Strutturalismo
di Francesco Remotti
Sommario: 1. Struttura e strutturalismo. 2. Il sistema come forma. 3.
Asse verticale e asse orizzontale. 4. Il nodo del mutamento. 5. La
struttura come trasformazione. 6. I confini dello strutturalismo. □
Bibliografia.
1. Struttura e strutturalismo
Una distinzione pare opportuna allorché si voglia determinare
l'incidenza dello strutturalismo nelle scienze sociali: un conto è
infatti stabilire l'importanza assunta in vari ambiti dalla nozione di
'struttura', e un altro conto è invece indagare i significati peculiari
dello 'strutturalismo'. La diffusione della nozione di struttura e
quella dello strutturalismo non sono coincidenti: la prima è assai più
vasta e generalizzata della seconda, e non è affatto scontato che
l'impiego di quella nozione comporti l'adozione di una prospettiva
strutturalistica. Auguste Comte, Herbert Spencer e in generale il
positivismo; Karl Marx, Friedrich Engels e il marxismo; Wilhelm Dilthey
e lo storicismo tedesco; Martin Heidegger, Jean-Paul Sartre, Nicola
Abbagnano e l'esistenzialismo; Talcott Parsons, Robert Merton, Georges
Gurvitch e molta sociologia contemporanea fanno un ampio uso della
nozione di struttura, ma non per questo possono essere considerati
autori e correnti di tipo strutturalistico. In compenso, proprio il
testo fondamentale dello strutturalismo europeo, ossia il Cours de
linguistique générale di Ferdinand de Saussure (v., 1916), non contiene
affatto la parola 'struttura' (come, beninteso, neppure
'strutturalismo'). Ovvero: se non è l'uso della nozione di struttura in
quanto tale a far rientrare nello strutturalismo una qualsiasi
prospettiva di pensiero, allo stesso modo si può essere strutturalisti
- o si può persino essere considerati fondatori o ispiratori dello
strutturalismo - anche senza menzionare il termine struttura. Se poi si
tiene presente che il primo accenno esplicito allo strutturalismo come
movimento scientifico generale compare negli anni trenta in un articolo
del linguista russo Nikolaj S. Trubeckoj (v., 1933), è plausibile
ritenere che, accanto o al di là di un uso sempre più massiccio della
nozione di struttura, vi siano prodromi più o meno nascosti dello
strutturalismo, le cui radici storiche affondano nell'Ottocento. Si
tratta di riflessioni e di esperienze di ricerca che si collocano
sostanzialmente ai 'confini': il confine, quindi la necessità di
confrontarsi con altre 'forme' o 'sistemi', e nello stesso tempo il
problema della 'comunicazione' o del 'passaggio' tra sistemi diversi
possono essere assunti come tratti peculiari dei prodromi ottocenteschi
dello strutturalismo.
Sotto questo profilo, è legittimo intravedere nelle ricerche che nella
seconda metà dell'Ottocento l'americano Lewis Henry Morgan aveva
condotto sulle terminologie di parentela degli Indiani del Nordamerica
il formarsi di problemi e di prospettive aventi una rilevanza
strutturalistica. Egli infatti non soltanto individua nei termini di
parentela degli Irochesi un sistema dotato di una sua logica e di una
sua coerenza, ma investe tale sistema di un rilevante interesse teorico
dal momento in cui, ampliando l'osservazione ad altre società (agli
Indiani del Nordamerica e poi nelle più diverse parti del mondo),
supera il carattere puramente 'locale' del sistema considerato. In
sintesi, gli spunti di ordine strutturalistico che possono essere colti
nell'opera di Morgan possono essere così esposti: a) la consapevolezza
dell'esistenza di 'sistemi' a livelli microscopici (che sfuggono a
un'osservazione immediata); b) il riconoscimento dell'esistenza di tali
sistemi in qualsivoglia tipo di società; c) la convinzione di dover
superare i confini di un qualsiasi sistema locale al fine di poterne
cogliere il significato fondamentale. Persino il sistema di
terminologia di parentela della nostra società, se "considerato da
solo, senza l'idea di una qualche forma opposta" (ossia senza la
percezione e l'analisi di sistemi diversi e contrastanti), non
susciterebbe alcun interesse (v. Morgan, 1871, p. 55). È questo un
punto importante e decisivo, in quanto non si tratta soltanto di
riconoscere l'esistenza di sistemi attribuibili a ogni società, ma di
affermare il principio secondo cui l'analisi di un sistema e, anzi, la
percezione stessa del sistema non sono possibili se non a condizione di
superare il carattere 'solitario' del singolo sistema e di andare oltre
i suoi confini, ponendolo quindi in connessione con sistemi alternativi
ed eventualmente opposti.
2. Il sistema come forma
È indubbio che la tesi delle origini 'marginali' dello strutturalismo
si adatta maggiormente ai linguisti russi, come Nikolaj Trubeckoj e
Roman Jakobson, fortemente interessati alla varietà delle lingue
caucasiche, così come all'etnografia, transfughi per giunta dalla
Russia postrivoluzionaria. Sembrerebbe adattarsi assai di meno al caso
di Saussure e al suo Cours de linguistique générale, assunto come prima
manifestazione di un pensiero strutturalistico nel Novecento. Eppure
anche in questo caso è possibile individuare passaggi di 'confini' che
si rivelano fondamentali per la linguistica strutturalistica. In uno
studio del 1878 Saussure si dichiara propenso a esplorare le "regioni
più incolte della linguistica indoeuropea", e due anni dopo intraprende
un viaggio in Lituania per studiare sul campo dialetti arcaici nelle
loro varietà parlate (v. De Mauro, 1989, pp. 294 e 299). Soprattutto il
superamento del confine rappresentato dalla scrittura per accedere allo
studio della lingua in quanto tale rappresenta il passo decisivo. La
scrittura è infatti per Saussure una sorta di "trappola" in cui sono
caduti i primi linguisti: privilegiare la scrittura nello studio della
lingua "è un po' come se si credesse che per conoscere qualcuno sia
meglio guardarne la fotografia che guardarlo in faccia" (v. Saussure,
1916; tr. it., pp. 36 e 44). Lingua e scrittura sono due sistemi di
segni distinti e per Saussure occorre superare l'ostacolo scrittura se
si vuole cogliere la lingua nella sua essenza. Travalicato il confine
costituito dalla scrittura, tutte le lingue - anche le lingue senza
rappresentazione scritta - si aprono alla considerazione del linguista
(come, del resto, già avevano fatto i neogrammatici dell'Ottocento). Si
tratta dunque di un duplice sconfinamento: passare dal livello della
rappresentazione scritta al livello del parlato nel caso di una lingua
dotata di scrittura e addentrarsi nel campo sterminato delle lingue non
scritte. "La materia della linguistica - sostiene Saussure (ibid., p.
