Scritti di Bakunin
da http://ita.anarchopedia.org/Michail_Bakunin
La libertà per gli anarchici
Io non sono veramente libero che quando tutti gli esseri viventi
che mi circondano, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà,
lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al
contrario la condizione necessaria e la conferma. Io non divento libero
veramente che per mezzo della libertà degli altri, di modo che più
numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano e più profonda e più
ampia diventa la mia libertà.
Al contrario è la schiavitù degli uomini che pone una barriera alla mia
libertà, o ciò che è lo stesso, è la loro bestialità che è una
negazione della mia umanità; perché, ripeto, non posso dirmi libero
veramente che quando la mia libertà, o ciò che significa la stessa
cosa, quando la mia dignità d’uomo, il mio diritto umano(che consiste
nel non obbedire a nessun altro uomo e nel non determinare i miei atti
se non conformemente alle mie proprie convinzioni), riflessi dalla mia
coscienza egualmente libera di tutti, mi ritornano confermati
dall’assenso di tutti. La mia libertà personale così confermata dalla
libertà di tutti si estende all’infinito.
Si vede come la libertà, qual è concepita dai materialisti, è una cosa
molto positiva, molto complessa e soprattutto eminentemente sociale,
perché non può essere realizzata che tramite la società e soltanto
nella più stretta uguaglianza e solidarietà di ognuno con tutti. Vi si
possono distinguere vari momenti di sviluppo, o elementi, di cui il
primo è eminentemente positivo e sociale; è il pieno sviluppo e il
pieno godimento di tutte le facoltà e potenzialità umane per ciascuno
attraverso l’educazione, l’istituzione scientifica e la prosperità
materiale, tutte cose che non possono essere date da ciascuno se non
con il lavoro collettivo, materiale ed intellettuale, muscolare e
nervoso della società tutta intera.
Il secondo elemento o momento della libertà è negativo. È quello della
rivolta dell’individuo umano contro ogni autorità divina e umana,
collettiva e individuale.
Prima di tutto è la ribellione contro il fantasma supremo della
teologia, contro Dio. È evidente che fintanto avremo un padrone nel
cielo, noi saremo schiavi sulla terra. La nostra ragione e la nostra
volontà saranno ugualmente annullate. Finchè crederemo di dovergli un
obbedienza assoluta, e di fronte a un Dio non è possibile altra
obbedienza, dovremo necessariamente sottometterci passivamente e senza
la minima critica alla santa autorità dei suoi intermediari e dei suoi
eletti(messia, profeti, legislatori ispirati da Dio, imperatori, re e
tutti i loro funzionari e ministri), rappresentanti e servitori
consacrati delle due grandi istituzioni che si impongono a noi come
predisposte da Dio stesso per guidare gli uomini: la Chiesa e lo Stato.
Ogni autorità temporale o umana discende direttamente dall’autorità
spirituale o divina. Dio, o piuttosto la finzione di Dio, è dunque la
consacrazione e la causa intellettuale e morale di ogni schiavitù sulla
terra; e la libertà degli uomini non sarà compiuta fino a che non avrà
completamente annientato la finzione nefasta di un padrone celeste.
Il secondo elemento è, di conseguenza, la rivolta di ognuno contro la
tirannia degli uomini, contro l’autorità sia individuale che sociale
rappresentata e legalizzata dallo Stato. Qui bisogna tuttavia
intendersi bene, e per intendersi bisogna cominciare con lo stabilire
una distinzione ben precisa fra l’autorità ufficiale e di conseguenza
tirannica della società organizzata in Stato, e l’influenza e l’azione
naturale della società non ufficiale, ma naturale, su ciascuno dei suoi
membri.
La rivolta contro l’influenza naturale della società è molto più
difficile per l’individuo che non sia la rivolta contro la società
ufficialmente organizzata, contro lo Stato, sebbene spesso sia
altrettanto inevitabile quanto quest’ultima. La tirannia sociale,
spesso schiacciante e funesta, non presenta, però questo carattere di
impetosa violenza, di dispotismo legalizzato e formale che
contraddistingue l’autorità dello Stato. Essa non si impone come una
legge alla quale ogni individuo è obbligato a sottomettersi a meno di
incorrere in una punizione giuridica. La sua azione è più dolce, più
insinuante, più impercettibile, ma molto più potente di quella
dell’autorità dello Stato. Essa domina gli uomini con i costumi e le
usanze, con la massiccia pressione dei sentimenti, dei pregiudizi e
delle abitudini sia della vita materiale che dello spirito e del cuore
e che costituiscono ciò che chiamiamo opinione pubblica. Essa avvolge
l’uomo fin dalla sua nascita, lo attraversa, lo penetra, e forma la
base stessa della sua esistenza individuale, in modo, che ognuno ne è
in qualche modo, più o meno, il complice contro se stesso, e il più
delle volte senza nemmeno sospettarlo. Ne risulta che, per ribellarsi
contro questa influenza che la società esercita naturalmente su di lui,
l’uomo deve, almeno in parte, ribellarsi contro se stesso, poiché con
tutte le sue tendenze e aspirazioni materiali, intellettuali e morali,
egli stesso non è altro che il prodotto della società. (da M.Bakunin,
scritto da Henri Arvon)
Lo Stato non è la patria
La gioventù mazziniano-garibaldina non s’era mai posta questa domanda:
che rappresenta effettivamente un tale Stato italiano pel popolo?
Perché mai deve amarlo e tutto a lui sacrificare? Quando si faceva
questa domanda a Mazzini - e ciò non accadeva che raramente, tanto
sembrava semplice e facile - egli rispondeva con gran parole: «Patria
donata da Dio! Santa missione storica! Culto delle tombe!Ricordo
solenne dei martiri! Lungo e glorioso sviluppo delle tradizioni! Roma
antica! Roma dei papi! Gregorio VIII! Dante! Savonarola! Roma del
popolo!». Tutto ciò era così nebuloso, così bello, e nel medesimo tempo
sì assurdo, da essere sufficiente per abbagliare e stordire i giovani
spiriti, più adatti d’altronde all’entusiasmo e alla fede che alla
ragione e alla critica. E la gioventù italiana, mentre si faceva
uccidere per questa Patria astratta, malediceva la brutalità e il
materialismo delle masse, dei contadini in particolare, che mai si son
mostrati disposti al sacrificio per la grandezza e per l’indipendenza
di questa Patria politica, dello Stato.
Se la gioventù si fosse data la briga di riflettere avrebbe capito, e
forse da lungo tempo, che l’indifferenza ben netta delle masse popolari
pel destino dello Stato italiano non solo non è un disonore per esse,
ma prova, al contrario, d’una intelligenza istintiva che fa comprendere
come questo Stato unitario e centralizzato sia, per sua natura, a loro
estraneo, ostile, e proficuo solo, per le classi privilegiate di cui
garantisce, a lor danno, il dominio e la ricchezza. La prosperità dello
Stato è la miseria della nazione reale, del popolo; la grandezza e la
potenza dello Stato è la schiavitù del popolo. Il popolo è il nemico
naturale e legittimo dello Stato; e sebbene si sottometta - troppo
sovente, ahimè - alle autorità, ogni forma di autorità gli è odiosa.
