Scritti di Bakunin

da http://ita.anarchopedia.org/Michail_Bakunin

La libertà per gli anarchici

Io non sono veramente libero che quando tutti gli esseri viventi che mi circondano, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Io non divento libero veramente che per mezzo della libertà degli altri, di modo che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano e più profonda e più ampia diventa la mia libertà.

Al contrario è la schiavitù degli uomini che pone una barriera alla mia libertà, o ciò che è lo stesso, è la loro bestialità che è una negazione della mia umanità; perché, ripeto, non posso dirmi libero veramente che quando la mia libertà, o ciò che significa la stessa cosa, quando la mia dignità d’uomo, il mio diritto umano(che consiste nel non obbedire a nessun altro uomo e nel non determinare i miei atti se non conformemente alle mie proprie convinzioni), riflessi dalla mia coscienza egualmente libera di tutti, mi ritornano confermati dall’assenso di tutti. La mia libertà personale così confermata dalla libertà di tutti si estende all’infinito.

Si vede come la libertà, qual è concepita dai materialisti, è una cosa molto positiva, molto complessa e soprattutto eminentemente sociale, perché non può essere realizzata che tramite la società e soltanto nella più stretta uguaglianza e solidarietà di ognuno con tutti. Vi si possono distinguere vari momenti di sviluppo, o elementi, di cui il primo è eminentemente positivo e sociale; è il pieno sviluppo e il pieno godimento di tutte le facoltà e potenzialità umane per ciascuno attraverso l’educazione, l’istituzione scientifica e la prosperità materiale, tutte cose che non possono essere date da ciascuno se non con il lavoro collettivo, materiale ed intellettuale, muscolare e nervoso della società tutta intera.

Il secondo elemento o momento della libertà è negativo. È quello della rivolta dell’individuo umano contro ogni autorità divina e umana, collettiva e individuale.

Prima di tutto è la ribellione contro il fantasma supremo della teologia, contro Dio. È evidente che fintanto avremo un padrone nel cielo, noi saremo schiavi sulla terra. La nostra ragione e la nostra volontà saranno ugualmente annullate. Finchè crederemo di dovergli un obbedienza assoluta, e di fronte a un Dio non è possibile altra obbedienza, dovremo necessariamente sottometterci passivamente e senza la minima critica alla santa autorità dei suoi intermediari e dei suoi eletti(messia, profeti, legislatori ispirati da Dio, imperatori, re e tutti i loro funzionari e ministri), rappresentanti e servitori consacrati delle due grandi istituzioni che si impongono a noi come predisposte da Dio stesso per guidare gli uomini: la Chiesa e lo Stato. Ogni autorità temporale o umana discende direttamente dall’autorità spirituale o divina. Dio, o piuttosto la finzione di Dio, è dunque la consacrazione e la causa intellettuale e morale di ogni schiavitù sulla terra; e la libertà degli uomini non sarà compiuta fino a che non avrà completamente annientato la finzione nefasta di un padrone celeste.

Il secondo elemento è, di conseguenza, la rivolta di ognuno contro la tirannia degli uomini, contro l’autorità sia individuale che sociale rappresentata e legalizzata dallo Stato. Qui bisogna tuttavia intendersi bene, e per intendersi bisogna cominciare con lo stabilire una distinzione ben precisa fra l’autorità ufficiale e di conseguenza tirannica della società organizzata in Stato, e l’influenza e l’azione naturale della società non ufficiale, ma naturale, su ciascuno dei suoi membri.

La rivolta contro l’influenza naturale della società è molto più difficile per l’individuo che non sia la rivolta contro la società ufficialmente organizzata, contro lo Stato, sebbene spesso sia altrettanto inevitabile quanto quest’ultima. La tirannia sociale, spesso schiacciante e funesta, non presenta, però questo carattere di impetosa violenza, di dispotismo legalizzato e formale che contraddistingue l’autorità dello Stato. Essa non si impone come una legge alla quale ogni individuo è obbligato a sottomettersi a meno di incorrere in una punizione giuridica. La sua azione è più dolce, più insinuante, più impercettibile, ma molto più potente di quella dell’autorità dello Stato. Essa domina gli uomini con i costumi e le usanze, con la massiccia pressione dei sentimenti, dei pregiudizi e delle abitudini sia della vita materiale che dello spirito e del cuore e che costituiscono ciò che chiamiamo opinione pubblica. Essa avvolge l’uomo fin dalla sua nascita, lo attraversa, lo penetra, e forma la base stessa della sua esistenza individuale, in modo, che ognuno ne è in qualche modo, più o meno, il complice contro se stesso, e il più delle volte senza nemmeno sospettarlo. Ne risulta che, per ribellarsi contro questa influenza che la società esercita naturalmente su di lui, l’uomo deve, almeno in parte, ribellarsi contro se stesso, poiché con tutte le sue tendenze e aspirazioni materiali, intellettuali e morali, egli stesso non è altro che il prodotto della società. (da M.Bakunin, scritto da Henri Arvon)

Lo Stato non è la patria


La gioventù mazziniano-garibaldina non s’era mai posta questa domanda: che rappresenta effettivamente un tale Stato italiano pel popolo? Perché mai deve amarlo e tutto a lui sacrificare? Quando si faceva questa domanda a Mazzini - e ciò non accadeva che raramente, tanto sembrava semplice e facile - egli rispondeva con gran parole: «Patria donata da Dio! Santa missione storica! Culto delle tombe!Ricordo solenne dei martiri! Lungo e glorioso sviluppo delle tradizioni! Roma antica! Roma dei papi! Gregorio VIII! Dante! Savonarola! Roma del popolo!». Tutto ciò era così nebuloso, così bello, e nel medesimo tempo sì assurdo, da essere sufficiente per abbagliare e stordire i giovani spiriti, più adatti d’altronde all’entusiasmo e alla fede che alla ragione e alla critica. E la gioventù italiana, mentre si faceva uccidere per questa Patria astratta, malediceva la brutalità e il materialismo delle masse, dei contadini in particolare, che mai si son mostrati disposti al sacrificio per la grandezza e per l’indipendenza di questa Patria politica, dello Stato.

Se la gioventù si fosse data la briga di riflettere avrebbe capito, e forse da lungo tempo, che l’indifferenza ben netta delle masse popolari pel destino dello Stato italiano non solo non è un disonore per esse, ma prova, al contrario, d’una intelligenza istintiva che fa comprendere come questo Stato unitario e centralizzato sia, per sua natura, a loro estraneo, ostile, e proficuo solo, per le classi privilegiate di cui garantisce, a lor danno, il dominio e la ricchezza. La prosperità dello Stato è la miseria della nazione reale, del popolo; la grandezza e la potenza dello Stato è la schiavitù del popolo. Il popolo è il nemico naturale e legittimo dello Stato; e sebbene si sottometta - troppo sovente, ahimè - alle autorità, ogni forma di autorità gli è odiosa.

