Q11 §50

Storia della terminologia e delle metafore. L’espressione tradizionale che l’«anatomia» della società è costituita dalla sua «economia» è una semplice metafora ricavata dalle discussioni svoltesi intorno alle scienze naturali e alla classificazione delle specie animali, classificazione entrata nella sua fase «scientifica» quando appunto si partì dall’anatomia e non più da caratteri secondari e accidentali. La metafora era giustificata anche dalla sua «popolarità», cioè dal fatto che offriva anche a un pubblico non intellettualmente raffinato, uno schema di facile comprensione (di questo fatto non si tiene quasi mai il conto debito: che la filosofia della prassi, proponendosi di riformare intellettualmente e moralmente strati sociali culturalmente arretrati, ricorre a metafore talvolta «grossolane e violente» nella loro popolarità). Lo studio dell’origine linguistico‑culturale di una metafora impiegata per indicare un concetto o un rapporto nuovamente scoperto, può aiutare a comprendere meglio il concetto stesso, in quanto esso viene riportato al mondo culturale, storicamente determinato, in cui è sorto, così come è utile per precisare il limite della metafora stessa, cioè ad impedire che essa si materializzi e si meccanicizzi. Le scienze sperimentali e naturali sono state, in una certa epoca, un «modello», un «tipo»; e poiché le scienze sociali (la politica e la storiografia) cercavano di trovare un fondamento obbiettivo e scientificamente adatto a dar loro la stessa sicurezza ed energia delle scienze naturali, è facile comprendere che a queste si sia ricorso per crearne il linguaggio.

D’altronde, da questo punto di vista, occorre distinguere tra i due fondatori della filosofia della prassi, il cui linguaggio non ha la stessa origine culturale e le cui metafore riflettono interessi diversi.

Un altro spunto «linguistico» è legato allo sviluppo delle scienze giuridiche: si dice nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che «non si può giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di se stessa», cioè dal complesso delle sue ideologie. Questo principio è da connettere a quello quasi contemporaneo per cui un giudice non può giudicare l’imputato da ciò che l’imputato pensa di se stesso e dei propri atti od omissioni (sebbene ciò non significhi che la nuova storiografia sia concepita come un’attività tribunalizia), principio che ha portato alla radicale riforma dei metodi processuali, ha contribuito a far abolire la tortura e ha dato all’attività giudiziaria e penale una base moderna.

A questo stesso ordine di osservazioni appartiene l’altra quistione riguardante il fatto che le soprastrutture sono considerate come mere e labili «apparenze». Anche in questo «giudizio» è da vedere più un riflesso delle discussioni nate sul terreno delle scienze naturali (della zoologia e della classificazione delle specie, della scoperta che l’«anatomia» deve essere posta alla base delle classificazioni) che un derivato coerente del materialismo metafisico, per il quale i fatti spirituali sono una mera apparenza, irreale, illusoria, dei fatti corporali. A questa origine storicamente accertabile del «giudizio» si è venuto in parte sovrapponendo e in parte addirittura sostituendo ciò che si può dire un mero «atteggiamento psicologico» senza portata «conoscitiva o filosofica», come non è difficile dimostrare, in cui il contenuto teorico è scarsissimo (o indiretto, e forse si limita a un atto di volontà, che in quanto universale, ha un valore filosofico o conoscitivo implicito) e predomina la immediata passione polemica non solo contro una esagerata e deformata affermazione in senso inverso (che solo lo «spirituale» sia reale) ma contro l’«organizzazione» politica‑culturale di cui tale teoria è espressione. Che l’affermazione dell’«apparenza» delle superstrutture non sia un atto filosofico, di conoscenza, ma solo un atto pratico, di polemica politica, risulta da ciò che essa non è posta come «universale», ma solo per determinate superstrutture. Si può osservare, ponendo la quistione in termini individuali, che chi è scettico per il «disinteresse» degli altri, ma non per il proprio «disinteresse», non è «scettico» filosoficamente, ma fa una quistione di «storia concreta individuale»; lo scetticismo sarebbe tale, cioè un atto filosofico, se lo «scettico» dubitasse di se stesso o della propria capacità filosofica, di conseguenza. E infatti è osservazione ovvia che lo scettico, filosofando per negare la filosofia, in realtà la esalta e la afferma. Nel caso dato, l’affermazione dell’«apparenza» delle superstrutture significa solo l’affermazione che una determinata «struttura» è condannata a perire, deve essere distrutta e il problema che si pone è se questa affermazione sia di pochi o di molti, sia già o sia per diventare una forza storica decisiva o sia puramente l’opinione isolata (o isolabile) di qualche singolare fanatico ossessionato da idee fisse.

L’atteggiamento «psicologico» che sostanzia l’affermazione dell’«apparenza» delle superstrutture, potrebbe essere paragonato all’atteggiamento che si è verificato in certe epoche (anch’esse «materialistiche» e «naturalistiche»!) verso la «donna» e l’«amore». Si vedeva una graziosa giovanetta, fornita di tutti quei pregi fisici che tradizionalmente destano il giudizio di «amabilità». L’uomo «pratico» valutava la sua struttura «scheletrica», l’ampiezza del «bacino», cercava di conoscere sua madre e sua nonna, per vedere quale probabile processo di deformazione ereditaria l’attuale giovinetta avrebbe subito con gli anni, per avere la possibilità di prevedere quale «moglie» egli avrebbe avuto dopo dieci, venti, trenta anni. Il giovanotto «satanico», atteggiandosi al pessimismo ultrarealistico, avrebbe osservato la giovinetta con occhi «stecchettiani»: l’avrebbe giudicata «in realtà» un puro sacco di putredine, l’avrebbe immaginata già morta e sotterrata, con le «occhiaie fetenti e vuote» ecc. ecc. Pare che questo atteggiamento psicologico sia proprio dell’età subito dopo la pubertà, legato alle prime esperienze, alle prime riflessioni, ai primi disinganni, ecc. Tuttavia viene superato dalla vita e una «determinata» donna non susciterà più quei tali pensieri.

Nel giudizio di «apparenza» delle superstrutture c’è un fatto dello stesso genere: un «disinganno», un pseudopessimismo ecc. che scompare di colpo quando si è «conquistato» lo Stato e le superstrutture sono quelle del proprio mondo intellettuale e morale. E infatti queste deviazioni dalla filosofia della prassi sono in gran parte legate a gruppi di intellettuali «vagabondi» socialmente, disincantati ecc., disancorati, ma pronti ad ancorarsi in qualche buon porto.