Razzismo
di George L. Mosse
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Enciclopedia online
Sommario: 1. Introduzione. 2. Le concezioni razzistiche nel
Settecento e nel primo Ottocento. 3. Maturazione e diffusione
dell'ideologia razzistica sino alla prima guerra mondiale. 4. Da
ideologia a movimento di massa. Il razzismo e i fascismi. 5. Dopo la
seconda guerra mondiale. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il termine ‛razza' ha diversi significati, ancora oggi non
completamente distinti l'uno dall'altro. È stato usato sin
dal Rinascimento per denotare tratti caratteristici di gruppi sia
umani che animali; come è stato usato anche per indicare
gruppi privi di affinità ereditarie. ‛Razzismo' si riferisce
a una visione del mondo che riconduce il comportamento e il
carattere degli uomini alla ‛razza' cui si asserisce che l'individuo
o il gruppo appartenga. L'influsso del razzismo nell'epoca moderna
deriva dal fatto che esso è divenuto una sorta di religione
secolare, basata sulla scienza e sulla storia. Esso avanza diritti
sui frutti migliori di entrambi i mondi: quello della scienza, che
ha fornito nuove ‛verità' a partire dal Settecento, e quello
della storia, che ha istituito un legame con tradizioni che si
andavano rapidamente dissolvendo nel mondo moderno. Il razzismo
fornisce una visione totale del mondo che, oltre alla scienza e alla
storia, comprende anche l'estetica e la morale. (V. anche razza).
Possiamo tracciare l'evoluzione del razzismo attraverso diverse e
ben definite fasi storiche. I fondamenti teorici furono gettati
durante il Settecento e la prima metà dell'Ottocento. A
partire dalla seconda metà dell'Ottocento sino alla fine
della prima guerra mondiale il razzismo andò crescendo
d'intensità, assumendo un più netto e definito
orientamento. Tra la prima e la seconda guerra mondiale
stabilì collegamenti con i movimenti politici di massa
europei riuscendo, su buona parte del continente, a tradurre in
pratica le teorie razziste. Infine, dopo la seconda guerra mondiale
i razzisti continuarono ad agitarsi, ma furono sopraffatti dalla
reazione contro i loro stessi crimini.
2. Le concezioni razzistiche nel Settecento e nel primo Ottocento
Il risveglio romantico della storia, quale ebbe luogo nel
Settecento, fu d'importanza fondamentale per lo sviluppo dell'ideale
razziale. Furono allora postulate le leggi dello sviluppo organico,
poi trasferite all'antropologia e alla linguistica, le quali
dovevano avere entrambe un ruolo decisivo nello sviluppo del
pensiero razzistico.
Mentre per uomini come il Buffon e il Montesquieu lo sviluppo
storico era condizionato dai fattori ambientali come il clima e la
geografia, le differenze tra i popoli essendo variazioni puramente
casuali, la concezione ‛organica' della storia scavava un abisso
profondo tra gli uomini e tra le nazioni, abisso che, si diceva, non
era un prodotto delle umane vicende, ma rivelava un piano divino. Si
consideri per esempio la concezione elaborata da Herder, che doveva
avere vasta risonanza in tutta l'Europa. La natura e la storia sono
le forze creative dell'universo. La spontaneità naturale,
istintiva, è alla radice delle caratteristiche di ciascun
popolo nel suo cammino attraverso il tempo. Oltre che nella
letteratura del passato, il popolo si esprime altrettanto
schiettamente nella lingua nazionale e nella poesia popolare.
L'individuo esiste solo come parte di un Volk così concepito.
Nella concezione herderiana la nazionalità veniva ad assumere
una dimensione estetica, storica e linguistica che ne faceva
un'entità separata da qualsiasi forma transitoria di
organizzazione politica. Il fatto che il Volk ‛organico' avesse la
prevalenza sullo Stato si dimostrò decisivo per tutto il
successivo pensiero razzistico. Herder non credeva, tuttavia, nella
supremazia nazionale, poiché, come uomo dell'illuminismo,
l'amore per il suo proprio Volk non gli impediva di rispettare tutti
gli altri.
L'insistenza di Herder sul linguaggio come espressione di un passato
comune accomunò un'intera generazione di filologi a cavallo
del Sette e Ottocento, i quali respingevano però in massima
parte gli interessi umanistici di Herder per concentrarsi invece
sulla ricerca scientifica delle affinità genetiche tra le
lingue. Le indagini glottologiche accertarono senza
possibilità di dubbio la parentela esistente fra il sanscrito
e l'antico persiano (e le lingue derivate) e molte lingue europee
antiche e moderne; l'esame comparato di tutte queste lingue
conduceva cioè a postulare una protolingua comune
(indoeuropeo o arioeuropeo), importata in Europa dall'Asia all'epoca
delle migrazioni dei popoli ‛ariani'. È in questo contesto
che appare per la prima volta la parola ‛ariano'. Senonché la
ricerca scientifica delle parentele linguistiche indulse assai
presto alla formulazione di giudizi di valore, venendo così a
saldarsi con la visione organica della storia tanto popolare tra i
romantici.
Poiché la lingua esprimeva l'esperienza di un popolo
attraverso il tempo, si pensava che il passato degli ariani, i quali
avevano dato all'Europa le sue lingue, riflettesse la supposta
superiorità dell'Europa contemporanea. Attraverso la
linguistica i romantici trovarono un legame con la preistoria ariana
dei popoli germanici. I linguisti descrissero gli ariani come forti
e virili contadini, dalla sana vita familiare. La scienza
linguistica dava così origine a un mito storico; la ricerca
scientifica conduceva ad avanzare pretese di superiorità
morale: tratto, questo, che resterà costante attraverso tutta
l'evoluzione del pensiero razzistico. Il conte de Gobineau ripeteva
un luogo comune della linguistica del suo tempo, quando pretendeva
che la lingua ‛pura' degli ariani dimostrasse la loro
capacità di trascendere la dimensione puramente materiale
della vita.