Lo Stato non è la Patria; è l’astrazione, la finzione metafisica, mistica, politica, giuridica della Patria; ma si tratta di un amore naturale, reale; il patriottismo del popolo non è un’idea, ma un fatto; e il patriottismo politico, l’amore dello Stato, non è la giusta espressione di questo fatto, ma un’espressione snaturata per mezzo d’una menzognera astrazione, sempre a profitto di una minoranza che sfrutta. La Patria, la nazionalità, come l’individualità è un fatto naturale e sociale, fisiologico e storico al tempo stesso; non è un principio. Non si può definire principio umano che quello che è universale, comune a tutti gli uomini; ma la nazionalità li separa: non è, dunque, un principio. Principio è, invece, il rispetto che ognuno deve avere pei fatti naturali, reali o sociali. E la nazionalità, come l’individualità, è uno di questi fatti. Dobbiamo, dunque rispettarla. Violarla è un misfatto e, per parlare il linguaggio di Mazzini, diviene un sacro principio ogni volta che è minacciata e violata. Ed è per questo ch’io mi sento sempre e francamente il patriota di tutte le patrie oppresse. La Patria rappresenta il diritto incontestabile e sacro di tutti gli uomini, associazioni, comuni, regioni, nazioni, di vivere, pensare, volere, agire a loro modo e questo modo è sempre il risultato incontestabile di un lungo sviluppo storico.

Patria e nazionalità

Lo Stato non è la Patria; è l’astrazione, la finzione metafisica, mistica, politica, giuridica della Patria; ma si tratta di un’amore naturale, reale; il patriottismo del popolo non è un’idea, ma un fatto; e il patriottismo politico, l’amore dello Stato, non è la giusta espressione di questo fatto, ma un’espressione snaturata per mezzo d’una menzognera astrazione, sempre a profitto di una minoranza che sfrutta. La Patria, la nazionalità, come l’individualità è un fatto naturale e sociale, fisiologico e storico al tempo stesso; non è un principio. Non si può definire principio umano che quello che è universale, comune a tutti gli uomini; ma la nazionalità li separa: non è, dunque, un principio. Principo è, invece, il rispetto che ognuno deve avere pei fatti naturali, reali o sociali. E la nazionalità, come l’individualità, è uno di questi fatti. Dobbiamo, dunque rispettarla. Violarla è un misfatto e, per parlare il linguaggio di Mazzini, diviene un sacro principio ogni volta che è minacciata e violata. Ed è per questo ch’io mi sento sempre e francamente il patriota di tutte le patrie oppresse.

L’essenza della nazionalità.

La Patria rappresenta il diritto incontestabile e sacro di tutti gli uomini, associazioni, comuni, regioni, nazioni, di vivere, pensare, volere, agire a loro modo e questo modo è sempre il risultato incontestabile di un lungo sviluppo storico. Pertanto, noi ci inchiniamo innanzi alla tradizione e alla storia; o meglio la rispettiamo, e non perché ci si presenta come astrazione elevata a metafisica, giuridicamente e politicamente per intellettuali e professori del passato, bensì perché essa ha incorporato di fatto la carne e il sangue, i pensieri reali e le volontà delle popolazioni. Se si parla di una certa regione - il canton Ticino (in Svizzera) per esempio - essa apparterrebbe evidentemente alla famiglia italiana: la sua lingua, i suoi costumi e le sue particolarità sono identiche a quelli della popolazione della Lombardia e, di conseguenza, dovrebbe passare a far parte dello Stato Italiano unificato.

Crediamo che si tratta di una conclusione radicalmente falsa. Se esistesse realmente una sostanziale identità tra il canton Ticino e la Lombardia, non ci sarebbe dubbio alcuno che il Ticino si unirebbe spontaneamente alla Lombardia. Ma non è così, e se non si sente il grande desiderio di farlo, ciò dimostra semplicemente che la Storia reale - quella in vigore generazione dopo generazione nella vita reale del popolo del canton Ticino, è la dimostrazione della sua contrarietà all’unione con la Lombardia - è cosa completamente distinta dalla storia iscritta nei libri.

D’altra parte, bisogna dire che la storia reale degli individui e dei popoli non solo procede verso uno sviluppo positivo, bensì molto spesso verso la negazione del suo passato e per la ribellione contro di esso; e questo è il diritto della esistenza, l’inalienabile diritto di questa generazione, la garanzia della sua libertà.

La nazionalità e la solidarietà universale.

Non c’è niente di più assurdo e al tempo stesso più dannoso e mortifero per il popolo che erigere il principio fittizio della nazionalità come ideale di tutte le aspirazioni popolari. La nazionalità non è un principio umano universale. E’ un fatto storico e locale che, come tutti i fatti reali e innocui, ha diritto ad esigere la sua generale accettazione. Ogni popolo fino alla più piccola unità etnica o tradizionale possiede le proprie caratteristiche, il suo specifico modo di esistenza, la sua maniera di parlare, di sentire, di pensare, e di agire; e questa idiosincrasia costituisce l’essenza della nazionalità, risultato di tutta la vita storica e sommatoria totale delle condizioni vitali di questo popolo.

Ogni popolo, come ogni persona è quello che è, e per questo ha un diritto ad essere se stesso. In questo consistono quelli chiamati diritti nazionali. Però se un popolo e una persona esistono di fatto in una determinata forma, non ne consegue che l’uno e l’altro abbiano il diritto ad elevare la nazionalità in un caso e l’individualità nell’altro, come principi specifici, e nemmeno si debba passare la vita discutendo sopra la questione. Al contrario, quanto meno pensano a se stessi e più acquisiscono valori umani universali, più si rivitalizzano e più si caricano di sentimento, tanto la nazionalità quanto l’individualità. La responsabilità storica di tutta la nazione. La dignità di tutta la nazione, come dell’individuo, deve consistere fondamentalmente nel fatto che ognuno accetta la piena responsabilità delle sue azioni, senza cercare di colpevolizzare altri. Non sono molto stupide le lamentele lacrimose di un fanciullo che protesta perchè qualcuno lo ha corrotto e condotto nella cattiva strada? E quello che è improprio nel caso di un ragazzo lo è certamente anche nel caso di una nazione, cui lo stesso sentimento di autostima dovrebbe impedire qualunque intento di imputare ad altri la colpa dei propri errori.

Patriottismo e giustizia universale.

Ognuno di noi dovrebbe elevarsi sopra questo patriottismo piccolo e meschino, per il quale, il proprio paese è il centro del mondo, e che considera grande una nazione quando è temuta dai suoi vicini. Dobbiamo porre la giustizia umana universale sopra tutti gli interessi nazionali e abbandonare una volta per tutte il falso principio della nazionalità, inventato recentemente dai despoti della Francia, Prussia e Russia per schiacciare il supremo principio della libertà. La nazionalità non è un principio, è un diritto legittimo come l’individualità. Ogni nazione, grande o piccola ha l’indiscutibile e medesimo diritto ad esistere, a vivere in accordo con la propria natura. Questo diritto è semplicemente il corollario del principio generale della libertà. Tutti quelli che desiderano sinceramente la pace e la giustizia internazionale devono rinunciare una volta per sempre a quello che si chiama la gloria, il potere la grandezza della Patria, a tutti gli interessi egoisti e vani del patriottismo.

