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ROMPERE CON IL CAPITALISMO
Le basi materiali della cosiddetta questione giovanile
L'ESALTAZIONE BORGHESE DELL'INDIVIDUO E IL SUO ANNIENTAMENTO SOCIALE
"Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa
è la più bella età della vita".
Violenta, superba, categorica, "vera", questa frase è
piaciuta molto ed è diventata famosa come specchio del
rifiuto, indice della ribellione, bandiera della gioventù
tribolata e scontenta. La scrive Paul Nizan nel 1931 all'inizio di
un romanzo-denuncia. Si riferisce a una sua esperienza personale
avvenuta nel 1926, quando, stufo dell'Ecole Normale
Supérieure di Parigi e disgustato dall'ambiente
intellettuale, si trasferisce in Arabia come precettore in una ricca
famiglia inglese.
La frase e il suo autore sono emblematici per il discorso che faremo
qui di seguito, dato che tratteremo del rifiuto e della ribellione
dei giovani. Il fatto è che il rifiuto spesso si trasforma in
una fuga, mentre la vera ribellione non può, dato che ha per
oggetto un antagonista che essa deve neutralizzare o distruggere.
Insomma, la ribellione è meno sensibile al compromesso.
Il rifiuto dei "grandi rottami putrescenti" non impedisce a Nizan di
tornare a Parigi per insegnare filosofia e fare politica all'interno
del mondo putrescente. Contraddizione? Giustamente egli dice: "Nulla
sapevamo di quanto sarebbe stato necessario sapere e la cultura era
troppo complessa per permetterci di capire altro che le rughe
superficiali."
Nel 1927 la tragedia dell'Internazionale comunista era già
consumata, la controrivoluzione stalinista già in atto
dall'Europa alla Cina, ma Nizan si iscrive al Partito Comunista
Francese dei Cachin e dei Souvarine, veri reazionari "popolari". Ha
22 anni. L'epilogo è segnato dalle premesse: sopravviene il
disgusto anche per il partito stalinista, dal quale esce nel '39. Si
attira con questo le accuse infamanti degli stalinisti, la congiura
del silenzio. Poi la morte in guerra a 35 anni, scrittore
sconosciuto.
I giovani come Nizan giungono faticosamente al rifiuto degli effetti
di questa società, ma non riescono a compiere il salto verso
la vera ribellione sociale. Perché?
"Non permetterò a nessuno..." è una frase che fa
effetto, ma purtroppo non è sostenuta da altro che da
sé stessa. Dietro c'è soltanto la verità
terribile di quel "nulla sapevamo di quanto sarebbe stato necessario
sapere" e certamente non si può renderne responsabile
l'autore. L'orgoglioso e individualistico rifiuto si spegne nella
controrivoluzione che tutto avvolge e macina. Senza la
possibilità di conoscere perché l'Internazionale era
fallita, non si poteva far altro che difendere con le unghie e con i
denti la rivoluzione anche di fronte agli attacchi congiunti
staliniani e fascisti o tuffarsi nell'ambiente disponibile e questo
ambiente era ciò che la controrivoluzione offriva, sia a
"destra" che a "sinistra".
Il generoso sforzo di giovani come Nizan trova anche i suoi
apologeti ingenerosi. Il compagno di università Jean Paul
Sartre riabilita interessatamente e tardivamente il morto in chiave
esistenzialistica e anticomunista in una celebre Prefazione di una
sessantina di pagine. Se il giovane ferma a metà strada la
sua ribellione finisce in mano allo sciacallaggio politico.
Sciacallaggio di classe in tutti i sensi: Sartre scrive una bella
prefazione, coinvolgente, letterariamente a posto, contro il
comunismo, quindi "valida" anche per l'oggi che scorre. Non se ne
esce con mezze misure. Il percorso rivoluzionario individuale deve
avere la stessa caratteristica che Marx attribuisce alla vera
rivoluzione sociale: il suo primo presupposto è di criticare
continuamente sé stessa, non fermarsi mai a metà.
La critica per la mancanza di democrazia può essere un
movente dello scontro politico, ma la realizzazione della democrazia
rimane entro i confini del mondo borghese e capitalistico,
così come la critica per una scuola che non funziona non
può fermarsi alla realizzazione della scuola che funziona per
la borghesia. Non c'è altra condizione per la vittoria
rivoluzionaria.
Ai livelli più alti, la critica della società borghese
non può risolversi in un miglioramento della società
stessa, ma in un suo superamento. E' qui che si scopre l'enorme
differenza che separa i rivoluzionari da tutto il resto: il
superamento della società borghese non può essere
realizzato con strumenti messi a disposizione dalla stessa
società borghese.
La lotta espressa dal disagio dei giovani trova il suo limite negli
strumenti che adotta, negli appoggi che suscita. Deve darsi
strumenti diversi da quelli che si trovano intorno già
pronti; deve potersi sviluppare senza l'abbraccio mortifero di
sciacalli interessati che la incanalano soltanto nell'alveo
elettoralesco e parlamentare.
***
Quasi quotidianamente l'immagine felice della gioventù che la
pubblicità televisiva o l'idea borghese del mondo vorrebbero
trasmettere è messa in crisi da piccoli e grandi fatti di
cronaca.
Gli episodi di violenza dei giovani e contro i giovani, nelle scuole
e negli stadi; i drammi delle droghe (alcool, alcaloidi e
televisione da sindrome imitativa); i dati della disoccupazione;
quelli della cultura dell'edonismo e della discoteca; quelli della
criminalità diffusa e del suicidio giovanile (dagli anonimi
studenti - specie in Giappone dove il capitalismo ha distorto in
particolar modo il senso sociale - e la funzione dell'individuo, ai
più noti personaggi come Kurt Cobain). Tutto sembra voler
turbare il sonno dei benpensanti e di chi governa che vorrebbero una
società un po' meno turbolenta e più controllabile.
Nella maggior parte dei casi il manifestarsi di questi fenomeni
è attribuito a una incapacità congenita o a una
mancata educazione dei giovani a operare "scelte mature e
responsabili", insomma a una carente coscienza civica. Il tutto
è accompagnato e guarnito da dati statistici, rilevamenti e
indagini destinati soltanto a permettere la fatturazione a chi li
esegue.
Figurarsi allora cosa capita quando, ciclicamente e a scadenze
sempre più ravvicinate, questi giovani iniziano a muoversi a
centinaia di migliaia come è successo nuovamente nel corso
del 1994, prima in Francia e poi in Italia; quando tra le
rivendicazioni dei vari "diritti" incominciano a filtrare chiari
sintomi di insofferenza verso le strutture politiche, culturali,
economiche, scolastiche e famigliari della società in cui i
giovani vivono.
Tutti gli aspetti fenomenici del "problema giovani", tutti i dati
pazientemente suddivisi, conteggiati ed accumulati sembrano
cortocircuitare tra le mani degli analisti che, per non perdere
faccia e prestigio, non possono far altro che ballare al nuovo ritmo
imposto dal rollio dell'iceberg di cui non riescono, nonostante
tutto, a cogliere altro che l'immagine dell'infima parte emersa. E
allora tutti all'opera di nuovo a interpretare e a inquadrare il
"fenomeno" giovanile per farlo rientrare nelle logiche borghesi,
farlo corrispondere alle strategie dei partiti e dei gruppi
d'interesse di cui questi signori sono espressione.
Così in fase di successo elettorale delle "destre" si son
potuti vedere i portavoce dei partiti democratici e progressisti,
dei sindacati e dei media di parte avversa alle nuove coalizioni
borghesi, esaltare, gonfiare e strumentalizzare oltre ogni misura
gli ingenui, e troppo spesso monotoni, slogan contro il governo
telecratico di Berlusconi, contro la riforma della scuola proposta
da un suo ministro e più in generale contro tutti i babau
dell'ultima ora (che, come il leghista Bossi, possono diventare, per
gli stessi partiti e sindacati, gli alleati della successiva
mezz'ora) o a favore di improbabili magistrati giustizieri alla Di
Pietro.
Al contrario di quanto si è solitamente portati a pensare, i
comunisti non si interessano affatto ai movimenti giovanili per
quanto essi dicono di sé stessi. Il radicalismo verbale
è una costante giovanile, ma non è indice del grado di
potenziale sovvertitore di un movimento.
Non è quindi per distacco o per elitarismo operaista (gli
studenti non possono avere una "coscienza di classe") che occorre
affrontare il problema da angolazioni che non provengano dallo
stesso movimento o dal suo interessato ambiente circostante. La
"coscienza" che ogni movimento ha di sé stesso interessa ai
marxisti come ultima cosa, mentre affascina al massimo grado il
canagliume politico, che nei giovani e in ogni generoso movimento
spontaneo spera di trovare un allargamento della base elettorale e
una riserva di manodopera gratuita di supporto alle lobby dei
traffici parlamentari.
Ciò di cui i marxisti devono e vogliono parlare è
invece costituito dall'immensa parte invisibile dell'iceberg di cui
gli slogan, le manifestazioni e le proteste non sono altro che la
manifestazione ultima, così come lo sono anche tanti altri
comportamenti di fatto, e non riconducibili a manifestazione di
coscienza, che scaturiscono dalla condizione giovanile: l'abbandono
della famiglia, l'autodistruttività di certe sfide, la musica
rock vissuta come spasmo vitale, le esplosioni collettive di rabbia
e violenza, il desiderio di convivere col prossimo in modi diversi
da quelli proposti dalla famiglia e dalle istituzioni, l'occupazione
di stabili e scuole, la pirateria informatica esercitata dagli
hacker sulle autostrade elettroniche come atto liberatorio dalla
proprietà, gli espropri condotti dai casseur di ogni
nazionalità nei confronti di supermercati, banche e
gioiellerie.
Il marxista conosce il determinismo che sta dietro ai motivi della
spinta giovanile ad agire, a uscire periodicamente nelle strade in
centinaia di migliaia, a occupare istituti scolastici e stazioni
ferroviarie, oggi scavalcando anche quegli "angry young men",
talvolta già un po' attempati, che con i Centri sociali
pensavano di essere arrivati a chissà quale estremismo
politico e culturale. I motivi reali del "movimento" sono molto
più profondi e radicali che non quelli apparenti, come la
richiesta della cacciata di un governo debole per sostituirlo con
uno più forte e stabile (magari con la motivazione che non
bisogna spaventare i mercati finanziari: ah, la cosmica
imbecillità dei nuovi opportunisti!); o come il rifiuto di
una riforma scolastica in cambio di un'altra che può essere
di poco diversa (ma non migliore); o come gli slogan
dell'antifascismo, terribili da sentire in bocca a gente che
dovrebbe aver capito, almeno per effetto generazionale, che il
"partigiano" ha combattuto per un imperialismo contro un altro, cosa
che c'entra con la democrazia ma non con la rivoluzione e con il
marxismo.
