Stratificazioni sociali
di Talcott Parsons
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1984)
Sommario: 1. Introduzione. 2. Teorie sull'origine delle classi
sociali. 3. Momenti rilevanti nella storia della stratificazione in
Occidente. 4. Lo sviluppo dello Stato nazionale moderno. 5. La
‛democratizzazione' degli strati sociali superiori nella
società occidentale. 6. Il conflitto tra socialismo e
capitalismo e le recenti tendenze delle strutture di classe. 7.
Stratificazione ed eguaglianza delle opportunità. 8. La
stratificazione tra le nazioni. 9. Conclusione: vi è oggi un
equivalente funzionale delle aristocrazie tradizionali? □
Bibliografia.
1. Introduzione
Il termine ‛stratificazione sociale', di cui ‛classe sociale'
è una sottocategoria, si riferisce, per consenso
pressoché generale degli studiosi di scienze sociali, alla
distribuzione differenziale, su scala di superiorità o
inferiorità relativa, delle unità dei sistemi sociali,
siano questi società nel loro insieme o varie altre categorie
sociali (v. Parsons, 1953 e 1970). Queste unità possono
essere individui considerati in quanto membri della società o
di gruppi, oppure sottogruppi o sottocollettività di molti
tipi diversi. Farò uso del concetto di ‛prestigio' relativo,
come del termine di riferimento più generale per questa
distribuzione differenziale degli status. Il prestigio può
essere, a sua volta, rapportato alla stima socialmente diffusa, al
conseguimento di particolari risultati, a posizioni relative di
responsabilità e potere nell'organizzazione della
collettività (in particolare dello Stato), all'appartenenza a
determinati gruppi culturali (quali il clero e gli altri specialisti
di cose religiose, gli artisti, gli scienziati e simili), al grado
di ricchezza, con la relativa possibilità di accedere a certi
modelli di consumo prestigioso, a opportunità di varia natura
e simili.
È bene chiarire fin dall'inizio che la stratificazione
così intesa è soltanto una delle dimensioni della
differenziazione di status tra le unità dei sistemi sociali.
Tra le altre, la più importante presumibilmente è la
differenziazione qualitativa degli status a seconda della loro base:
in questo senso, particolare rilievo hanno, nelle società
più altamente differenziate (quelle moderne in special modo),
le differenze in base alla funzione. Benché le funzioni siano
di fatto anche oggetto di una valutazione come più o meno
onorifiche e prestigiose non c'è alcuna ragione di carattere
generale per ritenere che le persone impegnate principalmente
nell'esercizio di funzioni politiche nell'ambito governativo, siano
esse ai massimi vertici o ai gradini più bassi, oppure
nell'esercizio di funzioni di produzione economica, di creazione
culturale in campo artistico o intellettuale, stiano, per questo
solo fatto, in rapporto gerarchico tra loro in una qualsiasi maniera
definita e generale. Vi sono società nelle quali il sapere e
l'insegnamento godono di un prestigio particolarmente alto e altre
in cui sono tenuti in minor conto; lo stesso vale, ad esempio, per
le attività nel settore economico o in quello politico; non
sembra tuttavia si possa arrivare ad alcuna generalizzazione
universalmente valida circa l'esistenza di un ordine intrinseco di
classificazione nella valutazione di funzioni come queste.
Una completa eguaglianza di status, dal punto di vista del
prestigio, è ovviamente il caso limite in cui la
stratificazione, nel senso sopra descritto, scompare; ovvero
può essere anche considerata come un caso particolarissimo,
cioè un caso limite della stratificazione stessa. Da un punto
di vista empirico, non si dà alcun caso di totale assenza di
stratificazione al livello di una società globalmente
considerata. Ad esempio, certe società molto primitive, come
quelle degli aborigeni australiani, non hanno ‛classi sociali' nel
senso usuale del termine, ma mostrano un'evidentissima
stratificazione in rapporto all'età e al sesso (v. Warner,
1958) gli uomini hanno la preminenza, per certi aspetti molto
generali, nei confronti delle donne, così come, naturalmente,
ce l'hanno gli adulti nei confronti dei bambini; ma anche nella
categoria degli adulti, specie tra gli uomini, tende a delinearsi
una posizione di particolare prestigio a favore dei gruppi di
età più avanzata, di quelli cioè che vengono
talvolta chiamati gli ‛anziani' della tribù o del clan (v.
Evans-Pritchard, 1963; v. Lienhardt, 1954; v. Fortes ed
Evans-Pritchard, 1940; v. Nadel, 1951).
Certo è comunque che nella cultura occidentale, a partire
almeno dall'antica Grecia, è stato sempre attribuito un
grande valore all'eguaglianza e si è guardato con una specie
di nostalgia a un passato mitico, in cui gli uomini vivevano, se non
in un'assoluta eguaglianza, almeno in una condizione a essa molto
più vicina di quella attuale (v. Wilamowitz-Moellendorff,
1910) I miti dell'età dell'oro hanno di continuo posto
l'accento sul tema dell'eguaglianza il concetto marxiano e di
‛comunismo primitivo' non è il caso meno significativo.
Movimenti sociali e altre forme di pressione in favore di una
riduzione delle diseguaglianze, e quindi di una maggiore
eguaglianza, hanno costituito una rilevante caratteristica
già presente nella rivoluzione puritana e nelle prime
tendenze democratiche del Cinque e Seicento, e poi particolarmente
spiccata a partire dall'illuminismo e dalla Rivoluzione francese
pressoché di tutte le società moderne (v.
Halévy, 1901-1904; v. Palmer, 1959-1964). L'epoca
contemporanea sembra investita da una nuova, più intensa
ondata di spirito egualitario, che in parte si esprime in programmi
radicalmente rivoluzionari, ma, in misura assai più ampia, si
manifesta come generale tendenza a mettere in questione la
legittimità delle diseguaglianze nella società umana.
Questo orientamento egualitario sembra essere una caratteristica
permanente del sistema di valori della cultura occidentale.
2. Teorie sull'origine delle classi sociali
Le più importanti forme di stratificazione, almeno al livello
della società nel suo insieme, sembrano essere state quelle
in cui la differenziazione delle popolazioni in strati di prestigio,
prerogative, privilegi e responsabilità differenti si basava
sulla continuità intergenerazionale, quelle cioè in
cui uno status superiore e/o inferiore era, in misura determinante,
socialmente ereditato attraverso la consanguineità e la
parentela. Il termine ‛mobilità' è ordinariamente
usato, da questo punto di vista, per designare i processi di
cambiamento di status da parte di membri di una generazione nei
confronti dei genitori e di altri ascendenti. Possiamo usare il
termine molto generale di ‛differenziazione di classe' per designare
questo tipo di stratificazione. Il suo insorgere è
chiaramente connesso con la differenziazione che, come è
stato rilevato particolarmente da Shils (v., 1970), ma anche da
altri come Eisenstadt (v., 1961 e 1966), si produce tra il ‛centro'
e la ‛periferia'. Il centro è legato all'emergere di certi
elementi differenziati di ‛direzione' nel funzionamento di una
società (lo stesso discorso può farsi riguardo alle
sottosocietà). L'emergere di un centro è quasi sempre
connesso al consolidarsi di un'autorità politica su base
territoriale e al fatto che l'autorità politica non è
in genere equamente distribuita nell'insieme della popolazione, ma
è concentrata nelle mani di minoranze ‛elitarie', le quali
sono assai spesso aristocrazie ereditarie, ma possono anche, in
determinate occasioni, configurarsi in modo diverso. Anche nel caso
paradigmatico della democrazia nella Grecia classica, il principio
egualitario si applicava soltanto al gruppo dei cittadini maschi
adulti, cioè a una minoranza rispetto alla popolazione totale
dell'unità politica per esempio, ad Atene nell'età di
Pericle si stima vi fossero, compresi le donne e i bambini, solo
trentamila ‛cittadini' circa, il che rappresentava all'incirca un
quinto della popolazione totale della polis. Ciò vorrebbe
dire che la cittadinanza maschile adulta si aggirava intorno alle
diecimila persone. Atene, a sua volta, aveva una posizione di
egemonia all'interno di un sistema di città-Stato, le cui
singole unità erano ben lungi dall'essere completamente
eguali tra loro. Così, malgrado gli elementi egualitari,
destinati ad avere - sul terreno della ‛cittadinanza' - profonde
conseguenze storiche, è ben difficile dire che la
società della Grecia classica abbia rappresentato un caso di
‛egualitarismo puro'.
In aggiunta, e in stretta connessione, allo sviluppo dei centri
politici, è da rilevare, soprattutto nelle primissime fasi di
evoluzione societaria, la formazione di centri di autorità e
prestigio sia nella sfera religiosa che in quella economica, le
sfere cioè del controllo e della produzione della ricchezza.
Una società come quella dell'antico Egitto, ad esempio,
combinava tutte e tre le specie di ‛centri' in un rapporto reciproco
estremamente stretto la dinastia reale era il fulcro primario sia di
un'autorità politica fortemente accentrata, sia di
un'organizzazione religiosa non meno centralizzata (v. Frankfort,
1948 e 1961); quasi certamente essa aveva un ruolo primario anche
nel controllo delle risorse economiche e del loro uso, come
testimoniano particolarmente i palazzi, i templi, le piramidi tutte
opere strettamente collegate alla dinastia reale (v. Wilson, 1951;
v. Edgerton, 1947 e 1959).
Nei primi anni del nostro secolo si è sviluppata una vivace
controversia, in parte motivata da considerazioni ideologiche,
intorno al problema se la stratificazione si sia sviluppata
attraverso la differenziazione interna di comunità già
esistenti, oppure attraverso l'imposizione di una dominazione
esterna. Uno tra i principali sostenitori di questa seconda ipotesi
fu il sociologo-economista, più o meno marxista, F.
Oppenheimer (v., 1919), il quale riteneva, essenzialmente, che i
più importanti modelli di stratificazione fossero tutti il
risultato di conquiste o altre forme di coercizione. Un notevole
esempio storico è certo quello della cosiddetta invasione
‛ariana' dell'India; in questo paese, infatti, furono i discendenti
dei conquistatori ariani a dare origine alle caste più
elevate, mentre le caste inferiori vennero costituite dalle
popolazioni indigene, prevalentemente dravidiche (v. Bouglé,
1908; v. Sénart, 1896). Simili modelli sono stati applicati
anche alla Grecia antica, dove - si è sostenuto - la classe
superiore fu formata specialmente dai conquistatori Dori, che
sottomisero le popolazioni indigene.
Secondo un'altra variante di questa teoria, gli elementi subordinati
sarebbero stati, per così dire, ‛importati'. Nel mondo
mediterraneo antico, ad esempio, la schiavitù era un fenomeno
di massa e la maggiore fonte di schiavi era costituita indubbiamente
dai prigionieri di guerra. Così M. Weber (v., 1896) nel suo
ben noto saggio sulla decadenza dell'Impero romano pone soprattutto
l'accento sulla tesi secondo cui la pacificazione dell'Impero,
specie nelle relazioni con i popoli confinanti, portò
all'esaurirsi delle possibilità di rifornimento di nuovi
schiavi; il che ebbe come risultato, essenzialmente, di rendere non
più praticabile il vecchio modello dell'economia schiavistica
e spiega in gran parte la transizione, particolarmente
nell'organizzazione rurale, alle varie forme di affittanza e infine
ai modelli medievali. Il fenomeno degli schiavi importati ebbe
indubbiamente una nuova, notevole ripresa dopo il periodo delle
grandi scoperte geografiche, con la massiccia immissione nelle
Americhe - in tutta l'area che va dal Brasile alla parte meridionale
dei futuri Stati Uniti - di Negri africani, che venivano sradicati
con la forza dalle loro società di origine per essere, nella
massima parte dei casi, venduti nel Nuovo Mondo. Questo fenomeno era
ovviamente legato soprattutto all'economia di piantagione, la quale
acquistò infatti grande importanza nell'intero arco delle
aree schiaviste. Certamente, questi due casi sono tutt'altro che
isolati. In gran parte dell'area della dominazione musulmana, ad
esempio, vi fu una massiccia riduzione in schiavitù di
sudditi appartenenti agli strati inferiori della popolazione.