La lingua divenne un indice della vera spiritualità e della
continuità con un passato incontaminato. Già durante i
primi decenni dell'Ottocento si sosteneva che stranieri come gli
Ebrei erano caratterizzati da una intrinseca incapacità di
parlare la lingua nazionale del paese ospite. Una simile
inettitudine svelava la differenza delle origini storiche e una
natura materialistica, incapace di volgersi a Dio e alla natura.
Quand'era professore in Inghilterra (1859-1861), Max Müller
presentava dottrine razzistiche sotto il manto della ricerca
linguistica. Gli ariani erano stati trascinati nell'Europa
nordoccidentale (Inghilterra e Germania) da un impulso
irresistibile. Questa migrazione aveva irrobustito quel senso
d'indipendenza e quella fiducia nelle proprie forze che erano i
contrassegni della superiorità ariana. Bisogna sottolineare
che simili idee di superiorità non erano necessariamente
associate al nazionalismo, ma potevano essere anche usate per
sostenere qualità tipicamente liberali, come la fiducia in se
stessi e l'iniziativa privata.
Comunque la linguistica, combinata con il mito storico della
superiorità ariana, portava a concludere che gli Anglosassoni
erano predestinati all'esercizio della libertà attraverso
libere istituzioni. Così lo storico inglese E. A. Freeman fu
solo uno tra i molti a ritenere che l'Inghilterra dovesse le sue
istituzioni parlamentari alle sue radici anglosassoni. Si pensava
che l'organizzazione delle tribù germaniche (comitatus)
esemplificasse la pratica democratica. Di conseguenza, le razze che
non condividevano questo passato mancavano delle qualità
spirituali necessarie per l'autogoverno. La Germania di Tacito
forniva prove delle doti speciali e delle istituzioni
caratteristiche degli antichi Germani, e associava il loro amore per
la libertà e l'indipendenza alla schiettezza incorrotta delle
loro qualità morali.
Sia i Tedeschi che i Francesi scavarono nel loro passato alla
ricerca delle radici nazionali. Poco importava che, secondo lo
storico Fustel de Coulanges, la predestinazione dei Francesi alla
libertà risalisse non già al comitatus ma
all'eredità romana e celtica; e nemmeno importava che simili
teorie potessero servire di sostegno alle istituzioni liberali,
oltre che al nazionalismo; il dato essenziale era - si trattasse di
Germani o di Celti - che le virtù esemplificate negli
antenati erano precisamente quelle predilette dalle classi medie
dell' Europa ottocentesca: moralità rigorosa, duro lavoro,
sete di cultura, vita familiare, tutti valori incalzati da presso
dalla modernità. Il mito anglosassone rimase particolarmente
potente negli Stati Uniti, dove, verso la fine dell'Ottocento, J. E.
Hosmer scrisse che le nazioni europee e il Giappone non avevano
fatto altro che imitare le vere libertà anglosassoni. Nel suo
popolare Winning of the West (1889) Th. Roosevelt esaltava la
‟crescita della razza potente" venuta dalle foreste tedesche a
conquistare il continente americano. L'espressione ‟destino
manifesto" venne usata in questo contesto: la razza anglosassone
doveva adempiere al proprio destino di diffondere il proprio sistema
politico in tutto il mondo.
In sé, il concetto di ‛razza' derivava dall'antropologia
piuttosto che dalla storia o dalla linguistica. Il termine ricevette
un significato più preciso, e diede il suo contributo al
razzismo, esattamente nello stesso periodo in cui andava
dispiegandosi lo sviluppo della storia e della linguistica. Fu
l'antropologia settecentesca a dare inizio alla classificazione
delle razze. Linneo e Buffon suddivisero i popoli a seconda del
colore, delle dimensioni e della forma del corpo. Si asseriva quindi
che le somiglianze in tal modo scoperte costituivano appunto la
‛razza'. Ma anche questa impostazione puramente ‛scientifica'
conduceva poi a giudizi sul carattere e sul temperamento degli
uomini; parimenti si supponeva che l'apparenza esteriore e le misure
fisiche dell'uomo simboleggiassero le qualità spirituali.
L'anatomista olandese P. Camper indagò la tipologia razziale
mettendo a confronto le misure facciali e cefaliche dei Negri e
delle scimmie. Tali misure stabilivano una progressione ordinata:
dalla scultura greca, come forma ideale che si rivelava nelle razze
europee, fino ai Negri, la più bassa delle specie umane.
L'associazione di una supposta antropologia scientifica con criteri
estetici si rivelò fondamentale per lo sviluppo del razzismo
che, a partire dall'Ottocento, prese a elaborare ‛tipi ideali'. F.
J. Gall fondò la fenologia sul principio che le
predisposizioni morali e intellettuali degli uomini potevano essere
determinate attraverso la configurazione dei loro crani. Le misure
del cranio divennero essenziali, per la cosiddetta ‛biologia
razziale', allo scopo di determinare il ‛tipo ideale'; e i nazisti,
così come i razzisti italiani (per es. J. Evola), dovevano
farne un grande uso.
