Società di massa
di Luciano Pellicani
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1998)
Sommario: 1. Massa, uomo-massa, società di massa. 2.
L'avvento delle masse. 3. Dalla società di massa al
totalitarismo. 4. La società di massa come trionfo della
razionalità strumentale. 5. Società di massa e
società pluralista. 6. Cultura di massa e democrazia
liberale. □ Bibliografia.
1. Massa, uomo-massa, società di massa
Le ricerche sui gruppi i cui membri agiscono in modo simile pur non
essendo i gruppi medesimi strutturati hanno fatto emergere una
sottodisciplina denominata, in contrapposizione alla psicologia
dell'individuo, 'psicologia della massa'. Tale sottodisciplina,
sviluppatasi a partire dagli studi pionieristici di Gustave Le Bon,
Gabriel Tarde e Scipio Sighele, si basa sull'ipotesi euristica che
quando l'individuo si trova coinvolto emotivamente in una folla, la
sua psiche e la sua condotta subiscono profonde modificazioni e
persino alterazioni patologiche. Diverso il significato del termine
'massa' nelle teorie elitistiche, dove esso sta a indicare tutti
coloro che non svolgono funzioni direttive e che costituiscono il
materiale umano su cui si esercita l'influenza delle minoranze
creative, protagoniste del processo storico. Si entra, invece, nella
specifica problematica delle teorie della società di massa
quando con il termine massa si intende la totalità dei
cosiddetti 'uomini-massa', che sono individui senza radici, esclusi
da qualsiasi tipo di comunità e, come tali, condannati
all'alienazione. In questa accezione, la massa si contrappone alla
classe in quanto risulta priva di omogeneità culturale, di
solidarietà interna e di autocoscienza. 'Massa' è
anche detta la moltitudine indifferenziata degli anonimi destinatari
dei messaggi elaborati e diffusi dai mezzi di comunicazione di massa
(stampa, radio, televisione) o l'insieme dei non-qualificati a
fronte dei gruppi formati da individui selezionati e qualificati.
Infine, 'società di massa' è un'espressione adoperata
per indicare una società iperorganizzata, dove, in nome degli
imperativi impersonali della razionalità funzionale, la vita
quotidiana è stata pianificata in tutte le sue espressioni
fino ad assumere le forme di una gigantesca macchina.
Di fronte a una tale polisemia, non pochi studiosi hanno proposto la
soppressione dell'espressione 'società di massa'; tanto
più che essa è così pregna di pregiudizi
ideologici e di connotazioni negative da risultare inutilizzabile
per una descrizione wertfrei del mondo contemporaneo. E tuttavia il
concetto di società di massa continua a essere presente con
notevole frequenza nella letteratura sociologica per indicare
tachigraficamente i tratti diacritici della moderna civiltà
industriale. D'altra parte, sembra difficile espungere completamente
la categoria della società di massa, poiché essa
è strettamente legata ad alcune delle più penetranti
analisi della dirompente irruzione dei movimenti totalitari
(bolscevismo, fascismo, nazismo) che fra le due guerre ha dato
inizio all'"era delle tirannidi" (E. Halévy). Sicché,
anche coloro che hanno duramente criticato le teorie della
società di massa, hanno dovuto convenire che ad esse va
riconosciuto il merito di aver cercato di individuare le cause
profonde, strutturali e culturali del subitaneo collasso di quello
che Stefan Zweig chiamò il "mondo della sicurezza", animato
dalla fede in un progresso ininterrotto e dalla convinzione che la
vittoria della ragione illuministica avrebbe reso ormai impossibile
ogni forma di estremismo politico.
