www.sapere.it
Uomo politico e teorico marxista italiano (Resina 1889-Napoli 1970).
Esponente di rilievo, già nel 1912, della federazione giovanile socialista, Bordiga rappresentò per tutto il periodo bellico la linea del più rigoroso rifiuto di ogni acquiescienza delle masse al conflitto, per trasferire sul piano della lotta di classe le contraddizioni interne della borghesia in guerra. Già in contatto dal novembre 1917 con le correnti di sinistra del PSI più decise, sotto la spinta dell'esperienza sovietica in atto, ad attaccare il massimalismo verbale e inconcludente, Bordiga nel dopoguerra, dalle colonne del Soviet, denunciò con lucidità d'analisi le deficienze rivoluzionarie di un partito troppo eterogeneo e compromesso elettoralmente col regime borghese per condurre il proletariato alla conquista del potere.
Dopo la scissione di Livorno (1921) fu prima segretario del Partito Comunista d'Italia, che cercò di organizzare secondo gli schemi marxisti-leninisti (senza però la duttilità tattica del leader bolscevico). Ostile al nuovo indirizzo politico imposto dalla III Internazionale, imperniato sul "fronte unico" con i socialisti e sull'abbandono di una prospettiva rivoluzionaria europea, Bordiga venne progressivamente emarginato dalla direzione del partito tra il 1923 (anno in cui fu incarcerato dal febbraio all'ottobre) e il 1925, quando la sua linea politica fu condannata, equiparandola al frazionismo di sinistra di Trotzki.
Mandato al confino a Ustica e a Ponza dal 1927, nel 1930 fu espulso dal partito.
Tornato in libertà nello stesso anno, si stabilì a Napoli dedicandosi alla sua professione di ingegnere.
Dopo la Liberazione cercò di riprendere, in netta polemica col PCI, un impegno politico centrandolo su un approfondimento teorico del marxismo, che ebbe come espressione, peraltro effimera, un esiguo movimento (il Partito comunista internazionalista).
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DBI
di Luigi Agnello
Nacque a Resina (Napoli) il 13 giugno 1889 da Oreste e da Zaira
Amadei.
Il padre (1852-1931), novarese, massone, fu uno dei più
apprezzati studiosi italiani dei suo tempo di economia agraria e di
estimo rurale, discipline che insegnò dal 1884 al 1927 presso
la Scuola superiore di agricoltura di Portici, della quale divenne
il rappresentante più autorevole, situandosi "al centro di
tutte le attività di relazione tra la Scuola e il mondo
agricolo meridionale" (Rossi Doria, p. 842). La madre apparteneva a
una nobile famiglia romana, che vantava discendenza dall'antica
stirpe fiorentina degli Amidei.
L'ambiente familiare, ricco di fermenti intellettuali, morali e
politici, esercitò una grande influenza sulla formazione dei
Bordiga. Dal ramo materno si può far derivare quella fierezza
aristocratica, sprezzante delle mezze misure, come delle mezze
classi, che costituì un tratto vistoso della sua
personalità e affiorò spesso nel suo contegno
politico. Un esempio d'insofferenza sovversiva gli giungeva dal
nonno, il conte M. Amadei (I839-1906, su cui vedi Diz. biogr. degli
Italiani, II, pp. 602 s.) che, appena ventenne, aveva infranto il
lealismo pontificio della sua casata per farsi cospiratore, gettarsi
nelle lotte risorgimentali, legarsi di amicizia al gran maestro
della massoneria G. Mazzoni, e sedere nel Parlamento nazionale, come
deputato della Sinistra, per otto legislature, dal 1874 al 1897.
D'impronta democratica e massonica era anche l'impegno politico
dello zio paterno, Giovanni (1854-1933), professore di geometria
descrittiva nella università di Padova e figura di spicco nel
radicalismo e nell'irredentismo veneti.
Ma chi incise più a fondo sulla maturazione del B. fu il
padre, di cui egli fece propri la fermezza di carattere e il
disinteresse personale (Il miraggio della riforma agraria in Italia,
in Prometeo, s. 1, II [1949], p. 613), e dal quale attinse,
altresì, preziose indicazioni metodologiche nella ricerca
economica e sociale, un'originale modalità di approccio ai
problemi del Sud, esente dagli ideologismi del dibattito sulla
"questione meridionale", nonché il gusto dell'astrazione
matematica, che lo indusse a seguire gli studi di ingegneria presso
il politecnico di Napoli, dove si laureò il 26 nov. 1912.
Pur così fortemente segnato da questo complesso contesto
formativo, il B. visse la sua adesione al socialismo, sancita nel
1910 dalla iscrizione al Partito socialista italiano, come un'abiura
dei valori politici ai quali era stato educato: l'ideale
liberaldemocratico, il culto dei Risorgimento, il sentimento
nazionale, la fede nel progresso, valori che egli vedeva compendiati
nel sistema ideologico della aborrita massoneria. Il B. stesso
confessò che la sua scelta di classe era stata un "fatto
sentimentale" anziché "intellettuale" (Il "punto di vista",
in L'Avanguardia, 15 dic. 1912) e dette subito prova del suo
antintellettualismo nella sua prima battaglia politica di risonanza
nazionale, condotta contro il progetto "culturista" di A. Tasca nel
IV congresso della FIGS (Federazione italiana giovanile socialista,
Bologna, 20-22 sett. 1912). Dopo la vittoria ottenuta in quella sede
godette di una udienza sempre più vasta fra la
gioventù socialista.