15) - è costituita anzitutto dalla totalità delle manifestazioni del
linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili";
"ciò che ci è dato sono le lingue" e "il linguista è obbligato a
conoscerne il maggior numero possibile per estrarre dalla loro
osservazione e dal loro confronto ciò che vi è in esse di universale"
(p. 35).
Saussure ha praticato il primo sconfinamento (dalla rappresentazione
scritta alla versione parlata), non il secondo (dalle lingue scritte
alla molteplicità indefinita delle lingue senza scrittura). Rimanendo
nell'ambito delle lingue indoeuropee, egli si è dedicato soprattutto
alla messa a punto dei concetti che articolano la sua idea della lingua
come sistema e che, nella sua prospettiva, dovrebbero consentire di
determinare la "vera natura della lingua" (p. 27). Questi concetti
assumono la forma di opposizioni complementari: in primo luogo
l'opposizione tra il lato sociale e il lato individuale della lingua;
in secondo luogo l'opposizione tra la sua dimensione sistemica e la sua
dimensione storica. Ciò significa che la lingua può essere considerata
da ciascuno di questi punti di vista; ma trattandosi di opposizioni
complementari, la scelta è obbligatoria. Saussure è consapevole che la
scelta del punto di vista crea l'oggetto della linguistica, e che per
evitare che esso si riduca a "un ammasso confuso di cose eteroclite",
occorre scegliere il lato sociale e la dimensione sistemica (pp.
17-18): soltanto in questa prospettiva emerge l'oggetto 'lingua',
separato da ciò che viene definito con termine francese parole (il
momento individuale). Facendo emergere la lingua come sistema, si
separa "ciò che è essenziale da ciò che è accessorio e più o meno
accidentale" (p. 23). La scelta opposta, quella della parole e della
diacronia, non consentirebbe di determinare la "vera natura della
lingua", ma spingerebbe soltanto ad "accumulare dettagli su dettagli"
ovvero a percepire non già la lingua, "ma soltanto una serie di
avvenimenti che la modificano" (pp. 27, 33, 109). Al fine di far
emergere il 'sistema' Saussure si orienta dunque decisamente verso la
lingua anziché verso la parole, e verso la sincronia anziché verso la
diacronia. Come avremo modo di vedere, questa non è una scelta
obbligata: la prospettiva di Trubeckoj e di Jakobson implica infatti
una grossa apertura verso la diacronia. È indubbio però che la scelta
saussuriana per il sistema inteso nella sua dimensione sincronica - con
conseguente rifiuto o comunque subordinazione della diacronia -
costituisce un tratto alquanto ricorrente nello strutturalismo del
Novecento (come è dimostrato, in antropologia, dal caso di Claude
Lévi-Strauss).
Un punto occorre subito precisare: la scelta a favore della sincronia
non significa affatto ritenere che la lingua o un qualsiasi sistema non
cambi. Nel Cours saussuriano vi è infatti un acuto senso delle
alterazioni a cui la lingua è continuamente sottoposta. Ma le
alterazioni sono sempre, per Saussure, fatti accidentali che si
determinano su punti particolari del sistema, e quindi "non possono
essere studiate se non fuori di questo" (p. 106; corsivo nostro). Il
sistema in quanto tale non è mai soggetto attivo del mutamento: esso
subisce sempre, in qualche suo elemento, le alterazioni che provengono
dall'esterno e che, succedendosi nel tempo, fanno la storia di una
lingua. Il sistema subisce gli effetti del mutamento sotto forma di
alterazioni che indubbiamente incidono sulle relazioni interne, ma si
ricompone immediatamente consentendo così a una lingua di funzionare. A
causa delle alterazioni che obbligano il sistema di qualsiasi lingua
particolare a mutare nel tempo, occorre considerare da un lato gli
'stati' di lingua, ovvero i sistemi momentanei che si succedono nel
tempo, e dall'altro - a un livello di maggiore astrazione e generalità
- il sistema in quanto tale. Entrambi questi livelli analitici fanno
parte della prospettiva sincronica di Saussure. È indubbio però che
l'obiettivo principale consiste nell'analisi del sistema 'lingua' in
quanto tale, al di là dei sistemi momentanei e della molteplicità delle
sue realizzazioni storiche e particolari. Sotto questo profilo, si può
sostenere che Saussure abbia voluto procedere a una sorta di
purificazione del sistema lingua, ponendo da parte sia la dimensione
individuale e concreta (la parole), sia la dimensione storica (la
diacronia). Sacrificando la dimensione storica e individuale, lo
strutturalismo saussuriano punta all'analisi dei principî e delle
condizioni formali che rendono possibile una qualsiasi lingua.