Soprattutto il marxista ha gli strumenti teorici per spiegare ai
giovani perché, rimanendo chiusi nell'ambito del proprio
stereotipo giovanilistico e contestatario, essi non solo non
potranno mai modificare la propria situazione di malessere e di
disagio, ma nemmeno comprendere per esempio perché ci si
possa trovare un giorno in trentamila entusiasti a occupare la
stazione ferroviaria di una grande città e, pochi giorni
dopo, in cento a far presenza in una piazza poco distante della
stessa città, senza guida, senza meta, senza saper cosa fare
se non osservare smarriti il proprio fallimento.
Sicuramente questo disagio e questo malessere, da cui tutte le
proteste giovanili hanno preso il via negli ultimi anni, hanno a che
fare con l'incertezza del futuro e delle condizioni di lavoro e non
lavoro che si delineano all'orizzonte. Tale incertezza affonda le
proprie radici in una condizione che troppo spesso la sociologia
borghese definisce come patologica quando parla di alienazione, di
separazione dell'individuo dal mondo che lo circonda, dalle
attività che svolge, da ciò che è vitale nella
specie e nella società.
È proprio il sopravvivere di una società che esalta
apparentemente l'individuo, unico ed irripetibile, per poi
schiacciarlo sotto il peso delle sue difficoltà economiche,
lavorative, affettive e familiari, a provocare tanta parte della
rabbia e delle frustrazioni da cui i movimenti giovanili prendono
spunto.
Poiché per i comunisti i giovani non costituiscono solo un
certo target di mercato cui vendere un voto politico inutile ed
inflazionato, un nuovo tipo di jeans, un nuovo giornale, l'ultimo
disco di un Tizio svegliatosi piuttosto arrabbiato o quello di un
Caio più in pace col mondo; poiché per i comunisti i
giovani rappresentano la continuità e il futuro della specie,
essi affrontano il problema del malessere e dello scontento
giovanile con gli strumenti che il metodo di Marx ha fornito, senza
agitare specchietti per allodole, senza vendere facili promesse o
illusorie scorciatoie verso altrettanto illusorie alternative entro
questa società.
Per fare ciò non sarà pertanto utile citare una volta
di più cifre e dati statistici riguardanti la disoccupazione
giovanile a livello nazionale ed internazionale, oppure dissertare
più o meno dottamente sul numero di coloro che abbandonano
gli studi o il tetto famigliare ecc.
Sarà piuttosto utile soffermarci su quella che ai lettori
più frettolosi potrebbe sembrare inizialmente come una
digressione, ma è invece la base necessaria per definire
quali siano le caratteristiche fondamentali del capitalismo, ovvero
di quella forma sociale di produzione che in ultima analisi
determina la quotidianità e le contraddizioni di chi ci vive.
Quotidianità e contraddizioni dalle quali, invece, il
sociologismo borghese vorrebbe partire per comprendere la
realtà.
Questa in fondo è l'unica maniera per applicare il metodo
marxista, metodo che nelle scienze fisiche la borghesia già
applica dall'avvento della sua rivoluzione: si scende dal generale
al particolare, dall'astrazione semplificatrice al concreto
complesso. Tutti gli altri fanno il contrario, almeno
nell'osservazione in campo sociale: partono dal concreto e
complesso, da quello che vedono con i propri occhi per giungere a
definire teorie generali. Per i marxisti tale teoria generale
scientifica già esiste e di questa si servono per inquadrare
fenomeni che sono, oltretutto, tutt'altro che nuovi, se non nella
forma, sicuramente nella sostanza.
LA SOSTANZA DEL CAPITALISMO
E allora, per iniziare, qual è per il marxismo la definizione
esatta del capitalismo? La risposta va cercata in testi che, per la
Sinistra Comunista, costituiscono un arco ininterrotto di lotta
teorica e politica a partire dal 1844, testi estremamente "attuali"
che permettono di comprendere, criticare ed aggredire la mefitica
realtà di oggi e che in questa sede saranno abbondantemente
utilizzati.
"Sarebbe ingenuo dire che il capitalismo è il sistema in cui
vi è sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sia perché lo
sfruttamento vi è anche in altri modi produttivi come
servitù e schiavismo, che capitalisti non erano, sia
perché tali definizioni non devono stabilire il rapporto tra
un singolo e l'altro singolo, ma interpretare lo svolgersi di tutta
la dinamica sociale e i rapporti tra le classi. Anche la formula di
sfruttamento di una classe da parte di un'altra, sebbene migliore
non è completa".
"È forma capitalistica la separazione dei lavoratori dalle
condizioni materiali del loro lavoro. Attuando tale separazione con
mezzi violenti ed anche disumani, il capitalismo trasforma la
produzione individuale in produzione sociale, ma lascia individuale
la appropriazione dei prodotti. I liberi produttori espropriati dal
capitalismo sono ridotti a proletari che non hanno alcuna riserva e
vivono vendendo per moneta la loro forza di lavoro, realizzando con
essa la compera di una parte dei prodotti per il proprio consumo
personale, ossia la riproduzione della forza di lavoro".
Sono quindi due i caratteri fondamentali del capitalismo:
socializzazione del lavoro umano e appropriazione individuale del
prodotto, frutto del lavoro sociale. La socializzazione del lavoro
avviene attraverso la separazione della stragrande maggioranza dei
produttori dai mezzi del loro lavoro, dagli strumenti del loro
lavoro, dal prodotto stesso del loro lavoro. Ossia chi lavora, il
proletario, non è proprietario dei mezzi di produzione, non
è proprietario dei materiali destinati alla produzione,
è separato dalle finalità della produzione ed anche
dal prodotto finale del ciclo di produzione.
La produzione sociale è pur sempre una grande conquista del
capitalismo in confronto alle precedenti forme di produzione, ma
resta il fatto che a tale produzione sociale si contrappone in ogni
caso un'appropriazione individuale del prodotto del lavoro.
"Tuttavia questa seconda parte della tesi nemmeno si può
riferire ai beni capitali, che sono la parte maggiore, bensì
ai soli beni di consumo diretto, che tutti concorrono ad acquistare,
benché non certo in quantità uguale".
È questa una contraddizione attorno alla quale poi ruotano le
ricorrenti crisi economiche con cui anche i giovani di oggi devono
fare i conti attraverso il prolungamento artificioso
dell'adolescenza anagrafica, la disoccupazione, il lavoro nero e
sottopagato.
Socializzazione del lavoro, separazione dei produttori dallo stesso
lavoro che compiono: qui sta il primo arcano di quella alienazione
ed estraniazione sociale cui si accennava poc'anzi. All'interno
dell'attuale forma di produzione, proprio perché il
lavoratore presta la sua forza lavoro in cambio di un salario
monetario, sarà interesse di coloro che sfruttano questo
lavoro cercare di ottenerne la maggiore quantità possibile,
quindi la maggior quantità di produzione, o, che è lo
stesso, la maggior produttività da ogni singolo produttore.
È in questo tentativo costante da parte del capitale di
estorcere più lavoro (pluslavoro, che in termini marxisti
è l'equivalente di plusvalore) alla classe operaia attraverso
l'utilizzo di macchine, l'aumento dei ritmi e l'allungamento dei
tempi di lavoro che si cela l'inevitabilità della
disoccupazione all'interno dei rapporti di produzione di tipo
capitalistico. L'eliminazione di possibilità di lavoro non
è un elemento soggettivo della società capitalistica;
non è quindi un elemento che nell'ambito della società
capitalistica possa rendersi reversibile, dato che non è
pensabile una conseguente riduzione della giornata lavorativa. In un
paese come l'Italia oggi lavorano circa venti milioni di persone su
quaranta milioni in età di lavoro, ma solo quattro milioni
sono impiegate nell'attività direttamente produttiva. Il
rapporto è uno a dieci e ciò significa che l'intera
società italiana si regge sul lavoro sociale di 0,8 ore di
lavoro medie a testa, 48 minuti. Anche se i dati sono conosciuti, il
problema non ha soluzione, perché essa va ricercata in un
salto qualitativo in una società diversa dal capitalismo.
All'interno della logica capitalistica in certi momenti si
potrà avere un ampliamento o una riduzione del numero di
lavoratori occupati, ma sempre dovrà esistere una massa di
lavoratori precedentemente espropriati, non solo dei mezzi di
produzione e del prodotto del loro lavoro, ma anche del lavoro
stesso. Tale massa è necessaria affinché possa gravare
come un macigno su coloro che già lavorano per costringerli a
produrre sempre di più in cambio un salario costante, se non
addirittura diminuito. È nel timore di perdere questo posto
di lavoro a vantaggio di altri che gli operai sono costretti alla
concorrenza fra loro.
È tutta qui la logica dei "patti del lavoro" che ricorrono
dal 1945 tra imprenditori e sindacati. In difesa del "posto di
lavoro", magari nella più infame miniera ridotta a pericolo
puro dalla concorrenza, si accettano abbassamenti del salario e in
genere delle condizioni relative di vita. Si accettano gli
equivalenti dei "Sabati fascisti", o i turni di notte estesi anche
alle donne; si accettano deroghe alle stesse leggi con
l'introduzione di nuove regole per dare ossigeno al capitalismo
attraverso l'abbassamento del valore della forza lavoro (o
innalzamento del profitto che ne consegue).
"La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal
maniera che l'operaio viene annullato sino a morir di fame.[...]
Già il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli riesce a
impadronirsi soltanto col più grande sforzo e con le
più irregolari interruzioni [...] L'operaio diventa tanto
più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce,
quanto più la sua produzione cresce di potenza e di
estensione. L'operaio diventa una merce tanto più vile quanto
più grande è la quantità di merce che produce.
La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la
valorizzazione del mondo delle cose".
Alla scala odierna, l'impoverimento relativo implicito nella legge
marxista della miseria crescente, diventa assoluto. L'insieme delle
masse proletarizzate del mondo vede al suo interno formarsi delle
sacche dove si muore di fame non solo metaforicamente. Allora la
nuova mappa della distribuzione della miseria e del plusvalore
disegna anche la mappa della degenerazione sociale e della guerra
civile. La gioventù trova così un nuovo impiego,
quello del mercenario al soldo di nuovi interessi in formazione o al
soldo di vecchi interessi aggrediti dalla concorrenza. Le sparatorie
e i massacri apparentemente gratuiti, senza senso, che serpeggiano
nel mondo sono l'espressione visibile della lotta tra le classi in
mancanza di rivoluzione. Solo che i morti sono di una classe sola.