Sebbene in un'antropologia siffatta l'osservazione scientifica fosse
intrecciata con giudizi estetici e morali, durante il Settecento
rimasero in primo piano i fattori ambientali. Ma quei pensatori che
si preoccupavano d'esaltare lo sviluppo storico ‛organico' di un
popolo avevano già negato l'importanza dei fattori
ambientali. Essi ricevevano ora un potente sostegno da Kant, che si
servì del concetto antropologico di razza unicamente per
staccarlo dall'influenza del clima o della geografia. La purezza di
una razza era essenziale e doveva essere mantenuta nonostante le
circostanze esterne. Per Kant, i Negri e i Bianchi costituivano
razze separate dato che non era mai accaduto che si mescolassero nel
corso della storia. Kant, comunque, non postulò mai la
superiorità di una razza su tutte le altre: come Herder, egli
apparteneva all'illuminismo.
Una volta che l'importanza dei fattori ambientali era stata messa in
dubbio in nome della purezza razziale, gli antropologi cominciarono
a occuparsi sempre di più dell'origine delle razze. Alcuni
credevano, seguendo il racconto della Genesi, a un'origine comune di
tutte le razze (monogenisti), mentre altri ritenevano che le
differenze fisiche tra gli uomini fossero troppo grandi per essere
ricomprese in un unica specie: Dio doveva aver creato altre specie
d'uomo oltre Adamo (poligenismo). Questa concezione fu sostenuta
dapprima nel Settecento da coloro che volevano sbarazzarsi del
pensiero religioso e biblico, per diventare poi, nell'Ottocento, un
mezzo ulteriore cui ricorrere per distinguere una razza pura da
tutte le altre. Gli antropologi, così come gli storici e i
linguisti, ipotizzarono la presenza di un'essenza ereditaria,
manifestantesi nelle peculiarità visibili che contrassegnano
i membri di una razza.
Queste idee venivano diffuse attraverso una serie di società
culturali come la Société Ethnologique di Parigi
(1839), la quale proclamava che le razze dovevano essere distinte
per ‟organizzazione fisica, carattere morale e intellettuale, e
tradizioni storiche". La supposta identità di razza e di
cultura era anche alla base del programma della Ethnological Society
di Londra (1843) e della American Ethnological Society (1842). Non
c'era ancora una piena accettazione del razzismo, in quanto la
società inglese, data la sua preoccupazione per le razze
indigene dell'impero, riteneva che l'uomo primitivo potesse esser
‛migliorato', e condannava quindi la schiavitù. Ma
antropologi e linguisti avevano già preparato la strada a una
corrente che, all'opposto, considerava tutte le razze straniere come
occupanti una qualche posizione intermedia tra gli uomini e le
scimmie. Dalla metà dell'Ottocento in poi molte
società scientifiche, come l'Anthropological Society di
Londra (1863), assunsero atteggiamenti nettamente razzistici verso i
popoli che erano oggetto delle loro ricerche. Uomini come J. Hunt
adottarono l'argomento poligenista secondo cui le suture craniche
del Negro si chiudono prima di quelle dell'uomo bianco, limitando
così il suo sviluppo mentale. I risultati di tali ‛ricerche'
furono accolti con riconoscenza negli Stati Uniti, mentre nella
stessa Inghilterra gli atteggiamenti razzistici non avevano che
limitate prospettive. Ma anche in Francia, dove non mise profonde
radici, il razzismo permeava però le ricerche di antropologi,
storici e linguisti sulle popolazioni coloniali. Nello stesso
periodo, il razzismo prendeva slancio fra i popoli europei
radicandosi saldamente in una parte della popolazione colta e
istruita.
3. Maturazione e diffusione dell'ideologia razzistica sino alla
prima guerra mondiale
L'Essai sur l'inégalité des races humaines (1853-1855)
del conte A. de Gobineau è basato sull'antropologia e la
linguistica quali si erano venute sviluppando verso la metà
del secolo. Gobineau vi aggiunse un'esplicita accentuazione politica
e culturale: le sue teorie razziali miravano a spiegare gli
sconvolgenti fenomeni sociali e politici del suo tempo. Nelle sue
mani il razzismo divenne una spiegazione della decadenza
dell'età moderna e, sotto questo aspetto, egli
preannunciò lo sfruttamento politico che del razzismo si
sarebbe fatto in tempi successivi. Gobineau temeva da un lato la
formazione di un governo centralizzato e dall'altro il prepotere del
volgo. Insieme, questi due fattori stavano distruggendo la vera
nobiltà e libertà. La chiave per spiegare questo
sviluppo stava in un mondo costituito da razze superiori e razze
inferiori.
Gobineau classificò le razze nere, gialle e bianche a seconda
della struttura sociale e della società che avevano prodotto.
Le razze gialle si erano dimostrate abili nel commercio e
nell'industria, ma incapaci di guardare al di là di siffatte
conquiste materiali. Le razze nere erano incapaci di produrre
società stabili ed erano sempre bisognose di controllo
esterno. È evidente che Gobineau proiettava su queste razze
le caratteristiche moderne, da lui disprezzate: le razze gialle
erano la borghesia mentre le razze nere erano i ‛sanculotti'.
Soltanto la razza bianca incarnava tutto ciò che egli
riteneva nobile: una superiore spiritualità, l'amore per la
libertà e un codice personale fondato sull'onore. Gobineau si
servì della classificazione ‛scientifica' delle razze allo
scopo di delineare un modello per l'epoca sua: la razza bianca o
ariana rappresentava un'utopia, contrastante con la realtà
sociale della metà dell'Ottocento.