Se le prime teorie della società di massa sono state
elaborate per dare ragione dell'insorgenza, improvvisa quanto
sconvolgente, dei movimenti totalitari, successivamente esse sono
state utilizzate per mettere sotto accusa il capitalismo opulento e
le sue caratteristiche forme di vita. Alla 'nostalgia del mondo
della sicurezza' ha fatto seguito la 'nostalgia del totalmente
altro', tipica degli intellettuali a vocazione
profetico-rivoluzionaria, che è sfociata in un rifiuto
globale della civiltà moderna, percepita come il trionfo
della meccanizzazione, della razionalità strumentale, della
manipolazione universale e della tecnologia scientifica. Tale,
soprattutto, l'immagine della moderna società industriale che
è stata proposta dalla Scuola di Francoforte, i cui
più influenti rappresentanti - Theodor W. Adorno, Max
Horkheimer e Herbert Marcuse - hanno rimproverato alla democrazia
liberale di essere esattamente il contrario di quello che pretende
di essere, opponendole un modello di organizzazione sociale
concepito come piena realizzazione della razionalità
sostanziale e dei valori del socialismo. In tal modo, la categoria
della società di massa ha subito una trasformazione radicale:
da arma spirituale della critica reazionaria della democrazia si
è convertita in arma spirituale della critica progressista
del capitalismo. Tuttavia, anche nella sua versione di sinistra essa
ha mantenuto inalterato il suo significato di condanna della
Zivilization (civiltà materiale) in nome della Kultur
(civiltà spirituale). Ciò ha indotto Daniel Bell a
negare ogni valore scientifico alla teoria della società di
massa e a vedervi nient'altro che una ideologia di protesta
romantica contro la civiltà industriale. Lo stesso Bell,
peraltro, ha riconosciuto che il concetto di società di massa
è in qualche modo indispensabile per descrivere il fenomeno
dell'inserimento delle classi lavoratrici in strutture sociali dalle
quali in passato erano escluse e per analizzare le strategie
adottate dalle democrazie occidentali al fine di garantire alla
maggioranza della popolazione un elevato tasso di partecipazione nel
quadro delle istituzioni della civiltà liberale.
2. L'avvento delle masse
L'ingresso delle masse quali protagoniste della scena sociale
è stato il fenomeno più rilevante degli ultimi due
secoli. A una civiltà rigorosamente aristocratica, basata
sull'esclusione istituzionalizzata delle classi lavoratrici,
è subentrata, per tappe successive e grazie soprattutto alle
conseguenze di lungo periodo della rivoluzione industriale, una
civiltà caratterizzata dalla fruizione, da parte di categorie
sociali sempre più ampie, di quei beni - merci, servizi,
conoscenze, diritti, ecc. - che nelle società preindustriali
erano patrimonio esclusivo di esigue minoranze. Tale processo di
integrazione progressiva degli esclusi, che Karl Mannheim ha
proposto di chiamare "democratizzazione fondamentale", è
stato percepito dalle classi privilegiate come un fenomeno che
avrebbe portato inevitabilmente alla degradazione delle forme di
vita della civiltà occidentale.
Già agli inizi dell'Ottocento Benjamin Constant teorizzava la
necessità di escludere i non proprietari dalla fruizione dei
diritti politici per impedire la distruzione dello Stato
costituzionale e il trionfo della tirannide. Non diversa la
preoccupazione che assillò Jacob Burckhardt, e che lo
portò a pronosticare l'avvento dei "terribili
semplificatori", i quali, con la loro politica iperdemagogica tesa
ad abbattere le istituzioni liberali, avrebbero raso al suolo tutto
ciò che per secoli aveva rappresentato l'orgoglio
dell'Europa: la libertà, la razionalità, la Kultur.
Qualche anno dopo gli faceva eco Friedrich Nietzsche, descrivendo il
movimento democratico-socialista come una gigantesca "sollevazione
della plebe e degli schiavi" che sarebbe sfociata, se non fosse
stata energicamente contrastata, in un perverso ribaltamento della
gerarchia naturale dei valori. Con il suffragio universale, la
"morale degli inferiori" avrebbe trionfato sulla "morale dei
signori" e ciò avrebbe portato non solo all'"universale
abbrutimento dell'Europa", ma anche alla "degenerazione complessiva
dell'umanità". Contro una siffatta prospettiva, Nietzsche
auspicò la creazione di una "razza di dominatori, i futuri
signori della terra: una nuova, enorme aristocrazia edificata sulla
più dura autolegislazione", in cui sarebbe stata "conferita
una durata di millenni alla volontà di violenti uomini
filosofici e di tiranni artisti; una specie superiore di uomini che,
grazie alla loro sovrabbondanza di volontà, sapere, ricchezza
e influsso", si sarebbero serviti "dell'Europa democratica per
prendere in mano le sorti della terra, per plasmare, come artisti,
l'uomo stesso" (cfr. La volontà di potenza, Milano 1992, p.
