatti era rapidamente sfociata in campo politico, il B. aveva partecipato alla convocazione del congresso degli economisti italiani in difesa delle nuove teorie e, secondo quanto ricorda Luzzatti, aveva anzi svolto una parte di primo piano nel reclutare gli aderenti piemontesi, tra i quali era Sella. Due anni dopo, nel marzo del '76, giunto a maturazione il tema che dava maggior peso politico al dibattito dottrinario, quello della politica ferroviaria, il B. si unì ai sostenitori dell'indirizzo statalista - Spaventa, Sella, Luzzatti - e ne difese le ragioni insieme con Leone Carpi nella sede della Società Adamo Smith di Firenze, centro degli interessi privatisti. Caduta la Destra, intervenne il 23 giugno 1876 al dibattito parlamentare sulle convenzioni di Basilea, nel quale la polemica toccò il suo culmine.

Condannando con dure parole il cosiddetto socialismo della cattedra, il B. riprese gli argomenti liberisti usati da Minghetti e soprattutto da Spaventa per difendere la gestione statale delle ferrovie: essendo le ferrovie un pubblico servizio, lo Stato doveva "intervenire a difesa dell'individuo contro la tirannia della collettività", cioè contro la "nuova feudalità" delle "consorterie ferroviarie" e dei, grandi monopoli privati. Il B. coloriva il suo discorso con una venatura di filosofia industrialista, tracciando il quadro dell'inevitabile sviluppo della grande industria e dei problemi sociali connessi ad un regime di massa, e attaccava le società ferroviarie in nome dei principî liberisti, echeggiando così il rigore ideale con il quale era combattuta quella battaglia dai teorici della Destra. Tuttavia egli, privo della tensione morale che agitava i moderati della generazione precedente, della questione esaltava piuttosto l'aspetto tecnico-economico (per es. sottolineava il danno arrecato dalle società ferroviarie all'industria nazionale con la politica di approvvigionamento sui mercati esteri), mentre di fatto piegava quei principî ai legami che andava stringendo con il mondo e gli interessi dell'industria.

La stessa impostazione il B. dava, fin dal suo ingresso alla Camera, al tema dello sviluppo della marina mercantile e dell'industria cantieristica che egli, come deputato di un importante collegio marittimo, pose da allora al centro della propria attività politica.

All'inizio, degli anni '70, quando la marina italiana sembrava poter riconquistare la posizione di prestigio di cui aveva in precedenza goduto, il B. si mantenne nell'ambito delle concezioni economiche fino, ad allora professate, dichiarandosi contrario ad una politica di premi e più volte prendendo la parola affinché lo Stato intervenisse a rimuovere gli ostacoli di natura fiscale e burocratica che impedivano un libero sviluppo concorrenziale. Soltanto quando fu manifesto che la flotta italiana non era in grado di sostenere la concorrenza straniera senza una accelerata trasformazione tecnica e un maggiore afflusso di capitali, il B. mitigò il proprio liberismo, ritenendo ormai necessario che lo Stato sostenesse più attivamente l'industria cantieristica.

Nel 1877, membro della commissione relatrice sulle convenzioni postali e commerciali con Florio e Rubattino, si discostò dalla posizione assunta dalla Destra e approvò la legge, sostenendo che le sovvenzioni ai servizi postali dovevano avere intenti commerciali e industriali, e quindi che l'esigenza, sia economica sia politica, di sostenere il commercio internazionale dell'Italia giustificava l'estensione delle sovvenzioni alle rotte estere. Il 31 marzo 1879, in sede di discussione dei bilanci, di nuovo sollecitò sgravi fiscali per la marina denunciando, questa volta con toni più marcati, la grave crisi dell'industria cantieristica ed accompagnando un suo ordine del giorno con la firma di quarantadue deputati.

Benché rimanesse politicamente schierato con il centro-destra e il suo nome venisse fatto ancora nel 1881 in occasione di uno degli ultimi tentativi di Sella di creare una alleanza di governo, la sua posizione di sostenitore degli interessi cantieristici e marittimi lo distaccava nel frattempo dagli schieramenti di partito e lo attirava nel clima "trasformistico" che andava creandosi con la Sinistra.

Pur avendo ribadito ancora l'anno precedente il suo sfavore per i premi di navigazione, nel gennaio dell'80 rinviò ad uno studio da compiersi appositamente la definizione delle opportune provvidenze per la marina e il 26 giugno dava corpo a un suo vecchio progetto svolgendo una proposta di inchiesta parlamentare sulle condizioni della marina mercantile e sui mezzi per promuoverne lo sviluppo, proposta presentata con lui da 14 deputati di collegi marittimi tra i quali Crispi e Brin. Relatore del disegno di legge sull'inchiesta, fu poi vicepresidente e relatore dell'inchiesta stessa, di modo che poté acquisire nuova e diretta conoscenza dei problemi del mondo cantieristico e armatoriale. Le 38 conclusioni alle quali giungeva l'inchiesta - incluse nell'ultimo dei sette volumi presentati alla Camera nel febbraio 1882 - contenevano un ampio arco di proposte per un sollecito aiuto alla marina, tra le quali l'istituzione di un ministero della Marina mercantile, una serie di riforme fiscali fino all'esenzione della ricchezza mobile, la preferenza dell'industria e della bandiera nazionale sulle marine estere, alcune disposizioni per le convenzioni internazionali e la navigazione di cabotaggio, infine l'istituzione di premi di costruzione e di navigazione.