Più l'operaio produce, ovvero più il suo lavoro si
trasforma in pluslavoro (cioè plusvalore) per il capitalista,
meno vale la sua vita; ma questo valer di meno non è solo un
fatto economico, salariale: "Il lavoro non produce soltanto merci;
produce sé stesso e l'operaio come una merce, e proprio nella
stessa proporzione in cui produce in generale le merci".
Ovvero l'operaio stesso con la sua forza-lavoro diventa una merce:
producendo merci da cui è separato, vendendosi sul mercato
del lavoro in cambio di un salario, non perde soltanto le
finalità della propria attività lavorativa, ma anche
quelle della propria vita e si vedrà più avanti
perché.
È a partire da questa condizione di separazione completa del
lavoratore dal suo lavoro, dal prodotto e dal fine del suo lavoro
che il marxismo parla di alienazione. "Il prodotto del lavoro
è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è
diventato una cosa, è l'oggettivazione del lavoro. La
realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa
realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia
capitalistica come un annullamento dell'operaio, l'oggettivazione
come perdita e asservimento dell'oggetto, l'appropriazione come
estraniazione, come alienazione".
"E ora, in che consiste l'alienazione del lavoro? Consiste prima di
tutto nel fatto che il lavoro è esterno all'operaio,
cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro
egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma
infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma
sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò
l'operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si
sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non
lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro
quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro
forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma
soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua
estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena
vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro
viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui
l'uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di sé
stessi, di mortificazione. [...] Non gli appartiene, ed egli, nel
lavoro, non appartiene a sé stesso, ma a un altro".
L'ALIENAZIONE GIOVANILE NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA
Il lavoro dovrebbe essere la principale attività della specie
umana, quella che la distingue dalle altre specie animali. Il lavoro
umano ha subìto nel tempo un'evoluzione diversa dall'istinto
e contiene la possibilità di astrarre geometrie e forme che
danno luogo a un progetto diverso dalla ripetitività
istintiva genetica.
La domanda che sorge spontanea è questa: se l'unica cosa che
distingue l'uomo dall'animale permettendogli di progettare
l'ambiente e la realtà che lo circonda, come mai il lavoro
stesso diventa, sotto il capitalismo, un'attività coatta, non
libera, estraniata, continuamente rifuggita? E, peggio ancora, cosa
dovrebbero dire oggi le giovani generazioni, che non solo sono
vittime del lavoro alienato che opprimeva l'operaio di Marx, ma come
tendenza storica nell'ambito del capitalismo sono tagliate fuori dal
lavoro in tutto e per tutto? Essere separati dal lavoro significa
essere separati dal proprio futuro, dato che non si può
contare su di una vita autonoma sociale, significa vedere
annichilite le proprie potenzialità, che rimangono sprecate,
non utilizzate sia pure a fini capitalistici; significa quindi veder
mortificate le proprie energie proprio nel momento in cui esse
potrebbero esprimersi al grado di rendimento più alto.
Qui sta il nocciolo di tante manifestazioni e atteggiamenti
giovanili che né i dati statistici né il moralismo
né il ribellismo elevato a teoria possono cogliere e spiegare
compiutamente. Le fughe da casa, i suicidi talvolta spiegati
superficialmente (in Giappone come in Italia) con le
difficoltà scolastiche, le risse allo stadio, l'uso di droghe
e tutte le altre forme di nichilismo giovanile affondano le loro
radici in questa forma suprema di alienazione dell'individuo dalla
propria vita, del giovane dai modelli proposti dalla scuola e dalla
famiglia, dal lavoro e dal non lavoro. In altre parole il motore
primario dei movimenti giovanili non trova la sua ragione nel
rifiuto di questo o quel governo, in questo o quel programma
scolastico, ma più in generale nella perdita di senso reale
della vita sotto la schiavitù capitalistica.
Ecco perché la politica giovanile, finché non si
aprirà un'epoca rivoluzionaria, è destinata facilmente
a scimmiottare ciò che esiste, coordinamenti come
parlamentini, manifestazioni e occupazioni come "scioperi", ecc.
Ecco perché nello stesso tempo molto spesso un elemento
qualsiasi della "lotta" diventa il simbolo dello scontro,
indipendentemente dalla sua importanza intrinseca: perché
sotto l'agitarsi dovuto al disagio profondo vi sono spinte
irriducibili a qualsiasi trattativa; mentre l'operaio può
strappare un aumento di salario, il disagio del giovane studente o
disoccupato non trova l'elemento "rivendicativo" a far da cuscinetto
e si scaglia direttamente contro lo Stato. Si tratta però di
un vantaggio politico facilmente mistificabile perché
l'ideologia dominante si incarica di mettere a disposizione mille
rivoli politici nell'alveo della società borghese.
Il giovane separato dal lavoro non può che volerlo mentre
nello stesso tempo lo odia sia perché è fonte del suo
disagio, sia perché vede da un esterno relativamente
privilegiato (finché ha un minimo di libertà di
sopravvivenza, genitori, lavori saltuari ecc.) coloro che dal lavoro
sono schiavizzati. L'impatto giovanile con il lavoro è in
genere traumatico perché non vi è ancora stata
assuefazione allo sfruttamento. L'esaltazione dell'uomo attraverso
l'esaltazione degli argomenti sessuali non è solo dovuta a
questioni endocrine per via dell'età: è anche reazione
alla vita bestiale del lavoratore che non ha più tempo per la
sua propria vita. Di qui un rovesciamento di carattere sociale,
pienamente descritto dal giovane Marx.
Nel momento in cui si consuma completamente la separazione tra
l'attività tipica della specie (il lavoro) e ogni individuo,
giovane o meno, della specie stessa, tutte quelle che non possono
essere definite come attività tipicamente umane sembrano
diventare le uniche attività non disumane possibili. "Ne
viene quindi come conseguenza che l'uomo (l'operaio) si sente libero
soltanto nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il
procreare e tutt'al più ancora l'abitare una casa e il
vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle
sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano, e
ciò che è umano diventa animale. Certamente mangiare,
bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in
quella astrazione, che le separa dalla restante cerchia
dell'attività umana e le fa diventare scopi ultimi ed unici,
sono funzioni animali".
Quelli che sono visti dalla morale e dalla scienza borghese come
comportamenti deviati e dal ribellismo piccolo borghese come forme
alternative di pratica sociale sono per i marxisti null'altro che il
risultato di una società che non può far altro che
continuare a schiacciare ogni attività umana che non sia
finalizzata o che si opponga anche inconsciamente alla riproduzione
delle sacre leggi del valore. Non si tratta quindi di una perdita di
"valori" o di "cultura" da parte delle nuove generazioni, ma
dell'abbrutimento delle condizioni di vita dell'intera specie umana
più in generale e del proletariato in particolare.
Se si vuole evitare di cadere nella sacralizzazione borghese del
singolo individuo, utile solamente a scaricare sulla mancanza di
cultura e di chiarezza dei soggetti individuali i prodotti
dell'agire collettivo di una forma sociale ben determinata
dall'interesse capitalistico, occorre dire che questi problemi
"giovanili" non possono essere affrontati e risolti in un contesto
specificamente giovanilistico. Anzi, si potrebbe tranquillamente
affermare che per il marxismo non esiste nemmeno una "questione
giovanile". Ciò non tanto per sminuirne l'importanza o per
negare l'esistenza di problemi specifici legati alla
gioventù, quanto piuttosto per negare che partendo da una
certa specificità (si pensi quante specifiche questioni
potrebbero addurre un sociologo, una femminista o un riformista per
risolvere i mali della società senza mai citare la
necessità di criticare e distruggere i rapporti di classe
legati al permanere del capitalismo) o da una propria "unica"
condizione si possa addivenire a una coscienza in grado di spiegare
la realtà e di prevederne gli sviluppi e le dinamiche
successive.
L'ESTRANIAZIONE DELL'INDIVIDUO DALLA SPECIE
"La vita della specie, tanto nell'uomo quanto negli animali,
consiste fisicamente anzitutto nel fatto che l'uomo (come l'animale)
vive della natura inorganica, e quanto più universale
è l'uomo dell'animale, tanto più universale è
il regno della natura inorganica di cui egli vive. Le piante, gli
animali, le pietre, l'aria, la luce, ecc. come costituiscono
teoricamente una parte della coscienza umana [...] così
costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e
dell'umana attività. L'uomo vive fisicamente soltanto di
questi prodotti naturali, si presentino essi nella forma di
nutrimento o di riscaldamento o di abbigliamento o di abitazione,
ecc.
L'universalità dell'uomo appare praticamente proprio in
quella universalità, che fa della intera natura il corpo
inorganico dell'uomo, sia perché essa 1) è un mezzo
immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia,
l'oggetto e lo strumento della sua attività vitale [...] Che
la vita fisica e spirituale dell'uomo sia congiunta con la natura,
non significa altro che la natura è congiunta con sé
stessa, perché l'uomo è una parte della natura".
"Poiché il lavoro estraniato rende estranea all'uomo 1) la
natura e 2) l'uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua
attività vitale, rende estranea all'uomo la specie; fa della
vita della specie un mezzo della vita individuale. In primo luogo il
lavoro rende estranee la vita della specie e la vita individuale, in
secondo luogo fa di quest'ultima nella sua astrazione uno scopo
della prima, ugualmente nella sua forma astratta ed estraniata.
Infatti il lavoro, l'attività vitale, la vita produttiva
stessa appaiono all'uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per
la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare
l'esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della
specie. È la vita che produce la vita. In una determinata
attività vitale sta interamente il carattere di una
'species', sta il suo carattere specifico; e l'attività
libera e cosciente è il carattere dell'uomo. [...] Il lavoro
estraniato rovescia il rapporto in quanto l'uomo, proprio
perché è un essere cosciente, fa della sua
attività vitale, della sua essenza soltanto un mezzo per la
sua esistenza. [...] La vita stessa appare soltanto come mezzo di
vita.[...] La creazione pratica di un mondo oggettivo, la
trasformazione della natura inorganica è la riprova che
l'uomo è un essere appartenente a una specie e dotato di
coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la
specie come verso il suo proprio essere, o verso sé stesso
come un essere appartenente a una specie. Certamente anche l'animale
produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i
castori, le formiche, ecc. Solo che l'animale produce unicamente
ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi
nati; produce in modo unilaterale, mentre l'uomo produce in modo
universale; produce solo sotto l'impero del bisogno fisico
immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e
produce veramente soltanto quando è libero da esso; l'animale
riproduce soltanto sé stesso, mentre l'uomo riproduce
l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente
al suo corpo fisico, mentre l'uomo si pone liberamente di fronte al
suo prodotto".