Contemporaneamente egli dava inizio alla lotta contro i personaggi
più popolari dei socialismo napoletano, che considerava
veicoli d'infezione borghese e massonica tra le masse operaie,
attaccandone l'orientamento bloccardo, l'elettoralismo camuffato da
questione morale, il meridionalismo piagnone. In opposizione alla
federazione socialista locale, fondò il circolo C. Marx
(2apr. 1912) insieme con altri elementi, tra i più radicali,
della frazione intransigente, ma rientrò nella sezione
napoletana del PSI (29 maggio 194), appena questa si
ricostituì professandosi disciplinata alla direzione del
partito. Della rinnovata sezione divenne presto l'animatore e la
trascinò nel 194-15 in una vivacissima campagna
antibellicista, facendo di essa il nucleo di una corrente di estrema
sinistra che si irradiò in tutto il partito.
Componente fondamentale, infatti, del socialismo giovanile del B.
era un incondizionato pacifismo. Il suo primo intervento nel PSI fu
una conferenza, tenuta nella sezione di Portici, contro la
spedizione libica (L'Avanguardia, 19 nov. 1911) e i suoi primi
articoli, apparsi nel 1912-13 sull'organo della FIGS, L'Avanguardia,
e sull'Avanti!, furono in gran parte dedicati all'esecrazione della
guerra, sia che essa mirasse ad assoggettare popolazioni primitive,
col pretesto di incivilirle, sia che venisse combattuta in nome
della indipendenza nazionale e giustificata in base a un
"pregiudizio volgare", condiviso peraltro da un grosso filone del
marxismo, come mezzo per accelerare "l'avvento della società
socialista" (La guerra balcanica, ibid., 1° dic. 1912). I
massacri dei campi di battaglia non meno delle miserie della
condizione salariale - di cui il B. ebbe precoce esperienza,
operando come propagandista e organizzatore in una delle aree
più industrializzate del paese, quella posta a oriente di
Napoli, tra San Giovanni a Teduccio e Castellammare di Stabia -
suscitarono in lui la visione di una "minoranza eroica" (La nostra
missione, ibid., 2 febbr. 1913) che scuotesse le masse proletarie
dall'inerzia e ne accendesse l'istinto rivoluzionario, con l'esempio
di uno stoico spirito di sacrificio e di una appassionata dedizione
alla causa.
La caratterizzazione della élite rivoluzionaria in termini
etici piuttosto che politici rimarrà l'aspetto più
costante del pensiero del B., costituendo l'essenza della sua
concezione del partito. Essa si fondava sul Manifesto
marxengelsiano, recepito però attraverso una lettura che ne
amplificava i toni messianici e in cui confluivano suggestioni
emananti da fonti diverse: la tradizione bakuniniana e pisacaniana
ancor viva nel socialismo napoletano, l'idea della minorité
agissante, di estrazione babuvista, circolante nell'anarchismo
francese a cavallo dei due secoli, il clima idealistico della
cultura italiana dei primo Novecento, il fascino di Mussolini
rivoluzionario e, non ultima, l'austera lezione del padre e degli
uomini della Destra storica, ai quali, nella vecchiaia, il B.
paragonerà i bolscevichi in quanto "digiunatori al potere"
(Il Programma comunista, 28 luglio 1955). Al B. restò sempre
estraneo, invece, il marxismo teorico indigeno, a partire dal suo
nume tutelare, Antonio Labriola, che egli continuò a
spregiare in quanto colonialista (Storia della sinistra comunista,
I, p. 55), come gli risultò poco congeniale il marxismo
positivista della II Internazionale. Del resto le opere marxiane di
economia, compreso Il capitale, gli rimasero mai note almeno fino
alla metà degli anni Venti, quando egli cominciò a
utilizzarle per rivestire con argomentazioni scientifiche la
fortissima esigenza etica e utopica che sottostava alla sua opzione
rivoluzionaria. Ancora nel 1924, nel difendere la teoria marxiana
del valore contro la critica di A. Graziadei, avvertiva di non
possedere conoscenze adeguate in materia (La teoria del plusvalore
di C. Marx base viva e vitale del comunismo, in L'Ordine nuovo, 1-15
apr. 1924). Perfino il suo determinismo che, appena formulato
scandalizzò R. Mondolfa per la sua oltranza (R. Mondolfo,
Socialismo e filosofia, I, in L'Unità, II [1913], p. 223),
non appare tanto radicato nella scienza quanto in una vocazione
profetica che cercava in infallibili meccanismi storici la garanzia
del collasso dell'ordine vigente.
Lo scoppio del conflitto europeo, mentre ravvivava il suo sincero
orrore del sangue, destò in lui la preoccupazione di
preservare il patrimonio ideale del PSI da ogni tentazione
bellicista. Militarismo, sviluppo industriale, crescita della
democrazia erano per il B. fenomeni interdipendenti; pertanto egli
respinse l'interpretazione della guerra come crociata delle potenze
democratiche contro il presunto autoritarismo feudale degli Imperi
centrali e denunciò il filointesismo allignante nel suo
partito, cogliendo con prontezza i cedimenti di Mussolini di cui era
stato estùrnatore ed amico. Dopo l'intervento italiano si
prodigò affinché il PSI non si lasciasse sedurre dal
clima di concordia nazionale, pur intuendo le difficoltà
della lotta di classe durante una guerra moderna, che, come
prevedeva, avrebbe spinto gli Stati a cementare l'intera
società, soffocandone i contrasti, con la coercizione
materiale ed ideologica.
