Struttura sociale



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Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

di Massimo Paci

SOMMARIO

1. Introduzione. 2. Montesquieu e Tocqueville. 3. Marx. 4. Weber. 5. Spencer e Durkheim. 6. Gramsci. 7. Radcliffe-Brown e Parsons. 8. La survey research. 9. Strutturalismo e neomarxismo. 10. L'analisi strutturale italiana. 11. La network analysis. 12. Thompson, Bourdieu e Boudon. 13. Conclusioni. □ Bibliografia.

INTRODUZIONE

Come osservava Peter Blau (v., 1977, p. 10) oltre venti anni fa, "per molti sociologi il concetto di struttura sociale è ricco di connotazioni e implicazioni che non sono facilmente riassumibili in una singola definizione. Questa è senza dubbio la ragione per cui molti scelgono di astenersi dal fornire una definizione del concetto". Le cose da allora non sono molto migliorate. Nonostante l'importanza del termine, dimostrata dalla diffusione del suo uso, permane una riluttanza a specificarne il contenuto. Le difficoltà di una definizione dipendono da diversi aspetti. Anzitutto, bisogna tener conto della vastità dei fenomeni sociali coperta dal concetto, che spazia dal livello micro a quello macro della sociologia, dall'analisi delle relazioni interpersonali elementari a quella degli Stati-nazione. Inoltre, diverso è il grado di capacità euristica attribuitogli: esso viene utilizzato, infatti, sia a fini descrittivi o classificatori, sia - in modo più strettamente connesso con una teoria - a fini esplicativi di date regolarità o relazioni sociali. Infine, altre difficoltà provengono dalla natura problematica e teoricamente irrisolta del rapporto tra struttura e azione sociale, che influisce grandemente sulla definizione stessa di struttura sociale. Nonostante queste difficoltà, possiamo adottare - in via preliminare - la definizione formulata in uno degli ultimi lavori usciti sull'argomento (v. Crothers, 1996, p. 4), secondo cui "la struttura sociale si riferisce alle relazioni (e specialmente a quelle più stabili e durature) tra gli individui, tra i gruppi sociali o tra le istituzioni [...]. Si tratta di un concetto talvolta solo descrittivo, talvolta esplicativo, volto a mostrare come il comportamento sociale (gli atteggiamenti o gli attributi degli individui e dei gruppi in cui essi sono coinvolti) abbia una data forma e perché si hanno determinate regolarità [...]. Il punto cruciale è l'affermazione che il comportamento dell'individuo è conforme alla sua collocazione nella struttura sociale [...] ma sapendo che, a sua volta, l'azione umana ha un 'effetto di ritorno' sulla struttura". Questa definizione, pur essendo abbastanza esauriente, non mette adeguatamente in luce, tuttavia, un aspetto fondamentale sul quale avremo modo di tornare ripetutamente nella nostra analisi. Si tratta dell'esistenza di due prospettive di fondo dalle quali è possibile guardare alla struttura sociale: da un lato, infatti, è possibile considerare la struttura da un punto di vista sistemico, come un insieme oggettivo di relazioni tra determinate posizioni sociali (ruoli, istituzioni, classi, settori o parti della società), a prescindere dall'identità dei soggetti che di fatto occupano tali posizioni e in esse si avvicendano. Dall'altro, si può guardare, da un punto di vista storico-sociale, direttamente ai soggetti (individui, gruppi, classi o comunità), che occupano determinate posizioni o settori della realtà sociale, e alle relazioni tra loro, come relazioni intenzionali e consapevoli, esistenti entro uno spazio storico e sociale specifico. Non sempre, nelle analisi dei diversi autori che si sono occupati della struttura sociale, queste due prospettive sono esplicitamente presenti. Talvolta l'analisi si svolge solo sul piano sistemico, presupponendo che l'azione dei soggetti storico-sociali costituisca una conseguenza necessaria di determinate condizioni di struttura. (Così è, per esempio, per il Marx del Capitale o per lo strutturalismo marxista francese del dopoguerra). Talvolta avviene il contrario e si privilegia il piano dei fenomeni culturali e storico-sociali, trascurando i vincoli eventualmente esistenti a livello sistemico-strutturale. (È così che procede, ad esempio, E.P. Thompson). Più spesso, tuttavia, entrambi i piani sono presenti e l'autore si pone esplicitamente il problema del passaggio dall'uno all'altro, come, ad esempio, in Durkheim - con il ruolo attribuito alla densità sociale - o in Parsons - con quello attribuito ai processi di socializzazione - o ancora come in Weber - quando sottolinea l'importanza degli "effetti non intenzionali" dell'azione sociale (v. oltre, i capp. dedicati agli autori menzionati).

Come si vede, dunque, il concetto di struttura sociale si situa al centro della riflessione sociologica e non può essere pienamente chiarito senza ripercorrere, sia pur brevemente, le principali teorie che si sono succedute in proposito nello sviluppo della sociologia classica e contemporanea.

MONTESQUIEU E TOCQUEVILLE

È probabilmente con Montesquieu che debutta in modo esplicito l'analisi sociologica della struttura sociale a livello macro. Montesquieu, come sappiamo, ha costruito una tipologia delle forme di governo (dispotismo, monarchia, repubblica aristocratica e repubblica democratica), che non è molto diversa da quella di Aristotele. Quest'ultima, però, come ha osservato Raymond Aron (v., 1967; tr. it., p. 59), "era solo apparentemente dotata di valore generale, perché presupponeva, come base sociale, la città greca". La filosofia politica classica, continua Aron, "aveva scarsamente indagato sui rapporti tra i diversi tipi di 'sovrastrutture politiche' e le loro basi sociali; essa non aveva chiaramente posto il problema della misura in cui si può studiare una classificazione dei sistemi politici se si astrae dall'organizzazione sociale". Il contributo decisivo di Montesquieu, da questo punto di vista, consiste proprio nell'aver tenuto conto, nella costruzione della sua tipologia, non soltanto della struttura istituzionale interna dei regimi politici ma anche della loro connessione con quello che egli chiama sinteticamente "lo spirito generale di una nazione", inteso come l'insieme dei costumi, delle credenze e dei sentimenti che deve animare gli uomini che vivono in un dato tipo di governo perché questo funzioni in modo armonico. Possiamo dire dunque che Montesquieu è il primo a stabilire una relazione strutturale tra i regimi politici e le forme di cultura e di organizzazione della società.

Questo stesso approccio teorico si ritrova poi in Tocqueville, il quale espressamente dichiara di avere avuto Montesquieu come modello allorché scrisse La democrazia in America. Esistono certamente delle differenze sostanziali tra la repubblica vista da Montesquieu e la democrazia vista da Tocqueville, ma in entrambi i casi la stabilità dello Stato è fondata sull'influenza predominante esercitata dai costumi e dalle credenze degli individui. Di particolare rilievo per Tocqueville è la forma accentrata o decentrata di organizzazione della società civile e dello Stato: nel caso americano, ad esempio, il decentramento politico, la forte diffusione dell'associazionismo e il pluralismo delle identità sociali e locali costituiscono il principale antidoto alla "tirannide della maggioranza" che potrebbe derivare, secondo Tocqueville, dalle tendenze egualitarie connesse all'affermazione stessa della democrazia. Nel caso francese, invece, la fine dell'antico regime era dipesa proprio, più che dall'aumento di potere dei vari stati sociali, dalla massima centralizzazione della monarchia stessa, che aveva tolto ogni finalità e ogni significato alle comunità sociali e locali, facilitando l'esito rivoluzionario. In sostanza, ritroviamo in Tocqueville, come in Montesquieu, un approccio di 'sociologia comparata', fondato su un'analisi condotta, certo, su pochi casi nazionali, ma capace di individuare i nessi strutturali esistenti tra la dimensione socio-culturale e quella politico-istituzionale della società. Questi due autori, d'altra parte, sono interessati a costruire una tipologia o una classificazione e non un modello di relazioni causali tra le diverse parti della società. Essi si guardano bene dall'affermare che i diversi livelli o elementi della società si implicano l'un l'altro necessariamente. Le relazioni di interdipendenza che essi stabiliscono tra tali elementi, nei sistemi nazionali studiati, non sono mai assimilabili a delle connessioni 'forti' di tipo causale (se A, allora B), ma a delle connessioni 'deboli' di tipo probabilistico (se A, allora il più sovente B).

L'attenzione alle specificità culturali e politiche di singoli casi nazionali, infine, ha sospinto in particolare Tocqueville su terreni avanzati anche per quanto riguarda il ruolo svolto dagli attori sociali nel contesto storico esaminato. A questo proposito c'è chi ha visto in Tocqueville un antesignano dell'individualismo metodologico, almeno nella sua versione weberiana. In definitiva, Montesquieu e Tocqueville ci interessano in questo contesto non soltanto perché in essi ritroviamo un primo esempio di analisi della struttura sociale a livello macro (come sistema di relazioni tra le parti della società), ma anche perché a questo si accompagna un approccio teorico privo di intonazioni deterministiche. Inoltre, almeno in Tocqueville, troviamo implicitamente il tentativo di stabilire un raccordo tra il piano sistemico delle strutture sociali e quello storico delle logiche dell'azione.

MARX

Rispetto a Montesquieu e a Tocqueville (e a gran parte della filosofia politica classica), Marx ci interessa qui non solo perché introduce espressamente il concetto di struttura (e sovrastruttura) della società, ma anche perché amplia il campo di osservazione, sottolineando l'importanza della 'sfera della produzione', cioè della sfera economica e tecnologica, accanto a quelle politico-giuridica e socio-culturale, affermando l'esistenza di nessi di determinazione causale tra di esse. La struttura della società è per Marx anzitutto una realtà economica, avendo a che fare con le basi materiali dell'esistenza e con i rapporti di produzione. A questo proposito, tuttavia, non si deve dimenticare che, per Marx, l'economia non è separabile analiticamente dalla società, essendo sempre considerata un fatto 'storico' e in quanto tale comprensibile solo all'interno di determinati rapporti sociali. Proprio per questo, molti dei concetti di Marx conservano un margine di ambiguità e non si prestano a una formalizzazione analitica rigorosa. Nei 'rapporti di produzione', ad esempio, che pur appartengono alla 'struttura', un ruolo importante gioca, come sappiamo, la proprietà dei mezzi di produzione: questa, però, come nota Raymond Aron (v., 1967; tr. it., pp. 182-183), come tutti i rapporti giuridici, appartiene alla sfera della 'sovrastruttura' e mal si comprende, da un punto di vista strettamente analitico, come possa costituire un elemento determinante della struttura. E lo stesso può dirsi per quanto riguarda il ruolo delle conoscenze scientifiche, che sono per Marx un elemento importante delle forze produttive, ma che in realtà "sembrano appartenere al campo delle idee o del sapere e dovrebbero rientrare, quindi, anche esse, nella sovrastruttura" (ibid.). Pur con questi margini di ambiguità analitica, il concetto di struttura di Marx resta nondimeno un poderoso strumento euristico, che ha ispirato, direttamente o indirettamente, una vasta serie di studi e di ricerche in campo sociologico. La sua forza teorica discende dall'essere posto come elemento causale o 'determinante' della sovrastruttura culturale, politica e istituzionale della società. Come afferma Marx (v., 1859; tr. it., p. 5) in uno dei suoi passi più celebri: "Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale su cui si eleva una sovrastruttura politica e giuridica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita".

Da questo concetto di struttura, dai connotati essenzialmente economici, occorre distinguere il concetto più ampio di struttura sociale, come relazione che collega i rapporti di produzione alla cosiddetta 'sovrastruttura' (l'insieme della coscienza sociale e della cultura giuridica, politica, filosofica a essi congruente). Questo secondo tipo di struttura sociale è detto "formazione economico-sociale". D'ordinario, nelle formazioni economico-sociali storicamente osservabili, si dà congruenza tra i rapporti di produzione e la sovrastruttura. Per lunghi tratti della loro storia, le società appaiono godere di una condizione di equilibrio tra gli elementi economico-materiali di base e quelli politici, culturali e istituzionali. Questo equilibrio è garantito dall'esistenza di classi dominanti, saldamente al controllo delle forze produttive e in grado di imporre la propria visione del mondo, le proprie idee, come idee generali o universalmente valide. Se la base economica determina, in generale, le forme della coscienza sociale e le istituzioni politiche e culturali, queste ultime, a loro volta, garantiscono la riproduzione della società e del suo assetto di classe. Con il concetto di formazione economico-sociale, dunque, Marx ci offre anzitutto un modello strutturale di equilibrio della società, in cui, a partire dal ruolo determinante della base economica, tutte le parti della società 'si tengono l'un l'altra' in una relazione di congruenza reciproca. Ma, accanto a questo modello statico (o di equilibrio) della società, è possibile individuarne in Marx un altro che possiamo chiamare dinamico (v. Collins, 1988; tr. it., p. 107) nel quale la struttura sociale cambia attraverso suoi propri processi interni o 'contraddizioni'. Il passaggio dal modello statico a quello dinamico avviene quando, nella formazione economico-sociale storicamente data, irrompono nuove forze produttive. Come scrive Marx (v., 1859; tr. it., p. 5): "A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze si erano finora mosse. Da forme di sviluppo delle forze produttive, questi rapporti si convertono in loro catene. Si apre allora un'epoca di rivoluzione sociale. Con il mutamento della base economica, si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura".