Lo Stato non è la Patria; è l’astrazione, la finzione metafisica,
mistica, politica, giuridica della Patria; ma si tratta di un amore
naturale, reale; il patriottismo del popolo non è un’idea, ma un fatto;
e il patriottismo politico, l’amore dello Stato, non è la giusta
espressione di questo fatto, ma un’espressione snaturata per mezzo
d’una menzognera astrazione, sempre a profitto di una minoranza che
sfrutta. La Patria, la nazionalità, come l’individualità è un fatto
naturale e sociale, fisiologico e storico al tempo stesso; non è un
principio. Non si può definire principio umano che quello che è
universale, comune a tutti gli uomini; ma la nazionalità li separa: non
è, dunque, un principio. Principio è, invece, il rispetto che ognuno
deve avere pei fatti naturali, reali o sociali. E la nazionalità, come
l’individualità, è uno di questi fatti. Dobbiamo, dunque rispettarla.
Violarla è un misfatto e, per parlare il linguaggio di Mazzini, diviene
un sacro principio ogni volta che è minacciata e violata. Ed è per
questo ch’io mi sento sempre e francamente il patriota di tutte le
patrie oppresse. La Patria rappresenta il diritto incontestabile e
sacro di tutti gli uomini, associazioni, comuni, regioni, nazioni, di
vivere, pensare, volere, agire a loro modo e questo modo è sempre il
risultato incontestabile di un lungo sviluppo storico.
Patria e nazionalità
Lo Stato non è la Patria; è l’astrazione, la finzione metafisica,
mistica, politica, giuridica della Patria; ma si tratta di un’amore
naturale, reale; il patriottismo del popolo non è un’idea, ma un fatto;
e il patriottismo politico, l’amore dello Stato, non è la giusta
espressione di questo fatto, ma un’espressione snaturata per mezzo
d’una menzognera astrazione, sempre a profitto di una minoranza che
sfrutta. La Patria, la nazionalità, come l’individualità è un fatto
naturale e sociale, fisiologico e storico al tempo stesso; non è un
principio. Non si può definire principio umano che quello che è
universale, comune a tutti gli uomini; ma la nazionalità li separa: non
è, dunque, un principio. Principo è, invece, il rispetto che ognuno
deve avere pei fatti naturali, reali o sociali. E la nazionalità, come
l’individualità, è uno di questi fatti. Dobbiamo, dunque rispettarla.
Violarla è un misfatto e, per parlare il linguaggio di Mazzini, diviene
un sacro principio ogni volta che è minacciata e violata. Ed è per
questo ch’io mi sento sempre e francamente il patriota di tutte le
patrie oppresse.
L’essenza della nazionalità.
La Patria rappresenta il diritto incontestabile e sacro di tutti gli
uomini, associazioni, comuni, regioni, nazioni, di vivere, pensare,
volere, agire a loro modo e questo modo è sempre il risultato
incontestabile di un lungo sviluppo storico. Pertanto, noi ci
inchiniamo innanzi alla tradizione e alla storia; o meglio la
rispettiamo, e non perché ci si presenta come astrazione elevata a
metafisica, giuridicamente e politicamente per intellettuali e
professori del passato, bensì perché essa ha incorporato di fatto la
carne e il sangue, i pensieri reali e le volontà delle popolazioni. Se
si parla di una certa regione - il canton Ticino (in Svizzera) per
esempio - essa apparterrebbe evidentemente alla famiglia italiana: la
sua lingua, i suoi costumi e le sue particolarità sono identiche a
quelli della popolazione della Lombardia e, di conseguenza, dovrebbe
passare a far parte dello Stato Italiano unificato.
Crediamo che si tratta di una conclusione radicalmente falsa. Se
esistesse realmente una sostanziale identità tra il canton Ticino e la
Lombardia, non ci sarebbe dubbio alcuno che il Ticino si unirebbe
spontaneamente alla Lombardia. Ma non è così, e se non si sente il
grande desiderio di farlo, ciò dimostra semplicemente che la Storia
reale - quella in vigore generazione dopo generazione nella vita reale
del popolo del canton Ticino, è la dimostrazione della sua contrarietà
all’unione con la Lombardia - è cosa completamente distinta dalla
storia iscritta nei libri.
D’altra parte, bisogna dire che la storia reale degli individui e dei
popoli non solo procede verso uno sviluppo positivo, bensì molto spesso
verso la negazione del suo passato e per la ribellione contro di esso;
e questo è il diritto della esistenza, l’inalienabile diritto di questa
generazione, la garanzia della sua libertà.
La nazionalità e la solidarietà universale.
Non c’è niente di più assurdo e al tempo stesso più dannoso e mortifero
per il popolo che erigere il principio fittizio della nazionalità come
ideale di tutte le aspirazioni popolari. La nazionalità non è un
principio umano universale. E’ un fatto storico e locale che, come
tutti i fatti reali e innocui, ha diritto ad esigere la sua generale
accettazione. Ogni popolo fino alla più piccola unità etnica o
tradizionale possiede le proprie caratteristiche, il suo specifico modo
di esistenza, la sua maniera di parlare, di sentire, di pensare, e di
agire; e questa idiosincrasia costituisce l’essenza della nazionalità,
risultato di tutta la vita storica e sommatoria totale delle condizioni
vitali di questo popolo.
Ogni popolo, come ogni persona è quello che è, e per questo ha un
diritto ad essere se stesso. In questo consistono quelli chiamati
diritti nazionali. Però se un popolo e una persona esistono di fatto in
una determinata forma, non ne consegue che l’uno e l’altro abbiano il
diritto ad elevare la nazionalità in un caso e l’individualità
nell’altro, come principi specifici, e nemmeno si debba passare la vita
discutendo sopra la questione. Al contrario, quanto meno pensano a se
stessi e più acquisiscono valori umani universali, più si rivitalizzano
e più si caricano di sentimento, tanto la nazionalità quanto
l’individualità. La responsabilità storica di tutta la nazione. La
dignità di tutta la nazione, come dell’individuo, deve consistere
fondamentalmente nel fatto che ognuno accetta la piena responsabilità
delle sue azioni, senza cercare di colpevolizzare altri. Non sono molto
stupide le lamentele lacrimose di un fanciullo che protesta perchè
qualcuno lo ha corrotto e condotto nella cattiva strada? E quello che è
improprio nel caso di un ragazzo lo è certamente anche nel caso di una
nazione, cui lo stesso sentimento di autostima dovrebbe impedire
qualunque intento di imputare ad altri la colpa dei propri errori.
Patriottismo e giustizia universale.
Ognuno di noi dovrebbe elevarsi sopra questo patriottismo piccolo e
meschino, per il quale, il proprio paese è il centro del mondo, e che
considera grande una nazione quando è temuta dai suoi vicini. Dobbiamo
porre la giustizia umana universale sopra tutti gli interessi nazionali
e abbandonare una volta per tutte il falso principio della nazionalità,
inventato recentemente dai despoti della Francia, Prussia e Russia per
schiacciare il supremo principio della libertà. La nazionalità non è un
principio, è un diritto legittimo come l’individualità. Ogni nazione,
grande o piccola ha l’indiscutibile e medesimo diritto ad esistere, a
vivere in accordo con la propria natura. Questo diritto è semplicemente
il corollario del principio generale della libertà. Tutti quelli che
desiderano sinceramente la pace e la giustizia internazionale devono
rinunciare una volta per sempre a quello che si chiama la gloria, il
potere la grandezza della Patria, a tutti gli interessi egoisti e vani
del patriottismo.
