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Per Brigantaggio postunitario si intende una forma di movimento
armato che, già presente sotto forma di banditismo nel sud
peninsulare e in Sicilia in età borbonica e murattiana, si
sviluppò ulteriormente subito dopo l'annessione del Regno
delle Due Sicilie al Regno di Sardegna (da cui ebbe origine lo stato
Italiano) assumendo spesso le connotazioni di una rivolta popolare.
Con l'appoggio del governo borbonico in esilio e dello Stato
Pontificio, la ribellione fu condotta principalmente da elementi del
proletariato rurale ed ex militari borbonici (oltreché da
renitenti alla leva, disertori ed evasi dal carcere) che, spinti da
diverse problematiche economiche e sociali[, si opposero alla
politica del nuovo governo italiano. Secondo alcuni storici, fu la
prima guerra civile dell'Italia, che infiammò la nazione
appena unificata sino al 1870.
Storia
Origini ed evoluzione
All'indomani della spedizione dei mille e della conseguente
annessione del Regno delle Due Sicilie al nuovo Regno d'Italia,
diverse fasce della popolazione meridionale cominciarono ad
esprimere il proprio malcontento verso il processo di unificazione.
Questo malcontento era generato innanzitutto da un improvviso
peggioramento delle condizioni economiche dei braccianti della
provincia meridionale, che, abituati ad una condizione economica
povera ma sopportabile (caratterizzata da un costo della vita
moderato, da una bassa pressione fiscale e dalla libera vendita dei
prodotti agricoli) si ritrovarono a dover fronteggiare un nuovo
regime fiscale per loro insostenibile e una regolamentazione del
mercato agricolo svantaggiosa per loro sotto ogni aspetto. Un altro
importante motivo che spinse alla rivolta i contadini fu la
privatizzazione delle terre demaniali a vantaggio dei vecchi e nuovi
proprietari terrieri, che così ampliarono legalmente i loro
possedimenti in cambio di un maggior controllo del territorio e
della fedeltà al nuovo governo. Tutto ciò danneggiava
i braccianti agricoli più umili, cioè quelli che
lavoravano a giornata con lavoro precario e senza un rapporto di
radicamento nel territorio, che con la sottrazione delle terre
demaniali da loro utilizzate si ritrovarono a dover vivere in
condizioni economiche ancora più disagiate e precarie
rispetto al passato. A tutto ciò si aggiunse l'entrata in
vigore della leva obbligatoria di massa, che in periodo borbonico
avveniva invece tramite sorteggio e interessava solo pochi uomini,
essendo l'organico dell'esercito borbonico, diversamente da quello
piemontese, in parte costituito da truppe straniere.
In tale contesto si cominciarono a formare, oltre alle bande di
contadini e pastori che si davano al brigantaggio come estrema forma
di protesta, anche gruppi organizzati di ex soldati del disciolto
esercito napoletano, rimasti fedeli alla dinastia borbonica. Tra
questi si inserirono anche malviventi e latitanti di vecchia data,
adusi a vivere alla macchia. Inoltre, in taluni posti, erano
avvenuti da parte dell'esercito di Vittorio Emanuele eccidi e
devastazioni (come il massacro di Pontelandolfo il 14 agosto 1861) a
causa dei quali i sabaudi non si erano fatti certo amare.
Da ultimo, ma non per importanza, l'annessione al Regno d'Italia era
sentita dalla parte della popolazione con sentimenti religiosi come
una minaccia alla propria fede cattolica e alle proprie tradizioni.
La componente religiosa ebbe un'importanza determinante sia
perché durante il Risorgimento crebbe una forte connotazione
anticattolica, in particolare a causa della questione romana, ragion
per cui non poteva godere di un vasto consenso in tutte le classi
della popolazione, soprattutto quella rurale, allora intensamente
ancorata al proprio sentimento religioso, anche perché il
basso clero, a contatto diretto con queste popolazioni, rafforzava
l'idea che i liberali "massoni e senza Dio", volessero abbattere
radicalmente la "Santa Madre Chiesa". Inoltre dal vicino Stato
pontificio, in cui si erano rifugiati i reali borbonici, arrivarono
aiuti e costanti incitamenti (fino al 1867) alla lotta armata senza
quartiere contro uno Stato che aveva espropriato i beni dei conventi
e minacciava la stessa sopravvivenza del potere temporale del Papa.