Sia nel modello statico che in quello dinamico di società, le relazioni tra le parti del sistema (che sono di equilibrio, nel primo caso, e di contraddizione e cambiamento, nel secondo) sono presentate da Marx come 'necessarie', cioè come relazioni di determinazione causale (sono i rapporti di produzione che, nel modello statico, spiegano la sovrastruttura; sono le nuove forze produttive che, nel modello dinamico, spiegano il cambiamento). Questo elemento di determinazione causale che caratterizza la teoria di Marx è stato al centro, come sappiamo, di innumerevoli critiche, secondo le quali Marx avrebbe reso gli uomini solo apparentemente liberi, inserendoli entro un corso della storia segnato, sempre e comunque, dai fattori legati alla produzione. Secondo queste critiche, il piano sistemico-strutturale dell'analisi avrebbe il predominio, in Marx, rispetto a quello storico-sociale. A questo proposito, tuttavia, occorre distinguere tra il Marx del Capitale e quello delle opere storico-politiche dedicate all'analisi della lotta di classe in Francia o in Germania. È quanto fanno, in effetti, quegli autori che tendono a sfumare il lato deterministico del pensiero di Marx, sottolineandone piuttosto l'approccio fondamentalmente storico (v. ad esempio Abrams, 1982; tr. it., p. 19). Da questo punto di vista, sembra possibile considerare, almeno in parte, il pensiero di Marx non così agli antipodi, come di solito viene fatto, rispetto alla teoria dell'azione e, in particolare, al pensiero di Weber, con il quale esso condivideva la comune matrice storicistica tedesca. Ad esempio, si può sostenere che il metodo marxiano della "astrazione determinata", secondo cui occorre risalire alla formulazione di concetti astratti a partire da un'esigenza di comprensione di determinati contenuti, presi nella loro singolarità storica, non è poi tanto dissimile da quello weberiano della "tipizzazione ideale" (v. anche Boudon, 1992; tr. it., p. 32).

D'altra parte, se è vero che per Marx il cambiamento della struttura sociale (cioè il passaggio da un modo di produzione a un altro) è possibile solo quando si verifica un determinato sviluppo delle forze produttive, è anche vero che tale possibilità è affidata storicamente da questo autore all'azione consapevole degli uomini e, in particolare, a una classe emergente che assume il controllo delle nuove forze produttive, entrando in conflitto con le vecchie classi dominanti. Da questo punto di vista possiamo concludere dicendo che la teoria della struttura sociale di Marx "presuppone di fatto un parallelismo" tra il piano sistemico-strutturale delle relazioni oggettive tra le diverse parti della società e quello storico-sociale delle relazioni soggettive tra le classi sociali (v. Smelser, 1988, p. 114).

WEBER

Al contrario di Marx, Weber non ha un modello strutturale 'chiuso' di società, anche se si propone il compito di analizzare le relazioni di interdipendenza che esistono, a livello macro, tra le diverse parti o livelli della realtà sociale. Per Weber, il mondo non sta insieme alla maniera di una grande unità sociale. Egli, come sappiamo, ha una visione della società come realtà complessa e multidimensionale, ricca di sfaccettature e osservabile da più punti di vista. Ed è per questo che Weber sviluppa lo strumento del "tipo ideale", che permette di semplificare la complessità sociale, tramite l'accentuazione di un aspetto specifico di essa. Troviamo così in Weber dei modelli ideali di burocrazia, classe, mercati, ecc., ciascuno dei quali permette di cogliere un lato della realtà storica, ma riesce difficile individuare nel suo pensiero un concetto di struttura sociale complessiva analogo a quello di Marx. In Weber, tuttavia, troviamo analisi storico-comparate molto ampie, volte a mettere in luce i reciproci condizionamenti che intercorrono tra economia, religione e società. Da questo punto di vista, possiamo dire che Weber studia la struttura delle relazioni di interdipendenza tra macrofenomeni, attribuendo spesso maggiore importanza ai fenomeni religiosi o istituzionali che non a quelli strettamente economici (è l'economia, infatti, e, in particolare, lo sviluppo capitalistico, che egli vuole spiegare). L'approccio di Weber al concetto di struttura, pertanto, è più vicino a quello di Tocqueville che a quello di Marx. Un approccio che non prevede relazioni 'strette' di causa-effetto, ma è aperto alla comprensione di combinazioni storiche specifiche tra i fenomeni osservati.

Questo non vuol dire che Weber non analizzi singole importanti strutture sociali. Così, ad esempio, egli descrive la burocrazia come una macchina organizzata gerarchicamente in ruoli e uffici, ricoperti da funzionari reclutati in base alle loro credenziali educative e professionali, e in grado di affrontare in modo efficiente compiti collettivi, entro un quadro formale e sistematico di norme e regolamenti. Oppure analizza l'impresa capitalistica moderna come un'istituzione che racchiude in sé, in maniera sistematica, diversi elementi: la separazione dell'attività domestica dall'azienda, la finalizzazione dell'attività al profitto, il calcolo razionale dei fattori produttivi (e l'uso dei libri contabili), senza dimenticare la disponibilità di lavoro formalmente libero. Oppure, infine (ed è questo forse l'esempio che più si avvicina a un'analisi della struttura complessiva della società), egli ci propone una concettualizzazione della stratificazione sociale (o della struttura delle disuguaglianze sociali) articolata - com'è noto - su più livelli e dimensioni: la 'classe economica', fondata sulle differenze che si originano sui mercati del lavoro, del credito e delle merci; il 'ceto sociale', come comunità culturale, etnica, di stile di vita e senso di appartenenza; e, infine, il 'partito', come fazione organizzata o gruppo di potere, che può emergere sia a livello nazionale, sia all'interno di ogni organizzazione.

Quest'ultimo esempio, relativo alla struttura delle disuguaglianze sociali, si presta a qualche approfondimento, in particolare rispetto alla concezione della struttura di classe che emerge dall'analisi del Capitale di Marx. Mentre quest'ultima ha un carattere di sistema 'chiuso' (le due classi fondamentali - la borghesia e il proletariato - sono strutturalmente connesse tra loro nel rapporto di estrazione del plusvalore ed esauriscono, in sostanza, lo scenario delle classi 'che contano'), non possiamo dire lo stesso per la stratificazione sociale che ci propone Weber. Alla lotta tra capitalisti e operai Weber aggiunge la lotta dei proprietari dei capitali finanziari contro coloro che contraggono prestiti e quella dei venditori contro i compratori. Egli suddivide poi le classi in ceti che conquistano il controllo di settori particolari dei mercati economici. Sorge un mercato secondario degli attributi di ceto che tende ad allargarsi a macchia d'olio sovrapponendosi alle linee di divisione economiche primarie. Infine, vi sono i partiti o gruppi di potere, organizzati in una sfera diversa da quella delle classi ma pur sempre in relazione con esse. Di fronte a questa realtà complessa e a più dimensioni, in cui ogni dimensione conserva la sua autonomia, dobbiamo chiederci se ci troviamo ancora davanti a una 'struttura' delle disuguaglianze sociali o se, accogliendo fino in fondo il messaggio che Weber ci manda, non dobbiamo ammettere che la realtà sociale è assai più 'destrutturata' di quanto pensiamo, essendo rappresentabile, forse, assai più che come una 'struttura', come un magma di gruppi tra loro confliggenti.

È proprio in questo contesto sociale relativamente meno strutturato (rispetto a quello di Marx) che si comprende l'autonomia del soggetto weberiano. Weber, come sappiamo, distinguendosi in questo dalla maggior parte dei sociologi classici che hanno privilegiato il piano sistemico di analisi della struttura sociale, prende le mosse dall'agire sociale e afferma che la società è edificata a partire dalle interpretazioni degli individui. Da questo punto di vista, Weber è ritenuto da molti il fondatore dell'individualismo metodologico contemporaneo. Una notevole distanza intercorre tuttavia tra le analisi storico-comparate di Weber e quelle microsociologiche, condotte sul piano relazionale e interazionista, proprie dell'individualismo metodologico contemporaneo. In effetti, Weber tende a ricostruire, più che il senso dell'azione o dell'interazione strettamente individuale, quello dell'azione tipico-ideale di un gruppo o, più spesso, di una 'media' o categoria di soggetti agenti (su questo punto torneremo nel cap. 12, a proposito dell'individualismo metodologico 'debole' di Raymond Boudon).

D'altra parte, se è vero che, come abbiamo appena notato, la società risulta in Weber relativamente magmatica o meno strutturata di quanto non appaia in Marx, è anche vero che essa non può essere ridotta a un insieme di rapporti del tutto fluidi. Le strutture sociali hanno origine, certo, dall'interazione sociale (nel senso che, per Weber, esse esistono solo finché esistono determinati modi di agire reciproci, orientati in determinati sensi), ma Weber è ben consapevole del carattere vincolante del contesto strutturale. Il passaggio dalla sociologia dell'azione weberiana all'individualismo metodologico contemporaneo non è dunque così diretto e privo di mediazioni. Certo, Weber può essere considerato uno dei fondatori dell'individualismo metodologico per la sua teoria del Verstehen (come metodo volto a 'comprendere' le ragioni del comportamento degli attori). Ma le ragioni degli attori, per Weber, vanno comprese per assumerle come elemento cruciale di spiegazione di fenomeni e processi macrosociali. Weber innova certamente rispetto all'analisi strutturale di Marx proprio in quanto appronta una metodologia esplicita in grado di cogliere il ruolo autonomo degli attori sociali nello svolgimento dei processi storici (mentre Marx, come abbiamo visto, si era limitato a presupporre un parallelismo tra il piano sistemico-strutturale e quello dell'azione sociale). Entrambi questi autori, tuttavia, si muovono essenzialmente a livello dell'analisi storico-comparata delle macrostrutture - un livello, questo, che è raramente attinto dalla ricerca contemporanea sviluppatasi entro il paradigma dell'individualismo metodologico.

SPENCER E DURKHEIM

A una diversa concezione della struttura sociale ci introduce il pensiero di Spencer e Durkheim, i quali, a differenza di Weber (e, almeno in parte, di Marx), privilegiano la prospettiva sistemica di analisi della struttura sociale rispetto a quella storico-sociale. Spencer, come sappiamo, concepiva la società come un organismo o una "realtà superorganica", le cui parti, ben integrate, contribuiscono con la loro attività al funzionamento dell'insieme. Gli organi della società sono le istituzioni cerimoniali, politiche, militari, ecclesiastiche, professionali e industriali (queste ultime, ad esempio, costituiscono nel corpo sociale un sistema nutritivo analogo a quello che nel corpo vivente provvede all'alimentazione). La nozione di struttura sociale emerge qui chiaramente come interdipendenza organica tra le parti della società, ciascuna delle quali svolge la sua funzione all'interno di un'armonica divisione del lavoro. Questa analogia tra la società e l'organismo umano, tuttavia, non può essere spinta troppo oltre. Come osserva lo stesso Spencer, nell'organismo umano le parti sono fisicamente unite le une alle altre, sicché la struttura complessiva dell'organismo è immediatamente visibile, ma non è così per l'organismo sociale, che è 'discreto' e la cui struttura esiste solo, diremmo oggi, come modello astratto, ricostruito dall'osservatore a partire dalle funzioni svolte dalle singole parti o istituzioni della società.

La critica che si può fare alla nozione di struttura sociale di Spencer è che essa non discende da un'analisi storica della società, ma è dedotta da un principio filosofico originario. In effetti, fin dall'inizio del suo sistema, Spencer enuncia la generalizzazione secondo la quale ogni cosa si evolve da uno stato di particelle caotiche e uguali a una condizione di interdipendenza differenziata. Egli applica poi questo principio all'evoluzione sia degli organismi biologici che delle società umane. Questo approccio sostanzialmente astorico rende poi difficile a Spencer conciliare il carattere organico della società con la libertà d'azione dell'individuo (che pure egli difende, conformemente alle sue convinzioni politiche e sociali). La storia dell'uomo è completamente ridotta a evoluzione naturale e l'individuo appare sostanzialmente come un organo (o una cellula di un organo) senza alcun significato o valore autonomo. In Spencer, insomma, è la struttura che ha la priorità sull'individuo.