Sulla scuola
I preti di tutte le chiese, lungi dal sacrificarsi al gregge confidato
alle loro cure, lo hanno sempre sacrificato, sfruttato e mantenuto al
livello di mandria, in parte per soddisfare le loro passioni personali,
ed in parte per servire l’onnipotenza della Chiesa. Le stesse
condizioni, le stesse cause producono sempre gli stessi effetti. Lo
stesso accadrà dunque per i professori della Scuola moderna,
divinamente ispirati e patentati dallo Stato. Diverranno
necessariamente, alcuni senza saperlo, altri con piena conoscenza di
causa, gli insegnanti della dottrina del sacrificio popolare alla
potenza dello Stato e a profitto delle classi privilegiate.
Occorrerà dunque eliminare dalla società ogni insegnamento ed abolire
tutte le scuole? Tutt’altro. È necessario anzi diffondere a piene mani
l’istruzione nelle masse, e trasformare tutte le chiese, tutti questi
templi dedicati alla gloria di Dio e all’asservimento degli uomini, in
altrettante scuole d’emancipazione umana. Ma, anzitutto, intendiamoci:
le scuole propriamente dette, in una società normale, fondata sulla
uguaglianza e sul rispetto della libertà umana, dovranno esistere solo
per i fanciulli e non già per gli adulti, e, perché esse diventino
scuole di emancipazione non di servitù, bisognerà eliminare, prima di
tutto, questa finzione di Dio, l’oppressore eterno e assoluto; e
bisognerà fondare tutta l’educazione dei fanciulli e la loro istruzione
sullo sviluppo scientifico della ragione, non su quello della fede;
sullo sviluppo della dignità e dell’indipendenza personale, non su
quello della pietà e dell’obbedienza; sul culto della verità e della
giustizia, e prima di tutto sul rispetto umano, che deve sostituire in
tutto e ovunque il culto divino. Il principio dell’autorità,
nell’educazione dei fanciulli, costituisce il punto di partenza
naturale; esso è legittimo, necessario, allorché è applicato ai
fanciulli in tenera età, allorché la loro intelligenza non è ancora in
alcun modo sviluppata; ma appena lo sviluppo di ogni cosa, e per
conseguenza anche dell’educazione, comporta la negazione successiva dei
punti di partenza, questo principio deve ridursi gradualmente a misura
che avanzano l’educazione e l’istruzione, per far posto alla libertà
che ascende. Qualsiasi educazione razionale non è in fondo che la
eliminazione progressiva dell’autorità a profitto della libertà giacché
lo scopo finale dell’educazione dev’essere quello di formare degli
uomini liberi e pieni di rispetto e d’amore per la libertà altrui. Così
il primo giorno della vita di scuola, se la scuola prende i fanciulli
di tenera età, quando essi cominciano appena a balbettare qualche
parola, deve essere il giorno dell’autorità più severa e dell’assenza
quasi completa della libertà; ma il suo ultimo giorno deve essere
quello della più grande libertà e dell’abolizione assoluta di ogni
traccia del principio animale o divino dell’autorità.
Il principio d’autorità, applicato agli uomini che hanno sorpassato o
raggiunto la maggiore età, diventa una mostruosità, una negazione
intellettuale e morale. Sventuratamente, i governi paternalistici hanno
lasciato marcire le masse popolari in una così profonda ignoranza, che
sarà necessario fondare delle scuole non solamente per i figli del
popolo, ma per il popolo stesso. Da queste scuole dovranno essere
assolutamente bandite le più piccole applicazioni o manifestazioni del
principio di autorità. Non saranno più scuole, saranno accademie
popolari in cui non ci sarà più questione né di scolari, né di maestri,
dove il popolo verrà liberamente a prendere, se lo trova necessario, un
insegnamento libero, e nelle quali, ricco della sua esperienza, potrà
insegnare, a sua volta, molte cose ai professori che gli apportano
cognizioni che egli non ha. Questo sarà dunque un insegnamento
scambievole, un atto di fraternità intellettuale tra la gioventù
istruita e il popolo.
Dio e lo Stato
Tutte le religioni coi loro Dei i loro semidei e i loro profeti, i loro
messia e i loro santi, furono create dalla fantasia credula degli
uomini non ancora giunti al pieno sviluppo ed al pieno possesso delle
loro facoltà intellettuali. Quindi è che il cielo religioso non è altra
cosa che uno specchio ove l’uomo esaltato dall’ignoranza e dalla fede,
trova la sua propria immagine, ma ingrandita e rovesciata, cioè
divinizzata. La storia delle religioni, quella del nascere, del
grandeggiare e del decadere degli Dei che si sono succeduti nella
credenza umana, non è dunque altro che lo sviluppo dell’intelligenza e
della coscienza collettiva degli uomini. A misura che nel loro
camminostoricamente progressivo, essi scoprono, sia in loro stessi, sia
nella natura esteriore, una forza, una qualità o anche un gran difetto,
essi li attribuiscono ai loro Dei, dopo averli esagerati, allargati
oltre misura, come fanno ordinariamente i fanciulli, per un atto della
loro fantasia religiosa. Grazie a questa modestia e a questa pia
generosità degli uomini credenti e creduli, il cielo si è arricchito
delle spoglie della terra, e per conseguenza necessaria piú il cielo
divenne ricco, e piú l’umanità e la terra divennero povere. Una volta
stabilita la divinità essa fu naturalmente proclamata la causa, la
ragione, l’arbitra e la dispensatrice assoluta di ogni cosa; il mondo
non fu piú nulla, essa fu tutto; e l’uomo suo vero creatore, dopo
averla tratta dal nulla a sua insaputa, s’inginocchiò davanti ad essa,
l’adorò e si dichiarò sua creatura e suo schiavo. Il cristianesimo è
precisamente la religione per eccellenza, perché espone e manifesta
nella sua pienezza, la natura, la essenza di ogni sistema religioso,
che è l’impoverimento, la servitú, l’annientamento dell’umanità a
profitto della divinità. [...]
Dio appare, l’uomo si annienta; e più la Divinità si fa grande, più
l’umanità diventa miserabile. Ecco la storia di tutte le religioni:
ecco l’effetto di tutte le ispirazioni e di tutte le legislazioni
divine. Nella storia, il nome di Dio è la terribile vera clava con la
quale tutti gli uomini divinamente ispirati, i "grandi geni virtuosi",
hanno abbattuto la libertà, la dignità, la ragione e la prosperità
degli uomini. Abbiamo avuto prima la caduta di Dio. Abbiamo ora una
caduta che c’interessa assai più: quella dell’uomo, causata dalla sola
apparizione di Dio o manifestazione sulla terra. Vedete dunque in quale
orrore profondo si trovano i nostri cari ed illustri idealisti.