L'inizio della rivolta 1860-61
Già nell'ultima fase della spedizione dei mille i borbonici,
asserragliati a nord del Volturno intorno Gaeta, avevano deciso di
fare ricorso a formazioni armate irregolari a supporto delle truppe
regolari ancora attive tra il Sannio e l'Abruzzo, al fine di coprire
il fianco rispetto all'avanzata verso sud dell'esercito sardo,
guidato dal generale Enrico Cialdini.
Nell'autunno 1860 P. Ulloa, ministro della Polizia borbonico diffuse
un documento di istruzioni per la Brigata di Volontari stanziata a
Itri, con le seguenti indicazioni: 1) ricostruire il governo di Sua
Maestà (D.G.), 2) disarmo delle guardie nazionali e
conseguente armamento di chi si unisse alla colonna dei volontari,
3) impadronirsi della casse pubbliche, 4) possibilità di
imporre tasse per i bisogni dei volontari, 5) possibilità di
esigere il pagamento delle tasse in equivalenti in cereali in
mancanza di denaro, 6) arrestare chi si opponesse alla colonna o
potesse successivamente recarvi danno, agendo alle sue spalle, 7)
arrestare ugualmente chi potrebbe agitare lo spirito pubblico contro
la monarchia, 8) tenere stretti collegamenti con i propugnatori
della causa regia, 9) mantenere l'ordine e il rispetto della
religione e dei suoi ministri, 10) proclamare l'antica
fedeltà degli abitanti verso Sua Maestà e l'avversione
contro gli invasori del Regno.
Conseguentemente a queste istruzioni si mosse una colonna agli
ordini del prussiano Klitsche De La Grange diretta verso l'Abruzzo e
la fortezza di Civitella del Tronto con l'obiettivo di provocare una
serie di focolari di ribellione in grado di tagliare i collegamenti
fra le truppe di Garibaldi a sud e quelle piemontesi a nord. La
colonna non era costituita da truppe di linea, impegnate nella
difesa dell'area circostante Gaeta e Capua, ma da uomini della
milizia urbana e polizia siciliana ritiratasi sul continente. A
questa seguirono altre due colonne, guidate dai generali Scotti
Douglas e von Meckel, sempre dirette verso gli Abruzzi e il Molise.
Questa guerra civile interessò quasi tutte le regioni
dell'entroterra del regno borbonico annesso al nuovo regno sabaudo
italiano, tuttavia il fenomeno fu del tutto assente in quelle
regioni del meridione in cui le condizioni economiche erano
decisamente migliori, come ad esempio nelle aree urbane e
industrializzate, nelle zone agricole più produttive e
nell'amplissima fascia costiera del Mezzogiorno e della Sicilia.
Infatti la Relazione parlamentare "Massari" del 1863 testualmente
riporta: "...Nella provincia di Reggio Calabria difatti, dove la
condizione del contadino è migliore, non vi sono briganti."
Una delle zone più strategiche delle forze dei briganti
divenne per l'appunto il Vulture e il suo capo più
rappresentativo fu Carmine Donatelli Crocco di Rionero in Vulture.
Esecuzioni e Propaganda
« I militari solitamente così avari di immagini,
rivelano un'improvvisa prodigalità fotografica durante la
repressione del brigantaggio, negli anni successivi all'incontro di
Teano. Ecco che d'un tratto l'impassibilità distante e
oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri
prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a
mettere in posa i fucilati davanti all'obiettivo, organizzano messe
in scena in cui gli ancora vivi recitano la parte del brigante. Una
folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo
macabro alla storia della nazione. »
( Giulio Bollati, L'Italiano, Einaudi, Torino,
1983, pp. 142-143.)
Le pubbliche esecuzioni e l'esibizione esemplare dei giustiziati
(pratica piuttosto diffusa nel XIX secolo) furono largamente
impiegate come monito e come strumento propagandistico al fine di
rendere popolare la guerra condotta dal Regio Esercito per reprimere
le rivolte nel meridione.
Il brigantaggio si contrappose prima alle milizie civiche, armate
dai notabili e dai possidenti meridionali, che più ebbero a
soffrire della stagione di violenze e poi all'esercito italiano,
generalmente indicato come 'piemontese'. Due tra i più famosi
comandanti militari della repressione sabauda furono Cialdini,
modenese, ed Emilio Pallavicini, genovese. L'azione delle bande,
diffusa un po' in tutto il territorio continentale appartenuto
all'ex-Regno delle Due Sicilie, è stata definita, a seconda
del punto di vista: brigantaggio secondo la storiografia prevalente,
rivolta come resistenza all'annessione al Regno sabaudo secondo la
storiografia revisionista meridionalista.