Malgrado la rilevanza storica di casi del genere, possiamo
però affermare, se non altro, che la stratificazione, in un
grandissimo numero di casi (di ogni epoca), è l'effetto di
processi di differenziazione interni e relativamente spontanei.
Quello che ho chiamato stadio ‛avanzato' di sviluppo delle
società primitive (v. Parsons, 1966) è caratterizzato
in modo specifico dall'emergere, attraverso la formazione di centri
di potere - specialmente politico e religioso - che si differenziano
rispetto alla gente comune, di una classe superiore ereditaria (v.
Evans-Pritchard, 1963). Un aspetto particolarmente rilevante di
questo processo è il seguente: molte delle società piu
primitive, se considerate dal punto di vista delle relazioni di
parentela tra stirpi e clan, costituiscono una specie di ‛tessuto
senza cuciture', in cui tutti i membri della società sono in
rapporto di parentela con tutti gli altri secondo varie combinazioni
di legami di discendenza e di affinità. In tali circostanze,
l'intera società diviene - secondo l'espressione di C. D.
Ackerman (v., 1965) - un'unica ‟comunità di affini"; il passo
decisivo verso la stratificazione delle classi è allora la
rottura di questo ‛tessuto senza cuciture', col risultato che alcuni
gruppi superiori divengono endogami, si imparentano cioè gli
uni con gli altri senza mescolarsi, su questo piano, con la gente
comune. Questo processo di esclusione, ovviamente, si è
attuato con gradi notevolmente diversi di rigore, ma in quelle che
noi consideriamo le aristocrazie classiche, soprattutto (ma non
certo esclusivamente) in Occidente dal Medioevo in poi, esso
è stato certamente una nota dominante. La proibizione, per i
figli degli aristocratici, di sposare persone non nobili ha
costituito, insomma, una caratteristica comune a tutte le
società aristocratiche.
Tali processi, naturalmente, si sono mostrati inclini ad associarsi
strettamente alla ricchezza e al potere, frutto - nell'evoluzione
delle società aristocratiche - della relativa
monopolizzazione della proprietà terriera. In effetti, nella
storia europea, per quanto importante possa esser stata, nel periodo
delle migrazioni di popoli, l'influenza di invasori vittoriosi quali
le tribù germaniche, questa basilare differenziazione interna
delle comunità sembra nondimeno esser stata, in generale, il
processo fondamentale.
Sia pure con molte variazioni, simili processi di differenziazione
si sono verificati in molti periodi della storia e in molte parti
del mondo. Così, benché i nuclei etnici che finirono
per acquistare posizioni dominanti, con la costituzione del popolo
di Israele in entità distinta, esercitassero molte
prerogative dei conquistatori, è difficile affermare, in un
senso preciso, che quella che divenne la classe ‛dominante' della
nuova entità politica - istituzionalizzatasi specialmente col
regno di Davide e di Salomone - fosse un gruppo etnicamente
differenziato governante in seguito a conquista sui gruppi
subordinati (v. Moore, 1927). Le intricate interrelazioni tra coloro
che sicuramente appartenevano al gruppo dominante e quelli che non
vi appartenevano sono analizzate da E. Leach (v., 1969) nel suo
saggio sulla ‛legittimazione' di Salomone.
Circa l'instaurarsi dei sistemi di stratificazione possiamo dunque
concludere, generalizzando, che, nonostante l'importanza che in
molti casi concreti può aver rivestito l'intervento - specie
sotto forma di conquista - di elementi di potere stranieri, o
l'importazione di schiavi, o la schiavizzazione delle classi
inferiori, tuttavia il più generalizzato e importante
processo di fondo è stato quello consistente nello
‛spontaneo' differenziarsi della società stessa in base allo
sviluppo di distinzioni, in seno alla popolazione, tra gruppi di
differente prestigio. Questa differenziazione sembra essersi sempre
associata allo sviluppo di un qualche tipo di ‛centri', nel senso
proposto da Shils (v., 1970), che possono avere natura
prevalentemente politica o religioso-culturale, o entrambe,
intimamente intrecciate tra loro.
Così, nel caso dell'aristocrazia della Roma imperiale,
cioè in particolare della classe senatoria, il fattore
principale era chiaramente di natura politica. Nel caso
dell'induismo classico in India, sembra fosse più di natura
religioso-culturale che politica (v. Ketkar, 1911; v. Weber,
1920-1921, vol. II): solo per brevi periodi, infatti, l'India
classica fu politicamente unita, mentre, se si escludono gli
intervalli di predominio buddhista, l'egemonia della casta
bramanica, una volta instauratasi, costituì la base dei
‛centri', la base da cui dipendeva l'attribuzione del prestigio (in
questo caso, prevalentemente secondo criteri di purezza rituale).
È un modello che si mantenne per parecchi secoli, dando prova
di straordinaria stabilità; quali che possano essere state,
in un remoto passato, le relazioni tra stirpi ariane e dravidiche
dopo la conquista, esse non possono evidentemente spiegare la
configurazione e la persistenza del sistema castale indiano.
3. Momenti rilevanti nella storia della stratificazione in Occidente
Benché, di fatto, si siano avute sia una dicotomizzazione
relativamente netta, sia una gradazione istituzionalizzata di
molteplici livelli, ci sembra lecito sostenere che, nei sistemi di
stratificazione sul tipo di quelli ora menzionati, si è
manifestata un'accentuata tendenza dicotomizzante. In altri termini,
si è avuta tendenzialmente un'aristocrazia, o classe
superiore, costituente una minoranza (l'appartenenza alla quale era
soprattutto ereditaria), sovraordinata e contrapposta a una
maggioranza di ‛gente comune', generalmente impegnata nelle
attività lavorative di più modesto prestigio:
contadini, taglialegna, portatori di acqua, la gente insomma
occupata in mansioni di carattere prevalentemente manuale. Questi
stessi erano poi i soldati semplici nelle formazioni militari,
mentre agli aristocratici era per lo più riservato il grado
di ufficiale.
La stratificazione della società occidentale è stata
caratterizzata da un peculiare insieme di tratti, dovuto a un
dualismo, profondamente radicato, dei modelli di relazione
superiore-inferiore. Ciò risale all'eredità del mondo
mediterraneo classico, dove - soprattutto nell'area orientale, ma
anche in quella occidentale, specie in Italia e non limitatamente
alla sola Roma - acquistò un ruolo predominante la polis,
l'organizzazione cioè della città-Stato. Per lungo
tempo dopo che le poleis greche ebbero perso la loro indipendenza
politica, la città-Stato rimase l'unità fondamentale,
sebbene priva della piena autonomia politica, della struttura
sociale. Questo modello si diffuse in tutto l'Impero romano
improntando lo status delle comunità locali, che i Romani
chiamavano municipia. Benché le poleis greche e le loro
discendenti nell'Impero romano non fossero, come già abbiamo
notato, strutture propriamente egualitarie, esse possedevano
tuttavia un elemento di ciò che potremmo chiamare
‛associazionismo collegiale' la popolazione vi era divisa in ‛corpi'
- nei quali vigeva una condizione di piena cittadinanza - che
costituivano una sorta di associazioni di eguali. In altri termini,
la struttura interna di una polis o di un municipium era ben lungi
dall'essere semplicemente di tipo gerarchico; consisteva piuttosto
in una giustapposizione di livelli relativamente distinti, entro i
quali vigeva una condizione assai vicina all'eguaglianza di status
(v. Fowler, 1922).
Attraverso complesse vicende questo modello sopravvisse fin
nell'Europa moderna (v. Weber, 1922). Entro l'area della
cristianità occidentale esso ebbe per lungo tempo il massimo
rilievo in Italia, dove il modello feudale, nella sua forma classica
(v. Bloch, 1939-1940), non raggiunse mai una preminenza paragonabile
a quella che ebbe a nord delle Alpi. Ma anche in certe regioni
dell'Europa settentrionale il modello municipale ha avuto un ruolo
notevole sino all'epoca moderna; ciò vale in particolare per
quell'area immediatamente a nord delle Alpi, il cui asse principale
era la valle del Reno, ma che si estendeva dalla Svizzera al Mare
del Nord e oltre (v. Rokkan, 1967). Per secoli, alcune di queste
comunità ebbero lo status formale di ‛città libere
dell'Impero'; inoltre, anche fuori di quest'area, in un paese come
l'Inghilterra i cosiddetti boroughs, a cominciare dalla stessa
città di Londra, godettero di una speciale autonomia basata
su un certo modello egualitario di associazione collegiale (si pensi
alle gilde, che riunivano sia mercanti che artigiani).
Giustapposto a questo modello ‛municipale' di organizzazione ve
n'era un altro, predominante nei settori rurali della società
europea (anche in questo caso, soprattutto a nord delle Alpi). Quivi
si era consolidata (v. Bloch, 1939-1940) un'aristocrazia che
esercitava un vasto controllo sugli affari locali del feudo, in
primo luogo i suoi membri erano insieme proprietari e ‛signori' del
territorio, vi esercitavano cioè anche il potere politico e
giudiziario essi avevano inoltre un ruolo preminente
nell'organizzazione militare.
Questa aristocrazia ‛feudale', caratterizzata dal suo stretto legame
con la terra, costituì la fonte primaria dell'aristocrazia
europea. Con il formarsi, specie sotto la guida regia, di più
vaste e solide strutture politiche, nacque un complicato problema di
equilibrio tra il potere e l'autorità del sovrano, da un
lato, e, dall'altro, l'influenza, particolarmente rilevante nella
sfera economica, delle più o meno libere e autonome
municipalità. Il nucleo primario della struttura di potere
dello Stato moderno fu tuttavia il frutto dell'alleanza tra
l'istituzione monarchica e le aristocrazie legate alla
proprietà fondiaria. Accadde infatti che, crescendo il
prestigio delle strutture statali politicamente organizzate,
l'aristocrazia terriera mise progressivamente in ombra i gruppi
superiori delle comunità municipali. Questo processo era
evidentemente legato alla funzione militare, che era assai meno
rilevante per i gruppi superiori municipali.
Bisogna inoltre tenere presente che, nella struttura e nella
stratificazione della società europea medievale e
postmedievale, una ‛terza forza' era rappresentata dalla Chiesa.
È di importanza cruciale il fatto che la Chiesa cattolica
occidentale fosse strutturalmente distinta dallo Stato, la cui sfera
comprendeva virtualmente l'intera società secolare non
ecclesiastica (v. McIlwain, 1932). Vi fu certamente la tendenza a
una stretta alleanza tra aristocrazia secolare e alto clero, ma, per
quanto stretta fosse, essa non fu mai tale da annullare la
distinzione tra le due organizzazioni. Senza dubbio, la distinzione
era rafforzata dal celibato del clero (v. Lea, 1907), istituto in
virtù del quale un vescovo poteva avere bensì figli
naturali, ma non eredi legittimi, cosicché le cariche
ecclesiastiche non potevano diventare ereditarie.
Col tempo, e soprattutto in seguito al fiorire della vita economica,
i ceti superiori delle città cominciarono ad acquistare
un'importanza relativamente crescente, soprattutto rispetto alle
aristocrazie terriere. Questo processo si dimostrò ovviamente
di cruciale importanza nella crisi della Rivoluzione francese, crisi
che oppose l'aristocrazia alla bourgeoisie (v. Lefebvre, 19572). Il
termine bourgeoisie è particolarmente significativo
perché indica soprattutto i gruppi superiori delle
città in quanto distinti dai gruppi superiori della
società rurale. Anche se pervennero, nel complesso, a una
relativa opulenza e, sotto molti aspetti, acquistarono un'influenza
generalmente rilevante sia nella sfera politica che in altre sfere,
questi gruppi borghesi non furono però mai inclusi, almeno
non in maniera massiccia, nella sottosocietà costituita
dall'aristocrazia titolata. Vi furono a questo proposito, è
vero, importanti differenze a seconda dei luoghi e delle epoche, ma
la nostra generalizzazione rimane nondimeno accettabile. É
infatti noto che la punta di diamante della Rivoluzione francese fu
costituita precisamente dalla classe borghese intesa in questo
senso, la quale non era assolutamente un proletariato in senso
marxiano non si trattava, per dirla in generale, dei poveri, ma del
gruppo di coloro che, in primo luogo, erano esclusi dal prestigio
derivante da certi speciali privilegi di cui godeva la vecchia
aristocrazia. In Francia, la circostanza che ebbe una così
cruciale importanza non fu soltanto che i ‛borghesi' fossero privi
di titolo, bensì che fossero in genere esclusi dalla vita,
fonte d'immenso prestigio, della corte di Versailles. Il succo della
precedente considerazione è che, dal Medioevo in poi, il
sistema di stratificazione europeo non può considerarsi come
semplicemente dicotomico; cionondimeno, la divisione tra
l'aristocrazia terriera e i gruppi superiori urbani (la borghesia
per eccellenza) si dimostrò un fattore di cruciale importanza
per gli sviluppi futuri.