Parlandoci di Dio, essi credono e vogliono elevarci, emanciparci,
nobilitarci, ed al contrario ci schiacciano e ci avviliscono. Col nome
di Dio, essi immaginano di poter edificare la fratellanza fra gli
uomini, ed invece creano l’orgoglio e il disprezzo, seminano la
discordia, l’odio, la guerra, fondano la schiavitù. Perché con Dio
vengono necessariamente i diversi gradi d’ispirazione divina; l’umanità
si divide in uomini ispiratissimi, meno ispirati, non ispirati. Tutti
sono egualmente nulla davanti a Dio, è vero, ma confrontati, gli uni
agli altri, alcuni sono più grandi degli altri; non solamente di fatto,
ciò che non avrebbe importanza perché una ineguaglianza di fatto si
perde da se stessa nella collettività quando non può afferrarsi ad
alcuna finzione o istituzione legale; ma alcuni sono più grandi degli
altri per volere del diritto divino dell’ispirazione: il che
costituisce subito una in eguaglianza fissa, costante, pietrificata. I
più ispirati devono essere ascoltati ed obbediti dai meno ispirati e
questi dai non ispirati.
Ecco il principio di autorità ben stabilito e con esso le due
istituzioni fondamentali della schiavitù: la Chiesa e lo Stato.
Io sono veramente libero solo quando tutti gli esseri umani che mi
circondano, uomini e donne, sono anch’essi liberi. La libertà degli
altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne
è invece la condizione necessaria e la conferma. Divento veramente
libero solo con la libertà degli altri, di modo che più numerosi sono
gli esseri liberi che mi circondano e più estesa e più ampia diventa la
mia libertà. La schiavitù degli uomini, al contrario, è di ostacolo
alla mia libertà, o, ciò che è la stessa cosa, è la loro bestialità che
è una negazione della mia umanità perché ancora una volta non posso
dirmi veramente libero se non quando la mia libertà o, se si vuole,
quando la mia dignità di uomo, il mio diritto umano (il quale consiste
nel non ubbidire a nessun altro uomo ed a determinare le mie azioni
conformemente alle mie intime convinzioni) riflessi dalla coscienza
egualmente libera di tutti, mi ritornano raffermati dall’approvazione
di tutti. In tal modo la mia libertà personale, assicurata dalla
libertà di tutti, si estende all’infinito.
E’ facile constatare, dunque, che la libertà, così come viene concepita
dai materialisti, è una cosa assai positiva, assai complessa e
soprattutto sociale, perché non può essere realizzata che dalla società
e soltanto nella più stretta uguaglianza e solidarietà di ciascuno con
tutti. In questa libertà si possono distinguere tre momenti di
sviluppo, tre elementi, di cui il primo, che è superlativamente
positivo e sociale, consiste nel pieno sviluppo e nel pieno godimento,
per ciascuno, di tutte le facoltà e di tutte le attitudini umane
attraverso l’educazione, l’istruzione scientifica e la prosperità
materiale, beni questi che possono essere dati solo dal lavoro
collettivo, materiale ed intellettuale, muscolare e cerebrale,
dell’intera società.
Il secondo elemento o momento della libertà è negativo. E’ quello della
rivolta dell’individuo umano contro ogni autorità divina e umana,
collettiva e individuale. Innanzitutto è la rivolta contro la tirannia
del fantasma supremo della teologia, contro Dio. E’ evidente che sino a
quando avremo un padrone in cielo, saremo schiavi sulla terra. La
nostra ragione e la nostra volontà saranno ugualmente annientate. Sino
a quando crederemo di dovere obbedienza assoluta a Dio -e non esiste
altra obbedienza di fronte ad un Dio- dovremo necessariamente ed
acriticamente sottometterci alla santa autorità dei suoi intermediari e
dei suoi eletti: messia, profeti e legislatori ispirati da lui;
imperatori, re e tutti i loro funzionari e ministri, rappresentanti e
sacri servitori delle due grandi istituzioni - la Chiesa e lo Stato-
imposte perché stabilite dallo stesso Dio per dirigere gli uomini. Ogni
autorità temporale o umana promana direttamente dall’autorità
spirituale o divina. Ma, poiché l’autorità è la negazione della
libertà, Dio, o piuttosto, la finzione di Dio, è quindi la
consacrazione e la causa intellettuale e morale di ogni schiavitù sulla
terra, e la libertà degli uomini sarà piena solo allorquando essa avrà
completamente distrutto la nefasta finzione di un padrone celeste.
Successivamente e conseguentemente c’è la rivolta di ciascuno contro la
tirannia degli uomini, contro l’autorità sia individuale e sia sociale
rappresentata e legalizzata dallo Stato. A questo punto, per meglio
intendersi, è bene fare una netta distinzione tra l’autorità ufficiale
e di conseguenza tirannica, della società organizzata in Stato, e
l’influenza e l’azione naturale della società non ufficiale, ma
naturale su ciascuno dei suoi membri. Per l’individuo la rivolta contro
questa influenza naturale della società è molto più difficile della
rivolta contro la società ufficialmente organizzata, contro lo Stato,
sebbene spesso la prima rivolta sia tanto inevitabile quanto lo è la
seconda.
La tirannia sociale, spesso opprimente e funesta, non presenta quel
carattere di violenza imperativa, di dispotismo legalizzato e formale
che distingue l’autorità dello Stato. Essa non viene imposta come una
legge alla quale ogni individuo deve obbedire sotto pena d’incorrere in
un castigo; la sua azione è più mite, più insinuante, più
impercettibile, ma tanto più vigorosa di quella dell’autorità dello
Stato. Essa domina gli uomini con le consuetudini, le usanze, con
l’insieme dei sentimenti, dei pregiudizi e delle abitudini della vita
materiale, intellettuale, affettiva e che costituiscono ciò che viene
chiamata la pubblica opinione. Essa avviluppa l’uomo dalla sua nascita,
lo ferisce profondamente, lo penetra e forma la base stessa della sua
esistenza individuale, cosicché ciascuno ne è più o meno ed in certo
qual modo il complice contro se stesso e, molto spesso, senza che ne
abbia il sospetto. Ne deriva che, per ribellarsi contro questa
influenza che la società esercita sopra di lui, l’uomo deve almeno in
parte ribellarsi contro se stesso, giacché, con tutte le sue tendenze e
le sue aspirazioni materiali, intellettuali e morali, esso non è altro
che il prodotto della società. L’immenso potere esercitato sugli uomini
dalla società deriva appunto da ciò. Dal punto di vista della morale
assoluta, cioè da quello del rispetto umano -e dirò tra poco che cosa
io intenda con questa espressione- questo potere della società può
essere benefico oppure anche nocivo. E’ benefico quando tende allo
sviluppo del sapere, della prosperità materiale, della libertà,
dell’uguaglianza e della fraterna solidarietà degli uomini; è dannoso
quando ha inclinazioni contrarie.