Sono tre i principî fondamentali della linguistica di Saussure: 1) il
concetto di 'segno' linguistico, il quale consiste in una relazione tra
due elementi appartenenti a ordini di realtà differenti, ossia il
'significante' (suono o immagine acustica) e il 'significato' (idea o
concetto); 2) il principio dell''arbitrarietà' del segno, con cui viene
chiarita la natura della relazione tra significante e significato; 3)
il carattere 'lineare' del significante, il quale si svolge
necessariamente nel tempo (una parola dopo l'altra, un fonema dopo
l'altro). Significati e significanti hanno origine però non soltanto
dalla combinazione di un suono con un'idea, ma anche dal sistema di
differenze di cui rispettivamente fanno parte. Occorre aggiungere
allora un quarto principio fondamentale, mediante cui Saussure
chiarisce la natura del sistema lingua, ossia il concetto di
'differenza' o di 'opposizione'. I fonemi non sono infatti unità
foniche aventi un valore intrinseco, "una qualità propria e positiva":
essi sono invece "entità oppositive, relative e negative"; essi non
coincidono con una "sostanza materiale" propria, bensì con "il fatto
che non si confondono tra loro"; essi consistono nelle loro reciproche
"differenze" (p. 144). Questo principio della priorità delle differenze
o delle opposizioni vale però per l'intero sistema lingua (non soltanto
per i fonemi): "nella lingua non vi sono che differenze"; anzi, "nella
lingua non vi sono che differenze senza termini positivi", poiché "la
lingua non comporta né delle idee, né dei suoni che preesistano al
sistema linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali e delle
differenze foniche" (p. 144). Più precisamente, "un sistema linguistico
è una serie di differenze di suoni combinate con una serie di
differenze di idee" (p. 146), e "ciò che distingue un segno" è proprio
"tutto ciò che lo costituisce". Per questo - conclude Saussure (p. 147)
- "la lingua è una forma e non una sostanza".
Con questa vigorosa sottolineatura del carattere differenziale e
oppositivo che pervade l'intero sistema lingua si è pervenuti al
nocciolo dello strutturalismo, e non soltanto nella versione
saussuriana. Allorché in diversi contesti disciplinari (soprattutto
linguistica e antropologia) lo strutturalismo si farà strada, emergerà
una nozione di struttura intesa, appunto, come 'sistema di differenze'.
Se la nozione di struttura comporta già di per sé una forte idea di
articolazione interna, e quindi un elevato grado di eterogeneità degli
elementi che la compongono, se - posta a confronto con il concetto
tradizionale di sostanza - essa introduce la molteplicità nell'unità
(come teorizzato da Herbert Spencer), lo strutturalismo accentua ancor
più il principio della 'differenza', considerando i rapporti oppositivi
come prioritari e formativi rispetto ai termini entro cui intercorrono.
Per lo strutturalismo non vi sono preventivamente termini o elementi
che, aggregandosi in un sistema, danno luogo a differenze; al
contrario, sono le differenze che, formando la struttura di un sistema,
fanno esistere i termini. Sotto questo profilo, lo strutturalismo ha
operato una sorta di svuotamento della nozione tradizionale di
struttura, fatta non più di contenuti (di elementi che si aggregano),
ma in primo luogo di relazioni formali (differenze e opposizioni).
3. Asse verticale e asse orizzontale
Questo esito formalistico dello strutturalismo è del tutto evidente
nella linguistica del danese Louis Hjelmslev, il quale infatti afferma
che "una totalità non consiste di cose ma di rapporti, e che non la
sostanza, ma solo i suoi rapporti interni ed esterni hanno esistenza
scientifica" (v. Hjelmslev, 1943; tr. it., p. 26). Per comprendere tale
esito, il quale riguarda buona parte dello strutturalismo del
Novecento, occorre tuttavia illustrare una sorta di bivio di fronte a
cui si trova ogni prospettiva che in un modo o nell'altro si richiami a
principî strutturalistici. Per descrivere questo bivio, si possono
immaginare due assi: uno verticale, il quale conduce dall'osservazione
e dallo studio analitico di una o più lingue (o in generale di sistemi)
alla determinazione - per usare un'espressione di Saussure (v., 1916;
tr. it., p. 35) - di "ciò che vi è in esse di universale"; l'altro
orizzontale, il quale consiste nel confronto e nella comparazione tra
"il maggior numero possibile" di lingue o di sistemi. Si può sostenere
che lo strutturalismo viene giocato sul punto di intersezione di questi
due assi. Esso assume configurazioni diverse e produce esiti
differenti, secondo che si regga: a) sulla convinzione che ciò che si è
in grado di acquisire sull'asse verticale (teorizzante, astrattivo,
formalistico) possa addirittura precedere ciò che a mano a mano si
verrà a scoprire sull'asse orizzontale (osservativo, comparativo);
oppure b) sulla tesi opposta, ossia che le acquisizioni dell'asse
orizzontale non possono non modificare le prospettive e i risultati
teorici dell'asse verticale.
Optare per la prima alternativa e quindi
favorire le tendenze formalistiche che ne scaturiscono è un modo per
ovviare alle carenze conoscitive che si manifestano sull'asse
orizzontale. Il formalismo strutturalistico è la presunzione di poter
guadagnare, grazie alla forma, una sorta di universalità, nonostante
l'inevitabile incompletezza del sapere empirico e comparativo. Il
formalismo risponde infatti in maniera positiva alla domanda se si
possano delineare i tratti essenziali e universali della lingua, pur
non conoscendo tutte le lingue umane. Anzi, pensando di determinare la
"struttura specifica del linguaggio", ovvero ciò "che fa di una lingua
una lingua (di qualunque lingua si tratti)", lo strutturalismo di
Hjelmslev presume di essere in grado di "descrivere e predire non solo
qualunque testo possibile composto in una certa lingua, ma anche, in
base all'informazione che essa fornisce sul linguaggio in generale,
qualunque testo possibile composto in qualunque lingua" (v. Hjelmslev,
1943; tr. it., pp. 10 e 20).