Richiamato alle armi all'inizio del 1915, poté impegnarsi
nell'attività politica in modo intermittente. Nel convegno
socialista di Roma (25-26 febbr. 1917) presentò una mozione
che esigeva una opposizione più netta alla guerra e che
raccolse sorprendentemente 14.000 voti contro 17.000 ottenuti dalla
mozione di centrodestra, in cui si ribadiva la formula paralizzante
"non aderire né sabotare". Dopo che si fu costituita,
nell'ag. 1917, la frazione intransigente rivoluzionaria, ne fece
accettare la piattaforma, quasi all'unanimità, dal VI
congresso della FIGS (Firenze, 23-24 sett. 1917), dal quale fu
nominato direttore dell'Avanguardia. Nella riunione della intera
corrente di sinistra, tenuta a Firenze all'indomani di Caporetto, il
18 nov. 1917 sollecitò un'azione energica del PSI per imporre
la pace immediata, nella prospettiva di una insurrezione.
Accolse con entusiasmo le notizie relative alla Rivoluzione russa di
ottobre, in cui esaltò la prima rivolta vittoriosa delle
masse contro la guerra, il metodo della conquista e della gestione
violenta del potere - metodo esemplare proprio laddove procedeva "in
senso opposto a taluni atteggiamenti tattici di Marx ed Engels,
risultati erronei", giacché essi "attribuivano ancora una
importanza eccessiva alla democrazia" (Gli insegnamenti della nuova
storia, in Avanti!, 16 febbr. 1918) e soprattutto l'inizio della
rivoluzione mondiale. Appena gli fu possibile, tentò di
mettersi in contatto con il comitato centrale della III
Internazionale, inviando ad esso due lettere, nel novembre del 1919
e nel gennaio del 1920, per informarlo sulla frazione che aveva
cominciato ad aggregare intorno a sé nell'imminenza del XVI
congresso del PSI (Bologna, 5-8 ott. 1919), e alla cui
organizzazione aveva continuato a dedicarsi successivamente,
dotandola di un organo di stampa settimanale, Il Soviet.
La frazione comunista astensionista, come essa si denominò,
rifiutava le elezioni e il Parlamento come terreno di lotta politica
in una fase storica giudicata prerivoluzionaria e sosteneva la
necessità di concentrare tutte le energie del partito nella
preparazione insurrezionale del proletariato. Con questo programma
il B. mirava non al rinnovamento del PSI ma alla scissione, e in
vista di tale obiettivo ottenne dal II congresso dell'Internazionale
(Pietrogrado-Mosca, 19 luglio-7 ag. 1920), a cui partecipò,
che fossero inasprite le condizioni di ammissione dei partiti
comunisti nazionali, ma cedette a Lenin e a Bucharin sulla questione
elettorale e parlamentare.
Tornato in Italia, cercò l'intesa con altre forze del PSI
ostili ai riformisti e ai centristi di G.M. Serrati (FIGS,
ordinovisti, massimalisti di sinistra), nel convegno di Milano (15
ott. 1920), dove egli rinunciò alla pregiudiziale
astensionista, e nel convegno di Imola (28-29 nov. 1920). L'intesa
fu raggiunta, a dispetto delle polemiche che avevano diviso in
precedenza i diversi gruppi e che erano state particolarmente vivaci
tra bordighiani e ordino visti; infatti i primi avevano tacciato i
secondi di localismo, di aziendalismo e soprattutto di
incomprensione dei ruolo preminente riservato al partito nel
processo rivoluzionario rispetto ai consigli operai.
La frazione comunista, pilotata dal B., affrontò il XVII
congresso del PSI (Livorno, 15-21 genn. 1921) con una inflessibile
determinazione scissionistica, avallata dai fiduciari
dell'Internazionale comunista (Komintern) C. Kabakčiev e M.
Rákosi; pertanto, pur avendo raccolto solo un terzo dei voti
congressuali, essa abbandonò i vecchi compagni, riuniti nel
teatro Goldoni, e si trasferì nel teatro S. Marco, dove
procedette alla fondazione del Partito comunista d'Italia, sezione
della III Internazionale (21 gennaio). Il nuovo partito che
organizzava circa 40.000 iscritti (calati a 24.000 nel 1922, in
seguito alla offensiva fascista) in strutture assai poco
burocratizzate, accettava l'egemonia intellettuale e politica del
B., considerandolo suo capo indiscusso, quantunque non formalizzasse
il suo primato con una carica speciale. Fino al giugno del 1923 il
PCd'I fu diretto da un comitato esecutivo di cinque membri - il B.,
R. Grieco, B. Fortichiari, L. Repossi, U. Terracini - tra i quali il
solo Terracini, ex ordinovista, non era stato legato anteriormente
al B., ma ora ne subiva il fascino. Energico, dotato di una
prodigiosa capacità di lavoro, il B. "sapeva farsi amare" dai
compagni (Berti, p. 143) ed era di indole molto più liberale
e tollerante di quanto le sue invettive antilibertarie non lascino
supporre, sicché il dibattito interno del partito, nonostante
i tratti militareschi della organizzazione, risultò
più franco e aperto durante la sua gestione che durante
quella centrista successiva. Più tardi Gramsci
deplorerà che nelle faccende disciplinari il B. fosse "molto
indulgente, perché dà loro poca importanza"
(Togliatti, p. 336).
