Paola Sosso
JULIEN BENDA, BENEDETTO CROCE E LA FUNZIONE DELL’INTELLETTUALE
All’interno del dibattito che si sviluppa nella prima metà del
Novecento sul rapporto tra gli intellettuali e la politica, particolare
rilievo assumono, per intensità di toni e per il clamore che
suscitarono, le posizioni di due grandi studiosi, Benedetto Croce e
Julien Benda. «Il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli
intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali
stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l’enorme
diffusione del libro e della stampa periodica»: così scrive Gramsci nel
19301, interessato, come mostrano molti passaggi dei Quaderni,
all’analisi della filosofia crociana. Le sue riflessioni appaiono ancor
oggi rilevanti per la lucidità di un tratto essenziale ma penetrante e
per l’invito che contengono a un approccio comparativo.
Qualche anno dopo, Gramsci afferma nuovamente che la concezione
dell’intellettuale di Croce può avvicinarsi a quella espressa da Julien
Benda nella Trahison, e ipotizza un paragone, in seguito mai
sviluppato, tra la posizione del primo e «il diluvio di scritti di
J.Benda sul problema degli intellettuali2»: compaiono in queste poche
righe alcuni elementi che vale la pena di approfondire ulteriormente.
Molti scritti di Benedetto Croce, relativi agli anni che vanno
all’incirca dal ‘15 al ’45, si soffermano in effetti sull’analisi del
ruolo dell’intellettuale nella nuova società. Come è noto, il tema era
divenuto cocente in Francia e in Italia in particolare dopo le
polemiche dell’affaire Dreyfus: le aspirazioni degli intellectuels
erano infatti sempre più concrete e molti di essi rifiutavano di
rimanere ai margini della storia, facendo proprie e risolvendo quelle
rivendicazioni che si erano fatte sentire fin dall’epoca dei
philosophes3. Dopo tante lotte e tante disillusioni, prendeva corpo,
con l’inizio del nuovo secolo, la figura di un uomo di cultura
cosciente della propria identità sociale4.
Le riflessioni di Benda e di Croce, sicuramente legate a questo nuovo
clima culturale, risentono tuttavia anche dei dibattiti suscitati negli
ambienti intellettuali durante la prima e la seconda guerra mondiale:
gli avvicendamenti della storia contribuirono infatti a rendere la
discussione sempre più attuale, perché molti hommes de lettres
rifiutarono, durante i due grandi conflitti, di chiudersi nel guscio
dei propri studi, e preferirono intervenire in modo diretto, con gli
scritti e con l’azione.
In netta opposizione rispetto a questa nuova tendenza all’engagement
intellettuale, nel 1927, Julien Benda dà forma alla sua protesta ne La trahision des clercs,
appassionata difesa di un esercizio mentale puramente speculativo e
alieno da alcuna compromissione con il reale. Benda ricorre nel titolo
al lemma clerc e si pone in tal modo in chiara antitesi rispetto a un
movimento intellettuale che, nato alla fine dell’Ottocento, era
destinato, seppur con ispirazioni e toni diversi, a giungere fino agli
anni ’60-’70, con le prese di posizione sartriane, e poi ancora oltre,
fino al nuovo secolo e alle nuove tecnologie che sembrano dare nuovo
impulso alla figura dell’intellettuale-guida. Il clerc di Julien Benda
si contrappone a tutto questo per recuperare, risalendo i secoli e la
storia, una dimensione che oggi può apparire anacronistica ed elitaria.
Gli hommes de lettres, secondo l’autore, hanno infatti abbandonato la
loro funzione di guida spirituale esterna consegnandosi al potere
politico e alla borghesia a partire dalla fine del secolo XIX.
Su un terreno non distante da quello di Benda si muove in quegli anni,
come si è detto, Benedetto Croce, che dedica numerose pagine dei suoi
scritti e delle sue lettere alla riflessione sul ruolo degli
intellettuali, incalzato dagli eventi, mai pago delle conclusioni
raggiunte, sempre pronto a rimodellare e ad ampliare il terreno della
discussione.
Una parallela rinascita dell’idealismo in Francia e in Italia conduce i
due pensatori su sentieri vicini, portandoli a concordare su alcuni
punti, pur restando legati a modi e scelte espressive molto diverse. Ed
è questa affinità nella discordanza, già suggerita, come si è visto, da
Gramsci, che ci invita a guardare con maggiore attenzione i loro
scritti, per indagare in quale modo, nel linguaggio e nei contenuti,
essi si avvicinano e si discostano, prediligendo temi comuni, cercando
soluzioni e trovandole in atteggiamenti simili o chiaramente
opposti.
Benda, che muove la sua critica contro fascismo e nazionalismo, intende
attaccare tutti quegli intellettuali che, in varia misura, hanno
asservito i valori astratti del pensiero intellettuale all’engagement,
alla vita pratica: «Tout ce qui s’est fait de pratique dans l’histoire
s’est fait dans l’injustice»5: così colpevoli risultano sia i
sostenitori sia i difensori di Dreyfus, perché in entrambi i casi si è
trattato, a sua avviso, di un tradimento6: ogni interferenza tra realtà
e letteratura, quest’ultima intesa come puro «sujet philosophique»7, è
dannoso e inutile.
L’idea di uno stretto collegamento con la tradizione medievale del
clericus, di un uomo cioè dotto ed istruito, formato ai principi della
religione cristiana, distinguibile per abiti e costumi, appare più
volte nel testo, nei brani in cui Benda scrive che il clerc per
eccellenza è l’uomo di chiesa8, colui che per fede, e non solo per
cultura, antepone la spiritualità alla concretezza del reale. Il vero
clerc, pronto ad opporre la propria «conscience humaine»9 di fronte
all’ingiustizia, persegue in ogni occasione la giustizia e la carità10
(e l’eco dei valori evangelici è qui evidente), ha come unica regola
l’ascetismo spirituale e i principi che trascendono la relatività del
reale11. Capo spirituale, utopista, desideroso di elevarsi al di sopra
delle «passions pratiques12», le clergé deve saper dire «impunément des
vérités qui […] déplaisent13» e sfidare l’impopolarità14.
Per Benda, che segue in questo l’idea tradizionale, il vero chierico è
«tout homme littré ou savant»15: ma ogni uomo di cultura dovrebbe anche
fare propri e seguire alcuni valori fondamentali riconducibili, in
ultima analisi, allo spiritualismo della fede.
Je veux parler de cette classe d’homme que j’appellerai les clercs, en
désignant sous ce nom tous ceux dont l’activité, par essence, ne
poursuit pas de fins pratiques, mais qui, demandant leur joie à
l’exercice de l’art ou de la science ou de la spéculation métaphysique,
bref à la possession d’un bien non temporel, disent en quelque manière:
«Mon royaume n’est pas de ce monde»16.
Questa definizione, ripresa in una nota della quarta parte17, compare
all’inizio della terza sezione e racchiude in sé i due poli attorno ai
quali, secondo l’autore, deve prendere forma, in definitiva, la figura
del clericus: rifiuto del realismo, esercizio mentale puramente
speculativo.
Tuttavia anche in ambito religioso vi è stato, negli ultimi decenni, un
tradimento: se da un lato la fede rappresenta la via maestra di un
cammino che il clerc dovrebbe seguire, quella spiritualità totalmente
aliena da ogni compromissione con la realtà, dall’altra essa
stigmatizza una forma di religiosità, diffusa nei nuovi testi letterari
e prediletta dai nuovi autori, che, pur non avendo in sé più nulla di
spirituale, giunge alle forme estreme del peggior fanatismo (e il
termine fanatismo è ripreso più volte da Benda, che non esita a
ricorrere a un lemma ancor più estremo, séides18). Poli contrapposti
convergono quindi in scelte lessicali affini, con un dualismo che,
nella sua tensione interna, tende a far risaltare maggiormente la
lontananza tra la verità e un fantoccio che è oggetto di un’adorazione
profana e pericolosa.