La tendenza formalistica si configura come
un calcolo delle possibilità strutturali, per cui a partire dal
"principio strutturale della lingua" è possibile procedere per via
deduttiva alla determinazione di una "tipologia" le cui categorie -
ovvero le singole lingue - potrebbero anche essere prive di un
riscontro fattuale (ibid., p. 113). Questo modo di intendere lo
strutturalismo, secondo cui la teoria strutturale (asse verticale) può
precedere, anticipare e persino estendersi al di là dei dati
osservativi e comparativi (asse orizzontale), riemerge anche
nell'antropologo americano George P. Murdock (v., 1949), secondo cui,
per esempio, la teoria è in grado di determinare - sulla base di un
calcolo delle possibilità - le diverse forme che l'organizzazione di
clan può assumere, anche in assenza di un riscontro fattuale per alcune
di esse. La teoria strutturale prefigura infatti, secondo una logica
combinatoria, un quadro totale e quindi un numero finito di
possibilità, di cui alcune si sono storicamente realizzate ed
empiricamente verificate, mentre altre potrebbero essere rimaste mere
possibilità teoriche.
Noam Chomsky non ha dubbi circa l'opportunità di procedere a una
purificazione logica del sistema linguistico, separando gli elementi
esterni che interferiscono con la performance individuale (la parole di
Saussure) dalla 'competenza', allo scopo di isolare le "condizioni" che
"ogni grammatica [...] deve soddisfare" (v. Chomsky, 1967; tr. it., p.
446). Partendo non da una ricognizione a vasto raggio delle varie
lingue (asse orizzontale), bensì dal presupposto di un
"parlante-ascoltatore ideale" (puro), l'obiettivo è di pervenire alla
formulazione di una grammatica universale. Poiché ogni lingua altro non
è che una manifestazione particolarizzata di una struttura linguistica
generale, "anche partendo dallo studio di una sola lingua - sostiene
Chomsky (ibid., p. 447; corsivo nostro) - possiamo arrivare a
conclusioni sulla grammatica universale". L'universalismo tipico della
sua prospettiva si coniuga in Chomsky con un preoccupante monolinguismo
metodologico. L'inerpicarsi lungo l'asse verticale (generalizzazione),
abbandonando l'asse orizzontale (esplorazione della molteplicità), ha
consentito l'acquisizione di notevoli risultati teorici; ma la
formalizzazione della lingua e la priorità conferita all'asse verticale
implicano indubbiamente un "prezzo" - a scapito della "realtà concreta
fisica e fenomenologica", della "vita", delle "fluttuazioni" e delle
"sfumature" - di cui Hjelmslev (v., 1943; tr. it., p. 135) era ben
consapevole.
4. Il nodo del mutamento
Come già a proposito dell'interazione tra asse verticale (forma) e asse
orizzontale (comparazione), anche a proposito del rapporto
sistema/mutamento lo strutturalismo esprime fin dalle origini le sue
opzioni fondamentali. Per Trubeckoj, ad esempio, "la ricerca di leggi
fonologiche generali presuppone lo studio comparato dei sistemi
fonologici di tutte le lingue del mondo, astrazion fatta dai loro
rapporti genetici" (v. Trubeckoj, 1933; tr. it., p. 482; corsivo
nostro). Ma soprattutto per quanto riguarda il mutamento, lo
strutturalismo di Trubeckoj e di Jakobson prende le distanze dalla
prospettiva saussuriana. Nello stesso articolo in cui compare per la
prima volta il termine 'strutturalismo', Trubeckoj sostiene che proprio
la tesi saussuriana dell'interdipendenza sistemica dovrebbe far
ritenere che "il passaggio da uno stato di lingua a un altro non può
essere effettuato da cambiamenti isolati privi di senso" (ibid., p.
483). Per Trubeckoj le caratteristiche del sistema interessano anche il
mutamento: ogni sistema appare in movimento, e a sua volta il mutamento
cessa di ridursi a una serie di eventi accidentali, assumendo invece
caratteristiche strutturali, in quanto organizzato e incanalato da
"leggi di struttura generali, che escludono certe combinazioni e ne
favoriscono altre". Qualche anno prima, in un importante saggio del
1929, Jakobson aveva parlato esplicitamente di una "teoria della
diacronia della lingua" o della "teoria di un processo storico",
ponendo alle loro basi il "problema dei mutamenti di struttura" e
quello della "struttura dei mutamenti" (v. Jakobson, 1929, ed. 1968, p.
100). Si tratta di un potenziamento del programma strutturalistico, in
quanto ogni struttura va intesa non soltanto come un assetto
sincronico, ma anche come dotata di un certo numero di "possibilità
d'evoluzione" (ibid., p. 97). Se in una prospettiva sincronica il
sistema appare refrattario e chiuso ai mutamenti, in una prospettiva
diacronica esso risulta invece aperto a un certo numero di possibilità
di mutamento. L'analisi strutturale di un sistema consente di stabilire
la rosa delle possibilità di mutamento che caratterizzano dall'interno
una data struttura. Per questo lo strutturalismo di Jakobson si
presenta come una teoria del processo storico. Lo stesso programma di
stabilire positivamente le "possibilità strutturali" comporta però
anche il riconoscimento di un fattore di contingenza irriducibile,
espresso dalla nozione di "scelta".
Lo strutturalismo non è in grado di
rendere conto della "scelta della via seguita nel caso di un crocevia
fonologico" (p. 96), ovvero di predire la direzione assunta dal
mutamento: per fare ciò occorrerebbe estendere l'analisi ad altri
piani, interni ed esterni.
Jakobson e Trubeckoj fanno intendere che
l'estensione diacronica delle potenzialità dello strutturalismo
costituisce l'autentica realizzazione del suo programma. Per questo
risulta difficile condividere la tesi di Krzysztov Pomian (v., 1981, p.
746), secondo cui "lo strutturalismo, nella sua ricerca
dell'intelligibilità, non può che dissolvere la storia". Per lo
strutturalismo russo il principio esplicativo di una struttura consiste
non soltanto in ciò che la struttura è, in un dato momento, ma anche e
soprattutto in ciò che può divenire. Il principio esplicativo fa leva
non soltanto sull'identità, ma anche sull'alterazione. In questo modo,
lo strutturalismo di Jakobson e Trubeckoj contribuisce a fornire una
concezione del mutamento che prende le distanze da due visioni estreme
ed opposte, secondo cui: a) a partire da una certa condizione si
aprirebbe un numero indefinito di possibilità; b) la storia
conoscerebbe un'unica direzione (il progresso unilineare). È del tutto
evidente nel giovane Trubeckoj il rifiuto delle concezioni
evoluzionistiche eurocentriche che trasformano le culture delle diverse
società in "fasi diverse della stessa evoluzione [...] varie tappe del
cammino comune del progresso mondiale" (v. Trubeckoj, 1920; tr. it., p.