Tali misure vennero sostanzialmente recepite dalla legge 6 dic. 1885 sulla marina mercantile, della quale il B. fu relatore alla Camera, e nella quale, caduta l'esenzione della ricchezza mobile, venivano istituiti i premi, collegandoli con l'utilizzazione, da parte dei cantieri, della produzione nazionale. Nel dibattito parlamentare il B. dichiarava che la sua "conversione" ai premi non lo allontanava dai principî liberisti perché, di fronte alla crisi procurata alla marina dalla concorrenza internazionale e dall'improvvida politica dei governi precedenti, era necessario che lo Stato facilitasse la nascita di una metallurgia nazionale e restituisse alla marina le sue capacità concorrenziali. Gli oppositori misero invece in evidenza l'artificiale sostegno dato nel corso dell'inchiesta e nella legge ai più forti gruppi marittimi, da poco riuniti nella Navigazione generale italiana.

Di fatto la legge avviava il nuovo indirizzo di diretto intervento dello Stato nella creazione di una siderurgia nazionale che sarebbe culminato nella tariffa protezionistica del 1887. Lo stesso B. collocava del resto la difesa della marina in un quadro politico più vasto, nel quale lo Stato doveva sostenere con decisione tutta l'industria nazionale, non solo la marittima.

Il 5 apr. 1883, svolgendo anche a nome di Luzzatti una interpellanza sui rapporti tra industria e amministrazione dello Stato, invitò i dicasteri militari e dei Lavori pubblici a garantire, con una politica di commesse, la continuità della produzione e la sua distribuzione tra le varie industrie del paese. Pur dichiarandosi fermamente contrario a una politica di protezione doganale, e favorevole solo all'incoraggiamento alle forze produttive spontanee, egli sottolineava anche gli aspetti politico-strategici e sociali di una politica di "potenza marittima" e di difesa del "lavoro nazionale". Parlando delle ferrovie, elogiava poi l'operato del ministro Baccarini, che aveva allora presentato convenzioni ferroviarie che tutelavano la produzione italiana. Quando infatti furono votate le nuove convenzioni stipulate da Depretis, tra l'84 e l'85, il B. votò le mozioni di Baccarini e Luzzatti per l'esercizio governativo, associandosi, con la pattuglia della Destra "spaventiana", al grosso dell'opposizione pentarchica, che era invece privatista. Riprendendo i motivi liberisti di lotta ai monopoli ferroviari, il B. esprimeva anche gli interessi degli armatori liguri, che avversavano la politica tariffaria delle società private.

L'attività del B. in questo campo ebbe anche un rilevante risvolto internazionale. Più volte infatti l'antico allievo di Mancini all'università di Torino s'era occupato di questioni di diritto internazionale. Svolgendo un ampio e dettagliato intervento sul trattato di commercio con la Francia e sull'atto addizionale relativo alla futura convenzione di navigazione, il B. sostenne il 4 maggio 1882la necessità di tutelare, mediante un accordo di completa reciprocità, il cabotaggio italiano, e propose anche per l'Italia l'instaurazione delle surtaxes d'entrepôt francesi, vale a dire delle tasse sulle merci trasportate in Italia da porti non di origine. Attaccando la convenzione di navigazione del 1862, vero "privilegio della bandiera estera a danno della bandiera nazionale", e chiedendo una ritorsione contro eventuali nuovi atti unilaterali francesi, il B. riteneva inevitabile quella che sarebbe stata la guerra commerciale con la Francia. Contrariamente a quanto egli aveva sostenuto, in mancanza di una nuova convenzione, fu più volte rinnovata quella del '62. Ma, una volta approvata la legge sui premi, lo stesso B., nel frattempo divenuto presidente del Consiglio superiore della marina mercantile, fu incaricato da Depretis e da Di Robilant di negoziare la nuova convenzione sulla base del principio della completa reciprocità, da lui stesso posto come condizione delle trattative. Insieme a Di Robilant, il B. trattò con i francesi Decrais e Rouvier e firmò a Roma il 30 aprile 1886 una convenzione che, approvata nel giugno dalla Camera italiana, fu respinta il mese seguente da quella francese.

