Struttura sociale
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Enciclopedia delle scienze sociali (1998)
di Massimo Paci
SOMMARIO
1. Introduzione. 2. Montesquieu e Tocqueville. 3. Marx. 4. Weber. 5.
Spencer e Durkheim. 6. Gramsci. 7. Radcliffe-Brown e Parsons. 8. La
survey research. 9. Strutturalismo e neomarxismo. 10. L'analisi
strutturale italiana. 11. La network analysis. 12. Thompson,
Bourdieu e Boudon. 13. Conclusioni. □ Bibliografia.
INTRODUZIONE
Come osservava Peter Blau (v., 1977, p. 10) oltre venti anni fa,
"per molti sociologi il concetto di struttura sociale è ricco
di connotazioni e implicazioni che non sono facilmente riassumibili
in una singola definizione. Questa è senza dubbio la ragione
per cui molti scelgono di astenersi dal fornire una definizione del
concetto". Le cose da allora non sono molto migliorate. Nonostante
l'importanza del termine, dimostrata dalla diffusione del suo uso,
permane una riluttanza a specificarne il contenuto. Le
difficoltà di una definizione dipendono da diversi aspetti.
Anzitutto, bisogna tener conto della vastità dei fenomeni
sociali coperta dal concetto, che spazia dal livello micro a quello
macro della sociologia, dall'analisi delle relazioni interpersonali
elementari a quella degli Stati-nazione. Inoltre, diverso è
il grado di capacità euristica attribuitogli: esso viene
utilizzato, infatti, sia a fini descrittivi o classificatori, sia -
in modo più strettamente connesso con una teoria - a fini
esplicativi di date regolarità o relazioni sociali. Infine,
altre difficoltà provengono dalla natura problematica e
teoricamente irrisolta del rapporto tra struttura e azione sociale,
che influisce grandemente sulla definizione stessa di struttura
sociale. Nonostante queste difficoltà, possiamo adottare - in
via preliminare - la definizione formulata in uno degli ultimi
lavori usciti sull'argomento (v. Crothers, 1996, p. 4), secondo cui
"la struttura sociale si riferisce alle relazioni (e specialmente a
quelle più stabili e durature) tra gli individui, tra i
gruppi sociali o tra le istituzioni [...]. Si tratta di un concetto
talvolta solo descrittivo, talvolta esplicativo, volto a mostrare
come il comportamento sociale (gli atteggiamenti o gli attributi
degli individui e dei gruppi in cui essi sono coinvolti) abbia una
data forma e perché si hanno determinate regolarità
[...]. Il punto cruciale è l'affermazione che il
comportamento dell'individuo è conforme alla sua collocazione
nella struttura sociale [...] ma sapendo che, a sua volta, l'azione
umana ha un 'effetto di ritorno' sulla struttura". Questa
definizione, pur essendo abbastanza esauriente, non mette
adeguatamente in luce, tuttavia, un aspetto fondamentale sul quale
avremo modo di tornare ripetutamente nella nostra analisi. Si tratta
dell'esistenza di due prospettive di fondo dalle quali è
possibile guardare alla struttura sociale: da un lato, infatti,
è possibile considerare la struttura da un punto di vista
sistemico, come un insieme oggettivo di relazioni tra determinate
posizioni sociali (ruoli, istituzioni, classi, settori o parti della
società), a prescindere dall'identità dei soggetti che
di fatto occupano tali posizioni e in esse si avvicendano.
Dall'altro, si può guardare, da un punto di vista
storico-sociale, direttamente ai soggetti (individui, gruppi, classi
o comunità), che occupano determinate posizioni o settori
della realtà sociale, e alle relazioni tra loro, come
relazioni intenzionali e consapevoli, esistenti entro uno spazio
storico e sociale specifico. Non sempre, nelle analisi dei diversi
autori che si sono occupati della struttura sociale, queste due
prospettive sono esplicitamente presenti. Talvolta l'analisi si
svolge solo sul piano sistemico, presupponendo che l'azione dei
soggetti storico-sociali costituisca una conseguenza necessaria di
determinate condizioni di struttura. (Così è, per
esempio, per il Marx del Capitale o per lo strutturalismo marxista
francese del dopoguerra). Talvolta avviene il contrario e si
privilegia il piano dei fenomeni culturali e storico-sociali,
trascurando i vincoli eventualmente esistenti a livello
sistemico-strutturale. (È così che procede, ad
esempio, E.P. Thompson). Più spesso, tuttavia, entrambi i
piani sono presenti e l'autore si pone esplicitamente il problema
del passaggio dall'uno all'altro, come, ad esempio, in Durkheim -
con il ruolo attribuito alla densità sociale - o in Parsons -
con quello attribuito ai processi di socializzazione - o ancora come
in Weber - quando sottolinea l'importanza degli "effetti non
intenzionali" dell'azione sociale (v. oltre, i capp. dedicati agli
autori menzionati).
Come si vede, dunque, il concetto di struttura sociale si situa al
centro della riflessione sociologica e non può essere
pienamente chiarito senza ripercorrere, sia pur brevemente, le
principali teorie che si sono succedute in proposito nello sviluppo
della sociologia classica e contemporanea.
MONTESQUIEU E TOCQUEVILLE
È probabilmente con Montesquieu che debutta in modo esplicito
l'analisi sociologica della struttura sociale a livello macro.
Montesquieu, come sappiamo, ha costruito una tipologia delle forme
di governo (dispotismo, monarchia, repubblica aristocratica e
repubblica democratica), che non è molto diversa da quella di
Aristotele. Quest'ultima, però, come ha osservato Raymond
Aron (v., 1967; tr. it., p. 59), "era solo apparentemente dotata di
valore generale, perché presupponeva, come base sociale, la
città greca". La filosofia politica classica, continua Aron,
"aveva scarsamente indagato sui rapporti tra i diversi tipi di
'sovrastrutture politiche' e le loro basi sociali; essa non aveva
chiaramente posto il problema della misura in cui si può
studiare una classificazione dei sistemi politici se si astrae
dall'organizzazione sociale". Il contributo decisivo di Montesquieu,
da questo punto di vista, consiste proprio nell'aver tenuto conto,
nella costruzione della sua tipologia, non soltanto della struttura
istituzionale interna dei regimi politici ma anche della loro
connessione con quello che egli chiama sinteticamente "lo spirito
generale di una nazione", inteso come l'insieme dei costumi, delle
credenze e dei sentimenti che deve animare gli uomini che vivono in
un dato tipo di governo perché questo funzioni in modo
armonico. Possiamo dire dunque che Montesquieu è il primo a
stabilire una relazione strutturale tra i regimi politici e le forme
di cultura e di organizzazione della società.
Questo stesso approccio teorico si ritrova poi in Tocqueville, il
quale espressamente dichiara di avere avuto Montesquieu come modello
allorché scrisse La democrazia in America. Esistono
certamente delle differenze sostanziali tra la repubblica vista da
Montesquieu e la democrazia vista da Tocqueville, ma in entrambi i
casi la stabilità dello Stato è fondata sull'influenza
predominante esercitata dai costumi e dalle credenze degli
individui. Di particolare rilievo per Tocqueville è la forma
accentrata o decentrata di organizzazione della società
civile e dello Stato: nel caso americano, ad esempio, il
decentramento politico, la forte diffusione dell'associazionismo e
il pluralismo delle identità sociali e locali costituiscono
il principale antidoto alla "tirannide della maggioranza" che
potrebbe derivare, secondo Tocqueville, dalle tendenze egualitarie
connesse all'affermazione stessa della democrazia. Nel caso
francese, invece, la fine dell'antico regime era dipesa proprio,
più che dall'aumento di potere dei vari stati sociali, dalla
massima centralizzazione della monarchia stessa, che aveva tolto
ogni finalità e ogni significato alle comunità sociali
e locali, facilitando l'esito rivoluzionario. In sostanza,
ritroviamo in Tocqueville, come in Montesquieu, un approccio di
'sociologia comparata', fondato su un'analisi condotta, certo, su
pochi casi nazionali, ma capace di individuare i nessi strutturali
esistenti tra la dimensione socio-culturale e quella
politico-istituzionale della società. Questi due autori,
d'altra parte, sono interessati a costruire una tipologia o una
classificazione e non un modello di relazioni causali tra le diverse
parti della società. Essi si guardano bene dall'affermare che
i diversi livelli o elementi della società si implicano l'un
l'altro necessariamente. Le relazioni di interdipendenza che essi
stabiliscono tra tali elementi, nei sistemi nazionali studiati, non
sono mai assimilabili a delle connessioni 'forti' di tipo causale
(se A, allora B), ma a delle connessioni 'deboli' di tipo
probabilistico (se A, allora il più sovente B).
L'attenzione alle specificità culturali e politiche di
singoli casi nazionali, infine, ha sospinto in particolare
Tocqueville su terreni avanzati anche per quanto riguarda il ruolo
svolto dagli attori sociali nel contesto storico esaminato. A questo
proposito c'è chi ha visto in Tocqueville un antesignano
dell'individualismo metodologico, almeno nella sua versione
weberiana. In definitiva, Montesquieu e Tocqueville ci interessano
in questo contesto non soltanto perché in essi ritroviamo un
primo esempio di analisi della struttura sociale a livello macro
(come sistema di relazioni tra le parti della società), ma
anche perché a questo si accompagna un approccio teorico
privo di intonazioni deterministiche. Inoltre, almeno in
Tocqueville, troviamo implicitamente il tentativo di stabilire un
raccordo tra il piano sistemico delle strutture sociali e quello
storico delle logiche dell'azione.
MARX
Rispetto a Montesquieu e a Tocqueville (e a gran parte della
filosofia politica classica), Marx ci interessa qui non solo
perché introduce espressamente il concetto di struttura (e
sovrastruttura) della società, ma anche perché amplia
il campo di osservazione, sottolineando l'importanza della 'sfera
della produzione', cioè della sfera economica e tecnologica,
accanto a quelle politico-giuridica e socio-culturale, affermando
l'esistenza di nessi di determinazione causale tra di esse. La
struttura della società è per Marx anzitutto una
realtà economica, avendo a che fare con le basi materiali
dell'esistenza e con i rapporti di produzione. A questo proposito,
tuttavia, non si deve dimenticare che, per Marx, l'economia non
è separabile analiticamente dalla società, essendo
sempre considerata un fatto 'storico' e in quanto tale comprensibile
solo all'interno di determinati rapporti sociali. Proprio per
questo, molti dei concetti di Marx conservano un margine di
ambiguità e non si prestano a una formalizzazione analitica
rigorosa. Nei 'rapporti di produzione', ad esempio, che pur
appartengono alla 'struttura', un ruolo importante gioca, come
sappiamo, la proprietà dei mezzi di produzione: questa,
però, come nota Raymond Aron (v., 1967; tr. it., pp.
182-183), come tutti i rapporti giuridici, appartiene alla sfera
della 'sovrastruttura' e mal si comprende, da un punto di vista
strettamente analitico, come possa costituire un elemento
determinante della struttura. E lo stesso può dirsi per
quanto riguarda il ruolo delle conoscenze scientifiche, che sono per
Marx un elemento importante delle forze produttive, ma che in
realtà "sembrano appartenere al campo delle idee o del sapere
e dovrebbero rientrare, quindi, anche esse, nella sovrastruttura"
(ibid.). Pur con questi margini di ambiguità analitica, il
concetto di struttura di Marx resta nondimeno un poderoso strumento
euristico, che ha ispirato, direttamente o indirettamente, una vasta
serie di studi e di ricerche in campo sociologico. La sua forza
teorica discende dall'essere posto come elemento causale o
'determinante' della sovrastruttura culturale, politica e
istituzionale della società. Come afferma Marx (v., 1859; tr.
it., p. 5) in uno dei suoi passi più celebri: "Nella
produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in
rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro
volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un
determinato sviluppo delle loro forze produttive materiali.
L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura
economica della società, ossia la base reale su cui si eleva
una sovrastruttura politica e giuridica e alla quale corrispondono
forme determinate di coscienza. Il modo di produzione della vita
materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e
spirituale della vita".
Da questo concetto di struttura, dai connotati essenzialmente
economici, occorre distinguere il concetto più ampio di
struttura sociale, come relazione che collega i rapporti di
produzione alla cosiddetta 'sovrastruttura' (l'insieme della
coscienza sociale e della cultura giuridica, politica, filosofica a
essi congruente). Questo secondo tipo di struttura sociale è
detto "formazione economico-sociale". D'ordinario, nelle formazioni
economico-sociali storicamente osservabili, si dà congruenza
tra i rapporti di produzione e la sovrastruttura. Per lunghi tratti
della loro storia, le società appaiono godere di una
condizione di equilibrio tra gli elementi economico-materiali di
base e quelli politici, culturali e istituzionali. Questo equilibrio
è garantito dall'esistenza di classi dominanti, saldamente al
controllo delle forze produttive e in grado di imporre la propria
visione del mondo, le proprie idee, come idee generali o
universalmente valide. Se la base economica determina, in generale,
le forme della coscienza sociale e le istituzioni politiche e
culturali, queste ultime, a loro volta, garantiscono la riproduzione
della società e del suo assetto di classe. Con il concetto di
formazione economico-sociale, dunque, Marx ci offre anzitutto un
modello strutturale di equilibrio della società, in cui, a
partire dal ruolo determinante della base economica, tutte le parti
della società 'si tengono l'un l'altra' in una relazione di
congruenza reciproca. Ma, accanto a questo modello statico (o di
equilibrio) della società, è possibile individuarne in
Marx un altro che possiamo chiamare dinamico (v. Collins, 1988; tr.
it., p. 107) nel quale la struttura sociale cambia attraverso suoi
propri processi interni o 'contraddizioni'. Il passaggio dal modello
statico a quello dinamico avviene quando, nella formazione
economico-sociale storicamente data, irrompono nuove forze
produttive. Come scrive Marx (v., 1859; tr. it., p. 5): "A un dato
punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della
società entrano in conflitto con i rapporti di produzione
esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne
sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze si
erano finora mosse. Da forme di sviluppo delle forze produttive,
questi rapporti si convertono in loro catene. Si apre allora
un'epoca di rivoluzione sociale. Con il mutamento della base
economica, si sconvolge più o meno rapidamente tutta la
gigantesca sovrastruttura".