Ed era senza dubbio un'utopia: Gobineau stesso riteneva che la
mescolanza razziale fosse inevitabile. Non essendo rimasta pura, la
razza ariana stava perdendo la sua antica superiorità e stava
degenerando al livello di altre razze inferiori. La dominazione
della borghesia, lo Stato moderno e il sorgere della democrazia
erano tutti dati a sostegno di questa tesi. Le pessimistiche
conclusioni di Gobineau furono omesse in molte delle successive
ristampe della sua opera. L'Essai stesso ebbe una popolarità
limitata e scarsa influenza, ma resta significativo come indicazione
del successivo orientamento del razzismo nel quale tendevano ormai a
emergere giudizi e valutazioni di natura esplicitamente non
scientifica. Così il contemporaneo G. Klemm divise
l'umanità in razze attive e passive. Le prime erano vigorose
e mascoline mentre le seconde erano femminili e passive. Questo tema
venne divulgato più tardi in Geschlecht und Charakter di O.
Weininger (1903), nel quale si dava a intendere che gli Ebrei erano
la razza femminile e passiva mentre l'ariano era mascolino e
creativo. Il libro di Weininger divenne un punto di riferimento
della successiva letteratura razziale.
Un altro contemporaneo di Gobineau, C. G. Carus, fece progredire
ulteriormente il pensiero razzista verso la costruzione di una
mistica razziale. Carus, come P. Camper prima di lui, si
concentrò sulla ricerca dei tipi razziali ideali, che erano
determinati dalla forza mistica del sole. Il tipo ariano ideale
aveva una pigmentazione chiara, mentre i capelli biondi e gli occhi
azzurri riflettevano la forza vitale simboleggiata dal sole. Nella
delineazione di un tipo ideale siffatto si accentuavano gli elementi
estetici presenti nel razzismo, che si erano andati sviluppando
parallelamente con l'osservazione scientifica. Il concetto della
bellezza ariana, basato in parte sui modelli greci e in parte sul
simbolismo solare, ebbe una particolare importanza in Germania.
Idee del genere si dirigevano contro le razze che non partecipavano
del tipo ideale. Nella seconda metà dell'Ottocento un
razzismo di questa sorta venne applicato dai Tedeschi nei confronti
dei Francesi e viceversa, ma fu soprattutto l'antisemitismo ad
alimentare le idee razzistiche. La ragione di ciò era
semplice: gli Ebrei sembravano rappresentare una cultura straniera
nel cuore dell'Europa. Finché gli Ebrei erano stati costretti
a vivere nei ghetti, pochi autori avevano mostrato un particolare
interesse per loro, ma, con l'emancipazione ebraica all'inizio
dell'Ottocento, l'atteggiamento cambiò. L'emancipazione era
stata concessa sulla base del presupposto che gli Ebrei si sarebbero
sbarazzati di quelle che l'illuminismo aveva considerato le loro
qualità negative: la preferenza per l'attività
commerciale e le superstizioni della loro religione. Essi si
dovevano liberare dal giudaismo che, nella mente dei Gentili, si
associava con il ghetto. Ma non appena gli Ebrei ottennero il
diritto di cittadinanza e cominciarono a competere con successo con
i Gentili nell'attività economica e nella vita sociale, i
loro nemici li accusarono di perseverare nelle loro abitudini
‛ebraiche' malgrado l'emancipazione.
Per coloro che si opponevano all'emancipazione e si risentivano per
i successi conseguiti dagli Ebrei nel mondo dei Gentili, il
persistere di ghetti nell'Europa orientale costituiva la prova che
mai sarebbe stato possibile superare le differenze esistenti fra gli
Ebrei e gli altri popoli. Gli Ebrei del ghetto, inurbati e con un
tenore di vita al limite della sussistenza, sembravano infatti
offrire un contrasto sorprendente con le virtù e i tipi
ideali ariani. Sia gli Ebrei del ghetto sia quelli emigrati
nell'Europa occidentale tendevano a conservare, innanzi tutto, il
loro abito particolare (caffettano), la barba e i cernecchi. A
molti, nell'Europa centrale e occidentale, l'aspetto esteriore di
tali Ebrei appariva strano e misterioso. Il pensiero razzistico
aveva già posto in rilievo il simbolismo dell'aspetto
esteriore.
Ma anche gli Ebrei assimilati erano visti come una quinta colonna
nel mondo dei Gentili. L'accusa secondo cui gli Ebrei erano uno
Stato nello Stato risale proprio agli inizi dell'emancipazione (a J.
G. Fichte) e condusse, quasi inevitabilmente, a ritenere che gli
Ebrei dovessero ancora una volta essere esclusi dalla vita europea.
Gli Ebrei, si pensava, erano mossi dal desiderio di dominare
sull'Europa in virtù della loro abilità negli affari,
basata su un loro presunto inveterato materialismo. Essi avevano
avuto successo in quel capitalismo finanziario che giuocò un
ruolo cruciale nell'industrializzazione dell'Europa, e che era loro
aperto in quanto campo di attività nuovo, non legato a
vecchie tradizioni che escludessero gli Ebrei. Ma, mentre uomini
come i Rothschild e i Pereire s'innalzavano a grandi fortune, tutte
quelle classi della popolazione che temevano il capitalismo
finanziario vedevano in tale successo la prova di una criminale
cospirazione ebraica.
L'ondata di odio contro gli Ebrei trovò uno sbocco in
Germania nelle sommosse antiebraiche del 1819, alle quali
parteciparono quelle classi che si vedevano duramente incalzate
dall'industrializzazione. Durante la rivoluzione del 1848 i ceti
artigiani, prime vittime dell'industrializzazione, richiesero ancora
una volta l'esclusione degli Ebrei dalla vita europea, sebbene
l'opposizione all'emancipazione ebraica non fosse unicamente una
loro prerogativa. I conservatori e i liberali, la classe media e
l'aristocrazia, cioè tutti coloro che desideravano la
stabilità economica e sociale, tendevano a biasimare gli
Ebrei per la frattura ch ‛essi producevano nella vita europea. I
primi socialisti come Fourier e Proudhon, a loro volta, vedevano gli
Ebrei come gli sfruttatori della classe lavoratrice.