Sulla scuola


I preti di tutte le chiese, lungi dal sacrificarsi al gregge confidato alle loro cure, lo hanno sempre sacrificato, sfruttato e mantenuto al livello di mandria, in parte per soddisfare le loro passioni personali, ed in parte per servire l’onnipotenza della Chiesa. Le stesse condizioni, le stesse cause producono sempre gli stessi effetti. Lo stesso accadrà dunque per i professori della Scuola moderna, divinamente ispirati e patentati dallo Stato. Diverranno necessariamente, alcuni senza saperlo, altri con piena conoscenza di causa, gli insegnanti della dottrina del sacrificio popolare alla potenza dello Stato e a profitto delle classi privilegiate.

Occorrerà dunque eliminare dalla società ogni insegnamento ed abolire tutte le scuole? Tutt’altro. È necessario anzi diffondere a piene mani l’istruzione nelle masse, e trasformare tutte le chiese, tutti questi templi dedicati alla gloria di Dio e all’asservimento degli uomini, in altrettante scuole d’emancipazione umana. Ma, anzitutto, intendiamoci: le scuole propriamente dette, in una società normale, fondata sulla uguaglianza e sul rispetto della libertà umana, dovranno esistere solo per i fanciulli e non già per gli adulti, e, perché esse diventino scuole di emancipazione non di servitù, bisognerà eliminare, prima di tutto, questa finzione di Dio, l’oppressore eterno e assoluto; e bisognerà fondare tutta l’educazione dei fanciulli e la loro istruzione sullo sviluppo scientifico della ragione, non su quello della fede; sullo sviluppo della dignità e dell’indipendenza personale, non su quello della pietà e dell’obbedienza; sul culto della verità e della giustizia, e prima di tutto sul rispetto umano, che deve sostituire in tutto e ovunque il culto divino. Il principio dell’autorità, nell’educazione dei fanciulli, costituisce il punto di partenza naturale; esso è legittimo, necessario, allorché è applicato ai fanciulli in tenera età, allorché la loro intelligenza non è ancora in alcun modo sviluppata; ma appena lo sviluppo di ogni cosa, e per conseguenza anche dell’educazione, comporta la negazione successiva dei punti di partenza, questo principio deve ridursi gradualmente a misura che avanzano l’educazione e l’istruzione, per far posto alla libertà che ascende. Qualsiasi educazione razionale non è in fondo che la eliminazione progressiva dell’autorità a profitto della libertà giacché lo scopo finale dell’educazione dev’essere quello di formare degli uomini liberi e pieni di rispetto e d’amore per la libertà altrui. Così il primo giorno della vita di scuola, se la scuola prende i fanciulli di tenera età, quando essi cominciano appena a balbettare qualche parola, deve essere il giorno dell’autorità più severa e dell’assenza quasi completa della libertà; ma il suo ultimo giorno deve essere quello della più grande libertà e dell’abolizione assoluta di ogni traccia del principio animale o divino dell’autorità.

Il principio d’autorità, applicato agli uomini che hanno sorpassato o raggiunto la maggiore età, diventa una mostruosità, una negazione intellettuale e morale. Sventuratamente, i governi paternalistici hanno lasciato marcire le masse popolari in una così profonda ignoranza, che sarà necessario fondare delle scuole non solamente per i figli del popolo, ma per il popolo stesso. Da queste scuole dovranno essere assolutamente bandite le più piccole applicazioni o manifestazioni del principio di autorità. Non saranno più scuole, saranno accademie popolari in cui non ci sarà più questione né di scolari, né di maestri, dove il popolo verrà liberamente a prendere, se lo trova necessario, un insegnamento libero, e nelle quali, ricco della sua esperienza, potrà insegnare, a sua volta, molte cose ai professori che gli apportano cognizioni che egli non ha. Questo sarà dunque un insegnamento scambievole, un atto di fraternità intellettuale tra la gioventù istruita e il popolo.

Dio e lo Stato


Tutte le religioni coi loro Dei i loro semidei e i loro profeti, i loro messia e i loro santi, furono create dalla fantasia credula degli uomini non ancora giunti al pieno sviluppo ed al pieno possesso delle loro facoltà intellettuali. Quindi è che il cielo religioso non è altra cosa che uno specchio ove l’uomo esaltato dall’ignoranza e dalla fede, trova la sua propria immagine, ma ingrandita e rovesciata, cioè divinizzata. La storia delle religioni, quella del nascere, del grandeggiare e del decadere degli Dei che si sono succeduti nella credenza umana, non è dunque altro che lo sviluppo dell’intelligenza e della coscienza collettiva degli uomini. A misura che nel loro camminostoricamente progressivo, essi scoprono, sia in loro stessi, sia nella natura esteriore, una forza, una qualità o anche un gran difetto, essi li attribuiscono ai loro Dei, dopo averli esagerati, allargati oltre misura, come fanno ordinariamente i fanciulli, per un atto della loro fantasia religiosa. Grazie a questa modestia e a questa pia generosità degli uomini credenti e creduli, il cielo si è arricchito delle spoglie della terra, e per conseguenza necessaria piú il cielo divenne ricco, e piú l’umanità e la terra divennero povere. Una volta stabilita la divinità essa fu naturalmente proclamata la causa, la ragione, l’arbitra e la dispensatrice assoluta di ogni cosa; il mondo non fu piú nulla, essa fu tutto; e l’uomo suo vero creatore, dopo averla tratta dal nulla a sua insaputa, s’inginocchiò davanti ad essa, l’adorò e si dichiarò sua creatura e suo schiavo. Il cristianesimo è precisamente la religione per eccellenza, perché espone e manifesta nella sua pienezza, la natura, la essenza di ogni sistema religioso, che è l’impoverimento, la servitú, l’annientamento dell’umanità a profitto della divinità. [...]