Sia nel modello statico che in quello dinamico di società, le
relazioni tra le parti del sistema (che sono di equilibrio, nel
primo caso, e di contraddizione e cambiamento, nel secondo) sono
presentate da Marx come 'necessarie', cioè come relazioni di
determinazione causale (sono i rapporti di produzione che, nel
modello statico, spiegano la sovrastruttura; sono le nuove forze
produttive che, nel modello dinamico, spiegano il cambiamento).
Questo elemento di determinazione causale che caratterizza la teoria
di Marx è stato al centro, come sappiamo, di innumerevoli
critiche, secondo le quali Marx avrebbe reso gli uomini solo
apparentemente liberi, inserendoli entro un corso della storia
segnato, sempre e comunque, dai fattori legati alla produzione.
Secondo queste critiche, il piano sistemico-strutturale dell'analisi
avrebbe il predominio, in Marx, rispetto a quello storico-sociale. A
questo proposito, tuttavia, occorre distinguere tra il Marx del
Capitale e quello delle opere storico-politiche dedicate all'analisi
della lotta di classe in Francia o in Germania. È quanto
fanno, in effetti, quegli autori che tendono a sfumare il lato
deterministico del pensiero di Marx, sottolineandone piuttosto
l'approccio fondamentalmente storico (v. ad esempio Abrams, 1982;
tr. it., p. 19). Da questo punto di vista, sembra possibile
considerare, almeno in parte, il pensiero di Marx non così
agli antipodi, come di solito viene fatto, rispetto alla teoria
dell'azione e, in particolare, al pensiero di Weber, con il quale
esso condivideva la comune matrice storicistica tedesca. Ad esempio,
si può sostenere che il metodo marxiano della "astrazione
determinata", secondo cui occorre risalire alla formulazione di
concetti astratti a partire da un'esigenza di comprensione di
determinati contenuti, presi nella loro singolarità storica,
non è poi tanto dissimile da quello weberiano della
"tipizzazione ideale" (v. anche Boudon, 1992; tr. it., p. 32).
D'altra parte, se è vero che per Marx il cambiamento della
struttura sociale (cioè il passaggio da un modo di produzione
a un altro) è possibile solo quando si verifica un
determinato sviluppo delle forze produttive, è anche vero che
tale possibilità è affidata storicamente da questo
autore all'azione consapevole degli uomini e, in particolare, a una
classe emergente che assume il controllo delle nuove forze
produttive, entrando in conflitto con le vecchie classi dominanti.
Da questo punto di vista possiamo concludere dicendo che la teoria
della struttura sociale di Marx "presuppone di fatto un
parallelismo" tra il piano sistemico-strutturale delle relazioni
oggettive tra le diverse parti della società e quello
storico-sociale delle relazioni soggettive tra le classi sociali (v.
Smelser, 1988, p. 114).
WEBER
Al contrario di Marx, Weber non ha un modello strutturale 'chiuso'
di società, anche se si propone il compito di analizzare le
relazioni di interdipendenza che esistono, a livello macro, tra le
diverse parti o livelli della realtà sociale. Per Weber, il
mondo non sta insieme alla maniera di una grande unità
sociale. Egli, come sappiamo, ha una visione della società
come realtà complessa e multidimensionale, ricca di
sfaccettature e osservabile da più punti di vista. Ed
è per questo che Weber sviluppa lo strumento del "tipo
ideale", che permette di semplificare la complessità sociale,
tramite l'accentuazione di un aspetto specifico di essa. Troviamo
così in Weber dei modelli ideali di burocrazia, classe,
mercati, ecc., ciascuno dei quali permette di cogliere un lato della
realtà storica, ma riesce difficile individuare nel suo
pensiero un concetto di struttura sociale complessiva analogo a
quello di Marx. In Weber, tuttavia, troviamo analisi
storico-comparate molto ampie, volte a mettere in luce i reciproci
condizionamenti che intercorrono tra economia, religione e
società. Da questo punto di vista, possiamo dire che Weber
studia la struttura delle relazioni di interdipendenza tra
macrofenomeni, attribuendo spesso maggiore importanza ai fenomeni
religiosi o istituzionali che non a quelli strettamente economici
(è l'economia, infatti, e, in particolare, lo sviluppo
capitalistico, che egli vuole spiegare). L'approccio di Weber al
concetto di struttura, pertanto, è più vicino a quello
di Tocqueville che a quello di Marx. Un approccio che non prevede
relazioni 'strette' di causa-effetto, ma è aperto alla
comprensione di combinazioni storiche specifiche tra i fenomeni
osservati.
Questo non vuol dire che Weber non analizzi singole importanti
strutture sociali. Così, ad esempio, egli descrive la
burocrazia come una macchina organizzata gerarchicamente in ruoli e
uffici, ricoperti da funzionari reclutati in base alle loro
credenziali educative e professionali, e in grado di affrontare in
modo efficiente compiti collettivi, entro un quadro formale e
sistematico di norme e regolamenti. Oppure analizza l'impresa
capitalistica moderna come un'istituzione che racchiude in
sé, in maniera sistematica, diversi elementi: la separazione
dell'attività domestica dall'azienda, la finalizzazione
dell'attività al profitto, il calcolo razionale dei fattori
produttivi (e l'uso dei libri contabili), senza dimenticare la
disponibilità di lavoro formalmente libero. Oppure, infine
(ed è questo forse l'esempio che più si avvicina a
un'analisi della struttura complessiva della società), egli
ci propone una concettualizzazione della stratificazione sociale (o
della struttura delle disuguaglianze sociali) articolata -
com'è noto - su più livelli e dimensioni: la 'classe
economica', fondata sulle differenze che si originano sui mercati
del lavoro, del credito e delle merci; il 'ceto sociale', come
comunità culturale, etnica, di stile di vita e senso di
appartenenza; e, infine, il 'partito', come fazione organizzata o
gruppo di potere, che può emergere sia a livello nazionale,
sia all'interno di ogni organizzazione.
Quest'ultimo esempio, relativo alla struttura delle disuguaglianze
sociali, si presta a qualche approfondimento, in particolare
rispetto alla concezione della struttura di classe che emerge
dall'analisi del Capitale di Marx. Mentre quest'ultima ha un
carattere di sistema 'chiuso' (le due classi fondamentali - la
borghesia e il proletariato - sono strutturalmente connesse tra loro
nel rapporto di estrazione del plusvalore ed esauriscono, in
sostanza, lo scenario delle classi 'che contano'), non possiamo dire
lo stesso per la stratificazione sociale che ci propone Weber. Alla
lotta tra capitalisti e operai Weber aggiunge la lotta dei
proprietari dei capitali finanziari contro coloro che contraggono
prestiti e quella dei venditori contro i compratori. Egli suddivide
poi le classi in ceti che conquistano il controllo di settori
particolari dei mercati economici. Sorge un mercato secondario degli
attributi di ceto che tende ad allargarsi a macchia d'olio
sovrapponendosi alle linee di divisione economiche primarie. Infine,
vi sono i partiti o gruppi di potere, organizzati in una sfera
diversa da quella delle classi ma pur sempre in relazione con esse.
Di fronte a questa realtà complessa e a più
dimensioni, in cui ogni dimensione conserva la sua autonomia,
dobbiamo chiederci se ci troviamo ancora davanti a una 'struttura'
delle disuguaglianze sociali o se, accogliendo fino in fondo il
messaggio che Weber ci manda, non dobbiamo ammettere che la
realtà sociale è assai più 'destrutturata' di
quanto pensiamo, essendo rappresentabile, forse, assai più
che come una 'struttura', come un magma di gruppi tra loro
confliggenti.
È proprio in questo contesto sociale relativamente meno
strutturato (rispetto a quello di Marx) che si comprende l'autonomia
del soggetto weberiano. Weber, come sappiamo, distinguendosi in
questo dalla maggior parte dei sociologi classici che hanno
privilegiato il piano sistemico di analisi della struttura sociale,
prende le mosse dall'agire sociale e afferma che la società
è edificata a partire dalle interpretazioni degli individui.
Da questo punto di vista, Weber è ritenuto da molti il
fondatore dell'individualismo metodologico contemporaneo. Una
notevole distanza intercorre tuttavia tra le analisi
storico-comparate di Weber e quelle microsociologiche, condotte sul
piano relazionale e interazionista, proprie dell'individualismo
metodologico contemporaneo. In effetti, Weber tende a ricostruire,
più che il senso dell'azione o dell'interazione strettamente
individuale, quello dell'azione tipico-ideale di un gruppo o,
più spesso, di una 'media' o categoria di soggetti agenti (su
questo punto torneremo nel cap. 12, a proposito dell'individualismo
metodologico 'debole' di Raymond Boudon).
D'altra parte, se è vero che, come abbiamo appena notato, la
società risulta in Weber relativamente magmatica o meno
strutturata di quanto non appaia in Marx, è anche vero che
essa non può essere ridotta a un insieme di rapporti del
tutto fluidi. Le strutture sociali hanno origine, certo,
dall'interazione sociale (nel senso che, per Weber, esse esistono
solo finché esistono determinati modi di agire reciproci,
orientati in determinati sensi), ma Weber è ben consapevole
del carattere vincolante del contesto strutturale. Il passaggio
dalla sociologia dell'azione weberiana all'individualismo
metodologico contemporaneo non è dunque così diretto e
privo di mediazioni. Certo, Weber può essere considerato uno
dei fondatori dell'individualismo metodologico per la sua teoria del
Verstehen (come metodo volto a 'comprendere' le ragioni del
comportamento degli attori). Ma le ragioni degli attori, per Weber,
vanno comprese per assumerle come elemento cruciale di spiegazione
di fenomeni e processi macrosociali. Weber innova certamente
rispetto all'analisi strutturale di Marx proprio in quanto appronta
una metodologia esplicita in grado di cogliere il ruolo autonomo
degli attori sociali nello svolgimento dei processi storici (mentre
Marx, come abbiamo visto, si era limitato a presupporre un
parallelismo tra il piano sistemico-strutturale e quello dell'azione
sociale). Entrambi questi autori, tuttavia, si muovono
essenzialmente a livello dell'analisi storico-comparata delle
macrostrutture - un livello, questo, che è raramente attinto
dalla ricerca contemporanea sviluppatasi entro il paradigma
dell'individualismo metodologico.
SPENCER E DURKHEIM
A una diversa concezione della struttura sociale ci introduce il
pensiero di Spencer e Durkheim, i quali, a differenza di Weber (e,
almeno in parte, di Marx), privilegiano la prospettiva sistemica di
analisi della struttura sociale rispetto a quella storico-sociale.
Spencer, come sappiamo, concepiva la società come un
organismo o una "realtà superorganica", le cui parti, ben
integrate, contribuiscono con la loro attività al
funzionamento dell'insieme. Gli organi della società sono le
istituzioni cerimoniali, politiche, militari, ecclesiastiche,
professionali e industriali (queste ultime, ad esempio,
costituiscono nel corpo sociale un sistema nutritivo analogo a
quello che nel corpo vivente provvede all'alimentazione). La nozione
di struttura sociale emerge qui chiaramente come interdipendenza
organica tra le parti della società, ciascuna delle quali
svolge la sua funzione all'interno di un'armonica divisione del
lavoro. Questa analogia tra la società e l'organismo umano,
tuttavia, non può essere spinta troppo oltre. Come osserva lo
stesso Spencer, nell'organismo umano le parti sono fisicamente unite
le une alle altre, sicché la struttura complessiva
dell'organismo è immediatamente visibile, ma non è
così per l'organismo sociale, che è 'discreto' e la
cui struttura esiste solo, diremmo oggi, come modello astratto,
ricostruito dall'osservatore a partire dalle funzioni svolte dalle
singole parti o istituzioni della società.
La critica che si può fare alla nozione di struttura sociale
di Spencer è che essa non discende da un'analisi storica
della società, ma è dedotta da un principio filosofico
originario. In effetti, fin dall'inizio del suo sistema, Spencer
enuncia la generalizzazione secondo la quale ogni cosa si evolve da
uno stato di particelle caotiche e uguali a una condizione di
interdipendenza differenziata. Egli applica poi questo principio
all'evoluzione sia degli organismi biologici che delle
società umane. Questo approccio sostanzialmente astorico
rende poi difficile a Spencer conciliare il carattere organico della
società con la libertà d'azione dell'individuo (che
pure egli difende, conformemente alle sue convinzioni politiche e
sociali). La storia dell'uomo è completamente ridotta a
evoluzione naturale e l'individuo appare sostanzialmente come un
organo (o una cellula di un organo) senza alcun significato o valore
autonomo. In Spencer, insomma, è la struttura che ha la
priorità sull'individuo.
Spencer, insieme con Comte, fu uno degli ispiratori del pensiero di
Durkheim. In effetti il modello di Durkheim, secondo cui le
società evolvono da segmenti isolati a una complessa
divisione del lavoro, è essenzialmente quello di Spencer.