4. Lo sviluppo dello Stato nazionale moderno
Dalla Rivoluzione francese dobbiamo ora risalire al processo di
sviluppo politico-sociale attraverso cui la ‛società
secolare' giunse, dalla precaria unità del medievale Sacro
Romano Impero al sistema, sia pure imperfetto, di quelli che saranno
in seguito chiamati gli Stati nazionali. È da notare, come
fatto assai significativo, che Francia e Gran Bretagna, le quali
furono le antesignane nello sviluppo degli Stati nazionali, non
riconobbero mai pienamente la propria appartenenza al Sacro Romano
Impero, non riconobbero cioè in termini più o meno
feudali la posizione dei loro sovrani come vassalli dell'imperatore.
Questo loro ruolo di avanguardia nella costruzione dei primi modelli
della monarchia moderna riposava sulla convinzione che, alla base di
un'unità politicamente organizzata, ci fosse qualcosa di
simile a ciò che noi oggi chiameremmo omogeneità
etnica. Ritengo si possa affermare che tale omogeneità
consisteva soprattutto nella partecipazione a una tradizione
culturale comune, la quale era poi una variante del più vasto
retaggio europeo-occidentale. Almeno a partire dalla Riforma, la
tradizione comune comprendeva anche la religione, secondo la famosa
formula della pace di Vestfalia ‛cuius regio eius religio', nella
quale si esprime una situazione in certo modo analoga a quella della
krusceviana ‛coesistenza pacifica', con la sua divisione tra
società capitaliste e società comuniste. Il mondo
europeo, insomma, si divise in paesi cattolici e paesi protestanti,
all'interno dei quali, come proclamava la formula di Vestfalia, il
credo religioso del principe doveva essere anche quello di tutti i
sudditi. Questa non si dimostrò tuttavia, a lungo andare, una
soluzione stabile e negli Stati europei si affermò
progressivamente un maggior pluralismo religioso.
Il moderno concetto di appartenenza etnica non si riferisce solo a
una certa tradizione nazionale comune, ma pone particolarmente
l'accento sulla lingua, tanto che il tipo ideale di Stato nazionale
è quello basato sull'unità di lingua, il che era
anzitutto in contrasto con l'uso universale del latino da parte
della Chiesa cattolica. La traduzione tedesca della Bibbia, fatta da
Lutero, cui presto seguirono altre versioni nelle varie lingue
volgari, fu un simbolo importantissimo di caratterizzazione etnica.
Fu in questa fase che le aristocrazie divennero, in maniera
più o meno definita, aristocrazie nazionali. Questa
identificazione nazionale fu notevolmente rafforzata dal ruolo
esercitato dai monarchi nei confronti delle dinastie reali di cui
erano a capo il monarca era, per definizione, il capo
dell'aristocrazia, e vi era tutta una gradazione di prestigio
aristocratico che partiva dalla stessa famiglia reale per scendere,
attraverso una serie di gradi intermedi, fino al livello della
piccola nobiltà di provincia. Ciò veniva espresso con
l'affermazione che il monarca non solo era politicamente il ‛capo
dello Stato', ma era anche il ‛primo gentiluomo' della nazione.
Il modello sopra delineato, però, non si presentava mai nella
sua forma ‛pura'. Anche Francia e Inghilterra costituivano delle
varianti rispetto al tipo puro dello Stato nazionale. L'Inghilterra
ha sempre avuto la sua ‛frangia celtica' statuti speciali furono
accordati al Galles (anche dopo la costituzione del Regno Unito),
alla Scozia e, in misura più rilevante, all'Irlanda. Per
quanto riguarda la Francia, le sue frontiere etnico-nazionali
restarono a lungo indefinite: va ricordato che buona parte della
Francia settentrionale rimase sotto la giurisdizione politica
inglese fino al XIV secolo. Similmente, le frontiere col mondo
germanico in Borgogna ad esempio non furono ben chiare per molto
tempo; questo è anche il caso, nel Sud, e fino a epoche
più recenti, di aree come la Savoia, in rapporto alla
nazionalità italiana. Un'altra delle maggiori componenti del
sistema europeo, quella che si sviluppò gradualmente
nell'Impero austroungarico, non si costituì mai in Stato
nazionale nel senso classico, ma rimase un'entità
multinazionale, la cui origine risaliva, in primo luogo, alla
politica matrimoniale dell'imperatore Massimiliano, il quale
unì la corona austriaca a quelle di Boemia e di Ungheria, di
due paesi cioè etnicamente non germanici. Inoltre, dal tardo
Medioevo in poi abbiamo quella struttura in certo senso anomala che
è la Svizzera, una confederazione di piccole unità
autonome, nella quale la componente predominante è affiancata
da una componente francese assai rilevante e da una italiana di
apprezzabile importanza.
Nel corso di questi sviluppi il principale modello di
stratificazione delle società ‛nazionali' tendeva a ruotare
intorno all'istituzione dell'aristocrazia. Un fattore latente di
modificazione era certamente rappresentato dalla borghesia, ma il
costituirsi degli Stati nazionali rovesciò i locali equilibri
di potere a favore dell'alleanza, sopra menzionata, tra monarchia e
aristocrazia fondiaria. Le unità municipali, che pure avevano
avuto un'estrema importanza storica, erano troppo piccole per
competere con la spinta all'unificazione dei regni nazionali, spinta
che costituì, per un periodo considerevole, la tendenza
dominante. Certo, nell'età immediatamente successiva al
Medioevo, anche nell'Europa del Nord quelli che talvolta vengono
chiamati i ‛patriziati' delle comunità urbane si collocavano
in una posizione quanto meno di eguaglianza, e a volte di
superiorità, nei confronti della nobiltà fondiaria; ma
questa situazione cambiò drasticamente nel corso della
formazione degli Stati nazionali moderni. E in questo quadro che va
vista la situazione che fece esplodere i conflitti della Rivoluzione
francese, un quadro caratterizzato, per usare l'odierna terminologia
delle scienze sociali, da una ‛deprivazione relativa' delle classi
superiori borghesi nei confronti dell'aristocrazia. Si tratta di un
conflitto la cui incidenza non fu ovunque uniforme; in Francia esso
divenne particolarmente acuto a causa dell'esclusione della
borghesia non tanto, e non completamente, dal potere politico,
quanto, e in maniera particolarissima, dal prestigio della vita di
corte. Ebbe un notevole peso, in tale contesto, il fatto che una
componente particolarmente importante delle strutture superiori
della società francese fosse rappresentata, nel periodo
prerivoluzionario, dai ‛parlamenti', i quali non erano, come in
Inghilterra, corpi prevalentemente legislativi quanto piuttosto
corpi giudiziari. Il punto cruciale è che ai membri dei
parlamenti venne formalmente concesso lo status aristocratico: essi
divennero la ‛nobiltà di toga', che costituiva una specie di
aristocrazia di second'ordine rispetto alla ‛nobiltà di
spada', quella cioè con funzioni prevalentemente militari (v.
Ford, 1953). Un altro importante motivo di malcontento della
borghesia nei confronti dell'aristocrazia era il regime di esenzioni
fiscali di cui quest'ultima godeva e che era esteso fino ai gradi
relativamente bassi della nobiltà, che spesso si erano
notevolmente impoveriti nel corso del Settecento.
Assai diversa la situazione in Inghilterra (v. Trevelyan, 19372),
dove esisteva un gruppo sociale analogo alla bourgeoisie francese,
che aveva avuto accesso, fin dagli inizi, alle assemblee
parlamentari, accesso che andò allargandosi dopo il Reform
act del 1832. Ma ciò che differenziava grandemente
l'Inghilterra era la combinazione di due fattori: un diritto di
primogenitura molto più rigido che in Francia e la divisione
di quella che la maggior parte dei sociologi chiamerebbe
aristocrazia in una nobiltà titolata e in una gentry priva di
titolo. In effetti, la parola inglese gentleman ha avuto, fin
dall'inizio dell'età moderna, una connotazione alquanto
peculiare, in quanto indicava semplicemente una persona di ‛nobili
natali' (gentle birth). Nella società inglese le linee di
divisione tra l'aristocrazia titolata e la gentry e tra la gentry e
la ‛gente comune' erano, soprattutto per quanto riguarda i simboli
del prestigio sociale, assai meno rigide che in Francia; il che si
spiega con le maggiori possibilità di ascesa dal livello
della gente comune a quello della gentry e, per nomina reale, da
quest'ultimo a quello della nobilità titolata. Il titolo,
com'è noto, veniva conferito a persone non nobili che
avessero reso alla Corona speciali servizi di carattere militare o
nei diversi campi della politica e della finanza. Una carriera
paradigmatica è quella del grande eroe militare britannico
della prima metà dell'Ottocento: all'origine, egli era
semplicemente Arthur Wellesley, un gentleman anglo-irlandese
(gentleman in senso tecnico); nel corso della sua carriera militare
divenne il generale sir Arthur Wellesley, per giungere infine al
titolo di duca di Wellington, cioè a una posizione altissima
nell'aristocrazia, vicina a quella della stessa famiglia reale.
Egli, inoltre, terminata la sua carriera militare, svolse
(nient'affatto gratuitamente) funzioni di primo ministro, in un
periodo in cui il primo ministro non sedeva ancora alla Camera dei
Comuni bensì alla Camera dei Lords. Un'altra interessante
caratteristica del sistema inglese era il conferimento del titolo
nobiliare sia all'alto clero della Chiesa d'Inghilterra il titolo
era di Lord Bishop e comportava l'appartenenza alla Camera dei Lords
sia ai più alti gradi della magistratura, cui spettava il
titolo di Lord Justice. Questo tipo di nobiltà, tuttavia, non
era ereditario, anche se nessuna di queste due categorie era
vincolata al celibato: era cioè uno status nobiliare legato
alla carica; esso costituì, in un certo senso, il modello per
quello che sarà in seguito il titolo di ‛pari a vita' (life
peerage), divenuto comune oggi in Inghilterra.
5. La ‛democratizzazione' degli strati sociali superiori nella
società occidentale
La Rivoluzione francese fu il grande evento simbolico che
segnò la fine dell'egemonia aristocratica nella
società occidentale. La sua influenza non fu ovunque la
stessa, ma certamente la trasformazione complessiva, verificatasi
negli ultimi due secoli, è stata molto profonda. Il regime
rivoluzionario, il regime cioè precedente alla restaurazione
borbonica, abolì del tutto gli antichi titoli nobiliari, i
quali - affiancati prima dalla napoleonica noblesse d'Empire e poi
restaurati sotto Luigi XVIII, Carlo X, Luigi Filippo e Napoleone III
- non ebbero, nella Francia repubblicana, alcun valore ufficiale (v.
Pitts, 1963). Non fu però questo il caso della maggior parte
degli altri paesi europei, nei quali il valore dello status
nobiliare subì comunque un processo di erosione, che si
accelerò grandemente con la prima e la seconda guerra
mondiale, le quali, tra l'altro, ebbero come conseguenza la caduta
di molte delle più vecchie e tradizionali monarchie: la
tedesca, la spagnola, l'asburgica, la russa, l'italiana. Le
monarchie che sopravvissero erano tutte, come usualmente si dice,
monarchie costituzionali: il caso più notevole è
quello dell'Inghilterra, ma vanno ricordati anche l'Olanda, il
Belgio e i paesi scandinavi.
