Alberto Bergamini
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Alberto Bergamini (San Giovanni in Persiceto, 1º giugno 1871 –
Roma, 22 dicembre 1962) è stato un giornalista e politico
italiano.
Biografia
L'inizio della carriera
Dopo una formazione basata sugli studi tecnici, seguiti dagli studi
letterari, giovanissimo iniziò a collaborare con Il Resto del
Carlino. Nel 1891 venne chiamato al Corriere del Polesine,
quotidiano di Rovigo del gruppo liberale monarchico. Lo stesso anno
fu nominato direttore. Aveva appena 20 anni[1]. Le sue doti
organizzative non passarono inosservate; venne chiamato a Milano al
prestigioso Corriere della Sera su segnalazione di Domenico Oliva,
(direttore politico del quotidiano).
Dapprima lavorò come redattore ordinario, poi divenne
segretario di redazione. Il gerente responsabile del Corriere, Luigi
Albertini, lo inviò a Roma dove affiancò Michele
Torraca, capo dell'ufficio del quotidiano nella capitale (1899).
Direttore del Giornale d'Italia
Quando, nel 1901, i politici Sidney Sonnino e Antonio Salandra
decisero di fondare un nuovo quotidiano liberalnazionale a Roma,
chiesero ad Albertini un consiglio su chi mettere a capo del nuovo
giornale. Albertini fece loro il nome di Bergamini, anche se
ciò gli costò la privazione di un collaboratore cui
teneva molto.
Nel Giornale d'Italia Bergamini ebbe il doppio ruolo di gerente
responsabile (= direttore responsabile) e socio accomandante
(cioè amministratore) (come Albertini al Corriere). Con lui
passò dal Corriere al nuovo quotidiano anche Domenico Oliva,
già di stanza a Roma come deputato al Parlamento.
Bergamini è passato alla storia del giornalismo italiano per
l'invenzione della Terza pagina e per l'adozione, in essa, del
carattere tipografico elzeviro. La prima «terza pagina»
uscì, il 10 dicembre 1901, in occasione della prima della
tragedia Francesca da Rimini di Gabriele D'Annunzio, con
protagonista Eleonora Duse, presso il Teatro Costanzi di Roma.
All'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale, il 3 giugno
1915 Bergamini fece richiesta al ministro della Guerra, Zuppelli,
per essere arruolato volontario. La domanda non ebbe accoglimento ed
egli restò per tutta la durata del conflitto alla direzione
del giornale.
Il 3 ottobre 1920 venne nominato senatore del Regno.
Nei primi anni venti irruppe sulla scena politica nazionale il
movimento fascista. Nonostante Bergamini mostrasse un iniziale
interesse, non tardò a notarne la carica sovversiva. Ebbe
presto uno scontro personale con Benito Mussolini.
Il 31 ottobre Mussolini diventò capo del governo, neanche un
mese dopo (23 novembre) moriva Sidney Sonnino. Oltre a lasciarlo
solo alla guida del giornale, veniva a mancare a Bergamini un
sostegno importante dentro i palazzi del potere.
Il ritiro a vita privata
Nel novembre 1923, dopo 22 anni ininterrotti nel ruolo di direttore
ed amministratore del quotidiano, Bergamini si dimise: aveva capito
che se avesse continuato in libertà il proprio lavoro sarebbe
andato incontro a gravi inconvenienti personali con il Governo.
Oltre a lasciare la direzione, cedette anche le sue quote della
società editrice. Bergamini dichiarò che il Giornale
d'Italia vendeva in media 300.000 copie.
Successivamente si accostò ai gruppi liberali facenti capo a
Ivanoe Bonomi e ad Alessando Casati.
Il 27 febbraio 1924 subì un'aggressione mentre rientrava in
casa, rimanendo ferito da colpi di pugnale. Ritenendo di essere
stato vittima di un delitto a sfondo politico, decise quindi di
lasciare Roma. Il 20 marzo presentò le dimissioni da
presidente dell'Associazione Nazionale della Stampa (era stato
eletto al vertice dell'organismo il 1º ottobre 1923) e si
ritirò nella dimora collinare di Monte Folone (comune di
Gubbio), venendo a Roma per recarsi al Senato soltanto in limitate
occasioni.
Nel 1929, insieme a Benedetto Croce e Francesco Ruffini
criticò il Concordato, votando contro la ratifica dei patti
lateranensi.
Nel 1942 riprende la residenza di Roma, in piazza del Popolo.
Il rientro nella vita pubblica
Nel 1943 entrò a far parte dei Gruppi di Ricostruzione,
organismi che raccoglievano liberali, cattolici liberali e
social-riformisti. Scopo della loro azione era convincere il re a
liquidare Mussolini e riassumere i pieni poteri. Collaborò
anche con La Ricostruzione - Fronte unico della libertà,
organo dei Gruppi di Ricostruzione, diretto da Ivanoe Bonomi. Il 26
luglio aderisce al «Comitato delle opposizioni» promosso
da Ivanoe Bonomi, Alessandro Casati e Tommaso Della Torretta insieme
ad Alcide De Gasperi, Giuseppe Spataro, Meuccio Ruini e Giovanni
Gronchi. Anche nell'abitazione di Bergamini si svolgono riunioni del
Comitato.
All'indomani dell'otto settembre 1943, data che sancì la fine
del regime fascista, fu richiamato alla direzione del Giornale
d'Italia. Inoltre fu eletto vicepresidente della ricostituita
Federazione Nazionale della Stampa. Costituì una sua
formazione politica, «Concentrazione Liberale».
Fu arrestato dai tedeschi e rinchiuso a Regina Coeli. Nel 1944
riuscì, assieme ad altri detenuti, ad evadere. All'indomani
della Liberazione di Roma, il 7 giugno 1944 fu eletto presidente
della FNSI. Ma pochi mesi dopo ricevette un attacco del quotidiano
del PCI l'Unità. Ritenendolo lesivo nei suoi confronti,
rassegnò le dimissioni. Il Psychological Warfare Branch (PWB)
anglo-americano gli offrì la direzione del Giornale d'Italia.
Bergamini rifiutò perché la richiesta comprendeva
anche il mutamento del nome del quotidiano.
Nel 1946 fu eletto all'Assemblea costituente; successivamente fu
eletto senatore. Durante la campagna referendaria appoggiò la
Monarchia.
Nel 1951 pubblicò una Storia del «Giornale
d'Italia», con nota introduttiva di Salvatore Valitutti, in
cui rievocò le circostanze che avevano prodotto la nascita
del quotidiano e le vicende che ne avevano accompagnato la crescita.
Dal 30 aprile 1956 al gennaio 1962 fu di nuovo presidente della
Federazione Nazionale della Stampa, mostrando fino ai suoi ultimi
anni un estremo attaccamento ai problemi inerenti alla sua
professione.
Morì a Roma il 22 dicembre 1962.