Nel 1885ilB., che tre anni prima era stato segretario della commissione relatrice sul codice di commercio, fu uno dei delegati del governo italiano al congresso internazionale di diritto commerciale e marittimo che ebbe luogo ad Anversa; in quell'occasione pubblicò a Torino, e distribuì ai congressisti, il volume Le droit maritime en Italie. Notes do P. B., nel quale trattava degli studi e delle leggi di diritto marittimo italiano dal 1860 al 1885e di altre questioni presentate al congresso, relative ad una auspicata legislazione internazionale nei principali istituti di diritto marittimo e commerciale.

Il ruolo svolto nelle vicende marittime e nella legislazione protezionista segna il culmine della vita politica del B.; nell'anno 1886 ottiene il massimo successo elettorale nel collegio savonese - divenuto con lo scrutinio di lista il II di Genova - che dal 1870 lo rinviava alla Camera con numero sempre maggiore di voti. Ai riconoscimenti ufficiali si univano le iniziative di appositi comitati che secondo l'uso dell'epoca gli offrivano medaglie, ricordi e pergamene a Savona, a Cumiana e a Torino, dove dal 1882 il B. era presidente del consiglio provinciale. Nel 1888 un comitato di esponenti armatoriali savonesi stampava in suo onore una raccolta di suoi scritti e discorsi con una biografia pubblicata anche a Torino: (Discorsi e scritti varii..., a cura di I. Marchini).

Ma nel 1888, il B. era ormai ministro. Lo inseriva nel nuovo clima politico creatosi con la morte di Depretis non solo il peso che avevano assunto in quegli anni gli interessi da lui rappresentati, ma anche il modo con cui egli li aveva sostenuti, trovando alte parole per ricordare i fini di potenza e di grandezza che dovevano porsi a un paese di grandi tradizioni di espansione marinara come l'Italia.

Membro del comitato della deputazione subalpina che organizzò il banchetto del 25 ottobre del 1887 a Torino, con il quale ebbe inizio il periodo dell'amministrazione crispina, il B. si staccò ben presto dai "dissidenti di centro" precedendoli nel legarsi a Crispi. Ai primi di settembre era stato da questo inviato a Parigi per concordare col presidente del Consiglio Rouvier la ripresa dei negoziati segreti sul trattato di commercio; il 17 febbr. 1888, dimessosi il ministro della Pubblica Istruzione Coppino sotto la pressione di agitazioni studentesche filocrispine e radicali, Crispi lo sostituì con il B., rafforzando così a destra le basi del ministero. Questa sua funzione di tramite con il centro-destra venne confermata nella crisi parziale del marzo 1889, quando egli ottenne di rimanere nel ministero nonostante l'iniziale sfavore di Crispi.

Convinto, come Sella e come molti della scuola moderata, dell'importanza dell'istruzione per lo sviluppo economico del paese, il B. se ne era già più volte occupato. Aveva tra l'altro presieduto la commissione sulla riforma dell'istruzione tecnica che aveva preceduto la riforma Coppino del 1880, abolita l'anno seguente e parzialmente ripresa nel 1885. Ora condusse in porto il regolamento di Coppino sull'istruzione elementare e si accinse a una vasta opera di riorganizzazione della scuola. Condivideva le conclusioni presentate alla Camera nel dicembre 1888 da Martini, relatore sulla riforma della scuola, per la creazione di una scuola secondaria inferiore unica. Non giungendo però a conclusione l'iter legislativo della legge, anche per le numerose polemiche che andavano rinviando da anni una riforma organica, il B. tentò di creare a mezzo di decreti le basi della nuova scuola media. Istituì un esame dopo il terzo anno di ginnasio, stabilendo che desse l'accesso, oltre che alla quarta ginnasiale, anche alla scuola normale e, previo esame integrativo, all'istituto tecnico; arricchì i programmi del ginnasio inferiore, introducendovi tra l'altro la storia. L'intento di tali provvedimenti era dare maggiore dignità agli studi tecnici, dando contemporaneamente all'istruzione secondaria comune più solide basi culturali. Tuttavia la mancata organicità di queste riforme - e in particolare il mantenere la scuola tecnica, senza potenziare l'istruzione professionale autonoma - ne fecero fallire lo scopo, tanto che esse furono poi abolite, restando così la questione insoluta.

Maggior successo ebbero i provvedimenti, di minore eco politica, in materia di antichità e belle arti. Il B. caldeggiò numerosi restauri, gettò le basi di una nuova tutela del patrimonio archeologico e artistico, dividendo il paese in dodici commissariati, promosse la costruzione del portico della basilica di S. Paolo, istituì i musei nazionali per le antichità di Roma e dell'Umbria alle Terme di Diocleziano e a Villa Giulia, tutte opere che ben contribuirono alla crescita monumentale della Roma crispina.