Un tale sentimento antiebraico non doveva però condurre
necessariamente al razzismo poiché c'erano coloro che
continuavano a credere che il ‛buon ebreo' potesse liberarsi dalle
sue qualità ‛giudaiche'. Coloro invece che credevano nelle
differenze razziali, e nella realtà di una cospirazione
ebraica, cominciarono a patrocinare la guerra razziale. Nella
seconda metà del secolo, il darwinismo dette un fondamento
scientifico alle idee di guerra e di lotta e, una volta di
più, gli atteggiamenti irrazionali maturati in precedenza si
dimostrarono più importanti della teoria scientifica alla
quale pretendevano di collegarsi. Il darwinismo sociale
proclamò che la sopravvivenza dei più idonei, insieme
col diritto della forza, costituiva il principio in base al quale
governare la vita degli uomini e degli Stati.
La razza doveva dimostrarsi abbastanza ‛idonea' da vincere la lotta,
e ciò indipendentemente dai fattori ambientali. I libri assai
popolari del darwinista E. Haeckel propagarono l'idea secondo cui la
storia biologica di un individuo deve ricapitolare in forma
abbreviata l'evoluzione biologica dei suoi antenati (legge
biogenetica). La continuità mitica con gli antenati virili
del Volk veniva in tal modo integrata in una visione scientifica,
darwiniana, del mondo. Il principio della sopravvivenza dei
più idonei aizzava una razza contro l'altra.
In maniera abbastanza tipica, il giornalista tedesco W. Marr
intitolò il suo libro Der Sieg des Judenthums über das
Germanenthum (1867): gli Ebrei hanno intrapreso una guerra contro i
Tedeschi e sono sul punto di riportare la vittoria finale attraverso
la dominazione economica; è una guerra di razze e pertanto
nessun compromesso è possibile. In libri influenti come
Politische Anthropologie (1903) L. Woltmann sosteneva le guerre di
conquista sul fondamento della necessità di sopravvivenza
della razza; a ciò associava la tradizionale prova
linguistica della superiorità ariana. Tali prove di
superiorità ariana, una volta di più, s'intrecciavano
con giudizi estetici, poiché solo gli ariani, diceva
Woltmann, riproducevano le ‟proporzioni assolute della bellezza
architettonica" secondo il paradigma greco. C'era poco da stupirsi
se la ‟razza tedesca era stata scelta per dominare la terra".
Questo tema era anche al centro di Die Grundlagen des neunzehnten
Jahrhunderts (1899) di H. S. Chamberlain: i Tedeschi erano i
salvatori della storia mondiale e i portatori della cultura
occidentale; tutte le conquiste culturali dei tempi moderni
testimoniavano la fiamma del loro spirito, uno spirito temprato
attraverso una lotta incessante. Gli ariani esistevano in mezzo a
‟un caos di razze", ma c'era una razza che era rimasta pura ed era
la principale antagonista nella lotta senza fine per la
sopravvivenza. Gli Ebrei simboleggiavano il contrario di tutto
ciò che agli ariani era caro: erano incapaci di pensiero e di
cultura superiore, erano caratterizzati da una ferrea volontà
di potenza che mancava di qualsiasi profondità metafisica. La
guerra razziale di Chamberlain era una guerra totale, che poteva
terminare soltanto con lo sterminio o con la vittoria. Gli ariani
avevano bisogno di un condottiero allo scopo di trionfare sugli
Ebrei, e verso la fine della propria vita Chamberlain credette di
averlo trovato in Hitler. Die Grundiagen des neunzehnten
Jahrhunderts è un classico del pensiero razzistico; esso non
ebbe solo vasta diffusione ma rappresentò la summa del
razzismo ottocentesco.
L'importanza attribuita da Chamberlain ai fattori culturali e
spirituali trasferiva ancora una volta il pensiero razzistico dalla
scienza al mito.
Anche il popolare Rembrandt als Erzieher (1890) di J. Langbehn
concorse a favorire l'adozione di una religione razziale. I Tedeschi
dovevano diventare realmente creativi, il che comportava l'adozione
di una religione ariana la quale, in questo caso, combinava elementi
teosofici con lo swedenborgianesimo. Per Langbehn lo spirito vitale
discendeva dal cosmo al Volk. Il razzismo veniva trasformato in un
misticismo basato sui movimenti occultistici. Né Langbehn era
solo, poiché a Monaco, dopo la fine del secolo, un intero
gruppo di filosofi ‛cosmici' (tra cui L. Klages) formulò idee
simili. Per loro, il sangue ariano possedeva una particolare
qualità che l'univa al mondo extrasensibile e gli consentiva
di riflettere il cosmo.
La concezione della guerra tra le razze come guerra della
spiritualità contro il materialismo dava slancio, con il suo
manicheismo, ai voli mistici. Questo tipo di razzismo ebbe maggior
fortuna nelle regioni protestanti che in quelle cattoliche. La
teologia cattolica presentava una ben definita visione del mondo
imposta dalla propria gerarchia. Il protestantesimo aveva invece una
teologia meno chiaramente definita ed era legato allo Stato
secolare. Era tuttavia soltanto una questione di grado: ad esempio,
la maggioranza dei cattolici e dei protestanti si conformarono alla
fine alla politica razziale del nazionalsocialismo, mentre d'altro
canto una posizione contraria fu assunta da ecclesiastici eminenti
di entrambe le confessioni.
Coloro che vennero a contatto con questo razzismo mistico avanti la
prima guerra mondiale dovevano farsene sostenitori nel dopoguerra.