Dio appare, l’uomo si annienta; e più la Divinità si fa grande, più l’umanità diventa miserabile. Ecco la storia di tutte le religioni: ecco l’effetto di tutte le ispirazioni e di tutte le legislazioni divine. Nella storia, il nome di Dio è la terribile vera clava con la quale tutti gli uomini divinamente ispirati, i "grandi geni virtuosi", hanno abbattuto la libertà, la dignità, la ragione e la prosperità degli uomini. Abbiamo avuto prima la caduta di Dio. Abbiamo ora una caduta che c’interessa assai più: quella dell’uomo, causata dalla sola apparizione di Dio o manifestazione sulla terra. Vedete dunque in quale orrore profondo si trovano i nostri cari ed illustri idealisti. Parlandoci di Dio, essi credono e vogliono elevarci, emanciparci, nobilitarci, ed al contrario ci schiacciano e ci avviliscono. Col nome di Dio, essi immaginano di poter edificare la fratellanza fra gli uomini, ed invece creano l’orgoglio e il disprezzo, seminano la discordia, l’odio, la guerra, fondano la schiavitù. Perché con Dio vengono necessariamente i diversi gradi d’ispirazione divina; l’umanità si divide in uomini ispiratissimi, meno ispirati, non ispirati. Tutti sono egualmente nulla davanti a Dio, è vero, ma confrontati, gli uni agli altri, alcuni sono più grandi degli altri; non solamente di fatto, ciò che non avrebbe importanza perché una ineguaglianza di fatto si perde da se stessa nella collettività quando non può afferrarsi ad alcuna finzione o istituzione legale; ma alcuni sono più grandi degli altri per volere del diritto divino dell’ispirazione: il che costituisce subito una in eguaglianza fissa, costante, pietrificata. I più ispirati devono essere ascoltati ed obbediti dai meno ispirati e questi dai non ispirati.

Ecco il principio di autorità ben stabilito e con esso le due istituzioni fondamentali della schiavitù: la Chiesa e lo Stato.

Io sono veramente libero solo quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, sono anch’essi liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è invece la condizione necessaria e la conferma. Divento veramente libero solo con la libertà degli altri, di modo che più numerosi sono gli esseri liberi che mi circondano e più estesa e più ampia diventa la mia libertà. La schiavitù degli uomini, al contrario, è di ostacolo alla mia libertà, o, ciò che è la stessa cosa, è la loro bestialità che è una negazione della mia umanità perché ancora una volta non posso dirmi veramente libero se non quando la mia libertà o, se si vuole, quando la mia dignità di uomo, il mio diritto umano (il quale consiste nel non ubbidire a nessun altro uomo ed a determinare le mie azioni conformemente alle mie intime convinzioni) riflessi dalla coscienza egualmente libera di tutti, mi ritornano raffermati dall’approvazione di tutti. In tal modo la mia libertà personale, assicurata dalla libertà di tutti, si estende all’infinito.

E’ facile constatare, dunque, che la libertà, così come viene concepita dai materialisti, è una cosa assai positiva, assai complessa e soprattutto sociale, perché non può essere realizzata che dalla società e soltanto nella più stretta uguaglianza e solidarietà di ciascuno con tutti. In questa libertà si possono distinguere tre momenti di sviluppo, tre elementi, di cui il primo, che è superlativamente positivo e sociale, consiste nel pieno sviluppo e nel pieno godimento, per ciascuno, di tutte le facoltà e di tutte le attitudini umane attraverso l’educazione, l’istruzione scientifica e la prosperità materiale, beni questi che possono essere dati solo dal lavoro collettivo, materiale ed intellettuale, muscolare e cerebrale, dell’intera società.

Il secondo elemento o momento della libertà è negativo. E’ quello della rivolta dell’individuo umano contro ogni autorità divina e umana, collettiva e individuale. Innanzitutto è la rivolta contro la tirannia del fantasma supremo della teologia, contro Dio. E’ evidente che sino a quando avremo un padrone in cielo, saremo schiavi sulla terra. La nostra ragione e la nostra volontà saranno ugualmente annientate. Sino a quando crederemo di dovere obbedienza assoluta a Dio -e non esiste altra obbedienza di fronte ad un Dio- dovremo necessariamente ed acriticamente sottometterci alla santa autorità dei suoi intermediari e dei suoi eletti: messia, profeti e legislatori ispirati da lui; imperatori, re e tutti i loro funzionari e ministri, rappresentanti e sacri servitori delle due grandi istituzioni - la Chiesa e lo Stato- imposte perché stabilite dallo stesso Dio per dirigere gli uomini. Ogni autorità temporale o umana promana direttamente dall’autorità spirituale o divina. Ma, poiché l’autorità è la negazione della libertà, Dio, o piuttosto, la finzione di Dio, è quindi la consacrazione e la causa intellettuale e morale di ogni schiavitù sulla terra, e la libertà degli uomini sarà piena solo allorquando essa avrà completamente distrutto la nefasta finzione di un padrone celeste.

Successivamente e conseguentemente c’è la rivolta di ciascuno contro la tirannia degli uomini, contro l’autorità sia individuale e sia sociale rappresentata e legalizzata dallo Stato. A questo punto, per meglio intendersi, è bene fare una netta distinzione tra l’autorità ufficiale e di conseguenza tirannica, della società organizzata in Stato, e l’influenza e l’azione naturale della società non ufficiale, ma naturale su ciascuno dei suoi membri. Per l’individuo la rivolta contro questa influenza naturale della società è molto più difficile della rivolta contro la società ufficialmente organizzata, contro lo Stato, sebbene spesso la prima rivolta sia tanto inevitabile quanto lo è la seconda.

La tirannia sociale, spesso opprimente e funesta, non presenta quel carattere di violenza imperativa, di dispotismo legalizzato e formale che distingue l’autorità dello Stato. Essa non viene imposta come una legge alla quale ogni individuo deve obbedire sotto pena d’incorrere in un castigo; la sua azione è più mite, più insinuante, più impercettibile, ma tanto più vigorosa di quella dell’autorità dello Stato. Essa domina gli uomini con le consuetudini, le usanze, con l’insieme dei sentimenti, dei pregiudizi e delle abitudini della vita materiale, intellettuale, affettiva e che costituiscono ciò che viene chiamata la pubblica opinione. Essa avviluppa l’uomo dalla sua nascita, lo ferisce profondamente, lo penetra e forma la base stessa della sua esistenza individuale, cosicché ciascuno ne è più o meno ed in certo qual modo il complice contro se stesso e, molto spesso, senza che ne abbia il sospetto. Ne deriva che, per ribellarsi contro questa influenza che la società esercita sopra di lui, l’uomo deve almeno in parte ribellarsi contro se stesso, giacché, con tutte le sue tendenze e le sue aspirazioni materiali, intellettuali e morali, esso non è altro che il prodotto della società. L’immenso potere esercitato sugli uomini dalla società deriva appunto da ciò. Dal punto di vista della morale assoluta, cioè da quello del rispetto umano -e dirò tra poco che cosa io intenda con questa espressione- questo potere della società può essere benefico oppure anche nocivo. E’ benefico quando tende allo sviluppo del sapere, della prosperità materiale, della libertà, dell’uguaglianza e della fraterna solidarietà degli uomini; è dannoso quando ha inclinazioni contrarie.