A questa attività, alla quale vanno aggiunti numerosi decreti e circolari sui programmi e l'organizzazione degli studi, il B. affiancò la pubblicazione di alcuni brevi saggi di storiografia sabauda, comparsi tra il '92 e il '93 sugli Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, e vari incoraggiamenti a istituzioni culturali e agli studi di storia. Nell'esempio del B., esponente di interessi industriali e esperto di cose economiche, queste attività suggeriscono i particolari legami che sulla fine del secolo uniscono l'ideologia industrialista all'esaltazione della cultura nazionale e della storia patria. In un discorso dell'agosto 1886, il B. si era definito un monarchico, non appartenente ad alcun partito ma aperto al progresso e ai problemi sociali. Le sue concezioni politiche - non molto articolate, ma aperte alle più svariate soluzioni - tendevano infatti a riassumersi nella difesa dell'istituto monarchico, inteso come depositario delle conquiste risorgimentali e garante di un ordinato progresso. In questi anni egli divenne infatti intimo degli ambienti di corte.

Alla fine del 1893, di fronte alla gravissima crisi economica e politica che fece cadere il governo Giolitti, il B. rifiutò - come Saracco e Sonnino - di entrare in un gabinetto Zanardelli, contribuendo così ad imporre, d'accordo con la corona il ritorno di Crispi, che infatti gli affidò il 15 dicembre il dicastero dell'Agricoltura, Industria e Commercio.

Nel febbraio del 1894 ripresentò, modificandolo, il disegno di legge Giolitti sulla quotizzazione dei demani comunali nel Mezzogiorno e in Sicilia, che non giunse però in porto. Tutto lo sforzo del ministero era infatti incentrato sulle misure di risanamento delle finanze e della circolazione elaborate da Sonnino, e il B., che nel '93 si era tenuto su una linea di compromesso dichiarandosi in un primo tempo favorevole alle economie militari, si associò ora alla linea fiscale del ministro del Tesoro e delle Finanze, stringendosi al Centro sonniniano anche contro la Destra di Saracco.

Allineandosi sulle posizioni di Sonnino, il B. si manteneva nella classica linea "selliana" di difesa delle finanze e degli interessi dello Stato contro le pressioni dei grandi interessi speculativi, svolgendo nello stesso tempo anche una funzione di mediazione presso il suo elettorato. Appoggiò il genovese Grillo, il direttore della Banca d'Italia, che fu presto costretto alle dimissioni, e quando si inasprì la tensione fra il governo e i gruppi di azionisti della Banca Nazionale (confluita nella Banca d'Italia), in gran parte liguri, difese i decreti Sonnino, che appunto rigettavano sugli azionisti il maggior onere del risanamento della circolazione, smentendo poi in una intervista al giornale genovese Il Caffaro le voci di una statalizzazione della banca. Questa sua posizione subordinata alla più forte personalità di Sonnino non mutò neanche quando, il 14 giugno 1894, gli subentrò al ministero delle Finanze, cedendo il dicastero dell'Agricoltura al moderato toscano Barazzuoli, gradito al partito degli agrari. La crisi parziale, dovuta all'opposizione incontrata dai provvedimenti finanziari specie presso gli agrari, dimostrò tutta l'abilità di Crispi: mentre il B. era ritenuto più duttile di Sonnino, questi rimaneva al dicastero del Tesoro e continuava a dirigere la politica finanziaria del governo, sia pure con i cambiamenti ottenuti dalle opposizioni.

Dal banco del nuovo dicastero, il 20 giugno 1894 il B. prese la parola sui provvedimenti finanziari sostenendo, contro il maggior aumento chiesto dagli agrari, il dazio sul grano a 7 lire (portato nel dicembre a 7,50), come giusto punto d'equilibrio tra criterio fiscale e "criterio economico e di tecnica agraria", disconoscendo quindi ancora una volta il puro significato protezionistico del provvedimento.

Motivazioni simili il B. addusse nel presentare assieme a Sonnino alla nuova Camera nel giugno 1895 le leggi sui provvedimenti finanziari, in gran parte varati per decreto nel dicembre precedente, e contenenti nuovi inasprimenti fiscali, tra i quali l'introduzione di tasse sui fiammiferi e su gas e luce. Sulla via già intrapresa di raggiungere il pareggio con qualche concessione ai fautori delle economie, ma soprattutto facendo ricorso a una pressione tributaria diffusa, i provvedimenti colpivano settori dell'economia che già si mostravano in ripresa, e il B. li discuteva alla Camera illustrando questa prospettiva favorevole e giudicando necessario dirigerne i vantaggi a beneficio dell'erario. Era dunque per motivi fiscali che non veniva diminuita la barriera protettiva (che era anzi aumentata, nel caso del dazio sugli zuccheri, facendo leva sulla diminuzione del prezzo) o, dove ciò avveniva, i benefici erano sottratti al consumo. Tale il caso della discussa introduzione del dazio sul cotone greggio, giustificata con la generale ripresa della produzione, che colpiva la produzione tessile a solo vantaggio delle finanze pubbliche. In vista del pareggio, e di fronte alle necessità militari, nuovi provvedimenti erano presentati nell'esercizio seguente, con i quali tra l'altro si abbandonava il catasto e si alzava nuovamente il dazio sulle farine. Ma la caduta del ministero, per i fatti di Adua, ne fermò il corso.