Tra questi Adolf Hitler fu certamente il più importante. La
creazione dell'ariano non venne più discussa, da questi
razzisti, in termini di poligenismo, ma fu considerata come il
prodotto di una gestazione divina, una scossa elettrica prodotta
dalla forza vitale del cosmo. Ci furono, però, altri razzisti
che tentarono di mantenere il contatto con i fondamenti scientifici
del razzismo. Il darwinismo sociale favorì l'interesse
all'eugenetica; la razza pura doveva infatti riprodursi nel modo
giusto, per assicurarsi la sopravvivenza nella lotta universale
dell'uomo e della natura.
In Inghilterra Fr. Galton credeva che la natura stessa assicurasse
la sopravvivenza dei più idonei, e che l'interferenza umana
per proteggere il debole e l'infermo avrebbe portato al declino
della razza. Egli usò il termine razza per descrivere le
caratteristiche ereditarie: una razza che era riuscita a
sopravvivere e a produrre i portatori di una cultura superiore
doveva essere protetta e favorita dallo Stato. Galton fu il padre
dell'eugenetica razziale, poi ulteriormente elaborata dal suo
discepolo K. Pearson. L'eugenetica di Galton non era però
esclusivista: coloro che presentavano qualità desiderabili
erano bene accetti, qualunque fosse la loro origine. G. Vacher de
Lapouge (L'Aryen. Son rôle sociale, 1890) associò
l'asserita necessità di un'eugenetica con l'ideale, sostenuto
da Gobineau, della superiorità ariana. Ma fu soprattutto in
Germania che una siffatta eugenetica razziale divenne popolare.
Sistemi mai usati prima furono escogitati per permettere agli ariani
di riprodursi in condizioni ideali. Il culmine di questo sviluppo si
ebbe nella Germania nazista, con il tentativo delle SS di assicurare
la purezza razziale attraverso l'accoppiamento controllato di
autentici e selezionati partners ariani (Lebensborn).
Programmi del genere prevedevano anche l'eutanasia, che i nazisti
dovevano praticare in seguito. Divenne un luogo comune
dell'eugenetica razziale il principio che, nell'interesse della
sopravvivenza razziale, il malato incurabile, il pazzo o il
fisicamente deforme dovessero essere sterminati. Costoro
rappresentavano la degenerazione della razza superiore,
degenerazione di solito associata con i matrimoni misti. I razzisti
derivarono il concetto di ‛degenerazione' da psichiatri come B. A.
Morel e C. Lombroso, i quali credevano che certe deformazioni
fisiche fossero sintomi di una personalità degenere.
Attraverso l'eugenetica, lo stereotipo ariano divenne una ‛profezia
che si autoadempie': se la razza non lo rifletteva, allora le sue
file dovevano essere purgate finché il tipo ideale non
predominasse.
Questi sviluppi del razzismo durante la seconda metà
dell'Ottocento furono importati anche negli Stati Uniti,
oltreché in Europa. La fine del secolo vide l'arrivo, in
America, di ondate di immigranti dall'Europa centrale e meridionale.
Le teorie razziali, che erano già state applicate ai Negri
americani, furono adesso ampliate per ricomprendervi tutti coloro
che non erano di discendenza anglosassone. In maniera abbastanza
tipica, M. Grant scrisse il suo Passing of the great race (1916)
allo scopo di avvertire i suoi concittadini del fatto che la nazione
stava perdendo il suo carattere nordico. Questo libro è stato
considerato come una svolta negli atteggiamenti americani verso la
razza (v. Gossett, 1965, p. 353) ma, come la maggior parte del
pensiero razzistico americano, mancava di originalità. Grant
si servì sia di Gobineau che di Chamberlain per dimostrare la
sua tesi.
I principi razziali fornivano alcune giustificazioni delle
restrizioni nei confronti degli immigranti non provenienti da paesi
dell'Europa settentrionale: la cosa riguardava quindi sia gli
Asiatici che gli Europei del centro e del sud. Anche a prescindere
da qualsiasi considerazione razziale, questi immigranti venivano
comunque considerati - dai sindacati - responsabili di procurare
manodopera a buon mercato e - dagli uomini d'affari - di rendere
possibile una concorrenza sleale. Inoltre, gli immigranti dai paesi
settentrionali erano inclini a sistemarsi all'interno piuttosto che
nelle popolose città della costa. Il razzismo ispirò,
dunque, solo certi settori di coloro che dovevano ottenere in un
primo tempo l'esclusione degli Asiatici dall'immigrazione, e poi,
con il National origins act (1924), l'istituzione di un sistema di
quote che discriminava a favore delle nazioni del Nord. È
comunque significativo che questa legislazione fosse approvata negli
Stati Uniti nello stesso periodo in cui, in Europa, il razzismo
diventava un movimento di massa. Le caratteristiche discriminatorie
del National origins act furono eliminate gradualmente solo dopo il
1950.
La stessa epoca che assisteva all'agitazione contro l'immigrazione
di massa, vide anche l'aggravarsi della forzata separazione tra
Bianchi e Negri nel Sud. La separazione fisica tra le razze era la
trasformazione più rivoluzionaria occorsa durante la
ricostruzione dopo la guerra civile (1861-1865); rigorosa nel Sud,
essa cominciò a interessare anche le città del Nord,
attraverso restrizioni poste ai Negri in materia di alloggio. Le
speranze di una completa emancipazione si infransero, giacché
la frontiera del colore continuava a vivere nelle menti degli
individui di ciascuna razza.