21).
In modo del tutto simile, il linguista e antropologo Edward Sapir
si oppose anche lui, negli anni venti, al "pregiudizio evoluzionistico"
che portava a trasformare la tipologia delle lingue in una "scala"
storica sulla cui sommità si troverebbero le lingue flessive come il
greco e il latino (v. Sapir, 1921; tr. it., p. 125). Lo strutturalismo
distrugge questa idea di scala e a una concezione valutativa e
gerarchica sostituisce un "piano orizzontale", sul quale "non ci sono
né superiori né inferiori", ma soltanto "simili e dissimili" (v.
Trubeckoj, 1920; tr. it., p. 41).È difficile collocare Sapir in una
prospettiva decisamente strutturalistica; e tuttavia le sue riflessioni
teoriche sul mutamento linguistico presentano una qualche aria di
famiglia con lo strutturalismo che si stava formando nell'Europa
orientale e che poi - con Jakobson - sarebbe approdato negli Stati
Uniti. Sapir era molto sensibile alle infinite "variazioni individuali"
a cui la lingua è sottoposta: la maggior parte di esse non lascia
traccia, mentre altre "si concentrano in una specifica direzione",
formando "derive" (drifts) che segnano la storia della lingua. Le prime
sono un pulviscolo incontrollabile, mentre le seconde dimostrano "una
coerenza finale" (v. Sapir, 1921; tr. it., pp. 155-156), la quale è
dovuta all'esistenza di "strutture fondamentali" che, per quanto
difficili da discernere, imprimono una direzione ai mutamenti. Queste
strutture determinano in definitiva le possibilità limitate di
mutamento e consentono di chiarire il fatto che lingue appartenenti a
regioni ed epoche del tutto estranee manifestino somiglianze
impressionanti di mutamento, tanto da suggerire un "parallelo
strutturale" (ibid., p. 144).
La teoria del mutamento di Sapir, da un
lato, e degli autori dichiaratamente strutturalisti, dall'altro, si
fonda quindi su alcune idee fondamentali: a) il mutamento ha una sua
struttura (forma, direzione, deriva), così come ogni struttura ha un
suo mutamento; b) il mutamento non è mai unidirezionale e nemmeno si
svolge in una molteplicità indefinita di direzioni; c) alla sua radice
vi è una "scelta" (v. Jakobson, 1929, ed. 1968, pp. 96-97) o una
"selezione inconscia" (v. Sapir, 1921; tr. it., p. 155), e questa si
verifica sempre, inevitabilmente, entro una rosa di possibilità, alcune
delle quali prendono corpo e si realizzano come 'derive', come
direzioni principali, ancorché non esclusive, né universali; d) tra i
mutamenti strutturali - e quindi tra le strutture - si possono scorgere
'paralleli' indipendentemente da effettive connessioni storiche. Si ha
l'impressione che in questo modo Sapir abbia contribuito ad aprire la
strada a una concezione strutturalistica del mutamento. Per Sapir
rappresenta infatti "soltanto una mezza verità" l'asserzione secondo
cui "ogni lingua ha la sua storia unica, e quindi una struttura unica",
peculiare ed esclusiva (ibid., p. 123).
Anche qui il concetto di
struttura travalica i confini delle individualità storiche, per cui la
spiegazione - di ordine strutturale - coinvolge una molteplicità di
sistemi che non necessariamente sono tra loro storicamente connessi.
Con uno strutturalismo siffatto la storia non verrebbe dissolta
(Pomian): semplicemente essa non è più un explanans, ma diviene un
explanandum, e soprattutto si denunciano i limiti della sua portata.Fa
parte di una teoria strutturalistica del mutamento ciò che - anche in
altri contesti (non strutturalistici, come in Alexander Goldenweiser e
in Bronislaw Malinowski) - è stato chiamato il principio delle
possibilità limitate. Murdock (v., 1949; tr. it., p. 158) ha applicato
tale principio alla struttura sociale, significativamente assimilata al
linguaggio in virtù delle sue regolazioni interne. Tale principio da un
lato illumina il meccanismo interno di una struttura che agisce come
'filtro' del mutamento, dall'altro spinge a uscire dalla logica interna
di un singolo sistema per inserirlo in un panorama teorico
potenzialmente universale. Quando un sistema muta, ovvero assume
un'altra forma, questa forma e quella precedente non gli appartengono
in maniera esclusiva; le forme in cui di volta in volta si trasforma
corrispondono o a forme etnograficamente accertate (in non importa
quale contesto) oppure a possibilità strutturali ancorché non
riscontrate. Forme e trasformazioni non sono peculiari di una storia
(sempre locale e particolare), bensì di un insieme di possibilità da
cui sono generate e spiegate.
È istruttiva la critica che Murdock
rivolge allo strutturalismo induttivo di Radcliffe-Brown, la cui
interpretazione delle strutture sociali australiane non consente di
collocarle nello stesso schema di riferimento degli altri sistemi
sociali che ci sono nel mondo, lasciandole così in un "guazzabuglio di
cose apparentemente bizzarre, uniche e scientificamente inesplicabili"
(ibid., p. 52). L'empirismo di Radcliffe-Brown sembra far proprio - in
modo quasi inaspettato - il principio dell'individualità storica,
tipico delle prospettive storicistiche. Per lo strutturalismo
antropologico l'uno e l'altro erigono barriere metodologiche che
isolano società e istituzioni, inchiodandole nella loro peculiarità
storica o nella loro solitudine etnografica. Dal punto di vista degli
strutturalisti, non è sufficiente un comparativismo su base induttiva
(alla maniera di Radcliffe-Brown) per superare davvero - come si
vorrebbe - gli impacci dell'individualismo storiografico.