Tutta l'opera di Durkheim, tuttavia, è puntigliosamente
metodologica e rivolta ad affermare le basi scientifiche della
sociologia. I fatti che Spencer si limitava a raccogliere per
illustrare il principio generale dell'evoluzione dagli organismi
semplici a quelli complessi, diventano per Durkheim gli elementi di
una comparazione sistematica tra le società (tramite il
metodo delle 'variazioni concomitanti'), sulla base della quale
soltanto è possibile stabilire i principî generali.
Questa tensione metodologica non è presente solo nei suoi
lavori più esplicitamente metodologici o di ricerca empirica
(come Il suicidio), ma è sottesa a tutta la sua opera.
È per questa tensione analitico-metodologica presente nel
pensiero di Durkheim che il concetto di struttura sociale, anche se
il termine specifico è usato solo di passaggio, è di
importanza fondamentale nella sua sociologia. D'altra parte, l'idea
che dietro la realtà sociale esista, per così dire,
una 'struttura profonda' o nascosta, che lo scienziato sociale
può decifrare, si rivelerà un'idea assai fertile e
influenzerà, come vedremo, lo sviluppo di varie teorie
sociologiche e antropologiche (da Radcliffe-Brown a Parsons, da
Lévi-Strauss allo strutturalismo francese). La domanda
principale alla quale Durkheim voleva rispondere era, come è
noto, la seguente: cosa tiene insieme la società? La risposta
che egli dà si svolge sostanzialmente a più livelli
tra loro strettamente connessi: un livello demografico-sociale, uno
sociale-relazionale e uno, infine, culturale, inteso come il livello
dei sentimenti, delle regole morali e delle 'rappresentazioni
collettive' (l'economia, come campo di fenomeni che gli economisti
si ostinano a declinare in termini individualistici, è da
Durkheim esclusa da un'analisi diretta). Il fattore chiave,
tuttavia, è da cercarsi probabilmente nella struttura
'fisica' o socio-demografica della società. È questa
che dà origine alle variazioni osservate nella divisione del
lavoro e nei rapporti sociali tra gli individui. Laddove esiste
un'alta densità demografica e sociale, gli individui
sviluppano progressivamente ruoli sempre più specializzati e
la struttura sociale si modifica in direzione di una complessa
divisione del lavoro. Le variazioni nella densità sociale,
d'altra parte, esercitano effetti profondi anche sulle idee e sui
sentimenti morali degli individui. Un'alta densità sociale,
infatti, dà origine a una intensificazione dei contatti, a
maggiori possibilità di interazione (ciò che Durkheim
chiama "densità morale"), e questo, a sua volta, genera idee
e sentimenti comuni. Emergono così gradualmente, attraverso
pratiche che nel tempo si ritualizzano, una cultura comune e una
'coscienza collettiva' (che non sono proprie esclusivamente di
società semplici o primitive, ma caratterizzano, sia pure in
forme attenuate, anche le moderne società complesse). La tesi
generale di Durkheim, dunque, è che gli aspetti 'fisici'
della struttura determinano non solo gli aspetti sociali (le forme
della divisione del lavoro e della solidarietà sociale), ma
anche gli aspetti intellettuali e morali.
Vuoi nel suo significato di morfologia 'fisica' della realtà
sociale, vuoi in quello di intelaiatura astratta sottostante ai
rapporti tra i fenomeni sociali, la nozione di struttura sociale di
Durkheim appare sempre costrittiva dell'azione individuale. È
vero che, in particolare negli scritti della maturità, egli
sottolinea l'importanza di comportamenti collettivi almeno in parte
'creativi' rispetto alle strutture sociali date. Ma è anche
vero che lo studio del suicidio ha provato agli occhi di Durkheim
l'esistenza di strutture sociali profonde che sovrastano
l'individuo. Nell'opera dedicata al metodo della sociologia, del
resto, egli afferma, come sappiamo, che i fatti sociali vanno
considerati "come cose", intendendo con ciò sottolineare che
essi vincolano gli individui dall'esterno.
GRAMSCI
Può essere interessante, a questo punto, esaminare alcuni
aspetti del pensiero di Gramsci. Questo autore ci interessa qui
perché propone una diversa lettura dei rapporti che Marx
aveva posto tra struttura e sovrastruttura (e una diversa concezione
della struttura stessa). In effetti, quando Marx effettua la sua
critica a Hegel, appoggia sulla struttura economica tutta la
'gigantesca sovrastruttura', che risulta comprensiva anche delle
strutture sociali e culturali della società civile. Si
origina qui una decisiva differenziazione analitica tra Marx e
Gramsci. Se è vero che entrambi combattono Hegel, quale
teorico della supremazia dello Stato sulla società civile,
è anche vero che il 'rovesciamento' dei rapporti tra Stato e
società che opera Marx comporta un passaggio spinto fino a
dare il primato alla 'anatomia della società civile' e
cioè alla sfera economica e materiale, mentre quello che
opera Gramsci è un passaggio dallo Stato alla società
civile nella sua interezza, comprensiva anche delle sue strutture
sociali e culturali. Gramsci cioè non punta ad affermare,
contro lo Stato etico hegeliano, un primato diretto ed esclusivo
della struttura economica, ma una più complessiva autonomia
della sfera sociale e culturale. Egli dà grande importanza
alla Chiesa, ai sindacati, alla scuola, ecc. come strutture nelle
quali si esercita l'egemonia di un gruppo sociale sull'intera
società. E ciò vale soprattutto, osserva Gramsci (v.,
1975, p. 866), per l'Europa occidentale, dove "tra Stato e
società civile c'è un giusto rapporto e nel tremolio
dello Stato si scorge subito una robusta struttura della
società civile [...] mentre in Russia lo Stato è tutto
e la società è primordiale e gelatinosa". È
proprio qui che l'analisi di Gramsci diventa preziosa, non solo per
un approfondimento dell'interpretazione marxiana, ma anche per
l'interazione in cui essa entra, oggettivamente, con gli sviluppi
del pensiero sociologico.
Gramsci, peraltro, affronta anche il problema dei rapporti tra
soggetto e struttura o, come egli preferisce dire, tra
libertà e necessità dell'azione storica. Esaltando gli
elementi di 'soggettivismo' già presenti in Marx, Gramsci
insiste molto sulla creatività e individualità del
singolo. Queste qualità si realizzano pienamente nel processo
sociale, nel quale l'uomo lotta per affermare i suoi valori e le sue
idee. Nella società si assiste, in particolare, a una
pluralità di 'conformismi' intesi - in senso quasi weberiano
- come progetti collettivi, costruiti dagli uomini e nei quali essi
si riconoscono (v. Gramsci, 1975, p. 1821). Questi conformismi
sociali si basano su un'adesione riflessiva e consapevole dei
singoli. In ogni momento, dice Gramsci, "c'è una scelta
libera, che avviene secondo certe direttrici identiche per una gran
massa di individui o volontà singole, in quanto queste sono
diventate omogenee in un determinato clima etico-politico" (ibid.,
p. 1246).In definitiva, Gramsci ci propone un concetto di struttura
della società che non era presente in Marx. Esso è
elaborato assai più su un terreno sociologico o antropologico
che su quello della economia politica sul quale poggia
prevalentemente il modello marxiano. Inoltre Gramsci, pur restando
convinto dell'importanza fondamentale della struttura economica,
ebbe chiara e netta coscienza dell'autonomia dell'azione sociale e
della molteplicità della processualità storica. (Su
tutto ciò, v. anche Paci, Gramsci..., 1992).
RADCLIFFE-BROWN E PARSONS
Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, un filone di studi
dichiaratamente 'strutturale' si sviluppò all'interno
dell'antropologia culturale inglese. L'esponente principale di
questo filone fu A.R. Radcliffe-Brown (v., 1952) che sviluppò
il suo approccio in esplicita critica alla mancanza di precisione
mostrata nell'uso del concetto di cultura da Malinowski.
Radcliffe-Brown considerava cultura e struttura sociale come due
piani nettamente differenti, benché interconnessi, della
realtà sociale. Ogni pratica culturale doveva essere spiegata
in termini di funzioni svolte all'interno del contesto sociale. La
funzione di ogni attività ricorrente, egli afferma, "consiste
nella parte che tale attività svolge nella vita sociale
considerata come un tutto e pertanto nel contributo che essa
dà al mantenimento della continuità strutturale"
(ibid., p. 181). Da questo punto di vista, Radcliffe-Brown si
rifà esplicitamente a Durkheim, al quale dedica, nel 1910,
una serie di lezioni intitolate La struttura sociale. Egli
attribuisce a Durkheim il merito di aver posto i fondamenti
dell'analisi strutturale-funzionale, in base alla quale ogni pratica
sociale può essere vista come un'attività che
favorisce o ostacola l'integrazione della società.
Radcliffe-Brown opera una esplicita distinzione tra il flusso delle
vicende che si svolgono alla superficie della società (che
egli chiama "organizzazione sociale") e le forme sottostanti
relativamente inalterate nel tempo (che chiama "forme strutturali").
In sintesi, possiamo dire che in Radcliffe-Brown la struttura
sociale è definita da tre aspetti: anzitutto, essa è
concepita come 'forma' o schema astratto, distinto dalla
fenomenologia sociale concretamente osservata; in secondo luogo,
essa è data come interdipendenza di elementi componenti di un
sistema sociale visto come un tutto; in terzo luogo, essa è
indissolubilmente legata al concetto di funzione (cioè al
modo in cui le singole parti componenti collaborano le une con le
altre e con il sistema complessivo).
Anche in Parsons è possibile distinguere tre concetti di
struttura sociale: il primo è riferito all'azione sociale, il
secondo alle relazioni reciproche tra i soggetti agenti e il terzo
alla società nel suo complesso e alle sue sottounità.
Nel primo caso, Parsons usa esplicitamente il termine struttura,
mentre preferisce piuttosto il termine sistema ("sistema di
relazioni" e "sistema sociale") negli altri due casi. L'azione
sociale, per questo autore, ha una struttura multidimensionale, nel
senso che può essere scomposta analiticamente in elementi,
individuali e sociali, tra loro in rapporto. Gli elementi soggettivi
(o 'interni') dell'azione sono di tipo motivazionale (legati alla
personalità) o comportamentali (connessi con lo 'sforzo' o
l'impegno del soggetto nella situazione data). Quelli oggettivi (o
'esterni') sono sostanzialmente sociali (norme, valori, ruoli e
sanzioni) o situazionali (i mezzi e le condizioni date). Questa
concezione multidimensionale della struttura dell'azione sociale
è importante per le possibilità che essa apre di
superare analiticamente il dualismo tra struttura e azione e la
contrapposizione tra il piano macro e quello micro dell'analisi
sociologica (v. oltre in questo stesso capitolo).
In Parsons, come già detto, è possibile parlare di
struttura anche in un altro senso, cioè con riferimento al
sistema delle relazioni reciproche tra gli attori sociali. Tale
sistema è concettualizzato infatti come un insieme di
rapporti considerati non in relazione ai singoli individui
concretamente coinvolti, ma in relazione a diverse e interrelate
posizioni sociali (gli status) e alle attività tipiche dei
soggetti agenti collegate a esse (i ruoli). Questa nozione di
struttura (o sistema) di status e di ruoli, che sarà ripresa
e approfondita in termini operativi da Robert Merton (v., 1949) con
il concetto di "assetto di ruolo", ha costituito la base analitica
essenziale della sociologia delle micro-strutture e della 'analisi
di rete' americana (v. oltre, cap. 10).
Un terzo concetto di struttura sociale è riconoscibile nella
elaborazione teorica di Parsons con riferimento al suo modello
complessivo di sistema sociale. Come è noto, nel costruire
tale modello Parsons non muove dalla osservazione di specifici casi
storici di società nazionali, ma intende individuare i
componenti essenziali di qualsiasi società esistente,
esistita o che potrebbe esistere (come pure di qualsiasi
sottosistema sociale interno alla società). Più
precisamente, egli ha inteso rispondere alla seguente domanda: quali
sono le funzioni fondamentali che devono essere svolte in qualsiasi
società? Come sappiamo, per Parsons tali funzioni sono
quattro: la conservazione del modello latente (una sorta di
programma culturale e motivazionale); l'integrazione sociale (il
controllo della devianza e delle perturbazioni eccessive); il
conseguimento degli scopi (l'output da raggiungere in relazione
all'ambiente circostante); e l'adattamento (il mantenimento del
sistema in relazione agli inputs provenienti dall'ambiente). Si
origina così uno schema a quattro settori o quadranti (uno
per ciascuna funzione), ciascuno dei quali a sua volta può
essere suddiviso in quattro, dando vita ai propri sottosettori o
sottoquadranti. Questo schema di sistema sociale di Parsons
costituisce una rappresentazione della struttura essenziale o
'profonda' della società: esso ci mostra l'esistenza di
relazioni di interdipendenza tra le quattro funzioni fondamentali e
l'effetto di integrazione sistemica complessiva che ne consegue.
Parsons precisa anche che il sistema sociale funziona in modo
equilibrato perché vi è una gerarchia di controllo al
suo interno che va dal livello più generale o elevato dei
valori a quelli sotto-ordinati delle norme di comportamento, dei
ruoli e delle sanzioni. L'efficacia di questo sistema di controllo
sociale è garantita per Parsons, come sappiamo, dai processi
di apprendimento e comunicazione e, in particolare, dalla
socializzazione primaria del bambino nella famiglia. Parsons
riprende qui le teorie di Freud relative al processo di
identificazione con il genitore, nella forma del 'Super-Ego', e
quindi di interiorizzazione dei valori fondamentali e delle norme di
comportamento. L'importanza di questo passaggio della teoria
parsonsiana per il nostro discorso risiede nel fatto che esso
rappresenta un tentativo di superamento del dualismo tra struttura e
soggetto, tra piano sistemico macro e piano sociale micro. Tramite i
processi di socializzazione e apprendimento, in effetti, "i valori e
le norme del sistema possono diventare anche i valori e le norme
dell'attore, cioè i motivi in base a cui un agire
soggettivamente significativo è realizzato in base a criteri
condivisi con gli altri membri della collettività.