All'estremo sud continua a resistere, e lo farà sino alla
primavera del 1861, la cittadella di Messina (che, già nel
luglio 1860 aveva smesso di combattere, pattuendo di liberare la
città e di non ostacolare Garibaldi nel passare lo stretto) e
solo il 20 marzo 1861, tre giorni dopo la proclamazione
dell'Unità d'Italia, si arrese la guarnigione della
cittadella di Civitella del Tronto, al confine tra Abruzzo e Marche.
A seguito della partenza dei Borbone di Napoli, dopo la sconfitta
subita nella battaglia del Volturno e dell'assedio di Gaeta, il
partito legittimista prese ad organizzarsi per tentare di cacciare
l'invasore (supportati dai Borbone di Napoli, esuli a Roma, un poco
dai Borbone di Spagna, dalla nobiltà legittimista e da una
parte del clero).
Nelle formazioni irregolari, che la popolazione locale denominava
masse, affluirono migliaia di uomini: ex soldati dell'esercito
sconfitto e disciolto, coscritti che rifiutavano di servire sotto la
bandiera italiana, popolazione rurale, banditi di professione e
briganti stagionali, che si dedicavano già alle grassazioni
nei periodi nei quali non potevano trovare impiego in agricoltura.
Si registravano sollevazioni diffuse, seguite dal rovesciamento dei
comitati insurrezionali, sostituiti con municipalità
legittimiste. A Napoli, l'ex-capitale travagliata da una grave crisi
economica, agiva la propaganda del comitato borbonico della
città, che riuscì, perfino, a organizzare una
manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia. Nel mese di
aprile venne sventata una cospirazione anti-unitaria e arrestate
oltre seicento persone, fra cui 466 ufficiali e soldati del
disciolto esercito borbonico.
Nella primavera del 1861 la rivolta divampava ormai in tutto il
Mezzogiorno continentale, assumendo spesso le forme di estese
jacquerie contadine e, come tali, votate alla sconfitta nel loro
impari confrontarsi con un moderno esercito calato in forze a
combatterle. Si materializzava, tuttavia, il rischio concreto di un
collegamento di tutte le formazioni della rivolta, dalla Calabria
alle province contigue allo Stato Pontificio, dove risiedeva il re
deposto, Francesco II, con un'azione centrata fra Irpinia e Lucania,
ciò che condusse ad un incremento notevole sia delle forze
impegnate, sia della ferocia con la quale la repressione delle
insorgenze fu attuata.
La repressione di Cialdini - 1861
Nel luglio 1861 venne inviato a Napoli il generale Enrico Cialdini,
con poteri eccezionali per affrontare l'emergenza del brigantaggio.
Egli seppe rafforzare il partito sabaudo, arruolando militi del
disciolto esercito meridionale di Garibaldi e perseguendo il clero e
i nobili legittimisti.
In una seconda fase, comandò una dura repressione messa in
atto attraverso un sistematico ricorso ad arresti in massa,
esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste
azioni contro interi centri abitati: fucilazioni sommarie e incendi
di villaggi erano frequenti, restano presenti nella memoria storica
gli eccidi dei paesi Casalduni e Pontelandolfo nell'agosto 1861,
messi a ferro e fuoco dai bersaglieri, per rappresaglia dopo il
massacro di oltre 40 militari regolari perpetrato da briganti con
l'appoggio di elementi attivi della popolazione locale.
L'obiettivo strategico consisteva nel ristabilire le vie di
comunicazioni e conservare il controllo dei centri abitati. Le forze
a sua disposizione consistevano in circa ventiduemila uomini, presto
passate a cinquantamila unità nel dicembre del 1861. I suoi
metodi repressivi impressionarono perfino il governo di Torino e
scandalizzarono la stampa estera, per cui Cialdini venne sospeso nel
settembre di quello stesso anno e sostituito dal generale Alfonso La
Marmora.
Gli strumenti a disposizione della repressione venivano, nel
frattempo, incrementati, con la moltiplicazione delle taglie e
l'istituto delle deportazioni: questa era la forma di quei tempi del
domicilio coatto. Il 15 agosto 1863 venne emanata la legge Pica, che
prese il nome dal redattore della legge l'abruzzese Giuseppe Pica,
una legge speciale adottata in deroga agli articoli 24 e 71 dello
Statuto albertino, articoli che garantivano, rispettivamente, il
principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la
garanzia del giudice naturale connessa al divieto di costituire
tribunali speciali. Tale legge colpiva non solo i presunti e veri
briganti, ma affidava al giudizio dei tribunali militari anche i
loro parenti e congiunti o semplici sospetti di collaborazione coi
briganti.