Il B. tornò al governo nel secondo ministero Pelloux (maggio 1899-giugno 1900), quando, nella situazione politica aggravata dalla crisi dell'anno precedente, fu tentata una coalizione di tipo crispino ispirata da Sonnino, che rimaneva però fuori dal governo. Lo spostamento a destra doveva garantire il passaggio dei provvedimenti restrittivi delle libertà statutarie, sulle quali si impegnò tutta l'attività del ministero. In questa situazione il Tesoro, retto dal B., perdeva gran parte della sua importanza, e il B. si mantenne su di una linea interlocutoria, diretta all'assestamento del bilancio, rinviando ogni riforma tributaria e di alleggerimento fiscale. Nell'esposizione finanziaria del 28 nov. 1899 il B., nel rilevare il generale risveglio dell'attività economica, la floridità del credito, la ripresa di antiche industrie, il moltiplicarsi delle nuove, sembrò additare, più che la necessità di una politica di repressione, i motivi profondi della svolta politica liberale che andava maturando.

Nei primi anni del secolo il B. rimase vicino a Sonnino, ed entrò nel suo breve governo del 1906, assumendo il dicastero della Istruzione Pubblica. Era ancora aperta la questione della riforma della scuola media, affidata l'anno prima allo studio di una commissione presieduta dallo stesso B., e da lui ministro ancora presieduta fino all'anno successivo, quando si sciolse senza successo. Venivano invece portate a compimento la legge sullo stato giuridico e la carriera degli insegnanti medi, e l'istituzione del Museo del Risorgimento in Roma.

Dopo il 1906 il B. entrò apertamente nel campo giolittiano, tanto che durante la crisi del 1910 fu fatto il suo nome come capo di un governo di incontro tra sonniniani e giolittiani. In questi anni, tuttavia, ormai estraneo al nuovo corso giolittiano, egli diradò i suoi interventi parlamentari e iniziò piuttosto una ancor lunga attività di oratore, di celebratore di glorie dinastiche e risorgimentali, di titolare di cariche onorifiche di prestigio. Tale il primo segretariato dell'Ordine mauriziano, conferitogli da Vittorio Emanuele III nel 1908, che suggellava i suoi legami con l'ambiente di corte.

I suoi centri di interesse si spostavano definitivamente a Torino. Dopo l'annullamento della sua prima elezione ad Avigliana (Torino) nel marzo del 1893 - dove era stato caldamente appoggiato da Giolitti -, fu rieletto un mese dopo e confermato anche nelle elezioni successive. Sempre presidente del Consiglio provinciale di Torino, ebbe nel 1904 anche la presidenza del Museo industriale, già tenuta nel 1885-87. Poté così seguire e sostenere la fusione del museo con la scuola degli ingegneri e la creazione del politecnico, avvenuta nel 1906 con una legge della quale egli stesso fu relatore dinnanzi alla Camera.

Nell'ottobre del 1907 successe a Luigi Rava nella presidenza della Società nazionale Dante Alighieri, che doveva tenere fino alla morte. Mentre all'interno della società erano inizialmente ancora aperte le polemiche sui legami con la massoneria e le discussioni circa la prevalenza dell'indirizzo irredentistico su quello dell'assistenza all'emigrazione, più tardi si vennero accentuando i contenuti nazionalistici, sia dell'attività interna (si veda l'esempio della campagna contro le insegne straniere, sostenuta da Corradini), sia, soprattutto, della propaganda per le rivendicazioni nel Trentino e sul confine orientale, che includevano oltre a Trieste tutta la Dalmazia.

Nei discorsi che il B. pronunciò ai congressi annuali della società una folla di ricordi letterari e risorgimentali annebbiava ogni prospettiva storica per esaltare "i fini supremi dell'italianità" che il B. poneva all'associazione, fini di fronte ai quali la difesa della lingua e della cultura nazionali si confondevano sempre di più in una generica passione patriottica e nazionalista. In questa prospettiva, se pure abilmente equilibrato dagli altri scopi sociali e culturali, l'obiettivo irredentistico finiva col riassumere la propaganda della società, che sembrò infine trionfare con lo scoppio della guerra, anche per l'improvviso ritorno del presidente della Dante sulla scena politica.