Un uomo nato in una società di bruti, resta, salvo rarissime eccezioni, un bruto; nato in una società governata dai preti, diventa un idiota, un bigotto; nato in una banda di ladri diventerà probabilmente un ladro; nato nella borghesia, sarà uno sfruttatore del lavoro altrui; e se ha la sfortuna di nascere nella società dei semidei che governano questa terra - nobili, principi, figli di re - sarà, a seconda delle sue capacità, dei suoi mezzi e delle sue forze, uno spregiatore, un oppressore dell’umanità, un tiranno. In tutti questi casi, l’umanizzazione dell’individuo, la sua ribellione contro la società che lo ha visto nascere diviene indispensabile. Ma, ripeto, la ribellione dell’individuo contro la società è ben più difficile della sua ribellione contro lo Stato. Lo Stato, infatti, è una istituzione storica, transitoria, una forma effimera della società -allo stesso modo della Chiesa, di cui lo Stato è il fratello primogenito- e non ha il carattere fatale ed immutabile della società, la quale è anteriore a tutti gli sviluppi dell’umanità e che, essendo pienamente partecipe delle leggi, dell’azione e delle manifestazioni naturali, costituisce la base stessa di ogni umana esistenza. L ‘uomo, almeno dopo che ha fatto il primo passo verso l’umanità, dopo che ha incominciato a divenire un essere umano, cioè un essere più o meno parlante e pensante, nasce nella società, come la formica nasce nel suo formicaio e l’ape nel suo alveare; l’uomo non sceglie la società, ne è, al contrario, il prodotto ed è quindi anche fatalmente sottoposto alle leggi naturali che presiedono ai suoi sviluppi necessari, così come obbedisce a tutte le altre leggi naturali. La società, come la natura, è anteriore e contemporaneamente sopravvive a ciascun individuo umano; essa è eterna come la natura; o, meglio, dato che è nata sulla terra, essa durerà tanto quanto durerà la nostra terra.

Una rivolta radicale contro la società sarebbe altrettanto impossibile quanto una rivolta contro la natura, giacché la società umana non è altro che l’ultima grande manifestazione o creazione della natura su questa terra; e un individuo che volesse mettere in dubbio la società, cioè la natura in generale e specialmente la propria natura, si porrebbe per ciò stesso al di fuori di tutte le condizioni di una esistenza reale, si getterebbe nel nulla, nel vuoto assoluto, nella morta astrazione, in Dio. Non ci si può quindi chiedere se la società sia un bene o un male, allo stesso modo come è impossibile chiedere se la natura, l’essere universale, materiale, reale, unico, supremo, assoluto, sia un bene o un male; è più del bene e del male, è un immenso fatto positivo e primitivo anteriore ad ogni coscienza, ad ogni idea, ad ogni apprezzamento intellettuale e morale, è la base stessa, è il mondo in cui fatalmente e successivamente si sviluppa per noi ciò che chiamano il bene e il male. Non è così per lo Stato e non esito a dire che lo Stato è il male, ma un male storicamente necessario, tanto necessario nel passato quanto sarà prima o poi necessaria la sua estinzione, tanto necessario quanto necessarie sono state la bestialità primitiva e le divagazioni teologiche degli uomini.

Lo Stato non è la società, ne è solo una forma tanto violenta quanto astratta. Lo Stato è sorto storicamente in tutti i paesi dal connubio della violenza, della rapina, del saccheggio, cioè della guerra e della conquista, con gli Dei creati successivamente dalla fantasia teologica delle nazioni. Sin dalle origini, lo Stato ha rappresentato, e rappresenta ancora attualmente, la sanzione divina della forza brutale e dell’iniquità trionfante. Ed anche nei paesi più democratici, come gli Stati Uniti d’America e la Svizzera è la consacrazione normale del privilegio d’una qualsiasi minoranza e del reale asservimento dell’immensa maggioranza. La rivolta è molto più facile contro lo Stato perché c’è nella natura stessa di esso qualcosa che spinge alla rivolta. Lo Stato è l’autorità, è la forza, è l’ostentazione e l’esaltazione della forza. Esso non si insinua dolcemente, né cerca di trasformare: e tutte le volte che esso tenta di farlo, lo fa con grande sgarbataggine, giacché la sua natura non è quella di persuadere, ma d’imporsi, di usare violenza, e vana risulta la preoccupazione di mascherare la sua essenza sia di manomissore legale della volontà degli uomini e sia di negatore permanente della loro libertà. Anche quando comanda il bene, esso lo deprime e lo guasta, appunto perché lo impone e perché ogni imposizione provoca e suscita le legittime ribellioni della libertà; e perché il bene quando viene imposto, dal punto di vista della vera morale umana e non già divina, diventa il male.

La libertà, la moralità e la dignità umana sono tali solo in quanto l’uomo fa il bene non perché gli viene imposto, ma perché lo sente, perché lo vuole, perché lo desidera. La società, invece, non viene imposta formalmente, ufficialmente, autoritariamente, ma s’impone naturalmente ed è appunto per questo motivo che la sua azione sull’individuo è incomparabilmente più potente di quella dello Stato. Essa crea e forma tutti gli individui che nascono e si sviluppano nel suo seno. Essa travasa nei singoli, dal primo giorno della nascita fino a quello della loro morte, tutta la sua natura materiale, intellettuale e morale, e s’individualizza, per così dire, in ciascuno di essi.

L’individuo umano reale è così poco un essere universale ed astratto che ciascuno, sin dal momento in cui si forma nel ventre materno, si trova già determinato e condizionato da una quantità di cause e di azioni materiali, geografiche, climatologiche, etnografiche, igieniche e, conseguentemente, economiche, che costituiscono precisamente la natura materiale esclusiva e particolare della sua famiglia, della sua classe, della sua nazione, della sua razza, e, per quanto le inclinazioni e le attitudini degli uomini dipendano dall’insieme di tutte queste influenze esteriori o fisiche, ciascuno nasce con una natura o un carattere individuale materialmente determinato. Inoltre, a causa dell’organizzazione relativamente superiore del cervello umano, ogni uomo, nascendo, possiede d’altronde gradi diversi, non di idee e di sentimenti innati come pretendono gli idealisti, ma di capacità, sia materiale che formale, di sentire, di parlare e di volere. L’uomo porta con se soltanto la facoltà di formare e di sviluppare le idee, nonché, per come dirò, un potere di attività del tutto formale, senza alcun contenuto. Ed è precisamente la società che dà a questa sua attività il primo contenuto.

Non è questa la sede più opportuna per ricercare come si siano formate le prime cognizioni e le prime idee, la maggior parte delle quali furono naturalmente assai false nelle società primitive. Tutto ciò che possiamo dire con piena certezza è che esse non sono state generate isolatamente, spontaneamente dalla mente miracolosamente illuminata di individui ispirati, bensì dal lavoro collettivo, il più delle volte impercettibile, della mente di tutti gli individui che appartennero a quelle società; di quelle idee gli individui più ragguardevoli, gli uomini di genio, han potuto dare soltanto la più fedele o la più fortunata espressione, in quanto gli uomini di genio, hanno fatto sempre come Molière, cioè “hanno preso il loro bene dovunque essi lo trovassero”. E’ quindi il lavoro collettivo delle società primitive che ha creato le prime idee. Dapprima, queste idee furono soltanto semplici constatazioni, naturalmente assai imperfette, dei fatti naturali e sociali, e deduzioni ancor meno esatte derivate da quei fatti. Tale fu l’inizio di tutte le rappresentazioni, immaginazioni e pensieri umani.