II B. condensò la concezione su cui intendeva modellare il
nuovo partito nello statuto approvato a Livorno e la
riformulò, in maniera più articolata, nelle Tesi sulla
tattica presentate, con Terracini, nel II congresso del PCd'I (Roma,
20-24 marzo 1922) e respinte dal Komintern. Con un'enfasi ignota a
Marx e a Lenin, egli insisteva nel definire il partito come un
organismo collettivo, prefigurante l'organicità perfetta
della società comunista, e ne indicava il principio
vivificatore nel programma, che prescriveva l'insurrezione armata e
la dittatura proletaria quale strategia obbligatoria per conseguire
le finafità massime, mentre limitava in anticipo il ventaglio
delle mosse tattiche. Il B. attribuiva a Marx la formulazione di
questo programma, che considerava invariabile nonostante il mutare
delle situazioni storiche, ma in realtà esso scaturiva dalla
sua interpretazione implacabilmente antidemocratica dei marxismo e
dal suo disprezzo per la politica intesa come abilità
manovriera. Dall'adesione volontaria al programma, nel cui ambito
era lecita la più ampia libertà di discussione,
derivava il senso di disciplina sostanziale degli iscritti e quindi
l'efficienza dell'organizzazione, regolata da un centralismo che il
B., a differenza dei bolscevichi, voleva organico invece che
democratico; la democrazia, infatti, era per lui inorganica,
cioè meccanica e quantitativa, come dimostrava il suo rito
precipuo, il calcolo dei suffragi dopo le competizioni elettorali.
La natura organica del partito comunista gli vietava alleanze e, a
maggior ragione, fusioni con altri partiti o con porzioni di esse,
fossero pure a base operaia. La proverbiale rigidità politica
e il famigerato settarismo dei B. non dipendevano, dunque, da
astratta mentalità matematica, come troppo spesso è
stato ripetuto da quasi tutti i suoi avversari e da molti storici,
ma, piuttosto, da un'attitudine biologizzante nell'analisi dei
fenomeni sociali. Comunque la sua concezione del partito, in base
alla quale egli richiedeva che si strutturasse la stessa
Internazionale, lo predisponeva inevitabilmente allo scontro con
Mosca.
A poche settimane dal congresso di Livorno, il declino delle
speranze rivoluzionarie europee toccò il punto più
basso nel fallimento della Märzakion in Sassonia e indusse il
Komintern a sterzare verso destra e a lanciare le parole d'ordine
dei "fronte unico" tra comunisti e socialisti e del "governo
operaio". A queste nuove direttive il B. si oppose con
caparbietà, mantenendo pressocché compatto tutto il
partito fino al IV congresso del Komintern (5 novembre-5 dicembre
1922), che intimò al PCd'I di fondersi con il PSI, dal quale,
in ottobre, erano stati espulsi i riformisti. Pressato dai
più autorevoli dirigenti sovietici, tra i quali Lenin e
Trockij, il B. si piegò in nome della disciplina, ma
sollecitò la direzione del partito a dimettersi con lui, per
lasciare alla esigua minoranza capeggiata da Tasca la
responsabilità della fusione.
Al suo ritorno in Italia il B. fu arrestato il 3 febbr. 1923, nel
corso di una vasta operazione di polizia che ridusse nelle carceri
fasciste numerosi dirigenti e militanti comunisti, ma, caduta in
istruttoria l'accusa di cospirazione contro lo Stato e durante il
dibattimento quella di associazione a delinquere, venne scarcerato
il 26 ottobre. Intanto, in giugno, senza tener conto delle
dimissioni presentate dal comitato esecutivo del PCd'I, il Komintern
nominava di autorità, a Mosca, un nuovo esecutivo "misto" nel
quale erano inseriti due esponenti della minoranza di destra, Tasca
e G. Vota, accanto a tre esponenti della maggioranza bprdighiana, P.
Togliatti, M. Scoccimarro e Fortichiari. Il B. reagì
dimettendosi con Grieco anche dal comitato centrale del PCd'I, per
essere più libero, come semplice militante, nella sua azione
polemica; infatti tentò di diffondere un manifesto tra tutti
i compagni. per informarli sui termini del contrasto con il
Komintern, che egli accusava di puntare alla "liquidazione dei
partito quale esso sorse a Livorno" (Il "Manifesto" di B., in Somai,
La formazione…, p. 677), avendo modificato il proprio indirizzo non
solo nella tattica ma "anche in materia di programma e di norme
fondamentali organizzative" (ibid., p. 674).
Per combattere il B., la centrale sovietica si avvalse soprattutto
di Gramsci, che durante il soggiorno a Mosca dal maggio del 1922 al
dicembre del 1923, si era ac.costato ideologicamente a
Zinov´ev, presidente dell'Internazionale. Da Vienna, dove
risiedette dal dicembre del 1923 al maggio del 1924. Grainsci svolse
un efficace lavoro epistolare che indusse quegli esponenti della
maggioranza del PCd'I, come Togliatti, Terracini e Scoccimarro, che
avevano condiviso con lui l'esperienza ordinovista a non
sottoscrivere il manifesto del B., a staccarsi da lui e a formare
una frazione di centro che assumesse la guida del partito per
renderlo ossequente al Komintern.