Il 16 maggio 1915, poche ore prima di respingere le dimissioni di Salandra, e dopo che Carcano e Marcora avevano rifiutato l'incarico, il re offrì al B. di formare un ministero nazionale che preparasse, super partes, l'intervento italiano. Sia perché non credeva realizzabile il progetto, sia perché favorevole a Salandra, il B. non accettò l'incarico, e il 20 maggio, come decano della Camera, fu relatore del disegno di legge che conferiva al governo poteri straordinari in caso di guerra. La breve relazione, letta tra l'entusiasmo generale e poi affissa, per decisione della Camera, in tutti i Comuni del Regno, plaudiva alla guerra come rinascita degli ideali del Risorgimento, come "il compimento dei destini nazionali e la difesa del diritto di nazionalità". Temi che il B. nel clima della guerra avrebbe sempre più accentuato, incline a vedere nella ripresa delle tradizioni risorgimentali "al di sopra e al di fuori delle divisioni parlamentari" il riscatto della nazione dalle paludi del parlamentarismo trasformista e giolittiano. Nel dicembre 1915 il B. ricevette il collare dell'Annunziata.

La dichiarata estraneità alle divisioni politiche, la vocazione sempre più accentuata alla retorica e insieme l'adesione alla linea di Salandra lo condussero alla direzione del governo nel momento di crisi e di indecisione del giugno del 1916.

Dopo un anno di guerra, di fronte alla minaccia di una offensiva austriaca. Salandra aveva dovuto cedere a quanti chiedevano una condotta più decisa della guerra e una maggiore collaborazione con gli alleati. Ma i contrasti che dividevano il campo interventista sui fini del conflitto, lo smarrimento di fronte a impreviste realtà politiche e militari, infine il nodo irrisolto dei rapporti tra governo e comando militare, se erano valsi a mettere in crisi il gabinetto Salandra, non suggerirono una nuova linea d'azione. Salandra indicò per la successione il settantottenne B., l'unica persona di largo prestigio in grado di rappresentare solennemente gli ideali della guerra senza dare ad essi alcuna particolare coloritura e quindi di essere accettato da una larga maggioranza. Ciò portò ad aumentare il numero dei ministri e sottosegretari in misura in seguito giudicata eccessiva; fin dalle consultazioni il B. si propose infatti di ampliare il governo a tutti i settori parlamentari, escludendo soltanto i dichiarati avversari della guerra, e dunque includendovi anche i giolittiani. Ma i contatti presi a questo scopo con Facta, che il B. avrebbe destinato al ministero di Grazia e Giustizia, allarmarono gli ambienti della maggioranza interventista. Escluso Facta, il gabinetto accolse però socialisti riformisti, radicali, un repubblicano e un cattolico, oltre agli uomini del centro e della destra, e ottenne il 1º luglio una maggioranza larghissima alla Camera, confermata dall'unanimità del Senato.

La presenza nel governo di Bissolati, Bonomi e Comandini doveva soddisfare l'interventismo democratico, ma l'insieme delle personalità più rappresentative del ministero, cioè lo stesso Bissolati, Sonnino e Orlando, testimoniava, per la diversità delle posizioni di fronte al problema della guerra, che il gabinetto più che da uno slancio di concordia nazionale nasceva dall'equilibrio di forze politiche diverse e quindi mancava di una direttiva omogenea e sicura. Lo stesso B., ritenuto uomo privo di orientamenti personali e di risolutezza dalla maggior parte degli esponenti politici e militari, anche a lui più vicini, cedette spesso alle autonome iniziative dei suoi collaboratori, limitandosi a rinnovare insistentemente gli appelli alla solidarietà nazionale. Così fece, oltre che negli interventi parlamentari, anche in alcuni acclamati discorsi tenuti nel corso della guerra a Torino, a Napoli, a Milano e a Roma. Nonostante la loro genericità, in questi appelli emerge tuttavia una concezione particolare della guerra, quella propria degli ambienti nazionalisti. Presentando il gabinetto alla Camera il 28 giugno 1916, il B. faceva suoi gli "scopi di intensificazione bellica e di cooperazione popolare" che avevano giustificato il mutamento del governo, ma nel contempo ribadiva che il governo nazionale nasceva da una concordia di ispirazione risorgimentale che annullava le differenze politiche e che, unificando la coscienza nazionale, avrebbe reso possibile, a guerra conclusa, "e all'infuori di ogni particolare opinione o interesse di partito", riformare "ogni parte della legislazione", "promuovere senza indugio tutto ciò che si attiene alla gloria e al potere scientifico della Nazione", preparare i quadri di una "riscossa industriale".