Il contenuto di questi pensieri non è stato creato da un’azione spontanea dello spirito umano, bensì fu dato dapprima a quest’ultimo dal mondo reale sia esteriore che interiore. Allo spirito dell’uomo, cioè al lavoro o al funzionamento completamente organico e, di conseguenza, materiale del suo cervello, provocato dalle impressioni tanto esterne che interne trasmessegli dalle sue fibre, si aggiunse un’azione del tutto formale, consistente nel comparare e nel combinare queste impressioni delle cose e dei fatti in sistemi esatti o falsi. Così nacquero le prime idee. Queste idee o, meglio, queste prime immaginazioni si precisarono per mezzo della parola e si fissarono comunicandosi da un individuo umano all’altro, per modo che le immaginazioni individuali, di ciascuno si modificarono, si completarono scambievolmente e, mescolandosi più o meno in un sistema unico, finirono col formare la coscienza comune, il pensiero collettivo della società. Questo pensiero, tramandato attraverso la tradizione da una generazione all’altra, e sviluppandosi sempre di più col lavoro intellettuale dei secoli, costituisce il lavoro intellettuale e morale d’una società, d’una classe, d’una nazione.

Ogni generazione nuova trova già nella sua culla tutto un mondo d’idee, d’immaginazioni e di sentimenti che essa riceve in eredità dai secoli passati. All’uomo novellamente nato, questo mondo dapprima non si presenta sotto la sua forma ideale, cioè come sistema di rappresentazioni e d’idee, come religione, come dottrina, giacché il bambino sarebbe incapace di accettarlo e comprenderlo sotto questa forma; ma s’impone a lui come un mondo di fatti incarnato e realizzato sia nelle persone e sia in tutte le cose che lo circondano comunicando ai suoi sensi tutto ciò che egli ode e vede sin dai primi giorni della sua esistenza. E ciò perché le idee e le rappresentazioni umane (le quali dapprima sono soltanto i prodotti dei fatti reali, sia naturali e sia sociali, nel senso che ne sono stati il riflesso o l’eco nel cervello umano e la riproduzione per così dire ideale e più o meno esatta di questi fatti a mezzo di quell’organo assolutamente materiale del pensiero umano) acquistano nella coscienza collettiva di una qualsiasi società solo successivamente, dopo che sono ben fissate nel modo che sto per spiegare, la forza per divenire a loro volta cause produttive di fatti nuovi, non precisamente naturali, ma sociali. Esse finiscono per modificare e per trasformare, sia pure molto lentamente, l’esistenza, le abitudini e le istituzioni umane, cioè, in breve, tutti i rapporti degli uomini nella società e, con la loro incarnazione nelle cose più quotidiane della vita di ognuno, esse diventano sensibili, palpabili per tutti, anche per i bambini.

Avviene così che ogni nuova generazione se ne compenetra sin dalla più tenera infanzia e che, quando perviene all’età virile, in cui inizia precisamente l’elaborazione del proprio pensiero, necessariamente accompagnata da una nuova critica, questa novella generazione, trova in se stessa, oltre che nella società che la circonda, tutto un mondo di pensieri o di rappresentazioni consolidate, che le servono di punto di partenza e che le danno in certo qual modo la prima sostanza o il materiale per il proprio lavoro intellettuale e morale. Di questo tipo sono le immaginazioni tradizionali e comuni che i metafisici, ingannati dal mondo del tutto insensibile ed impercettibile con cui, provenendo dal di fuori, esse penetrano e s’imprimono nel cervello dei bambini, ancor prima che siano pervenuti alla coscienza di se stessi, chiamano falsamente idee innate. Tali sono le idee generali od astratte sulla divinità e sull’ anima, idee completamente assurde, ma inevitabili, fatali nello sviluppo storico dello spirito umano il quale, pervenendo soltanto molto lentamente ed attraverso i secoli alla conoscenza razionale e critica di se e delle proprie manifestazioni, parte sempre dall’assurdo per giungere alla verità e dalla schiavitù per conquistare la libertà; idee approvate dall’ignoranza generale e dalla stupidità dei secoli, oltre che dall’interesse ben calcolato delle classi privilegiate, al punto che, ancora attualmente, non ci si saprebbe pronunciare apertamente e con un linguaggio contro di esse, senza provocare lo sdegno di una notevole parte delle masse popolari e senza correre il pericolo di essere lapidati dall’ipocrisia borghese.

Oltre a queste idee del tutto astratte, con le quali è sempre in contatto molto stretto, perché le trova nella società, l’adolescente, in conseguenza dell’influenza assai massiccia esercitata da quest’ultima sulla sua infanzia, trova in se stesso anche una quantità di altre rappresentazioni od idee molto più determinate e che riguardano più da vicino la vita reale e l’esistenza quotidiana dell’uomo. Tali sono le rappresentazioni sulla natura e sull’uomo, sulla giustizia, sui doveri e sui diritti degli individui e delle classi, sulle convenienze sociali, sulla famiglia, sulla proprietà, sullo Stato e molte altre ancora che regolano i rapporti degli uomini tra loro. Tutte queste idee che l’uomo, nascendo, trova incarnate nelle cose e negli uomini e che s’imprimono nella sua mente attraverso l’educazione e l’istruzione che riceve, ancor prima che sia pervenuto alla conoscenza di se, esso le ritrova successivamente consacrate, spiegate, commentate dalle teorie che esprimono la coscienza universale o il pregiudizio collettivo e da tutte le istituzioni religiose, politiche ed economiche della società di cui fa parte. E l’uomo ne è impregnato a tal punto che, interessato o meno a difenderle, ne è involontariamente il complice, con tutte le sue abitudini materiali, intellettuali e morali.

Ciò di cui bisogna meravigliarsi non è tanto l’azione assai vigorosa esercitata sulla massa degli uomini da parte di queste idee che esprimono la coscienza collettiva della società, quanto, invece, che si trovino, in questa massa, degli individui che hanno il proposito, la volontà ed il coraggio di combatterle. Giacché, essendo la pressione della società sull’individuo immensa, non c’è carattere tanto forte, né intelligenza tanto poderosa che possano dirsi al riparo dagli assalti di questa influenza tanto dispotica quanto ineluttabile. Nulla prova meglio il carattere sociale dell’uomo quanto la detta influenza. Si direbbe che la coscienza collettiva di una qualsiasi società, incarnata sia nelle grandi istituzioni pubbliche e sia in tutte le minuzie della sua vita privata e che serve di base a tutte le sue teorie, formi una specie di ambiente, d’atmosfera intellettuale e morale, nocivo ma assolutamente necessario all’esistenza di tutti i suoi membri. Questa coscienza collettiva li domina e nello stesso tempo li sostiene, collegandoli tra loro con rapporti consuetudinari e necessariamente da essa determinati; infondendo a ciascuno la sicurezza, la certezza e costituendo per tutti la condizione suprema dell’esistenza dell’enorme massa, la banalità, il luogo comune, la routine.