517). E auspicò altresì la costituzione di un nuovo
partito - il "partito della vita" - che avrebbe realizzato la
più grande di tutte le missioni: "l'allevamento
dell'umanità al superamento di se stessa, includendovi
l'inesorabile annientamento di tutto ciò che era degenere e
parassitario" (cfr. Ecce homo, Milano 1997, p. 51).
Se Constant, Burckhardt e Nietzsche espressero le apprensioni
tipiche delle classi privilegiate di fronte all'ascesa sociale delle
masse lavoratrici, Le Bon le elaborò in modo sistematico in
alcuni volumi, di cui il più noto è la Psicologia
delle folle. Dopo aver analizzato con notevole acume psicologico
l'"anima collettiva" della folla, concepita come una realtà
riscontrabile in tutte le società e in tutti i tempi, Le Bon
concentra la sua attenzione sul ruolo che essa ha nella
civiltà occidentale. Questa, a suo dire, è entrata in
una fase patologica poiché, a partire dalla Rivoluzione
francese, le folle, che un tempo apparivano episodicamente sulla
scena della storia, sono diventate le protagoniste assolute sotto
forma di masse permanentemente mobilitate dai sindacati e dai
partiti socialisti, con il risultato che la politica ha cessato di
essere un'attività razionale e responsabile ed è
diventata azione cieca e distruttiva. Ormai, non si stanca di
reiterare Le Bon, si è aperta l'"era delle folle", che altro
non è che l'era dello strapotere delle classi lavoratrici,
con le loro fantasie utopistiche, le loro ingenue idee di
eguaglianza e di sovranità popolare e il loro peculiare modus
operandi, tutto dominato da impulsi ciechi e irrazionali. E si
è aperta altresì l'"era dei meneurs", che sono i capi
naturali delle masse rozze e incolte, coloro che ne esprimono le
credenze, le passioni e gli interessi e che, precisamente per
questo, sono destinati a sostituire le tradizionali élites,
con conseguenze rovinose per la cultura.
Al di là degli indubbi meriti scientifici, sottolineati
soprattutto da Sigmund Freud nel saggio Psicologia delle masse e
analisi dell'Io, l'opera di Le Bon costituisce la più tipica
espressione ideologica dell'orrore aristocratico di fronte alla
democrazia, identificata con il dominio, tirannico e distruttivo al
tempo stesso, delle masse. L'idea che sta alla base della sua
visione apocalittica del futuro dell'Europa è che l'ingresso
delle classi popolari nell'arena politica rappresenta una
terrificante minaccia per la civiltà in quanto tale. Tutto
ciò che è personale, qualificato, elevato, razionale
è destinato a essere spazzato via dall'avanzata delle masse.
Queste faranno precipitare l'Europa nella barbarie in quanto,
guidate da capi improvvisati e demagogici, instaureranno, in luogo
del governo dei migliori, quel reggimento politico che Aristotele
aveva chiamato oclocrazia.
3. Dalla società di massa al totalitarismo
A partire dagli anni trenta si assiste a una proliferazione di
teorie della società di massa il cui principale obiettivo
è quello di fornire una eziologia della travolgente irruzione
dei movimenti totalitari sulla scena europea. Spetta a José
Ortega y Gasset il merito di aver aperto la strada che sarebbe stata
successivamente esplorata da Wilhelm Reich, Erich Fromm, Emil
Lederer, Sigmund Neumann, Hannah Arendt e William Kornhauser. Nella
sua Ribellione delle masse, destinata ad avere uno straordinario
successo di pubblico, troviamo non pochi motivi tipici della critica
aristocratica della democrazia, percepita come il predominio della
quantità sulla qualità, del collettivo sull'individuo,
dell'irrazionalità sulla razionalità. Ma troviamo
altresì un'interpretazione del fascismo quale logico approdo
dell'ascesa al pieno potere sociale delle masse. L'idea chiave su
cui Ortega fonda la sua diagnosi della crisi in cui era precipitata
l'Europa all'indomani della grande guerra è che lo sviluppo
economico ha fatto emergere un nuovo tipo antropologico:
l'uomo-massa. Presente in tutte le classi sociali, l'uomo-massa
è diventato l'anonimo dominatore della scena europea, e si
tratta di un dominatore esiziale per le istituzioni e i valori della
civiltà liberale in quanto il suo specifico modo d'essere
è caratterizzato dall'ermetismo spirituale, dal rifiuto del
dialogo, dalla propensione all'azione diretta e dalla pretesa di
imporre i suoi gusti e le sue preferenze al di fuori di ogni
disciplina e autodisciplina. Ciò fa dell'uomo-massa una sorta
di primitivo che si aggira in un mondo complesso la cui gestione
richiede elevate qualità intellettuali e morali, mentre egli
è un essere mediocre, volgare e privo di coscienza storica.