Certo Benda non fa che sottolineare un dato di fatto, e cioè la
tendenza di una certa letteratura fra le due guerre a essere intrisa di
misticismo, a ricorrere a espressioni enfatiche per celebrare un
nazionalismo che, così alimentato, maturerà i peggiori frutti19.
Tuttavia rimane il fatto che egli sa, ponendo nel mirino della sua
critica alcuni contemporanei, giocare sui livelli linguistici, fino a
sfiorare, e a volte toccare, l’assurdo di un capovolgimento semantico
il cui fine è quello di far meglio risaltare un capovolgimento reale,
quello operato da falsi clercs per i quali la razza, la classe, la
nazione sono divenuti i nuovi idoli.
Fin dal primo capitolo compare il termine mysticité 20, simbolo della
trasfigurazione delle passioni nazionalistiche della nuova borghesia:
misticismo mistificatorio agli occhi di Benda, perché esso nasconde
sotto l’adorazione religiosa ambizioni, interessi, giochi politici,
tentando di divinizzare il profano. «L’Etat, la Patrie, la Classe sont
aujourd’hui franchement Dieu», leggiamo nel secondo capitolo, dove si
trova, riportata in nota, una citazione tratta da un discorso di
Mussolini in cui, spiega Benda, il termine «religieux» è chiaramente
applicato a qualcosa di eminentemente temporale:
La discipline de bas en haut doit être essentielle et de type religieux21.
Benda riprende in chiave critica la retorica della politica di quegli
anni, non estranea all’abuso del lessico religioso: da un certo
egualitarismo romantico, in cui l’autore identifica gli «apôtres de
l’ordre22» dediti alla stretta osservanza della loro bibbia fatta di
principi falsamente democratici, alla nuova religione che gli sembra
ormai diffusa ovunque nella società moderna. «Religion du
particulier23», venerazione dei valori individuali, «religion du
succès» che riecheggia, in particolare quest’ultima, il credo della
destra, e non solo di quella francese, dei primi del Novecento, e i
principi di alcuni filosofi in cui Benda vede i veri propagatori di un
pensiero centrato unicamente sull’uomo: Nietzsche, Sorel, Bergson.
In realtà, come si è detto, compare nel testo una seconda forma di
religiosità autentica, che non pone Dio al servizio di propri interessi
particolaristici e non rifiuta il trascendente travestendolo coi panni
del peggiore realismo. Ed è in questa volontà di elevarsi, di
trascendere le passioni umane, di aderire a un humanitarisme «qui
honore la qualité abstraite de ce qui est humain24», che Benda ritrova
gli elementi di quella religiosità che deve accompagnare il clerc25.
Non si tratta, tiene a precisare l’autore, di un valore legato
unicamente a un credo religioso, ma di un atteggiamento che ha profonde
radici filosofiche: dagli stoici ai grandi «praticiens de l’esprit»,
Erasmo26, Montaigne, Malebranche, Spinoza, Goethe, una lunga catena di
pensatori ha onorato e perseguito, secondo Benda, l’ideale di una
comunione umana centrata su valori inderogabili ed eterni27. A tale
proposito Benda ricorre ad alcuni sostantivi molto pregnanti:
l’idéalisme e lo spiritualisme si affiancano all’utopia, perché le
chimere sono utili anche per condurre l’azione politica, perché il vero
moralista è un utopista, perché peculiarità dell’azione veramente
morale è quella di «créer son objet en l’affirmant»28.
Alcuni termini vengono puntualmente ripresi per descrivere entrambi gli
approcci, entrambe le forme di religiosità, ma la connotazione appare
immediatamente opposta nei due casi. Così l’universalismo dell’uno non
è quello dell’altro, i dogmi della vera religione non hanno nessun
rapporto con i falsi principi dell’altra, il loro apostolato persegue
fini diversi, la loro opposta idea di sacralità li conduce su strade
che divergono. Si delinea così uno iato che separa nettamente «le clerc
en tant qu’il l’est» da quello «qui passe pour l’être»29, e qui si
consuma il tradimento più grave, nella falsificazione volontaria dei
valori ideali, forse utopistici ma fecondi:
La cléricature étant un idéal, le clerc parfait n’existe pas. Les
adversaires du clerc son définis, non pas parce qu’ils ne réussissent
point à réaliser cet idéal, mais parce qu’ils le bafouent30.
Se l’opera di Benda, come è stato più volte suggerito, manca di una
solida analisi dei contesti socio-economici che determinarono alcune
grandi svolte ideologiche31, vi è di contro nella sua disamina
un’evidente volontà di precisione nell’attribuire ad alcune parole un
significato storico, concreto, inequivocabile. I termini selezionati
sono quasi sempre riconducibili a una realtà precisa, a un valore
definito, a un campo lessicale identificabile.
Il tradimento indica certamente per Benda, secondo il suo valore
etimologico (tradere, da trans, «oltre», e dare, «dare, consegnare»),
l’idea di una trasmissione che nasconde l’inganno, di un passaggio di
consegne che è andato oltre i propri limiti, ha oltrepassato le proprie
barriere: gli hommes de lettres, secondo l’autore, hanno infatti
abbandonato la loro funzione di guida spirituale esterna consegnandosi
al potere politico e alla borghesia a partire dalla fine del secolo
XIX. Ma la scelta del termine riecheggia anche un uso che, su versanti
opposti, era stato fatto del lemma trahison durante e dopo le vicende
relative all’affaire Dreyfus32.
La posizione di Croce, che partecipa al dibattito in questi stessi
anni, si dipana, come accennato, su un arco di anni ricchi di
avvenimenti per la storia mondiale e fervidi di riflessioni per il
pensatore italiano; essa, pur ricordando a tratti le osservazioni di
Benda, si definisce e si ridefinisce a più riprese, nel tentativo di
rendere conto delle varie sfumature che rendono il problema
appassionante e complesso.
Affinità e divergenze, si diceva, tra Croce e Benda: Gramsci evidenzia
immediatamente nei suoi Quaderni questi due aspetti, parlando, per
Benda, di un «diluvio di scritti», per Croce di uno stile che lo induce
ad assumere sempre «atteggiamenti equilibrati, olimpici»: eppure
rimangono dei punti comuni che, a ben guardare, si risolvono in scelte
tematiche e lessicali convergenti. Oltre alla vicinanza su alcuni temi
– la concezione di uno Stato forte, la superiorità della riflessione
astratta, un certo disinganno, più forte in Benda, nei confronti
nell’attività politica condotta dalle passioni – temi certamente
sviluppati in modo più organico in Croce, compare una certa eco nel
ricorso ad alcuni lemmi, nelle preoccupazioni comuni, nel piacere di
una disamina attenta, più pacata e profonda nell’uno, più irruenta e
precipitosa nell’altro.
Innanzitutto lo stesso Croce ricorre al termine «tradimento» per
stigmatizzare certi intellettuali che, durante il primo conflitto
mondiale, hanno messo la scienza al servizio delle lotte pratiche: la
sua condanna, scritta nel 1925, è ben situata dal punto di vista
storico, anticipa in parte quella del pensatore francese, e fa eco
d’altra parte ad alcune prese di posizione che si diffusero in Francia
nei primi anni del Novecento in un contesto diverso, quello
dell’affaire Dreyfus:
Per mia parte, pure con la buona volontà di tener conto delle seduzioni
del cattivo esempio e di altre circostanze attenuanti, debbo confessare
che non mi sono mai interiormente riconciliato con tutti quei cultori
di studî che, durante la guerra, ho visto pronti a storcere la scienza
a servigio delle lotte politiche, e li guardo sempre con diffidenza. Se
hanno tradito una volta la verità, perché non la tradiranno ancora?