L'internalizzazione del macro attraverso le diverse fasi della
socializzazione [...] porta alla formazione di una
personalità individuale, a un tempo sociale e individuata,
personale. Il macro è così diventato micro e questo a
sua volta diviene macro attraverso gli effetti che l'azione sociale
ha nel mondo sociale" (v. Addario, 1994, p. 87).
Molte critiche sono state rivolte alla 'grande teoria' parsonsiana.
Qui ci interessa ricordarne soltanto due, attinenti al concetto di
struttura (o sistema) sociale, nelle accezioni che abbiamo
menzionato. Anzitutto, la nozione di funzioni fondamentali (o di
'prerequisiti funzionali') è stata criticata in quanto
avrebbe un carattere trascendente. Come è stato osservato (v.
Kontopoulos, 1993, p. 157), queste funzioni, in quanto "condizioni
di esistenza" della società, sarebbero "logicamente
prioritarie rispetto alle strutture, esisterebbero da sempre, come
create, ab illo tempore, con l'atto primordiale di costituzione
della società e persisterebbero da allora con poche
modificazioni di struttura. Ma questa è illegittima
teleologia e molti studiosi sono giunti alla conclusione che questi
prerequisiti funzionali sono viziati da un eccesso di zelo teorico,
astorici e indimostrabili". In secondo luogo, per quanto riguarda il
rapporto struttura/attore, molti dubbi persistono sull'efficacia
della soluzione parsonsiana, che non sembra garantire un'effettiva
autonomia dell'azione: anche senza accettare in toto la vecchia
opinione - pur molto influente - di Dennis Wrong (v., 1961) circa la
concezione 'ultrasocializzata' dell'individuo propria
dell'impostazione parsonsiana, è vero che il sistema teorico
di Parsons ha connotazioni così fortemente olistiche che
riesce difficile immaginare un agire sociale "non modellato dal
sistema" (v. Granovetter, 1985) o effettivamente autonomo.
LA SURVEY RESEARCH
A un approccio sostanzialmente diverso ci introduce lo studio di
G.P. Murdock (v., 1949). L'interesse principale di questo autore
è rivolto alla costruzione di una classificazione delle
società primitive, sulla base di loro caratteristiche
evidenti e immediatamente discernibili. Ricorrendo al vasto
materiale documentario conservato presso lo Human Relations Area
File di Yale, Murdock ha effettuato un'analisi comparativa di circa
250 società, analizzando documenti scritti e monografie
antropologiche (di varia origine e qualità) secondo una
procedura rigorosa e uniforme. Egli ha anzitutto compilato una lista
dei possibili attributi elementari di ogni società: le regole
di residenza (matrilocale, patrilocale); di filiazione
(matrilineare, patrilineare); di trasmissione del patrimonio; le
regole relative alla proibizione dell'incesto; la terminologia
utilizzata per definire i diversi tipi di relazioni di parentela;
ecc. In secondo luogo, Murdock ha analizzato quali di questi
attributi erano presenti in ciascuna società, calcolando il
coefficiente di associazione tra di essi. Egli ha visto,
così, che la combinazione di questi attributi non è
casuale: un certo tipo di regola di residenza, ad esempio, aveva
più probabilità di essere associato a un certo tipo di
regola di filiazione e a certe istituzioni matrimoniali che non ad
altre.
La tipologia delle società primitive così costruita ha
una base essenzialmente statistica e non teorica. A differenza degli
antropologi funzionalisti (come ad esempio Radcliffe-Brown), Murdock
non ha una teoria a priori delle interdipendenze sociali, ma
considera - all'inizio - le parti o gli attributi della
società come indipendenti fra loro. La somiglianza tra due
società (e la loro classificazione entro lo stesso tipo)
scaturisce ex post da un fatto statistico, cioè dal numero
delle volte che esse condividono gli stessi attributi. Per la
verità Murdock (ibid., cap. 8 e appendice) affronta tale
problema nei termini di una teoria evoluzionista piuttosto rozza che
gli è valsa molte critiche. Questo punto merita, tuttavia,
qualche approfondimento. È vero, infatti, che il concetto di
struttura sociale, così come l'abbiamo sin dall'inizio
definito, presuppone una teoria delle relazioni di dipendenza o
interdipendenza tra le componenti della struttura stessa. Tuttavia,
la teoria non è necessariamente un prius rispetto
all'accertamento empirico di determinate relazioni, ma può
benissimo costituire un approfondimento ulteriore rispetto a tale
accertamento. Per Weber, ad esempio, la costruzione di tipologie
sulla base dell'osservazione storico-empirica è un passaggio
essenziale per l'elaborazione di una teoria. D'altra parte, la
preesistenza di una teoria rispetto al momento empirico (o la sua
natura interamente deduttiva) può portare a spiegazioni
astoriche e infondate della struttura sociale. Non è questa
la critica che abbiamo appena rivolto alle teorie organiciste e
funzionaliste della struttura sociale? Si può dire dunque che
il concetto di struttura sociale di Murdock si situa a un livello di
generalizzazione teorica 'debole'. Se, da un lato, esso evita le
secche di una definizione a priori, irrigidita entro schemi teorici
organicisti o funzionalisti, dall'altro appare uno strumento
prevalentemente classificatorio e, perciò stesso, preliminare
a una vera comprensione teorica delle strutture osservate.
Da questo punto di vista, l'approccio di Murdock è
esemplificativo di un tipo più generale di 'sociologia
quantitativa', fondata spesso su dati raccolti tramite indagini
campionarie, che Raymond Boudon (v., 1992; tr. it., pp. 18-19)
chiama "fisica sociale" e contrappone alla sociologia dell'azione.
In effetti, nel corso degli anni cinquanta e sessanta, prima negli
Stati Uniti e successivamente in Europa, in connessione con la
diffusione e il perfezionamento delle tecniche della survey
research, si sviluppa notevolmente lo studio empirico della
struttura sociale, nei suoi diversi aspetti. Le indagini
campionarie, sorte inizialmente a fini di marketing o di analisi
dell'audience radiofonica e televisiva, utilizzavano, come variabili
predittive degli atteggiamenti dei consumatori o degli ascoltatori,
dati relativi al background sociale e familiare degli intervistati,
che nel loro insieme fornivano una definizione operativa della
struttura sociale. Si è accumulato così nel tempo un
vasto insieme di informazioni, prevalentemente quantitative, sulla
struttura sociale - così operativamente definita - e sulle
sue connessioni con i più svariati atteggiamenti e
comportamenti della popolazione. Inoltre, benché tali dati
fossero finalizzati allo studio delle caratteristiche degli
individui, essi permisero anche lo studio di gruppi sociali,
organizzazioni, comunità e aree territoriali, con una
descrizione articolata della struttura sociale mai raggiunta in
precedenza. Espressioni come 'struttura socioprofessionale' o
'struttura di classe' della società, nelle quali il termine
struttura è praticamente sinonimo di distribuzione, hanno
acquistato in tal modo un significato operativo e quantitativo
preciso.
Questo uso del concetto di struttura sociale, tuttavia, ha nascosto
un generale vuoto teorico. Di solito queste analisi quantitative
sono rimaste sul piano certamente utile ma puramente descrittivo
della realtà sociale, riuscendo raramente a elaborare qualche
teoria. (Questo è il caso, ad esempio, della teoria dei
'gruppi di riferimento', sviluppata da Merton sulla base dei dati di
survey raccolti presso l'esercito americano durante la seconda
guerra mondiale). Questi limiti della survey research nella
concettualizzazione della struttura sociale derivano in particolare
dalla scarsa capacità dei dati campionari, anche di quelli
che hanno conosciuto le più sofisticate elaborazioni
statistiche, di cogliere la dimensione storica o di medio-lungo
periodo dei fenomeni studiati. Questo richiede, infatti, il ricorso
combinato a più metodologie di indagine, in modo che i dati
di survey vengano arricchiti, ad esempio, dall'analisi dei fatti e
delle vicende storiche, dall'analisi documentaria, da quella
biografica o di 'storie di vita', dagli stessi dati statistici
seriali relativi all'universo studiato, ecc. Ma raramente i
sociologi della survey hanno mostrato questa sensibilità,
restando invece per lo più assorbiti entro il meccanismo
metodologico, di per sé gratificante, dell'indagine
campionaria e delle sue performances statistiche e quantitative.
Rientrano in questo genere sociologico, secondo Boudon (ibid., p.
19), anche "gli studi sulla stratificazione sociale che si pongono
nella tradizione della 'fisica sociale', come quelli di Blau e
Duncan (1967) negli Stati Uniti, di Goldthorpe e altri (1980) in
Inghilterra, di Thélot (1982) in Francia, di Girod (1977) in
Svizzera" e, potremmo aggiungere, quello di Cobalti e Schizzerotto
(v., 1994) in Italia. Questi studi, continua Boudon (v., 1992; tr.
it., p. 19), sono indubbiamente assai utili, in quanto "cercano di
determinare in quale misura la posizione degli individui nella
società è influenzata dalla loro origine sociale, dal
loro livello scolastico e da altre variabili dello stesso tipo".
Essi, tuttavia, si differenziano dagli studi di sociologia
dell'azione, in quanto quest'ultima "considera lo studio statistico
delle correlazioni, di cui la 'fisica sociale' è così
ghiotta, come una semplice tappa dell'analisi oltre la quale si
devono anche ricercare le ragioni dei comportamenti" (ibid., p. 20).
Anche nei confronti di questa 'fisica sociale' o 'sociologia
statistica', dunque, vale quanto abbiamo già osservato in
precedenza e cioè che, partendo da un tipo di
concettualizzazione astorica della struttura sociale, ci si imbatte
nella difficoltà insuperata di raggiungere il piano del
soggetto reale e della sua azione. La stratificazione sociale che
emerge, ad esempio, dalla distribuzione di frequenza di determinati
attributi individuali di un campione di popolazione (o da
qualsivoglia più raffinata elaborazione matematica di tali
attributi) ci consegna, nel caso migliore, una tipologia fondata
sulla coerenza interna di determinati aggregati statistici (che
possiamo convenzionalmente chiamare classi o strati sociali), ma non
ci permette di cogliere la reale struttura della società,
fatta di soggetti agenti sulla scena della storia. È il
difficile passaggio weberiano dall'agire 'di massa' all'agire 'di
comunità' (o anche, se si vuole, il passaggio più
generale dal piano sistemico a quello storico-sociale dell'analisi)
che non riusciamo, con questo approccio, a compiere. La vastissima
messe di dati raccolta, ad esempio, dagli studi sulla
mobilità sociale non ci permette di inferire con sicurezza
l'entità reale (o storica) dei passaggi da una classe
all'altra. E questo non solo perché la mobilità reale
dipende da processi demografici di lungo periodo - relativi a
fertilità, mortalità e immigrazione/emigrazione - che
non possono essere tenuti sotto controllo con i dati di survey e che
coinvolgono in misura differenziata le classi sociali (nonché
le generazioni dei padri e dei figli tra cui si misura la
mobilità sociale), ma anche perché la definizione
stessa di mobilità sociale ascendente o discendente dipende
dalla percezione degli individui e questa varia in relazione alle
vicende storiche in cui essi sono coinvolti: uno stesso tasso
statistico di mobilità tra due classi può essere
percepito come un'ascesa o un declino sociale, a seconda del
contesto storico in cui avviene (per esempio in relazione alla
situazione di sviluppo o di recessione economica o di rafforzamento
o indebolimento della rappresentanza sindacale o politica di
determinate classi o ceti sociali). Tutto ciò non vuol dire,
naturalmente, che questo tipo di studi sia inutile; tutt'altro: essi
ci consegnano certamente 'una parte della verità'. Ma per
attingere il piano della sociologia dell'azione e della comprensione
storico-concreta della struttura sociale, è necessario
integrare i dati di survey con altri apporti e altre metodologie.
STRUTTURALISMO E NEOMARXISMO
A partire dalla metà degli anni sessanta si assiste,
prevalentemente in Europa, a una ripresa di studi in campo marxista
volti a introdurre sostanziali innovazioni nel modello marxiano
originario e, più precisamente, nel concetto di struttura
come relazione di dipendenza causale tra economia e società.
Un primo importante sviluppo in questa direzione è costituito
dalla scuola strutturalista francese e, in particolare, da Louis
Althusser (v., 1965; v. Althusser e altri, 1968) e Nicos Poulantzas
(v., 1968 e 1974). Questi autori, d'altra parte, fanno
esplicitamente riferimento all'antropologia strutturale di Claude
Lévi-Strauss (v., 1949 e 1958), il quale sosteneva, nella
tradizione di Durkheim e di Mauss, che ogni elemento della cultura
di una società - le forme della parentela, la distribuzione
spaziale degli insediamenti, la religione, le forme d'arte, ecc. -
può essere riportato a una struttura profonda o sottostante.