In particolare, sfugge all'uomo-massa la percezione che una
civiltà è un'accumulazione di esperimenti, di
istituzioni, di conoscenze, di valori, insomma una tradizione
culturale preziosa quanto fragile. L'assenza di coscienza storica fa
dell'uomo-massa una sorta di "barbaro verticale", generato
spontaneamente dalla rivoluzione industriale, dalla tecnologia
scientificamente orientata e dalla democrazia. Ma - avverte Ortega -
la democrazia senza una cultura del dialogo e dei limiti della
giurisdizione potestativa della sovranità popolare è
destinata a degenerare in statalismo onnivoro e autodistruttivo,
come è attestato dalla strategia adottata dal fascismo al
potere.
Tipico movimento di uomini-massa diretto da capi estemporanei e
privi di coscienza storica, il fascismo, nella misura in cui intende
instaurare il dominio totale dello Stato sulla società
civile, è l'anti-Europa. Ciò che per secoli ha
caratterizzato l'esperimento di vita collettiva compiuto nel
"laboratorio europeo" è stato il pluralismo, vale a dire la
coesistenza, competitiva e perfino conflittuale, di una
molteplicità di forze sociali e culturali; il che ha impedito
la reductio ad unum della società europea. Per contro il
fascismo, non diversamente dal bolscevismo, è dominato dal
progetto di rendere onnipotente lo Stato, di modo che nulla al di
fuori di esso possa nascere e crescere. Il che, a giudizio di
Ortega, rivela il senso profondo della "ribellione delle masse": il
rifiuto dell'intera tradizione liberale in nome di un nazionalismo
tribale e aggressivo che, qualora non venisse arginato da un
vigoroso movimento europeista, farà precipitare i popoli
d'Occidente in una insensata e autodistruttiva guerra fratricida.
Ancorché diversamente articolate e condotte con strumenti di
analisi diversi da quelli utilizzati da Ortega, le teorie della
società di massa elaborate da Reich, Fromm, Lederer, Neumann
e Arendt nel ventennio successivo alla pubblicazione della
Ribellione delle masse giungono tutte alla stessa conclusione; e
cioè che i successi dei movimenti totalitari vanno spiegati
tenendo costantemente presente il nuovo tipo antropologico apparso
sulla scena europea fra le due guerre. In particolare, nelle Origini
del totalitarismo della Arendt, che può essere considerata
l'opera nella quale la problematica e le categorie ermeneutiche
della letteratura sulla società di massa trovano la loro
formulazione più organica e compiuta, si insiste sull'idea
che il fenomeno del totalitarismo, sia nella versione comunista che
in quella nazista, può essere compreso solo a partire dal
processo di atomizzazione che ha trasformato le classi in masse.