Di fronte al problema più spinoso lasciatogli in eredità da Salandra, quello dei rapporti con il comando militare e dell'autonomia di cui godeva il capo di Stato Maggiore, il B. si adeguò subito al comportamento dei suoi predecessori, dichiarandosi alla Camera contrario a ogni controllo parlamentare in materia militare e dando per intero la propria fiducia a Cadorna, omettendo d'altra parte quei più caldi apprezzamenti che gli ambienti interventisti avrebbero desiderato, proprio nei giorni della riscossa militare. Poco dopo, di fronte al contrasto tra Cadorna e Bissolati - contrasto aggravato dalla pubblicità data al memoriale del colonnello anticadorniano Douhet - svolse opera di pacificazione, recandosi in ottobre a Udine e premendo perché Cadorna recedesse dal suo rifiuto di ammettere Bissolati in zona di guerra. Ma l'episodio si risolse in un compromesso che vide di fatto mortificato il potere politico di fronte a quello militare. Nel 1919, rispondendo alla Camera all'accusa di aver troppo ceduto al comando militare, il B. difese Cadorna dicendosi convinto che i governi non dovevano interferire nella conduzione della guerra.

Ugualmente sfuggente fu la sua posizione in materia di politica estera, benché egli si astenesse in genere dall'intervenire nell'operato del suo ministro degli Esteri Sonnino.Fu scarsamente entusiasta - come la maggior parte degli uomini di governo del tempo - della dichiarazione di guerra alla Germania, avvenuta il 18 ag. 1916, che parve soddisfare la concezione di guerra europea cara agli interventisti democratici. Nel comunicarla alla Camera il 5 dicembre, il B. annunciò anche l'invio di un contingente di truppe a Salonicco e l'obiettivo del "dominio dell'Adriatico" e "i diritti imprescrittibili della nostra nazionalità sull'opposta sponda". Il giorno dopo, sempre alla Camera, il B. respingeva la "mozione per la pace" di Turati e Treves, dichiarando però che il compimento delle aspirazioni italiane non poteva dissociarsi dall'obiettivo di una pace definitiva, basata sulla giustizia e sul pieno trionfo delle nazionalità.

Nei mesi seguenti, nonostante aumentassero le preoccupazioni per la debolezza e le oscillazioni del presidente del Consiglio, il governo si resse per la mancanza di una alternativa e in particolare per il timore che la caduta del B. favorisse la ripresa dei giolittiani. Ciononostante il B. veniva più vivacemente accusato di debolezza dagli ambienti politici ai quali egli si sentiva più vicino, cioè dagli ambienti interventisti, che nella prima metà del 1917 condussero una violenta campagna contro il governo addossando alla classe politica la responsabilità della stasi militare e del malcontento popolare. Bersagli di questa campagna erano la politica estera di Sonnino e soprattutto quella interna di Orlando, giudicata troppo liberale verso le organizzazioni socialiste e in genere verso gli ambienti neutralisti. Nel giugno del '17 queste critiche si concretizzarono in un duplice tentativo di mettere sotto accusa il governo.

Tra il 6 e il 13 giugno Cadorna scrisse al B. tre lettere nelle quali accusava il governo di provocare, con la tolleranza della propaganda sovversiva nel paese, il diffondersi degli atti di indisciplina al fronte. Questa manifesta ingerenza del capo di Stato Maggiore nella direzione politica del paese, che seguiva le voci diffuse di un progettato colpo di stato militare, fu accompagnata negli stessi giorni dalle dimissioni dei tre ministri interventisti Bissolati, Bonomi e Comandini. Le dimissioni erano originate dalla proclamazione del protettorato italiano sull'Albania, avvenuta il 3 giugno su iniziativa di Sonnino senza consultazione del gabinetto, e quindi avevano il significato di una protesta contro Sonnino, ma costituivano, più in generale, una pressione per un rimpasto del gabinetto.

In entrambi i casi mancò una decisa iniziativa del B.; egli comunicò il testo delle lettere di Cadorna a Orlando, che chiese una riunione del Consiglio dei ministri presente il capo di Stato Maggiore, ma mancò di agire nei confronti di Cadorna, tanto che la polemica di questo si prolungò e, dopo una quarta lettera inviata il 14 agosto, soltanto in settembre avvennero nuovi incontri, senza alcun esito. Il dissidio tra Bissolati e Sonnino fu composto, grazie anche all'intervento del re giunto appositamente a Roma, con il rientro della manovra interventista, e un generico impegno di Sonnino a render noto ai membri del gabinetto - tramite il B. - il testo del patto di Londra.

Il rimpasto deciso nel Consiglio dei ministri del 12 giugno ebbe natura tecnica e solo in parte soddisfece gli interventisti, con la creazione di un nuovo ministero (delle Armi e Munizioni), retto dal gen. Dallolio, e la sostituzione dei ministri della Guerra, della Marina e dei Trasporti.