A cavallo degli anni 1862-66 le truppe dedicate alla repressione
vennero aumentate sino a 105.000 soldati, circa i due quinti delle
forze armate italiane del tempo. Il generale Emilio Pallavicini, che
alla dura repressione preferiva favorire il "pentitismo" tra i
briganti, giunse ad eliminare le grandi bande a cavallo con i loro
migliori comandanti: il 5 gennaio 1863 venne ucciso in combattimento
Pasquale Romano, attivo nella zona di Bari, e nativo di Gioia del
Colle, era un ex tenente dell'esercito borbonico considerato un
abile stratega: la sua morte in battaglia rappresentò la fine
della guerriglia organizzata militarmente in Puglia, nel corso
dell'anno furono sgominate le bande di Crocco, sopratutto dopo dopo
la resa di Giuseppe Caruso avvenuta il 14 settembre 1863 e la sua
collaborazione con le autorità italiane, nella zona di Foggia
Michele Caruso fu fucilato il 23 dicembre dello stesso anno, e
Carmine Crocco, incalzato senza tregua dalla truppe italiane, venne
arrestato dalle guardie pontificie il 25 agosto 1864, dopo essere
riparato nel Lazio ove sperava di ricevere aiuti.
La continuazione sporadica della rivolta 1866-70
Con le sue azioni, il Pallavicini aveva raggiunto l'obiettivo
strategico principale della lotta contro il brigantaggio,
cancellando le premesse per una possibile sollevazione generale e
militarmente coordinata dei guerriglieri delle province meridionali:
l'insurrezione non era ancora terminata, come dimostrò pure
la rivolta del sette e mezzo in una città importante quale
Palermo, ma venne meno qualsiasi carattere di azione collettiva, si
affievoliva l'appoggio popolare. La resistenza degenerò
così, sempre più spesso, in mero banditismo.
Nel 1867, infatti, Francesco II delle Due Sicilie sciolse il governo
borbonico in esilio. Continuava l'azione di poche e isolate bande
d'irriducibili ma, vista l'impossibilità di ottenere
risultati politici e per non logorarsi in un'eterna guerra civile,
la spinta insurrezionale volgeva gradualmente al termine.
Alla fine del brigantaggio contribuì anche il cessare
dell'appoggio da parte dello stato pontificio, che per i primi anni
costituiva una terra di rifugio ed asilo a tutti quelli che
sconfinavano nel suo territorio. Nel 1864 la rivista Civilta'
cattolica scriveva: "una delle piaghe piu cancrenose del preteso
regno d'Italia e' il cosiddetto brigantaggio che da quattro anni
infierisce nelle province meridionali", e dopo aver descritto e
denunciato le azioni repressive del governo e l'impoverimento delle
popolazioni causato dall'incremento dei prezzi e concludeva "che la
cagione del brigantaggio e' politica, cioè l'odio al nuovo
Governo".
Nello stesso stato pontificio per meglio combattere il brigantaggio
nelle provincia di Frosinone nel 1865 venne istituito, dal conte
Leopoldo Lauri, comandante della gendarmeria un corpo di
"squadriglieri" formato da montanari volontari, abili conoscitori
dei luoghi, che arrivò a contare fino a 1443 armati nel 1870.
Nel 1867 la stessa rivista riportava un editto del 17 marzo 1867 del
monsignor Luigi Pericoli, Delegato apostolico, emanato allo scopo di
estirpare il brigantaggio dalle province di Frosinone e Velletri. Il
contenuto dell'editto era preceduto dalla premessa che "tra le
miserande conseguenze dell'usurpazione violenta del reame di di
Napoli, si ha purtroppo da deplorare già da sette anni, e
produsse già troppe rovine, quella del brigantaggio, che
imperversa sulle frontiere delle province meridionali dello stato
Pontificio, dove si annido' fra le giogaie de' monti e le selve
inestricabili, per quinci piombare, quando dall'uno o dall'altra
parte dei due stati confinanti, a compiere le più esecrabili
ribalderie". Tra le varie norme introdotte l'editto considerava
"conventicola" (vietata) anche la riunione di due soli briganti
armati, taglie variabili da 2500 a 6000 lire per la consegna o
uccisione di briganti e premi in denaro per briganti che consegnino
alla giustizia loro compagni (sia vivi che morti), 10 - 15 anni di
galera per chi ostacolasse la lotta al brigantaggio, possibile
allontanamento dalla provincia di dimora dei familiari di briganti,
divieto di muoversi in campagna portando con sé un eccesso di
viveri e di indumenti, divieto di assumere come pastori o custodi
per il bestiame di parenti di briganti, la chiusura di osterie, case
di campagna e distruzione di capanne che potessero servire come
rifugio ai briganti. Infine l'articolo della rivista riporta
l'accordo verbale, che "potrebbe riuscire salutare ed efficace",
stabilitosi fra il comandante delle truppe pontificie e quello delle
truppe di Vittorio Emanuele II che permise alle truppe di uno stato
di sconfinare nell'altro durante l'inseguimento di briganti in fuga.