Essendo venute meno le pareti protettive delle classi, sono emerse
le condizioni strutturali per la formazione dell'uomo-massa: un
essere privo di relazioni sociali normali, di vincoli comunitari, di
valori interiorizzati e, proprio per questo, irresistibilmente
attratto dai movimenti totalitari, i soli capaci di soddisfare in
qualche modo il suo bisogno di appartenenza. In aggiunta, gli
effetti atomizzanti e alienanti della massificazione spontanea,
generata dal collasso delle tradizionali strutture comunitarie,
vengono intensificati dalla massificazione programmata dagli stessi
movimenti totalitari, determinati ad annientare tutte le
associazioni intermedie onde poter manipolare a piacimento il
materiale umano su cui si esercita la loro smisurata volontà
di dominio. L'analisi del peculiare linguaggio profetico adoperato
da Hitler durante le oceaniche adunate organizzate dagli attivisti
nazisti induce la Arendt a sottolineare con particolare vigore il
fatto che uno degli aspetti più inquietanti dei movimenti
totalitari è che in essi il leader svolge il ruolo di
"funzionario delle masse". Egli può suggestionare e
mobilitare le masse proprio in quanto ne incarna i desideri
più profondi. Sicché il travolgente successo dei
movimenti totalitari non è stato affatto un mero fenomeno
congiunturale, bensì la manifestazione più
spettacolare di un processo storico iniziato nell'Ottocento, il
secolo in cui la rivoluzione industriale, trasformando le classi
lavoratrici in plebe, ha preparato il terreno di coltura degli
uomini-massa e dei loro leaders naturali: i costruttori della
società totalitaria, vero e proprio laboratorio in cui si
compiono esperimenti tesi a realizzare la mutazione biologica
dell'umanità in nome del nichilistico principio 'tutto
è possibile'.
4. La società di massa come trionfo della razionalità
strumentale
Mentre a giudizio di Ortega y Gasset e di Hannah Arendt gli esiti
totalitari della massificazione costituiscono una inversione della
linea di sviluppo della civiltà occidentale, i 'teorici
critici' della Scuola di Francoforte li interpretano come il
naturale approdo della specifica logica che presiede al
funzionamento della società capitalistico-borghese. La loro
tesi centrale, non dissimile da quella formulata dall'Internazionale
comunista, è che, dal momento che il passaggio dallo Stato
liberale allo Stato fascista si è compiuto sulla base dello
stesso ordinamento economico centrato sul mercato e sulla
proprietà privata dei mezzi di produzione, si può e si
deve giungere alla conclusione che è il liberalismo stesso a
generare il regime totalitario, il quale altro non è che
l'organizzazione politica della società borghese
corrispondente allo stadio monopolistico del capitalismo.
L'instaurazione delle dittature fasciste, pertanto, non è
affatto un incidente della storia, bensì un fenomeno iscritto
nel codice genetico della moderna civiltà industriale.
Ciò che, sin dalla nascita, ha caratterizzato quest'ultima
è il progetto di estendere la logica della razionalità
funzionale non solo alla natura, ma anche alla organizzazione
sociale e agli esseri umani. Gli strumenti principali di questa
smisurata volontà di dominio e di manipolazione della
realtà sono la scienza, la tecnologia, la fabbrica,
l'industria culturale e l'apparato statale. Grazie a essi, la
modernità ha potuto materializzare il suo ideale: la
società scientificamente amministrata, dove gli uomini stessi
sono ridotti a cose fra le cose. Ed è appunto questo il
totalitarismo: la reificazione universale.
Da questo punto di vista le differenze, se di differenze si
può parlare, fra Stato liberale e Stato fascista sono minime.
Entrambi perseguono un obiettivo: il dominio impersonale della
razionalità strumentale su tutti i settori della vita.
Inculcando, attraverso una intensa opera di indottrinamento, gli
imperativi funzionali dell'organizzazione scientifico-tecnologica
della produzione e della riproduzione della vita materiale, la
società industriale fa sì che gli uomini sentano il
dovere di agire secondo i criteri della razionalità
strumentale; e ciò li trasforma in esseri spersonalizzati,
atomizzati, reificati. Sicché, in definitiva, la
massificazione degli uomini, che è la nota dominante della
civiltà moderna, va imputata alla scienza, alla tecnologia e
all'industrialismo. Tutte cose che possono essere riassunte in una
parola: illuminismo.