Giorni dopo il B. dichiarava alla Camera che i rapporti tra governo e Stato Maggiore erano ottimi e annunciava provvedimenti contro la propaganda pacifista, che sarebbero poi stati presi in ottobre. Ma l'esito della crisi aveva ulteriormente indebolito il ministero e aperto il problema della successione. Agli inizi di settembre, dopo che i disordini popolari avvenuti a Torino nell'agosto avevano riacceso le polemiche contro Orlando, la crisi fu ancora una volta evitata per l'incognita della successione. Ma il B., anche se guardava con favore alle pressioni esterne alle quali erano sottoposti governo e parlamento, e concordava nel censurare Orlando, aveva ormai perduto del tutto la fiducia degli ambienti interventisti, che giunsero perfino ad augurarsi una presidenza direttamente affidata a Orlando. La situazione parlamentare andava d'altra parte evolvendosi nella direzione opposta, con la ripresa degli ambienti più liberali e la riaffermazione delle prerogative parlamentari di fronte a governo e Stato Maggiore. A ottobre, alla riapertura della Camera, si mosse in questa direzione un gruppo di deputati, "i 47", tra i quali emergeva Cocco-Ortu, che si denominò "Unione parlamentare". Poi venne l'attacco duro e circostanziato di Nitti, infine si mossero i giolittiani. Il silenzio del B. sulla situazione politica e il suo tentativo di rimandare la crisi con rinnovati, appelli patriottici non valsero a impedire che il governo fosse messo in minoranza. Il che avvenne, dopo una animata discussione parlamentare, il 25 ottobre, in coincidenza con lo sfondamento austriaco a Caporetto. Il giorno dopo il gabinetto rassegnava le dimissioni.

Il B. riprese il posto di decano della Camera. Il 14 dicembre presentò un ordine del giorno di "concordia nazionale", che, per la prima volta, ottenne i voti di tutti i gruppi parlamentari. Ma le vicende degli anni seguenti lo estranieranno sempre di più dalla lotta politica. I discorsi tenuti celebrando la vittoria l'11 dic. 1918 nel Consiglio provinciale di Torino o parlando come capolista del "Blocco della vittoria" nelle elezioni del '19 vivono ancora dell'enfasi patriottica del momento, ma l'amarezza per l'inchiesta di Caporetto e poi per il disordine in cui vedrà naufragare la vittoria concluderanno definitivamente la sua evoluzione verso il nazionalismo e infine verso il fascismo.

Il 1º dic. 1918 al "convegno della vittoria" dei presidenti della Dante Alighieri, il B. esordì: "In questo momento posano le armi ma non posano le insidie. La missione irredentista della Dante Alighieri è vittoriosa, ma non compiuta", e rilanciò la battaglia per la Dalmazia italiana. Esaltò quindi con entusiasmo l'impresa fiumana come nuova epopea risorgimentale e condannò la ricerca di soluzioni diplomatiche, senza tuttavia entrare direttamente nelle polemiche di quei giorni, che troveranno però un'eco nella sua breve prefazione a E. Susmel, La marcia di Ronchi, Roma 1929. In realtà il B. era ormai volto a un passato epico che non aveva vissuto personalmente ma di cui si sentiva uno degli ultimi testimoni. D'Annunzio e Mussolini - che riceveranno la medaglia d'oro "Paolo Boselli" - gli appaiono come l'incarnazione dell'"anima della vittoria", l'ideale in cui il B. sente compiersi il risorgimento nazionale e la gloria della tradizione sabauda. Vede quindi nel fascismo la più pura continuità degli ideali liberali dai quali era partito in gioventù; non risparmia l'entusiasmo per esaltare Mussolini, "il ferito del Carso", plaude col fascismo alla "vera, intiera, sincera libertà", nella creazione di uno Stato forte "vindice della dignità patria" offuscata nei giorni ingloriosi del parlamentarismo. Così dice inaugurando il gagliardetto del Fascio di Cumiana il 10 sett. 1923.

Persi ormai tutti i contatti con la tradizione politica prebellica e divenuto uno dei pochi esponenti, forse il più autorevole, della vecchia classe dirigente che aderisca con sincera convinzione al fascismo, il B. mantiene nel nuovo regime una posizione ufficiale. Riceve nella Pasqua del '24 la tessera ad honorem del P.N.F. con un plauso di Mussolini, prosegue l'attività pubblica con conferenze, commemorazioni e prefazioni di libri e conserva la direzione della Dante, la cui attività si fonde del tutto con le direttive del regime.

Nel frattempo continuava l'attività parlamentare dal seggio senatoriale ottenuto nel 1921. Relatore di vari progetti di legge, nel maggio del '29 fu presidente e relatore della commissione centrale del Senato che esaminava gli accordi lateranensi. Nell'atmosfera incensatrice nella quale si svolse la discussione e in mezzo agli arditi richiami storici ai quali essa dette luogo, la relazione del B. "sarebbe un capolavoro di caricatura della vecchia rettorica bolsa, se non avesse il torto di essere stata scritta sul serio" (A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1955, p. 652).

Alla morte, avvenuta a Roma il 10 marzo 1932, il B. ebbe la benedizione apostolica, la visita del re, funerali pubblici a spese dello Stato, solenni onoranze. Commemorato al Senato dal presidente Federzoni, la seduta fu tolta in segno di lutto.