L'accordo, è noto come "Convenzione di Cassino", dal nome del
paese in cui il 24 febbraio 1867 questo venne sancito dall'incontro
fra il Conte Leopoldo Lauri Maggiore Comandante la 2a suddivisione
della gendarmeria della provincia di Frosinone e Lodovico Fontana
Maggior Generale Comandante la 1a zona militare di Cassino[16];
nella sostanza l'accordo di collaborazione sullo sconfinamento delle
truppe riprendeva quello stipulato il 4 luglio 1816 tra il governo
papale e quello borbonico, che era stato prontamente ripristinato il
19 luglio 1918 dopo la caduta di Murat[17].
Nel 1869 furono catturati i guerriglieri delle ultime grandi bande
con cavalleria e a gennaio 1870 il governo italiano soppresse le
zone militari nelle province meridionali, sancendo così la
fine ufficiale del brigantaggio.
Sempre nel 1870, Civiltà Cattolica pubblicava un articolo
intitolato Il brigantaggio distrutto negli stati pontifici, in cui
affermava che negli Stati del Papa il brigantaggio è
già da più mesi del tutto estinto: ovechè negli
Stati occupati da Vittorio Emmanuele seguita ad inferocire, lo
stesso articolo, non firmato, ma attribuibile a P. Piccirillo
direttore della rivista[16], forniva alcune cifre sulla lotta al
brigantaggio negli stati pontifici attuata dal novembre 1865, anno
in cui la responsabilità dell'ordine pubblico in quegli stati
passo' dalle truppe francesi a quelle pontificie, al novembre 1869:
42 uccisi e 23 feriti nelle milizie papaline, 447 briganti
catturati, di cui 240 indigeni delle province papaline, 48 briganti
uccisi in combattimento "oltre i non pochi i quali, mortalmente
feriti al lembo della frontiera e trafugati nottetempo, sono iti a
spirare nel territorio assoggettato al regno d'Italia", 17 fucilati
alle spalle, 54 condannati alla galera perpetua e 409 persone
arrestate per complicità'.
Le condizioni economiche e sociali
« Il brigantaggio diventa la protesta selvaggia e brutale
della miseria contro secolari ingiustizie, congiunta ad altri mali
che la infausta signorìa dei Borboni creò e ha
lasciati nelle province napoletane: l'ignoranza, la superstizione e
segnatamente, la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella
giustizia. »
(Giuseppe Massari)
Brigantaggio in Basilicata
La Basilicata fu tra le regioni con il più alto tasso di
brigantaggio e in cui vi furono le bande più grandi e
agguerrite. Nel 1860, a seguito dello sbarco di Garibaldi in
Sicilia, i signori lucani fino a quel momento fedeli alla corona
borbonica aderirono ai moti liberali, poiché il programma
unitario avrebbe permesso loro di mantenere i privilegi e di
rimanere classe dirigente. Anche il popolo lucano, che versava in
una condizione di miseria, vide nella spedizione garibaldina una
speranza di migliorare il proprio stile di vita e solidarizzò
con i moti unitari poiché il comitato insurrezionale lucano,
presieduto da personalità come Giacinto Albini (l’unico
liberale più convinto e coerente secondo Tommaso Pedio),[19]
Nicola Mignogna e Pietro Lacava, promise loro l'abolizione del
latifondismo e una redistribuzione delle terre.