Gramsci agiva cosi non solo per una scelta fin troppo realistica a
favore di Mosca e contro l'ex capo dei suo partito, al quale si era
allineato fedelmente fino al novembre del 1922 e con qualche
titubanza fino al giugno del 1923, ma perché aveva maturato
delle convinzioni che ormai lo opponevano a lui. La sua idea dei
comunismo come modernizzazione era assai più vicina
all'ideologia sovietica dello sviluppo che all'antiproduttivismo
presente nella prospettiva escatologica del Bordiga. Gramsci
indugiava sugli aspetti più arcaici della società
italiana, comparabili alle condizioni della Russia
prerivoluzionaria, mentre il B. ne sottolineava gli elementi di
modernità e sosteneva che l'arretratezza russa aveva prodotto
una tattica rivoluzionaria "estremarnente volontaristica e teatrale"
(Togliatti, p.196), non esportabile nell'Occidente
capitalisticamente maturo.
Anche nell'analisi delle origini e dell'ascesa al potere dei
fascismo, il primo privilegiava il peso dei ceti più
arretrati del paese - piccola borghesia urbana e grande borghesia
agraria -, il secondo poneva in evidenza la funzione dei grande
capitale industriale, commerciale e finanziario. Secondo il B., ma
non secondo Gramsci, c'era una sostanziale continuità tra il
periodo liberaldemocratico della storia italiana e il periodo
fascista: nell'ottobre del 1922 non era avvenuto un colpo di Stato,
ma la legalizzazione di uno stato di fatto favorito dai governi del
dopoguerra. Se, a differenza del liberalismo, il fascismo non poteva
esibire un suo specifico programma, avendo raccattato spezzoni
ideologici, prima dall'estrema sinistra, poi dalla destra
nazionalista e antisocialista, possedeva in compenso una poderosa
organizzazione militare e politica, mediante la quale tentava, con
successo, di unificare tutti i contrastanti interessi della
borghesia, mobilitando i ceti medi a scopo controrivoluzionario.
Democrazia e fascismo erano due forme distinte dei dominio borghese
ma suscettibili di integrarsi sempre più sulla scena
mondiale. Da questa impostazione teorica i cui momenti salienti
furono i due rapporti dei B. al IV e al V congresso del Komintern,
conseguiva una linea politica di netta autonomia dei partito
comunista, laddove Grainsci non osteggiava pregiudizialmente i
contatti con forze democratiche antifasciste.
Mentre si andava coagulando il gruppo di centro, che in un paio
d'anni gli avrebbe sottratto ogni influenza nel PCd'I, il B. assunse
un atteggiamento di singolare passività, non solo
perché ignorava la trama tessuta da Gramsci in un carteggio
segreto. ma soprattutto perché era alienissimo dalla politica
intesa come intrigo e manovra, puntando sulla efficacia di una leale
discussione per chiarire i dissensi, e inoltre perché vedeva
nella questione comunista italiana un riflesso di quella
internazionale. Nel primo semestre del 1924, spogliatosi di ogni
carica nel partito e in conflitto con gli organi dirigenti anche per
aver rifiutato ostinatamente di candidarsi nelle elezioni di aprile,
benché poi partecipasse alla campagna elettorale, egli si
concesse una pausa di riflessione sulla rivista Prometeo, che
uscì a Napoli da gennaio a luglio. Qui il B. pubblicò,
tra l'altro, un lungo articolo nel quale rivelava una insolita
apertura verso alcuni strati intermedi, guardando con simpatia alle
potenzialità antifasciste in essi racchiuse (Il movimento
dannunziano, pp. 38, 19-38) e riprodusse il discorso commemorativo
tenuto alla Casa del popolo di Roma, il 24 febbraio, in occasione
della morte di Lenin (Lenin nel cammino della rivoluzione, pp.
47-60).
Dal profilo biografico del capo bolscevico il B. faceva emergere il
suo idealtipo di capo rivoluzionario: Lenin non era, per lui, il
maestro di flessibilità e di spregiudicatezza tattiche, cosi
ammirate nelle file dei Komintern, ma il restauratore teorico e il
realizzatore, immune da propensioni democratiche, del programma
politico comunista, riassumibile nel principio della dittatura
proletaria. Quanto alla costruzione economica dei socialismo, la
grandezza di Lenin stava nell'averla avviata, varando la NEP, in
modo realistico, cioè con la lentezza e la gradualità
inevitabili in un paese prevalentemente precapitalistico.
La prima verifica del lavorio di Gramsci all'interno del PCd'I si
ebbe nel convegno, a carattere consultivo, che si tenne
clandestinamente a Como, alla metà di maggio del 1924, tra
sessantasette dirigenti (membri del comitato centrale e dei comitato
esecutivo, segretari di federazione, segretari interregionali) e nel
quale la neonata frazione di centro fu clamorosamente battuta dalla
sinistra dei B., anzi riscosse minori consensi della destra di
Tasca. Tuttavia il V congresso del Komintern (Mosca, 17 giugno-8
luglio 1924), in cui Bucharin attaccò a fondo il B., coniando
il termine "bordighismo" per indicare una deviazione rispetto al
leninismo, escluse dal comitato centrale e dall'esecutivo del PCd'l
i bordighiani, i quali, dal canto loro, erano sempre riluttanti ad
accettare la corresponsabilità di una linea politica che non
condividevano. Il B. accettò, invece, il posto offertogli
nell'esecutivo del Komintern (che in precedenza aveva rifiutato) per
non rompere i legami internazionali.