La disoccupazione giovanile, la difficoltà di inserimento nel
mondo del lavoro, la discrepanza tra titoli di studio acquisiti e
impieghi effettivamente offerti, il tutto accompagnato dalle chimere
della fama, del successo e della carriera, fanno sì che
spesso siano proprio i giovani in cerca di una prima occupazione a
sperimentare sulla propria pelle le contraddizioni di una
società in cui l'uomo è costretto a vivere separato
dal suo lavoro e dal prodotto di tale lavoro, ovvero separato
proprio da ciò che dovrebbe costituire la manifestazione
specifica dell'umanità. E il lavoro viene parcellizzato,
diviso in lavoro manuale e lavoro intellettuale, che a sua volta
può essere scientifico, artistico, ecc.
Questa separazione che il capitalismo ha reso naturale, costituisce
una distorsione di quella che dovrebbe essere la realtà della
specie. Il prodotto intellettuale, scientifico o artistico, del
ricercatore o dell'artista non è assolutamente mai separato
dall'attività dell'intera società e quindi dal lavoro
manuale e di oggettivazione; non la precede, ma la accompagna fin
dai primordi della specie. È soltanto la necessità di
mantenere svalorizzato il lavoro manuale, inteso come forza lavoro
bruta necessaria alla valorizzazione del capitale, che fa sì
che questa innaturale separazione sia esaltata e glorificata.
Il compito dei comunisti è proprio quello di dimostrare come
la finalità specifica del comunismo sarà la
ricomposizione totale dell'uomo nella specie e della specie nella
natura; la ricomposizione totale del lavoro umano, manuale,
artistico e scientifico, il cui prodotto sarà legato alle
reali esigenze della specie e non semplicemente ai bisogni creati da
una produzione infernale, sempre più dominata dalla
necessità di realizzare il plusvalore, cioè vendere,
cioè allargare smisuratamente la fascia dei consumatori e dei
prodotti che interagiscano con il loro bisogni indotti.
"Il lavoro alienato fa dunque:3) dell'essere dell'uomo, come essere
appartenente a una specie, tanto della natura quanto della sua
specifica capacità spirituale, un essere a lui estraneo, un
mezzo della sua esistenza individuale. Esso rende all'uomo estraneo
il suo proprio corpo, tanto la natura esterna, quanto il suo essere
spirituale, il suo essere umano. 4) Una conseguenza immediata del
fatto che l'uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro,
della sua attività vitale, al suo essere generico, è
l'estraniazione dell'uomo dall'uomo. Se l'uomo si contrappone a
sé stesso, l'altro uomo si contrappone a lui. [...] Dunque
nel rapporto del lavoro estraniato ogni uomo considera gli altri
secondo il criterio e il rapporto in cui egli stesso si trova come
lavoratore. [...] Col lavoro estraniato l'uomo costituisce quindi
non soltanto il rapporto con l'oggetto e con l'atto della produzione
come rapporto con forze estranee ed ostili; ma costituisce pure il
rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e col suo
prodotto, e il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini.
Come l'uomo fa della propria produzione il proprio annientamento, la
propria punizione, come pure fa del proprio prodotto una perdita,
cioè un prodotto che non gli appartiene, così pone in
essere la signoria di colui che non produce, sulla produzione e sul
prodotto. [...] Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi
sta di fronte come una potenza estranea, a chi mai appartiene?
Se un'attività che è mia non appartiene a me, ed
è un'attività altrui, un'attività coatta, a chi
mai appartiene? A un essere diverso da me. Ma chi è questo
essere? [...] L'essere estraneo, a cui appartengono il lavoro e il
prodotto del lavoro, che si serve del lavoro e gode del prodotto del
lavoro, non può essere che l'uomo. [...] Dunque, col lavoro
estraniato, alienato, l'operaio pone in essere il rapporto di un
uomo che è estraneo e al di fuori del lavoro, con questo
stesso lavoro. Il rapporto dell'operaio col lavoro pone in essere il
rapporto del capitalista - o come altrimenti si voglia chiamare il
padrone del lavoro - col lavoro. La proprietà privata
è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria
del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si
stabilisce tra l'operaio, da un lato, e la natura e lui stesso
dall'altro. La proprietà privata si ricava quindi mediante
l'analisi del concetto del lavoro alienato, cioè dell'uomo
alienato, del lavoro estraniato, della vita estraniata, dell'uomo
estraniato [...] Quindi riconosciamo pure che salario e
proprietà privata sono la stessa cosa, poiché il
salario, nella misura in cui il prodotto, l'oggetto del lavoro,
retribuisce il lavoro stesso, non è che una conseguenza
necessaria dell'estraniazione del lavoro [...] Il salario è
una conseguenza immediata del lavoro estraniato, e il lavoro
estraniato è la causa immediata della proprietà
privata. Con l'uno deve quindi cadere anche l'altra" .
È un Marx ventiseienne quello che scrive le pagine fin qui
utilizzate ed è stupefacente la chiarezza con cui è
colto e delineato tutto il processo di alienazione dell'uomo legato
al permanere dei rapporti produttivi capitalistici. Ma, al di
là del gigante Marx, spesso i movimenti e gli episodi di
ribellione spontanei della gioventù percepiscono come
soffocanti ed insopportabili le manifestazioni fenomeniche
più odiose di questi rapporti dati tra le classi e
soprattutto colgono con estrema chiarezza la manifesta
contraddizione esistente nell'appropriazione privata del prodotto
dell'agire sociale.
Quando dei giovani occupano degli stabili abbandonati per abitarli o
usarli come sedi delle proprie attività ritenute a torto o a
ragione "vitali", quando altri giovani abili con il computer entrano
nelle reti informatiche "bucando" i sistemi protettivi delle banche
dati per puro spirito di sfida, quando la sfida diventa taccheggio
organizzato nei supermercati tanto da imporre strumenti
amministrativi generalizzati per la gestione e il recupero
percentuale delle perdite ecc., in qualche modo si infrange la
regola del mondo legale sfiorando, inconsciamente o meno, la
necessità di superare i limiti imposti dall'appropriazione
privata allo sviluppo intellettivo e fisico della specie.
È ovvio che tali risposte di piccoli gruppi o individuali non
hanno nulla di rivoluzionario in sé e di fatto non
scalfiscono neppure superficialmente l'attuale struttura del dominio
di classe; esattamente come i movimenti studenteschi cui si
accennava all'inizio tutte queste iniziative devono trovare la
capacità di criticarsi ed autosuperarsi ancor prima che di
organizzarsi. Ma allo stesso tempo continuano a dimostrare che
questa separazione dell'uomo dal prodotto del suo lavoro sociale
(intellettuale o materiale che esso sia) dà vita
continuamente a contraddizioni inevitabili ed insanabili, anche
nelle giovani generazioni, spesso stigmatizzando la forma più
becera ed odiosa di appropriazione privata del sapere della specie:
quella legata al "diritto d'autore".
CONTRO LA CULTURA E LA SCUOLA BORGHESE
Spesso, come anche nell'autunno italiano si è visto, la prima
forma di ribellione studentesca contro lo stato di cose presenti
è quella della occupazione delle scuole.
E ogni volta si vedono scendere in campo i benpensanti, i
bacchettoni, gli amanti dell'ordine, i riformisti, tutti quelli che
vedono come fumo negli occhi ogni movimento spontaneo che non sia
immediatamente riconducibile a un'azione precedentemente preparata
dai partiti o dai sindacati. Essi rimproverano ai giovani e agli
studenti di non essere ancora cresciuti culturalmente abbastanza per
poter criticare la scuola e la società. Quasi fosse la
cultura borghese a determinare la critica della società e
della scuola borghesi.
I marxisti si son sempre battuti contro queste posizioni "cultura-
liste" in cui non vedono altro che il tentativo perenne di rinviare
qualsiasi fermento e qualsiasi lotta a un futuro lontano e
indeterminato. Essi vedono che i personaggi pronti a dire agli
studenti in agitazione: "Basta ragazzi, non esagerate, prima devono
venire lo studio, la scuola, la cultura, poi magari potremo
discutere d'altro..." sono anche gli stessi che dicono agli operai
in lotta: "prima di avanzare richieste salariali e sindacali occorre
aver compreso bene le difficoltà dell'economia nazionale,
entro quali limiti e percentuali è necessario contenere la
spesa pubblica, ecc...". Per il materialismo dialettico marxista non
è possibile fare precedere una fase di chiarificazione delle
idee a una fase di azione e di lotta anzi, è proprio il
contrario.
Nel giovane Marx dei Manoscritti è già compreso il
destino ineluttabile del proletariato inteso come affossatore del
capitalismo, indipendentemente dal grado di cultura che gli operai
avranno potuto raggiungere nella loro condizione di lavoratori
estraniati dal lavoro, dal prodotto del loro lavoro e dalla loro
umanità: "Dal rapporto del lavoro estraniato con la
proprietà privata segue inoltre che l'emancipazione della
società dalla proprietà privata, ecc., dalla
schiavitù si esprime nella forma politica dell'emancipazione
degli operai, non già come se si trattasse soltanto di questa
emancipazione, ma perché in questa emancipazione è
contenuta l'emancipazione universale dell'uomo; la quale è
ivi contenuta perché nel rapporto dell'operaio con la
produzione è incluso tutto intero l'asservimento dell'uomo, e
tutti i rapporti di servaggio altro non sono che modificazioni e
conseguenze del primo rapporto" .
Nel 1844-45 Engels continuava lo stesso discorso, scrivendo: "Se gli
autori socialisti attribuiscono al proletariato questo ruolo storico
mondiale, non è [...] perché considerino i proletari
degli dei. È piuttosto il contrario. Proprio perché
nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente
compiuta l'astrazione di ogni umanità, perfino dell'apparenza
dell'umanità; proprio perché nelle condizioni di vita
del proletariato si condensano nella forma più inumana tutte
le condizioni di vita della società attuale; proprio
perché in lui l'uomo si è perduto ma, nello stesso
tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita,
ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa
inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di
ogni palliativo, assolutamente imperioso espressione pratica della
necessità; proprio perciò il proletariato può e
deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue
stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue
condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni
di esistenza della società attuale, che si condensano nella
sua situazione [...]. Non si tratta di ciò che questo o quel
proletario, o perfino l'intero proletariato s'immagina di volta in
volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e
di ciò che sarà storicamente costretto a fare in
conformità a questo essere. Il suo fine e la sua azione
storica gli sono irrevocabilmente prefissati nelle sue condizioni di
vita, come nell'intera organizzazione della presente società
borghese". È solo per questo motivo che i comunisti possono
dichiarare: "La conoscenza non ci viene direttamente dai borghesi,
come vorrebbero certuni: ci viene dalla lotta della nostra classe,
non è una sfera particolare della nostra attività che
assorbiamo passivamente dalla classe avversa; no, è qualcosa
di vibrante e passionale, che il proletariato ha strappato al suo
nemico di classe".