La maggioranza degli uomini, appartenenti non soltanto alle masse popolari, ma alle classi privilegiate che sono spesso più colte delle masse, si sentono tranquilli ed in pace con se stessi solo quando, nei pensieri ed in tutte le azioni della loro vita, seguono fedelmente, ciecamente, la tradizione e la consuetudine. “I nostri padri hanno pensato ed agito cosi, perché dovremmo pensare ed agire diversamente da tutti gli altri?” Queste parole esprimono la filosofia, la convinzione e la pratica del 99% dell’umanità, presa indifferentemente in tutte le classi della società. E, per come ho già rilevato, ciò costituisce il più grande ostacolo al progresso ed all’emancipazione più rapida della specie umana.

Quali sono le cause di questa lentezza desolante e così vicina alla stasi che costituisce, a mio giudizio, la più grande sciagura dell’umanità? Le cause sono molteplici ed una di esse, tra le più considerevoli certamente, è l’ignoranza delle masse. Private generalmente e sistematicamente di ogni educazione scientifica, grazie alle paterne cure di tutti i governi e delle classi privilegiate le quali traggono utilità nel mantenerle il più a lungo possibile nell’ignoranza nella devozione e nella fede -tre sostantivi che esprimono all’incirca la stessa cosa- le masse non conoscono neppure l’esistenza e l’uso di quello strumento di emancipazione intellettuale che si chiama critica, senza la quale è impossibile una completa rivoluzione morale e sociale. Le masse che hanno tutto l’interesse a ribellarsi contro lo ordine stabilito delle cose, sono ancora più o meno legate ad esso a causa della religione dei loro padri, che è la provvidenza delle classi privilegiate. Le classi privilegiate -che non hanno più oggigiorno né la devozione né la fede, anche se dicono il contrario- sono a loro volta, legate a quest’ordine di cose a causa del loro interesse politico e sociale. Tuttavia non è possibile affermare categoricamente che soltanto il detto interesse sia la ragione del loro vivo attaccamento alle idee dominanti.

Quale che sia la mia opinione negativa circa il valore attuale, intellettuale e morale, di queste classi, non posso però ammettere che il solo interesse sia il movente dei loro pensieri e delle loro azioni. In ogni classe ed in ogni partito esiste indubbiamente un gruppo più o meno numeroso di profittatori intelligenti, audaci e scrupolosamente disonesti, chiamati uomini forti, liberi da ogni pregiudizio intellettuale e morale, egualmente indifferenti a tutti i princìpi, di cui però si servono, all’ occorrenza, per ottenere il loro scopo. Ma questi uomini forti, sono in seno alle classi più corrotte, solo una infima minoranza, giacché la maggioranza è pecoresca come lo è la maggioranza in seno al popolo. Essa subisce naturalmente l’influenza dei propri interessi che fanno della reazione una condizione di esistenza. Ma è impossibile ammettere che, facendo della reazione, essa obbedisca solamente ad un sentimento egoistico. Una gran massa d’uomini, sia pure parzialmente corrotti, quando agisce collettivamente, non saprebbe essere così depravata.

In ogni associazione numerosa e, a maggior ragione, nelle associazioni tradizionali e storiche come le classi, sia pure giunte al punto da essere divenute assolutamente malefiche e contrarie all’interesse ed al diritto di tutti, esiste un principio di moralità, una religione, una credenza qualsiasi, certamente pochissimo razionali, il più sovente ridicole e, di conseguenza, molto grette ma sincere e che costituiscono la condizione morale indispensabile della loro esistenza.

Tratto da: “Dio e lo Stato”. Edizioni “RL” Pistoia 1974

Stato e Anarchia


E' l'opera principale di Michail Bakunin, composta nel 1873. E' l'unica opera completa del pensatore russo, punto di svolta per la comprensione dell'anarchismo classico. Fu pubblicata in russo, a Zurigo, anonima, corredata dalla cd. "Appendice A", una sorta di vademecum per rivoluzionari.

La storia del testo

Gosudarstvennost' i Anarchija, scritto nell'estate del 1873, fu composto e stampato a Zurigo da un gruppo di giovani evasi dalla Russia fra i quali Ross, Vaklowksi, Debogorij-Mokrievic, Ralli. Armand Ross ne fece da solo la composizione tipografica, mentre Vaklowksi e Debogorij-Mokrievic azionavano la pressa a mano. Il lavoro venne terminato nei primi mesi del 1874, ne furono tirate 1200 copie, senza nome, e Ross si incaricò personalmente di introdurle in Russia con l'aiuto di contrabbandieri ebrei. L'opera esercitò una fortissima influenza sulla gioventù studentesca rivoluzionaria, tanto che il ministro della Giustizia, il conte Pahlen, scrisse nelle sue memorie del 1875:
«Gli scritti di Bakunin e la propaganda dei suoi adepti hanno esercitato sulla gioventù un'influenza stupefacente e nefasta. Questi scritti che nessuno si è occupato di rifiutare hanno affascinato la gioventù, e, come ogni cosa proibita, l'hanno sedotta perché corrispondevano ai suoi desideri e ai suoi istinti».

La struttura e stile del testo

Il testo, data la natura sia dell’autore, sia del contenuto, è sistematico, scoordinato. Tuttavia, il pensiero dell’autore ne emerge con prepotenza, dal miscuglio fra teoria e analisi storica. L’opera, già dal titolo paradossale, è una critica al marxismo, all'Associazione Internazionale dei Lavoratori, alle politiche reazionari di tutti gli stati europei, in un momento di grande subbuglio e instabilità politica (l’espansionismo prussiano, l’esperienza della Comune di Parigi etc.). Lo stile è, nello stile bakuniano, trabordante e concitatus, trabocca da ogni parola, è carico e diretto.

Il contenuto del testo

Stato e Anarchia è la summa del pensiero di Michail Bakunin, un testo di teoria politica, analisi storica, invettiva e critica contro il marxismo, l’imperialismo, lo statalismo – direzione che stava assumendo la Ia Internazionale. Gli antipodi dialettici che sostengono l’argomentazione bakuniana sono lo Stato da un lato, la rivoluzione sociale anarchica dall’altro.

Lo Stato, per Bakunin, è l’esaltazione per la forza, l’inebriamento per la soverchieria, il punto di non ritorno del dominio dell’uomo sull’uomo. «Qualunque Stato, anche quello rivestiti delle forme più liberali e democratiche, è necessariamente fondato sul predominio, sulla dominazione, sulla violenza e quindi sul despotismo.» (Stato e Anarchia, 1966, pg. 47). «L’imperialismo non è una deviazione dello Stato, ma un suo elemento costitutivo: ove regna la forza questa deve senz’altro agire, e per non essere conquistato, lo Stato deve farsi Stato militare e indi conquistatore» (ivi, pg. 23). «Lo Stato, come soggetto astratto di cui si sono appropriati i dominatori, deve essere rovesciato sul piano concreto: il potere deve essere distrutto in modo irreversibile e perentorio, non è contemplabile altra via che la Rivoluzione Sociale per la conquista della libertà popolare» (ivi, pg. 74-75).