La crisi seguita al delitto Matteotti allargò la frattura tra
il centro e la sinistra nel PCd'I. Geloso dell'indipendenza del
partito, il B. ne disapprovò la partecipazione all'Aventino e
la proposta dell'Antipariamento, scontrandosi con Gramsci, nominato
segretario generale nell'agosto del 1924, il quale cominciava a
elaborare una strategia più sensibile alle istanze contadine
e piccoloborghesi. Ma il dissenso era sempre meno tollerato nel
PCd'I, dopo che il V congresso del Kominterri aveva deciso di
bolscevizzare i partiti aderenti, cioè di ristrutturarli sul
modello di quello russo, irreggimentandoli in una asfissiante
disciplina. Comunque i provvedimenti adottati dalla centrale
italiana contro la sinistra - come la soppressione, in agosto, di
Prometeo, perché si sospettava che aleggiasse intorno ad esso
uno spirito frazionistico che, in verità, il B. si guardava
bene -dall'alimentare - non le avevano fatto perdere, ancora in
ottobre, la maggioranza tra i funzionari del partito, secondo quanto
riferiva Togliatti al Komintern (Humbert-Droz, p. 198).
In quello stesso mese esplose il contrasto fra Trockij e la trojka
(Zinov´ev, Kamenev, Stalin), ai cui occhi si profilò il
pericolo che l'opposizione russa si potesse saldare con
un'opposizione europea capeggiata dal Bordiga. Questi, che aveva
sempre affrontato i massimi dirigenti sovietici, compreso Lenin, da
pari a pari, non aveva celato in passato le sue divergenze con
Trockij, specialmente sul fronte unico, ma nutriva per lui una stima
contraccambiata, e in un articolo inviato all'Unità l'8
febbr. 1925 (La quistione Trotsky, la cui pubblicazione fu differita
dall'esecutivo del PCd'I fino al 4 luglio) manifestò il suo
consenso alle critiche mosse dal "secondo dei bolscevichi" al
comportamento del Komintern nelle vicende tedesche dell'ottobre
1923. Equiparato sbrigativamente al trockismo, il bordighismo fu
sottoposto, nella primavera del 1925, all'offensiva della direzione
gramsciana fiancheggiata dal Komintern. La sinistra costituì
allora un comitato di intesa, di cui annunciò ufficialmente
la nascita il 10 giugno e al quale il B. aderì in seguito,
senza mostrare fiducia nell'iniziativa. Anzi, quando la centrale,
dopo aver ripetutamente colpito il comitato di intesa con misure
vessatorie, ne decretò lo scioglimento, accusandolo di
frazionismo e minacciando l'espulsione dei promotori, egli si
adoperò affinché essi obbedissero all'intimazione (18
luglio).
Il contegno del B., che appariva rinunciatario a molti dei suoi,
sottintendeva un disegno di ampio respiro, quantunque intriso di
pessimismo: egli aveva scelto, già da tempo, come terreno di
lotta, quello internazionale, essendo convinto che la involuzione
del PCd'I fosse una conseguenza della involuzione dei Komintern, e
che questa a sua volta fosse imputabile allo stato dei rapporti di
forza tra le classi su scala mondiale. Secondo il determinismo
bordighiano, al quale non era estranea una certa dose di fatalismo,
nessuno sforzo soggettivo poteva modificare le condizioni storiche.
Perciò egli era restio a promuovere una frazione anche
nell'ambito del Komintern, giudicando praticabile unicamente
un'azione di critica e di stimolo intellettuale, nell'attesa che la
rivoluzione nell'Europa occidentale e centrale sottraesse alla
Russia il controllo dei movimento rivoluzionario internazionale.
Benché àvesse sempre davanti agli occhi la visione dei
fini ultimi, il B. era dopotutto "un uomo pratico, non un
Donchisciotte", come osservava Granisei (Togliatti, p. 336).Nella
seconda metà del 1925, la centrale italiana, sempre con
l'appoggio di quella sovietica, intensificò l'offensiva
contro la sinistra, con l'obiettivo di riportare una vittoria
schiacciante su di essa nel prossimo congresso. Rafforzata dalla
nuova leva di militanti, reclutati nell'estate del 1924, e dalla
riorganizzazione bolscevizzatrice del partito sulla base di cellule,
cui si connetteva l'incremento dei funzionarismo, essa ricorse
sistematicamente a espedienti "amministrativi" per scalzare gli
oppositori dalle residue posizioni di potere, modificando
d'autorità gli organi direttivi delle federazioni infedeli e
manipolando i congressi federali che si svolsero tra il novembre del
1925 e il gennaio del 1926. Il completo controllo della stampa di
partito le consentì, inoltre, di scatenare una virulenta
campagna antibordighiana, che puntava sui toni. demagogici e
personalistici, mentre trascurava deliberatamente le argomentazioni
politiche.