Ecco spiegato il motivo per cui ai marxisti non interessa tanto
quanto i movimenti spontanei di lotta dicono di sé quanto
piuttosto ciò che questi movimenti nella sostanza possono
essere portati a fare dalle condizioni in cui vengono a trovarsi.
Sia comunque ben chiaro: un conto è parlare del ruolo storico
del proletariato, un conto è parlare delle agitazioni
studentesche e giovanili. I giovani di per sé non
costituiscono una classe; sono più vicini a una categoria
sociologico-mercantile utile a fornire nuove nicchie di mercato per
beni di consumo prodotti su larga scala, piuttosto che a una classe
portatrice di una reale istanza di liberazione per l'umanità.
Non a caso fu per primo il business statunitense degli anni '50 a
intravedere nei giovani un nuovo potenziale esercito di consumatori
da vezzeggiare e blandire.
Per quanto sia cambiata negli ultimi cinquant'anni la composizione e
provenienza sociale di chi accede alla scuola superiore, gli
studenti non costituiscono una categoria dalle ben definite
caratteristiche economiche e politiche. Essi non sono inseriti nel
mondo della produzione, quindi non entrano in conflitto né
individualmente né collettivamente con un capitalista o con
la classe dei capitalisti per la definizione del confine fra lavoro
necessario alla riproduzione di sé stessi e della propria
prole e pluslavoro o plusvalore che viene alienato. Alla base della
loro esistenza non vi sono le ragioni materiali che danno origine
alla lotta di classe. Quando "scioperano" essi non bloccano alcun
ciclo produttivo e non possono quindi far derivare dall'unione
immediata l'organizzazione generale di carattere sindacale e
politico. Non esistono per gli studenti le premesse oggettive per la
maturazione della cosiddetta coscienza di classe.
Per gli studenti, quando entrano in lotta, esiste solo il salto
politico verso determinati tipi di scontro con l'avversario. Se la
polarizzazione sociale non permette altro, lo scontro sarà
sul terreno democratico e rivendicativo dei "diritti" (allo studio,
all'assemblea, al giornaletto, alle tasse non troppo alte ecc.) e ne
deriverà una coesione sufficiente a riprodurre il gioco
parlamentare dei dibattiti e delle discussioni su tesi varie. In
caso di alta tensione sociale, invece, la coesione derivata
sarà molto più alta, ma si produrrà per altre
vie: il movimento degli studenti non potrà rimanere unitario
e seguirà le stesse determinazioni che muovono le classi. Vi
saranno quindi due coesioni contrapposte: studenti compatti nello
schieramento borghese e studenti compatti in quello rivoluzionario.
Normalmente è più difficile per lo studente che per
l'operaio acquisire fino in fondo una coscienza dei motivi reali che
causano il suo scontento. Egli sarà portato a schierarsi come
individuo nella lotta a fianco di una classe o di un'altra, mentre
all'operaio ciò succede solo quando nella cabina elettorale
vota per rappresentanti della stessa classe borghese divisi in
partiti diversi, mai nella lotta per i propri interessi, quando
agisce con la sua classe. Quando la classe operaia si muove nei
momenti decisivi, gli individui sparsi, i crumiri, i disertori, sono
ininfluenti sul risultato finale. Gli studenti non hanno disertori
in quanto studenti, essi appartengono effettivamente a classi
diverse, anche se alla fine, come in tutti gli strati della
società, non si schiereranno precisamente secondo la
provenienza di classe.
Paradossalmente è proprio l'ambiguità della posizione
studentesca che può rendere importante la gioventù
nella battaglia dei comunisti e del proletariato contro il mortifero
assetto sociale capitalistico.
Quando le forze sociali si schierano in difesa di opposti interessi,
tra gli studenti la polarizzazione su fronti opposti è
più immediata. Gli studenti sono in buona posizione per
essere anticipatori di movimenti sociali e spesso lo sono.
All'avvento del fascismo, il movimento dannunziano era espressione
ambigua delle tendenze fra gli schieramenti, ma la forza del
proletariato, vincente in Russia e ancora teso verso un futuro non
del tutto deciso dalla controrivoluzione, aveva un forte ascendente
sugli studenti e sui giovani.
"Lo spiritualismo dannunziano sente come poco la società
attuale sia moralizzabile ed 'eroicizzabile', se non nelle vergini
forze che erompono dal proletariato: esso non sa andare più
oltre del saluto che leva a questi fermenti del domani. Quanto a noi
comunisti e marxisti, noi conosciamo delle quistioni di
necessità e di migliore rendimento nelle vie da prendere
nello svolgersi della storia. Se queste rispondono ai canoni
dell'Etica e dell'Estetica, non ci importa per nulla. La nostra
dialettica ci spinge ad esaltare oggi il valore del ribelle, anche
crudele, anche incolto, per rompere le barriere del divenire
dell'umanità verso forme più pacifiche, armoniche e
coscienti della convivenza dei singoli."
La gioventù può essere una forza viva della
rivoluzione, ma è necessario che tra i giovani abbia la
possibilità di formarsi una tendenza politica che faciliti la
spaccatura di classe e spinga la parte rivoluzionaria verso il
proletariato. La Sinistra riteneva possibile, ancora nel 1924, che
questo avvenisse contro il fascismo da parte degli intellettuali e
dei giovani non proletari ma nemmeno antiproletari: "Un movimento
come quello dannunziano potrebbe avere una funzione opposta e
simmetrica a quella del fascismo [...] Questo gruppo potrebbe, dopo
aver tentato invano per vie opposte di perseguire quella ipotetica
funzione indipendente nella vita politica della 'intelligenza',
essere spinto dalle sue simpatie per le forze del lavoro a gettarsi
al seguito di un proletariato movente alla riscossa."
Per giungere a questa possibilità è importante che i
giovani non subiscano fino in fondo l'abbraccio soffocante della
cultura borghese, soprattutto di quella che la scuola propone loro
nel vano tentativo di domarne le energie e i moti spontanei di
ribellione. Sappiamo che, nel 1924, non fu possibile per il
proletariato muoversi verso la riscossa di cui parla l'articolo
citato e quindi il movimento dannunziano si confuse con il fascismo.
In Russia la giovane "intelligenza" abbandonò il populismo e
seguì entusiasticamente il proletariato e la sua rivoluzione,
mentre i vecchi intellettuali si trastullarono con la democrazia e
il governo provvisorio.
La rivoluzione non è una questione di preparazione e di
"cultura", ma di istinto di classe. La gioventù non
proletaria non ha e non può avere un istinto di classe, ma sa
mettersi bene al servizio di altre classi, anche se spesso
preferisce quelle vincitrici. Il proletariato ha bisogno anche di
forze giovani provenienti dalla 'intelligenza'. Non sa che farsene
della loro cultura in generale, ma troverà in esse strumenti
attivi per la generalizzazione del movimento attraverso tutti i
mezzi di cui dispone. In fondo la rivoluzione proletaria rappresenta
il futuro e il futuro è dei giovani, non dei vecchi.
Fin dal 1912 la posizione della Sinistra Comunista italiana sulla
questione della "cultura" è molto precisa: "Il punto di vista
rivoluzionario sul problema dell'educazione ci divide
necessariamente da tutte le teorie borghesi, clericali o
ultrademocratiche, che la società moderna applica
nell'educare i giovani, con quel costante insuccesso che nessun
marxista vorrà negare, Essendo la scuola nelle mani della
classe economicamente dominante, essa tende a formare le coscienze
dei giovani secondo i dogmi fondamentali che saranno poi l'ostacolo
maggiore alla propaganda rivoluzionaria. Le idee religiose e
metafisiche, i pregiudizi sociali su cui si impernia la cultura
borghese costituiscono uno strato di pensieri difficilissimo a
rompersi dalla critica posteriore. Mano a mano che il capitalismo si
afferma, e che il suo dominio sugli intellettuali e sugli insegnanti
diviene più ferreo, si vede la scienza ufficiale rinnegare le
conclusioni rivoluzionarie del metodo positivo e ritornarsene per
vie contorte a quei dogmi che permettono di esaltare l'attuale
società, dogmi che nulla hanno da invidiare a quelli dei
preti. La scuola diviene un'arma terribile di conservazione e di
reazione [...] Questo ci permette di asserire che non è con
qualche riforma della scuola che si potranno educare le masse e
prepararle ai loro destini. (Quindi) lo scopo del movimento
giovanile è di contrapporre alla scuola dei borghesi un
organismo che formi le coscienze dei giovani proletari nel senso
rivoluzionario [...] Convinti da buoni deterministi che il
proletariato educa se stesso a essere l'erede della fracida
filosofia borghese ed il costruttore della società futura e
che questa educazione non gli scende dai sommi maestri che la
democrazia tanto strombazza, ma gli viene dalle leggi economiche
della sua azione di classe, noi diciamo audacemente che la sua
educazione si fa non tanto sui libri, quanto sul campo dell'azione.
Pur non trascurando la cultura teorica dei giovani, noi crediamo che
la loro coscienza debba svilupparsi nella lotta di classe che non ha
bisogno di preparazioni filosofiche ma scaturisce viva e
irresistibile dalle loro condizioni materiali."
"Dunque niente cultura? Anzi, quanta più se ne può
avere. Ma lasciamola all'iniziativa individuale, che solo un vivo
sentimento di battaglia può eccitare nei giovani [...] La
necessità dello studio la proclama un congresso di maestri,
non di scolari. Le dichiarazioni di incompetenza lasciamole ai
consessi borghesi. Oggi tutti temono di essere incompetenti, e
lasciano circolare sotto l'etichetta dei competenti e degli
specialisti le più allegre corbellerie, e a gran delizia
dell'intellettuale società borghese [...] Noi non difendiamo
l'ignoranza. Anzi diciamo che un movimento socialista che raccolga i
giovani mentre la borghesia comincia a sfruttarli, realizzando con
la reciproca intesa il sentimento di difesa di classe vivissimo
nell'età giovanile al di sopra del sentimento individualista,
che la borghesia ha interesse a secondare nei proletari, avrà
per conseguenza di eccitare nei giovani lavoratori il desiderio di
affinare, anche nel senso istruttivo, la loro coscienza di classe.