Particolarmente significativo è il caso delle principali
colonie nordamericane della Gran Bretagna, che conquistarono
l'indipendenza nell'ultimo quarto del XVIII secolo. Precedendo di
pochissimi anni la Rivoluzione francese, quella che Lipset chiama
‟la prima nazione di tipo nuovo" (v. Lipset, 1963) ripudiò
del tutto l'istituto dell'aristocrazia, vietando ogni uso ufficiale
dei titoli. É inoltre da ricordare il fatto, sottolineato da
Lipset, che, durante il mandato di George Washington come primo
presidente della nuova repubblica, fu posto seriamente il problema
se egli intendesse proclamare la monarchia, ovviamente con lui
stesso come re. Ma benché la cosa fosse politicamente
fattibile, Washington decise altrimenti, stabilendo che la nuova
nazione doveva rimanere una repubblica, quale è poi sempre
stata in seguito.
La Rivoluzione francese non solo portò molto avanti, in
Francia, la distruzione della particolare posizione di cui godeva
l'aristocrazia, ma generò anche un movimento in questa
direzione che, a ondate, si ripercosse profondamente sull'intera
Europa, Gran Bretagna compresa. Questo processo era, com'è
ovvio, strettamente associato alle guerre del periodo repubblicano e
poi dell'era napoleonica. A questo proposito, anche l'apparente
vittoria conservatrice dopo Waterloo, non durò che una
generazione: nel 1848 infatti vi fu una nuova esplosione di
‛democrazia', di cui un simbolo particolarmente significativo fu la
caduta di Metternich.
L'orientamento della Rivoluzione francese era in realtà molto
più avanzato di quanto non consentisse la relativa decadenza
della vecchia aristocrazia e l'ascesa della borghesia; la
Rivoluzione introdusse a un livello mai conosciuto prima in Europa e
realizzato solo parzialmente nel Nord America, la nozione di
democrazia generalizzata. Anche se la particolare posizione della
borghesia ebbe un ruolo cruciale, il simbolo chiave della
Rivoluzione francese fu il citoyen, la categoria ‛cittadino', che
includeva affatto esplicitamente l'uomo comune, che non aveva da
vantare alcuno status superiore né in senso aristocratico
né in senso borghese (v. Lefebvre, 19572). Non dimentichiamo
che, accanto alla ‛libertà' e alla ‛fraternità',
l'‛eguaglianza' era una delle tre grandi parole d'ordine della
Rivoluzione, e che le ripercussioni di quest'idea guida non hanno
cessato di farsi sentire fino ai giorni nostri. Possiamo dire, anzi,
che la nostra epoca sta assistendo a una nuova ondata di
egualitarismo.
La democrazia politica rientra nell'ambito più generale dei
diritti civili, che il sociologo inglese T. H. Marshall (v., 1965)
ha così acutamente analizzato per quanto riguarda il caso
della Gran Bretagna. Essa fu preceduta, particolarmente in
Inghilterra, da quella che Marshall chiama la fase giuridica,
connessa specialmente allo sviluppo della common law. La
fondamentale concezione dei ‛diritti del cittadino inglese' (nei
confronti soprattutto dell'autorità del governo), che
incorporava i grandi principi dello Stato di diritto e, per usare la
terminologia costituzionale americana, dell'‟eguaglianza di tutela
giuridica", ricevette una base istituzionale abbastanza solida
già molto prima della Rivoluzione francese. Tale concezione
si propagò rapidamente alla nuova nazione americana, dopo
l'indipendenza, e in seguito, anche se non con la stessa
rapidità, al continente europeo. È ben chiaro,
infatti, che la democrazia, come fu intesa dalla Rivoluzione
francese, traeva origine da una base giuridica fortemente
caratterizzata in senso egualitario (v. Hurst, 1967).
Un punto di cruciale importanza nell'evoluzione dell'aspetto
politico dei diritti civili è quello rappresentato dal
diritto di voto. Lo studioso norvegese di sociologia politica S.
Rokkan (v., 1961) ha persuasivamente dimostrato che, malgrado le
sfasature temporali e il diverso rilievo nei vari paesi, in tutto il
mondo occidentale esclusa la sfera a dominazione comunista si
è sviluppato, con poche eccezioni, un comune modello di
diritto di voto. Rokkan sottolinea in particolare tre componenti di
questo sviluppo. La prima è rappresentata
dall'universalizzazione del diritto di voto, che procedette dalle
varie limitazioni, basate generalmente sulla proprietà, fino
al suffragio universale per gli adulti. Un passo decisivo in questa
direzione fu naturalmente la concessione del voto alle donne, che si
diffuse largamente nel periodo successivo alla prima guerra mondiale
ed è oggi quasi universale. La seconda componente sta in quel
principio che la terminologia giuridica americana indica con
l'espressione ‟un cittadino, un voto", principio che si è
venuto affermando attraverso molte vicissitudini, che vanno
dall'abolizione nel 1918 del discriminatorio sistema prussiano del
voto per classi, ai cambiamenti, negli Stati Uniti, della
distribuzione dei seggi parlamentari sotto la pressione di una serie
di decisioni della Corte Suprema. La terza componente posta in
rilievo da Rokkan è la segretezza del voto, che riduce in
maniera sostanziale le pressioni esterne che possono essere
esercitate sulle decisioni del singolo elettore.
È cosa ormai ben nota che né l'eguaglianza giuridica
né l'eguaglianza politica in materia di diritti civili - e
neppure una loro combinazione - garantiscono del tutto
un'eguaglianza sostanziale. Marshall mette in forte rilievo
l'importanza che ha avuto, alla fine dell'Ottocento e durante tutto
il nostro secolo, l'emergere di ciò che egli chiama la
componente ‛sociale' dei diritti civili. Più recentemente si
parla a questo proposito di ‛Stato assistenziale'. L'idea basilare
è che i diritti giuridici e politici del cittadino non
possono essere efficacemente esercitati da chi è fortemente
svantaggiato, soprattutto sul piano economico. Il movimento in
questa direzione ha avuto, com'è noto, un primo e importante
punto d'avvio con la legislazione promossa da Bismarck in Germania
nel campo delle assicurazioni sociali; la sua diffusione è
stata poi amplissima, tanto che si può affermare non vi sia
alcuna società ‛industriale', comprese naturalmente quelle
della sfera comunista, che non abbia elaborato un sistema di
provvidenze statali tale da definire un minimo di benessere
accessibile alla maggior parte della popolazione. Su questo
argomento torneremo in seguito.
6. Il conflitto tra socialismo e capitalismo e le recenti tendenze
delle strutture di classe
Una nuova importante spinta egualitaria e nuovi importanti conflitti
sul problema dell'eguaglianza emersero, verso la metà
dell'Ottocento, con la nascita del movimento socialista. È
chiaro infatti che la Rivoluzione francese, per quanto genuino fosse
il suo ideale di eguaglianza, non produsse una società
veramente egualitaria, anche se contribuì certamente in
maniera notevole, pur tenuto conto delle differenze tra nazione e
nazione, al generale superamento del vecchio conflitto tra borghesia
e aristocrazia. Persone di origine borghese cominciarono, in
disparati contesti, ad accedere a opportunità economiche, a
cariche e posizioni di potere nell'ambito statale e, soprattutto, ai
simboli del prestigio, riducendo progressivamente il loro svantaggio
nei confronti delle persone di origine aristocratica. Venendo
più o meno fino ai tempi nostri, possiamo dire che
sopravvivono soltanto alcuni residui, di scarsa importanza, dei
privilegi aristocratici, legati per lo più alla posizione
della monarchia costituzionale in quelle società in cui
l'istituto monarchico non è stato ancora completamente
abolito. Il movimento socialista, da parte sua, riconsiderò
il problema della giustizia, contrapponendo alle classi borghesi e
ai loro alleati (tra cui i residui delle aristocrazie), costituenti
il vertice della piramide della stratificazione, tutti coloro che
stavano al di sotto del livello borghese. Per ragioni storiche
relative alla natura della rivoluzione industriale, l'attenzione si
concentrò sulla condizione di quella che fu chiamata la
‛classe operaia'. Secondo il movimento socialista, la classe operaia
comprendeva anzitutto prestatori d'opera dell'industria
manifatturiera, ma la nozione è stata intesa anche in un
accezione molto più ampia. Per un verso, infatti, si è
ritenuto che ‛operaio' corrispondesse più o meno a
‛svantaggiato' e che ‛operai e contadini' dovesse essere la parola
d'ordine fondamentale. Anzi, il movimento comunista cinese, sotto la
direzione di Mao, fece proprio dei contadini la principale base
politica per la conquista del potere, provocando in tal modo un
aspro conflitto con il partito comunista russo egemonizzato da
Stalin (v. Brandt e altri, 1952), conflitto prolungatosi sino ai
giorni nostri, anche se in forme nuove. Per un altro verso, nei
paesi comunisti soprattutto, ma anche in ambito più vasto, il
concetto di ‛classe operaia' si è allargato al di là
della storica distinzione per usare un'espressione americana tra
‛colletti blu' e ‛colletti bianchi' (v. Barber, 1957; v. Kahl,
1961). Nelle società comuniste, in cui la borghesia ha
teoricamente cessato di esistere, si tende a considerare come
appartenenti alla ‛classe operaia' tutti gli elementi socialmente
accettabili; il concetto, così inteso, viene a comprendere
anche gran parte di quanti sono dediti a quelle occupazioni che, nel
mondo della società industriale, sono in genere proprie dei
‛colletti bianchi', ed è anzi stato esteso, sia pure in
termini un po' ambigui, fino a comprendere quella che nell'Unione
Sovietica è chiamata la intelligencia, cioè non
semplicemente i lavoratori non manuali, quanto si potrebbe dire i
lavoratori ‛intellettuali', come gli scienziati e i professionisti
di formazione scientifica (v. Lipset e son, 1972).
Il punto essenziale delle controversie su socialismo e capitalismo,
che culminarono verso la metà dell'Ottocento, fu costituito
dal concetto di ‛classe' in quanto distinto da più antichi
concetti come quello di ‛stati' (gli Stände tedeschi) (v.
Weber, 1922). Già ai tempi della pubblicazione del Manifesto
dei comunisti (1848) la riduzione delle classi, così intese,
ai due soli termini di borghesia e proletariato costituiva
chiaramente una grossolana semplificazione rispetto alla concreta
realtà della struttura sociale dei paesi occidentali. I
successivi sviluppi, soprattutto quelli iniziati negli ultimi anni
dell'Ottocento e venuti progressivamente accentuandosi nel corso del
Novecento, hanno reso questa semplicistica dicotomia sempre meno
corrispondente alla realtà. Dobbiamo certo riconoscere che,
nelle società maggiormente industrializzate, il vecchio
dilemma se i contadini siano o no da includere nella categoria di
classe operaia accanto alla forza-lavoro dell'industria è
diventato, con la crescente urbanizzazione, un problema meno
imbarazzante; in paesi come gli Stati Uniti, ad esempio, i
braccianti agricoli sono diventati un settore secondario della
classe operaia, che tuttavia si è dimostrato capace di dar
vita a formidabili azioni di sciopero. Ma, a livelli più
alti, i postulati marxisti intorno alla borghesia come classe
essenzialmente ‛proprietaria', in quanto distinta dal proletariato,
costituito soprattutto di lavoratori dipendenti, hanno
progressivamente perduto la loro pregnanza. Il punto cruciale sta in
quel fenomeno della separazione strutturale fra proprietà e
controllo, su cui Berle e Means (v., 1933) richiamarono l'attenzione
con riferimento soprattutto agli Stati Uniti. In tutto l'arco che va
dal top management di quelle grandi organizzazioni che sono state
spesso definite, anche se talvolta con qualche nserva,
‛burocratiche', giù fino alle funzioni operative ed esecutive
di minor prestigio, l'accento batte anzitutto sulla ‛gestione'. La
componente proprietaria, infatti, è attualmente in una
posizione del tutto diversa da quella che aveva alla fine
dell'Ottocento. Per la maggior parte degli osservatori sociali, con
l'esclusione di chi si colloca politicamente sulle posizioni di una
sinistra piuttosto estrema, la principale caratteristica del sistema
di stratificazione delle più avanzate società
industriali del nostro tempo non sembra consistere nel polarizzarsi
della dicotomia di due gruppi chiaramente distinti, cioè
secondo la terminologia marxista i proprietari e i lavoratori
salariati. Questa dicotomia non è in grado di fornire una
definizione sia pur minimamente adeguata dei principi della
stratificazione del mondo contemporaneo.