Forse perché, allora, la tradirono per amor di patria? Ma la verità non
si tradisce per amor di nessuna cosa o persona; e, se si concede che
sia lecito tradirla per la patria, perché non dovrebbe esser lecito poi
tradirla per il figlio o per l’amico, e, in fin delle fini, pel nostro
signor sé (sic) stesso, il quale, anch’esso, conta per qualcosa?33
Al di là di questo ricorso al termine «tradimento», ben diversamente
contestualizzato in Croce, vi è anche nel filosofo italiano, che pure
muove da posizioni di agnosticismo religioso34, un uso duplice del
concetto di religione non dissimile da quello di Benda: anche per lui,
negli anni precedenti la prima guerra mondiale, la scienza e l’arte
hanno subito un «inquinamento politico» che occorre abbandonare:
Arte e scienza possono contribuire al ravvicinamento dei popoli solo
col mantenersi vigorose e pure, col richiamare, mercé la loro
intrinseca virtù, i cuori e gli intelletti alla coscienza della comune
umanità. Ogni sforzo che si faccia per creare un’arte umanitaria e di
tendenza, o una scienza mista di predica e di pia unzione, consegue
l’effetto opposto. Il peccato della scienza e dell’arte negli ultimi
tempi, nei tempi di preparazione alla guerra e durante la guerra, è
stato appunto l’inquinamento politico. Non bisogna ricadere in
quest’errore, neppure con l’illusione d’inculcare la fratellanza dei
popoli. I popoli, come entità politiche, saranno sempre fratelli
litiganti e contrastanti; e a ciò bisogna virilmente rassegnarsi, e
lasciare che la politica stessa formi più o meno vasti accordi e intese
e alleanze ed equilibrî. Artisti e filosofi e scienziati hanno un altro
ufficio: un ufficio religioso. E, adempiendo a tale ufficio, possono
sperare, non mai di abolire la lotta economica e politica, ma di
portarla in sempre più spirabile aere35.
Questo scrive Croce nel 1920, ma il problema è sollevato anche in altri
scritti: l’idea di una missione, di un apostolato dell’uomo di cultura
è ripresa nel 1925, laddove egli scrive:
Se il sacerdote ha cura d’anime, e perciò non gli è lecito parteggiare
per interessi mondani e scendere a certi uffici di accusatore e di
carnefice, non è forse l’uomo di pensiero e di scienza il sacerdote dei
tempi moderni, e non ha gli stessi doveri?36.
Questa affermazione va tuttavia sfumata dalle riflessioni che la
seguono e inserita all’interno di un pensiero più complesso. E in
questo cogliamo un altro tratto che distanzia il filosofo italiano dal
pensatore francese: egli sempre lima, modella, alimenta i suoi scritti
con nuove riflessioni, mai pago delle mete raggiunte, sempre teso verso
nuovi approfondimenti. Precisa infatti in seguito Croce: si tratta di
«doveri, che per parlare un linguaggio profano, non ho voluto chiamare
doveri di religione, ma di onore37». Nel concetto di intellettuale di
Croce, scriveva Gramsci, vi è qualcosa di «cattolico e clericale»38;
tuttavia l’intellettuale crociano, pur mirando gli alti ideali dello
spirito, è completamente laico: anzi il filosofo ritiene che sia
necessario ormai «distruggere un’ultima trascendenza, che tuttavia
rimane e s’insinua inavvertita, la trascendenza della filosofia
rispetto al conoscere comune»39. Ma in qual modo, allora, intervenire
per portare fratellanza, per spegnere i fantasmi dell’odio? Il ricorso
alla religione appare a Croce come una soluzione superata, miraggio di
utopie e di chimerici progetti, (quei progetti che aleggiano invece,
come abbiamo visto, nel pensiero di Benda), mentre la ricerca di valori
universali, comuni a tutte le civiltà, sembra offrire una valida
soluzione:
E quale sarà? O piuttosto qual è dunque il vero modo? La religione, si
sarebbe detto un tempo: il sentirci cristiani, il giudicare da
cristiani, il comportarci da cristiani. E noi diciamo ora, invece,
tutto ciò che, pur nelle necessarie divisioni, accomuna l’uomo: l’arte,
la verità, la bontà. Sono queste le forze che di continuo
ristabiliscono la concordia umana, l’unità della cultura e vita
spirituale; e tutt’al più, anziché seguire i progettisti e utopisti,
converrebbe a coloro che rappresentano quelle forze rivolgere
rimproveri, ammonimenti, esortazioni affinché badino ad adempiere al
loro alto ufficio di promotori della comune umanità40.
La figura di Cristo, assunta da Benda a simbolo massimo di distacco e
di disinteresse (rievocato dalla ripetizione ne La trahison della frase
evangelica «Mon royaume n’est pas de ce monde41») rappresenta invece
per Croce quei filosofi che non vengono «à apporter la paix, mais la
guerre: guerre nouvelle, c’est à dire vie nouvelle42».
Il vero filosofo, «uomo anzitutto, e pieno d’interessi e passioni» (e
sappiamo quali feroci strali lanci Benda contro le passioni dei
filosofi) «sa assurgere alla filosofia e ridiscendere per essere un
uomo variamente operoso»43: il rischio è in caso contrario quello di
cadere in uno «astratto razionalismo e intellettualismo e scientismo,
che forse in nessun altro paese è così opprimente come in Francia»,
come scrive Croce in una recensione alle Lettres à Mélisande dello
stesso Benda44. La teoria e la pratica rimangono due distinti aspetti o
momenti dello spirito umano45, ma il filosofo fa opera politica
inducendo alla riflessione, preparando il prorompere della passione46.
Pur riconoscendo la netta differenza tra i due ordini, Croce non esita
a far uso in entrambi i casi del termine «valori», termine che Benda
riserva all’ambito astratto e spirituale: per il filosofo italiano è
doveroso difendere entrambe le categorie, come scrive nel 1912: «Se è
doveroso difendere i valori di cultura, non è meno doveroso, dunque,
difendere quelli storici»47. Certo i valori di cultura hanno un
carattere imperituro, universale, costante e supremo: tuttavia Croce
rifugge da una concezione troppo elitaria, e preferisce mantenersi,
anche in questo caso, su posizioni meno perentorie e dogmatiche. La
filosofia tutto abbraccia e tutto respinge, non parteggia mai per l’una
o l’altra fazione, si attiene al suo dovere prossimo che concerne la
difesa delle istituzioni48: le lotte politiche infatti altro non sono
se non «diversi modi di sentire e di volere la vita sociale e
politica», per cui occorre evitare ogni
«miscuglio di filosofia e politica»49.
La filosofia deve generare e informare l’attività pratica, la morale
deve trasfondersi nella politica creando le dovute premesse
intellettuali: questo Croce ribadisce più volte nei suoi scritti
dedicati al rapporto tra etica e politica50.
Sempre propenso agli atteggiamenti equilibrati ed olimpici, come già
sottolineava criticamente Gramsci, Croce prende tuttavia una netta
posizione nei momenti drammatici: per opporsi alle nuove idee
abbracciate da molti intellettuali sottoscrive la dichiarazione di
Romain Rolland51 e non esita a definire con termini netti la nuova
politica. Ed ecco che in questi casi troviamo, come già in Benda, la
condanna di una falsa religione che è abuso, falsificazione, oltraggio:
non solo la politica si è permessa un ricorso indebito alla filosofia
per patrocinare violenze e prepotenze, ma l’universalismo e il
misticismo di una religione che è amore per la giustizia sono stati
«sdilinquiti» (Croce parla di «sdilinquimento») da un nuovo apostolato
e in un nuovo evangelo basati sull’odio e il rancore52.