Compiuta l'unità, l'illusione del popolo venne tradita. Il
comitato prodittatoriale lucano non mantenne le promesse e le terre
rimasero di proprietà del ceto borghese, i cui interessi non
furono intaccati. In aggiunta, il popolo vide un aumento delle tasse
e l'introduzione del servizio militare obbligatorio (che
precedentemente era riscattabile sotto il Regno delle Due Sicilie) e
molti renitenti alla leva vennero fucilati sul posto e senza neanche
aver la possibilità di giustificarsi, episodi del genere
accaddero, ad esempio, a Castelsaraceno, Carbone e Latronico.[20]
Essendo l'unico strato sociale a non aver guadagnato nulla con il
nuovo regime, il popolo iniziò ad imbracciare le armi e si
formarono bande di briganti in tutta la regione. Il governo
borbonico in esilio colse l'occasione di provare a riprendersi il
regno perduto, accattivandosi le simpatie dei briganti promettendo
loro privilegi a cui furono sempre negati. Al popolo lucano non
importava chi comandasse, il loro unico bisogno era la speranza di
una vita migliore.
L'alveo delle forze dei briganti divenne l'area del Vulture ed il
suo capo più rappresentativo fu Carmine "Donatello" Crocco di
Rionero in Vulture, già bandito sotto il vecchio regime e che
si arruolò tra i garibaldini nella speranza che il nuovo
governo avesse redento il suo passato ma, non ottenendo l'amnistia,
fu incarcerato e in seguito evase, unendosi alla reazione
legittimista organizzata dai notabili filoborbonici. Nel suo
esercito (che raggiunse le 2.000 unità), vi erano altri noti
e temibili briganti come Giuseppe Nicola Summa (noto come Ninco
Nanco), Giuseppe "Zi' Beppe" Caruso, Giovanni "Coppa" Fortunato,
"Caporal" Teodoro Gioseffi. L'esule governo napoletano mandò,
in aggiunta, alcuni agenti legittimisti, come il generale spagnolo
José Borjes e il francese Augustin De Langlais, per
organizzare e disciplinare le bande.
Crocco e i suoi uomini misero a ferro e fuoco la zona del Vulture,
ma anche l'Irpinia e la Capitanata, il loro principale bersaglio
erano gli esponenti liberali, che si disinteressarono dei problemi
del volgo, e i grandi proprietari terrieri che mantennero la loro
posizione predominante nei loro possedimenti con l'unità
nazionale. I notabili venivano brutalmente massacrati dai briganti
e, se lasciati in vita, erano costretti a rifornire le bande per
evitare una morte sicura. Sotto la furia dei briganti potevano
incappare anche civili, ma nella maggior parte dei casi, Crocco e la
sua armata vennero acclamati dal popolo e furono da esso sostenuto.
L'insurrezione brigantesca fu soffocata nel sangue. Gli ufficiali
del regio esercito italiano ordinarono esecuzioni sommarie, a cui
parteciparono anche uomini della legione ungherese. A Trivigno, una
pattuglia dell'esercito italiano fece un rastrellamento,
fucilò alcuni prigionieri ed emanò un bando che
prevedeva il perdono a chi si fosse costituito alle autorità.
28 ricercati si presentarono e, nonostante la promessa, furono
fucilati senza processo. A Ruvo del Monte, dopo l'assedio di Crocco
in cui vennero uccise 17 persone tra possidenti e liberali, un
reparto di 1500 soldati, tra bersaglieri e guardie Nazionali
provenienti da Rionero, comandati dal maggiore Guardi, ordina la
perlustrazione e la fucilazione di un numero imprecisato di ruvesi.
Dopo lo sterminio, Guardi ordinò ai notabili del posto di
provvedere ai bisogni della truppa e, davanti al loro rifiuto,
comandò il loro arresto con l'accusa di attentato allo stato
e manutengolismo.
A Lavello, 20 briganti furono fucilati da un contigente di ussari.
Altri eccidi si registrarono a Venosa e Barile. Con la promulgazione
della legge Pica, in meno di sei mesi, in Basilicata furono
incarcerate per complicità o sospetto di aderenza ai briganti
2.400 persone, di cui la metà "mandata innanzi a giudici
militari o civili"; di questi, 525 persone, tra cui 140 donne,
finirono al confino.
Anche nella provincia di Matera il fenomeno fu di non minore
eclatanza ed ebbe come episodio precursore l'uccisione di un
latifondista, il Conte Gattini, avvenuta l'8 agosto 1860 a Matera. I
contadini materani infatti si sollevarono contro i proprietari
terrieri a causa delle lentezze nella ripartizione delle terre
demaniali ai privati, ed alla vigilia dell'Unità cominciarono
a essere aizzati da quella parte della nobiltà, reazionaria e
legittimista, che mal sopportava la venuta del nuovo regime e che
incalzata dalla storia andava promettendo redistribuzioni di terre
in caso di vittoria. Tra le varie bande esistenti nel materano le
più importanti erano quella di Rocco Chirichigno, detto
Coppolone, di Montescaglioso, quella di Vincenzo Mastronardi, detto
Staccone, di Ferrandina, quella di Eustachio Fasano ed Eustachio
Chita detto Chitaridd a Matera. Quest'ultimo viene considerato
l'ultimo brigante in quanto anche dopo la sconfitta del brigantaggio
post-unitario continuò a operare in maniera isolata fino alla
sua uccisione avvenuta nel 1896.