Grazie a questa preparazione e più ancora alla mutata
fisionomia del partito, il III congresso del PCd'I (Lione, 20-26
genn. 1926) sancì il ribaltamento della conferenza di Como e
dei congressi provinciali tenuti nell'autunno del 1924: la sinistra
non raccolse neanche il 10% dei voti, risultato che certamente non
rappre-. sentava la forza reale che essa conservava nel partito. Nel
progetto di tesi presentato a Lione il B. ribadì i suoi punti
di vista dottrinali, programmatici, tattici, e tracciò il
consuntivo dell'esperienza storica accumulata dal proprio gruppo nel
PSI, nel PCd'I e nell'Internazionale, rivendicandone
l'originalità e la coerenza, contro la confusione ideologica
e gli ondeggiamenti politici del gruppo Gramsciano, a cui
rinfacciava la matrice filosofica idealistica.
Alla disfatta nel PCd'I seguì, per il B., la liquidazione nel
movimento comunista mondiale, sul quale cominciava ad allungarsi
l'ombra minacciosa di Stalin. Egli, infatti, si trovò
completamente isolato nella VI sessione allargata dell'esecutivo dei
Komintern (Mosca, 17 febbraio-15 marzo 1926), dove condusse la sua
estrema e disperata battaglia internazionale, animando con i suoi
interventi un dibattito circospetto e allusivo e votando contro
tutte le risoluzioni. Dopo un lungo abboccamento con Trockij,
affrontò Stalin in un drammatico contraddittorio, nel corso
di una riunione della delegazione italiana (22 febbraio), e lo
provocò fino a fargli perdere il controllo di sé,
sulle prospettive del socialismo in URSS e sulle incertezze del
futuro dittatore alla vigilia della Rivoluzione di ottobre. Il
giorno seguente pronunciò davanti all'assemblea plenaria un
celebre discorso, durato quattro ore, che restò l'ultima
espressione di aperto dissenso all'interno del Komintern: il B.
investì frontalmente la linea della bolscevizzazione, sia per
la pretesa di trasferire artificialmente in Occidente il modello
rivoluzionario del 1917, sia per il regime di terrore ideologico
instaurato nell'Internazionale e nelle sue sezioni nazionali, e
contestò al partito russo il monopolio della direzione del
Komintern, anzi sostenne che il Komintern, sorretto dalle esperienze
della classe operaia occidentale, doveva prendersi cura delle
lacerazioni interne al partito russo.
Tuttavia egli persisteva nel giudicare inopportuna una aggregazione
internazionale dei gruppi di sinistra, i quali del resto gli
apparivano poco omogenei, perché essa avrebbe comportato
l'imputazione di frazionismo e la conseguente espulsione dal
Komintern; misura a cui il B. voleva sfuggire a tutti i costi,
tranne quello dell'esercizio della critica. In questi termini
scrisse a K. Korsch, in una lettera inviata da Napoli il 28 ott.
1926 (e riprodotta in Montaldi, 1976, pp. 45-52).
Arrestato a Napoli il 20 novembre e confinato prima a Ustica, dove
visse in cordiale dimestichezza con Gramsci per circa un mese, poi a
Ponza, venne liberato alla fine del 1929. Poiché durante il
confino aveva espresso la sua solidarietà a Trockij - che
egli si compiaceva di trovare finalmente "rallié alla sua
posizione", secondo un'informazione di Grieco (Spriano, 1969, p.255)
-, venne espulso dal PCd'I nel marzo del 1930.
Da allora, per un quindicennio, sul quale la documentazione è
pressoché inesistente, si astenne scrupolosamente dalla
politica. Da Napoli, dove esercitava la professione di ingegnere,
non sembra che allacciasse contatti con i suoi seguaci fuorusciti, i
quali avevano dato vita in Francia, nell'aprile del 1928, alla
frazione di sinistra del PCd'I. Felice dei suo isolamento e risoluto
a custodire la propria fede, secondo una singolare testimonianza
autobiografica (Livorsi, p. 366), si dedicò verosimilmente a
severi studi sull'opera di Marx e sulla letteratura critica
relativa.
Infatti, quando riprese, nel 1945, l'attività pubblicistica,
esibì una sicura e perfino sofisticata competenza marxologica
in una imponente mole di scritti, pubblicati tutti anonimi o sotto
pseudonimi. Sempre più ostile a qualsiasi manifestazione di
individualismo e di protagonismo, non intendeva esprimere nei propri
testi opinioni originali, ma riformulare una dottrina che egli
giudicava immodificabile nella sua essenza. Con puntigliosa
regolarità asseriva di limitarsi a ristabilire l'autentica
lezione marxiana, corrotta da interpretazioni abusive,
periopiù sedicenti marxiste; invece innovò il lascito
di Marx con estro creativo, pur rispettandone le più
peculiari strutture concettuali.
Non si iscrisse al minuscolo Partito comunista internazionalista,
che i bordighiani raggruppati intorno a 0. Damen e B. Maffi. avevano
fondato nel 1942, ma lo orientò ideologicamente con gli
articoli apparsi sulla rivista mensile Prometeo, dal 1945 al 1952, e
sul quindicinale Battaglia comunista, sotto la rubrica "Sul filo del
tempo", dal 1946 al 1952. L'odio inesausto per la democrazia, che
durante la guerra lo aveva spinto ad auspicare la vittoria tedesca
sulla Gran Bretagna, roccaforte dei capitalismo europeo, si
esprimeva ora negli acri sarcasmi contro l'egemonia mondiale degli
USA e contro le nuove istituzioni dell'Italia repubblicana, le loro
radici nell'antifascismo e nella Resistenza e i partiti che le
sostenevano, a cominciare dal "partitone" di Togliatti.