Certo troviamo nei suoi scritti l’idea che la guerra è prodotta da
forze superiori ad ogni volontà individuale e va pertanto accettata
come tale: lo spirito del mondo segue, secondo lui, una logica
«intricata e nascosta» che deve per necessità spiegarsi, ma questo non
esclude che ogni individuo tenti di comportarsi, da parte sua, nel modo
migliore53. Egli scrive infatti nel 1919 all’amico Vossler:
Come sai bene, le lotte degli Stati, le guerre, sono azioni divine. Noi
individui, dobbiamo accettarle e sottometterci: Ma sottomettere la
nostra attività pratica e non quella teoretica: sottomettere i nostri
affetti politici e noni nostri affetti personali e privati. Altrimenti
la barbarie si ristabilirebbe nel modo, non la barbarie generosa, ma
quella corrotta e depravata54.
Proprio in questi anni troviamo, a conferma di questa osservazione,
alcune considerazioni molto lucide su come si debba figurare il ruolo
dell’intellettuale nella società in guerra: permane in molti testi
l’accusa di fondo nei confronti del «tradimento dei clerici»,
sviluppata fin dagli anni della prima guerra mondiale55. A ciascuno il
suo ufficio, scrive Croce a più riprese; leggiamo già in una lettera a
Vossler dell’ottobre 1914 che «troppi letterati a spasso […] sono
diventati scrittori di giornali politici»56: leggerezza e spirito di
avventura, adatti ai romanzi, sono stati trasposti nella vita reale.
Gli uomini di pensiero devono fare il loro dovere, attendere al loro
compito: «credo che come il medico cura con pari scrupolo amici e
nemici, così l’uomo di scienza, il cultore della verità, debba
esercitare il suo ufficio di sopra ogni contesa politica e interesse
nazionale»57.
Il pensiero di Croce non si ferma tuttavia a queste riflessioni, ma si
apre continuamente a nuove analisi: il completo disinteressamento della
cosa pubblica, il distacco superiore dal mondo è infatti per lui
deleterio, trarsi in disparte e attendere unicamente ai propri studi
rischia di essere un pretesto, e di risolversi in un illusione, perché,
«recisi i frementi legami con la vita, la scienza e l’arte
intristiscono, si fanno vuote e accademiche»58.
Compito dell’arte è anche quello di contribuire a migliorare la
società: considerazioni, queste, che troviamo un po’ in margine negli
scritti di Croce, ma che pure contribuiscono a formare un quadro
d’insieme dai molti toni. Ogni cittadino, leggiamo in un saggio
raccolto in Etica e politica, «che si fa poeta, filosofo o santo,
continua ad essere cittadino»59. La dimostrazione è offerta dalla
storia, perché «i grandi pensatori e i grandi poeti hanno posseduto la
loro genialità nella capacità di vivere interi nella verità e nella
bellezza, e nondimeno sono stati insiememente legati alla varia
passione del tempo loro»60. Questo scrive il filosofo italiano negli
anni che seguono il primo conflitto mondiale, quasi a contraddire, o
forse meglio a completare, quanto abbiamo letto in altri testi.
Meno perentorio di Benda, più realistico, Croce ha la capacità di
cogliere la vita nelle sue varie forme, senza precludere
arbitrariamente la via ad alcune di esse. Le passioni, il côté
irrazionale dell’uomo, che per il pensatore francese sono ormai
divenuti un torrente senza argini, portatore di rigidi settarismi e
pericolosi fanatismi, devono invece essere accettate secondo Croce,
perché esse pure fanno parte del nostro essere umani: ne «La politica
della virtù», il filosofo ricorda come il tentativo di soffocarle con
atteggiamento stoico sia fallito, perché eliminando le passioni si
elimina al contempo la vitalità dell’uomo. Così è pure sbagliato
sciogliere le loro briglie, come ha voluto fare certo romanticismo, o
legarle con quel «rigidismo morale» di impronta kantiana tanto caro a
Benda.
In politica, «la morale deve scendere frammezzo alle passioni, passione
tra le passioni», e trattare «con le passioni senza pretendere né di
sopprimerle né di convellerne la natura, mettendo quando giova le une
contro le altre, e combattendo ora le une ora le altre, ora in alleanza
con le une ora con le altre. La vera, la seria volontà morale è
creatrice e promotrice di vita; e perciò non ha nessuna paura di
contaminarsi, adoperando la vita per una maggiore vita»61. Posizione
vicina al compromesso, senza dubbio, soprattutto se confrontata con
quella di Benda, che pare invece rifiutare la mezza via: ma il saggio
che la contiene, pubblicato per la prima volta nel 1922, dopo le
esperienze di politica attiva di Benedetto Croce, ci invita a capire
come quel dissidio che così facilmente cogliamo nella politica, dove la
legge morale spesso diverge dall’azione pratica, sia lo stesso dissidio
che porta ognuno di noi ad allontanarsi quotidianamente dai principi
professati, certamente impuri all’occhio dell’etica kantiana, ma
«quanto umani all’occhio dell’etica umana!»62.
Ben diversa, come accennato, la posizione di Benda: le passioni umane
sono al centro de La trahison, tanto che il termine passion, possiamo
affermarlo senza ricorrere a puntuali statistiche, è probabilmente il
più ripetuto nel testo. Il secondo capitolo è certamente quello in cui
il termine è più volte evocato, ma già il capitolo iniziale introduceva
il tema con riferimenti continui e ripetitivi. Questo ricorso a una
parola che ha alle spalle una lunga storia semantica assume un valore
particolare all’interno del testo: Benda risale infatti all’idea stoica
di passione opposta alla ratio, intesa cioè come stato di irrequietezza
e di agitazione provocato dalle cose del mondo che il saggio (il clerc)
dovrebbe evitare.
L’opposizione aristotelica originaria tra passio ed actio63, che vedeva
nelle passiones una passività neutra e non condannabile, assume una
nuova veste: ne La Trahison la passione è infatti condannabile proprio
perché si identifica con l’azione nella realtà, perché con essa si
scontra e non sa rimanere impassibile (le passioni politiche
condividono infatti uno dei tratti caratteristici delle passions, «la
tendance à l’action»64). Anche in questo caso l’opposizione appare ben
delineata: da una parte passione, ordine, orgoglio, interesse,
realismo, dall’altra ragione, disordine, equilibrio. Su questi cardini
lessicali, continuamente ripresi lungo il testo, si costruisce la tesi
di Benda: i sostantivi sono assunti con un valore specifico ben
definito e costituiscono dei riferimenti continui per la riflessione
del lettore, invitato a interpretare il testo all’interno di una chiara
griglia di lettura. L’ordre non va pertanto interpretato secondo la
visione classica, che vedeva in esso la realizzazione di un’armonia, ma
deve essere considerato come un’imposizione forzata da parte della
classe al potere: esso rientra allora nell’ambito semantico
dell’interesse e dell’orgoglio, e trova la sua completa attuazione
nella realtà contemporanea65.
Divinizzata nel nazionalismo, falsamente camuffata di altruismo, la
passione appare come una forma di egoismo che si rinchiude sempre di
più in se stessa: il popolo, eroe della destra nazionale di quegli
anni, è divenuto, secondo Benda, la preda di un fanatismo passionale
alimentato dai nuovi intellettuali, dediti alla realizzazione di
interessi puramente personali e incapaci di volgere lo sguardo al di là
del tangibile.