Spencer, insieme con Comte, fu uno degli ispiratori del pensiero di Durkheim. In effetti il modello di Durkheim, secondo cui le società evolvono da segmenti isolati a una complessa divisione del lavoro, è essenzialmente quello di Spencer. Tutta l'opera di Durkheim, tuttavia, è puntigliosamente metodologica e rivolta ad affermare le basi scientifiche della sociologia. I fatti che Spencer si limitava a raccogliere per illustrare il principio generale dell'evoluzione dagli organismi semplici a quelli complessi, diventano per Durkheim gli elementi di una comparazione sistematica tra le società (tramite il metodo delle 'variazioni concomitanti'), sulla base della quale soltanto è possibile stabilire i principî generali. Questa tensione metodologica non è presente solo nei suoi lavori più esplicitamente metodologici o di ricerca empirica (come Il suicidio), ma è sottesa a tutta la sua opera. È per questa tensione analitico-metodologica presente nel pensiero di Durkheim che il concetto di struttura sociale, anche se il termine specifico è usato solo di passaggio, è di importanza fondamentale nella sua sociologia. D'altra parte, l'idea che dietro la realtà sociale esista, per così dire, una 'struttura profonda' o nascosta, che lo scienziato sociale può decifrare, si rivelerà un'idea assai fertile e influenzerà, come vedremo, lo sviluppo di varie teorie sociologiche e antropologiche (da Radcliffe-Brown a Parsons, da Lévi-Strauss allo strutturalismo francese). La domanda principale alla quale Durkheim voleva rispondere era, come è noto, la seguente: cosa tiene insieme la società? La risposta che egli dà si svolge sostanzialmente a più livelli tra loro strettamente connessi: un livello demografico-sociale, uno sociale-relazionale e uno, infine, culturale, inteso come il livello dei sentimenti, delle regole morali e delle 'rappresentazioni collettive' (l'economia, come campo di fenomeni che gli economisti si ostinano a declinare in termini individualistici, è da Durkheim esclusa da un'analisi diretta). Il fattore chiave, tuttavia, è da cercarsi probabilmente nella struttura 'fisica' o socio-demografica della società. È questa che dà origine alle variazioni osservate nella divisione del lavoro e nei rapporti sociali tra gli individui. Laddove esiste un'alta densità demografica e sociale, gli individui sviluppano progressivamente ruoli sempre più specializzati e la struttura sociale si modifica in direzione di una complessa divisione del lavoro. Le variazioni nella densità sociale, d'altra parte, esercitano effetti profondi anche sulle idee e sui sentimenti morali degli individui. Un'alta densità sociale, infatti, dà origine a una intensificazione dei contatti, a maggiori possibilità di interazione (ciò che Durkheim chiama "densità morale"), e questo, a sua volta, genera idee e sentimenti comuni. Emergono così gradualmente, attraverso pratiche che nel tempo si ritualizzano, una cultura comune e una 'coscienza collettiva' (che non sono proprie esclusivamente di società semplici o primitive, ma caratterizzano, sia pure in forme attenuate, anche le moderne società complesse). La tesi generale di Durkheim, dunque, è che gli aspetti 'fisici' della struttura determinano non solo gli aspetti sociali (le forme della divisione del lavoro e della solidarietà sociale), ma anche gli aspetti intellettuali e morali.

Vuoi nel suo significato di morfologia 'fisica' della realtà sociale, vuoi in quello di intelaiatura astratta sottostante ai rapporti tra i fenomeni sociali, la nozione di struttura sociale di Durkheim appare sempre costrittiva dell'azione individuale. È vero che, in particolare negli scritti della maturità, egli sottolinea l'importanza di comportamenti collettivi almeno in parte 'creativi' rispetto alle strutture sociali date. Ma è anche vero che lo studio del suicidio ha provato agli occhi di Durkheim l'esistenza di strutture sociali profonde che sovrastano l'individuo. Nell'opera dedicata al metodo della sociologia, del resto, egli afferma, come sappiamo, che i fatti sociali vanno considerati "come cose", intendendo con ciò sottolineare che essi vincolano gli individui dall'esterno.

GRAMSCI

Può essere interessante, a questo punto, esaminare alcuni aspetti del pensiero di Gramsci. Questo autore ci interessa qui perché propone una diversa lettura dei rapporti che Marx aveva posto tra struttura e sovrastruttura (e una diversa concezione della struttura stessa). In effetti, quando Marx effettua la sua critica a Hegel, appoggia sulla struttura economica tutta la 'gigantesca sovrastruttura', che risulta comprensiva anche delle strutture sociali e culturali della società civile. Si origina qui una decisiva differenziazione analitica tra Marx e Gramsci. Se è vero che entrambi combattono Hegel, quale teorico della supremazia dello Stato sulla società civile, è anche vero che il 'rovesciamento' dei rapporti tra Stato e società che opera Marx comporta un passaggio spinto fino a dare il primato alla 'anatomia della società civile' e cioè alla sfera economica e materiale, mentre quello che opera Gramsci è un passaggio dallo Stato alla società civile nella sua interezza, comprensiva anche delle sue strutture sociali e culturali. Gramsci cioè non punta ad affermare, contro lo Stato etico hegeliano, un primato diretto ed esclusivo della struttura economica, ma una più complessiva autonomia della sfera sociale e culturale. Egli dà grande importanza alla Chiesa, ai sindacati, alla scuola, ecc. come strutture nelle quali si esercita l'egemonia di un gruppo sociale sull'intera società. E ciò vale soprattutto, osserva Gramsci (v., 1975, p. 866), per l'Europa occidentale, dove "tra Stato e società civile c'è un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorge subito una robusta struttura della società civile [...] mentre in Russia lo Stato è tutto e la società è primordiale e gelatinosa". È proprio qui che l'analisi di Gramsci diventa preziosa, non solo per un approfondimento dell'interpretazione marxiana, ma anche per l'interazione in cui essa entra, oggettivamente, con gli sviluppi del pensiero sociologico.

Gramsci, peraltro, affronta anche il problema dei rapporti tra soggetto e struttura o, come egli preferisce dire, tra libertà e necessità dell'azione storica. Esaltando gli elementi di 'soggettivismo' già presenti in Marx, Gramsci insiste molto sulla creatività e individualità del singolo. Queste qualità si realizzano pienamente nel processo sociale, nel quale l'uomo lotta per affermare i suoi valori e le sue idee. Nella società si assiste, in particolare, a una pluralità di 'conformismi' intesi - in senso quasi weberiano - come progetti collettivi, costruiti dagli uomini e nei quali essi si riconoscono (v. Gramsci, 1975, p. 1821). Questi conformismi sociali si basano su un'adesione riflessiva e consapevole dei singoli. In ogni momento, dice Gramsci, "c'è una scelta libera, che avviene secondo certe direttrici identiche per una gran massa di individui o volontà singole, in quanto queste sono diventate omogenee in un determinato clima etico-politico" (ibid., p. 1246).In definitiva, Gramsci ci propone un concetto di struttura della società che non era presente in Marx. Esso è elaborato assai più su un terreno sociologico o antropologico che su quello della economia politica sul quale poggia prevalentemente il modello marxiano. Inoltre Gramsci, pur restando convinto dell'importanza fondamentale della struttura economica, ebbe chiara e netta coscienza dell'autonomia dell'azione sociale e della molteplicità della processualità storica. (Su tutto ciò, v. anche Paci, Gramsci..., 1992).

RADCLIFFE-BROWN E PARSONS

Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, un filone di studi dichiaratamente 'strutturale' si sviluppò all'interno dell'antropologia culturale inglese. L'esponente principale di questo filone fu A.R. Radcliffe-Brown (v., 1952) che sviluppò il suo approccio in esplicita critica alla mancanza di precisione mostrata nell'uso del concetto di cultura da Malinowski. Radcliffe-Brown considerava cultura e struttura sociale come due piani nettamente differenti, benché interconnessi, della realtà sociale. Ogni pratica culturale doveva essere spiegata in termini di funzioni svolte all'interno del contesto sociale. La funzione di ogni attività ricorrente, egli afferma, "consiste nella parte che tale attività svolge nella vita sociale considerata come un tutto e pertanto nel contributo che essa dà al mantenimento della continuità strutturale" (ibid., p. 181). Da questo punto di vista, Radcliffe-Brown si rifà esplicitamente a Durkheim, al quale dedica, nel 1910, una serie di lezioni intitolate La struttura sociale. Egli attribuisce a Durkheim il merito di aver posto i fondamenti dell'analisi strutturale-funzionale, in base alla quale ogni pratica sociale può essere vista come un'attività che favorisce o ostacola l'integrazione della società. Radcliffe-Brown opera una esplicita distinzione tra il flusso delle vicende che si svolgono alla superficie della società (che egli chiama "organizzazione sociale") e le forme sottostanti relativamente inalterate nel tempo (che chiama "forme strutturali"). In sintesi, possiamo dire che in Radcliffe-Brown la struttura sociale è definita da tre aspetti: anzitutto, essa è concepita come 'forma' o schema astratto, distinto dalla fenomenologia sociale concretamente osservata; in secondo luogo, essa è data come interdipendenza di elementi componenti di un sistema sociale visto come un tutto; in terzo luogo, essa è indissolubilmente legata al concetto di funzione (cioè al modo in cui le singole parti componenti collaborano le une con le altre e con il sistema complessivo).

Anche in Parsons è possibile distinguere tre concetti di struttura sociale: il primo è riferito all'azione sociale, il secondo alle relazioni reciproche tra i soggetti agenti e il terzo alla società nel suo complesso e alle sue sottounità. Nel primo caso, Parsons usa esplicitamente il termine struttura, mentre preferisce piuttosto il termine sistema ("sistema di relazioni" e "sistema sociale") negli altri due casi. L'azione sociale, per questo autore, ha una struttura multidimensionale, nel senso che può essere scomposta analiticamente in elementi, individuali e sociali, tra loro in rapporto. Gli elementi soggettivi (o 'interni') dell'azione sono di tipo motivazionale (legati alla personalità) o comportamentali (connessi con lo 'sforzo' o l'impegno del soggetto nella situazione data). Quelli oggettivi (o 'esterni') sono sostanzialmente sociali (norme, valori, ruoli e sanzioni) o situazionali (i mezzi e le condizioni date). Questa concezione multidimensionale della struttura dell'azione sociale è importante per le possibilità che essa apre di superare analiticamente il dualismo tra struttura e azione e la contrapposizione tra il piano macro e quello micro dell'analisi sociologica (v. oltre in questo stesso capitolo).

In Parsons, come già detto, è possibile parlare di struttura anche in un altro senso, cioè con riferimento al sistema delle relazioni reciproche tra gli attori sociali. Tale sistema è concettualizzato infatti come un insieme di rapporti considerati non in relazione ai singoli individui concretamente coinvolti, ma in relazione a diverse e interrelate posizioni sociali (gli status) e alle attività tipiche dei soggetti agenti collegate a esse (i ruoli). Questa nozione di struttura (o sistema) di status e di ruoli, che sarà ripresa e approfondita in termini operativi da Robert Merton (v., 1949) con il concetto di "assetto di ruolo", ha costituito la base analitica essenziale della sociologia delle micro-strutture e della 'analisi di rete' americana (v. oltre, cap. 10).

Un terzo concetto di struttura sociale è riconoscibile nella elaborazione teorica di Parsons con riferimento al suo modello complessivo di sistema sociale. Come è noto, nel costruire tale modello Parsons non muove dalla osservazione di specifici casi storici di società nazionali, ma intende individuare i componenti essenziali di qualsiasi società esistente, esistita o che potrebbe esistere (come pure di qualsiasi sottosistema sociale interno alla società). Più precisamente, egli ha inteso rispondere alla seguente domanda: quali sono le funzioni fondamentali che devono essere svolte in qualsiasi società? Come sappiamo, per Parsons tali funzioni sono quattro: la conservazione del modello latente (una sorta di programma culturale e motivazionale); l'integrazione sociale (il controllo della devianza e delle perturbazioni eccessive); il conseguimento degli scopi (l'output da raggiungere in relazione all'ambiente circostante); e l'adattamento (il mantenimento del sistema in relazione agli inputs provenienti dall'ambiente). Si origina così uno schema a quattro settori o quadranti (uno per ciascuna funzione), ciascuno dei quali a sua volta può essere suddiviso in quattro, dando vita ai propri sottosettori o sottoquadranti. Questo schema di sistema sociale di Parsons costituisce una rappresentazione della struttura essenziale o 'profonda' della società: esso ci mostra l'esistenza di relazioni di interdipendenza tra le quattro funzioni fondamentali e l'effetto di integrazione sistemica complessiva che ne consegue.

Parsons precisa anche che il sistema sociale funziona in modo equilibrato perché vi è una gerarchia di controllo al suo interno che va dal livello più generale o elevato dei valori a quelli sotto-ordinati delle norme di comportamento, dei ruoli e delle sanzioni. L'efficacia di questo sistema di controllo sociale è garantita per Parsons, come sappiamo, dai processi di apprendimento e comunicazione e, in particolare, dalla socializzazione primaria del bambino nella famiglia. Parsons riprende qui le teorie di Freud relative al processo di identificazione con il genitore, nella forma del 'Super-Ego', e quindi di interiorizzazione dei valori fondamentali e delle norme di comportamento. L'importanza di questo passaggio della teoria parsonsiana per il nostro discorso risiede nel fatto che esso rappresenta un tentativo di superamento del dualismo tra struttura e soggetto, tra piano sistemico macro e piano sociale micro. Tramite i processi di socializzazione e apprendimento, in effetti, "i valori e le norme del sistema possono diventare anche i valori e le norme dell'attore, cioè i motivi in base a cui un agire soggettivamente significativo è realizzato in base a criteri condivisi con gli altri membri della collettività. L'internalizzazione del macro attraverso le diverse fasi della socializzazione [...] porta alla formazione di una personalità individuale, a un tempo sociale e individuata, personale. Il macro è così diventato micro e questo a sua volta diviene macro attraverso gli effetti che l'azione sociale ha nel mondo sociale" (v. Addario, 1994, p. 87).