Dopo la scissione, avvenuta nel 1952, della corrente di Damen,
più proclive alla prassi politica, il B. entrò nel
Partito comunista internazionalista ulteriormente rimpicciolito e lo
impegnò in un lavoro quasi esclusivamente teorico, i cui
risultati apparvero sul quindicinale Il Programma comunista. Su
questo periodico, dal titolo squisitamente bordighiano, che
cominciò a uscire a Milano nell'ottobre del 1952, egli
continuò, fino al 1955, la serie "Sul filo del tempo", e
pubblicò, fino al 1966, insieme con altri numerosi articoli
di svariato argomento, le sue relazioni alle riunioni del partito,
nelle quali rendeva conto delle sue ricerche più importanti.
Il problema che, più di ogni altro, tormentò il B. nel
dopoguerra fu il fallimento della rivoluzione russa, che coinvolgeva
i modelli di socialismo e di capitalismo prevalenti nella tradizione
marxista. Dopo qualche esitazione, visibile in La Russia sovietica
dalla rivoluzione ad oggi (Prometeo, s. 1, I [1946], pp. 24-38) e in
un carteggio con Damen (ibid., s. 2, V [1952], pp. 7-23), nel
definire il sistema socio-economico dell'URSS ne affermò con
risolutezza la natura capitalistica in una complessa indagine
pubblicata sul Programma comunista tra il 1955 e il 1957 (ora in
Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, Milano 1976), di
cui è stata raramente riconosciuta la rilevanza "eccezionale"
(Galli, p. 138; ma vedi Grilli). Non si poteva parlare di
socialismo, secondo il B., in una società dove continuavano a
funzionare le categorie capitalistiche della merce, del denaro, dei
salario, della impresa. Egli negava, da una parte, che il capitale,
inteso come dominio anonimo sul lavoro sociale, potesse
identificarsi con la proprietà privata (Proprietà e
capitale, Firenze 1980, già pubblicato in Prometeo tra il
1948 e il 1952), dall'altra, che il socialismo potesse identificarsi
con la statizzazione dei mezzi di produzione.
Secondo una formula leniniana, promossa dal B. a decisivo strumento
di interpretazione storica, la rivoluzione bolscevica era stata
"doppia": comunista, dal punto di vista politico, cioè
programmatico, in quanto aveva instaurato la dittatura del partito
comunista; borghese, dal punto di vista economico, in quanto aveva
impresso un potente impulso al decollo del capitalismo in un'area
attardata. Poiché non era seguita in tempi brevi una
rivoluzione "pura", cioè integralmente comunista, nei paesi
industrialmente avanzati dell'Europa occidentale, il significato
politico dell'ottobre rosso era destinato a dissolversi nella
espansione economica dell'URSS. Peraltro il B. non riteneva
possibile determinare sociologicamente la classe capitalistica
sovietica, poiché nell'intero sistema mondiale il capitale
non si personificava più in una classe sociale dai contorni
precisi, quale era stata la borghesia, ma agiva ormai attraverso una
rete impersonale di interessi che si dilatava intorno all'impresa.
Improponibile poi gli appariva la identificazione della classe
dominante in Russia con la burocrazia, secondo una linea
interpretativa che risaliva a Trockij, poiché la burocrazia
non costituiva, per lui, nemmeno una classe in senso marxiano.
Nella sua esplorazione del mondo sovietico, il B. teneva sempre ben
fermo, quale termine di confronto ideale, un modello di comunismo
dai classici connotati utopici, come società liberata dal
lavoro e dalla politica, omogenea e ludica, nella quale rifiorisse
l'età aurea delle comunità primitive. Infatti, mentre
rifiutava in blocco la civiltà moderna, confessava la sua
"larga simpatia per i tempi dei matriarcato" (Superuomo,
ammosciati!, in Il Programma comunista, 16 apr. 1953). L'altra
faccia dell'utopismo era l'aspettativa apocalittica, presente
soprattutto in un ampio studio sul capitalismo mondiale (Il corso
del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina
di Marx, ibid., tra il 28 ag. 1957 e il 28 apr. 1959), al quale
preconizzava la catastrofe mortale per il 1975, sulla base di ardue
elaborazioni statistiche che miravano a verificare la legge marxiana
della caduta tendenziale del saggio del profitto.
Questa altissima tensione visionaria - che gli dettò la
definizione dei marxismo come "ultima delle mistiche" (La struttura
economica e sociale della Russia e la tappa del suo trasformismo
involutivo al XXI congresso, ibid., 16-30 ott. 1959) - combinata con
una inflessibile renitenza ad ogni compromesso politico e morale,
trascinò il B., dopo il 1926, ai margini della storia dei
movimento operaio, dei socialismo e dello stesso marxismo, ma gli,
riserva un posto di rilievo nella tradizione di quei "sognatori
della fiammante Utopia" ai quali egli rese un commosso omaggio
(Esploratori nel domani, in Battaglia comunista, 20 marzo 1952).
Il B. morì a Formia (Latina) il 23 luglio 1970.
Opere: Un elenco pressoché completo degli scritti del B. dal
1945 al 1970 è in L. Grilli, A. B.: capitalismo sovietico e
comunismo, Milano 1982, pp. 275-295.