A differenza di Radcliffe-Brown, il quale, come abbiamo visto,
concepiva il compito dell'antropologo come quello di costruire una
tassonomia delle società sulla base delle differenze di
struttura concretamente osservate, Lévi-Strauss è
interessato a mostrare piuttosto le differenze che intercorrono tra
le varie società e un dato modello astratto di struttura
sociale. Per esempio, è possibile immaginare una struttura
sociale ideale, caratterizzata da un sistema di discendenza
familiare strettamente unilineare e da un modello di residenza
strettamente unilocale, rispetto alla quale calcolare poi gli
scostamenti delle società empiricamente studiate. Da questo
punto di vista, Lévi-Strauss è uno dei principali
esponenti della scuola strutturalista francese: si parla, infatti di
approccio strutturalista (nell'antropologia come nella sociologia
francese) quando "l'osservatore si interessa a queste strutture
nascoste che ordinano i fenomeni sociali e culturali, dando la
priorità a un approccio sincronico più che a uno
diacronico [...] e postulando una infrastruttura incosciente sottesa
ai fenomeni osservati che sfugge largamente alla coscienza degli
attori" (v. Delas e Milly, 1997, p. 235).
Althusser e Poulantzas rileggono Marx alla luce di questa
concezione, che essi condividono. In particolare essi intendono
mostrare che le formazioni economico-sociali storiche sono una
combinazione di elementi strutturali semplici (tipi di
appropriazione del plusvalore, tipi di potere politico-statuale,
ecc.). Il loro intento originario era quello di elaborare una
strategia di 'allentamento' del determinismo economico imputato, a
torto o a ragione, a Marx. Essi affermano in particolare l'esistenza
di strutture politiche e ideologiche dotate di una loro autonomia
rispetto a quella economica, che resta determinante solo 'in ultima
istanza' (cioè come elemento di sfondo di un'intera epoca
storica). In pratica, lo strutturalismo marxista francese è
un rifiuto del marxismo economico a vantaggio di una teoria dello
Stato. Questo è particolarmente evidente per Poulantzas,
secondo il quale lo Stato diventa oggi il luogo privilegiato del
conflitto sociale, sia come arena per l'azione delle classi
politiche in lotta per il potere, sia come luogo della distribuzione
di risarcimenti economici e sociali per differenti settori della
società.
Quando questi autori, tuttavia, parlano di "autonomia relativa"
della politica dall'economia, cercano di inserire negli schemi di
analisi marxisti un principio già introdotto molto tempo
prima da Weber. A differenza di Weber, tuttavia, questa autonomia
della sfera politica e ideologica è solo asserita e non si
apre, sul piano del metodo, a una comprensione delle strategie di
azione e delle progettualità intenzionali dei vari gruppi e
delle varie classi sociali storicamente osservabili in specifici
contesti nazionali. In realtà, questi autori, per il loro
riferimento a Lévi-Strauss e alla sua concezione della
struttura sociale, introducono nuovi elementi di rigidità e
di astrattezza nel loro modello di analisi. Il loro privilegiare la
dimensione del presente o del 'sincronico', rispetto a quella
storica o diacronica, se poteva apparire giustificato negli studi
degli antropologi strutturali - dedicati a società primitive,
senza scrittura, e costretti quindi a lavorare sui miti e sui
cerimoniali - è del tutto inappropriato in un'analisi sociale
e politica del capitalismo contemporaneo. Per Althusser, in
particolare, l'individuo non possiede alcuno spessore sociale ed
è ridotto a semplice elemento di supporto delle strutture
fondamentali. I marxisti strutturalisti francesi, da questo punto di
vista, ci appaiono in alternativa esplicita ai tentativi - come
quello di Gramsci - di recuperare, entro il pensiero marxista, spazi
di autonomia all'attore sociale (v. sopra, cap. 6).
Una critica analoga possiamo rivolgere al neomarxismo americano di
quegli anni. J. O'Connor (v., 1973), ad esempio, elabora un modello
a tre settori dell'economia politica capitalistica (statale,
monopolistico e concorrenziale) lungo i quali si strutturano la
società e il conflitto sociale. Quest'ultimo non è
più caratterizzato dalla lotta di classe tra capitalisti e
lavoratori, ma si complica seguendo gli interessi economici dei
gruppi collocati nei vari settori. Si delinea in tal modo, per
questo autore, una 'crisi fiscale' dello Stato, il quale non riesce
più a far fronte alla domanda crescente, che sale dalla
società e, in particolare, dai gruppi sociali che si situano
fuori del settore monopolistico. Ciò potrebbe dar luogo, a
lungo andare, a una 'crisi di legittimità' del sistema;
questa, tuttavia, è impedita nel breve periodo dalla
divisione delle classi sociali in gruppi e categorie in competizione
tra loro sul fronte fiscale e welfarista, i quali ricercano un
rapporto preferenziale con lo Stato. Il modello di struttura della
società capitalistica che propone O'Connor, benché
innovativo rispetto a quello marxiano, è stato criticato in
quanto si esaurisce interamente sul piano sistemico e non raggiunge
mai il piano propriamente sociale. In effetti, l'azione delle classi
e dei gruppi di interesse non è analizzata nei suoi termini
concreti, storico-sociali, ma è dedotta sulla base di
contraddizioni oggettive emergenti tra i tre settori economici e dal
loro insieme.
A diverse conclusioni giungiamo, invece, per quanto riguarda
Jürgen Habermas. Questo autore ci interessa qui,
paradossalmente, non tanto per la sua pur importante analisi della
struttura sociale nel capitalismo maturo (v. Habermas, 1973), quanto
per la sua riflessione, progressivamente approfondita,
sull'identità individuale e sociale (v. Habermas, 1981). Fin
dai suoi primi lavori Habermas, in chiave critica rispetto ad Adorno
e Marcuse e alla loro tesi della 'fine dell'individuo' nella
società industriale avanzata, sviluppa la sua idea di
individuo autonomo come elemento di base per la critica al sistema
costituito. Da allora, questo autore non ha mai rinunciato alla
ricerca dei fondamenti di una identità libera e autonoma, pur
riconoscendo che esistono grandi difficoltà alla sua piena
realizzazione. Secondo Habermas, in particolare, il raggiungimento
di tale piena identità è possibile solo in un contesto
di comunicazioni intersoggettive non distorte e libere da ogni
coazione, fondate cioè sul principio che alle argomentazioni
altrui si risponde solo con altre argomentazioni. Poco importa, poi,
se questo non è possibile oggi, nelle nostre società
di capitalismo maturo in cui la 'razionalità strumentale',
propria del sistema, prevale sulla 'razionalità comunicativa'
dei soggetti. Habermas, distaccandosi dal pessimismo di Marcuse,
identifica infatti una serie di crisi che attentano di continuo alla
stabilità del sistema (crisi economiche, crisi di
razionalità che nascono dai fallimenti della pianificazione e
della regolazione amministrativa, crisi di legittimazione che si
originano a seguito delle mancate promesse welfariste e risarcitorie
fatte alle varie classi e gruppi sociali, crisi di motivazione,
provocate dall'erosione dei valori individualistici della
competizione e del successo personale). In questo contesto di crisi
potenziale, è fondamentale per Habermas il ruolo consapevole
dei soggetti coinvolti: "Solo nel momento in cui i membri della
società vivono i mutamenti strutturali come critici per la
sussistenza e sentono minacciata la propria identità sociale,
allora noi possiamo parlare di crisi. Le perturbazioni
dell'integrazione del sistema minacciano la sussistenza solo nella
misura in cui è in gioco l'integrazione sociale, ossia nella
misura in cui la base consensuale delle strutture normative è
pregiudicata al punto che la società cade nell'anomia" (v.
Habermas, 1973; tr. it., p. 6). È chiarissima qui la
distinzione di Habermas tra integrazione sistemica e integrazione
sociale, tra il piano delle strutture macro e quello dell'agire
sociale. Ma chiara è anche la connessione che egli pone tra
questi due piani: la capacità di autoregolazione del sistema,
di fronte a forze che tendono a disgregarlo, è influenzata in
larga misura dalla dinamica culturale e simbolica posta in essere
dall'agire comunicativo tra i soggetti. E così facendo egli
va oltre il semplice parallelismo posto da Marx tra il piano
sistemico strutturale e quello storico-sociale (v. sopra, cap. 3).
Un autore che può essere collocato, almeno in parte, sulla
scia di Habermas è Claus Offe (v., 1972). Anch'egli si pone
in una posizione fortemente innovativa rispetto al pensiero di Marx,
in particolare nel momento in cui rimette in discussione lo stesso
concetto di struttura di classe. Secondo questo autore, infatti,
nelle società capitalistiche contemporanee l'aumento della
'popolazione eccedente', insieme con l'importanza dell'intervento
dello Stato in campo economico e sociale, sposta il fuoco del
conflitto di classe fuori dalla sfera produttiva, in quella della
distribuzione e della riproduzione sociale. Allo schema a tre
settori elaborato da O'Connor, Offe sostituisce adesso uno schema a
quattro settori (statale, monopolistico, concorrenziale e
'residuale'). Emerge, in tal modo, un nuovo sistema di
disuguaglianza fondato su 'ambiti di vita individuale' e su
differenziazioni 'orizzontali', che complicano la struttura sociale
e rendono difficile l'aggregazione in base ai tradizionali interessi
di classe. Qui, tuttavia, l'autonomia degli attori sociali viene
affermata esplicitamente. Offe valorizza in particolare il ruolo
nella società contemporanea dei nuovi movimenti collettivi e,
riecheggiando Habermas, sottolinea la loro costituzione sulla base
di bisogni di identità e di appartenenza, che con il tempo
diventano irreversibili.
In definitiva, il percorso del neomarxismo degli anni settanta e
ottanta approda a una revisione non indifferente del modello
marxiano, sia per quanto riguarda il suo versante sistemico,
cioè la struttura complessiva della società
capitalistica (che appare adesso un intreccio di relazioni di
interdipendenza e di tensione reciproca tra vari settori
dell'economia e della politica), sia per quanto riguarda il suo
versante storico-sociale, entro il quale l'autonomia degli attori
rispetto alla struttura, almeno negli ultimi autori esaminati,
è tematizzata più efficacemente.
L'ANALISI STRUTTURALE ITALIANA
A partire degli anni settanta, sotto l'impatto di una trasformazione
accelerata della società italiana, si assiste allo sviluppo
di un filone di studi sulla struttura sociale del paese che, rivisto
oggi nel suo complesso, può essere definito come il filone
della 'analisi strutturale' della sociologia italiana contemporanea.
La rapida industrializzazione del paese, seguita da un altrettanto
rapido passaggio verso la società dei servizi, in un contesto
contrassegnato fin dall'origine da una forte disoccupazione e da
tradizionali dualismi economici e territoriali, ha costituito una
sfida importante per la giovane ricerca sociologica italiana. Questa
si è trovata a dover interpretare la complessità del
processo di modernizzazione nazionale e il forte cambiamento della
struttura sociale del paese senza una tradizione di studi in questo
campo e con un bagaglio teorico semplificato. Questo filone di studi
ha indagato su un'ampia gamma di problemi, quali quelli del mercato
del lavoro e delle classi sociali, delle formazioni sociali
territoriali, delle migrazioni interne, della famiglia, della
povertà, della differenza di genere, dell'intervento
welfarista dello Stato, ecc. Qui non è possibile
evidentemente analizzare questo insieme di studi e di ricerche nella
sua completezza. Ci limiteremo, pertanto a esaminare l'elaborazione
offerta in alcuni dei campi di indagine più significativi.
Lo studio del mercato del lavoro ha costituito probabilmente un
momento importante per l'avvio di questa analisi strutturale della
società italiana (v. Paci, 1973 e 1982). La scelta di questo
tema è di per sé significativa della ricerca di un
livello di analisi, sufficientemente ampio ma specifico, che
permettesse di rendere conto di cambiamenti strutturali importanti
che avvenivano nell'economia e nella società e che non
potevano essere colti restando all'interno dei singoli luoghi,
aziendali o settoriali, di lavoro. Inoltre, benché connotato
inizialmente dal ricorso ad alcune categorie teoriche marxiane (come
quelle di 'esercito industriale di riserva' o di 'sovrappopolazione'
nelle sue diverse forme), questo tipo di studi ha comportato di
fatto l'accettazione di una dimensione d'analisi tipicamente
weberiana: il mercato del lavoro, infatti, è uno dei mercati
cui fa riferimento Weber per superare la visione marxista della
struttura di classe, strettamente ancorata al momento produttivo (v.
sopra, cap. 4). Il mercato del lavoro è stato così la
chiave per ricostruire, 'pezzo per pezzo', lo scenario sociale che
ha ruotato, in questi anni, attorno allo sviluppo economico
nazionale e alle sue caratteristiche dualistiche, settoriali e
territoriali: dai primi lavori degli anni settanta sulle
caratteristiche della disoccupazione intellettuale (v. Barbagli,
1974), sul mutamento delle strutture agrarie e del mercato del
lavoro nel Mezzogiorno (v. Mottura e Pugliese, 1975), sulla doppia
presenza delle donne, tra sfera produttiva e riproduttiva (v. Balbo,
1976), sulle migrazioni interne e internazionali di forza lavoro (v.
Ascoli, 1979; v. Reyneri, 1979; v. Piselli, 1981) e sul lavoro nero
e sul ruolo economico informale della famiglia (v. Paci, 1980), ai
lavori degli anni successivi e più recenti, condotti sul
settore garantito dell'occupazione e sullo sviluppo del doppio
lavoro (v. Gallino, 1985), sulla disoccupazione (v. Pugliese, 1993)
e sul mercato del lavoro nazionale nel suo complesso (v. Reyneri,
1996).