La visione manichea dell’autore definisce lungo tutto il testo
l’inconciliabilità tra sentimento, cieco entusiasmo e ragione, vero
baluardo, quest’ultimo, del chierico66: tale antinomia nasce da
un’opposizione di fondo tra chi si abbandona alle forze istintive e chi
invece pondera ogni sua presa di posizione alla luce di una moralità
ineccepibile e di una concezione della giustizia e della verità intese
in modo piuttosto assolutistico. Benda, certamente influenzato nelle
sue riflessioni da una letteratura che era in quegli anni trascinata
nel turbine di un’esaltazione intensa ma superficiale, vede nelle
passioni un’arma al servizio dell’utilitarismo e del subjectivisme.
Anche se le accuse e le affermazioni dell’autore tendono spesso a
generalizzare, a non definire con esattezza tempi e modi di un accusa
senza replica, è possibile ricavare, nei meandri di una scrittura
volutamente ripetitiva, le cause che hanno fatto del clerc un individuo
passionale: l’irrazionalismo di Bachelard, il dogma del concetto
«fluide» di Bergson, per citare i più noti e i più aspramente criticati
da Benda67, incarnano, con il loro attaccamento all’ineffabile, il
punto di arrivo di una filosofia che ha bandito la netteté cartesiana
per abbandonarsi alla aleatorietà delle facoltà meno controllabili68.
Punto di partenza è ovviamente il romanticismo, inteso da Benda non
come corrente storico-letteraria, ma come categoria, che ha tratto la
sua origine da una soif du total, da un desiderio di infinito espresso
a chiare lettere nelle Rêveries di Rousseau69. Con il nuovo modo di
intendere il rapporto tra l’uomo e la natura, il ginevrino apre infatti
la strada, secondo l’autore, a una concezione della letteratura intesa
come adesione alla jouissance dell’impressione istintiva, ai moti
interiori dell’anima. Benda cita a tale proposito due brani celebri: il
primo, che si trova in una nota della Trahison, è tratto dalla
Profession de foi du vicaire savoyard, e riporta il noto elogio della
coscienza, che, secondo Jean-Jacques, non ci inganna mai, perché
l’istinto, facoltà oscura, è per lui un’ottima guida; il secondo testo,
che leggiamo ne La France byzantine, si riferisce invece a uno dei
brani più famosi della V passeggiata, quello relativo alla capacità di
gioire del sentiment de l’existence, unica vera felicità concessa
all’uomo, unico contatto diretto con il nostro io più intimo70.
Il romanticismo che viene condannato da Benda non è quindi ben definito
dal punto di vista della storia letteraria: esso coincide piuttosto con
un certo modo di porsi nei confronti del mondo, con un atteggiamento
che per l’autore non è equilibrato perché passionale e soggettivo. Il
romanticismo diviene infatti sotto la sua penna romantisme du
positivisme, romantisme du pessimisme, romantisme utilitaire,
romantisme de la dureté, romantisme du mépris71: gli eredi di Rousseau
non sono dunque i grandi poeti dell’Ottocento, ma piuttosto tutti
quegli scrittori che, sulla scia di Jean-Jacquese, hanno considerato,
in vari settori, «les choses […] bonnes dans la mesure où elles
satisfont [leur] sensibilité artistique»72.
È un furore accecante, secondo Benda, quello che si è impadronito della
letteratura del primo Novecento: i Surrealisti, Proust, Mallarmé, Gide,
Valéry, Giraudoux, gli scrittori nazionalisti, Barrès, Maurras,
Bainville, elencati insieme a molti altri nelle opere di Benda,
dimostrano tutti come la passione sia divenuta dominante. Letteratura
degli strati più fondi della coscienza, letteratura del rifiuto di ogni
identità troppo netta, letteratura ermetica, mistica, intima, cui fa da
contrappunto una letteratura dell’entusiasmo, delle facili
affermazioni: in entrambi i casi si è usciti dai limiti dell’equilibrio
e della ragione, in entrambi i casi, seppur su fronti molto diversi, la
passione ha travolto il clericus e l’ha condotto da una parte verso una
ricerca interiore che appare a Benda come improduttiva, fallace e
indefinita73, dall’altra verso l’azione politica, troppo aderente alla
realtà, troppo sicura delle sue verità, di quelle verità che non
esistono per l’autore se non nella sfera dell’assoluto.
È di quest’ultimo aspetto che si occupa più in particolare La trahison,
dove il termine passion ritorna in maniera ossessiva ed indica
innanzitutto le passioni politiche: i titoli delle prime due sezioni (I
– «Perfectionnement moderne des passions politiques. L’âge du
politique» – II – «Signification de ce mouvement. Nature des passions
politiques».) sono illuminanti a tale riguardo: l’ascesa, il
progressivo movimento che abbiamo visto delinearsi in queste due parti
dell’opera trae infatti origine da un mutamento radicale che ha toccato
i letterati e, di conseguenza, le masse. Sempre più superficiale, ma
sempre più fanatico, l’attaccamento degli intellettuali e del popolo a
valori che si oppongono all’assoluto – nazionalismo, antisemitismo,
interesse di classe – si è radicato fortemente nell’esprit francese,
trasformandolo in breve tempo e cancellando i tratti che lo
caratterizzavano da secoli. L’unica forza che pare in grado di far
fronte a queste passioni perniciose è l’approccio razionale, cautamente
calibrato, perché anche «la passione della ragione è una passione, e
tutt’altra cosa dalla ragione74.
Il lemma passione, così importante nell’economia dell’opera, sembra
dunque costituire all’interno del testo un ponte tra passato e
presente, un pivot fondamentale attorno al quale si costruisce
l’impalcatura stessa della riflessione: partendo infatti dalla passion
concepita stoicamente come contrapposta alla ratio, Benda compie un
passo avanti e definisce l’evoluzione moderna di un fenomeno centrale
per la descrizione della società dei primi anni del secolo. Il nuovo
ruolo assunto dalle passioni spiega il passaggio all’âge du politique:
è infatti il ricorso smodato alle passioni che ha innescato interessi e
orgogli personali negli intellettuali, coinvolgendoli sempre più nelle
vicende politiche e negli affari sociali.
Tutto è portato ai limiti in Benda: quelle passioni che Croce accettava
con moderazione, ma soprattutto con la consapevolezza di chi non cede
alle facili soluzioni degli estremismi, incarnano per lo scrittore
francese la molla scatenante di un processo deleterio. Per capire i
fattori che portarono il filosofo italiano a maturare una posizione che
può apparire accomodante e incline alla negoziazione è forse opportuno
ricordare che nel giugno del 1920 egli accettò la direzione del
Ministero della Pubblica Istruzione nell’ultimo ministero
Giolitti: questi tentava in tal
modo, «salvare dalla rovina la […]
patria». Croce, dapprima smarrito, sente che, viste le condizioni in
cui si trova il suo paese, non può sottrarsi a tale onere, come, «per
poco guerriero che si sia, non ci sottrae alla chiamata militare»75.
Utili per capire il dissidio interiore del filosofo in questi anni
appaiono le lettere, e in particolare il carteggio con Vossler, dove lo
sviluppo del suo pensiero emerge a chiare lettere. Nelle riflessioni
compiute a posteriori nelle «Note autobiografiche», l’equilibrio tra i
bisogni dell’intelletto e l’ufficio sociale è ormai raggiunto, ma esso
ha seguito una lenta maturazione negli anni successivi al primo
conflitto mondiale. Già nel gennaio 1915, egli scrive: «in quanto
filosofo, sono nato nel cosmo, ma in quanto uomo sono nato in Italia»:
le ragioni del «cittadino», che abbiamo visto in altri testi presentate
alla terza persona, vengono qui assunte in prima persona76. Certo egli
rifiuta di «farsi un l’animo di guerra», come da più parti vien chiesto
agli studiosi77. Le dichiarazioni di questa lettera del luglio 1919
diverranno in seguito sempre più esplicite:
Io non mi sono mai collocato au dessus de la mêlée; ma ho stimato
dovere di coscienza di non falsificare mai la scienza e la storia per
un presunto dovere patriottico. Come dicevo agli amici, anche le donne
devono dare tutto se stesse alla patria; ma non perciò fare le
Giuditte, cioè le meretrici per la patria78.