Un uomo nato in una società di bruti, resta, salvo rarissime eccezioni,
un bruto; nato in una società governata dai preti, diventa un idiota,
un bigotto; nato in una banda di ladri diventerà probabilmente un
ladro; nato nella borghesia, sarà uno sfruttatore del lavoro altrui; e
se ha la sfortuna di nascere nella società dei semidei che governano
questa terra - nobili, principi, figli di re - sarà, a seconda delle
sue capacità, dei suoi mezzi e delle sue forze, uno spregiatore, un
oppressore dell’umanità, un tiranno. In tutti questi casi,
l’umanizzazione dell’individuo, la sua ribellione contro la società che
lo ha visto nascere diviene indispensabile. Ma, ripeto, la ribellione
dell’individuo contro la società è ben più difficile della sua
ribellione contro lo Stato. Lo Stato, infatti, è una istituzione
storica, transitoria, una forma effimera della società -allo stesso
modo della Chiesa, di cui lo Stato è il fratello primogenito- e non ha
il carattere fatale ed immutabile della società, la quale è anteriore a
tutti gli sviluppi dell’umanità e che, essendo pienamente partecipe
delle leggi, dell’azione e delle manifestazioni naturali, costituisce
la base stessa di ogni umana esistenza. L ‘uomo, almeno dopo che ha
fatto il primo passo verso l’umanità, dopo che ha incominciato a
divenire un essere umano, cioè un essere più o meno parlante e
pensante, nasce nella società, come la formica nasce nel suo formicaio
e l’ape nel suo alveare; l’uomo non sceglie la società, ne è, al
contrario, il prodotto ed è quindi anche fatalmente sottoposto alle
leggi naturali che presiedono ai suoi sviluppi necessari, così come
obbedisce a tutte le altre leggi naturali. La società, come la natura,
è anteriore e contemporaneamente sopravvive a ciascun individuo umano;
essa è eterna come la natura; o, meglio, dato che è nata sulla terra,
essa durerà tanto quanto durerà la nostra terra.
Una rivolta radicale contro la società sarebbe altrettanto impossibile
quanto una rivolta contro la natura, giacché la società umana non è
altro che l’ultima grande manifestazione o creazione della natura su
questa terra; e un individuo che volesse mettere in dubbio la società,
cioè la natura in generale e specialmente la propria natura, si
porrebbe per ciò stesso al di fuori di tutte le condizioni di una
esistenza reale, si getterebbe nel nulla, nel vuoto assoluto, nella
morta astrazione, in Dio. Non ci si può quindi chiedere se la società
sia un bene o un male, allo stesso modo come è impossibile chiedere se
la natura, l’essere universale, materiale, reale, unico, supremo,
assoluto, sia un bene o un male; è più del bene e del male, è un
immenso fatto positivo e primitivo anteriore ad ogni coscienza, ad ogni
idea, ad ogni apprezzamento intellettuale e morale, è la base stessa, è
il mondo in cui fatalmente e successivamente si sviluppa per noi ciò
che chiamano il bene e il male. Non è così per lo Stato e non esito a
dire che lo Stato è il male, ma un male storicamente necessario, tanto
necessario nel passato quanto sarà prima o poi necessaria la sua
estinzione, tanto necessario quanto necessarie sono state la bestialità
primitiva e le divagazioni teologiche degli uomini.
Lo Stato non è la società, ne è solo una forma tanto violenta quanto
astratta. Lo Stato è sorto storicamente in tutti i paesi dal connubio
della violenza, della rapina, del saccheggio, cioè della guerra e della
conquista, con gli Dei creati successivamente dalla fantasia teologica
delle nazioni. Sin dalle origini, lo Stato ha rappresentato, e
rappresenta ancora attualmente, la sanzione divina della forza brutale
e dell’iniquità trionfante. Ed anche nei paesi più democratici, come
gli Stati Uniti d’America e la Svizzera è la consacrazione normale del
privilegio d’una qualsiasi minoranza e del reale asservimento
dell’immensa maggioranza. La rivolta è molto più facile contro lo Stato
perché c’è nella natura stessa di esso qualcosa che spinge alla
rivolta. Lo Stato è l’autorità, è la forza, è l’ostentazione e
l’esaltazione della forza. Esso non si insinua dolcemente, né cerca di
trasformare: e tutte le volte che esso tenta di farlo, lo fa con grande
sgarbataggine, giacché la sua natura non è quella di persuadere, ma
d’imporsi, di usare violenza, e vana risulta la preoccupazione di
mascherare la sua essenza sia di manomissore legale della volontà degli
uomini e sia di negatore permanente della loro libertà. Anche quando
comanda il bene, esso lo deprime e lo guasta, appunto perché lo impone
e perché ogni imposizione provoca e suscita le legittime ribellioni
della libertà; e perché il bene quando viene imposto, dal punto di
vista della vera morale umana e non già divina, diventa il male.
La libertà, la moralità e la dignità umana sono tali solo in quanto
l’uomo fa il bene non perché gli viene imposto, ma perché lo sente,
perché lo vuole, perché lo desidera. La società, invece, non viene
imposta formalmente, ufficialmente, autoritariamente, ma s’impone
naturalmente ed è appunto per questo motivo che la sua azione
sull’individuo è incomparabilmente più potente di quella dello Stato.
Essa crea e forma tutti gli individui che nascono e si sviluppano nel
suo seno. Essa travasa nei singoli, dal primo giorno della nascita fino
a quello della loro morte, tutta la sua natura materiale, intellettuale
e morale, e s’individualizza, per così dire, in ciascuno di essi.
L’individuo umano reale è così poco un essere universale ed astratto
che ciascuno, sin dal momento in cui si forma nel ventre materno, si
trova già determinato e condizionato da una quantità di cause e di
azioni materiali, geografiche, climatologiche, etnografiche, igieniche
e, conseguentemente, economiche, che costituiscono precisamente la
natura materiale esclusiva e particolare della sua famiglia, della sua
classe, della sua nazione, della sua razza, e, per quanto le
inclinazioni e le attitudini degli uomini dipendano dall’insieme di
tutte queste influenze esteriori o fisiche, ciascuno nasce con una
natura o un carattere individuale materialmente determinato. Inoltre, a
causa dell’organizzazione relativamente superiore del cervello umano,
ogni uomo, nascendo, possiede d’altronde gradi diversi, non di idee e
di sentimenti innati come pretendono gli idealisti, ma di capacità, sia
materiale che formale, di sentire, di parlare e di volere. L’uomo porta
con se soltanto la facoltà di formare e di sviluppare le idee, nonché,
per come dirò, un potere di attività del tutto formale, senza alcun
contenuto. Ed è precisamente la società che dà a questa sua attività il
primo contenuto.
Non è questa la sede più opportuna per ricercare come si siano formate
le prime cognizioni e le prime idee, la maggior parte delle quali
furono naturalmente assai false nelle società primitive. Tutto ciò che
possiamo dire con piena certezza è che esse non sono state generate
isolatamente, spontaneamente dalla mente miracolosamente illuminata di
individui ispirati, bensì dal lavoro collettivo, il più delle volte
impercettibile, della mente di tutti gli individui che appartennero a
quelle società; di quelle idee gli individui più ragguardevoli, gli
uomini di genio, han potuto dare soltanto la più fedele o la più
fortunata espressione, in quanto gli uomini di genio, hanno fatto
sempre come Molière, cioè “hanno preso il loro bene dovunque essi lo
trovassero”. E’ quindi il lavoro collettivo delle società primitive che
ha creato le prime idee. Dapprima, queste idee furono soltanto semplici
constatazioni, naturalmente assai imperfette, dei fatti naturali e
sociali, e deduzioni ancor meno esatte derivate da quei fatti. Tale fu
l’inizio di tutte le rappresentazioni, immaginazioni e pensieri umani.