È sulla base di questa ampia messe di studi che, all'inizio
degli anni ottanta, è stato possibile proporre un modello
complessivo di analisi della struttura sociale italiana (v. Paci,
1982, cap. 10). Si tratta di un modello a quattro settori, costruito
in base a due dimensioni: la prima fa riferimento alla natura
garantita/non garantita dell'occupazione (cioè al grado di
tutela legale e sindacale dell'attività lavorativa), mentre
la seconda introduce la distinzione tra la sfera produttiva (o delle
attività di mercato) e quella riproduttiva (o delle
attività amministrate dallo Stato o interne alla famiglia e
alla parentela). Si ottengono in tal modo quattro settori: quello
garantito-produttivo, costituito dalla occupazione presso le grandi
imprese pubbliche e private; quello produttivo-non garantito,
costituito dalle piccole imprese e dall'alone di economia sommersa
che le circonda; quello riproduttivo-garantito o statale; quello
riproduttivo-non garantito, costituito dall'economia di sussistenza,
familiare, parentale o di comunità marginale. Questo modello
richiama, evidentemente, quelli elaborati da O'Connor o da Offe,
descritti nel capitolo precedente, ma si adatta meglio alla
specificità del caso italiano, la cui struttura sociale
è fortemente segnata dal dualismo tra settori forti e settori
deboli dell'occupazione. L'identificazione di questi quattro settori
o 'aree sociali strutturali' ha permesso così di chiarire i
processi in atto in quegli anni, sia dal punto di vista
dell'integrazione sistemica, assumendo cioè come referente il
sistema sociale nel suo complesso e mostrando gli scambi di risorse
e i rapporti di funzionalità esistenti tra i quattro settori,
sia a livello dell'integrazione sociale, assumendo cioè come
referenti gli attori sociali e mostrando le ragioni dei loro
comportamenti (v. Paci, Il mutamento..., 1992, pp. 191 ss.). Di
notevole rilievo, inoltre, è stato anche l'insieme di studi
che ha approfondito la complessità della struttura sociale
nazionale dal punto di vista territoriale o delle formazioni
economico-sociali che è dato riconoscere nel nostro paese (v.
Bagnasco, 1977 e 1988; v. Paci, 1980; v. Trigilia, 1986, 1992 e
1995). Sono state identificate, in tal modo, tre formazioni
principali: quella dell'Italia del nord-ovest, centrata sulla grande
industria capitalistica, quella dell'Italia centro-nord-orientale,
caratterizzata dall'economia diffusa o di piccola impresa, e quella
del Mezzogiorno, caratterizzata da una condizione di sottosviluppo
economico e marginalità sociale. Questi studi non solo hanno
permesso di articolare meglio l'immagine della struttura sociale
nazionale, ma, coerentemente con la definizione marxiana stessa di
formazione sociale, hanno mostrato le relazioni strutturali (o di
interdipendenza) esistenti entro ciascuna formazione tra le
tipologie produttive, le forme di stratificazione sociale e gli
orientamenti culturali e politici diffusi. Queste analisi, pur
riconoscendo il ruolo strutturante del contesto produttivo, non
negano l'autonomia dei soggetti agenti, sia che si tratti di
ricostruire le strategie d'azione degli imprenditori dei 'distretti
industriali', sia che si tratti di valutare l'impatto dell'azione
politica e amministrativa locale (v. Bagnasco, 1988; v. Trigilia,
1986 e 1995).
Infine, lo sviluppo di questi studi e ricerche in tema di mercato
del lavoro e formazioni sociali territoriali ha contribuito
notevolmente - almeno per tutta una prima fase - ad approfondire la
riflessione sulle classi sociali e, più in generale, sul
sistema di disuguaglianza sociale nazionale. È stato
possibile, in tal modo, rendere conto delle complicazioni presenti
nella struttura di classe italiana, con riferimento vuoi alla
presenza di strati operai, non omologabili al 'classico'
proletariato industriale, vuoi a ceti di piccola borghesia e a ceti
medi della rendita e dell'intermediazione finanziaria, anch'essi
sovrarappresentati nel caso italiano, rispetto a quanto era lecito
attendersi a seguito del processo di industrializzazione nazionale
(v. Gallino, 1970; v. Sylos Labini, 1974; v. Paci, 1978).
Successivamente, tuttavia, di fronte al passaggio 'postindustriale'
(o 'postfordista') degli anni ottanta e novanta, l'analisi delle
classi si è maggiormente aperta alla considerazione del ruolo
decisivo dello Stato nel plasmare, tramite le politiche economiche e
welfariste, il sistema delle disuguaglianze sociali e la struttura
di classe nazionale. Già Pizzorno (v., 1974) aveva mostrato
il ruolo svolto dall'intervento statale a fini di consenso politico
nello sviluppo, negli anni cinquanta e sessanta, dei ceti di piccola
borghesia. Nel corso degli ultimi vent'anni, questo ruolo emerge in
tutta la sua importanza, in connessione con le caratteristiche
clientelari e spartitorie del 'Welfare State all'italiana' e, in
generale, con l'involuzione politica della 'prima repubblica' (v.
Ascoli, 1984; v. Bagnasco, 1996; v. Carboni, 1986; v. Gallino 1987;
v. Paci, 1989 e 1996). La struttura sociale del paese appare adesso
fortemente dipendente dall'intervento politico-amministrativo dello
Stato, così come - in precedenza - era apparsa dipendente
dallo sviluppo economico e dalle caratteristiche del mercato del
lavoro. Più in generale, rispetto all'analisi condotta negli
anni settanta, pur senza negare l'impatto che hanno sulla struttura
sociale i processi che - nel passaggio postfordista degli anni
ottanta - si svolgono a livello della base materiale, economica e
tecnologica, si tende adesso a rispettare maggiormente il ruolo
autonomo degli attori politici e sociali.
In definitiva, l'analisi strutturale italiana di questi anni ha
fornito un'importante messe di elementi conoscitivi sulla struttura
sociale del nostro paese, passando da un approccio alquanto
'economicistico', con chiare ascendenze marxiane, a uno assai
più articolato e disposto al confronto con Weber e con le
teorie contemporanee dell'azione sociale. Essa si caratterizza per
il ricorso a una varietà di metodi (quantitativi e
qualitativi) e di fonti (statistiche, storiche, campionarie,
documentarie) e, spesso, per un taglio diacronico, se non
propriamente storico, che non è dato riscontrare solitamente
nella ricerca sociologica empirica. L'analisi strutturale italiana
resta, tuttavia, teoricamente poco consapevole di sé: nessuno
dei molti esponenti di questo filone di studi si è posto il
problema di riconnettere gli spezzoni di teoria che pure sono
presenti esplicitamente o implicitamente nei vari lavori presentati.
L'orientamento prevalente alla ricerca empirica, se ha permesso
un'ampia e articolata descrizione della struttura sociale del paese,
ha frenato l'elaborazione teorica e concettuale. È per
questo, del resto, che lo stesso concetto di struttura sociale,
continuamente utilizzato, non è stato oggetto finora di una
riflessione adeguata (un problema, questo, che la sociologia
italiana condivide, come abbiamo visto, con gran parte della
sociologia contemporanea).
LA NETWORK ANALYSIS
L'analisi di rete (network analysis) ci introduce a un'altra
importante variante del concetto di struttura sociale. Essa, a
differenza delle teorie esaminate sin qui, si situa sostanzialmente
a livello microsociale, anche se, secondo alcuni autori (v. ad
esempio Collins, 1988; v. Kontopoulos, 1993), costituisce uno dei
tentativi oggi più avanzati per unire in un unico modello le
dimensioni micro e macro della struttura sociale. Numerosi sono gli
autori e le scuole di pensiero che vengono, di volta in volta,
citati come antecedenti significativi dell'analisi di rete. John
Scott (v., 1991, cap. 2), ad esempio, menziona: la sociologia
formale di Simmel; la sociometria dei piccoli gruppi di Moreno; la
psicologia topologica di Lewin; le indagini di comunità di
Warner; lo studio dei gruppi informali in ambiente lavorativo di
Elton Mayo; la teoria dello scambio di Homans; la modellistica
matematico-statistica degli antropologi strutturali. È noto
anche che sono identificabili due filoni di pensiero nello sviluppo
della network analysis: il primo è quello inglese della
scuola antropologica di Manchester, degli anni cinquanta e sessanta,
e il secondo quello americano della scuola di Harvard, degli anni
settanta e ottanta. Tuttavia, è in Siegfried Nadel (uno
psicologo austriaco che ha a lungo collaborato con il gruppo degli
antropologi di Manchester) che troviamo forse la prima teorizzazione
compiuta del rapporto tra analisi di rete e struttura sociale. Le
strutture sociali sono, per Nadel, delle "strutture di ruoli", il
ruolo essendo costituito dalle "reti" in cui è inserito
l'individuo. Queste reti sono definite, a loro volta, come "un
intreccio di relazioni tale per cui l'interazione che si ha in una
di esse influenza quella che si ha in altre" (v. Nadel, 1957, p.
16). Separando la forma delle relazioni dai loro contenuti empirici,
afferma questo autore, è possibile cogliere le strutture
sociali e sottoporle a uno studio sistematico e comparativo.
Numerosi (e in campi diversi) sono gli apporti conoscitivi
dell'analisi di rete. La scuola di Manchester, ad esempio, ha
fornito importanti contributi sulla configurazione delle reti in
ambito urbano (dove esse sono 'a maglie larghe' e 'a finalità
multipla') e in ambito rurale (dove sono 'a maglie strette' e 'a
finalizzazione unica'). Boissevain (v., 1974) ha sottolineato il
ruolo del "mediatore", come colui che occupa una posizione di rete
centrale e agisce in un contesto di risorse scarse, traendo da
questa situazione vantaggi economici e di potere. Harrison White,
che può essere considerato il fondatore della scuola di
Harvard, ha descritto managers e imprenditori come "cercatori di
nicchie di mercato in costante sorveglianza reciproca" e ha mostrato
come, nei diversi settori dell'economia, essi "si controllano a
vicenda, costituiscono una rete, si uniscono in associazioni e danno
vita a dei clubs [...] perché debbono vedersi l'un l'altro,
raccogliere informazioni, al fine di strutturare la propria
posizione sul mercato" (v. White, 1981, p. 543). Granovetter (v.,
1974), infine, in uno studio ormai classico sulla mobilità
occupazionale, ha mostrato l'importanza all'interno delle reti dei
'legami deboli' con persone che si frequentano raramente, allo scopo
di ottenere informazioni di lavoro, e che non sono note, invece,
entro la cerchia più ristretta dei 'legami forti', amicali e
parentali. Con l'analisi di rete, dunque, siamo introdotti allo
studio delle microstrutture sociali che si formano tra gli individui
a partire dalle loro relazioni reciproche. Ricostruendo la struttura
delle relazioni sociali del soggetto, l'analisi di rete ci mostra
fino a che punto le possibilità relazionali di un individuo
sono estese (o limitate). Naturalmente, questo tipo di analisi
comporta delle difficoltà quando si passa dallo studio di
realtà sociali locali e di dimensione ridotta a realtà
di più vaste dimensioni. Più ampia è la rete di
relazioni da ricostruire, tanto maggiore (e a volte proibitivo)
risulta lo sforzo dell'impresa. D'altra parte, il ricorso allo
studio di campioni parziali di soggetti non è sostitutivo di
una ricostruzione effettiva e completa dei legami di una rete macro.
È per questo che il passaggio dal livello delle reti micro
alla macrostruttura sociale comporta un salto che non appare
facilmente colmabile ricorrendo esclusivamente alle tecniche e
all'apparato concettuale elaborati da questi studi.Fino a epoca
recente, all'interno dell'analisi di rete ha prevalso una visione
'forte' del ruolo della struttura rispetto all'autonomia
dell'individuo. Non a caso questo filone di studi è stato
definito anche 'analisi strutturale' o 'strutturalismo analitico'
(v. Kontopoulos, 1993, p. 108). In effetti, secondo questa teoria,
il tipo di rete in cui un individuo è inserito e la
particolare posizione che egli occupa al suo interno sono fattori
che influenzano in maniera decisiva il modo in cui tale individuo
pensa e agisce. All'interno di gruppi isolati o molto coesi, ad
esempio, gli individui tendono ad avere opinioni molto omogenee. A
partire dalla fine degli anni ottanta, tuttavia, si manifesta,
all'interno di questo filone di studi, l'esigenza di 'allentare' il
concetto di struttura sociale, rinunciando almeno in parte
all'impostazione deterministica prevalente fino ad allora (v. Mutti,
1997). Così Collins (v., 1988) sottolinea la necessità
di tematizzare meglio la contingenza decisionale degli attori e di
dare maggiore importanza alla questione dell'identità
dell'attore, come fatto costruito gradualmente nei diversi contesti
sociali tra cui egli è transitato. Analogamente, Coleman (v.,
1990) sviluppa una definizione delle reti sociali come 'risorse' (e
non più come vincoli) per l'individuo, che usa la rete per
conseguire risultati a lui vantaggiosi. Così, infine, lo
stesso White (v., 1992) tenta una via intermedia tra strutturalismo
e individualismo, aprendosi alle tematiche della contingenza
decisionale degli attori e alla natura idiosincratica dei percorsi
di vita individuali; gli attori, adesso, sono visti a un tempo come
liberi e vincolati: essi hanno la capacità di creare o di
negoziare tutto ciò che possono in una situazione che resta
certo strutturata da rapporti più vasti, ma che essi
contribuiscono a modificare.
Questa revisione teorica in direzione di una maggiore autonomia
concessa all'attore sociale, tuttavia, rende ancora più
incerta la prospettiva, perseguita da alcuni dei maggiori esponenti
di questo filone di studi, di poter realizzare con l'analisi di rete
un processo di unificazione in un solo modello delle dimensioni
micro e macro della struttura sociale (v. ad esempio Collins, 1988;
tr. it., p. 512). In realtà, vi sono forti dubbi sul fatto
che la network analysis abbia conseguito (o possa conseguire in
futuro) tale risultato.