Nella Dialettica dell'illuminismo Adorno e Horkheimer riconoscono
che ciò che ha caratterizzato la filosofia dei Lumi è
stato il progetto di liberare gli uomini, di emanciparli dalla
superstizione e da tutto ciò che li opprimeva. Pure, nel
razionalismo illuministico era già in germe il "nuovo tipo di
barbarie" manifestatosi compiutamente nel XX secolo. Avendo
identificato la ragione con la calcolabilità, l'illuminismo
ha indicato una strada in fondo alla quale non poteva che esserci il
"dominio livellatore dell'astratto", dunque una società
matematizzata, ove la quantità ha sostituito in tutto e per
tutto la qualità e gli individui, nella misura in cui anche
le loro relazioni più intime cadono sotto la legge della
reificazione, sono sottoposti a un perverso processo di
disumanizzazione progressiva.
La lettura del processo di modernizzazione esposta nella Dialettica
dell'illuminismo si fa più cupamente pessimistica con L'uomo
a una dimensione di Marcuse, l'opera grazie alla quale le tesi della
Scuola di Francoforte contribuirono a creare quella nuova
sensibilità che sarebbe sfociata nella contestazione
studentesca. Marcuse esordisce ribadendo che totalitario non
è solo il dominio esercitato con il terrore e i campi di
sterminio; totalitario è anche il dominio di una
organizzazione tecnico-economica che opera mediante un'astuta
manipolazione dei bisogni da parte degli interessi costituiti, la
quale preclude per tale via l'emergere di un'opposizione efficace
contro l'insieme del sistema. Il risultato di tale manipolazione
universale, condotta con l'imponente strumentazione dell'industria
culturale, è la formazione di un tipo antropologico non
dissimile, nei suoi tratti essenziali, dall'"uomo eterodiretto"
descritto in forma idealtipica da David Riesman nella Folla
solitaria: l'"uomo a una dimensione", il quale, fruendo di una
"confortevole e ragionevole non libertà", si è
docilmente fatto integrare dal sistema. Ciò significa, a
giudizio di Marcuse, che la concezione positivistica della ragione
ha trionfato su tutta la linea: ha creato un universo totalitario
non più terroristico bensì consensuale, animato dalla
"illusione della sovranità popolare" e dominato da un
mastodontico apparato tecnologico che è riuscito a
trasformare il mondo intero in materia di amministrazione totale,
assorbente in sé anche gli amministratori. La stessa classe
operaia, cui Marx aveva assegnato la missione storica di abbattere
il dominio del capitale, ha accettato la logica del sistema,
rendendo così impensabile l'idea stessa di rivoluzione. In
tal modo, l'ottimismo millenaristico di Ragione e rivoluzione, dove
Marcuse, confidando sulla infinita potenza della "negazione
dialettica tendente a demolire la realtà data", aveva
intravisto la via della liberazione dalla società opulenta,
cede il passo a una visione disperata e disperante del futuro
dell'umanità, ormai irrimediabilmente prigioniera della
'gabbia d'acciaio' costruita dalla razionalità tecnologica.
Di fronte alla società industriale avanzata, percepita come
un mondo ermeticamente chiuso e ottusamente soddisfatto di
sé, l'autore dell'Uomo a una dimensione non vede che una sola
possibilità di riscatto morale per i pochi che sono riusciti
misteriosamente a sfuggire agli effetti ottenebranti della
manipolazione universale: il gran rifiuto.
5. Società di massa e società pluralista
Con The politics of mass society di William Kornhauser la teoria
della società di massa si trasforma in una teoria generale
dei requisiti sociali di una democrazia pluralista. Secondo il
teorema fondamentale delle teorie elitistiche, la chiave per
intendere la dinamica dell'esistenza storica delle società
è la dialettica élites/masse. Combinando fra loro
queste due variabili, Kornhauser costruisce quattro tipi ideali di
società: a) la società tradizionale, caratterizzata
dalla inaccessibilità delle élites (che sono
aristocrazie tendenzialmente chiuse e isolate dalle masse) e dalla
scarsa plasmabilità delle non élites, la cui vita
è regolata da valori e norme rivestiti di sacertà e,
come tali, dotati di una notevole solidità; b) la
società pluralista, caratterizzata dall'accessibilità
delle élites (resa possibile dalle istituzioni della
democrazia rappresentativa e dal reclutamento del personale politico
fra le classi subalterne) e dalla scarsa plasmabilità delle
non élites, spontaneamente organizzate in una
molteplicità di associazioni; c) la società
totalitaria, caratterizzata dalla inaccessibilità delle
élites e dalla completa plasmabilità delle masse su
cui lo Stato e il partito rivoluzionario esercitano un controllo
ideologico capillare; d) la società di massa, caratterizzata
dall'accessibilità delle élites e dalla
plasmabilità delle masse il cui comportamento, data la
struttura atomistica degli aggregati che le compongono, è
particolarmente instabile.Alla luce di questa tipologia si
può dire che il tratto fondamentale e decisivo della
società di massa è la presenza di un doppio movimento:
dal basso verso l'alto (massificazione delle élites) e
dall'alto verso il basso (manipolazione delle masse).