Molte critiche sono state rivolte alla 'grande teoria' parsonsiana. Qui ci interessa ricordarne soltanto due, attinenti al concetto di struttura (o sistema) sociale, nelle accezioni che abbiamo menzionato. Anzitutto, la nozione di funzioni fondamentali (o di 'prerequisiti funzionali') è stata criticata in quanto avrebbe un carattere trascendente. Come è stato osservato (v. Kontopoulos, 1993, p. 157), queste funzioni, in quanto "condizioni di esistenza" della società, sarebbero "logicamente prioritarie rispetto alle strutture, esisterebbero da sempre, come create, ab illo tempore, con l'atto primordiale di costituzione della società e persisterebbero da allora con poche modificazioni di struttura. Ma questa è illegittima teleologia e molti studiosi sono giunti alla conclusione che questi prerequisiti funzionali sono viziati da un eccesso di zelo teorico, astorici e indimostrabili". In secondo luogo, per quanto riguarda il rapporto struttura/attore, molti dubbi persistono sull'efficacia della soluzione parsonsiana, che non sembra garantire un'effettiva autonomia dell'azione: anche senza accettare in toto la vecchia opinione - pur molto influente - di Dennis Wrong (v., 1961) circa la concezione 'ultrasocializzata' dell'individuo propria dell'impostazione parsonsiana, è vero che il sistema teorico di Parsons ha connotazioni così fortemente olistiche che riesce difficile immaginare un agire sociale "non modellato dal sistema" (v. Granovetter, 1985) o effettivamente autonomo.

LA SURVEY RESEARCH

A un approccio sostanzialmente diverso ci introduce lo studio di G.P. Murdock (v., 1949). L'interesse principale di questo autore è rivolto alla costruzione di una classificazione delle società primitive, sulla base di loro caratteristiche evidenti e immediatamente discernibili. Ricorrendo al vasto materiale documentario conservato presso lo Human Relations Area File di Yale, Murdock ha effettuato un'analisi comparativa di circa 250 società, analizzando documenti scritti e monografie antropologiche (di varia origine e qualità) secondo una procedura rigorosa e uniforme. Egli ha anzitutto compilato una lista dei possibili attributi elementari di ogni società: le regole di residenza (matrilocale, patrilocale); di filiazione (matrilineare, patrilineare); di trasmissione del patrimonio; le regole relative alla proibizione dell'incesto; la terminologia utilizzata per definire i diversi tipi di relazioni di parentela; ecc. In secondo luogo, Murdock ha analizzato quali di questi attributi erano presenti in ciascuna società, calcolando il coefficiente di associazione tra di essi. Egli ha visto, così, che la combinazione di questi attributi non è casuale: un certo tipo di regola di residenza, ad esempio, aveva più probabilità di essere associato a un certo tipo di regola di filiazione e a certe istituzioni matrimoniali che non ad altre.

La tipologia delle società primitive così costruita ha una base essenzialmente statistica e non teorica. A differenza degli antropologi funzionalisti (come ad esempio Radcliffe-Brown), Murdock non ha una teoria a priori delle interdipendenze sociali, ma considera - all'inizio - le parti o gli attributi della società come indipendenti fra loro. La somiglianza tra due società (e la loro classificazione entro lo stesso tipo) scaturisce ex post da un fatto statistico, cioè dal numero delle volte che esse condividono gli stessi attributi. Per la verità Murdock (ibid., cap. 8 e appendice) affronta tale problema nei termini di una teoria evoluzionista piuttosto rozza che gli è valsa molte critiche. Questo punto merita, tuttavia, qualche approfondimento. È vero, infatti, che il concetto di struttura sociale, così come l'abbiamo sin dall'inizio definito, presuppone una teoria delle relazioni di dipendenza o interdipendenza tra le componenti della struttura stessa. Tuttavia, la teoria non è necessariamente un prius rispetto all'accertamento empirico di determinate relazioni, ma può benissimo costituire un approfondimento ulteriore rispetto a tale accertamento. Per Weber, ad esempio, la costruzione di tipologie sulla base dell'osservazione storico-empirica è un passaggio essenziale per l'elaborazione di una teoria. D'altra parte, la preesistenza di una teoria rispetto al momento empirico (o la sua natura interamente deduttiva) può portare a spiegazioni astoriche e infondate della struttura sociale. Non è questa la critica che abbiamo appena rivolto alle teorie organiciste e funzionaliste della struttura sociale? Si può dire dunque che il concetto di struttura sociale di Murdock si situa a un livello di generalizzazione teorica 'debole'. Se, da un lato, esso evita le secche di una definizione a priori, irrigidita entro schemi teorici organicisti o funzionalisti, dall'altro appare uno strumento prevalentemente classificatorio e, perciò stesso, preliminare a una vera comprensione teorica delle strutture osservate.

Da questo punto di vista, l'approccio di Murdock è esemplificativo di un tipo più generale di 'sociologia quantitativa', fondata spesso su dati raccolti tramite indagini campionarie, che Raymond Boudon (v., 1992; tr. it., pp. 18-19) chiama "fisica sociale" e contrappone alla sociologia dell'azione. In effetti, nel corso degli anni cinquanta e sessanta, prima negli Stati Uniti e successivamente in Europa, in connessione con la diffusione e il perfezionamento delle tecniche della survey research, si sviluppa notevolmente lo studio empirico della struttura sociale, nei suoi diversi aspetti. Le indagini campionarie, sorte inizialmente a fini di marketing o di analisi dell'audience radiofonica e televisiva, utilizzavano, come variabili predittive degli atteggiamenti dei consumatori o degli ascoltatori, dati relativi al background sociale e familiare degli intervistati, che nel loro insieme fornivano una definizione operativa della struttura sociale. Si è accumulato così nel tempo un vasto insieme di informazioni, prevalentemente quantitative, sulla struttura sociale - così operativamente definita - e sulle sue connessioni con i più svariati atteggiamenti e comportamenti della popolazione. Inoltre, benché tali dati fossero finalizzati allo studio delle caratteristiche degli individui, essi permisero anche lo studio di gruppi sociali, organizzazioni, comunità e aree territoriali, con una descrizione articolata della struttura sociale mai raggiunta in precedenza. Espressioni come 'struttura socioprofessionale' o 'struttura di classe' della società, nelle quali il termine struttura è praticamente sinonimo di distribuzione, hanno acquistato in tal modo un significato operativo e quantitativo preciso.

Questo uso del concetto di struttura sociale, tuttavia, ha nascosto un generale vuoto teorico. Di solito queste analisi quantitative sono rimaste sul piano certamente utile ma puramente descrittivo della realtà sociale, riuscendo raramente a elaborare qualche teoria. (Questo è il caso, ad esempio, della teoria dei 'gruppi di riferimento', sviluppata da Merton sulla base dei dati di survey raccolti presso l'esercito americano durante la seconda guerra mondiale). Questi limiti della survey research nella concettualizzazione della struttura sociale derivano in particolare dalla scarsa capacità dei dati campionari, anche di quelli che hanno conosciuto le più sofisticate elaborazioni statistiche, di cogliere la dimensione storica o di medio-lungo periodo dei fenomeni studiati. Questo richiede, infatti, il ricorso combinato a più metodologie di indagine, in modo che i dati di survey vengano arricchiti, ad esempio, dall'analisi dei fatti e delle vicende storiche, dall'analisi documentaria, da quella biografica o di 'storie di vita', dagli stessi dati statistici seriali relativi all'universo studiato, ecc. Ma raramente i sociologi della survey hanno mostrato questa sensibilità, restando invece per lo più assorbiti entro il meccanismo metodologico, di per sé gratificante, dell'indagine campionaria e delle sue performances statistiche e quantitative.

Rientrano in questo genere sociologico, secondo Boudon (ibid., p. 19), anche "gli studi sulla stratificazione sociale che si pongono nella tradizione della 'fisica sociale', come quelli di Blau e Duncan (1967) negli Stati Uniti, di Goldthorpe e altri (1980) in Inghilterra, di Thélot (1982) in Francia, di Girod (1977) in Svizzera" e, potremmo aggiungere, quello di Cobalti e Schizzerotto (v., 1994) in Italia. Questi studi, continua Boudon (v., 1992; tr. it., p. 19), sono indubbiamente assai utili, in quanto "cercano di determinare in quale misura la posizione degli individui nella società è influenzata dalla loro origine sociale, dal loro livello scolastico e da altre variabili dello stesso tipo". Essi, tuttavia, si differenziano dagli studi di sociologia dell'azione, in quanto quest'ultima "considera lo studio statistico delle correlazioni, di cui la 'fisica sociale' è così ghiotta, come una semplice tappa dell'analisi oltre la quale si devono anche ricercare le ragioni dei comportamenti" (ibid., p. 20). Anche nei confronti di questa 'fisica sociale' o 'sociologia statistica', dunque, vale quanto abbiamo già osservato in precedenza e cioè che, partendo da un tipo di concettualizzazione astorica della struttura sociale, ci si imbatte nella difficoltà insuperata di raggiungere il piano del soggetto reale e della sua azione. La stratificazione sociale che emerge, ad esempio, dalla distribuzione di frequenza di determinati attributi individuali di un campione di popolazione (o da qualsivoglia più raffinata elaborazione matematica di tali attributi) ci consegna, nel caso migliore, una tipologia fondata sulla coerenza interna di determinati aggregati statistici (che possiamo convenzionalmente chiamare classi o strati sociali), ma non ci permette di cogliere la reale struttura della società, fatta di soggetti agenti sulla scena della storia. È il difficile passaggio weberiano dall'agire 'di massa' all'agire 'di comunità' (o anche, se si vuole, il passaggio più generale dal piano sistemico a quello storico-sociale dell'analisi) che non riusciamo, con questo approccio, a compiere. La vastissima messe di dati raccolta, ad esempio, dagli studi sulla mobilità sociale non ci permette di inferire con sicurezza l'entità reale (o storica) dei passaggi da una classe all'altra. E questo non solo perché la mobilità reale dipende da processi demografici di lungo periodo - relativi a fertilità, mortalità e immigrazione/emigrazione - che non possono essere tenuti sotto controllo con i dati di survey e che coinvolgono in misura differenziata le classi sociali (nonché le generazioni dei padri e dei figli tra cui si misura la mobilità sociale), ma anche perché la definizione stessa di mobilità sociale ascendente o discendente dipende dalla percezione degli individui e questa varia in relazione alle vicende storiche in cui essi sono coinvolti: uno stesso tasso statistico di mobilità tra due classi può essere percepito come un'ascesa o un declino sociale, a seconda del contesto storico in cui avviene (per esempio in relazione alla situazione di sviluppo o di recessione economica o di rafforzamento o indebolimento della rappresentanza sindacale o politica di determinate classi o ceti sociali). Tutto ciò non vuol dire, naturalmente, che questo tipo di studi sia inutile; tutt'altro: essi ci consegnano certamente 'una parte della verità'. Ma per attingere il piano della sociologia dell'azione e della comprensione storico-concreta della struttura sociale, è necessario integrare i dati di survey con altri apporti e altre metodologie.

STRUTTURALISMO E NEOMARXISMO

A partire dalla metà degli anni sessanta si assiste, prevalentemente in Europa, a una ripresa di studi in campo marxista volti a introdurre sostanziali innovazioni nel modello marxiano originario e, più precisamente, nel concetto di struttura come relazione di dipendenza causale tra economia e società. Un primo importante sviluppo in questa direzione è costituito dalla scuola strutturalista francese e, in particolare, da Louis Althusser (v., 1965; v. Althusser e altri, 1968) e Nicos Poulantzas (v., 1968 e 1974). Questi autori, d'altra parte, fanno esplicitamente riferimento all'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss (v., 1949 e 1958), il quale sosteneva, nella tradizione di Durkheim e di Mauss, che ogni elemento della cultura di una società - le forme della parentela, la distribuzione spaziale degli insediamenti, la religione, le forme d'arte, ecc. - può essere riportato a una struttura profonda o sottostante. A differenza di Radcliffe-Brown, il quale, come abbiamo visto, concepiva il compito dell'antropologo come quello di costruire una tassonomia delle società sulla base delle differenze di struttura concretamente osservate, Lévi-Strauss è interessato a mostrare piuttosto le differenze che intercorrono tra le varie società e un dato modello astratto di struttura sociale. Per esempio, è possibile immaginare una struttura sociale ideale, caratterizzata da un sistema di discendenza familiare strettamente unilineare e da un modello di residenza strettamente unilocale, rispetto alla quale calcolare poi gli scostamenti delle società empiricamente studiate. Da questo punto di vista, Lévi-Strauss è uno dei principali esponenti della scuola strutturalista francese: si parla, infatti di approccio strutturalista (nell'antropologia come nella sociologia francese) quando "l'osservatore si interessa a queste strutture nascoste che ordinano i fenomeni sociali e culturali, dando la priorità a un approccio sincronico più che a uno diacronico [...] e postulando una infrastruttura incosciente sottesa ai fenomeni osservati che sfugge largamente alla coscienza degli attori" (v. Delas e Milly, 1997, p. 235).