THOMPSON, BOURDIEU E BOUDON
Per concludere la nostra ricognizione sul concetto di struttura
sociale, prenderemo in esame brevemente tre autori che hanno
affrontato esplicitamente il problema dell'antinomia tra struttura e
azione sociale (o tra piano sistemico e piano storico-sociale
dell'analisi): E.P. Thompson, Pierre Bourdieu e Raymond
Boudon.Edward P. Thompson (v., 1963 e 1979) ci interessa qui per la
sua riflessione metodologica sul concetto di classe, svolta a
partire dai suoi studi storici sulla formazione della classe operaia
in Inghilterra. Questo autore, pur inscrivendosi nella tradizione di
storia marxista, che vanta in Gran Bretagna studiosi della statura
di Maurice Dobb, Christopher Hill ed Eric Hobsbawm, ha condotto una
vigorosa polemica contro le interpretazioni caratterizzate dal
determinismo economico e dalla negazione di ogni autonomia ai
soggetti sociali. Egli critica, ad esempio, Ralf Dahrendorf (v.,
1957), descrivendolo come ossessivamente interessato alla
metodologia e come incapace di esaminare una singola, vera
situazione di classe in un contesto storico. Dahrendorf, in effetti,
aveva elaborato una teoria della struttura di classe nella quale il
principio di autorità (o di 'potere legittimo') prendeva il
posto della marxiana proprietà dei mezzi di produzione come
fonte di super-subordinazione di classe. Ma se, da questo punto di
vista, egli aveva innovato rispetto al pensiero di Marx, concordava
invece con lui per quanto riguarda il passaggio dalla struttura alla
coscienza di classe, che considerava, in modo forse ancora
più deciso di Marx, come inevitabile (ancorché
sottoposto ad alcune condizioni). Thompson, dunque, prende le
distanze polemicamente da Dahrendorf, non tanto per ribadire che le
classi trovano la loro origine nei rapporti di produzione, quanto
soprattutto perché a suo avviso le classi non possono essere
identificate indipendentemente dalla coscienza di classe. Egli
rigetta ogni concezione delle classi che le situi esclusivamente sul
piano economico-strutturale e sottolinea il fatto che gli individui
possono restare legati ai loro valori e costumi anche quando la
struttura economica cambia, e anzi possono usare queste loro risorse
culturali per intervenire attivamente al fine di alterare le
condizioni economiche date. Più in generale, possiamo dire
che Thompson privilegia il piano storico-sociale rispetto a quello
sistemico: le classi, secondo lui, sono fenomeni processuali, che
non possono essere colti dall'osservatore come una realtà
oggettivata, 'fotografata' a un dato istante (v. in particolare
Thompson, 1963, pp. 9-11).
Come si vede, Thompson si situa agli antipodi rispetto allo
strutturalismo marxista francese: se nel caso di Althusser la storia
ci appariva priva di soggetti (v. sopra, cap. 9), qui essa ci appare
piena solo di soggetti. Forse a causa del suo atteggiamento polemico
contro le teorie deterministiche, Thompson finisce per adottare una
interpretazione spiccatamente 'culturalista', che lascia poco spazio
a un'analisi dei condizionamenti strutturali dell'azione. Egli
mostra efficacemente che la classe operaia inglese, nelle sue forme
storiche di organizzazione e coscienza di classe, non è stata
il risultato diretto della rivoluzione industriale, ma si
'autoformò' sulla base del suo patrimonio culturale, in modo
da interpretare il cambiamento e reagire alle trasformazioni
economiche e politiche del suo tempo. Così facendo, tuttavia,
egli ha finito per mettere in luce solo un lato di quella dialettica
tra struttura e coscienza che pure, nei suoi saggi metodologici,
teorizza come centrale nel processo storico (v. Trimberger, 1984,
pp. 224-225).
All'opposto di Thompson, Pierre Bourdieu (v., 1972) è partito
inizialmente dalla riaffermazione dell'importanza delle 'strutture
oggettive' della società rispetto all'azione storico-sociale.
È al legame originario di questo autore con lo strutturalismo
marxista francese che risale la sua concezione dell'esistenza di
'strutture incoscienti', che influenzano in modo non trasparente le
motivazioni profonde dei comportamenti individuali. Ma egli stesso
preciserà in seguito (v. Bourdieu, 1981, pp. 18-19): "Ho poi
voluto reintrodurre in qualche modo i soggetti agenti che
Lévi-Strauss e gli strutturalisti (Althusser in particolare)
tendevano ad abolire facendo di essi dei semplici epifenomeni della
struttura".
La società appare a Bourdieu organizzata attorno a una serie
di "strutture oggettive" o "campi istituzionali" (relativi, ad
esempio, alla famiglia, all'economia, alla religione, ecc.), molti
dei quali sono suddivisi in una "frazione dominante" e una "frazione
dominata", con la prima che modella le regole che governano
l'attività sociale entro quel campo. Ciascuno di questi campi
è in uno stato di tensione permanente: gli attori sociali
prendono posizione nelle lotte e nella competizione che si svolgono
in essi per le risorse o per i "tipi di capitale" (cioè per
il capitale economico, politico, culturale e sociale). Ma il
concetto più importante introdotto da Bourdieu, vera chiave
di volta delle sue ambizioni teoriche, è quello di habitus.
L'habitus è un insieme di disposizioni o schemi mentali
acquisiti dall'individuo nel corso del processo di socializzazione e
da lui utilizzati per ordinare la realtà sociale che lo
circonda e dare un orientamento alla sua azione. L'habitus è
assunto fin dall'infanzia ed è condiviso all'interno di un
dato gruppo sociale (che può essere anche molto ampio, come,
ad esempio, una classe o una frazione di classe). L'habitus,
tuttavia, può mutare dinamicamente per far fronte alle
"congiunture sociali", e offre così all'individuo non solo
uno stile di vita modificabile nel tempo, ma anche un insieme di
strategie appropriate alla sua posizione sociale e a circostanze che
cambiano.
Si è molto discusso, com'è noto, sul grado in cui lo
'strutturalismo costruttivista' di Bourdieu rappresenti
effettivamente un superamento delle teorie deterministiche e
meccanicistiche dell'azione sociale. Su questa questione si è
sviluppato in Francia un lungo e polemico dibattito. Boudon e
Bourricaud (v., 1982, p. 229), ad esempio, sono stati fin
dall'inizio assai critici, definendo la teoria di Bourdieu "un
sapiente monismo che si scontra tuttavia con ostacoli evidenti".
Oggi i toni appaiono assai più sfumati: abbandonati i toni
più rigidi e dogmatici, da una parte e dall'altra, ci si
rende conto che le distanze tra le varie interpretazioni non sono
poi così grandi (v. Delas e Milly, 1997, p. 170). Sul punto
in questione, tuttavia, ci sembra di poter condividere l'opinione di
coloro (v. Wacquant, 1992; v. Kontopoulos, 1993) secondo i quali le
strutture sociali sono per Bourdieu 'organizzatrici di
possibilità', più che meccanismi vincolanti. Per
Bourdieu, le circostanze (o 'congiunture') sociali sono solo
parzialmente determinate dalle strutture, e le strategie degli
attori restano l'espressione di scelte intenzionali anche se vengono
decise entro una data gamma di possibilità. La struttura
sociale, in effetti, è per questo autore una "struttura
strutturata e strutturante". Se, a una prima lettura, potrebbe
sembrare che essa sia ordinata gerarchicamente o 'ordinata
dall'alto' (con le 'strutture oggettive' che determinano le
'congiunture sociali' e queste che vincolano gli habitus e le scelte
degli attori), in realtà così non è: esistono,
infatti per Bourdieu, ambiguità e alternative
(esternalità, gradi di libertà, ecc.) che operano ai
vari livelli della realtà sociale. Ciò detto, e
riaffermata l'esistenza, in Bourdieu, di una dialettica tra le
strutture oggettive e i soggetti agenti, va detto anche che, sul
piano epistemologico, egli attribuisce, in ultima analisi, la
priorità al momento della delimitazione delle strutture o dei
'campi' (entro i quali si sviluppano poi le strategie degli attori).
In definitiva, il lavoro di Bourdieu appare teoricamente assai
avvertito e, forse, tra quelli discussi fin qui, quello che ha
approntato l'apparato concettuale più adeguato per
confrontarsi con il problema dell'antinomia tra il piano sistemico e
quello storico-sociale dell'analisi della struttura sociale.
Diverso è l'approccio teorico di Raymond Boudon (v., 1987 e
1992). Il problema di Boudon è esplicitamente quello di
costruire il complesso oggetto della struttura macrosociale a
partire da una scelta di campo a favore dell'individualismo
metodologico. (Egli, come vedremo, condivide una versione 'debole'
di tale individualismo). Boudon critica la tradizione deterministica
della sociologia che tende a far derivare direttamente
l'attività degli individui dalla forza delle strutture,
perché ciò impedisce di cogliere
l'intenzionalità (le 'buone ragioni') che hanno gli individui
per agire. Secondo questo autore, occorre partire dall'interazione
sociale, così come essa si realizza entro la situazione data:
compito del sociologo è essenzialmente quello di mettere in
evidenza le "logiche della situazione" (come logiche di interazione)
nel funzionamento della società. Le strutture per Boudon sono
essenzialmente la conseguenza non prevista dell'interazione sociale.
Quest'ultima ha spesso conseguenze non previste (sia come "effetti
di aggregazione", che come "effetti inattesi" o "perversi"); tanto
spesso che - come aveva già sottolineato Merton (v., 1949) -
occuparsi di queste conseguenze è il compito principale della
sociologia. Le strutture sociali a livello macro, in tal modo, sono
la stabilizzazione o istituzionalizzazione di effetti non previsti,
derivanti da processi complessi di interazione sociale, che hanno
avuto di solito una lunga gestazione. Per la comprensione delle
strutture sociali occorre dunque ricostruire le azioni degli
individui (o di insiemi di individui), sia nei loro effetti
intenzionali, sia soprattutto in quelli inattesi.Boudon, tuttavia,
non intende sviluppare una teoria generale della società,
delle sue strutture, del suo cambiamento. È impegnato
piuttosto in uno sforzo di precisazione di un metodo per la
spiegazione sociologica, quello, appunto, dell'individualismo
metodologico nella sua versione debole. Secondo Boudon, di fronte
all'infinita varietà delle azioni intenzionali individuali
è necessario ricorrere a una operazione di semplificazione,
per la quale egli suggerisce alcune procedure e numerosi esempi. In
particolare Boudon suggerisce di ricorrere alla procedura weberiana
della tipizzazione ideale: "È bene raggruppare gli attori in
categorie [...], in gruppi astratti, riunirli in tipi o, come ancora
possiamo dire sulla scia di Weber per insistere sulla natura
semplificatoria di questo procedimento, in tipi ideali [...].
Ciò comporta evidentemente una rappresentazione molto
semplificata [...] una psicologia astratta e convenzionale [...]. Le
spiegazioni 'individualiste' dell'azione passano sempre attraverso
la costruzione di modelli condannati dalla forza delle cose a essere
semplificatori e in questa misura irrealistici" (v. Boudon, 1992;
tr. it., pp. 34 e 60). Ma c'è una seconda operazione o
procedura di semplificazione che è stata imputata a Boudon, e
cioè l'astrazione, nell'analisi della "logica della
situazione", da ogni fattore che non sia riducibile all'interazione
tra gli attori in presenza. Questa seconda operazione, a differenza
della prima, è stata criticata in quanto comporterebbe una
eccessiva riduzione della realtà sociale e una sostanziale
astoricità dell'analisi. Su questo punto, a dire il vero,
Boudon ha precisato, in seguito alle critiche, il suo pensiero,
chiarendo che esistono delle "variabili macrosociologiche", o
"variabili che si collocano a un livello più alto rispetto
alla situazione", di cui occorre tenere conto e che fanno sì
che le azioni siano "il risultato del contesto situazionale degli
attori, il quale a sua volta è il risultato delle variabili
macrosociologiche" (v. Boudon, 1987, p. 46). L'individualismo
metodologico debole di Boudon, dunque, riconosce che "l'attore
sociale si muove in un contesto che in buona parte gli si impone"
(v. Boudon, 1988, p. 34). Da questo punto di vista, potremmo dire
che questo autore compie un percorso inverso rispetto a quello
compiuto da Bourdieu, per giungere tuttavia a conclusioni non
dissimili: se Bourdieu era partito dalle strutture per giungere ai
'soggetti agenti', Boudon muove anzitutto dagli attori, per
collocarli poi entro un contesto strutturante.In questo capitolo
abbiamo esaminato tre autori che si sono esplicitamente confrontati
con la duplicità dei piani di analisi della struttura
sociale. Questi tre tentativi ci interessano particolarmente in
quanto volti a valorizzare il piano dell'azione storico-sociale, sia
pure nella consapevolezza del ruolo limitante esercitato in generale
dalla struttura sociale. In Thompson, come abbiamo visto, il piano
storico-sociale dell'analisi è particolarmente valorizzato.
Bourdieu, invece, muove inizialmente da un approccio strutturalista,
per recuperare in seguito il ruolo creativo dei soggetti agenti.
Quanto a Boudon, la valorizzazione dell'azione sociale, entro il
contesto strutturale dato, è affidata soprattutto a un'opera
di affinamento metodologico e procedurale. Nel complesso,
l'approccio storico-sociale di Thompson, quello strutturalista
costruttivista di Bourdieu e quello individualista-metodologico
debole di Boudon appaiono complementari. Tutti e tre sono utili,
infatti, per chi voglia tornare oggi a un'analisi della struttura
sociale che superi l'orizzonte troppo angusto dell'individualismo
metodologico forte e delle sue micrologiche d'azione, senza ricadere
negli errori del funzionalismo e dello strutturalismo sistemici
degli anni sessanta.