Il contenuto di questi pensieri non è stato creato da un’azione
spontanea dello spirito umano, bensì fu dato dapprima a quest’ultimo
dal mondo reale sia esteriore che interiore. Allo spirito dell’uomo,
cioè al lavoro o al funzionamento completamente organico e, di
conseguenza, materiale del suo cervello, provocato dalle impressioni
tanto esterne che interne trasmessegli dalle sue fibre, si aggiunse
un’azione del tutto formale, consistente nel comparare e nel combinare
queste impressioni delle cose e dei fatti in sistemi esatti o falsi.
Così nacquero le prime idee. Queste idee o, meglio, queste prime
immaginazioni si precisarono per mezzo della parola e si fissarono
comunicandosi da un individuo umano all’altro, per modo che le
immaginazioni individuali, di ciascuno si modificarono, si completarono
scambievolmente e, mescolandosi più o meno in un sistema unico,
finirono col formare la coscienza comune, il pensiero collettivo della
società. Questo pensiero, tramandato attraverso la tradizione da una
generazione all’altra, e sviluppandosi sempre di più col lavoro
intellettuale dei secoli, costituisce il lavoro intellettuale e morale
d’una società, d’una classe, d’una nazione.
Ogni generazione nuova trova già nella sua culla tutto un mondo d’idee,
d’immaginazioni e di sentimenti che essa riceve in eredità dai secoli
passati. All’uomo novellamente nato, questo mondo dapprima non si
presenta sotto la sua forma ideale, cioè come sistema di
rappresentazioni e d’idee, come religione, come dottrina, giacché il
bambino sarebbe incapace di accettarlo e comprenderlo sotto questa
forma; ma s’impone a lui come un mondo di fatti incarnato e realizzato
sia nelle persone e sia in tutte le cose che lo circondano comunicando
ai suoi sensi tutto ciò che egli ode e vede sin dai primi giorni della
sua esistenza. E ciò perché le idee e le rappresentazioni umane (le
quali dapprima sono soltanto i prodotti dei fatti reali, sia naturali e
sia sociali, nel senso che ne sono stati il riflesso o l’eco nel
cervello umano e la riproduzione per così dire ideale e più o meno
esatta di questi fatti a mezzo di quell’organo assolutamente materiale
del pensiero umano) acquistano nella coscienza collettiva di una
qualsiasi società solo successivamente, dopo che sono ben fissate nel
modo che sto per spiegare, la forza per divenire a loro volta cause
produttive di fatti nuovi, non precisamente naturali, ma sociali. Esse
finiscono per modificare e per trasformare, sia pure molto lentamente,
l’esistenza, le abitudini e le istituzioni umane, cioè, in breve, tutti
i rapporti degli uomini nella società e, con la loro incarnazione nelle
cose più quotidiane della vita di ognuno, esse diventano sensibili,
palpabili per tutti, anche per i bambini.
Avviene così che ogni nuova generazione se ne compenetra sin dalla più
tenera infanzia e che, quando perviene all’età virile, in cui inizia
precisamente l’elaborazione del proprio pensiero, necessariamente
accompagnata da una nuova critica, questa novella generazione, trova in
se stessa, oltre che nella società che la circonda, tutto un mondo di
pensieri o di rappresentazioni consolidate, che le servono di punto di
partenza e che le danno in certo qual modo la prima sostanza o il
materiale per il proprio lavoro intellettuale e morale. Di questo tipo
sono le immaginazioni tradizionali e comuni che i metafisici, ingannati
dal mondo del tutto insensibile ed impercettibile con cui, provenendo
dal di fuori, esse penetrano e s’imprimono nel cervello dei bambini,
ancor prima che siano pervenuti alla coscienza di se stessi, chiamano
falsamente idee innate. Tali sono le idee generali od astratte sulla
divinità e sull’ anima, idee completamente assurde, ma inevitabili,
fatali nello sviluppo storico dello spirito umano il quale, pervenendo
soltanto molto lentamente ed attraverso i secoli alla conoscenza
razionale e critica di se e delle proprie manifestazioni, parte sempre
dall’assurdo per giungere alla verità e dalla schiavitù per conquistare
la libertà; idee approvate dall’ignoranza generale e dalla stupidità
dei secoli, oltre che dall’interesse ben calcolato delle classi
privilegiate, al punto che, ancora attualmente, non ci si saprebbe
pronunciare apertamente e con un linguaggio contro di esse, senza
provocare lo sdegno di una notevole parte delle masse popolari e senza
correre il pericolo di essere lapidati dall’ipocrisia borghese.
Oltre a queste idee del tutto astratte, con le quali è sempre in
contatto molto stretto, perché le trova nella società, l’adolescente,
in conseguenza dell’influenza assai massiccia esercitata da
quest’ultima sulla sua infanzia, trova in se stesso anche una quantità
di altre rappresentazioni od idee molto più determinate e che
riguardano più da vicino la vita reale e l’esistenza quotidiana
dell’uomo. Tali sono le rappresentazioni sulla natura e sull’uomo,
sulla giustizia, sui doveri e sui diritti degli individui e delle
classi, sulle convenienze sociali, sulla famiglia, sulla proprietà,
sullo Stato e molte altre ancora che regolano i rapporti degli uomini
tra loro. Tutte queste idee che l’uomo, nascendo, trova incarnate nelle
cose e negli uomini e che s’imprimono nella sua mente attraverso
l’educazione e l’istruzione che riceve, ancor prima che sia pervenuto
alla conoscenza di se, esso le ritrova successivamente consacrate,
spiegate, commentate dalle teorie che esprimono la coscienza universale
o il pregiudizio collettivo e da tutte le istituzioni religiose,
politiche ed economiche della società di cui fa parte. E l’uomo ne è
impregnato a tal punto che, interessato o meno a difenderle, ne è
involontariamente il complice, con tutte le sue abitudini materiali,
intellettuali e morali.
Ciò di cui bisogna meravigliarsi non è tanto l’azione assai vigorosa
esercitata sulla massa degli uomini da parte di queste idee che
esprimono la coscienza collettiva della società, quanto, invece, che si
trovino, in questa massa, degli individui che hanno il proposito, la
volontà ed il coraggio di combatterle. Giacché, essendo la pressione
della società sull’individuo immensa, non c’è carattere tanto forte, né
intelligenza tanto poderosa che possano dirsi al riparo dagli assalti
di questa influenza tanto dispotica quanto ineluttabile. Nulla prova
meglio il carattere sociale dell’uomo quanto la detta influenza. Si
direbbe che la coscienza collettiva di una qualsiasi società, incarnata
sia nelle grandi istituzioni pubbliche e sia in tutte le minuzie della
sua vita privata e che serve di base a tutte le sue teorie, formi una
specie di ambiente, d’atmosfera intellettuale e morale, nocivo ma
assolutamente necessario all’esistenza di tutti i suoi membri. Questa
coscienza collettiva li domina e nello stesso tempo li sostiene,
collegandoli tra loro con rapporti consuetudinari e necessariamente da
essa determinati; infondendo a ciascuno la sicurezza, la certezza e
costituendo per tutti la condizione suprema dell’esistenza dell’enorme
massa, la banalità, il luogo comune, la routine.