Althusser e Poulantzas rileggono Marx alla luce di questa concezione, che essi condividono. In particolare essi intendono mostrare che le formazioni economico-sociali storiche sono una combinazione di elementi strutturali semplici (tipi di appropriazione del plusvalore, tipi di potere politico-statuale, ecc.). Il loro intento originario era quello di elaborare una strategia di 'allentamento' del determinismo economico imputato, a torto o a ragione, a Marx. Essi affermano in particolare l'esistenza di strutture politiche e ideologiche dotate di una loro autonomia rispetto a quella economica, che resta determinante solo 'in ultima istanza' (cioè come elemento di sfondo di un'intera epoca storica). In pratica, lo strutturalismo marxista francese è un rifiuto del marxismo economico a vantaggio di una teoria dello Stato. Questo è particolarmente evidente per Poulantzas, secondo il quale lo Stato diventa oggi il luogo privilegiato del conflitto sociale, sia come arena per l'azione delle classi politiche in lotta per il potere, sia come luogo della distribuzione di risarcimenti economici e sociali per differenti settori della società.

Quando questi autori, tuttavia, parlano di "autonomia relativa" della politica dall'economia, cercano di inserire negli schemi di analisi marxisti un principio già introdotto molto tempo prima da Weber. A differenza di Weber, tuttavia, questa autonomia della sfera politica e ideologica è solo asserita e non si apre, sul piano del metodo, a una comprensione delle strategie di azione e delle progettualità intenzionali dei vari gruppi e delle varie classi sociali storicamente osservabili in specifici contesti nazionali. In realtà, questi autori, per il loro riferimento a Lévi-Strauss e alla sua concezione della struttura sociale, introducono nuovi elementi di rigidità e di astrattezza nel loro modello di analisi. Il loro privilegiare la dimensione del presente o del 'sincronico', rispetto a quella storica o diacronica, se poteva apparire giustificato negli studi degli antropologi strutturali - dedicati a società primitive, senza scrittura, e costretti quindi a lavorare sui miti e sui cerimoniali - è del tutto inappropriato in un'analisi sociale e politica del capitalismo contemporaneo. Per Althusser, in particolare, l'individuo non possiede alcuno spessore sociale ed è ridotto a semplice elemento di supporto delle strutture fondamentali. I marxisti strutturalisti francesi, da questo punto di vista, ci appaiono in alternativa esplicita ai tentativi - come quello di Gramsci - di recuperare, entro il pensiero marxista, spazi di autonomia all'attore sociale (v. sopra, cap. 6).

Una critica analoga possiamo rivolgere al neomarxismo americano di quegli anni. J. O'Connor (v., 1973), ad esempio, elabora un modello a tre settori dell'economia politica capitalistica (statale, monopolistico e concorrenziale) lungo i quali si strutturano la società e il conflitto sociale. Quest'ultimo non è più caratterizzato dalla lotta di classe tra capitalisti e lavoratori, ma si complica seguendo gli interessi economici dei gruppi collocati nei vari settori. Si delinea in tal modo, per questo autore, una 'crisi fiscale' dello Stato, il quale non riesce più a far fronte alla domanda crescente, che sale dalla società e, in particolare, dai gruppi sociali che si situano fuori del settore monopolistico. Ciò potrebbe dar luogo, a lungo andare, a una 'crisi di legittimità' del sistema; questa, tuttavia, è impedita nel breve periodo dalla divisione delle classi sociali in gruppi e categorie in competizione tra loro sul fronte fiscale e welfarista, i quali ricercano un rapporto preferenziale con lo Stato. Il modello di struttura della società capitalistica che propone O'Connor, benché innovativo rispetto a quello marxiano, è stato criticato in quanto si esaurisce interamente sul piano sistemico e non raggiunge mai il piano propriamente sociale. In effetti, l'azione delle classi e dei gruppi di interesse non è analizzata nei suoi termini concreti, storico-sociali, ma è dedotta sulla base di contraddizioni oggettive emergenti tra i tre settori economici e dal loro insieme.

A diverse conclusioni giungiamo, invece, per quanto riguarda Jürgen Habermas. Questo autore ci interessa qui, paradossalmente, non tanto per la sua pur importante analisi della struttura sociale nel capitalismo maturo (v. Habermas, 1973), quanto per la sua riflessione, progressivamente approfondita, sull'identità individuale e sociale (v. Habermas, 1981). Fin dai suoi primi lavori Habermas, in chiave critica rispetto ad Adorno e Marcuse e alla loro tesi della 'fine dell'individuo' nella società industriale avanzata, sviluppa la sua idea di individuo autonomo come elemento di base per la critica al sistema costituito. Da allora, questo autore non ha mai rinunciato alla ricerca dei fondamenti di una identità libera e autonoma, pur riconoscendo che esistono grandi difficoltà alla sua piena realizzazione. Secondo Habermas, in particolare, il raggiungimento di tale piena identità è possibile solo in un contesto di comunicazioni intersoggettive non distorte e libere da ogni coazione, fondate cioè sul principio che alle argomentazioni altrui si risponde solo con altre argomentazioni. Poco importa, poi, se questo non è possibile oggi, nelle nostre società di capitalismo maturo in cui la 'razionalità strumentale', propria del sistema, prevale sulla 'razionalità comunicativa' dei soggetti. Habermas, distaccandosi dal pessimismo di Marcuse, identifica infatti una serie di crisi che attentano di continuo alla stabilità del sistema (crisi economiche, crisi di razionalità che nascono dai fallimenti della pianificazione e della regolazione amministrativa, crisi di legittimazione che si originano a seguito delle mancate promesse welfariste e risarcitorie fatte alle varie classi e gruppi sociali, crisi di motivazione, provocate dall'erosione dei valori individualistici della competizione e del successo personale). In questo contesto di crisi potenziale, è fondamentale per Habermas il ruolo consapevole dei soggetti coinvolti: "Solo nel momento in cui i membri della società vivono i mutamenti strutturali come critici per la sussistenza e sentono minacciata la propria identità sociale, allora noi possiamo parlare di crisi. Le perturbazioni dell'integrazione del sistema minacciano la sussistenza solo nella misura in cui è in gioco l'integrazione sociale, ossia nella misura in cui la base consensuale delle strutture normative è pregiudicata al punto che la società cade nell'anomia" (v. Habermas, 1973; tr. it., p. 6). È chiarissima qui la distinzione di Habermas tra integrazione sistemica e integrazione sociale, tra il piano delle strutture macro e quello dell'agire sociale. Ma chiara è anche la connessione che egli pone tra questi due piani: la capacità di autoregolazione del sistema, di fronte a forze che tendono a disgregarlo, è influenzata in larga misura dalla dinamica culturale e simbolica posta in essere dall'agire comunicativo tra i soggetti. E così facendo egli va oltre il semplice parallelismo posto da Marx tra il piano sistemico strutturale e quello storico-sociale (v. sopra, cap. 3). Un autore che può essere collocato, almeno in parte, sulla scia di Habermas è Claus Offe (v., 1972). Anch'egli si pone in una posizione fortemente innovativa rispetto al pensiero di Marx, in particolare nel momento in cui rimette in discussione lo stesso concetto di struttura di classe. Secondo questo autore, infatti, nelle società capitalistiche contemporanee l'aumento della 'popolazione eccedente', insieme con l'importanza dell'intervento dello Stato in campo economico e sociale, sposta il fuoco del conflitto di classe fuori dalla sfera produttiva, in quella della distribuzione e della riproduzione sociale. Allo schema a tre settori elaborato da O'Connor, Offe sostituisce adesso uno schema a quattro settori (statale, monopolistico, concorrenziale e 'residuale'). Emerge, in tal modo, un nuovo sistema di disuguaglianza fondato su 'ambiti di vita individuale' e su differenziazioni 'orizzontali', che complicano la struttura sociale e rendono difficile l'aggregazione in base ai tradizionali interessi di classe. Qui, tuttavia, l'autonomia degli attori sociali viene affermata esplicitamente. Offe valorizza in particolare il ruolo nella società contemporanea dei nuovi movimenti collettivi e, riecheggiando Habermas, sottolinea la loro costituzione sulla base di bisogni di identità e di appartenenza, che con il tempo diventano irreversibili.

In definitiva, il percorso del neomarxismo degli anni settanta e ottanta approda a una revisione non indifferente del modello marxiano, sia per quanto riguarda il suo versante sistemico, cioè la struttura complessiva della società capitalistica (che appare adesso un intreccio di relazioni di interdipendenza e di tensione reciproca tra vari settori dell'economia e della politica), sia per quanto riguarda il suo versante storico-sociale, entro il quale l'autonomia degli attori rispetto alla struttura, almeno negli ultimi autori esaminati, è tematizzata più efficacemente.

L'ANALISI STRUTTURALE ITALIANA

A partire degli anni settanta, sotto l'impatto di una trasformazione accelerata della società italiana, si assiste allo sviluppo di un filone di studi sulla struttura sociale del paese che, rivisto oggi nel suo complesso, può essere definito come il filone della 'analisi strutturale' della sociologia italiana contemporanea. La rapida industrializzazione del paese, seguita da un altrettanto rapido passaggio verso la società dei servizi, in un contesto contrassegnato fin dall'origine da una forte disoccupazione e da tradizionali dualismi economici e territoriali, ha costituito una sfida importante per la giovane ricerca sociologica italiana. Questa si è trovata a dover interpretare la complessità del processo di modernizzazione nazionale e il forte cambiamento della struttura sociale del paese senza una tradizione di studi in questo campo e con un bagaglio teorico semplificato. Questo filone di studi ha indagato su un'ampia gamma di problemi, quali quelli del mercato del lavoro e delle classi sociali, delle formazioni sociali territoriali, delle migrazioni interne, della famiglia, della povertà, della differenza di genere, dell'intervento welfarista dello Stato, ecc. Qui non è possibile evidentemente analizzare questo insieme di studi e di ricerche nella sua completezza. Ci limiteremo, pertanto a esaminare l'elaborazione offerta in alcuni dei campi di indagine più significativi.

Lo studio del mercato del lavoro ha costituito probabilmente un momento importante per l'avvio di questa analisi strutturale della società italiana (v. Paci, 1973 e 1982). La scelta di questo tema è di per sé significativa della ricerca di un livello di analisi, sufficientemente ampio ma specifico, che permettesse di rendere conto di cambiamenti strutturali importanti che avvenivano nell'economia e nella società e che non potevano essere colti restando all'interno dei singoli luoghi, aziendali o settoriali, di lavoro. Inoltre, benché connotato inizialmente dal ricorso ad alcune categorie teoriche marxiane (come quelle di 'esercito industriale di riserva' o di 'sovrappopolazione' nelle sue diverse forme), questo tipo di studi ha comportato di fatto l'accettazione di una dimensione d'analisi tipicamente weberiana: il mercato del lavoro, infatti, è uno dei mercati cui fa riferimento Weber per superare la visione marxista della struttura di classe, strettamente ancorata al momento produttivo (v. sopra, cap. 4). Il mercato del lavoro è stato così la chiave per ricostruire, 'pezzo per pezzo', lo scenario sociale che ha ruotato, in questi anni, attorno allo sviluppo economico nazionale e alle sue caratteristiche dualistiche, settoriali e territoriali: dai primi lavori degli anni settanta sulle caratteristiche della disoccupazione intellettuale (v. Barbagli, 1974), sul mutamento delle strutture agrarie e del mercato del lavoro nel Mezzogiorno (v. Mottura e Pugliese, 1975), sulla doppia presenza delle donne, tra sfera produttiva e riproduttiva (v. Balbo, 1976), sulle migrazioni interne e internazionali di forza lavoro (v. Ascoli, 1979; v. Reyneri, 1979; v. Piselli, 1981) e sul lavoro nero e sul ruolo economico informale della famiglia (v. Paci, 1980), ai lavori degli anni successivi e più recenti, condotti sul settore garantito dell'occupazione e sullo sviluppo del doppio lavoro (v. Gallino, 1985), sulla disoccupazione (v. Pugliese, 1993) e sul mercato del lavoro nazionale nel suo complesso (v. Reyneri, 1996).