Ma quando coloro che si pretendono socialisti raccomandano
direttamente la cultura come mezzo per l'emancipazione di classe
commettono un errore madornale. Infatti tra le accuse che la critica
marxista muove all'ordinamento presente, vi è quella che il
monopolio della proprietà impedisce la diffusione
dell'istruzione e rende impossibile condurre a un cero livello
comune di cultura e di civiltà tutti gli uomini. Quindi il
concedere che l'emancipazione proletaria avverrà quando le
masse saranno colte nel senso intellettuale, equivale a rinnegare
quella critica o a riconoscere l'impossibilità della
trasformazione sociale. La democrazia dice al popolo: sei sfruttato
perché ignorante; studia, educati, liberati dal prete e sarai
libero. Il socialismo dice al proletariato: sei ignorante e vile
perché sei sfruttato, sei sfruttato perché chini la
testa al giogo; rivoltati e sarai libero, e potrai allora diventare
civile."
"C'è una cosa che ci separa nettamente da tutte le idee
stolte borghesi: noi non educhiamo il popolo nelle visioni di un
passato ciarlatanescamente falsato dall'eloquenza democratica che
vive di plagio continuo ai manualetti di storia e di letteratura da
cinquanta centesimi e idealizzato a comodo modello del presente; ma
cerchiamo di dare alla massa le fonti vive della sua autoeducazione
nella visione netta di ciò che sono le sue condizioni di oggi
e di ciò che potranno essere quelle di un domani di
emancipazione, nella visione di una società che non ha la sua
falsariga nel quadretto di nessuna città tradizionale del
buon tempo antico, e neanche nelle fantasie degli utopisti, ma che
vive oggi nella coscienza sicura che la massa dei calpestati
acquista della sua forza e dei suoi logici ineluttabili destini.
Tutto il ciarpame dei luoghi comuni patriottici e democratici noi lo
buttiamo via senz'altro dalla nostra cultura modesta di
propagandisti di un'idea che vive non del passato ma dell'avvenire."
"Il riformismo e la democrazia vedono il problema della cultura da
un punto di vista capovolto. Nella cultura operaia essi scorgono la
conseguenza parallela dell'emancipazione economica, il mezzo
principale e la condizione necessaria di quella emancipazione.
Quanto un simile concetto sia reazionario e antimarxista non
occorrono molte parole a dimostrarlo. Se noi crediamo che
l'ideologia di una classe sia conseguenza del posto che le è
assegnato in una determinata epoca della storia dal sistema di
produzione, non possiamo aspettare che la classe operaia sia educata
per credere possibile la rivoluzione, perché ammetteremmo in
pari tempo che la rivoluzione non avverrà mai. Questa pretesa
preparazione culturale educativa del proletariato non è
realizzabile nell'ambito della società attuale. Anzi l'azione
della classe borghese compresa in essa la democrazia riformista
educa le masse in senso precisamente antirivoluzionario, con un
complesso di mezzi col quale nessuna istituzione socialista
potrà mai lontanamente gareggiare. (Occorre quindi non
correre) il rischio di diffondere, magari senza volerlo, quel
criterio riformistico della necessità della cultura. Sarebbe
un mezzo poderoso di addormentamento della massa, ed è
infatti il mezzo con il quale la minoranza dominante persuade la
classe sfruttata a lasciarle nelle mani le redini del potere. [...]
Tutta la nostra propaganda e la nostra sobillazione cozzano
quotidianamente contro la sfiducia che i lavoratori hanno nelle
proprie forze e contro il pregiudizio della inferiorità e
della incapacità alla conquista del potere; errori scaldati
dalla democrazia borghese che vorrebbe l'abdicazione politica della
massa nelle mani di pochi demagoghi. Ed è appunto il pericolo
di favorire questo gioco tentato nell'interesse conservativo delle
istituzioni presenti che ci fa diffidare delle esagerazioni
dell'opera di cultura"
LA MENZOGNA INTERESSATA DELLA LIBERA INDIVIDUALITÀ
L'altro abbraccio mortifero e soffocante al quale i giovani,
lavoratori o studenti che siano, devono sfuggire, è quello
dell'individualismo borghese tanto esaltato dalla cultura ufficiale
quanto da quella sedicente "alternativa". L'individualismo, con le
sue chimere di successo e realizzazione personale, non serve ad
altro che a distruggere qualsiasi barlume di coscienza della
necessità di una lotta comune a fianco di tutti gli
sfruttati, affogandola nel sogno della realizzazione di sempre nuovi
e fasulli bisogni. La fascia di età dei potenziali
consumatori dei beni di consumo prodotti senza sosta dall'industria
moderna tende ad abbassarsi costantemente; già tocca ai
bambini essere l'oggetto di nuove e continue proposte di merci
dozzinali quanto inutili, in un ciclo educativo di cui edonismo,
ricchezza e soddisfazione di bisogni innaturali e inutili sembrano
costituire i veri capisaldi teorici e gli autentici pilastri etici.
"Nell'ambito della proprietà privata [...] ogni uomo
s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno, per
costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova
dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di
rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell'altro una
forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio
bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera
degli esseri estranei, ai quali l'uomo è soggiogato, ed ogni
nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno
e delle reciproche spogliazioni. L'uomo diventa tanto più
povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per
impadronirsi dell'essere ostile, e la potenza del suo denaro sta
giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre
parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza
del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero
bisogno prodotto dall'economia politica, il solo bisogno che essa
produce. La quantità del denaro diventa sempre più il
suo unico attributo di potenza. [...] La sua vera misura è di
essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche
dal punto di vista soggettivo: in parte l'estensione dei prodotti e
dei bisogni si fa schiava, schiava ingegnosa e sempre calcolatrice
di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari. [...] Ogni
prodotto è un'esca con cui si vuol attrarre a sé
ciò che costituisce l'essenza dell'altro, il suo denaro.
[...] Ogni necessità è un'occasione per presentarsi al
proprio prossimo sotto le più allettanti spoglie e dirgli:
caro amico, io ti do quel che ti è necessario, ma tu conosci
la conditio sine qua non, tu sai con quale inchiostro devi scrivere
l'impegno che assumi con me; nel momento stesso in cui ti procuro un
godimento, ti scortico. In parte questa estraniazione si rivela nel
fatto che il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi, da un lato,
produce un imbarbarimento animalesco e una completa, rozza, astratta
semplificazione dei bisogni, dall'altro lato. [...] E così,
come l'industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula
altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto
è prodotta ad arte, e di cui pertanto il vero godimento
consiste nell'autostordimento, che è una soddisfazione del
bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la
rozza barbarie del bisogno" .
È dalla dipendenza dal denaro che nasce ogni altra
dipendenza; è dalla estraniazione dalla specie che nasce ogni
individualismo vagheggiante soluzioni personali a problemi che
personali non sono affatto; ed è dall'individualismo che
sorge ogni alienazione e separazione dall'attività e dalla
cultura della specie.
"La società presente in tutte le sue manifestazioni ha
l'impronta dell'individualismo. Nonostante che le necessità
della vita ed i mezzi di cui attualmente si dispone per soddisfarle
(ossia i mezzi di produzione e di scambio) abbiano raggiunto un tale
stadio da rendere necessaria una collaborazione sempre più
intrecciata, la minoranza borghese ha interesse a conservare la
costituzione individualistica della società, sebbene questa
causi i disordini della produzione e l'insufficienza di questa ai
bisogni della stragrande maggioranza. L'egoismo economico produce
una morale (intendiamo per morale un sistema di norme proposte o
imposte dalla minoranza dominante) di tipo egoistico, ammantata di
quell'umanitarismo e di quella filantropia che non sono che arti
subdole per celarne la vera essenza, mezzi di difesa contro gli
strappi che a quella morale tenta di fare la maggioranza oppressa.
Come la classe borghese vuole, per necessità della propria
conservazione, il regime della libera concorrenza tra capitalisti,
così avrebbe interesse a che la stessa concorrenza si
svolgesse tra i salariati. Per quanto le è possibile la
borghesia cerca quindi, col mezzo dell'educazione, che è suo
monopolio, di riflettere sul proletariato la sua anima
individualistica. È chiaro però che questa educazione
agisce in senso opposto alle tendenze storiche dell'evoluzione
sociale [...] Il concetto animalesco della concorrenza (lotta per la
vita) viene attenuandosi mentre si delinea il principio di reciproco
aiuto. Succede che la maggioranza sfruttata tende ad accelerare
quell'evoluzione che la borghesia vorrebbe contrastare con la forza
materiale e con l'educazione (freno morale). Aggiungeremo che
è un pregiudizio credere che la borghesia domini per mezzo
dell'ignoranza: essa domina per mezzo della cultura, della sua
cultura".
Tutto ciò che è stato fino ad ora affermato rovescia
completamente quella prospettiva educazionista e culturalista di cui
sono piene le pagine dei giornali e i discorsi della sinistra
democratoide e piccolo borghese. Ai giovani non serve studiare per
poi capire: se tutti quelli che "studiano" capissero, a quest'ora
non saremmo a discutere di difesa del marxismo e di rivoluzione
anticapitalistica a venire. I giovani devono essere messi in grado
di scoprire, toccare con mano i motivi reali del loro scontento e
del loro disagio. I quali non vengono dall'interno dell'organismo e
non hanno nulla di "esistenziale"; vengono dall'esterno, da un modo
di produzione che ha fatto il suo tempo e che, sopravvivendo,
diventa sempre più non-umano.
Certamente anche la disumanizzazione capitalistica ha le sue radici
in un modo di produzione basato su rapporti fra uomini e non fra
marziani: ma è proprio per questo che è inutile
aspettarsi la soluzione dalla coscienza, dall'individuo, dalla
cultura o da qualche altro prodotto della disumanizzazione
crescente. La soluzione non è nei dispensatori di cultura,
non è nelle biblioteche e nella testa dei professori, anche
se passa attraverso libri e cervelli, individui e folle,
università e fabbriche, manufatti di cemento e spiriti
filosofici, in un percorso continuo che occorre discernere, quello
che Marx ha chiamato partito storico.
I giovani, come tutti, prima devono sbattere il muso contro i fatti
materiali, poi, se avranno la possibilità di incrociare
alcuni elementi del partito storico (e oggi saranno necessariamente
pochi), scoprire che devono andare oltre quell'impronta
individualistica ed egoistica che la società borghese tende a
dare a ognuno attraverso la parcellizzazione del lavoro e dello
studio; scoprire l'identità tra le posizioni tendenti a
difendere la cultura scolastica come necessaria alla comprensione
del mondo e quelle tendenti a spiegare la difficoltà a
trovare lavoro con la scarsa cultura universitaria o la scarsa
preparazione professionale.