A questo livello, ciò che riscontriamo è piuttosto la
combinazione di due diversi principi. In primo luogo si ha, sotto
l'aspetto gerarchico, una gradazione relativamente continua
dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto - come è il
caso, ad esempio, di certe scale di prestigio occupazionale (v.
North e Hatt, 1947; v. Hodge e altri, 1964) - senza nette fratture
né tra il livello dei colletti bianchi e quello dei colletti
blu, né tra la componente manageriale e quella esecutiva.
L'altro fondamentale principio è quello che potremmo chiamare
‛pluralizzazione': esso significa essenzialmente che le
differenziazioni qualitative tra i vari settori della sfera
occupazionale sono diventate di tali proporzioni da rendere sempre
meno soddisfacente un'analisi che si limiti alla dimensione
gerarchica (v. Laumann, 1973). Certe distinzioni tra organizzazione
industriale e organizzazione statale sono chiare ormai da lungo
tempo, anche se - va ricordato - uno dei fatti su cui Max Weber
richiamava maggiormente l'attenzione era lo sviluppo in tempi
recenti (recenti, s'intende, dal punto di vista del suo tempo) di
comuni caratteristiche ‛burocratiche' nei due settori.
Un importante processo di modificazione si è avuto, inoltre,
con la crescente importanza che sono venuti assumendo quelli che
potremmo definire modelli ‛collegiali' di relazioni strutturali,
incentrati sul concetto di associazione. In un certo senso, questi
modelli possono essere considerati come ‛quasi aristocratici'.
Vogliamo ricordare due esempi particolarmente notevoli. Diversi
teorici - tra cui, in Italia, G. Mosca (v., 1923) - hanno messo in
rilievo che la leadership politica nei regimi democratici ha una
struttura simile a quella di una consorteria. In un certo senso, gli
uomini politici, ai diversi livelli della struttura di governo,
tendono a organizzarsi in gruppi di pari. Si tratta di persone che
hanno affidato le proprie aspirazioni alla carriera politica, con
tutti i rischi che essa comporta, ma che, tra loro, sanno mantenere
una certa solidarietà e una certa eguaglianza di status. Vi
sono indubbiamente, nei particolari, enormi diversità a
questo riguardo, ma anche Weber sarebbe stato d'accordo nel
riconoscere che una siffatta strutturazione delle relazioni non
è fondamentalmente burocratica.
Consideriamo ora le professioni liberali, che sono venute
conquistando una posizione di crescente rilievo nella struttura
delle società moderne (v. Parsons, Professions, 1968). Esse
condividono con la carriera politica certi relativi vantaggi
derivanti dai modelli di eguaglianza delle opportunita. Nelle
società ‛democratiche', infatti, non si può
semplicemente asserire che le persone che arrivano al successo nel
campo politico discendano da classi privilegiate, anche se si
registra indubbiamente una certa tendenza in questo senso.
Ciò è probabilmente ancor meno vero per quanto
riguarda le moderne professioni, compresa quella accademica, che
hanno avuto tradizionalmente una prevalente base di classe, ma che,
come mostrano i fatti, hanno cominciato a perderla progressivamente.
Il più tipico esempio di collegialità è
probabilmente rappresentato dalla tradizionale facoltà
universitaria i cui membri, malgrado le inevitabili differenze
personali, costituiscono per molti riguardi, sotto il profilo dello
status formale, un'‛associazione di eguali' (v. Parsons, The
academic..., 1968; v. Parsons e altri, 1973). Ciò è
reso possibile in parte dal fatto che, secondo il tradizionale
principio della libertà accademica, ciascuno dei membri della
facoltà gode di ampia autonomia. Le decisioni collettive sono
ridotte relativamente al minimo e, soprattutto nelle
università nordamericane, la struttura egualitaria delle
facoltà è rafforzata dal fatto che organismi
strutturati in maniera notevolmente più burocratica, le
‛amministrazioni', si fanno carico di molte funzioni decisionali,
tra cui le più importanti, forse, sono quelle in materia
finanziaria. D'altra parte, nel campo delle scelte didattiche e
delle nomine, le facoltà e le loro sottounità, i
dipartimenti, hanno nei confronti delle amministrazioni una larga
autonomia.
Un discorso simile si può fare per professionisti quali i
medici, gli avvocati, gli ingegneri e gli appartenenti a talune
categorie di più recente formazione. La pratica della
professione è, in genere, relativamente individualizzata,
anche se spesso ha luogo nell'ambito di gruppi cooperativi come gli
studi legali e simili. I medici, soprattutto, sono venuti
progressivamente organizzandosi negli staff degli ospedali, delle
cliniche, ecc. Le associazioni professionali, inoltre, hanno assunto
un ruolo particolarmente importante per quanto riguarda la
definizione degli standard di preparazione professionale e delle
condizioni di appartenenza alla professione; mi limito a dire
‛particolarmente importante', perché non si tratta certo di
un ruolo incontestato. In paesi come gli Stati Uniti, ad esempio,
benché sia richiesta una formale licenza per l'esercizio di
queste professioni, è chiaro che chi principalmente determina
gli standard di preparazione non sono certo organizzazioni quali
l'American Medical Association o l'American Bar Association, e
neppure le assemblee legislative statali che definiscono i requisiti
necessari per gli esami di abilitazione; sono le scuole
universitarie, che costituiscono d'altra parte i principali centri
sia di formazione dei nuovi professionisti sia di ricerca nelle
discipline attinenti alle professioni, a esercitare un
rilevantissimo influsso in questo campo.
Questi gruppi professionali, per lo più, hanno naturalmente
una collocazione piuttosto elevata nel sistema generale di
stratificazione. Numerosi studi abbastanza recenti hanno anzi
dimostrato che il loro grado di prestigio è identico a quello
delle posizioni più elevate nel campo statale e
imprenditoriale, e anzi, per certi aspetti, addirittura superiore
(v. North e Hatt, 1947; v. Hodge e altri, 1964). È una
scoperta, questa, che contraddice gran parte di ciò che, per
lungo tempo, si era creduto riguardo, per esempio, agli Stati Uniti,
dove l'uomo d'affari si supponeva fosse qualcosa di simile a un re.
Un altro fenomeno molto importante è la penetrazione dei
professionisti nelle organizzazioni statali e aziendali nella sfera
statale troviamo soprattutto avvocati, ma anche molti professionisti
di altro genere; in quella aziendale soprattutto ingegneri, ma anche
un considerevole numero di avvocati; nell'una e nell'altra, inoltre,
stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante gli studiosi
di scienze sociali, specialmente gli economisti. Una conseguenza
particolarmente importante di questa penetrazione è stato il
notevole attenuarsi del carattere burocratico dell'organizzazione
gerarchica o, per meglio dire, della stratificazione gerarchica di
queste organizzazioni. La ragione di ciò sta nel fatto che,
quando un'organizzazione comincia a dipendere dalla collaborazione
di tecnici altamente specializzati in settori professionali, i loro
superiori generalmente alti dirigenti o politici non sono
evidentemente in grado di assumere una posizione di ‛comando' nei
campi in cui questi professionisti svolgono la loro funzione, e
ciò perché, in genere, non possiedono le competenze
necessarie per svolgere essi stessi tali funzioni, e spesso neppure
per valutarle. Per quanto essi possano essere competenti in uno o
più campi, la varietà dei tipi di competenze richiesti
da una moderna organizzazione è così grande da rendere
impensabile che una persona sia competente in tutti i settori.
Prendiamo l'esempio, particolarmente ovvio, dei presidi delle
facoltà universitarie, che sono ordinariamente tratti dal
corpo docente delle facoltà stesse se il preside di una
facoltà di arti e scienze è, poniamo, uno storico,
egli non può certo essere pienamente competente in tutte le
svariate discipline rappresentate, nella sua facoltà, da
specialisti di alto livello; non può essere allo stesso tempo
uno storico, un economista, uno storico della letteratura, un
matematico, o un antropologo. Nella misura in cui le sue decisioni
investono campi diversi dal suo, non può far altro che
avvalersi di un sistema di partecipazione consultiva. Il comando
diretto è del tutto fuori discussione.
Questo tipo di struttura associativa la si riscontra, come è
noto, in molti sottogruppi all'interno dell'ambito aziendale e di
quello statale. Così, i consigli direttivi e di
amministrazione sono corpi collegiali nello stesso senso in cui lo
sono i corpi legislativi o le corti di giustizia composte da
più giudici.
Un'importante caratteristica delle professioni connesse con
l'attività delle aziende e dello Stato è il fatto che,
per essere ammessi a esercitarle, è quasi universalmente
richiesta una formazione specialistica di livello universitario.
Questo fatto non solo ha avuto un'enorme importanza nel favorire
l'apertura delle professioni all'eguaglianza delle
opportunità, ma ha anche profondamente influito sulla natura
della stratificazione, nel senso che lo status va progressivamente
perdendo il carattere ‛ascrittivo' per divenire sempre più
frutto di ‛acquisizione'.
7. Stratificazione ed eguaglianza delle opportunità
È cosa ben nota - e tuttavia va detta esplicitamente - che vi
è un'istituzione la quale pone serie limitazioni ai modelli
di eguaglianza delle opportunità si tratta della famiglia o,
più in generale, dell'istituto della parentela che, da un
certo punto di vista, è analogo alla nazionalità, nel
senso che l'appartenenza a una determinata unità, familiare o
nazionale, non può essere interamente volontaria o
interamente dissociata dai vincoli ascrittivi (v. Parsons, 1970).
All'interno di questa istituzione vi sono, naturalmente, differenze
di ruolo a seconda dell'età e del sesso; la loro definizione
varia nell'ambito delle diverse culture, ma è tuttavia
riferibile a uno schema abbastanza costante. Per quanto riguarda
l'età, ad esempio, nessuna società, soprattutto ai piu
alti livelli occupazionali nei quali più che la mansione,
conta la carriera assegna le posizioni più elevate a persone
molto giovani, nemmeno a quei giovani che hanno raggiunto certe
capacità; queste posizioni vengono normalmente conseguite
dopo che si è prestato servizio, per un notevole periodo di
tempo, ai bassi e medi livelli dell'organizzazione di appartenenza.
Il diffondersi dell'istruzione scolastica, inoltre, ha aumentato, in
media, l'età in cui ha inizio una piena e autonoma
partecipazione al mondo del lavoro. Infine, tutte le società
moderne, sia pure in modi diversi, hanno istituzionalizzato certe
forme di regolamentazione del pensionamento, per cui le persone
anziane, quando hanno oltrepassato i limiti di età stabiliti,
sono private dei vantaggi e sollevate dalle responsabilità
che caratterizzano le persone di età inferiore.
Più complicata è la serie di problemi riguardanti il
ruolo dei sessi. Nell'epoca moderna vi è stato un notevole
incremento della partecipazione femminile al mondo delle
attività remunerative, esercitate prevalentemente, anche se
non esclusivamente, al di fuori delle pareti domestiche (v. Parnes,
1968). Tale partecipazione ha subito brusche fluttuazioni in
situazioni d'emergenza, come la guerra, ma generalmente non in
misura tale da essere nportata completamente, passata l'emergenza,
ai livelli precedenti. Due sembrano essere, fondamentalmente, i
modelli motivazionali che stanno alla base dell'occupazione
femminile. Il primo, i cui contorni non sono facilmente definibili,
riguarda il bisogno, nei gruppi a più basso reddito, di
aumentare le entrate familiari. Il secondo, che sta probabilmente
crescendo d'importanza e caratterizza soprattutto le classi medie e
medio-alte, include, accanto alla motivazione economica ma con un
rilievo molto maggiore, il desiderio delle donne di fare qualcosa
d'interessante e utile al di fuori della tradizionale sfera
dell'educazione dei figli e del governo della casa. Almeno negli
Stati Uniti, ha assunto proporzioni notevoli questo fenomeno molte
donne, dopo che i loro figli più piccoli hanno cominciato ad
andare a scuola, cercano un impiego fuori casa e anzi, non
infrequentemente, intraprendono studi supplementari in modo da
rendersi idonee per impieghi più qualificati. Tuttavia, per
quanto avanti possano spingersi simili tendenze, sembra alquanto
improbabile che l'asimmetria dei sessi riguardo ai modelli di
partecipazione alla forza lavoro sia prossima a sparire del tutto. A
nostro avviso, una simile evenienza sarebbe verosimile soltanto
quando la famiglia stessa venisse praticamente a perdere il suo
significato strutturale nella società. Anche se si va sempre
più diffondendo una relativa libertà di divorzio,
è tuttavia probabile che il fondamentale modello del
matrimonio monogamico e l'organizzazione abitativa della famiglia -
con una singola coppia parentale adulta e i suoi figli,
relativamente immaturi, residenti sotto lo stesso tetto - siano
destinati a durare più o meno indefinitamente.