È sulla base di questa ampia messe di studi che, all'inizio degli anni ottanta, è stato possibile proporre un modello complessivo di analisi della struttura sociale italiana (v. Paci, 1982, cap. 10). Si tratta di un modello a quattro settori, costruito in base a due dimensioni: la prima fa riferimento alla natura garantita/non garantita dell'occupazione (cioè al grado di tutela legale e sindacale dell'attività lavorativa), mentre la seconda introduce la distinzione tra la sfera produttiva (o delle attività di mercato) e quella riproduttiva (o delle attività amministrate dallo Stato o interne alla famiglia e alla parentela). Si ottengono in tal modo quattro settori: quello garantito-produttivo, costituito dalla occupazione presso le grandi imprese pubbliche e private; quello produttivo-non garantito, costituito dalle piccole imprese e dall'alone di economia sommersa che le circonda; quello riproduttivo-garantito o statale; quello riproduttivo-non garantito, costituito dall'economia di sussistenza, familiare, parentale o di comunità marginale. Questo modello richiama, evidentemente, quelli elaborati da O'Connor o da Offe, descritti nel capitolo precedente, ma si adatta meglio alla specificità del caso italiano, la cui struttura sociale è fortemente segnata dal dualismo tra settori forti e settori deboli dell'occupazione. L'identificazione di questi quattro settori o 'aree sociali strutturali' ha permesso così di chiarire i processi in atto in quegli anni, sia dal punto di vista dell'integrazione sistemica, assumendo cioè come referente il sistema sociale nel suo complesso e mostrando gli scambi di risorse e i rapporti di funzionalità esistenti tra i quattro settori, sia a livello dell'integrazione sociale, assumendo cioè come referenti gli attori sociali e mostrando le ragioni dei loro comportamenti (v. Paci, Il mutamento..., 1992, pp. 191 ss.). Di notevole rilievo, inoltre, è stato anche l'insieme di studi che ha approfondito la complessità della struttura sociale nazionale dal punto di vista territoriale o delle formazioni economico-sociali che è dato riconoscere nel nostro paese (v. Bagnasco, 1977 e 1988; v. Paci, 1980; v. Trigilia, 1986, 1992 e 1995). Sono state identificate, in tal modo, tre formazioni principali: quella dell'Italia del nord-ovest, centrata sulla grande industria capitalistica, quella dell'Italia centro-nord-orientale, caratterizzata dall'economia diffusa o di piccola impresa, e quella del Mezzogiorno, caratterizzata da una condizione di sottosviluppo economico e marginalità sociale. Questi studi non solo hanno permesso di articolare meglio l'immagine della struttura sociale nazionale, ma, coerentemente con la definizione marxiana stessa di formazione sociale, hanno mostrato le relazioni strutturali (o di interdipendenza) esistenti entro ciascuna formazione tra le tipologie produttive, le forme di stratificazione sociale e gli orientamenti culturali e politici diffusi. Queste analisi, pur riconoscendo il ruolo strutturante del contesto produttivo, non negano l'autonomia dei soggetti agenti, sia che si tratti di ricostruire le strategie d'azione degli imprenditori dei 'distretti industriali', sia che si tratti di valutare l'impatto dell'azione politica e amministrativa locale (v. Bagnasco, 1988; v. Trigilia, 1986 e 1995).

Infine, lo sviluppo di questi studi e ricerche in tema di mercato del lavoro e formazioni sociali territoriali ha contribuito notevolmente - almeno per tutta una prima fase - ad approfondire la riflessione sulle classi sociali e, più in generale, sul sistema di disuguaglianza sociale nazionale. È stato possibile, in tal modo, rendere conto delle complicazioni presenti nella struttura di classe italiana, con riferimento vuoi alla presenza di strati operai, non omologabili al 'classico' proletariato industriale, vuoi a ceti di piccola borghesia e a ceti medi della rendita e dell'intermediazione finanziaria, anch'essi sovrarappresentati nel caso italiano, rispetto a quanto era lecito attendersi a seguito del processo di industrializzazione nazionale (v. Gallino, 1970; v. Sylos Labini, 1974; v. Paci, 1978). Successivamente, tuttavia, di fronte al passaggio 'postindustriale' (o 'postfordista') degli anni ottanta e novanta, l'analisi delle classi si è maggiormente aperta alla considerazione del ruolo decisivo dello Stato nel plasmare, tramite le politiche economiche e welfariste, il sistema delle disuguaglianze sociali e la struttura di classe nazionale. Già Pizzorno (v., 1974) aveva mostrato il ruolo svolto dall'intervento statale a fini di consenso politico nello sviluppo, negli anni cinquanta e sessanta, dei ceti di piccola borghesia. Nel corso degli ultimi vent'anni, questo ruolo emerge in tutta la sua importanza, in connessione con le caratteristiche clientelari e spartitorie del 'Welfare State all'italiana' e, in generale, con l'involuzione politica della 'prima repubblica' (v. Ascoli, 1984; v. Bagnasco, 1996; v. Carboni, 1986; v. Gallino 1987; v. Paci, 1989 e 1996). La struttura sociale del paese appare adesso fortemente dipendente dall'intervento politico-amministrativo dello Stato, così come - in precedenza - era apparsa dipendente dallo sviluppo economico e dalle caratteristiche del mercato del lavoro. Più in generale, rispetto all'analisi condotta negli anni settanta, pur senza negare l'impatto che hanno sulla struttura sociale i processi che - nel passaggio postfordista degli anni ottanta - si svolgono a livello della base materiale, economica e tecnologica, si tende adesso a rispettare maggiormente il ruolo autonomo degli attori politici e sociali.

In definitiva, l'analisi strutturale italiana di questi anni ha fornito un'importante messe di elementi conoscitivi sulla struttura sociale del nostro paese, passando da un approccio alquanto 'economicistico', con chiare ascendenze marxiane, a uno assai più articolato e disposto al confronto con Weber e con le teorie contemporanee dell'azione sociale. Essa si caratterizza per il ricorso a una varietà di metodi (quantitativi e qualitativi) e di fonti (statistiche, storiche, campionarie, documentarie) e, spesso, per un taglio diacronico, se non propriamente storico, che non è dato riscontrare solitamente nella ricerca sociologica empirica. L'analisi strutturale italiana resta, tuttavia, teoricamente poco consapevole di sé: nessuno dei molti esponenti di questo filone di studi si è posto il problema di riconnettere gli spezzoni di teoria che pure sono presenti esplicitamente o implicitamente nei vari lavori presentati. L'orientamento prevalente alla ricerca empirica, se ha permesso un'ampia e articolata descrizione della struttura sociale del paese, ha frenato l'elaborazione teorica e concettuale. È per questo, del resto, che lo stesso concetto di struttura sociale, continuamente utilizzato, non è stato oggetto finora di una riflessione adeguata (un problema, questo, che la sociologia italiana condivide, come abbiamo visto, con gran parte della sociologia contemporanea).

LA NETWORK ANALYSIS

L'analisi di rete (network analysis) ci introduce a un'altra importante variante del concetto di struttura sociale. Essa, a differenza delle teorie esaminate sin qui, si situa sostanzialmente a livello microsociale, anche se, secondo alcuni autori (v. ad esempio Collins, 1988; v. Kontopoulos, 1993), costituisce uno dei tentativi oggi più avanzati per unire in un unico modello le dimensioni micro e macro della struttura sociale. Numerosi sono gli autori e le scuole di pensiero che vengono, di volta in volta, citati come antecedenti significativi dell'analisi di rete. John Scott (v., 1991, cap. 2), ad esempio, menziona: la sociologia formale di Simmel; la sociometria dei piccoli gruppi di Moreno; la psicologia topologica di Lewin; le indagini di comunità di Warner; lo studio dei gruppi informali in ambiente lavorativo di Elton Mayo; la teoria dello scambio di Homans; la modellistica matematico-statistica degli antropologi strutturali. È noto anche che sono identificabili due filoni di pensiero nello sviluppo della network analysis: il primo è quello inglese della scuola antropologica di Manchester, degli anni cinquanta e sessanta, e il secondo quello americano della scuola di Harvard, degli anni settanta e ottanta. Tuttavia, è in Siegfried Nadel (uno psicologo austriaco che ha a lungo collaborato con il gruppo degli antropologi di Manchester) che troviamo forse la prima teorizzazione compiuta del rapporto tra analisi di rete e struttura sociale. Le strutture sociali sono, per Nadel, delle "strutture di ruoli", il ruolo essendo costituito dalle "reti" in cui è inserito l'individuo. Queste reti sono definite, a loro volta, come "un intreccio di relazioni tale per cui l'interazione che si ha in una di esse influenza quella che si ha in altre" (v. Nadel, 1957, p. 16). Separando la forma delle relazioni dai loro contenuti empirici, afferma questo autore, è possibile cogliere le strutture sociali e sottoporle a uno studio sistematico e comparativo.

Numerosi (e in campi diversi) sono gli apporti conoscitivi dell'analisi di rete. La scuola di Manchester, ad esempio, ha fornito importanti contributi sulla configurazione delle reti in ambito urbano (dove esse sono 'a maglie larghe' e 'a finalità multipla') e in ambito rurale (dove sono 'a maglie strette' e 'a finalizzazione unica'). Boissevain (v., 1974) ha sottolineato il ruolo del "mediatore", come colui che occupa una posizione di rete centrale e agisce in un contesto di risorse scarse, traendo da questa situazione vantaggi economici e di potere. Harrison White, che può essere considerato il fondatore della scuola di Harvard, ha descritto managers e imprenditori come "cercatori di nicchie di mercato in costante sorveglianza reciproca" e ha mostrato come, nei diversi settori dell'economia, essi "si controllano a vicenda, costituiscono una rete, si uniscono in associazioni e danno vita a dei clubs [...] perché debbono vedersi l'un l'altro, raccogliere informazioni, al fine di strutturare la propria posizione sul mercato" (v. White, 1981, p. 543). Granovetter (v., 1974), infine, in uno studio ormai classico sulla mobilità occupazionale, ha mostrato l'importanza all'interno delle reti dei 'legami deboli' con persone che si frequentano raramente, allo scopo di ottenere informazioni di lavoro, e che non sono note, invece, entro la cerchia più ristretta dei 'legami forti', amicali e parentali. Con l'analisi di rete, dunque, siamo introdotti allo studio delle microstrutture sociali che si formano tra gli individui a partire dalle loro relazioni reciproche. Ricostruendo la struttura delle relazioni sociali del soggetto, l'analisi di rete ci mostra fino a che punto le possibilità relazionali di un individuo sono estese (o limitate). Naturalmente, questo tipo di analisi comporta delle difficoltà quando si passa dallo studio di realtà sociali locali e di dimensione ridotta a realtà di più vaste dimensioni. Più ampia è la rete di relazioni da ricostruire, tanto maggiore (e a volte proibitivo) risulta lo sforzo dell'impresa. D'altra parte, il ricorso allo studio di campioni parziali di soggetti non è sostitutivo di una ricostruzione effettiva e completa dei legami di una rete macro. È per questo che il passaggio dal livello delle reti micro alla macrostruttura sociale comporta un salto che non appare facilmente colmabile ricorrendo esclusivamente alle tecniche e all'apparato concettuale elaborati da questi studi.Fino a epoca recente, all'interno dell'analisi di rete ha prevalso una visione 'forte' del ruolo della struttura rispetto all'autonomia dell'individuo. Non a caso questo filone di studi è stato definito anche 'analisi strutturale' o 'strutturalismo analitico' (v. Kontopoulos, 1993, p. 108). In effetti, secondo questa teoria, il tipo di rete in cui un individuo è inserito e la particolare posizione che egli occupa al suo interno sono fattori che influenzano in maniera decisiva il modo in cui tale individuo pensa e agisce. All'interno di gruppi isolati o molto coesi, ad esempio, gli individui tendono ad avere opinioni molto omogenee. A partire dalla fine degli anni ottanta, tuttavia, si manifesta, all'interno di questo filone di studi, l'esigenza di 'allentare' il concetto di struttura sociale, rinunciando almeno in parte all'impostazione deterministica prevalente fino ad allora (v. Mutti, 1997). Così Collins (v., 1988) sottolinea la necessità di tematizzare meglio la contingenza decisionale degli attori e di dare maggiore importanza alla questione dell'identità dell'attore, come fatto costruito gradualmente nei diversi contesti sociali tra cui egli è transitato. Analogamente, Coleman (v., 1990) sviluppa una definizione delle reti sociali come 'risorse' (e non più come vincoli) per l'individuo, che usa la rete per conseguire risultati a lui vantaggiosi. Così, infine, lo stesso White (v., 1992) tenta una via intermedia tra strutturalismo e individualismo, aprendosi alle tematiche della contingenza decisionale degli attori e alla natura idiosincratica dei percorsi di vita individuali; gli attori, adesso, sono visti a un tempo come liberi e vincolati: essi hanno la capacità di creare o di negoziare tutto ciò che possono in una situazione che resta certo strutturata da rapporti più vasti, ma che essi contribuiscono a modificare.

Questa revisione teorica in direzione di una maggiore autonomia concessa all'attore sociale, tuttavia, rende ancora più incerta la prospettiva, perseguita da alcuni dei maggiori esponenti di questo filone di studi, di poter realizzare con l'analisi di rete un processo di unificazione in un solo modello delle dimensioni micro e macro della struttura sociale (v. ad esempio Collins, 1988; tr. it., p. 512). In realtà, vi sono forti dubbi sul fatto che la network analysis abbia conseguito (o possa conseguire in futuro) tale risultato.