La posizione di Croce durante il primo conflitto mondiale è ben
riassunta in una lettera, che è anche una confessione, del settembre
1919: egli scrive di essersi disposto a fronteggiare la nuova
situazione circoscrivendo il male, per timore di una completa
devastazione interiore: «Non credo che mi abbia guidato l’egoismo; è
stato piuttosto un sentimento di economia, perché quando
non si può far nulla di efficace, non val meglio accumulare lavoro e
serbare alla società qualche attitudine, utile in avvenire? [...]
Insomma, mi sono rifugiato in una sorta di umiltà religiosa»79. Ed ecco
che la chiamata al ministero nel 1920 viene allora vissuta come un modo
per riparare «a una troppo comoda condizione avuta, se non goduta,
durante la guerra80»: Benedetto Croce la vive, come ha modo di ripetere
più e più volte nelle sue lettere, come un servizio militare fatto in
ritardo:
E sebbene anch’io ora sia occupato nei pubblici affari, ti assicuro che
questo è forse il maggior sacrifizio che io abbia mai fatto per
adempimento di dovere. Lo faccio perché penso che tanta gente è stata
chiamata per farsi ammazzare, e dunque io devo prestare una sorta di
servizio militare e non lamentarmi81.
Gli eventi si fanno urgenti e il filosofo si trova spinto ad agire
fuori dalla sfera astratta del pensiero: la filosofia e la pratica, che
Croce ha sempre considerato come valori, pur distinguendo i loro
diversi ambiti, sembrano infine congiungersi. «Conoscere è conoscere, e
operare è operare», ma «quanto meglio si conosce il mondo, meglio si
opera82»: anche se si tratta di due atti spirituali distinti, l’uno può
trasfondersi nell’altro, arricchendolo di nuovi frutti.
La scissione assoluta preconizzata da Benda, che pare a tratti tentare
anche Croce, assume in quest’ultimo dei contorni molto più tenui: la
filosofia, che pure vive in suo ambito definito, ha il compito di
preparare l’azione, rischiarando e affinando gli animi; chi non coopera
all’azione, interviene comunque su di essa. Tuttavia, quando il fervore
degli eventi incalza, a nessuno è dato di tirarsi indietro e ciascuno,
secondo le proprie capacità, deve contribuire. Queste riflessioni,
presenti in nuce nei testi anteriori alla prima guerra mondiale,
trovano ampio sviluppo negli anni che la seguono, sollecitate senza
dubbio anche dalle vicende personali del pensatore italiano.
Esplicito senza mai essere perentorio, aperto a soluzioni divergenti ma
sicuro delle sue scelte, il discorso di Croce s’inoltra a tratti nei
campi semantici prediletti da Julien Benda: la convergenza di
interessi, l’incalzare degli eventi li inducono negli anni del primo
conflitto mondiale (e in quelli precedenti e successivi) a riflettere
su tematiche comuni, a ricorrere a simili esempi, a cercare forme di
espressione non difformi. Lo stesso Gramsci, rivedendo in un secondo
momento la possibilità di fare un paragone tra le idee dei due
pensatori, conclude che «in realtà tra il Croce e il Benda, nonostante
certe apparenze, l’accordo è solo superficiale o per qualche
particolare aspetto della quistione. Nel Croce esiste una costruzione
organica di pensiero, una dottrina dello Stato, sulla religione e sulla
funzione degli intellettuali nella vita statale, che non esiste nel
Benda, che è più che altro un «giornalista». Bisogna anche dire che la
posizione degli intellettuali in Francia e in Italia è molto diversa»83.
Affinità lessicali e profonde divergenze d’insieme, quindi: lo stile
«olimpico» dell’uno ricorda solo a tratti, nelle scelte terminologiche
e tematiche, le riflessioni irruente dell’altro. Nella pacata armonia
del filosofo italiano ritroviamo cenni, lontani echi lessicali, ma egli
li rielaborò per lo più fino a fonderli in un pensiero organico e
linguisticamente equilibrato.
Note
1. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, edizione critica
dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, 1975, 4 vols., vol. I,
1930, p. 285. Questa citazione è riportata da S. Teroni (op. cit., pp.
27-28), che ricorda come Gramsci ricevette La Trahison des clercs nel
carcere di Turi tra il marzo 1929 e il novembre 1930.
2. Ibid., vol. II, 1932-1935, p. 1303 e p. 1333.
3. Cfr. T. Goruppi, Intellettuali e potere nella
Francia dell’Ottocento, Paris, Champion, 1999, “Introduzione”, pp. 9-37.
4. Attorno a questo nuovo termine si creò, come ci
ricorda V. Brombert, molto fervore, sdegno e ironia: accusato di essere
una voce senza mandato, di essere arrogante e nemico dell’anima
nazionale dai revisionisti (“L’intellectuel se définit lui-même un
individu cultivé, mais
sans mandat […]”, M. Barrès, Scènes et doctrines du nationalisme,
Paris, Trident, 1987, p. 38), l’intellettuale era preso di mira non
solo dalla destra tradizionale, ma anche dall’estrema sinistra, che
vedeva in lui il nemico delle classi lavoratrici (cfr. V. Brombert,
L’eroe intellettuale, Napoli, Ed. scientifiche italiane, 1966, pp.
12-25).
5. La prima edizione de La Trahison des clercs è del
1927 e fu pubblicata dalla casa editrice Bernard Grasset. Quella cui
facciamo riferimento in questo studio è invece quella pubblicata nel
1975 dalle edizioni Grasset et Fasquelle, “Les Cahiers Rouges”, in
particolare p. 100.
6. Benda non credeva utile l’ottimistica presa
di posizione di Zola nell’affaire, non pensava cioè che essa potesse
essere di giovamento alla Francia; egli condivideva tuttavia con il
romanziere l’idea che bassi interessi politici e ostinate passioni
religiose erano alla base della vicenda, alimentata da odio e falsità
(cfr. l’Introduzione di S. Teroni alla versione italiana dell’opera, Il
tradimento dei chierici, Torino, Einaudi, 1976, p. 11).
7. Cfr. J. Benda, La France Byzantine, Paris,
Gallimard, 1945, “La littérature sujet philosophique”, pp. 13-14,
“Essai d’une psychologie originelle du littérateur”, pp. 151-179.
8. La trahiason, op. cit., p. 138, p. 156, p.
223. Benda si riferisce a un clergé che si rivolge ai suoi fidèles.
9. Ibid., p. 90.
10. Ibid., p. 106.
11. Ibid., p. 91. Nel Discours à la Nation
Européenne (la I edizione è del 1932; qui Torino, Libreria editrice
eclettica, 1945), Benda esordiva con questo titolo: “L’Europa non si
farà, se non adottando un certo sistema di valori morali. Necessità per
i suoi educatori di credere a un’azione morale trascendente l’economia”
(p. 11), e ribadiva alla fine della prima sezione del testo: “La
riabilitazione dell’Eterno è una delle prime battaglie che dovrete
impegnare”(p. 18).
12. Ibid., p. 222.
13. Ibid., p. 223.
14. Ibid., p. 238.
15. E. Littré, voce clerc, 2° (Dictionnaire de la
langue française, Paris, Hachette, 18731883); il termine clericus,
membro del clero, indicava l’uomo di lettere già nel latino medievale,
cfr. anche la stessa voce in W. Von Wartburg, Französisches
Etymologisches Wörterbuch, Leipzig, Berlin, Verlag, B. G. Teubner,
1928-1992, 15 vols.