5. La struttura come trasformazione
Anche Claude Lévi-Strauss prende le distanze da Radcliffe-Brown: "Non è
la comparazione a fondare la generalizzazione, ma il contrario" (v.
Lévi-Strauss, 1958; tr. it., p. 33). Non è dai casi via via accumulati,
non è dall'"astrazione mediante confronto di esempi" (v.
Radcliffe-Brown, 1952, p. 104), che si può giungere alla determinazione
delle strutture. Per Lévi-Strauss le strutture non sono nemmeno realtà
empiricamente osservabili, da cui partire per una generalizzazione
progressiva: le strutture consistono invece nelle relazioni che
collegano forme e istituzioni collocate nei più svariati contesti
etnografici. In altre parole, le strutture non sono individualità
storiche; esse si dispongono trasversalmente rispetto ai sistemi
locali. Un qualunque sistema locale (di parentela, matrimoniale o
cosmologico) ha una struttura, ma essa non è il suo principio
individuante. Più propriamente non è il sistema locale che possiede una
struttura; al contrario, il sistema locale appartiene alla struttura,
ossia all'insieme delle possibilità strutturali di cui il sistema è
soltanto una realizzazione particolare, una variazione tra altre. Per
comprendere il sistema nella sua stessa particolarità occorre
ricostituire questo fascio di possibilità generali. Ciò non significa
negare la coesione interna di un sistema locale: significa negare
invece la sua priorità esplicativa. Infatti, "tale coesione,
inaccessibile all'osservazione di un sistema isolato, si rivela nello
studio delle trasformazioni, grazie alle quali ritroviamo proprietà
similari in sistemi in apparenza differenti" (v. Lévi-Strauss, 1952;
tr. it., p. 66).
Valerio Valeri (v., 1970, p. 352, nota 13) ha
sostenuto con ragione che la "specificità dello strutturalismo", va
colta nel concetto di "trasformazione". Ed è ormai chiaro a questo
punto che le trasformazioni dello strutturalismo non coincidono, se non
in modo del tutto secondario, con i mutamenti particolari di un sistema
locale (la storia delle forme che via via assume nel tempo): le
trasformazioni di cui si tratta sono invece l'insieme strutturale (non
storico) delle forme o varianti di cui il sistema locale fa parte. "I
sistemi non debbono essere trattati come oggetti isolati, i cui
caratteri particolari sarebbero altrettanti attributi indissolubilmente
uniti a ciascuno" (v. Lévi-Strauss, 1949; tr. it., p. 228). Il concetto
di 'gruppo di trasformazioni' impone di sottrarre i sistemi locali alla
loro solitudine e alla loro esclusività storica: la spiegazione finisce
così col risiedere in un 'altrove' rispetto al sistema locale, poiché è
data dalle differenze, non dalle identità. Scoprire due sistemi
identici lascia intatto il problema della spiegazione, la quale invece
coincide con le regole di trasformazione che consentono di passare da
un sistema a un altro. Non si comprende un sistema fino a che non si
rilevano sistemi differenti e financo opposti e non li si collegano con
nessi trasformativi. Questo concetto di gruppo di trasformazioni con
cui Lévi-Strauss ha voluto caratterizzare lo strutturalismo guida un
po' tutto l'orientamento della sua antropologia e ne determina i
compiti.
Così, per l'antropologia di Lévi-Strauss non si tratta di
svelare chi è l'uomo, bensì di ricostruire "il sistema delle
differenze" con cui coincide l'umanità (v. Lévi-Strauss, 1962; tr. it.,
p. 271). L'uomo non si identifica infatti con una sostanza unitaria
(uno strato roccioso permanente): l'uomo o meglio gli uomini sono le
loro 'differenze'. Tuttavia queste differenze - contrariamente a quanto
sostengono le varie forme di relativismo - sono collegabili tra loro, e
l'antropologia non si configura quindi come un sapere che si limiti a
osservare differenze e peculiarità, lasciandole nei loro contesti
locali: si configura invece come un'esplorazione che attraversa le
differenze facendole confluire in un sistema generale. Lo
strutturalismo di Lévi-Strauss aiuta così l'antropologia a raggiungere
il piano dell'universalità; ma l'universalità di cui si tratta è
costituita non da identità (elementi che si ripetono costanti nel tempo
e nello spazio), bensì da un insieme di differenze e di trasformazioni
che consentono di passare dalle une alle altre.
Il concetto di gruppo di trasformazioni è stato indubbiamente molto
produttivo, visto che è stato lo strumento con cui Lévi-Strauss ha
attraversato domini vasti e aggrovigliati del sapere etnologico,
soprattutto i sistemi di parentela e di matrimonio in un primo tempo e
le mitologie degli Indiani sud- e nordamericani in un secondo tempo (v.
Lévi-Strauss, 1949, 1964, 1967, 1968, 1971). Per fare ciò, anche
Lévi-Strauss ha provveduto a sottoporre a processi di notevole
formalizzazione i materiali d'analisi. Ma il privilegiamento della
forma, che pure è presente (come si è visto) in ogni strutturalismo, si
incrocia qui con il sapere etnologico: l'intelaiatura formale delle
strutture è obbligata ad attraversare e a spiegare differenze che sono
in primo luogo etnografiche. Non si tratta dunque soltanto di un mondo
di puri possibili: la logica non si sostituisce all'etnologia. Come
afferma Lévi-Strauss (v., 1983; tr. it., p. 127), "lo studio empirico
condiziona l'accesso alla struttura". L'analisi strutturale viene
rallentata, nello stesso tempo in cui viene sostanziata, dal sapere
etnologico.
Attraversando le culture, ponendo in rapporto di trasformazione sistemi
locali diversi, l'antropologo acquisisce un sapere che non concerne
soltanto una pluralità di culture o di sistemi particolari, bensì una
matrice mentale da cui si ritiene che essi vengano generati. Allorché
l'analisi strutturale raggiunge l'obiettivo della traducibilità dei
vari sistemi tra loro, un obiettivo più fondamentale e ambizioso appare
quindi all'orizzonte dell'antropologo, ovvero la determinazione di ciò
che Lévi-Strauss chiama di solito "spirito umano".