THOMPSON, BOURDIEU E BOUDON

Per concludere la nostra ricognizione sul concetto di struttura sociale, prenderemo in esame brevemente tre autori che hanno affrontato esplicitamente il problema dell'antinomia tra struttura e azione sociale (o tra piano sistemico e piano storico-sociale dell'analisi): E.P. Thompson, Pierre Bourdieu e Raymond Boudon.Edward P. Thompson (v., 1963 e 1979) ci interessa qui per la sua riflessione metodologica sul concetto di classe, svolta a partire dai suoi studi storici sulla formazione della classe operaia in Inghilterra. Questo autore, pur inscrivendosi nella tradizione di storia marxista, che vanta in Gran Bretagna studiosi della statura di Maurice Dobb, Christopher Hill ed Eric Hobsbawm, ha condotto una vigorosa polemica contro le interpretazioni caratterizzate dal determinismo economico e dalla negazione di ogni autonomia ai soggetti sociali. Egli critica, ad esempio, Ralf Dahrendorf (v., 1957), descrivendolo come ossessivamente interessato alla metodologia e come incapace di esaminare una singola, vera situazione di classe in un contesto storico. Dahrendorf, in effetti, aveva elaborato una teoria della struttura di classe nella quale il principio di autorità (o di 'potere legittimo') prendeva il posto della marxiana proprietà dei mezzi di produzione come fonte di super-subordinazione di classe. Ma se, da questo punto di vista, egli aveva innovato rispetto al pensiero di Marx, concordava invece con lui per quanto riguarda il passaggio dalla struttura alla coscienza di classe, che considerava, in modo forse ancora più deciso di Marx, come inevitabile (ancorché sottoposto ad alcune condizioni). Thompson, dunque, prende le distanze polemicamente da Dahrendorf, non tanto per ribadire che le classi trovano la loro origine nei rapporti di produzione, quanto soprattutto perché a suo avviso le classi non possono essere identificate indipendentemente dalla coscienza di classe. Egli rigetta ogni concezione delle classi che le situi esclusivamente sul piano economico-strutturale e sottolinea il fatto che gli individui possono restare legati ai loro valori e costumi anche quando la struttura economica cambia, e anzi possono usare queste loro risorse culturali per intervenire attivamente al fine di alterare le condizioni economiche date. Più in generale, possiamo dire che Thompson privilegia il piano storico-sociale rispetto a quello sistemico: le classi, secondo lui, sono fenomeni processuali, che non possono essere colti dall'osservatore come una realtà oggettivata, 'fotografata' a un dato istante (v. in particolare Thompson, 1963, pp. 9-11).

Come si vede, Thompson si situa agli antipodi rispetto allo strutturalismo marxista francese: se nel caso di Althusser la storia ci appariva priva di soggetti (v. sopra, cap. 9), qui essa ci appare piena solo di soggetti. Forse a causa del suo atteggiamento polemico contro le teorie deterministiche, Thompson finisce per adottare una interpretazione spiccatamente 'culturalista', che lascia poco spazio a un'analisi dei condizionamenti strutturali dell'azione. Egli mostra efficacemente che la classe operaia inglese, nelle sue forme storiche di organizzazione e coscienza di classe, non è stata il risultato diretto della rivoluzione industriale, ma si 'autoformò' sulla base del suo patrimonio culturale, in modo da interpretare il cambiamento e reagire alle trasformazioni economiche e politiche del suo tempo. Così facendo, tuttavia, egli ha finito per mettere in luce solo un lato di quella dialettica tra struttura e coscienza che pure, nei suoi saggi metodologici, teorizza come centrale nel processo storico (v. Trimberger, 1984, pp. 224-225).

All'opposto di Thompson, Pierre Bourdieu (v., 1972) è partito inizialmente dalla riaffermazione dell'importanza delle 'strutture oggettive' della società rispetto all'azione storico-sociale. È al legame originario di questo autore con lo strutturalismo marxista francese che risale la sua concezione dell'esistenza di 'strutture incoscienti', che influenzano in modo non trasparente le motivazioni profonde dei comportamenti individuali. Ma egli stesso preciserà in seguito (v. Bourdieu, 1981, pp. 18-19): "Ho poi voluto reintrodurre in qualche modo i soggetti agenti che Lévi-Strauss e gli strutturalisti (Althusser in particolare) tendevano ad abolire facendo di essi dei semplici epifenomeni della struttura".

La società appare a Bourdieu organizzata attorno a una serie di "strutture oggettive" o "campi istituzionali" (relativi, ad esempio, alla famiglia, all'economia, alla religione, ecc.), molti dei quali sono suddivisi in una "frazione dominante" e una "frazione dominata", con la prima che modella le regole che governano l'attività sociale entro quel campo. Ciascuno di questi campi è in uno stato di tensione permanente: gli attori sociali prendono posizione nelle lotte e nella competizione che si svolgono in essi per le risorse o per i "tipi di capitale" (cioè per il capitale economico, politico, culturale e sociale). Ma il concetto più importante introdotto da Bourdieu, vera chiave di volta delle sue ambizioni teoriche, è quello di habitus. L'habitus è un insieme di disposizioni o schemi mentali acquisiti dall'individuo nel corso del processo di socializzazione e da lui utilizzati per ordinare la realtà sociale che lo circonda e dare un orientamento alla sua azione. L'habitus è assunto fin dall'infanzia ed è condiviso all'interno di un dato gruppo sociale (che può essere anche molto ampio, come, ad esempio, una classe o una frazione di classe). L'habitus, tuttavia, può mutare dinamicamente per far fronte alle "congiunture sociali", e offre così all'individuo non solo uno stile di vita modificabile nel tempo, ma anche un insieme di strategie appropriate alla sua posizione sociale e a circostanze che cambiano.

Si è molto discusso, com'è noto, sul grado in cui lo 'strutturalismo costruttivista' di Bourdieu rappresenti effettivamente un superamento delle teorie deterministiche e meccanicistiche dell'azione sociale. Su questa questione si è sviluppato in Francia un lungo e polemico dibattito. Boudon e Bourricaud (v., 1982, p. 229), ad esempio, sono stati fin dall'inizio assai critici, definendo la teoria di Bourdieu "un sapiente monismo che si scontra tuttavia con ostacoli evidenti". Oggi i toni appaiono assai più sfumati: abbandonati i toni più rigidi e dogmatici, da una parte e dall'altra, ci si rende conto che le distanze tra le varie interpretazioni non sono poi così grandi (v. Delas e Milly, 1997, p. 170). Sul punto in questione, tuttavia, ci sembra di poter condividere l'opinione di coloro (v. Wacquant, 1992; v. Kontopoulos, 1993) secondo i quali le strutture sociali sono per Bourdieu 'organizzatrici di possibilità', più che meccanismi vincolanti. Per Bourdieu, le circostanze (o 'congiunture') sociali sono solo parzialmente determinate dalle strutture, e le strategie degli attori restano l'espressione di scelte intenzionali anche se vengono decise entro una data gamma di possibilità. La struttura sociale, in effetti, è per questo autore una "struttura strutturata e strutturante". Se, a una prima lettura, potrebbe sembrare che essa sia ordinata gerarchicamente o 'ordinata dall'alto' (con le 'strutture oggettive' che determinano le 'congiunture sociali' e queste che vincolano gli habitus e le scelte degli attori), in realtà così non è: esistono, infatti per Bourdieu, ambiguità e alternative (esternalità, gradi di libertà, ecc.) che operano ai vari livelli della realtà sociale. Ciò detto, e riaffermata l'esistenza, in Bourdieu, di una dialettica tra le strutture oggettive e i soggetti agenti, va detto anche che, sul piano epistemologico, egli attribuisce, in ultima analisi, la priorità al momento della delimitazione delle strutture o dei 'campi' (entro i quali si sviluppano poi le strategie degli attori). In definitiva, il lavoro di Bourdieu appare teoricamente assai avvertito e, forse, tra quelli discussi fin qui, quello che ha approntato l'apparato concettuale più adeguato per confrontarsi con il problema dell'antinomia tra il piano sistemico e quello storico-sociale dell'analisi della struttura sociale.

Diverso è l'approccio teorico di Raymond Boudon (v., 1987 e 1992). Il problema di Boudon è esplicitamente quello di costruire il complesso oggetto della struttura macrosociale a partire da una scelta di campo a favore dell'individualismo metodologico. (Egli, come vedremo, condivide una versione 'debole' di tale individualismo). Boudon critica la tradizione deterministica della sociologia che tende a far derivare direttamente l'attività degli individui dalla forza delle strutture, perché ciò impedisce di cogliere l'intenzionalità (le 'buone ragioni') che hanno gli individui per agire. Secondo questo autore, occorre partire dall'interazione sociale, così come essa si realizza entro la situazione data: compito del sociologo è essenzialmente quello di mettere in evidenza le "logiche della situazione" (come logiche di interazione) nel funzionamento della società. Le strutture per Boudon sono essenzialmente la conseguenza non prevista dell'interazione sociale. Quest'ultima ha spesso conseguenze non previste (sia come "effetti di aggregazione", che come "effetti inattesi" o "perversi"); tanto spesso che - come aveva già sottolineato Merton (v., 1949) - occuparsi di queste conseguenze è il compito principale della sociologia. Le strutture sociali a livello macro, in tal modo, sono la stabilizzazione o istituzionalizzazione di effetti non previsti, derivanti da processi complessi di interazione sociale, che hanno avuto di solito una lunga gestazione. Per la comprensione delle strutture sociali occorre dunque ricostruire le azioni degli individui (o di insiemi di individui), sia nei loro effetti intenzionali, sia soprattutto in quelli inattesi.Boudon, tuttavia, non intende sviluppare una teoria generale della società, delle sue strutture, del suo cambiamento. È impegnato piuttosto in uno sforzo di precisazione di un metodo per la spiegazione sociologica, quello, appunto, dell'individualismo metodologico nella sua versione debole. Secondo Boudon, di fronte all'infinita varietà delle azioni intenzionali individuali è necessario ricorrere a una operazione di semplificazione, per la quale egli suggerisce alcune procedure e numerosi esempi. In particolare Boudon suggerisce di ricorrere alla procedura weberiana della tipizzazione ideale: "È bene raggruppare gli attori in categorie [...], in gruppi astratti, riunirli in tipi o, come ancora possiamo dire sulla scia di Weber per insistere sulla natura semplificatoria di questo procedimento, in tipi ideali [...]. Ciò comporta evidentemente una rappresentazione molto semplificata [...] una psicologia astratta e convenzionale [...]. Le spiegazioni 'individualiste' dell'azione passano sempre attraverso la costruzione di modelli condannati dalla forza delle cose a essere semplificatori e in questa misura irrealistici" (v. Boudon, 1992; tr. it., pp. 34 e 60). Ma c'è una seconda operazione o procedura di semplificazione che è stata imputata a Boudon, e cioè l'astrazione, nell'analisi della "logica della situazione", da ogni fattore che non sia riducibile all'interazione tra gli attori in presenza. Questa seconda operazione, a differenza della prima, è stata criticata in quanto comporterebbe una eccessiva riduzione della realtà sociale e una sostanziale astoricità dell'analisi. Su questo punto, a dire il vero, Boudon ha precisato, in seguito alle critiche, il suo pensiero, chiarendo che esistono delle "variabili macrosociologiche", o "variabili che si collocano a un livello più alto rispetto alla situazione", di cui occorre tenere conto e che fanno sì che le azioni siano "il risultato del contesto situazionale degli attori, il quale a sua volta è il risultato delle variabili macrosociologiche" (v. Boudon, 1987, p. 46). L'individualismo metodologico debole di Boudon, dunque, riconosce che "l'attore sociale si muove in un contesto che in buona parte gli si impone" (v. Boudon, 1988, p. 34). Da questo punto di vista, potremmo dire che questo autore compie un percorso inverso rispetto a quello compiuto da Bourdieu, per giungere tuttavia a conclusioni non dissimili: se Bourdieu era partito dalle strutture per giungere ai 'soggetti agenti', Boudon muove anzitutto dagli attori, per collocarli poi entro un contesto strutturante.In questo capitolo abbiamo esaminato tre autori che si sono esplicitamente confrontati con la duplicità dei piani di analisi della struttura sociale. Questi tre tentativi ci interessano particolarmente in quanto volti a valorizzare il piano dell'azione storico-sociale, sia pure nella consapevolezza del ruolo limitante esercitato in generale dalla struttura sociale. In Thompson, come abbiamo visto, il piano storico-sociale dell'analisi è particolarmente valorizzato. Bourdieu, invece, muove inizialmente da un approccio strutturalista, per recuperare in seguito il ruolo creativo dei soggetti agenti. Quanto a Boudon, la valorizzazione dell'azione sociale, entro il contesto strutturale dato, è affidata soprattutto a un'opera di affinamento metodologico e procedurale. Nel complesso, l'approccio storico-sociale di Thompson, quello strutturalista costruttivista di Bourdieu e quello individualista-metodologico debole di Boudon appaiono complementari. Tutti e tre sono utili, infatti, per chi voglia tornare oggi a un'analisi della struttura sociale che superi l'orizzonte troppo angusto dell'individualismo metodologico forte e delle sue micrologiche d'azione, senza ricadere negli errori del funzionalismo e dello strutturalismo sistemici degli anni sessanta.