Il fatto che si formino di continuo nuove istituzioni, non importa
se private o pubbliche, destinate alla formazione continua (corsi
postdiploma, lauree brevi, corsi di aggiornamento, ecc.) non
rappresenta soltanto il tentativo di rinnovare e incrementare il
giro d'affari legato al mercato della cultura e dell'istruzione, ma
soprattutto la volontà di prolungare all'infinito il periodo
di formazione di ogni individuo, sia per ritardarne l'ingresso in un
mercato del lavoro ormai asfittico sia per continuare l'azione
conservatrice e reazionaria connessa alla funzione dell'istruzione
scolastica.
Lo sbocco produttivo, l'accesso al mercato del lavoro per migliaia e
milioni di giovani dipenderà da ben altri fattori: non dalla
formazione professionale o dal grado di istruzione, ma
dall'andamento del mercato mondiale e del ciclo di produzione
capitalistico, dall'andamento della crisi e dal consolidamento della
prassi sindacale tendente alla responsabilità totale nei
confronti di tutte le categorie capitalistiche, compresa la
responsabilità della difesa del profitto attraverso
l'abbassamento reale dei salari e l'ampliamento reale del tempo di
lavoro.
Il giovane che incomincia a intravedere i nessi economici e sociali
che provocano il malessere per il quale i suoi compagni scendono in
piazza, occupano le scuole o sopportano le interminabili chiacchiere
di piccoli politicanti che sono già corrotti peggio dei
grandi, ha già compiuto un salto notevole verso la
liberazione dall'ideologia dominante. Può avere o non avere
"cultura" nella testa, ma le sue gambe incominciano a muoversi verso
qualcosa che ritiene possibile, una società diversa.
Ecco, il giovane abbraccia la rivoluzione quando incomincia ad agire
e a ragionare in base a categorie che non fanno più parte
della società capitalistica. In fondo non è lui a
scoprire il comunismo, è il comunismo che si impadronisce di
lui perché il comunismo è il movimento reale che
abolisce lo stato di cose presente, compreso un certo modo di
pensare e di agire.
Questo e solo questo è il processo attraverso cui si realizza
sul serio quello che nel non tanto mitico Sessantotto era solo uno
slogan demagogico: studenti e operai uniti nella lotta. Uniti nella
lotta per che cosa? L'unica unione che può avvenire tra
rappresentanti di classi diverse è quando ognuno di questi si
sente ormai fuori dalla propria classe e proiettato verso un mondo
senza classi. Ma ciò avviene solo sulla base politica. Il
partito storico prepara questa condizione. E siccome la rivoluzione
ha bisogno dell'organizzazione fisica, il partito che
dirigerà la rivoluzione non avrà al suo interno operai
e intellettuali, impiegati e disoccupati, ma solo rivoluzionari
comunisti.
Studenti e operai possono essere uniti solo nella lotta
anticapitalistica. Solo per questa via viene smascherata la
demagogia di coloro che attraverso lo sbandieramento della
"solidarietà" cercano di presentare come nemici dei giovani e
dei disoccupati proprio quei proletari che rifiutano di cedere
terreno a favore del profitto.
Abbiamo dovuto vedere anche questo: giovani studenti e disoccupati
che manifestavano contro operai che rifiutavano il sabato lavorativo
in cambio della promessa di una manciata di posti di lavoro. La
certezza è che la promessa era destinata a rimanere tale.
Qualche posto di lavoro in più da una parte, significa sempre
molti posti di lavoro in meno dall'altra. Non occorre la cultura per
capire questo. Una fabbrica nuova è più produttiva di
una fabbrica vecchia, produce di più con meno dipendenti.
Proprio per questo la si apre. Proprio per questo da qualche parte
invece si chiude. Il saldo non può essere positivo, l'epoca
della rivoluzione industriale è finita e i servizi non
possono assorbire la forza lavoro "che rimane libera nella
società".
Da qualche anno vi sono episodi isolati di rifiuto degli accordi
sindacali. In questi casi, generalmente, i proletari hanno cercato
di reagire all'aumento dello sfruttamento, diventando così
nei fatti gli unici a difendere realmente anche gli interessi di
coloro che il posto di lavoro ancora non hanno, rifiutando di cedere
alla legge della concorrenza. Gli accordi che i sindacati hanno
recentemente siglato con un gran numero si rappresentanti della
grande e media industria, avallando straordinari selvaggi, sabati
lavorativi e turni di notte insieme con ristrutturazioni che
aumentano la produttività, non alleviano i problemi né
dell'occupazione, né del supersfruttamento del lavoro nero,
anzi, li aggravano.
La fabbrichetta clandestina recentemente scoperta, dove ragazze
quasi bambine fabbricavano camicie in uno scantinato per poche lire,
ricorda che certi termini del lessico marxista come
"schiavitù del lavoro salariato", che in genere non vanno
presi alla lettera, possono risultare addirittura eufemismi di
fronte alla realtà. Il magistrato borghese che ha incriminato
il capitalista clandestino ha scritto nella sua motivazione:
"traduzione in schiavitù", alla lettera. Questo episodio, che
riguarda solo una realtà scoperta di fronte a mille che
continuano indisturbate, dimostra l'assoluta inutilità della
responsabilità sindacale di fronte all'economia borghese; la
legge della concorrenza è inesorabile: di fronte al
"permesso" sindacale di sfruttare di più, cioè alla
concessione al capitalista di essere più competitivo, vi
sarà sempre un altro capitalista che cercherà
ulteriori vie per la competitività, fino alla
schiavitù vera e propria.
I giovani e i disoccupati che hanno manifestato contro gli operai
"egoisti" (come nel recente episodio di Termoli) erano
inconsapevolmente complici di questo meccanismo ed erano portati a
questo dal fatto di non essere riusciti a rompere il cerchio
infernale degli atti e dei ragionamenti in base alle categorie
capitalistiche.
L'ANNOSO PROBLEMA DELLE PAROLE D'ORDINE
Dal punto di vista marxista per il movimento giovanile non ci
può essere una parola d'ordine specifica, una soluzione
specifica dei propri problemi; anzi quella delle parole d'ordine
settoriali e specifiche è proprio la strada priva di uscite
che le forze della borghesia vorrebbero ogni volta fargli imboccare.
I giovani che siano portati a lottare per cambiare veramente la
propria condizione sono costretti a scendere sul terreno
immediatamente politico. Nel prendere atto del loro scontento devono
rifiutare tutte quelle proposte che mirano a fargli scimmiottare la
trattativa sindacale o il cretinismo parlamentare in vista di
obiettivi limitati e fuorvianti, come, per esempio, quello della
riforma della scuola.
Gli obiettivi giovanilisti finiscono con il sospingerli verso i lidi
del corporativismo, inteso proprio come separazione netta degli
interessi specifici ed egoistici di ogni settore sociale o di ogni
individuo da quelli di tutti gli altri. Per questo i marxisti
affermano invece che un possibile programma del movimento giovanile
può consistere nel "sottrarre la formazione del carattere
all'esclusiva influenza della società presente, vivere tutti
insieme, giovani operai e no, respirando un'atmosfera diversa e
migliore, tagliare i ponti che li uniscono ad ambienti non marxisti,
recidere i legami per cui si infiltra nel sangue il veleno
dell'egoismo, della concorrenza, sabotare, in una parola, questa
società infame, scavando mine destinate a sconvolgerla nelle
sue basi" .
Ma anche ciò non può derivare da una specifica
condizione giovanile o studentesca, dalla elaborazione soggettiva di
un modello di società antagonista legata all'interesse o alla
visione particolare di un individuo o di una categoria.
"Marx ha detto che gli uomini fanno la loro storia, vecchia
obiezione di rimasticatori scarsi. È certo che la fanno,
colle mani coi piedi e con la bocca anche, e con le armi;
materialmente la fanno, ma quello che noi neghiamo è che la
facciano con la testa, ossia che siano a tanto di 'costruirla'
(termine esoso e da imprenditore borghese) su di un modello, o
progetto, tutto pensato. La fanno sì, ma non come credevano e
sapevano di farla, né come prevedevano e desideravano. Ecco
il punto. La dialettica sorge nel chiedere: questa impotenza, questo
negato libero arbitrio umano, concerne l'individuo o concerne anche
la società umana? La risposta marxista è qui classica.
Il soggetto personale, e a più forte ragione nelle
società a struttura individualista, è immerso nel
massimo di quella impotenza a prevedere ed a guidare. In questa
società, e soprattutto in quelle la cui ideologia è
bolso liberalismo, più il singolo riveste un grado alto della
gerarchia, più è una marionetta tratta dai fili
deterministi. Anche la società come un tutto, e fino a quando
è una società divisa in classi non possiede visione e
direzione del proprio avvenire; in essa nel corso della storia gli
interessi delle classi che si scontrano si rivestono di previsioni
(profezie) e di ideologie in contrasto, ma non arrivano alla potenza
di prevedere e di preparare il futuro. Quella sola classe, presente
in questa società capitalista, che ha interesse alla
abolizione della società divisa in classi, può
aspirare alla capacità di lottare per tale fine e di averne
nel suo seno una conoscenza ed una visione, e questa classe (il
marxismo scoprì), è il moderno proletariato. Ma fino a
che questa classe vive nella società capitalistica la visione
cosciente del suo avvenire non può aversi in ciascun suo
membro, e nemmeno nella sua totalità, ed è solo
sciocco pretendere tale coscienza e volontà nella maggioranza
di essa; questa idea non è che uno dei tantissimi derivati
borghesi che intorbidano le menti dei proletari e che solo un
seguito di generazioni potranno cancellare. Quindi un singolo non
può assurgere alla visione della società comunista per
effetto del riflesso delle sue convenienze ed interessi personali;
questo sarebbe materialismo volgare. E nemmeno può
concentrare in sé la visione della classe e il futuro della
società umana se non come convergenza delle forze di classe.
La contraddizione è che l'uno non può e la
collettività neppure; e ciò condurrebbe alla impotenza
eterna non solo di volere il futuro, ma di prevederlo. L'uscita
dialettica da questa doppia tesi (che il proletariato può e
non può, è la prima classe che tende alla
società aclassista, ma non ha la luce che alla specie umana
risplenderà dopo la morte delle classi) sta nel doppio passo
contenuto nel Manifesto dei Comunisti. Primo tempo: partito. Secondo
tempo: dittatura. Il proletariato massa amorfa si organizza in
partito politico e assurge a classe. Solo facendo leva su questa
prima conquista si organizza in classe dominante. Egli va alla
abolizione delle classi con una dittatura di classe. Dialettica! La
capacità di descrivere in anticipo e di affrettare il futuro
comunista, dialetticamente non cercata né nel singolo
né nell'universale, è trovata in questa formula che ne
sintetizza il potenziale storico: il partito politico attore e
soggetto della dittatura".