16. La trahison, op. cit., pp. 131-132.
17. “Je rappelle que je regarde comme pouvant
dire: “Mon royaume n’est pas de ce monde” tous ceux dont l’activité ne
poursuit pas de fins pratiques: l’artiste, le métaphysicien, le savant
en tant qu’il trouve sa satisfaction dans l’exercice de la science, non
dans ses résultats”, ibid.,
p. 221, nota 6.
18 Ricordiamo che il termine deriva da Séide, nome proprio
del personaggio della tragedia Mahomet (1742) di Voltaire. Si tratta di
un nome ispirato da un personaggio storico, Zaydibn Harita, figlio
adottivo di Maometto. Nella tragedia di Voltaire, Séide è un servitore
fanatico, devoto al padrone al punto di commettere un crimine.
19. La critica di Benda muove principalmente contro
gli ideologi del nazionalismo, Barrès, Maurras, D’Annunzio,
Brunetière, Lemaître, Péguy, Kipling…
20. La trahison, p. 113 e p. 119; il concetto è in realtà
già espresso in precedenza, quando Benda parla di “personnalité
mystique”, (p. 108) con cui si identifica la volontà di coesione di
alcuni gruppi sociali (“ligues”, “unions”, “faisceaux”).
21. La trahison, p. 129.
22. Ibid., p. 48, p. 52: il termine ordre ricorre con
grande frequenza ne La trahison e definisce per l’autore un valore
eminentemente pratico. Sotto l’apparenza estetica dell’ordine si celano
infatti le peggiori ingiustizie sociali (cfr. pp. 46-47).
23 Ibid., p. 165.
24. Ibid., p. 154.
25. Nel Discours à la Nation Européenne, Benda,
rivolgendosi a chi dovrà formare la nuova coscienza degli europei, a
chi sarà incaricato di dare un nuovo sistema di valori, scrive: “Voi
dovete essere apostoli”, ed essere in grado di opporre al pragmatismo
nazionalista un altro pragmatismo, a idoli, altri idoli, a miti, altri
miti, a una mistica, un’altra mistica (op. cit., p. 17).
26. Erasmo è definito nel Discours à la Nation Européenne come un eroe dell’ideale europeo, op.cit., p. 38.
27. Ibid., pp. 153-156.
28. Ibid., p. 179; Benda scrive inoltre che oggi si
scorge ovunque “l’exaltation de la politique fondée sur l’expérience,
entendez selon laquelle une société doit se gouverner par les principes
qui ont prouvé qu’ils savent la rendre forte, et non par des ‘chimères’
qui tendraient à la rendre juste” (p. 177); d’altronde, leggiamo più
oltre, tra i “clercs modernes”,“pas un qui ne s’insurge si on le traite
d’utopiste” (p. 221). Un concetto simile sarà ripreso nel Discours à la
Nation Européenne: “L’idea che gli uomini si fanno dei loro atti è, per
la storia, anche più feconda di quegli atti”, op. cit., p. 24: la
nascita dell’Europa sancirà infatti “la vittoria di un’idea sull’amor
di quegli oggetti direttamente sensibili che son, rispetto ad essa, le
nazioni” (p. 35).
29. Ibid., p. 135.
30. Ibid., p. 103, nota 14.
31. In netta opposizione con la critica di
ispirazione marxista che proprio negli anni venti, con Lukács e poi,
più avanti, con Goldman, si muoveva nella direzione di una sociologia
della letteratura.
32. Nel 1900 Barrès era ricorso a questa parola ne
L’appel au soldat: il suo elogio del boulangismo lo portava ad indicare
come traditori tutti quegli intellettuali insensibili a ciò che egli
definiva la “vie propre, [le] caractèrere, [les] destinées” della
nazione francese. L’atteggiamento istintivo delle masse si
contrapponeva per lui al servilismo di “ces prétendus inventeurs de
leurs pensées”, divenuti dei veri e propri “traîtres à la race”
dimentichi della tradizione e dei propri avi (Paris, Juven, s.d., pp.
118-119). Lo stesso anno Zola riprendeva l’idea di tradimento nella
“Lettre au Sénat” pubblicata su L’Aurore il 29 maggio: egli ribaltava
l’accusa, e vedeva negli anti-dreyfusisti, innanzitutto i senatori,
coloro che hanno acconsentito a “trahir la justice”. L’idea di
tradimento era ripresa più volte nella lettera: il riferimento alle
tesi di Barrès e al nazionalismo francese di quegli anni diveniva a
tratti chiaro, come quando Zola affermava che il “nationalisme” era in
realtà una “exploitation […] grossière du noble amour de la patrie” che
tradiva la Francia con finzione e inganni. E il gioco di rimandi
continuava, perché, agli occhi di Zola, i dreyfysisti, spinti
dall’”unique passion de sauver l’honneur de la France” erano in realtà
dei “prétendus traîtres”, mentre i veri traditori andavano cercati
altrove, tra coloro che avrebbero votato l’amnistia per le persone
implicate nell’affaire: “Vous êtes des traîtres, les Ministres sont des
traîtres, le Président de la République est un traître. Et, lorsque
vous aurez voté la loi, vous aurez fait œuvre de traîtres, pour sauver
des traîtres” (in L’affaire Dreyfus, la vérité en marche, Paris,
Garnier-Flammarion, 1969, p. 179, p. 186, p. 188). La disputa sarebbe
continuata in seguito anche a livello lessicale: nel 1902, Barrès,
definendo la sua dottrina politica in Scènes et doctrines du
nationalisme, ricorreva con grande frequenza al termine trahison:
tradimento era innanzitutto quello di Dreyfus, sulla cui colpevolezza
Barrès sembrava non aver dubbi. “La trahison”, leggiamo nel testo
sopracitato, “est un acte qui ne comporte point de circonstances
atténuantes et qui se mesure socialement non aux intentions de
l’auteur, mais aux conséquences de l’acte”. Il danno alla patria e ai
suoi sacri valori sembrava essere la prima e più pericolosa conseguenza
dell’azione del generale; nessun riferimento a valori universali,
frutto di un “kantisme malsain”, ma il forte richiamo alla necessità di
agire secondo “l’intérêt français” del momento (op. cit., p. 30).
33. Contrasti di cultura e di popoli, in Cultura e
vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza, 1955, pp. 306-309, in
particolare p. 309.
34. “Quello del Croce è un ateismo da signori”,
scrive Gramsci negli anni trenta, “un anticlericalismo che aborre la
rozzezza e la grossolanità plebea degli anticlericali sbracati”
Quaderni del carcere, op. cit., 1932-1935, vol. II, p. 1303.
35. Risposta a una domanda, 13 dicembre 1920, in Pagine sparse, Bari, Laterza, 1960, vol. II, p. 255.
26. Contrasti di cultura e di popoli, 1925, in Cultura e vita morale, intermezzi polemici,
Bari, Laterza, 1955, p. 308.
37. Contrasti di cultura e di popoli, op. cit., p. 308.
38. Quaderni del carcere, 1932-1935, op. cit., vol. II, p. 1303.
39. Contro i sistemi definitivi, Cultura e vita morale, op. cit., 1916, p. 202.
40. Contrasti di cultura e di popoli, op. cit., p. 307.
41. La trahison, op. cit., pp. 131-132.
42. Lettera a René Johannet, 5 / VIII / 1919, op. cit., p. 253.
43. Troppa filosofia, «La Critica», 1923, pp. 61-64, in particolare p. 63.
44. La recensione è del 1927 e fu pubblicata sulla
rivista La critica di quello stesso anno, e successivamente in
Conversazioni critiche, Bari, Laterza, 1951, pp. 211-212, in particolare
p. 212. Le Lettres à Mélisande di Benda sono del 1925 (Paris, Le livre).