CONCLUSIONI

Molti degli autori esaminati sin qui, come abbiamo visto, hanno fatto ricorso a un concetto di struttura sociale come fatto oggettivo, sistemico e sincronico. Essi cioè hanno utilizzato tale concetto per indicare l'esistenza di relazioni sistematiche tra posizioni sociali (ruoli, classi, ecc.) o tra parti della realtà sociale (settori, livelli, ecc.), considerate indipendentemente dai soggetti sociali che le occupano o che in esse si avvicendano storicamente. Sia che tali relazioni siano viste come relazioni causali unidirezionali, sia che esse siano viste come relazioni di interdipendenza tra le unità sociali considerate, esse sono sottoposte dall'osservatore a un processo di oggettivazione che le situa sul piano dell'integrazione sistemica, più che su quello dell'integrazione sociale, per riprendere qui la distinzione di Habermas prima richiamata (v. sopra, cap. 9). La struttura sociale, in tal modo, è apparsa a lungo esclusivamente nel suo aspetto di contesto vincolante per l'azione sociale. Una concezione, questa, d'altra parte, che corrisponde ancora oggi al modo più consueto di guardare alla struttura sociale, se è vero che in una delle definizioni più recenti - quella della Encyclopedia of sociology del 1992 - si sottolinea che "la struttura sociale è oggettiva, nel senso che essa è la stessa per tutti gli individui ed è al di là delle possibilità di alterazione da parte delle volontà individuali" (v. Rytina, 1992, p. 1970).

Questo approccio è stato particolarmente congeniale agli studi sviluppatisi entro il paradigma funzionalista, come entro quello genericamente marxista. In effetti, in entrambi i casi, domina l'idea di una struttura sociale come interdipendenza tra sfere funzionali della realtà sociale, che si determina su un piano separato rispetto a quello su cui si svolge l'azione sociale e che perdura nel tempo per una sua tendenza intrinseca all'integrazione sistemica (come in Parsons) o per processi strutturali di riproduzione (come in Marx). Naturalmente, sappiamo che le cose sono più complicate. Abbiamo visto che esiste un dibattito sul ruolo dei processi di socializzazione nel modello parsonsiano, che apre varchi a una valorizzazione dell'attore sociale entro la prospettiva sistemico-strutturale funzionalista, così come esiste, per alcuni autori, un 'secondo modello' nell'analisi di Marx, che reintroduce il soggetto storico, in funzione autonoma, entro gli schemi di riproduzione della società capitalista (v. sopra, capp. 3 e 7). Resta il fatto che l'idea di una struttura sociale come fatto oggettivo, rispondente a logiche di integrazione o riproduzione sistemica, è stata ampiamente accolta dalla sociologia europea e americana degli anni cinquanta e sessanta (e anche in epoca successiva), come idea di fondo che ha orientato una vasta messe di studi e di ricerche. Basti pensare, da un lato, allo sviluppo della survey research americana e, in particolare, agli studi in tema di stratificazione e mobilità sociale, e, dall'altro, al filone degli studi neomarxisti, prevalentemente europei, sul capitalismo maturo e sulle sue caratteristiche strutturali (v. sopra, capp. 8 e 9). Né è estraneo a questa impostazione, a nostro avviso, il filone, più recente, della network analysis, il quale pur partendo dal piano dell'interazione sociale giunge paradossalmente a una idea della struttura sociale come forma delle relazioni, separata dai loro contenuti storico-sociali specifici, riducendo il comportamento dell'individuo a funzione oggettiva del suo inserimento nella rete (v. sopra, cap. 11).

La stessa analisi strutturale italiana degli anni settanta risente di questo approccio di fondo. In questo caso, certo, vi sono alcuni elementi interessanti che permettono di distinguere questo filone di studi sia da quello della survey research americana, sia dagli studi neomarxisti europei di quegli anni. Da un lato, c'è un utilizzo parzialmente innovativo di concetti derivati da Marx, che vengono piegati alle esigenze di comprensione di una struttura sociale altamente dualistica e sottoposta a forti cambiamenti, come quella italiana degli anni sessanta e settanta; dall'altro, c'è il ricorso a una molteplicità di fonti e di metodi empirici, mai esclusivamente e asetticamente rinchiusi entro il perimetro procedurale dell'indagine campionaria, il che ha permesso a questo tipo di studi una conoscenza problematica e articolata della realtà sociale del paese (v. sopra, cap. 10). È vero, tuttavia, che già all'inizio degli anni ottanta era possibile rivolgere a tale filone di studi una critica di economicismo (v. Paci, 1982) e che solo oggi si avvia forse al suo interno una riflessione sui suoi presupposti teorici (v. Bagnasco, 1996; v. Paci, Categorie..., 1996; v. Reyneri, 1996, cap. 1).

Ma il successo dell'approccio sistemico-strutturale ha radici antiche, anteriori evidentemente al funzionalismo e al neomarxismo del dopoguerra. Esse risalgono allo sforzo teorico durkheimiano di fondazione della sociologia come disciplina scientifica. È Durkheim, infatti, che per primo si propone di cogliere la struttura profonda della società, nascosta dietro i fenomeni che si svolgono sul piano storico-sociale (v. sopra, cap. 5). Questa idea dell'esistenza di una struttura che si impone dall'esterno agli individui e che lo scienziato sociale può decifrare si rivelerà assai fertile e influenzerà lo sviluppo di varie teorie sociologiche e antropologiche. Essa influenzerà in particolare, tramite Radcliffe-Brown, la teorizzazione di Parsons, ma anche, tramite Mauss e Lévi-Strauss, lo strutturalismo francese, da quello neomarxista di Althusser e Poulantzas, fino a quello costruttivista di Bourdieu (v. sopra, capp. 7, 9 e 12). Si tratta di un'idea o di un'astrazione della struttura sociale che sospinge l'osservatore fuori del tempo. Un'idea che risulta particolarmente congeniale all'analisi antropologica, la quale è - per forza maggiore - un'analisi di società semplici, prive di storia e di scrittura, e per ciò stesso sincroniche, 'fissate' nel tempo dalla compresenza del mito. Essa appare però troppo unilaterale e costrittiva, se applicata senza mediazioni all'analisi delle strutture di società moderne e complesse, nelle quali il tempo storico è denso di processi di interazione creativa tra gli attori sociali e le strutture stesse.

Durkheim, dunque, ci offre una soluzione astorica del problema della struttura sociale, situandosi, da questo punto di vista, su un versante opposto a quello sul quale si situano Tocqueville, Marx e soprattutto Weber (v. anche Skocpol, 1984, pp. 2 e 40; v. Boudon, 1988, pp. 42-43). Ora, noi siamo convinti che la spiegazione sociologica delle strutture sociali è necessariamente di natura storica. La duplicità della struttura sociale, come fatto costrittivo e insieme come espressione creativa dell'azione sociale, dipende dalla natura storica della società, come realtà che si svolge nel tempo. Quando ci riferiamo alla duplicità della struttura sociale, parliamo dei modi in cui le azioni nel tempo diventano strutture e le strutture a loro volta modellano le azioni. È per questo che un'adeguata comprensione delle strutture sociali presuppone sempre - come in Weber - un confronto serrato tra il concetto o il modello teorico utilizzato e i risultati di una analisi storica concreta. Per tornare a Durkheim, i limiti del suo approccio appaiono evidenti nel fallimento (che egli ammette con franchezza nella prefazione alla seconda edizione della Divisione sociale del lavoro) della sua teoria circa la natura integrativa e solidaristica della struttura della società contemporanea: quest'ultima si rivela, infatti, storicamente tutt'altro che fonte di integrazione e solidarietà sociale. Durkheim scopre così che le forme che egli riteneva anormali di divisione del lavoro (e l'anomia che esse portano con sé) sono non l'eccezione, bensì la regola nelle moderne società industriali. Ma il problema di metodologia sostantiva che questa scoperta pone, cioè il problema della costruzione di un efficace concetto di struttura sociale, non viene da Durkheim affatto risolto. (In proposito si vedano Abrams, 1982, tr. it., pp. 39-40, e Paci, 1979, p. 560, dove la concezione durkheimiana della disuguaglianza e della mobilità sociale viene giudicata come "ipostatizzata rispetto al concreto svolgersi della storia").

Più articolato deve essere invece il giudizio su Marx e sul pensiero storico e sociale marxista. Certo, non si può dire che manchino in Marx analisi puntuali della struttura sociale come fonte e, insieme, come prodotto dell'azione umana, che situano tale concetto nella processualità storica della società capitalista. Eppure tali analisi appaiono giustapposte o non integrate con quello che appare essere il corpus principale della teoria marxiana, dedicato a un'analisi assai astratta, condotta sul piano sistemico-deduttivo, della struttura del modo di produzione capitalistico e delle sue interne contraddizioni. È quanto abbiamo sottolineato in precedenza (v. sopra, le conclusioni del cap. 3) richiamando l'idea di un parallelismo teoricamente non risolto, in Marx, tra il piano delle relazioni oggettive tra gli elementi strutturali, economici e istituzionali del sistema e quello delle relazioni soggettive tra le classi e i gruppi sociali storicamente in conflitto. Ed è quanto sottolinea anche Abrams (v., 1982; tr. it., pp. 97-98), quando richiama "il problema del difficile equilibrio, nella sociologia storica marxista, tra esperienza e astrazione, tra spiegazione nei termini del significato e dell'azione individuale e spiegazione nei termini della struttura". Dopo Marx, del resto, "gli studiosi marxisti contemporanei hanno trovato difficoltà anche maggiori nel raggiungere tale equilibrio [...]. Così, ad esempio, Edward Thompson, che è forse il più noto e stimato storico marxista moderno, è accusato di privare la storia della teoria, mentre egli rimprovera, a sua volta, i suoi critici di privare la teoria della storia". (Su Thompson si vedano anche le osservazioni fatte nel cap. precedente). Certo, su queste aporie interne alla concettualizzazione marxista della struttura sociale andrebbe misurato l'apporto originale di Gramsci, autore tanto oggetto di studi e di interessi sociologici all'estero, quanto negletto in patria: il concetto gramsciano di conformismo, ad esempio, potrebbe essere utilmente confrontato con quello di habitus di Bourdieu, come concetto-chiave in un'analisi della natura processuale delle strutture sociali (v. sopra, capp. 6 e 12).

Ciò detto, tuttavia, si può sostenere in generale con Abrams che "la sociologia storica di Marx e dei suoi discepoli non è molto diversa da quella di Durkheim e della sua scuola. [...] Alla fine, per entrambe le scuole il problema del significato dell'azione è secondario perché si ritiene che l'azione a un livello più fondamentale sia determinata, o almeno adeguatamente spiegata, dalle più ampie condizioni e contraddizioni strutturali nelle quali gli individui vengono a trovarsi e debbono agire. Il significato dell'azione non è studiato direttamente, ma viene dedotto dal contesto strutturale. Ed è qui che il problema del significato e dei contesti culturali dell'azione si rivela come un anello mancante nella catena della spiegazione storica di Marx e di Durkheim. Questo anello mancante è invece l'oggetto fondamentale della sociologia storica di Weber" (v. Abrams, 1982; tr. it., pp. 100-101).In effetti, come abbiamo visto in precedenza (v. sopra, cap. 4), le strutture sociali per Weber vanno comprese essenzialmente in termini di interazione sociale sia, in generale, nel senso che esse esistono in quanto esistono determinati modi di agire reciproci orientati in determinate direzioni, sia, in particolare, nel senso che esse sono spesso la conseguenza non prevista dell'azione sociale. Weber innova rispetto alle analisi di Marx e di Durkheim proprio perché appronta una metodologia (quella della tipizzazione ideale) volta a cogliere le ragioni degli attori nello svolgimento dei processi storici. Risalire alle ragioni degli attori e alla loro interazione vuol dire essenzialmente, per Weber, comprendere le strutture sociali nella loro specificità storica. Il ricorso al metodo della tipizzazione ideale non comporta un'analisi puramente situazionale o sincronica dell'interazione sociale (come nell'individualismo metodologico forte e talora anche in Boudon), ma un'analisi dotata di spessore storico. Le strutture sociali hanno origine dall'interazione sociale. Ma proprio perché le immerge nel loro contesto storico, Weber è in grado di metterne in luce anche il carattere relativamente vincolante per l'azione sociale: esse, infatti, una volta sorte, sono dotate di un certo grado di coercitività. L'azione origina le strutture, ma a sua volta ne è condizionata ed entrambi i processi si svolgono nella storia. Se è vero che le strutture sono il risultato di processi sociali di medio-lungo periodo, nel corso dei quali si consolidano effetti di aggregazione o effetti inattesi dell'azione sociale, è anche vero che esse, una volta consolidate, costituiscono, per Weber, il contesto entro il quale - e solo entro il quale - quell'azione può svilupparsi e acquistare significato. Prendendo a prestito ancora le parole di Abrams (v., 1982; tr. it., p. 19), possiamo concludere dicendo che "il mondo sociale è essenzialmente storico e il legame tra struttura e azione è costituito dal processo".