Questa tendenziale preminenza della ‛famiglia nucleare' non è
legata necessariamente a rigide regole di fedeltà sessuale.
Ciò che conta è la partecipazione comune alla vita di
tutti i giorni e alle responsabilità riguardanti i figli e la
gestione domestica. Una donna che sia, in questo senso, una moglie e
una madre responsabile difficilmente potrà godere di una
completa indipendenza ed essere libera di plasmare la propria vita;
nella misura in cui continuerà a farsi carico della maggior
parte delle responsabilità domestiche, la sua partecipazione
al mondo del lavoro ne risulterà in qualche misura limitata.
In realtà, specialmente nelle classi medie, assai importanti
nelle società industriali, per le donne coniugate si è
avuto un notevole progresso verso una maggiore libertà e
partecipazione alla vita extradomestica. Questo processo ha trovato
un ostacolo nel forte calo della disponibilità di fidato
personale di servizio, soprattutto per la cura dei bambini, ma anche
per i lavori domestici. E comunque ovvia, per questi fenomeni, la
dipendenza dallo sviluppo degli elettrodomestici nonché dalla
creazione di centri come i supermercati, che permettono una maggiore
efficienza nel fare la spesa. La tendenza, oggi in voga, a istituire
centri di assistenza diurna per i bambini può dare un
importante contributo a questa evoluzione, ma le possibilità
che la situazione cambi radicalmente sembrano essere piuttosto
limitate.
Vi è un'altra importante direzione in cui la famiglia incide
sulla stratificazione. Anche se vi sono, probabilmente,
considerevoli variazioni nelle diverse società, sembrano
avere una notevole importanza, in primo luogo, la maggiore o minore
solidarietà familiare, poi la sicurezza psicologica
dell'individuo soprattutto nell'infanzia, infine i livelli di
istruzione e di cultura. In generale, per quanto riguarda i vantaggi
che l'ambiente può fornire allo sviluppo del bambino,
è stato chiarito in maniera abbastanza definitiva, contro
certe opinioni della passata generazione, che questo tipo di
vantaggi è in funzione diretta della condizione
socioeconomica; in particolare si è riscontrata una tendenza
a ‛lasciare indietro' certi gruppi molto svantaggiati da questo
punto di vista, quelli che negli Stati Uniti sono comunemente
chiamati i ‛poveri'. Gli studi sull'argomento tendono generalmente a
dimostrare che le situazioni domestiche svantaggiate sono, a un
livello psicologico molto profondo, un fattore primario nel
costituirsi dell'handicap scolastico dei ragazzi provenienti dalle
famiglie talvolta definite ‛culturalmente deprivate' (v. Kagan,
19693; v. Coleman e altri, 1966; v. Mosteller e Moynihan, 1972; v.
Gordon, 1971). Ciò, a sua volta, è in stretto rapporto
con le possibilità di successo nel campo del lavoro, data la
sempre maggiore connessione tra successo scolastico e accesso alle
migliori opportunità di impiego (v. Jencks e Riesman, 1968).
A quanto sembra, il problema della ‛povertà' così
inteso è, in numerose società europee, meno acuto che
negli Stati Uniti; sembra tuttavia pressoché universale la
tendenza, ai livelli più bassi della scala socioeconomica,
all'accumulo di handicaps interdipendenti, che rendono difficile,
per gli individui che si trovano in queste condizioni, sfuggire a un
circolo vizioso fatto di bassi redditi e di scarse
possibilità di guadagno, di frequenti malattie sia fisiche
che mentali, di handicaps nella capacità di trarre profitto
dalle opportunità educative, e di numerosi altri fattori.
Negli Stati Uniti questa situazione è complicata
dall'importanza dei fattori razziali, responsabili di una presenza
sproporzionata della popolazione negra nelle classi povere. È
chiaro, tuttavia, che non si tratta affatto di un problema
esclusivamente razziale, ma di un problema endemico nel tipo di
stratificazione, con i suoi aspetti competitivi, proprio della
società moderna, urbana e industriale. Così negli
Stati Uniti, tra le persone classificate come povere, la maggioranza
è nettamente bianca e non negra, anche se in percentuale i
negri classificati in questa categoria sono più numerosi dei
bianchi.
È noto come, nei loro aspetti redistributivi, le politiche
spesso riassunte sotto l'etichetta dello Stato assistenziale, siano
dirette a mitigare gli svantaggi di questi gruppi inferiori, anche
se in molti casi vengono applicate in maniera eguale per tutti i
livelli socioeconomici, com'è il caso, ad esempio, del
servizio sanitario pubblico in molti paesi. Sembra tuttavia dubbio
che i tipi più tradizionali di misure assistenziali
redistributive, dominati come sono da considerazioni economiche,
siano per se stessi sufficienti a eliminare, o a diminuire in misura
significativa, l'incidenza degli svantaggi cumulativi sopra
descritti.
Malgrado le tendenze egualitarie suaccennate, e malgrado le
politiche dello Stato assistenziale, le società moderne,
comprese l'Unione Sovietica e le altre del ‛campo socialista',
presentano pur sempre, relativamente, un'elevata stratificazione,
anche se le sue basi sono molto cambiate. La democratizzazione al
livello dell'uguaglianza di fronte alla legge e del diritto di voto
non ha affatto prodotto una distribuzione egualitaria del potere
politico, anche se ha indubbiamente attenuato certe tendenze
monopolistiche da parte dei gruppi politicamente privilegiati (v.
Riesman e altri, 1950; v. Rose, 1967; v. Keller, 1963; v. Lipset,
1960); ancor meno è servita a eliminare, o a ridurre
sensibilmente, le ineguaglianze nella distribuzione della ncchezza e
del reddito. Ed è d'altronde ben noto che i livelli di
reddito sono strettamente correlati a certi fattori di vantaggio o
svantaggio sociale. Si propone quindi continuamente - e ai nostri
giorni con rinnovata intensità - il problema della giustizia
dei correnti modelli di distribuzione e dell'efficacia degli
innumerevoli progetti, attualmente circolanti, per la loro
trasformazione, progetti che vanno dalla rivoluzione totale fino
all'istituzione di imposte negative sui redditi. È un fatto
alquanto interessante che nella maggior parte delle società
industriali ‛democratiche' il modello di distribuzione non abbia
subito mutamenti fondamentali per un periodo di tempo notevolmente
lungo (v. Miller, 1964). Senza dubbio, le misure assistenziali,
l'imposizione fiscale progressiva e altri fattori del genere hanno
attenuato le diseguaglianze, soprattutto alle estremità
dell'arco distributivo. E non è difficile supporre che
ulteriori, sostanziali attenuazioni in questo senso possano essere
prodotte da politiche governative sagge e razionalmente fondate. Ma
gli esempi forniti dalle rivoluzioni comuniste del nostro secolo
fanno guardare con scetticismo alla possibilità che da una
rivoluzione violenta scaturisca una utopistica società
egualitaria, come le ideologie a esse collegate hanno
persistentemente e insistentemente sostenuto. Se prendiamo il caso
della Russia, è bensì vero che le vecchie aristocrazie
ereditarie sono state, in pratica, completamente estirpate e che la
borghesia proprietaria, se non estirpata, certo è grandemente
scemata di importanza; ma, per quanto riguarda i principali modelli
di organizzazione occupazionale, la società sovietica
è ben lungi dal potersi dire egualitaria ed è assai
più simile alle democrazie non socialiste del mondo
occidentale di quanto il movimento rivoluzionario non avesse
previsto (v. Lane, 1971; v. Parkin, 1969 e 1971). E, anche se
abbiamo assistito, da qualche tempo a questa parte, a nuove ondate
di rivoluzionarismo, possiamo mantenerci scettici circa le
possibilità che eventuali successi di questi movimenti
rivoluzionari riescano a realizzare l'utopia egualitaria.
Una considerazione pertinente è quella suggerita dai
risultati di alcune recenti ricerche si è visto cioè
che l'ideale liberale di una piena eguaglianza delle
opportunità e di un'equa valutazione delle prestazioni
conduce generalmente a una stratificazione piramidale molto
accentuata. Il caso in cui ciò è stato meglio
verificato è quello del lavoro scientifico (v. Zuckerman,
1970). Almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, appare molto
chiaro che quando una persona presenta domanda formale per
l'ammissione agli studi universitari, si trova di fronte a un
modello assai sviluppato di eguaglianza delle opportunità e
di equa valutazione delle attitudini e delle prestazioni, modello
che si estende poi dall'ammissione fino alla piena acquisizione
dello status professionale. È stato dimostrato che, in questo
ambito, anche il problema, su cui si fa tanto chiasso, della
discriminazione nei confronti delle donne si pone meno
frequentemente e in termini meno gravi di quanto si è finora
generalmente pensato. Accade nondimeno, ed è interessante,
che il modello di stratificazione che emerge in questo contesto
assuma la forma di una piramide molto ripida. In tutte le discipline
(v. Zuckerman, 1970) emergono élites relativamente ristrette,
cioè delle frazioni piuttosto piccole rispetto alla massa,
poniamo, dei fisici professionalmente qualificati, forniti
cioè di titoli dottorali. Scarsi sono gli indizi che i membri
di queste élites raggiungano la propria posizione grazie a
nepotismo o a qualche altra forma di favoritismo piuttosto che in
base a un'equa valutazione dei risultati conseguiti. Ad ogni modo,
il quadro risultante è ben lungi dal presentarsi, per quanto
riguarda la preminenza professionale, come egualitario, e ciò
sebbene la struttura accademica sia, come già abbiamo notato,
abbastanza egualitaria.
Un altro esempio, su scala ridotta, di sviluppo sociale dominato da
forti ideali egualitari è quello del kibbutz israeliano. Qui
appare chiaro che il raggiungimento e il mantenimento del grado
conseguito piuttosto elevato - di egualitarismo si sono resi
possibili solo attraverso controlli sociali molto rigorosi e non
già con il venir meno di tali controlli, tanto spesso
idealizzato nella convinzione che il risultato della massima
libertà sarebbe stato uno spontaneo modello egualitario. Come
è stato dimostrato da Talmon-Garber (v., 1959), questo
processo di controllo sociale è strettamente connesso al
problema della famiglia e alle misure, relativamente rigorose,
tendenti a mantenerla in una posizione molto più subordinata,
all'interno della struttura complessiva, di quella che essa occupa
nella maggior parte delle società moderne.
Vi sono altri tre aspetti dei moderni sistemi di stratificazione che
è opportuno discutere brevemente. Vi è in primo luogo,
come il lettore avrà notato, una stretta analogia tra il
funzionamento del principio ereditario all'interno dell'aristocrazia
e il suo funzionamento all'interno dei gruppi etnici o di quelle che
talvolta sono chiamate ‛nazionalità'. Nel mondo moderno,
certo, il matrimonio è venuto progressivamente a dipendere
dalla volontà dei partners, liberandosi dalle pressioni
esterne, soprattutto dagli accordi tra i genitori, come anche da
certe regole restrittive riguardanti, ad esempio, la religione o
l'appartenenza etnica. Ciò nonostante, finché la
famiglia continua a essere l'agente della riproduzione e della
socializzazione degli uomini, i fattori di continuità da una
generazione all'altra e l'incapacità di una piena autonomia
personale da parte degli individui molto giovani rendono inevitabile
la sussistenza delle componenti ascrittive nello status all'interno
della comunità.