Dopo di allora un torrente di letteratura fondata su tutti i luoghi
comuni del razzismo fu rovesciato contro i Negri. Le stesse accuse
scagliate contro la ‛razza inferiore' ebraica in Europa venivano
dirette anche contro i Negri. L'aspetto esteriore, le misure del
cranio e la supposta mancanza di moralità ebbero la loro
parte. Perfino le differenze di capigliatura e di odore, di cui gli
antisemiti si servivano talvolta per documentare le differenze
razziali, furono usate contro i Negri. La paura delle unioni miste
conduceva al linciaggio dei negri sospetti di aver violentato donne
bianche, proprio come in Europa i razzisti dovevano accusare gli
Ebrei di stupro di donne ariane e i nazionalsocialisti tedeschi
essere ossessionati da una simile ‛vergogna razziale'
(Rassenschande). Gli Ebrei e i Negri erano dotati di una
mascolinità aggressiva, che attivava le frustrazioni sessuali
dei loro nemici. Tali razze inferiori, infatti, non potevano
innalzarsi fino al vero amore; nel loro materialismo ogni forma di
amore si trasformava in lussuria. L'appello ai timori e alle
frustrazioni sessuali fu una delle armi principali di tutta la
propaganda razzista. Con i loro atteggiamenti verso i Negri, i
Bianchi nordamericani esemplificarono una politica che era nei
desideri dei razzisti europei, ma che in Europa dovette attendere il
proprio momento fino a dopo la prima guerra mondiale.
In Francia il cattolicesimo frappose ostacoli al pieno sviluppo
delle dottrine razziali, specialmente tra le classi medie e
superiori. L'antisemitismo era stato un fenomeno di sinistra
piuttosto che di destra sin dai tempi dei primi socialisti. L'ebreo
era il simbolo dello sfruttatore della classe lavoratrice, idea che
doveva perdurare ancora durante l'affare Dreyfus. É. Drumont,
il cui France juive (1886) rese popolare l'antisemitismo, mise in
rilievo questo aspetto della supposta cospirazione ebraica per
dominare la Francia. Egli scriveva sullo sfondo del fallimento della
Compagnia del Canale di Panama, in cui erano coinvolti degli Ebrei.
Gli antidreyfusiani come Drumont e M. Barrès parlarono della
razza francese come contrapposta alla razza ebraica, ma furono anche
attenti a rendere verbalmente omaggio alla religione ebraica. Il
giudaismo non doveva essere toccato, anche se gli Ebrei moderni
avevano perduto ogni caratteristica religiosa nella loro spinta
verso il potere economico e politico. Essi sostenevano che l'ebreo
usava le dottrine marxiste della guerra di classe allo scopo di
distruggere il tessuto della nazione. Come fautori di un socialismo
nazionale, essi desideravano un paternalismo che comportasse una
più equa distribuzione della ricchezza. I lavoratori erano
l'‛anima della Francia', e il capitalismo finanziario che li
opprimeva e disuniva faceva parte dell'universale cospirazione
ebraica. In Germania E. Dühring in Die Judenfrage (1880)
sostenne idee analoghe e patrocinò un'economia socialista
basata sul principio dell'autosufficienza nazionale. Ma, abbastanza
tipicamente, il suo socialismo si combinava con un esplicito
razzismo, che guardava agli antichi dei germanici, che dovevano
infondere nei Tedeschi il senso dell'unità nazionale e il
coraggio per eliminare gli Ebrei. Un simile appello al misticismo
razziale, di regola, mancava in Francia. In Europa tutti i fautori
di un socialismo nazionale guardavano ai lavoratori come all'anima
della nazione o almeno come a una sua parte significativa. I
lavoratori venivano però considerati nella stessa luce degli
artigiani medievali, che erano orgogliosi della loro arte e avevano
le virtù del duro lavoro, della moderazione e della
fedeltà alla gerarchia. Il concetto di un proletariato
industriale, si asseriva, era un'invenzione ebraica.
L'operaio veniva incluso nella stessa categoria del contadino, che
il razzismo aveva già esaltato per aver preservato i propri
legami con le radici storiche della razza. I contadini avevano
resistito al mutamento e avevano conservato una presunta purezza;
adesso, l'operaio doveva fare altrettanto. Un siffatto socialismo
nazionale era fortissimo in Francia avanti la prima guerra mondiale:
in Germania e nell'Europa centrale l'epoca del suo trionfo doveva
venire dopo il 1918.
L'Action française non può essere definita razzista.
Ch. Maurras, il suo spirito guida, odiava gli Ebrei, i Tedeschi e
gli Inglesi, ma i soliti argomenti razzisti sono assenti dalla sua
concezione. La sua Francia ideale era cattolica e monarchica, e non
concedeva spazio ad alcuna religione secolare. In realtà, il
principale contributo francese al razzismo durante la seconda
metà del sec. XIX furono i Protocolli dei savi Anziani di
Sion, un falso fabbricato nel mezzo dell'affare Dreyfus. Questi
Protocolli erano spacciati per il verbale di una riunione segreta
dei capi dell'ebraismo internazionale nel corso della quale si
sarebbe programmata la conquista del mondo attraverso l'‛astuzia e
la forza'. L'effettiva fabbricazione dei Protocolli avvenne a Parigi
per ordine del capo della Ochrana russa. Come membro della destra
russa, egli aveva accettato in pieno le idee razziste, che dalla
Germania erano emigrate verso Oriente. La stesura del testo fu
però dovuta a dei Francesi (v. Cohn, 1967, p. 103).