Questo esito è del
tutto evidente nei lavori sui miti amerindiani, dove si legge, per
esempio, che i "miti significano lo spirito" e dove l'autore dichiara
di voler redigere "a partire dall'esperienza etnografica [...] un
inventario dei recinti mentali", "i lineamenti di una struttura
anatomica generale" dello spirito umano (v. Lévi-Strauss, 1964; tr.
it., pp. 446 e 25-26). Ma allora perché affidarsi all'etnografia, che
inevitabilmente attarda, con l'infinita variazione dei costumi, questo
"cammino verso l'astrazione" (v. Lévi-Strauss, 1967; tr. it., p. 516),
verso le condizioni universali del pensiero umano? Perché non affidarsi
piuttosto alla logica o alla filosofia? Il filosofo - risponde
Lévi-Strauss - cerca di pervenire alla delineazione di un intelletto
universale assumendo "come principio di riflessione le condizioni
d'esercizio del suo proprio pensiero, o di una scienza che è quella
della sua società e del suo tempo", accontentandosi "nel migliore dei
casi [...] di una rassegna sommaria, limitata a una piccola parte del
globo e a qualche secolo della storia delle idee" (v. Lévi-Strauss,
1964, tr. it., p. 26, e 1983, tr. it., p. 126). Al contrario,
l'antropologo intende allargare la base delle sue osservazioni e
"all'ipotesi di un intelletto universale [...] preferisce
l'osservazione empirica di intelletti collettivi", giacché i sistemi
posti in luce dall'etnografia "rappresentano tutta la gamma delle
variazioni possibili in seno a un genere", e tra essi "egli sceglie
quelli la cui divergenza gli sembra più accentuata" (v. Lévi-Strauss,
1964; tr. it., p. 26).
Ancora una volta, il principio non è l'identità, ma il fascio delle
variazioni possibili, la matrice delle trasformazioni e delle
opposizioni. Con il suo strutturalismo Lévi-Strauss (v., 1971; tr. it.,
p. 591) intende davvero pervenire alla delineazione della "natura
umana, nozione - egli afferma - che noi persistiamo nell'usare". Ma la
natura umana non consiste in un insieme di "strutture già pronte e
immutabili", bensì in un insieme di "matrici da cui si generano certe
strutture" che, pur appartenendo tutte a un medesimo insieme, non per
questo "debbono rimanere identiche [...] in ogni tempo e in ogni
luogo". Il concetto di trasformazione prevale dunque - anche a livello
di natura umana - sul principio dell'identità e dell'unicità. Alla base
non vi è una forma delle forme (l'Urphänomenon di Goethe), ma la
trasformazione, non l'identità, ma la produzione di differenze. E alla
base di ogni sistema particolare risulta esservi - per Lévi-Strauss,
come per Jakobson, come un po' per tutti gli strutturalisti - una
selezione, una scelta, la quale rende sempre particolare un
qualsivoglia sistema. Per questo motivo, nessun sistema può essere di
per sé universale e nessun sistema può pretendere in quanto tale
all'universalità.
6. I confini dello strutturalismo
Nel presentare lo strutturalismo nell'articolo del 1933, Trubeckoj ne
sottolineava l'aspirazione all'universalità. Rifiutando di pensare che
un qualsivoglia sistema possa essere di per sé universale, lo
strutturalismo ritiene di poter cogliere l'universale
nell'attraversamento di sistemi particolari. Come avrebbe detto Goethe,
secondo una citazione di Ernst Cassirer: "È l'infinito [l'universale]
la tua aspirazione? Attraversa tutte le configurazioni del finito"
(cit. in Hamburg, 1964, p. 218). Anche sul piano metodologico - e
proprio in vista di questo attraversamento - lo strutturalismo opera
però una forte selezione: non tutto si può collegare mediante i gruppi
di trasformazione. Molti fenomeni oppongono resistenza a un trattamento
strutturalistico, e i fenomeni che vengono sottoposti all'analisi
strutturale subiscono una specie di depurazione, di distillazione
logica, così da perdere l'opacità determinata dalla cultura particolare
in cui sono inseriti. Lo strutturalismo è per lo più consapevole di
questa doppia selezione, ma ritiene che lo scarto di fenomeni
refrattari a un trattamento strutturalistico e la perdita di aspetti
eccessivamente culturali (locali) siano ampiamente compensati
dall'acquisizione di leggi o di connessioni universali: i fili
d'argento dei nessi logici sono infatti le vie d'accesso alla natura
umana.
Quando però si pone la domanda se le vie di attraversamento si
chiudono in un cerchio, se i fili d'argento vedono saldarsi le loro
estremità (una sorta di attraversamento definitivo e compiuto), è
possibile notare un ripiegamento da parte dello strutturalismo, un
ridimensionamento delle sue ambizioni universalistiche. I "recinti
mentali", i "vincoli dello spirito" - di cui Lévi-Strauss è andato alla
ricerca nel suo lungo viaggio tra i miti amerindiani - non sono
concepiti come acquisizioni "per tutti i tempi avvenire": "e non li
scambiamo per chiavi che, alla maniera degli psicanalisti, permettano
ormai di aprire tutte le serrature" (v. Lévi-Strauss, 1983; tr. it., p.
126). Lo strutturalismo appare qui assai meno veemente, assai più
disponibile a scendere a patti con l'empirismo. Il raggiungimento dei
"vincoli dello spirito" avviene qui per via induttiva (nonostante la
critica rivolta all'induttivismo empiristico di Radcliffe-Brown).
Non
la psicanalisi, bensì la linguistica si configura ancora come la guida
dello strutturalismo. Certo, tutte le lingue del mondo "hanno proprietà
comuni" e su questa base i linguisti sperano di "riuscire a toccare gli
universali del linguaggio" (ibid., p. 127). Ma, anche ammettendo che
gli universali linguistici diano luogo a un "sistema logico", sarà
forse questa una lingua delle lingue, un sistema dei sistemi? La
risposta è sempre negativa: tale sistema "sarà più povero di qualsiasi
grammatica particolare, e mai la potrà sostituire".