La cristianità occidentale stabilì, e mantenne per
molti secoli, il criterio secondo cui l'appartenenza, almeno
formale, alla Chiesa Cattolica Romana era una condizione
fondamentale per l'appartenenza, in qualità di cittadino,
alla comunità societaria nel suo complesso. Con la Riforma le
cose cambiarono e la formula cui si giunse, dopo il fallimento del
tentativo controriformistico di sopprimere il protestantesimo,
finì col determinare un pluralismo religioso nel mondo
europeo, anche se, in ciascuna delle unità che lo
costituivano, venne mantenuto il principio dell'omogeneità
religiosa. Questa omogeneità, tuttavia, andò
gradualmente riducendosi in favore della tolleranza religiosa e del
pluralismo confessionale, e non più soltanto nel rapporto tra
le varie unità politiche, ma anche all'interno di esse. In un
certo senso, la conclusione logica di questo processo venne
raggiunta già con la Costituzione degli Stati Uniti,
proclamata poco dopo l'indipendenza della nuova repubblica, che
sanciva la separazione tra Stato e Chiesa; se si eccettuano quei
paesi in cui, come avviene nel mondo comunista, una specie di
‛religione politica' costringe a un tipo di osservanza assai simile
a quello che era richiesto dalle antiche Chiese di Stato, oggi
l'unità religiosa delle società politiche è
diventata sempre più un ricordo del passato (v. Lipset, 1963,
cap. 4; v. Herberg, 1956).
Si sono fatti notevoli passi avanti, anche per impulso del
pontificato di Giovanni XXIII, verso l'istituzionalizzazione del
cosiddetto ‛ecumenismo'. Tuttavia, R. N. Bellah (v., 1967) ha
dimostrato che, a un altro livello, la comunità nazionale
continua a essere caratterizzata da un certo tipo di unità
religiosa, da una specie di ‛religione civile', come egli la chiama,
o da una pluralità di religioni civili in certi casi di
integrazione incompleta. Ciò concorda con il punto di vista
dell'ultimo Durkheim, secondo cui una società, a determinati
livelli rilevanti, deve costituire ciò che egli chiama una
‛comunità morale', la quale comprende una dimensione
religiosa o, come egli dice, una ‟chiesa" (v. Durkheim, 1912).
In questo contesto va vista, io credo, la stratificazione della
moderna comunità societaria. Per quanto importante possa
essere il ruolo del conflitto di interessi, soprattutto a livello
economico e politico, e per quanto globalmente rilevanti possano
essere i modi in cui esso si manifesta, tuttavia la principale scala
di prestigio sottostante ai modelli di stratificazione rimane
radicata in una cultura normativa, il cui sfondo è in un
certo senso religioso. È vero che, di tanto in tanto, essa
viene sconvolta, almeno parzialmente, dall'irrompere dei movimenti
rivoluzionari; ma come dicevamo poc'anzi, è nostra opinione
che il rilievo politico assunto dai movimenti comunisti abbia solo
parzialmente cambiato le cose. Si tratta in fondo di religioni
‛secolari', o politiche, in cui criteri come l'appartenenza
all'organizzazione del partito comunista o l'osservanza della sua
ideologia hanno preso bensì il posto delle vecchie
ortodossie, esplicitamente confessionali, del cattolicesimo, del
protestantesimo o anche dell'ebraismo, ma in cui, in linea di
principio, i fondamentali criteri di stratificazione si basano
ancora sulla cultura normativa divenuta dominante. Per di
più, la società che ne risulta è ben lungi
dall'essere veramente egualitaria. In un certo senso, i partiti
comunisti, per quanto laici possano essere dal punto di vista della
tradizione religiosa, giocano un ruolo in certo senso analogo, per
alcuni aspetti, a quello che gli ordini religiosi hanno svolto
all'interno della cristianità cattolica nel corso di gran
parte della sua storia, ivi compresa la posizione particolarmente
privilegiata assegnata ai loro membri nel contesto generale della
stratificazione. E questo, comunque, un principio di stratificazione
che, per certi riguardi, si interseca con quello che ha la sua base
nel sistema occupazionale (v. Parsons, 1971). Le linee di
stratificazione, in questo campo, sono molte e sovrapposte, ma il
principio mi sembra relativamente chiaro.
La componente esplicitamente religiosa della stratificazione, in
epoca relativamente moderna, si è strettamente intrecciata
con la componente etnica, pur rimanendo nel contempo distinguibile
da essa. Con l'emergere per le unità sociali politicamente
organizzate dell'ideale di un'omogeneità etnica
oltreché religiosa, si fece strada la tendenza a dare
speciale risalto a un elemento etnico relativamente puro, che dava
il tono alla comunità nazionale; ciò si è
verificato, più che altrove, in Francia e in Gran Bretagna,
come già s'è visto. Si può forse dire,
comunque, che non è stato mai possibile raggiungere una
stabile purezza etnica per una vasta popolazione nel suo insieme.
Senza dubbio, l'egemonia di una determinata lingua è stata
spesso saldamente istituzionalizzata, ma vi sono, anche qui,
eccezioni molto notevoli: casi rilevanti, in epoca recente, sono
quelli del Belgio e del Canada. Anche in alcune moderne
società occidentali hanno avuto rilievo fenomeni analoghi a
quelli dell'India e di altre società non occidentali, nelle
quali le classi superiori si sono chiaramente identificate in base a
un'origine etnica relativamente definita e, di conseguenza,
l'origine etnica ha assunto il valore di un importante e autonomo
simbolo di prestigio.
Tutto ciò ha cominciato, tuttavia, a cambiare in maniera
notevole. Si può affermare che la società che ha
svolto un ruolo di avanguardia in questo processo di cambiamento
è stata quella statunitense. Data l'origine della sua
popolazione, si può facilmente comprendere che la posizione
predominante nel sistema di stratificazione, e non solo in esso,
appartenesse, quasi come cosa naturale, a quello che è stato
recentemente chiamato l'elemento WASP (White Anglo-Saxon Protestant:
‛bianco anglosassone protestante'). Fin dai tempi della dominazione
coloniale vi fu, però, un problema latente circa lo status
finale cui erano destinati i Negri africani che, come schiavi,
entravano a far parte della società: problema che si è
dimostrato una grande fonte di conflitti, esplosi particolarmente
con la crisi della guerra civile più di un secolo fa e, in
epoca molto recente, con il movimento per i diritti civili.
Un'evoluzione diversa, ma non meno significativa, è quella
relativa al fenomeno della massiccia immigrazione, in un regime
giuridico di formale tolleranza della diversità, di elementi
non anglosassoni. Anche se, ancora negli anni venti, un acuto
osservatore francese, A. Siegfried (v., 1927), poteva parlare di due
Americhe, l'America WASP e l'America ‛etnica', oggi, a non
più di mezzo secolo di distanza, un tale giudizio è
ben lungi dall'apparire plausibile: negli Stati Uniti sembra essersi
sviluppato un modello di pluralismo etnico che è, sotto molti
aspetti, parallelo e certamente interconnesso al pluralismo
religioso (v. Laumann, 1973). Certo, anche prescindendo dal caso un
po' particolare dei Negri americani (v. Parsons e Clark, 1966; v.
Pettigrew, 1964), non si può dire che le considerazioni
razziali non abbiano ancora un peso nella scala di stratificazione
(v. Franklin, 1968). Tuttavia, la situazione è cambiata in
modo assai concreto, come dimostra il venir meno di certe barriere e
la conseguente maggiore importanza sociale per i membri, in
particolare, del gruppo ebraico e di quello cattolico. Gli Stati
Uniti non hanno ancora avuto un presidente ebreo, ma, per il resto,
tutte le altre più importanti posizioni di prestigio nel
paese sono state raggiunte da numerosi ebrei, compresa quella,
prestigiosissima, di membro della Corte Suprema. Inoltre, un fatto
di rottura, di grande valore simbolico, fu rappresentato
dall'elezione di John F. Kennedy, che era di origine
cattolico-irlandese e che fu, anche durante il suo mandato
presidenziale, un cattolico credente e praticante. Il significato
simbolico di questa rottura fu tragicamente sottolineato
dall'assassinio di Kennedy e dalla grande emozione popolare che ne
seguì.
A mio avviso, il pluralismo etnico ha non solo fatto grandi passi
avanti nella società americana, ma costituisce un fenomeno
generale delle società moderne, soprattutto di quelle
occidentali.
Questo fenomeno è, per certi aspetti, un caso particolare di
un fatto che i teorici della stratificazione sono piuttosto inclini
a trascurare. Essi tendono a concentrare la loro attenzione sulla
stratificazione dei singoli membri della società, considerati
come unità fondamentali, forse con sottintesa polemica verso
certe vecchie impostazioni che tendevano a trattare le unità
collettive (aristocrazia, borghesia e simili) come le sole
unità rilevanti nel sistema di stratificazione. Noi abbiamo
già sottolineato che la solidarietà fondata sulla
parentela rimane un fattore di centrale importanza nei moderni
sistemi di stratificazione, ma ci sembra giusto aggiungere che
questo non è che un esempio, particolarmente importante, del
più generale fenomeno della stratificazione di
collettività in quanto distinta dalla stratificazione degli
individui che ne fanno parte. Così, nel campo delle moderne
organizzazioni subsocietarie, vi sono indubbiamente modelli di
stratificazione assai rilevanti. Due esempi significativi sono
quello delle imprese e quello degli istituti di istruzione
superiore. Negli Stati Uniti vi è una specie di
‛aristocrazia' delle imprese, quelle che vengono talvolta chiamate
blue ribbon firms, tra cui banche, aziende manifatturiere, ecc.
Anche nel mondo accademico vi è un'élite, costituita
da università e colleges di alto prestigio: in un sistema di
istruzione superiore come quello americano, il quale comprende
qualcosa come duemila istituti in grado di fornire corsi
quadriennali di primo livello (undergraduate), questa élite
accademica è istituzionalmente costituita da una minoranza
molto piccola (v. Jencks e Riesman, 1968). Similmente, in Gran
Bretagna, ad esempio, godono di uno speciale prestigio le
Università di Oxford e Cambridge e in Francia la Sorbona e
l'École Normale Supérieure; così in Giappone,
per uscire dall'orbita occidentale, l'Università di Tokyo si
trova in una posizione di particolare prestigio.
8. La stratificazione tra le nazioni
Le stesse considerazioni basilari che si applicano a
collettività interne a una società possono essere
estese a gruppi di società, più o meno definite dal
punto di vista nazionale. Sul piano politico emerge, ad esempio, la
distinzione - quanto al prestigio - tra la posizione delle
cosiddette ‛grandi potenze' e quella delle entità nazionali
più piccole. Un'altra distinzione, particolarmente rilevante
ai giorni nostri, è quella tra paesi ‛sviluppati' e
‛sottosviluppati'. Com'è noto, vi sono state appassionate
discussioni intorno al problema se siano giuste le diseguaglianze
esistenti tra le varie nazioni (v. Furtado, 1966). È un
fenomeno, questo, che rientra sicuramente nella competenza della
teoria della stratificazione sociale.
Nel corso del nostro secolo vi è stata una serie notevole di
cambiamenti nei rapporti di prestigio e di potere tra i vari paesi.
Sino alla prima guerra mondiale, ma anche dopo, le ‛grandi potenze'
erano essenzialmente la Gran Bretagna, la Francia e, anche se
gravemente scossa dalle sconfitte militari subite durante la guerra,
la Germania; anche la Russia zarista, gli Stati Uniti e il Giappone
occupavano una posizione di rilievo. La guerra ebbe come
conseguenza, tra l'altro, la distruzione del regime zarista in
Russia e lo smembramento dell'Impero austroungarico.
Si ebbe in seguito l'ascesa, legata soprattutto alla seconda guerra
mondiale, delle due ‛superpotenze', gli Stati Uniti e l'Unione
Sovietica. In rapporto a esse, la posizione delle vecchie grandi
potenze, soprattutto Gran Bretagna, Francia e Germania, andò
declinando nel corso della guerra e nel dopoguerra. Nel caso della
Gran Bretagna e della Francia questo declino si accompagnò
alla perdita dell'impero coloniale, che ebbe come conseguenza la
creazione di un notevole numero di nuove entità nazionali
indipendenti, per lo più raggruppate sotto la categoria di
Terzo Mondo. Per quanto riguarda la Francia, un duro colpo le fu
certamente inferto dall'occupazione tedesca durante la guerra,
mentre la Germania finì per subire una seconda sconfitta, che
condusse, questa volta, non solo a una spartizione, a quanto sembra
duratura, della vecchia nazione germanica, ma anche all'annessione
di vaste porzioni dei suoi territori orientali da parte dell'Unione
Sovietica e della Polonia.