E si può altresì dire che essa si presenta come un
tipo di società in bilico fra la società totalitaria e
la società pluralista. Richiamandosi esplicitamente alle
celebri analisi di Tocqueville della democrazia moderna, Kornhauser
pone l'accento sul fatto che l'assenza di un'articolata struttura di
corpi intermedi facilita l'isolamento dei gruppi primari e lascia il
campo libero allo Stato, il cui interventismo diventa sistematico e
onnipervasivo. Accade così che il cittadino può
partecipare alla vita politica solo per il tramite delle strutture
dello Stato e/o di altre organizzazioni di dimensioni nazionali.
Queste, diventando sempre più centralizzate e burocratizzate,
contribuiscono potentemente alla creazione di "folle solitarie".
Tanto più che l'esposizione ai mass media, ove le
associazioni intermedie risultino assenti o assai deboli, facilita
l'atomizzazione del corpo sociale. Donde il rafforzamento di quella
che Max Weber giudicava essere l'inclinazione tipica della
democrazia di massa: la selezione cesaristica dei capi attraverso
l'acclamazione plebiscitaria.
In definitiva, per Kornhauser la società di massa va
considerata come un assetto sociale anomico che emerge quando le
tradizionali comunità di base franano e, conseguentemente,
vengono meno le loro funzioni coesive e protettive. Allora si
manifesta una spersonalizzante uniformità di stili di vita e
un generale appiattimento dell'orografia intellettuale e morale, ma
non verso l'alto, bensì verso il basso. Sicché i
confini che dividono le élites dalle masse diventano sempre
più confusi, senza che ciò porti a un elevamento delle
masse; anzi, si palesa la tendenza delle élites ad
abbassarsi, a diventare masse esse stesse. Si ha invece una
democrazia pluralista quando le associazioni intermedie sono
così numerose e solide da impedire l'isolamento degli
individui e da rendere possibile un'ampia e multiforme
partecipazione alla vita politica e culturale non necessariamente
mediata dalle strutture burocratiche statali. Ove la società
civile si presenta come un sistema di poteri e contropoteri in grado
di autoregolarsi, gli attori sociali possono sfuggire alla
manipolazione dei mass media e dei demagoghi e agire come cittadini
consapevoli dei loro diritti e muniti degli strumenti indispensabili
per esercitarli. Allora, e solo allora, la tendenza al conformismo e
al dispotismo della maggioranza, che è tipica della
società di massa, viene frenata e la pianta-libertà
trova il suo più appropriato terreno di coltura.
6. Cultura di massa e democrazia liberale
A partire dal momento in cui il 'proletariato interno' della
società capitalistico-borghese, organizzato in sindacati e
partiti, ha preso a premere per ottenere i pieni diritti di
cittadinanza è emerso un ineludibile interrogativo: è
possibile estendere alle classi inferiori una cultura superiore
senza che questa degradi sino a perdere irrimediabilmente le sue
proprietà? Con questo interrogativo non si sono misurati solo
i teorici della società di massa, ma anche gli studiosi che
hanno affrontato il problema del radicamento delle istituzioni
liberal-democratiche e dello sviluppo dell'individualismo in una
società nella quale le tradizionali agenzie di
socializzazione sono state, in tutto o in parte, sostituite dai
mezzi di comunicazione di massa. Ne è scaturito quello che
è stato definito un "dibattito interminabile e feroce" (B.
Rosenberg), il quale negli ultimi decenni si è concentrato
sulla onnipervasiva influenza della televisione, il più
potente strumento di socializzazione del mondo contemporaneo.