«Noi ammettiamo un solo terreno: quella della Rivoluzione Sociale fuori della quale non vediamo salvezza [...] crediamo che precisamente su questo terreno possano, a causa dei numerosi tratti comuni del carattere e del destino storico, delle aspirazioni passate e presenti di tutti i popoli [...] unirsi fraternamente non per creare uno Stato comune ma per distruggere tutti gli stati, non per formare tra di loro un mondo chiuso ma per entrare tutti assieme nell’arena internazionale» (ivi, pg. 95).

La libertà popolare è possibile solo al di fuori dello Stato, che lacera la naturale predisposizione alla socievolezza:
«...verrà un tempo quando non ci saranno più Stati, [...] verrà un tempo quando sulle rovine degli Stati politici sarà fondata, in piena libertà e organizzata dal basso in alto, l’unione libera e fraterna delle libere associazioni di produzione, delle comuni e delle federazioni regionali che abbraccerà senza nessuna distinzione, perché liberamente, gli individui di ogni lingua e di ogni nazionalità [...]; dove c’è lo Stato, c’è inevitabilmente la dominazione e, di conseguenza, la schiavitù; lo Stato, senza la schiavitù, aperta o mascherata, è inconcepibile» (ivi, pg. 110)

Ma le pagine più rilevanti del testo sono certamente quelle di critica all’astrazione della socialità attuata da Hegel e dalla sua propaggine più odiosa: Marx. Scrive Bakunin:

«Chi parte dal pensiero astratto non potrà mai giungere alla vita perché dalla metafisica alla vita non c’è strada. Sono separate da un abisso. Sorvolare questo abisso, compiere questo “salto mortale”, o quel che lo stesso Hegel chiamava “salto qualitativo” dal mondo della logica al mondo della natura, della vita reale non è ancora riuscito nessuno e nessuno riuscirà mai. Chi insegue l’astrazione morirà con essa».

La vita, in quanto movimento concretamente razionale è nel mondo della scienza la marcia dal fatto reale all’idea che lo abbraccia, che lo esprime e che di conseguenza lo spiega; e nel mondo pratico è il movimento che va dalla vita sociale verso la sua organizzazione più razionale possibile, conformemente alle indicazioni, alle condizioni, alle necessità e alle esigenze più o meno spontanee di quella medesima vita. Questa è la larga strada del popolo, dell’emancipazione reale e totale, accessibile a tutti e, di conseguenza, veramente popolare, la strada della Rivoluzione Sociale ‘’’anarchica’’’ che nasce da sola dal seno del popolo distruggendo tutto quanto si opponga al traboccare generoso della sua vita, affinché, dalle stesse profondità di questo popolo, scaturiscano le nuove forme di libera comunità» (ivi, pg. 159). Il potere, stigma del dominio dell’uomo sull’uomo, non deve essere delegato a nessuno, poiché chi è investito di un’autorità sarà, secondo una legge sociale immutabile, uno sfruttatore della società. Gli anarchici sono dunque nemici della società, nemici dell’autorità e propongono la distruzione dello Stato, e l’organizzazione della socialità dal basso verso l’alto, attraverso libere organizzazioni di produttori, al di fuori di qualsiasi tutela ufficiale.

Marx e “Stato e Anarchia”

Karl Marx, obiettivo polemico dello scritto bakuniano, lesse a lungo l’opera e chiosò in molti punti, criticando le posizioni anarchiche. Da un lato v’era il rigore ebraico e la pedanteria della scienza sociale, dall’altro l’aspirazione a qualcosa di grande e la disorganizzazione romantica. La precisione marxiana si scontrava con l’irruenza anarchica. I punti di attrito si possono riassumere nei seguenti: - tempi e modi della rivoluzione - soggetto rivoluzionario - ruolo dello Stato dopo il sovvertimento dello stato di cose presenti.

Tempi e modi della rivoluzione

La posizione bakuniana è chiara: la rivoluzione è un atto di volontà, tramite cui tutti gli oppressi si liberano assieme. La replica di Marx:
«Asineria da scolaretto! Una rivoluzione sociale radicale è legata a certe condizioni storiche dello sviluppo economico; queste ne costituiscono la premessa. Essa è quindi possibile soltanto laddove, con la produzione capitalistica, il proletariato industriale assume almeno una posizione di rilievo nella massa del popolo. [...] Egli (Bakunin) non comprende nulla della rivoluzione sociale, ne comprende solo le fasi politiche; per lui le condizioni economiche non esistono. Poiché tutte le forme economiche succedutisi fino ad oggi, sviluppate o sottosviluppate, implicano l’asservimento del lavoratore (sia nella forma dell’operaio salariato, del contadino, ecc.) egli crede che in tutte sia possibile una rivoluzione ugualmente radicale. [...] La volontà, non le condizioni economiche, è il fondamento della sua rivoluzione sociale» (K. Marx & F .Engels, Critica dell’anarchismo, pg. 355)

Soggetto rivoluzionario

Per Bakunin, deputato a promuovere la rivoluzione deve essere il popolo nella sua interezza; per Marx, si tratta solo del proletariato industriale, inteso come la classe che ha assunto su di sé tutte le contraddizioni dello stato attuale di cose. La massa di contadini, di straccioni viene definita da Marx ‘’’Lumpenproletariat’’’, cioè ‘’’proletariato di straccioni’’’, incapaci di articolare il discorso politico, di assumere su di sé il compito dell’abolizione del sistema classista

Il ruolo dello Stato

Per Marx, lo Stato, una volta diventato dominio della classe proletaria, in seguito alla fase transitoria della “’’’dittatura del proletariato’’’”, perderà il suo carattere politico, estinguendosi, così come il sistema classista.

Per Bakunin, invece:
«Dicono [i marxisti, ndr] che questo giogo dello Stato, questa dittatura è una misura transitoria necessaria per poter raggiungere l’emancipazione integrale del popolo: l’anarchia o la libertà sono il fine, lo Stato o la dittatura sono il mezzo. E così, per emancipare le masse popolari si dovrà prima di tutto soggiogarle.
La nostra polemica non è per il momento arrestata su questa contraddizione. Essi affermano che solo la dittatura, la loro, naturalmente, può creare la libertà del popolo; rispondiamo che nessuna dittatura può avere altro fine che quello della propria perpetuazione e che essa è capace solo di generare e di coltivare la schiavitù nel popolo che la subisce; la libertà può essere creata solo dalla rivolta di tutto il popolo e dalla libera organizzazione delle masse dei lavoratori dal basso in alto» (M. Bakunin, Stato e Anarchia, pg. 212)