La maggioranza degli uomini, appartenenti non soltanto alle masse
popolari, ma alle classi privilegiate che sono spesso più colte delle
masse, si sentono tranquilli ed in pace con se stessi solo quando, nei
pensieri ed in tutte le azioni della loro vita, seguono fedelmente,
ciecamente, la tradizione e la consuetudine. “I nostri padri hanno
pensato ed agito cosi, perché dovremmo pensare ed agire diversamente da
tutti gli altri?” Queste parole esprimono la filosofia, la convinzione
e la pratica del 99% dell’umanità, presa indifferentemente in tutte le
classi della società. E, per come ho già rilevato, ciò costituisce il
più grande ostacolo al progresso ed all’emancipazione più rapida della
specie umana.
Quali sono le cause di questa lentezza desolante e così vicina alla
stasi che costituisce, a mio giudizio, la più grande sciagura
dell’umanità? Le cause sono molteplici ed una di esse, tra le più
considerevoli certamente, è l’ignoranza delle masse. Private
generalmente e sistematicamente di ogni educazione scientifica, grazie
alle paterne cure di tutti i governi e delle classi privilegiate le
quali traggono utilità nel mantenerle il più a lungo possibile
nell’ignoranza nella devozione e nella fede -tre sostantivi che
esprimono all’incirca la stessa cosa- le masse non conoscono neppure
l’esistenza e l’uso di quello strumento di emancipazione intellettuale
che si chiama critica, senza la quale è impossibile una completa
rivoluzione morale e sociale. Le masse che hanno tutto l’interesse a
ribellarsi contro lo ordine stabilito delle cose, sono ancora più o
meno legate ad esso a causa della religione dei loro padri, che è la
provvidenza delle classi privilegiate. Le classi privilegiate -che non
hanno più oggigiorno né la devozione né la fede, anche se dicono il
contrario- sono a loro volta, legate a quest’ordine di cose a causa del
loro interesse politico e sociale. Tuttavia non è possibile affermare
categoricamente che soltanto il detto interesse sia la ragione del loro
vivo attaccamento alle idee dominanti.
Quale che sia la mia opinione negativa circa il valore attuale,
intellettuale e morale, di queste classi, non posso però ammettere che
il solo interesse sia il movente dei loro pensieri e delle loro azioni.
In ogni classe ed in ogni partito esiste indubbiamente un gruppo più o
meno numeroso di profittatori intelligenti, audaci e scrupolosamente
disonesti, chiamati uomini forti, liberi da ogni pregiudizio
intellettuale e morale, egualmente indifferenti a tutti i princìpi, di
cui però si servono, all’ occorrenza, per ottenere il loro scopo. Ma
questi uomini forti, sono in seno alle classi più corrotte, solo una
infima minoranza, giacché la maggioranza è pecoresca come lo è la
maggioranza in seno al popolo. Essa subisce naturalmente l’influenza
dei propri interessi che fanno della reazione una condizione di
esistenza. Ma è impossibile ammettere che, facendo della reazione, essa
obbedisca solamente ad un sentimento egoistico. Una gran massa
d’uomini, sia pure parzialmente corrotti, quando agisce
collettivamente, non saprebbe essere così depravata.
In ogni associazione numerosa e, a maggior ragione, nelle associazioni
tradizionali e storiche come le classi, sia pure giunte al punto da
essere divenute assolutamente malefiche e contrarie all’interesse ed al
diritto di tutti, esiste un principio di moralità, una religione, una
credenza qualsiasi, certamente pochissimo razionali, il più sovente
ridicole e, di conseguenza, molto grette ma sincere e che costituiscono
la condizione morale indispensabile della loro esistenza.
Tratto da: “Dio e lo Stato”. Edizioni “RL” Pistoia 1974
Stato e Anarchia
E' l'opera principale di Michail Bakunin, composta nel 1873. E' l'unica
opera completa del pensatore russo, punto di svolta per la comprensione
dell'anarchismo classico. Fu pubblicata in russo, a Zurigo, anonima,
corredata dalla cd. "Appendice A", una sorta di vademecum per
rivoluzionari.
La storia del testo
Gosudarstvennost' i Anarchija, scritto nell'estate del 1873, fu
composto e stampato a Zurigo da un gruppo di giovani evasi dalla Russia
fra i quali Ross, Vaklowksi, Debogorij-Mokrievic, Ralli. Armand Ross ne
fece da solo la composizione tipografica, mentre Vaklowksi e
Debogorij-Mokrievic azionavano la pressa a mano. Il lavoro venne
terminato nei primi mesi del 1874, ne furono tirate 1200 copie, senza
nome, e Ross si incaricò personalmente di introdurle in Russia con
l'aiuto di contrabbandieri ebrei. L'opera esercitò una fortissima
influenza sulla gioventù studentesca rivoluzionaria, tanto che il
ministro della Giustizia, il conte Pahlen, scrisse nelle sue memorie
del 1875:
«Gli scritti di Bakunin e la propaganda dei suoi adepti hanno
esercitato sulla gioventù un'influenza stupefacente e nefasta. Questi
scritti che nessuno si è occupato di rifiutare hanno affascinato la
gioventù, e, come ogni cosa proibita, l'hanno sedotta perché
corrispondevano ai suoi desideri e ai suoi istinti».
La struttura e stile del testo
Il testo, data la natura sia dell’autore, sia del contenuto, è
sistematico, scoordinato. Tuttavia, il pensiero dell’autore ne emerge
con prepotenza, dal miscuglio fra teoria e analisi storica. L’opera,
già dal titolo paradossale, è una critica al marxismo, all'Associazione
Internazionale dei Lavoratori, alle politiche reazionari di tutti gli
stati europei, in un momento di grande subbuglio e instabilità politica
(l’espansionismo prussiano, l’esperienza della Comune di Parigi etc.).
Lo stile è, nello stile bakuniano, trabordante e concitatus, trabocca
da ogni parola, è carico e diretto.
Il contenuto del testo
Stato e Anarchia è la summa del pensiero di Michail Bakunin, un testo
di teoria politica, analisi storica, invettiva e critica contro il
marxismo, l’imperialismo, lo statalismo – direzione che stava assumendo
la Ia Internazionale. Gli antipodi dialettici che sostengono
l’argomentazione bakuniana sono lo Stato da un lato, la rivoluzione
sociale anarchica dall’altro.
Lo Stato, per Bakunin, è l’esaltazione per la forza, l’inebriamento per
la soverchieria, il punto di non ritorno del dominio dell’uomo
sull’uomo. «Qualunque Stato, anche quello rivestiti delle forme più
liberali e democratiche, è necessariamente fondato sul predominio,
sulla dominazione, sulla violenza e quindi sul despotismo.» (Stato e
Anarchia, 1966, pg. 47). «L’imperialismo non è una deviazione dello
Stato, ma un suo elemento costitutivo: ove regna la forza questa deve
senz’altro agire, e per non essere conquistato, lo Stato deve farsi
Stato militare e indi conquistatore» (ivi, pg. 23). «Lo Stato, come
soggetto astratto di cui si sono appropriati i dominatori, deve essere
rovesciato sul piano concreto: il potere deve essere distrutto in modo
irreversibile e perentorio, non è contemplabile altra via che la
Rivoluzione Sociale per la conquista della libertà popolare» (ivi, pg.