Un fatto molto notevole, comunque, è costituito dallo
sviluppo di quella che, in senso ampio, possiamo chiamare
l'unificazione europea (v. Friedrich, 1969; v. Namenwirth, 1963).
Essa si è inizialmente avviata, per comprensibili ragioni,
sul terreno economico, a partire dalla Comunità del Carbone e
dell'Acciaio fino alla creazione della Comunità Economica
Europea. Accanto a ciò, si è avuta quella che, per
ironia della storia, non è stata soltanto la ricostruzione
economica delle principali potenze uscite sconfitte dalla seconda
guerra mondiale, Germania e Giappone soprattutto, ma la loro ascesa
al ruolo di giganti nella produttività economica. In tal modo
la Germania Occidentale, benché amputata rispetto al
territorio prebellico, è diventata la prima potenza europea a
occidente dell'Unione Sovietica e, per certi aspetti fondamentali,
la nazione guida della comunità europea. Il Giappone, a sua
volta, ha goduto di una fase di sviluppo economico senza precedenti,
che lo ha già posto nella posizione di terza potenza
economica mondiale, malgrado l'angustia del suo territorio. Infine,
la Cina, emersa da un lungo periodo di sommovimenti interni e di
consolidamento della sua particolare versione della rivoluzione
comunista, è ormai rientrata nel mondo politico
internazionale, con una chiara vocazione di grande potenza.
Così, nel giro di pochi anni, abbiamo assistito a un
considerevole arretramento della concezione della politica mondiale
come rapporto tra le due superpotenze, concezione alla quale succede
l'idea che stia emergendo una costellazione fondamentalmente
pentapolare che comprende ovviamente gli Stati Uniti e l'Unione
Sovietica, ma anche la Comunità Europea, di recente
allargata, che ora può accrescere rapidamente la propria
importanza politica e, in Asia Orientale, il Giappone e la Cina, da
poco salita alla ribalta internazionale.
Molto si discute anche riguardo al problema della diseguaglianza tra
le varie unità ‛nazionali', riguardo specialmente, come
spesso si dice, alla crescente discrepanza di status, di risorse e
così via tra l'élite opulenta del sistema di potere
internazionale e le nazioni cosiddette ‛sottosviluppate' o in via di
sviluppo (v. Amin, 1970). Questa diseguaglianza, spesso paragonata a
quella esistente all'interno delle singole società nazionali,
costituisce certamente un nodo importante nella discussione degli
affari internazionali.
9. Conclusione: vi è oggi un equivalente funzionale delle
aristocrazie tradizionali?
Torniamo ora all'ordinamento gerarchico dei singoli come dei gruppi
all'interno delle società nazionali. Quando abbiamo
affrontato in termini storici il problema dell'evoluzione della
stratificazione nel mondo occidentale, abbiamo seguito, quale filo
conduttore, l'ascesa dell'aristocrazia e le sue vicissitudini a
partire dal Medioevo, ponendo decisamente l'accento sul fatto che in
Europa lo status di classe superiore non fu mai monopolio esclusivo
dell'aristocrazia, ma dovette da essa essere spartito, in maniera
conflittuale, con la borghesia urbana. In un certo senso, tutte le
società moderne, soprattutto quelle strutturate secondo il
modello occidentale (ma certo non solo esse), si sono venute
caratterizzando come società borghesi o, per usare
un'espressione più comune in America, come società di
‛classi medie'.
È stato sostenuto da più parti che ciò sarebbe
principalmente una conseguenza dello sviluppo del cosiddetto
‛capitalismo'. Non vi è dubbio che il capitalismo abbia
operato in modo da scalzare progressivamente e dovunque le posizioni
delle vecchie aristocrazie. Ma un processo in qualche modo parallelo
si è avuto anche nel mondo socialista: la Rivoluzione russa
ebbe l'effetto di spazzar via completamente le posizioni di
prestigio dell'aristocrazia prima da quella che doveva diventare
l'Unione Sovietica e, in seguito, dai paesi satelliti. Ma la
‛dittatura del proletariato' che in questi paesi si è preteso
di istituire non ha avuto che un valore simbolico, significando in
realtà la dittatura dei vari partiti comunisti e non di una
classe sociale nel senso ordinano del termine. In realtà,
tutte le cosiddette società industriali sono venute
elaborando, in larga misura attraverso lo sviluppo del ‛sistema
occupazionale', modelli di stratificazione alquanto simili tra loro,
nei quali viene dato forte risalto allo status acquisito mentre va
perdendo d'importanza il principio ereditario (v. Parsons, 1970).
Devo però confessare, nel fare questa affermazione, di avere
una conoscenza troppo frammentaria di quanto finora è
avvenuto nella Cina comunista. Comunque, per quanto riguarda la
principale potenza del campo comunista, cioè l'Unione
Sovietica, sembrano esservi scarsi dubbi circa la somiglianza della
sua gerarchia occupazionale con quella delle nazioni cosiddette
‛capitaliste' dell'Occidente.
Si è avuto, inoltre, un altro importante processo di
mutamento sociale, che non abbiamo ancora trattato in questa sede e
che ha già profondamente modificato le strutture della
stratificazione nelle società industriali. Si tratta di un
fenomeno che mi è sembrato legittimo definire rivoluzionario,
intendendo però il termine nel senso in cui si usa, poniamo,
a proposito della rivoluzione industriale piuttosto che di quella
democratica, data l'assenza dei gravi episodi di violenza che
solitamente accompagnano il rovesciamento di un regime politico: il
termine appropriato mi sembra quello di ‛rivoluzione
dell'istruzione'.
Gli studiosi della società moderna storici, economisti,
sociologi e simili hanno appena cominciato, io credo, a rendersi
conto in maniera adeguata della profondità del cambiamento
che è stato introdotto, in primo luogo, dallo sviluppo della
scolarità generalizzata e, in secondo luogo, dal costante
incremento dei livelli di istruzione conseguiti da gruppi sempre
più larghi delle corrispondenti fasce d'età della
popolazione. La tendenza alla generalizzazione della
scolarità, inizialmente limitata all'istruzione elementare,
è venuta costantemente allargandosi all'istruzione secondaria
e persino a quella superiore: questo processo è comune a
tutte le società industriali, ma si è spinto avanti,
più che in ogni altro luogo, negli Stati Uniti. Qui e, in
grado leggermente minore, in altri paesi (e tra questi soprattutto,
forse, il Giappone), dopo la seconda guerra mondiale siamo entrati
veramente nella fase dell'‛istruzione superiore di massa'. Anche se
questa tendenza può essersi leggermente attenuata in tempi
recenti, negli Stati Uniti si è già raggiunto lo
stadio in cui più della metà di coloro che compietano
un regolare corso di studi secondari, accede a un qualche tipo di
istruzione superiore (v. American Council on Education, 1969; v.
Trow, 1970). È ben noto, tra l'altro, che nel sistema di
istruzione superiore i settori in più rapida espansione sono
di gran lunga quelli di secondo livello (post graduate) per la
specializzazione professionale: è un fatto questo che
richiederebbe un'accurata interpretazione comparativa nei diversi
sistemi d'istruzione, soprattutto quello americano e quelli europei.
Questo fenomeno, inoltre, è stato accompagnato da un
incredibile sviluppo della dimensione istituzionale e della
professionalizzazione della ricerca.
Per quanto riguarda la stratificazione, una conseguenza importante
dell'istruzione superiore di massa è stata quella di
svincolare l'accesso ai livelli più alti dell'istruzione
dall'appartenenza a uno strato sociale elevato, composto in
larghissima parte da elementi alto-borghesi nel tradizionale
significato di classe del termine. L'istruzione superiore, da un
lato si è resa più aperta a una competizione
relativamente indipendente dalle condizioni socioeconomiche
familiari; d'altro lato, la sua accresciuta diffusione quantitativa
ha permesso l'inserimento nel sistema di elementi della popolazione
che, un tempo, non avrebbero preso in considerazione gli studi
superiori nemmeno come una possibilità. Questi sviluppi hanno
determinato una situazione che è stata acutamente
interpretata per la prima volta, a quanto mi risulta, da Jencks e
Riesman (v., 1968): essi hanno sostenuto, con riferimento
soprattutto alla società americana (ma il discorso ha una
portata certamente più ampia), che la linea di divisione
più importante all'interno del sistema di stratificazione
è divenuta quella che passa tra coloro che sono entrati nel
sistema dell'istruzione superiore e coloro che ne sono rimasti al di
fuori. Attualmente, negli Stati Uniti, come in molti altri paesi,
sembra essersi iniziata una fase di reazione, da parte dei circoli
politici, contro il generale programma di espansione dell'istruzione
superiore e contro i privilegi accordati ai docenti come agli
studenti. È difficile interpretare questa reazione, ma posso
azzardare l'ipotesi che difficilmente si potrà invertire una
tendenza che si è venuta consolidando nel corso di una
generazione e anche più. Ci si dovrebbe invece attendere che
l'istruzione superiore mantenga il suo carattere di massa e che
anche la tendenza all'accrescimento quantitativo non debba
interrompersi per un periodo piuttosto lungo. Le reazioni politiche,
cosi come si sono configurate negli Stati Uniti durante gli anni
settanta, rappresentano probabilmente una fase di un ciclo
più generale: è presumibile cioè che questa
reazione provochi a sua volta una controreazione quando gli umori
attuali si saranno esauriti.
Anche se si tratta di un'affermazione un po' generica, sarei
propenso ad avanzare l'idea che il ruolo delle persone ‛istruite'
nelle società moderne - Bell (v., 1971 e 1973) direbbe
‟postindustriali" - tenda di fatto, col ridursi al minimo del
principio ereditario, a presentarsi sempre piu come un nuovo
equivalente funzionale dell'istituto storico dell'aristocrazia.
Malgrado tutte le discussioni circa il fatto che l'istruzione
superiore ha provocato un processo di specializzazione
cumulativamente crescente, che ha considerevolmente abbassato il
potenziale di reciproca comunicazione tra le persone di alta
cultura, rimane da fare una considerazione assai importante:
cioè che questa tendenza alla specializzazione non è
assolutamente un fatto a sé stante. Il mio punto di vista
è che, come tante volte è avvenuto nei casi di
differenziazione e di specializzazione, vi siano concomitanti e
complementari tendenze verso nuovi livelli di integrazione. Per
quanto riguarda il presente argomento, ciò vorrebbe dire che
la nuova classe delle persone di cultura ha, al suo interno, certi
livelli di integrazione che finora non sono stati in genere
compresi, e ha acquisito anche se la cosa è assai contestata
una posizione di generalizzato e diffuso prestigio che non è
semplicemente in funzione dei risultati specialistici e del
prestigio di singoli membri o sottogruppi di questa più vasta
‛comunità'. In altre parole, mi sembra molto ragionevole
l'affermazione di Jencks e Riesman (v., 1968) secondo cui coloro che
si sono sottoposti a una formazione superiore sono destinati a
diventare generalmente, nelle società postindustriali, un
gruppo di prestigio superiore.
Questa evoluzione può dimostrarsi instabile da molti punti di
vista. Il più ovvio fattore di instabilità è
dato dal fatto che il processo di inclusione, nell'istruzione
superiore di massa, di porzioni sempre più larghe di
popolazioni può significare una diluizione del prestigio
relativo del settore istruito, così da fargli perdere ogni
significativo carattere di élite. Naturalmente, altri fattori
di instabilità potrebbero derivare, all'opposto, dal
diffondersi di profondi sentimenti antintellettualistici che sono il
frutto, in parte, di un atteggiamento culturale che svaluta
l'intelligenza in favore della spontaneità emotiva, e in
parte di un atteggiamento populista che sottolinea il conflitto tra
i principi di eguaglianza, da un lato, e l'‛elitismo' delle classi
più istruite dall'altro. Tutto sommato, sembra comunque
ragionevole prevedere che la speciale importanza, recentemente
emersa, dei gruppi altamente istruiti si dimostrerà, per una
generazione o due, il fulcro di una sensibile ristrutturazione del
sistema tradizionale di stratificazione. (V. anche capitalismo,
comunismo, socialismo, sociologia, stato).