45. Cfr. La politica dei non politici, “La Critica”, 1925, pp. 190-192, in particolare p. 190 e
Ancora filosofia e politica, ibid., 1923, pp. 379-381, in particolare p. 380.
46. Cfr. Filosofia e guerra, ibid., 1915, pp. 396-399.
47. Astrattismo e materialismo politici, in Cultura e
vita morale, op. cit., pp. 182-190, in particolare p. 185.
48. Ibidem.
49. Libertà e dovere, in Cultura e vita morale, op. cit., pp. 301-305, in particolare pp. 304305.
50. Etica e politica, Bari Laterza, 1956 (I edizione
1931); si vedano tra gli altri i saggi: “L’intellettualità”, XLIV, pp.
195-197, “Giustizia internazionale”, pp. 353-357 e le parole
pronunciate il 19 maggio 1924 nella inaugurazione di una società di
cultura politica a Napoli, ibidem., pp. 363-369.
51. Nella lettera del 5 agosto 1919 a René Johannet,
scrittore monarchico e nazionalista, Croce spiegava di aver aderito
alla Déclaration per opporsi al “bestialisme national” con il quale
pensatori ed artisti avevano, durante la guerra, “enlaidi, avili,
abaissé, degradé la Pensée, dont ils étaient les Représentants”, Pagine
sparse, op. cit., pp. 252-253. Simili riflessioni si ritrovano in molti
brani di Pagine sulla guerra.
52. La protesta contro il manifesto degli
intellettuali fascisti, 1 maggio 1925, «La Critica», 1925, pp. 310-312.
53. Si vedano alcune lettere del carteggio con
l’amico Vossler, in particolare quella del 16 agosto 1914 (CLII) e
quella del 22 luglio 1919 (CLXIX), Carteggio Croce-Vossler, 1899-1949,
a cura di E.Cutinelli Rèndina, Edizione Nazionale delle opere di
B.Croce, Napoli, Bibliopolis, 1991, Scritti varii, VIII.
54. Lettera a Vossler del 22 luglio 1919.
55. Note autobiografiche, in Contributo alla critica di me stesso, Bari, 1956, p. 435.
56. Carteggio Croce-Vossler, op. cit, p. 187.
57. Lettera a Vossler del 2 settembre 1919, CLXXVI, ibid., p. 228.
58. Disinteressamento per la cosa pubblica, in Etica e politica, XXXVI, pp. 164-165. 59.
59. Ibid., p. 166.
60. False unificazioni e illegittime separazioni, ibid., XXXIX, p. 176.
61. La politica della virtù, ibid., XXI, pp. 98-99.
62. Ibid., p. 99.
63. Queste due concezioni, quella aristotelica e
quella stoica, si ritrovano in molti sistemi dottrinali successivi, ma
quella stoica ha avuto, come è noto, una maggiore diffusione per
l’influenza che ha esercitato sugli autori cristiani, che tuttavia
contrapponevano alle passiones non la tranquillità del mondo, ma la
sottomissione all’ingiustizia (per un’analisi più completa si veda
E.Auerbach, Gloria passionis, in Lingua letteraria e pubblico nella
tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1960, pp.
68-79).
64. La trahison, op. cit., p. 133.
65. Ibid., pp. 47-48; si veda anche la Préface all’edizione del 1946 e il capitolo II.
66. Ne La France Byzantine leggiamo d’altronde che
“la raison […] est un attribut de l’homme, du seul fait qu’il est
homme”, op. cit., p. 110. Nel Discours à la Nation Européenne, Benda
afferma che l’Europa non si farà se non “mettendo risolutamente le
opere dell’intelletto al di sopra di quelle della sensibilità, il
filosofo e lo scienziato al di sopra del poeta e dell’artista” op.
cit., (p. 40).
67. “Quelle que soit notre application, nous
n’arrivons pas à comprendre ce que c’est qu’un concept fluide”: così
scrive Benda ne Le bergsonisme, ou Une philosophie de la mobilité, del
1912 (Paris, Mercure de France, 1913, IVème édition, p. 55); il testo
offre una disamina attenta dei testi del filosofo francese che viene
duramente attaccato per il suo metodo di analisi, ritenuto incoerente,
confuso, basato su affermazioni gratuite e volutamente contrario a ogni
forma di razionalità; la filosofia di Bergson pretende, secondo
l’autore, di assurgere a una dottrina con intenti chiaramente dogmatici
(cfr. p. 5-6). Nelle pagine finali dell’opera, Benda conclude: “Nous
n’empêcherons pas les gens de croire qu’on leur a donné la lune, ni
M.Bergson d’exploiter leur crédulité”.
68. Si vedano tra gli altri, per questi riferimenti a
Bachelard e a Bergson, La trahison, op. cit., p. 71, 74, 167 e La
France byzantine, op. cit., p. 22, 23, 25, 39, 82, 124. I filosofi che
invece “hanno insegnato a pensare” sono per Benda: Socrate, Bacone,
Descartes, Kant (Discours à la Nation Européenne, op. cit., p. 54).
69. In Rousseau Benda apprezzava tuttavia un certo
conservatorismo che portava il ginevrino a voler mantenere i costumi e
le leggi di uno stato perché ogni cambiamento è imprevedibile e
pericoloso (cfr4. La trahison, p. 178, nota 81).
70. La trahison, p. 197, nota 114: “La conscience ne
nous trompe jamais; elle est à l’âme ce que l’instinct est au corps… La
philosophie moderne, qui n’admet que ce qu’on explique, n’a garde
d’admettre cette obscure faculté appelée instinct qui paraît guider
sans connaissance acquise, les animaux vers quelque fin”, Profession de
foi du vicaire savoyard; La France byzantine, pp. 45-46: “S’il est un
état où l’âme trouve une assiette assez solide pour s’y reposer tout
entière, et rassembler là tout son être, sans avoir besoin de rappeler
le passé ni d’enjamber sur l’avenir, où le temps ne soit rien pour
elle, où le présent dure toujours, sans néanmoins marquer sa durée et
sans aucune trace de succession, sans aucun autre sentiment de
privation ni de jouissance, de plaisir ni de peine, de désir ni de
crainte que celui seul de notre existence, et que ce sentiment seul
puisse la remplir tout entière; tant que cet état dure, celui qui s’y
trouve peut s’appeler heureux, non du bonheur imparfait, pauvre et
relatif, tel que celui qu’on trouve dans les plaisirs de la vie, mais
d’un bonheur suffisant, parfait et plein, qui ne laisse dans l’âme
aucun vide qu’elle sente le besoin de remplir”; si veda anche, in
quest’ultima opera, p. 24.
71. Ibid., p. 178, 180, 184, 193.
72. Ibid., note Q, p. 254.
73. Questo aspetto è analizzato in modo più dettagliato ne La France byzantine.
74. Discours à la Nation Européenne, op.cit., p. 17.
75. Note autobiografiche, op. cit., p. 436.
76. Lettera a Vossler del 9 gennaio 1915, CLX, op. cit., p. 194.
77. “Di anima ne ho una sola, e non posso cangiarla
ad arbitrio”, Lettera a Vossler del 2 settembre 1919, CLXXVI, ibid., p.
228.
78. Lettera a Vossler del 22 luglio 1919, CLXIX, ibid., p. 209.
79. Lettera a Vossler del 27 settembre 1919, CLXXIX, ibid., pp. 235-236.
80. Lettera a Vossler del 27 luglio 1920, ibid., CXCIX, p. 273.
81. Lettera a Vossler del 24 ottobre 1920, ibid., p. 284.
82. Ancora filosofia e politica, in La critica, 1925, p. 380.
83. Quaderni del carcere, vol. II, op.cit., pp. 1333-1334.