74-75).
«Noi ammettiamo un solo terreno: quella della Rivoluzione Sociale fuori
della quale non vediamo salvezza [...] crediamo che precisamente su
questo terreno possano, a causa dei numerosi tratti comuni del
carattere e del destino storico, delle aspirazioni passate e presenti
di tutti i popoli [...] unirsi fraternamente non per creare uno Stato
comune ma per distruggere tutti gli stati, non per formare tra di loro
un mondo chiuso ma per entrare tutti assieme nell’arena internazionale»
(ivi, pg. 95).
La libertà popolare è possibile solo al di fuori dello Stato, che
lacera la naturale predisposizione alla socievolezza:
«...verrà un tempo quando non ci saranno più Stati, [...] verrà un
tempo quando sulle rovine degli Stati politici sarà fondata, in piena
libertà e organizzata dal basso in alto, l’unione libera e fraterna
delle libere associazioni di produzione, delle comuni e delle
federazioni regionali che abbraccerà senza nessuna distinzione, perché
liberamente, gli individui di ogni lingua e di ogni nazionalità [...];
dove c’è lo Stato, c’è inevitabilmente la dominazione e, di
conseguenza, la schiavitù; lo Stato, senza la schiavitù, aperta o
mascherata, è inconcepibile» (ivi, pg. 110)
Ma le pagine più rilevanti del testo sono certamente quelle di critica
all’astrazione della socialità attuata da Hegel e dalla sua propaggine
più odiosa: Marx. Scrive Bakunin:
«Chi parte dal pensiero astratto non potrà mai giungere alla vita
perché dalla metafisica alla vita non c’è strada. Sono separate da un
abisso. Sorvolare questo abisso, compiere questo “salto mortale”, o
quel che lo stesso Hegel chiamava “salto qualitativo” dal mondo della
logica al mondo della natura, della vita reale non è ancora riuscito
nessuno e nessuno riuscirà mai. Chi insegue l’astrazione morirà con
essa».
La vita, in quanto movimento concretamente razionale è nel mondo della
scienza la marcia dal fatto reale all’idea che lo abbraccia, che lo
esprime e che di conseguenza lo spiega; e nel mondo pratico è il
movimento che va dalla vita sociale verso la sua organizzazione più
razionale possibile, conformemente alle indicazioni, alle condizioni,
alle necessità e alle esigenze più o meno spontanee di quella medesima
vita. Questa è la larga strada del popolo, dell’emancipazione reale e
totale, accessibile a tutti e, di conseguenza, veramente popolare, la
strada della Rivoluzione Sociale ‘’’anarchica’’’ che nasce da sola dal
seno del popolo distruggendo tutto quanto si opponga al traboccare
generoso della sua vita, affinché, dalle stesse profondità di questo
popolo, scaturiscano le nuove forme di libera comunità» (ivi, pg. 159).
Il potere, stigma del dominio dell’uomo sull’uomo, non deve essere
delegato a nessuno, poiché chi è investito di un’autorità sarà, secondo
una legge sociale immutabile, uno sfruttatore della società. Gli
anarchici sono dunque nemici della società, nemici dell’autorità e
propongono la distruzione dello Stato, e l’organizzazione della
socialità dal basso verso l’alto, attraverso libere organizzazioni di
produttori, al di fuori di qualsiasi tutela ufficiale.
Marx e “Stato e Anarchia”
Karl Marx, obiettivo polemico dello scritto bakuniano, lesse a lungo
l’opera e chiosò in molti punti, criticando le posizioni anarchiche. Da
un lato v’era il rigore ebraico e la pedanteria della scienza sociale,
dall’altro l’aspirazione a qualcosa di grande e la disorganizzazione
romantica. La precisione marxiana si scontrava con l’irruenza
anarchica. I punti di attrito si possono riassumere nei seguenti: -
tempi e modi della rivoluzione - soggetto rivoluzionario - ruolo dello
Stato dopo il sovvertimento dello stato di cose presenti.
Tempi e modi della rivoluzione
La posizione bakuniana è chiara: la rivoluzione è un atto di volontà,
tramite cui tutti gli oppressi si liberano assieme. La replica di Marx:
«Asineria da scolaretto! Una rivoluzione sociale radicale è legata a
certe condizioni storiche dello sviluppo economico; queste ne
costituiscono la premessa. Essa è quindi possibile soltanto laddove,
con la produzione capitalistica, il proletariato industriale assume
almeno una posizione di rilievo nella massa del popolo. [...] Egli
(Bakunin) non comprende nulla della rivoluzione sociale, ne comprende
solo le fasi politiche; per lui le condizioni economiche non esistono.
Poiché tutte le forme economiche succedutisi fino ad oggi, sviluppate o
sottosviluppate, implicano l’asservimento del lavoratore (sia nella
forma dell’operaio salariato, del contadino, ecc.) egli crede che in
tutte sia possibile una rivoluzione ugualmente radicale. [...] La
volontà, non le condizioni economiche, è il fondamento della sua
rivoluzione sociale» (K. Marx & F .Engels, Critica dell’anarchismo,
pg. 355)
Soggetto rivoluzionario
Per Bakunin, deputato a promuovere la rivoluzione deve essere il popolo
nella sua interezza; per Marx, si tratta solo del proletariato
industriale, inteso come la classe che ha assunto su di sé tutte le
contraddizioni dello stato attuale di cose. La massa di contadini, di
straccioni viene definita da Marx ‘’’Lumpenproletariat’’’, cioè
‘’’proletariato di straccioni’’’, incapaci di articolare il discorso
politico, di assumere su di sé il compito dell’abolizione del sistema
classista
Il ruolo dello Stato
Per Marx, lo Stato, una volta diventato dominio della classe
proletaria, in seguito alla fase transitoria della “’’’dittatura del
proletariato’’’”, perderà il suo carattere politico, estinguendosi,
così come il sistema classista.
Per Bakunin, invece:
«Dicono [i marxisti, ndr] che questo giogo dello Stato, questa
dittatura è una misura transitoria necessaria per poter raggiungere
l’emancipazione integrale del popolo: l’anarchia o la libertà sono il
fine, lo Stato o la dittatura sono il mezzo. E così, per emancipare le
masse popolari si dovrà prima di tutto soggiogarle.
La nostra polemica non è per il momento arrestata su questa
contraddizione. Essi affermano che solo la dittatura, la loro,
naturalmente, può creare la libertà del popolo; rispondiamo che nessuna
dittatura può avere altro fine che quello della propria perpetuazione e
che essa è capace solo di generare e di coltivare la schiavitù nel
popolo che la subisce; la libertà può essere creata solo dalla rivolta
di tutto il popolo e dalla libera organizzazione delle masse dei
lavoratori dal basso in alto» (M. Bakunin, Stato e Anarchia, pg. 212)