Brigantaggio in Calabria
« Finora avemmo i briganti ora abbiamo il brigantaggio, e tra
l'una e l'altra parola corre grande divario.Vi hanno briganti quando
il popolo non li ajuta, quando si ruba per vivere e morire con la
pancia piena; e vi ha il brigantaggio quando la causa del brigante
è la causa del popolo,allorquando questo lo ajuta, gli
assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni.
Ora noi siamo nella condizione del brigantaggio. »
(Vincenzo Padula)
In Calabria, diversamente dalle altre province meridionali, il
brigantaggio postunitario non seguì la corrente politica
finalizzata a restaurare la spodestata monarchia Borbonica sul trono
di Napoli.[27] Pochissime, infatti, furono le bande legittimiste,
quella di Luigi Muraca ne è un raro esempio. In prevalenza le
bande calabresi preferirono restare estranee ai grandi avvenimenti
del brigantaggio politico lucano e pugliese, poiché il
malcontento che esplose in Calabria era dovuto essenzialmente alla
mancata risoluzione della questione agraria. Le province in rivolta
furono quelle della Calabria Citra (Cosenza) e la parte catanzarese
della Calabria Ultra mentre il fenomeno era del tutto inesistente in
quel di Reggio Calabria. Dopo l'annessione delle province
meridionali al Regno di Sardegna (Plebiscito del 21-22 ottobre 1860)
un generale malessere si diffuse in tutta la Calabria, allorquando
le promesse fatte ai contadini non vennero mantenute.
Con l'Editto di Rogliano (31 agosto 1860) Garibaldi aveva concesso
alle popolazioni contadine del circondario di Cosenza gli usi
gratuiti del pascolo e della semina sui terreni del demanio statale.
Il 5 settembre 1860 il nuovo governo liberale della Calabria Citra,
con a capo Donato Morelli,apportò importanti modifiche
all'Editto favorendo di fatto i vecchi proprietari terrieri,
ciò scatenò la reazione popolare e la nascita del
movimento contadino che tra il gennaio e il luglio 1861 portò
all'occupazione dei fondi demaniali da parte della popolazione delle
campagne cosentine e catanzaresi. Il movimento venne stroncato sul
nascere con l'intervento della forza pubblica che estromise con
violenza gli occupanti dai fondi. Con la proclamazione del Regno
d'Italia (17 marzo 1861) e la conseguente "piemontesizzazione " del
territorio la situazione peggiorò ulteriormente. Lo
smantellamento del Polo siderurgico di Mongiana (VV) contribui' al
fenomeno della disoccupazione. Tutte queste cause portarono, in
Calabria, all'ingrossamento delle file brigantesche. Nelle bande
dedite al brigantaggio affluirono quindi: contadini senza terra,
braccianti, ex soldati borbonici ed ex volontari unitisi ai
garibaldini nel corso della Spedizione dei Mille, renitenti alla
Leva e delinquenti comuni, ma anche preti, poveri indebitati e
donne. Il brigante più famoso di tutti fu Pietro Monaco,
già ex soldato borbonico ed ex garibaldino, che aveva la sua
base operativa tra i boschi della Sila Grande, mentre nella Sila
Greca dominava l'imprendibile Domenico Straface alias Palma,
già brigante ai tempi del Borbone. Sul versante catanzarese
c'erano le bande di Pietro Bianco e di Pietro Corea a farla da
padrone. Tra le donne la più famosa fu Maria Oliverio, moglie
di Monaco.
La "guerra" di Monaco e compagni fu una "lotta contadina" contro
baroni e galantuomini, che si erano schierati per i loro interessi
con i nuovi governanti. I briganti della Sila combattevano quindi
per se stessi, ed erano "costretti" a far la guerra contro i soldati
italiani sia per legittima difesa e sia perché l'Esercito
rappresentava un governo che si era apertamente schierato con i
ricchi possidenti e contro pastori e contadini. Obiettivo delle
bande era l'invasione delle proprietà terriere e la
depredazione delle stesse, spesso seguita dall'incendio di campi e
palazzi e dall'uccisione dei capi di bestiame. Non mancavano
però gli omicidi, i sequestri di persona, gli assalti alle
diligenze; il bottino veniva poi spartito tra la banda e il popolo
affamato.