Di fronte alla tentazione di saltare su un piano più elevato, di ordine
metafisico, lo strutturalismo maturo recupera la convinzione che
l'universalità non costituisce un sistema a sé, di ordine superiore
rispetto ai sistemi effettivamente funzionanti e particolari. Non solo,
ma gli stessi universali, situati tra i sistemi particolari, si
configurano "sempre come strutture aperte": non essendo mai definitive
e concluse, "lasceranno sempre lo spazio per nuove definizioni", le
quali reagiranno sulle strutture (ossia sui gruppi di trasformazioni)
precedentemente acquisite con modifiche, integrazioni, sviluppi
(ibid.). Uno strutturalismo siffatto, che procede a tratti, non
rinuncia ad attraversare i fenomeni culturali con i suoi fili logici.
Ma poiché lo studio delle lingue e quello delle culture sono "compiti
letteralmente interminabili", è ormai disposto ad ammettere tanto la
parzialità dei suoi attraversamenti, quanto la provvisorietà e la
modificabilità delle sue strutture.
Si tratta di uno strutturalismo
incline ormai ad ammettere i propri limiti, a indicare i confini entro
cui può legittimamente avanzare le proprie pretese di attraversamento,
e quindi a riconoscere, nello stesso tempo, i tipi di fenomeni o
aspetti che tendono a sfuggire alla sua presa, e che coincidono in
buona misura con gli scarti che le nette selezioni dei suoi
procedimenti hanno prodotto. In primo luogo, possiamo segnalare la
considerazione del momento della 'scelta', che ogni prospettiva
strutturalistica riconosce e che tuttavia, programmaticamente, non
indaga, non disponendo degli strumenti adeguati.
Quando ci si avvicina
al momento della scelta per farne oggetto d'indagine, si può dire che
si apre una via di fuga dallo strutturalismo. È visibile questo passo
in Murdock. Onde evitare il "rischio della reificazione" della
struttura, Murdock, dopo l'importante esperienza di Social structure
(1949), fa propria e generalizza la tesi dell'antropologo inglese
Edmund Leach, secondo cui ogni struttura deve essere intesa non già in
termini di "principî strutturali", bensì come "il risultato statistico
di molteplici scelte individuali" (v. Murdock, 1965, pp. 43 e 189). Un
secondo punto critico è il principio della supposta "coerenza" che in
genere viene considerata come la prima condizione strutturale di un
sistema: ancora negli anni ottanta Lévi-Strauss (v., 1983; tr. it., p.
139) ribadisce il "bisogno di coerenza" che sorregge ogni sistema. Ma
fin dal lontano 1917 Robert Lowie aveva avvertito, a proposito dei
sistemi di terminologia di parentela, che "non sempre la logica
trionfa" e che "ogni sistema particolare non è un tutto logico
unificato" (v. Lowie, 1917; tr. it., pp. 167 e 169). Sempre negli Stati
Uniti - e quindi nella stessa terra di confini dove (secondo l'ipotesi
avanzata all'inizio) sono affiorate esperienze intellettuali che, pur
non essendo dichiaratamente strutturalistiche, manifestano una certa
affinità o aria di famiglia - Edward Sapir affermava qualche anno dopo:
"Per sfortuna (o fortuna nostra), nessuna lingua è coerente in modo
tirannico e spietato. Tutte le grammatiche hanno delle falle" (v.
Sapir, 1921; tr. it., p. 38).
Infine, se è vero che l'anima
razionalistica dello strutturalismo viene fuori dalla pretesa di
attraversare i fenomeni culturali, fatti di costumi sempre un po'
opachi, con strumenti che non sono fatti della stessa materia culturale
dei costumi (la ragione, la logica contro i costumi), il processo di
critica della ragione ha sovente posto in luce il suo stesso contenuto
culturale. La domanda è dunque se gli strumenti di attraversamento
culturale, che per lo strutturalismo sono preterculturali (i fili
d'argento dei gruppi di trasformazioni), non siano anch'essi della
stessa materia, meno nobile e durevole, che sostanzia le culture e che
rende le operazioni di attraversamento assai più lente e faticose (v.
Remotti, 1990, p. 215).
Questi tre punti critici - il problema della
scelta alla base di ogni struttura, il grado di incoerenza di ogni
sistema particolare, il carattere culturale degli strumenti di
attraversamento - incrinano e forse sgretolano il programma scientifico
dello strutturalismo, a tal punto che oggi lo strutturalismo in quanto
tale appare un programma consegnato ormai in gran parte alla storia
scientifica del Novecento. E tuttavia, l'esigenza - fatta valere con
forza dallo strutturalismo - di varcare e attraversare i confini di
lingue, culture, istituzioni, sistemi, al fine di connetterli tra loro
a prescindere dai rapporti storici, rimane un tema su cui un buon
numero di scienze umane, che pure hanno preso le distanze dallo
strutturalismo, sono tuttora costrette a riflettere.
In egual modo,
l'idea di fondo che sorregge un po' tutto l'impianto dello
strutturalismo, ovvero che la spiegazione di un qualsiasi sistema debba
essere ricercata al di là del sistema stesso, evitando quindi di
chiudersi nella sua autocentralità e autoreferenzialità, svela ancora
oggi la sua fecondità non appena si pensi all'importanza della
comunicazione interculturale sia sotto il profilo epistemologico, sia
sotto il profilo sociale. Non si tratta - come è evidente - di perorare
moralisticamente la causa del dialogo tra le culture, ma di riconoscere
in modo radicale e decisivo che la spiegazione sul piano epistemologico
e forse anche la soluzione di certi problemi di altro ordine risiedono
non già all'interno di qualsivoglia sistema, ma nei nessi che lo
collegano ad altri sistemi, del cui insieme esso è soltanto una
variante particolare.