La soluzione dei problemi della gioventù può pertanto
realizzarsi soltanto all'interno di una più ampia
ricomposizione della classe proletaria con suoi fini e quindi con e
nel suo partito. Il che vuol dire ricomposizione della specie umana
con la sua propria umanità.
"Il comunismo come soppressione positiva della proprietà
privata intesa come autoestraniazione dell'uomo, e quindi come reale
appropriazione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo e per l'uomo;
perciò come ritorno dell'uomo per sé, dell'uomo come
essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto
cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento
storico sino a oggi. Questo comunismo [...] è la vera
risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo, tra l'uomo e
l'uomo, la vera risoluzione della contesa tra l'esistenza e
l'essenza, tra l'oggettivazione e l'autoaffermazione, tra la
libertà e la necessità, tra l'individuo e la specie.
È la soluzione dell'enigma della storia, ed è
consapevole di essere questa soluzione".
UN ARTICOLO DEL 1913 SUI GIOVANI E LA CULTURA
UN PROGRAMMA: L'AMBIENTE
Abbiamo lungamente combattuta l'opinione di quelli che
intenderebbero dare al movimento giovanile socialista l'indirizzo di
coltura. Abbiamo sostenuto che un tale indirizzo può
corrispondere ad un'opera di preparazione democratica, ma non di
preparazione rivoluzionaria.
Il nostro argomento teorico fondamentale è stato sempre
quello che le opinioni politiche non sono frutto di idee astratte o
di cognizioni filosofiche e scientifiche, ma dell'ambiente in cui si
vive e delle necessità immediate di questo ambiente. E' la
nostra tesi materialistica, nel senso in cui la intendeva Carlo
Marx, contrapposta alle concezioni idealistiche di ogni natura e ben
poco scossa dal revisionismo borghese e non borghese. Può non
essere accettata da tutti i compagni, ma noi persistiamo a ritenere
che al di fuori di essa non vi è possibilità di dare
una base all'argine e alla mentalità socialista. Noi crediamo
soprattutto che i fatti la vadano sempre più confermando,
quando si sa esaminarli al di fuori delle falsificazioni della
coltura borghese e senza trascendere a inutili schermaglie
intellettualistiche.
L'ambiente proletario che è quello in cui sorge
spontaneamente il socialismo, è, come ogni ambiente sociale,
determinato e aumentato dalla comunanza di interessi economici. Nel
riconoscere questa verità fondamentale, e nel farcene una
guida costante per la risoluzione di ogni problema politico e
sociale noi non abbiamo mai sognato di negare l'esistenza dei
"sentimenti" e nemmeno quella delle "idealità" intendendo con
questo termine la coscienza di uno scopo reale da raggiungere
nell'interesse di tutti, ma che può in determinati momenti
dell'azione esigere il sacrificio di alcuni (ci ripetiamo spesso, ma
a ragion veduta). Anzi noi vediamo nell'opinione politica più
un fatto di "sentimento" che un prodotto di coltura filosofica e
scientifica. Solo noi mettiamo a base del sentimento socialista le
condizioni economiche, invece di pretendere che il socialismo
discenda ad occuparsi del problema economico per effetto dell'
"istinto mutuato di giustizia" ecc.
Noi crediamo -ed è questo il punto importante! - che gli
errori, le debolezze e i tradimenti di qualche compagno vanno
attribuiti non a deficienze di coltura, ma all'essersi a poco a poco
spostato dall'ambiente e all'aver perduto il "sentimento"
socialista. Alle "conversioni" possono credere i preti, non noi.
Così pure al fatto che gli errori siano commessi non da
individui rappresentativi, ma proprio da gruppi operai, non si
rimedierà mai con la coltura, se non si provvede a dare a
quei gruppi l'atmosfera dell'ambiente socialista.
I "colturisti" sono preoccupati del fatto che certe categorie di
operai avendo conquistati alcuni privilegi cessano di essere
socialisti nel senso vero della parola, e tradiscono la lotta di
classe. Essi vorrebbero porre riparo a tale fatto deplorevolissimo,
ma disgraziatamente logico, con la "coltura". Noi crediamo invece
che bisogna evitare la formazione di questi ambienti di privilegio e
portare gli operai a contatto delle altre categorie, farli vivere al
di fuori del loro gruppo locale, ottenendo che così capiscano
che occorre sacrificarsi non solo per il proprio sindacato, ma per
tutti i loro compagni lavoratori sfruttati dalla borghesia. Questa
non è un'opera di coltura, ma di "formazione di ambiente".
Questa opera deve essere riservata al Partito Socialista, ed ecco
perchè noi mettiamo la missione rivoluzionaria del partito
molto al di sopra di qualla dei sindacati, a qualunque chiesiuola
appartengano i segretari di questi ultimi.
Visto che con l'opera di cultura si vorrebbe rimediare alle
defezioni , esaminiamo un po' meglio questi fenomeni dolorosi.
Cominceremo col fare una distinzione tra socialisti operai e
socialisti "intellettuali".
L'operaio diviene socialista quando prende a considerare la sua
posizione di vittima non isolatamente, ma insieme a quella dei
compagni di lavoro. Questo -l'abbiamo detto tante volte! - è
conseguenza del suo stato di disagio economico a cui l'istinto di
conservazione gli fa cercare un rimedio. Nel fare questi sforzi per
il suo miglioramento, esso finisce col vedere che occorre colpire
alla radice il presente regime economico e per fare ciò
bisogna portare la lotta sul terreno politico dirigendola contro le
istituzioni attuali.
E' evidente che quello stesso istinto di conservazione che lo ha
spinto su questa strada, lo trattiene poi nel momento decisivo
dell'azione rivoluzionaria, e molte volte l'operaio finisce
coll'adattarsi alla condizione presente per tema di arrischiare
troppo e di fare un cattivo guadagno. Ma quando certe particolari
condizioni economiche esasperano il suo sentimento di ribelle,
allora egli non esita più e si lancia nella lotta
rivoluzionaria.
Ora il Partito Socialista proponendosi di affrettare tale processo
vuole convincere l'operaio della necessità di svolgere quella
lotta, unica possibile soluzione del problema sociale nell'interesse
del proletariato. L'operaio solidamente convinto di questo è
un buon socialista. Quale dunque sarà il metodo per
effettuare tale convinzione? Quello della dimostrazione teorica,
della coltura? Dovremo allora aspettare vari secoli ancora per
"preparare" il proletariato!
No, perdio, la via della propaganda non è la teoria ma il
sentimento, in quanto questo è il riflesso spontaneo dei
bisogni materiali nel sistema nervoso degli uomini.
Occorre, se vogliamo vincere le riluttanze egoistiche dell'operaio,
fargli vedere le condizioni di tutti i suoi simili, portarlo in un
ambiente che gli parli della "classe" e del suo avvenire. Sotto
l'influenza di tale ambiente egli non correrà rischio di
diventare un rinnegato. E che non sia questa un'opera di coltura lo
prova il caso degli intellettuali che "rinnegano" con grande
facilità, malgrado la solidità teorica delle loro
idee, a cui non potrebbero mai giungere gli operai.
Però il caso degli intellettuali è ben diverso. Essi
vengono da un ambiente non socialista, per accidente, per istinto
forse, più spesso per essersi urtati in qualche spigolo
dell'ambiente che lasciano - quasi mai colla cosciente malafede di
farsi un piedistallo politico, perchè questo vien dopo.
La convinzione vera, in generale, si forma poi, a contatto
dell'ambiente operaio, per il confronto con quello che si è
lasciato... L'opinione politica non è un atteggiamento di
pensiero, ripetiamolo a costo di essere lapidati da idealisti,
cultoristi, maniaci della "Filosofia" o della "Scienza". Conosco
molti che in teoria sono socialisti e in politica forcaioli. Esiste
forse anche qualche caso del ... viceversa! Siccome però
l'intellettuale e l'operaio credono entrambi, molto spesso, alla
superiorità politica dell'uomo più colto, così
finiscono col trovarsi in due piani distinti, e l'operaio si abitua
a credere che l'intellettuale sia un essere superiore, con
possibilità di azione immensamente maggiori... finisce col
farsene un idolo, e intanto lo manda fuori dell'ambiente operaio.
Comincia così la logica parabola dei borghesi socialisti,
riassorbiti dalla società borghese. E' un processo quasi
necessario: il proletariato sottrae alla borghesia alcuni elementi
rivoluzionari, evoluti, e li sfrutta contro di essa finchè
questa non riesce a riprenderli nelle sue file. E' un passaggio
continuo che non recherebbe gran danno al socialismo se quegli
intellettuali, andandosene, non lasciassero dietro di loro un
seguito di ammirazione personalistica negli operai.
Il nemico che ci vediamo contro in questi fenomeni, l'artefice delle
defezioni operaie e non operaie dalle nostre file è sempre lo
stesso: si chiama "individualismo". Esso è il riflesso
dell'ambiente della società borghese. Esso ha le sue radici
sul regime economico della proprietà privata e della
concorrenza. E' un nemico che dobbiamo combattere. Sarà
abbattuto quando si potrà instaurare il regime economico
comunista, ma bisogna assalirlo anche oggi.
Tutto l'ambiente borghese conduce dunque all'individualismo. La
nostra lotta socialista, anti-borghese, la nostra preparazione
rivoluzionaria deve essere diretta nel senso di gettare le basi del
nuovo ambiente .
Ecco in che cosa noi vediamo tutto un programma del movimento
giovanile. Sottrarre la formazione del carattere all'esclusiva
influenza della società presente, vivere tutti insieme, noi
giovani operai o no, respirando un'atmosfera diversa e migliore,
tagliare i ponti che ci uniscono ad ambienti non socialisti,
recidere i legami per cui ci si infiltra nel sangue il veleno
dell'egoismo, della concorrenza, sabotare , in una parola, questa
società infame, creando oasi rivoluzionarie destinate un
giorno ad invaderla tutta, scavando mine destinate a sconvolgerla
nelle sue basi.
Ma l'articolo è già troppo lungo per svolgerne ora la
parte "concreta". Ne parleremo un'altra volta.
L'Avanguardia n. 289 del 1 giugno 1913. Firmato: Amadeo Bordiga