Secondo le stime di alcuni giornali stranieri che si affidavano alle
informazioni ufficiali del nuovo Regno d'Italia, in un solo anno,
dal settembre del 1860 all'agosto del 1861, vi furono nell'ex Regno
delle Due Sicilie:
8.964 fucilati,
10.604 feriti,
6.112 prigionieri,
64 sacerdoti uccisi,
22 frati uccisi,
60 ragazzi uccisi,
50 donne uccise,
13.529 arrestati,
918 case incendiate,
6 paesi dati a fuoco,
3.000 famiglie perquisite,
12 chiese saccheggiate,
1.428 comuni sollevati;
Le cifre sulla durissima repressione che il governo di Torino
attuò nella lotta al brigantaggio meridionale, sono in
evidente discordanza tra loro. Basta passare da un testo all'altro
di storia che i numeri cambiano notevolmente, crescendo o
decrescendo, a secondo delle fonti di origine. Solo sulle forze in
campo dell'esercito regolare piemontese ci si riesce a mettere tutti
d'accordo: dagli iniziali 15.000 soldati stanziati alla fine del
1860 ai 22.000 d'inizio '61, portati a 50.000 nel dicembre dello
stesso anno. Dai 105.000 del '62 all'aumento fino a 120.000
unità dal 1863 fino al 1865. All'elenco delle vittime della
repressione sabauda, riportato sopra, possiamo aggiungere quanto
riferito da Giuseppe Massari: dal 1861 alla primavera del 1863
l'esercito piemontese perse 26 ufficiali e 367 soldati mentre tra i
briganti si ebbero 2.413 morti in combattimento, 1.038 fucilati e
2.768 arrestati. Da una dichiarazione fatta da Alfonso La Marmora
alla commissione d'inchiesta sul brigantaggio (della quale lo stesso
Massari faceva parte) e riferita allo stesso periodo di tempo,
notiamo che il numero dei briganti uccisi in combattimento o
fucilati sale a 7.151. Mentre il giornale francese " De Naples a
Palerme" (1863-64) parla di 10.000 napoletani fucilati o uccisi in
combattimento, più di 80.000 arrestati, 17.000 emigrati a
Roma e circa 30.000 nel resto d'Europa. Il dato sugli arrestati
è lo stesso quando il ministro della guerra, Della Rovere,
dichiara al Senato che 80.000 uomini dell'ex armata borbonica,
arrestati, avevano rifiutato di servire sotto la bandiera
sabauda..Secondo la statistica di fine anno fatta dal governo
piemontese e riferita al solo 1861, i fucilati erano stati 733, i
morti in combattimento 1.093 e gli arrestati 4.096. Dice il Massari,
concludendo la sua inchiesta sul brigantaggio, nel 1863:" Per
distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a
fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. Siamo stati buoni
chirurghi e pessimi medici".
I problemi che avevano originato il brigantaggio e che, in gran
parte, risalivano alla responsabilità del governo borbonico,
restavano però irrisolti e, in seguito, per molti abitanti
del Sud l'unica speranza di sopravvivenza fu legata all'emigrazione.
Lo squilibrio strutturale tra nord e sud d'Italia verrà
affrontato in modo più organico dalla classe dirigente
italiana e prese avvio il dibattito sulla questione meridionale, nei
termini sociali ed economici in cui la conosciamo ancora oggi.
Il dibattito storiografico
«Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono
incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante
ciò non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo
di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo
squallore e suscitato solo odio.»
(Giuseppe Garibaldi in una lettera ad Adelaide
Cairoli, 1868)
«Lo stato italiano è stato una dittatura feroce
che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole,
squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che
scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti.»
(Antonio Gramsci in L'Ordine Nuovo, 1920)
Diversi storici hanno proposto di rivedere i capitoli che riguardano
l'insegnamento di alcune pagine del passato italiano. L'opera
storiografica offre testi di visioni evidentemente contrapposte con
agli opposti estremi la versione governativa dell'epoca. Molti
storici hanno sostenuto le varie tesi omettendo o all'opposto
esagerando ossia strumentalizzando il numero delle vittime che non
è valutabile poiché non documentabile quindi esistono
solo stime.