All'ottimistica visione dei socialisti e dei radicali, che davano
per scontata la formazione, a mano a mano che il processo di
democratizzazione fondamentale avanzava, di una 'cultura proletaria'
di rango superiore alla 'cultura borghese', si è
progressivamente sostituita una visione pessimistica, o quanto meno
assai problematica, della 'cultura di massa'. Laddove la cultura
popolare delle società tradizionali era una produzione
spontanea e perciò autentica delle classi subalterne, la
cosiddetta masscult, tipica delle società che sono entrate
nella fase del consumo di massa, si presenta come un prodotto
artificiale, costruito in un laboratorio da tutti coloro che
maneggiano i potenti strumenti dell'industria culturale. Essi sono
quelli che Vance Packard ha definito i "persuasori occulti", veri e
propri manipolatori di professione, dominati da una preoccupazione
assorbente: vendere il prodotto da loro confezionato a una massa di
acquirenti la più vasta possibile.
Di qui la mediocre qualità dei programmi televisivi. Ideati
per un pubblico composto da milioni di anonimi consumatori, essi
devono di necessità presentare caratteristiche tali da
risultare adatti alla psicologia e ai gusti dell'uomo medio. D'altra
parte, proprio perché così concepiti, i programmi
televisivi tendono a mantenere l'uomo medio entro il recinto di una
cultura standardizzata, fatta di stereotipi e di luoghi comuni e
trasmessa utilizzando moduli espressivi banali se non addirittura
triviali. Per questo la televisione è stata accusata, persino
da studiosi per nulla inclini a demonizzare la civiltà
occidentale, di essere una "cattiva maestra" (K.R. Popper) e di
fomentare la transizione dal 'mondo delle cose lette' al 'mondo
delle cose viste', dominato da parte a parte dalla video-cultura e
dal video-potere. Per la prima volta nella storia
dell'umanità la realtà non è più
raccontata, bensì fatta percepire in presa diretta. Ma
ciò non significa che la realtà che viene mostrata sia
la realtà oggettiva, senza alcuna aggiunta estranea. Tutto il
contrario: è una realtà, quella che scorre davanti
allo sguardo distratto del telespettatore, inevitabilmente
selezionata, manipolata, costruita; una realtà, insomma, che
ha solo la parvenza dell'oggettività. Ciò ha portato
Giovanni Sartori a paventare la sostituzione quasi completa
dell'homo sapiens con l'homo videns, quindi l'avvento di un 'animale
oculare' che sa solo quello che vede, che vede senza sapere e che,
di conseguenza, è un essere la cui struttura mentale non
è più intessuta di concetti, bensì solo di
immagini.
Ancora e sempre ci troviamo di fronte alla presenza di quel tipo
antropologico - l'uomo-massa - conformista, passivo e
ipermanipolabile che tante apprensioni ha suscitato sin dal suo
primo apparire. Tanto più che i grandi mezzi di comunicazione
di massa sono proprietà dei 'signori dell'economia', i quali,
per ciò stesso, dispongono di un formidabile potere occulto.
Il che, naturalmente, non può non suscitare inquietanti
interrogativi sul destino della democrazia liberale o, quanto meno,
sulla sua capacità di allevare nel suo seno milioni di
individui autodiretti, in grado di esercitare i loro diritti
politici in modo critico e razionale. D'altra parte, è
indubbio che è proprio attraverso i mass media che le classi
subalterne sono state strappate alla cultura 'parrocchiale' e messe
a contatto con i prodotti di una cultura a carattere sempre
più cosmopolita. In definitiva, tutto sembra indicare che i
mass media presentano una ineliminabile ambivalenza. Grazie a essi,
la cultura superiore ha cessato di essere patrimonio esclusivo delle
élites ed è stata democratizzata; ma,
contemporaneamente, essi sono i principali imputati del trionfo
della mediocrità standardizzata. Il che costringe a pensare
che il grido d'allarme lanciato dai primi teorici della
società di massa non esprimeva solo la loro retriva nostalgia
per l'antico regime, bensì attirava l'attenzione su quello
che continua a essere il grande tema della moderna civiltà
industriale: la creazione di una cultura al tempo stesso di massa e
di qualità.