CONCLUSIONI
Molti degli autori esaminati sin qui, come abbiamo visto, hanno
fatto ricorso a un concetto di struttura sociale come fatto
oggettivo, sistemico e sincronico. Essi cioè hanno utilizzato
tale concetto per indicare l'esistenza di relazioni sistematiche tra
posizioni sociali (ruoli, classi, ecc.) o tra parti della
realtà sociale (settori, livelli, ecc.), considerate
indipendentemente dai soggetti sociali che le occupano o che in esse
si avvicendano storicamente. Sia che tali relazioni siano viste come
relazioni causali unidirezionali, sia che esse siano viste come
relazioni di interdipendenza tra le unità sociali
considerate, esse sono sottoposte dall'osservatore a un processo di
oggettivazione che le situa sul piano dell'integrazione sistemica,
più che su quello dell'integrazione sociale, per riprendere
qui la distinzione di Habermas prima richiamata (v. sopra, cap. 9).
La struttura sociale, in tal modo, è apparsa a lungo
esclusivamente nel suo aspetto di contesto vincolante per l'azione
sociale. Una concezione, questa, d'altra parte, che corrisponde
ancora oggi al modo più consueto di guardare alla struttura
sociale, se è vero che in una delle definizioni più
recenti - quella della Encyclopedia of sociology del 1992 - si
sottolinea che "la struttura sociale è oggettiva, nel senso
che essa è la stessa per tutti gli individui ed è al
di là delle possibilità di alterazione da parte delle
volontà individuali" (v. Rytina, 1992, p. 1970).
Questo approccio è stato particolarmente congeniale agli
studi sviluppatisi entro il paradigma funzionalista, come entro
quello genericamente marxista. In effetti, in entrambi i casi,
domina l'idea di una struttura sociale come interdipendenza tra
sfere funzionali della realtà sociale, che si determina su un
piano separato rispetto a quello su cui si svolge l'azione sociale e
che perdura nel tempo per una sua tendenza intrinseca
all'integrazione sistemica (come in Parsons) o per processi
strutturali di riproduzione (come in Marx). Naturalmente, sappiamo
che le cose sono più complicate. Abbiamo visto che esiste un
dibattito sul ruolo dei processi di socializzazione nel modello
parsonsiano, che apre varchi a una valorizzazione dell'attore
sociale entro la prospettiva sistemico-strutturale funzionalista,
così come esiste, per alcuni autori, un 'secondo modello'
nell'analisi di Marx, che reintroduce il soggetto storico, in
funzione autonoma, entro gli schemi di riproduzione della
società capitalista (v. sopra, capp. 3 e 7). Resta il fatto
che l'idea di una struttura sociale come fatto oggettivo,
rispondente a logiche di integrazione o riproduzione sistemica,
è stata ampiamente accolta dalla sociologia europea e
americana degli anni cinquanta e sessanta (e anche in epoca
successiva), come idea di fondo che ha orientato una vasta messe di
studi e di ricerche. Basti pensare, da un lato, allo sviluppo della
survey research americana e, in particolare, agli studi in tema di
stratificazione e mobilità sociale, e, dall'altro, al filone
degli studi neomarxisti, prevalentemente europei, sul capitalismo
maturo e sulle sue caratteristiche strutturali (v. sopra, capp. 8 e
9). Né è estraneo a questa impostazione, a nostro
avviso, il filone, più recente, della network analysis, il
quale pur partendo dal piano dell'interazione sociale giunge
paradossalmente a una idea della struttura sociale come forma delle
relazioni, separata dai loro contenuti storico-sociali specifici,
riducendo il comportamento dell'individuo a funzione oggettiva del
suo inserimento nella rete (v. sopra, cap. 11).
La stessa analisi strutturale italiana degli anni settanta risente
di questo approccio di fondo. In questo caso, certo, vi sono alcuni
elementi interessanti che permettono di distinguere questo filone di
studi sia da quello della survey research americana, sia dagli studi
neomarxisti europei di quegli anni. Da un lato, c'è un
utilizzo parzialmente innovativo di concetti derivati da Marx, che
vengono piegati alle esigenze di comprensione di una struttura
sociale altamente dualistica e sottoposta a forti cambiamenti, come
quella italiana degli anni sessanta e settanta; dall'altro,
c'è il ricorso a una molteplicità di fonti e di metodi
empirici, mai esclusivamente e asetticamente rinchiusi entro il
perimetro procedurale dell'indagine campionaria, il che ha permesso
a questo tipo di studi una conoscenza problematica e articolata
della realtà sociale del paese (v. sopra, cap. 10). È
vero, tuttavia, che già all'inizio degli anni ottanta era
possibile rivolgere a tale filone di studi una critica di
economicismo (v. Paci, 1982) e che solo oggi si avvia forse al suo
interno una riflessione sui suoi presupposti teorici (v. Bagnasco,
1996; v. Paci, Categorie..., 1996; v. Reyneri, 1996, cap. 1).
Ma il successo dell'approccio sistemico-strutturale ha radici
antiche, anteriori evidentemente al funzionalismo e al neomarxismo
del dopoguerra. Esse risalgono allo sforzo teorico durkheimiano di
fondazione della sociologia come disciplina scientifica. È
Durkheim, infatti, che per primo si propone di cogliere la struttura
profonda della società, nascosta dietro i fenomeni che si
svolgono sul piano storico-sociale (v. sopra, cap. 5). Questa idea
dell'esistenza di una struttura che si impone dall'esterno agli
individui e che lo scienziato sociale può decifrare si
rivelerà assai fertile e influenzerà lo sviluppo di
varie teorie sociologiche e antropologiche. Essa influenzerà
in particolare, tramite Radcliffe-Brown, la teorizzazione di
Parsons, ma anche, tramite Mauss e Lévi-Strauss, lo
strutturalismo francese, da quello neomarxista di Althusser e
Poulantzas, fino a quello costruttivista di Bourdieu (v. sopra,
capp. 7, 9 e 12). Si tratta di un'idea o di un'astrazione della
struttura sociale che sospinge l'osservatore fuori del tempo.
Un'idea che risulta particolarmente congeniale all'analisi
antropologica, la quale è - per forza maggiore - un'analisi
di società semplici, prive di storia e di scrittura, e per
ciò stesso sincroniche, 'fissate' nel tempo dalla compresenza
del mito. Essa appare però troppo unilaterale e costrittiva,
se applicata senza mediazioni all'analisi delle strutture di
società moderne e complesse, nelle quali il tempo storico
è denso di processi di interazione creativa tra gli attori
sociali e le strutture stesse.
Durkheim, dunque, ci offre una soluzione astorica del problema della
struttura sociale, situandosi, da questo punto di vista, su un
versante opposto a quello sul quale si situano Tocqueville, Marx e
soprattutto Weber (v. anche Skocpol, 1984, pp. 2 e 40; v. Boudon,
1988, pp. 42-43). Ora, noi siamo convinti che la spiegazione
sociologica delle strutture sociali è necessariamente di
natura storica. La duplicità della struttura sociale, come
fatto costrittivo e insieme come espressione creativa dell'azione
sociale, dipende dalla natura storica della società, come
realtà che si svolge nel tempo. Quando ci riferiamo alla
duplicità della struttura sociale, parliamo dei modi in cui
le azioni nel tempo diventano strutture e le strutture a loro volta
modellano le azioni. È per questo che un'adeguata
comprensione delle strutture sociali presuppone sempre - come in
Weber - un confronto serrato tra il concetto o il modello teorico
utilizzato e i risultati di una analisi storica concreta. Per
tornare a Durkheim, i limiti del suo approccio appaiono evidenti nel
fallimento (che egli ammette con franchezza nella prefazione alla
seconda edizione della Divisione sociale del lavoro) della sua
teoria circa la natura integrativa e solidaristica della struttura
della società contemporanea: quest'ultima si rivela, infatti,
storicamente tutt'altro che fonte di integrazione e
solidarietà sociale. Durkheim scopre così che le forme
che egli riteneva anormali di divisione del lavoro (e l'anomia che
esse portano con sé) sono non l'eccezione, bensì la
regola nelle moderne società industriali. Ma il problema di
metodologia sostantiva che questa scoperta pone, cioè il
problema della costruzione di un efficace concetto di struttura
sociale, non viene da Durkheim affatto risolto. (In proposito si
vedano Abrams, 1982, tr. it., pp. 39-40, e Paci, 1979, p. 560, dove
la concezione durkheimiana della disuguaglianza e della
mobilità sociale viene giudicata come "ipostatizzata rispetto
al concreto svolgersi della storia").
Più articolato deve essere invece il giudizio su Marx e sul
pensiero storico e sociale marxista. Certo, non si può dire
che manchino in Marx analisi puntuali della struttura sociale come
fonte e, insieme, come prodotto dell'azione umana, che situano tale
concetto nella processualità storica della società
capitalista. Eppure tali analisi appaiono giustapposte o non
integrate con quello che appare essere il corpus principale della
teoria marxiana, dedicato a un'analisi assai astratta, condotta sul
piano sistemico-deduttivo, della struttura del modo di produzione
capitalistico e delle sue interne contraddizioni. È quanto
abbiamo sottolineato in precedenza (v. sopra, le conclusioni del
cap. 3) richiamando l'idea di un parallelismo teoricamente non
risolto, in Marx, tra il piano delle relazioni oggettive tra gli
elementi strutturali, economici e istituzionali del sistema e quello
delle relazioni soggettive tra le classi e i gruppi sociali
storicamente in conflitto. Ed è quanto sottolinea anche
Abrams (v., 1982; tr. it., pp. 97-98), quando richiama "il problema
del difficile equilibrio, nella sociologia storica marxista, tra
esperienza e astrazione, tra spiegazione nei termini del significato
e dell'azione individuale e spiegazione nei termini della
struttura". Dopo Marx, del resto, "gli studiosi marxisti
contemporanei hanno trovato difficoltà anche maggiori nel
raggiungere tale equilibrio [...]. Così, ad esempio, Edward
Thompson, che è forse il più noto e stimato storico
marxista moderno, è accusato di privare la storia della
teoria, mentre egli rimprovera, a sua volta, i suoi critici di
privare la teoria della storia". (Su Thompson si vedano anche le
osservazioni fatte nel cap. precedente). Certo, su queste aporie
interne alla concettualizzazione marxista della struttura sociale
andrebbe misurato l'apporto originale di Gramsci, autore tanto
oggetto di studi e di interessi sociologici all'estero, quanto
negletto in patria: il concetto gramsciano di conformismo, ad
esempio, potrebbe essere utilmente confrontato con quello di habitus
di Bourdieu, come concetto-chiave in un'analisi della natura
processuale delle strutture sociali (v. sopra, capp. 6 e 12).
Ciò detto, tuttavia, si può sostenere in generale con
Abrams che "la sociologia storica di Marx e dei suoi discepoli non
è molto diversa da quella di Durkheim e della sua scuola.
[...] Alla fine, per entrambe le scuole il problema del significato
dell'azione è secondario perché si ritiene che
l'azione a un livello più fondamentale sia determinata, o
almeno adeguatamente spiegata, dalle più ampie condizioni e
contraddizioni strutturali nelle quali gli individui vengono a
trovarsi e debbono agire. Il significato dell'azione non è
studiato direttamente, ma viene dedotto dal contesto strutturale. Ed
è qui che il problema del significato e dei contesti
culturali dell'azione si rivela come un anello mancante nella catena
della spiegazione storica di Marx e di Durkheim. Questo anello
mancante è invece l'oggetto fondamentale della sociologia
storica di Weber" (v. Abrams, 1982; tr. it., pp. 100-101).In
effetti, come abbiamo visto in precedenza (v. sopra, cap. 4), le
strutture sociali per Weber vanno comprese essenzialmente in termini
di interazione sociale sia, in generale, nel senso che esse esistono
in quanto esistono determinati modi di agire reciproci orientati in
determinate direzioni, sia, in particolare, nel senso che esse sono
spesso la conseguenza non prevista dell'azione sociale. Weber innova
rispetto alle analisi di Marx e di Durkheim proprio perché
appronta una metodologia (quella della tipizzazione ideale) volta a
cogliere le ragioni degli attori nello svolgimento dei processi
storici. Risalire alle ragioni degli attori e alla loro interazione
vuol dire essenzialmente, per Weber, comprendere le strutture
sociali nella loro specificità storica. Il ricorso al metodo
della tipizzazione ideale non comporta un'analisi puramente
situazionale o sincronica dell'interazione sociale (come
nell'individualismo metodologico forte e talora anche in Boudon), ma
un'analisi dotata di spessore storico. Le strutture sociali hanno
origine dall'interazione sociale. Ma proprio perché le
immerge nel loro contesto storico, Weber è in grado di
metterne in luce anche il carattere relativamente vincolante per
l'azione sociale: esse, infatti, una volta sorte, sono dotate di un
certo grado di coercitività. L'azione origina le strutture,
ma a sua volta ne è condizionata ed entrambi i processi si
svolgono nella storia. Se è vero che le strutture sono il
risultato di processi sociali di medio-lungo periodo, nel corso dei
quali si consolidano effetti di aggregazione o effetti inattesi
dell'azione sociale, è anche vero che esse, una volta
consolidate, costituiscono, per Weber, il contesto entro il quale -
e solo entro il quale - quell'azione può svilupparsi e
acquistare significato. Prendendo a prestito ancora le parole di
Abrams (v., 1982; tr. it., p. 19), possiamo concludere dicendo che
"il mondo sociale è essenzialmente storico e il legame tra
struttura e azione è costituito dal processo".