Questo ‛documento' sembrò confermare le teorie della
cospirazione, che erano diventate parte integrante del pensiero
razziale e dovevano poi essere accettate da tutti i razzisti dopo la
prima guerra mondiale. Negli Stati Uniti, per esempio, l'industriale
H. Ford si adoperò per la diffusione dei Protocolli a partire
dal 1920. L'antisemitismo divenne allora una forza significativa in
quella nazione, sebbene da sempre esso fosse un elemento della lotta
contro l'immigrazione incontrollata e, come in Europa, servisse a
dar voce alla sempre maggiore ostilità delle regioni agrarie
contro la crescita delle città. Negli anni venti gli Ebrei
finirono per essere esclusi da molti aspetti della vita sociale ed
economica americana. Questa discriminazione fu liquidata dopo la
seconda guerra mondiale, e ciò avvenne in modo assai
più completo di quanto non avvenisse con la discriminazione
antinegra; in ciò ebbe parte la reazione al genocidio
nazista, che incise sulla discriminazione antiebraica ma non su
quella antinegra.
L'Italia costituì un'area di ristagno del pensiero razzista.
Il cattolicesimo da un canto e il nazionalismo umanistico
esemplificato da G. Mazzini dall'altro posero forti barriere allo
sviluppo del razzismo. Certamente, l'antisemitismo cattolico
esisteva in Italia come in Francia, ma non arrivò a formare
una tradizione razzista.
La più efficace alleanza tra il razzismo e il nazionalismo si
realizzò nell'Europa centrale e orientale. In molte nazioni,
come l'Ungheria, la Romania e la Polonia, gli Ebrei costituivano il
settore più ‛visibile' della classe media commerciale, e
tutti i fattori sopra discussi cui si richiamavano i fautori di un
socialismo nazionale potevano entrare in gioco. La presenza di una
cultura dei ghetti urbani incoraggiava poi la credenza nelle
differenze razziali. Per di più, era bruscamente sopravvenuta
in alcune nazioni, come per esempio in Germania, la rivoluzione
industriale, e le idee razziste contribuivano a mantenere una
coesione nazionale che la lotta di classe sembrava sul punto di
distruggere. Inoltre, tutte queste nazioni avevano territori
irredenti da rivendicare. Il nazionalismo era una fortezza assediata
all'interno e all'esterno, e il razzismo poteva essere adoperato per
giustificare l'esclusività e la superiorità etnica.
Un siffatto nazionalismo si risolveva, in pratica, in continui
tentativi di annullare l'emancipazione ebraica. In Germania sorse,
durante i due ultimi decenni dell'Ottocento, tutta una serie di
gruppi e di partiti politici antisemiti. Alcuni, come il Partito
cristiano-sociale di A. Stoecker, che ebbe una certa importanza tra
il 1878 e il 1890, erano conservatori e basavano il proprio
antisemitismo sull'ortodossia protestante. Ma altri, come la Lega
contadina dell'Assia (1887-1894) di O. Boeckel e le varie leghe
antisemite fondate da uomini come l'infaticabile Th. Fritsch, erano
di orientamento socialnazionale e razzista. Il culmine fu raggiunto
nel 1893, quando i gruppi uniti dell'antisemitismo raccolsero
qualcosa come 116.000 voti, dopo di che cominciò il loro
rapido declino ed essi passarono il proprio tempo a litigare tra
loro.
Più importante fu l'alleanza del Partito conservatore tedesco
con le forze antisemite (Programma di Tivoli, 1892). Sebbene i
conservatori pensassero inizialmente che occorreva escludere gli
Ebrei perché la Germania era uno Stato cristiano,
un'influente fazione del partito divenne razzista attraverso i suoi
legami con il Bund der Landwirte (Associazione dei grandi
proprietari terrieri), che aveva diffuso il razzismo per molti anni.
Sino alla prima guerra mondiale i conservatori non fecero appello
alla violenza; tranne che nella Russia zarista, dove ai pogrom
faceva ricorso di quando in quando la politica governativa, gli
appelli alla violenza si limitavano a gruppi periferici.
4. Da ideologia a movimento di massa. Il razzismo e i fascismi
Prima del 1918 il razzismo trovò un terreno favorevole anche
in diverse piccole sette, che si facevano guerra l'un l'altra.
Queste sette continuavano la tradizione mistica piuttosto che quella
‛scientifica' del razzismo: si interessavano all'ariano come
creatura del sole, ai suoi legami col cosmo, e traevano il proprio
tipo ideale da fantasie del genere anziché dall'antropologia
o dalla linguistica. Lanz von Liebenfels, per esempio,
destinò la sua rivista, che vendeva per le strade di Vienna,
espressamente alla razza bionda al titolo ‟Ostara" (dal nome della
dea germanica della primavera) seguiva infatti la dicitura
‟Zeitschrift für Blonde". E a Vienna dovette leggerla anche
Hitler, il cui razzismo proveniva da fonti di questo tipo. Esso si
basava sulla paura del misterioso e dell'ignoto; come ci racconta in
Mein Kampf, Hitler divenne infatti un antisemita dopo aver visto gli
Ebrei dell'Europa orientale nei loro strani abiti per le strade di
Vienna. Lo scontro di culture, cui abbiamo accennato sopra, ebbe una
parte notevole nel fornire all'incolto e ingenuo provinciale una
visione del mondo. La reazione di Hitler non fu diversa da quella di
Fritsch o di molti altri uomini della seconda metà
dell'Ottocento, che si sentivano chiamati dalle differenze
nell'aspetto esteriore a intraprendere una guerra razziale in nome
dello spirito tedesco. Hitler entrò in contatto con questo
tipo di razzismo avanti la prima guerra mondiale e, fino alla morte,
esso rivestì un'importanza fondamentale nelle sue concezioni.
La fine della prima guerra mondiale vide la realizzazione attiva del
razzismo in Europa. Sebbene le concezioni razzistiche fossero state
applicate a popolazioni indigene fuori dell'Europa e avessero dato
frutti negli Stati Uniti, fu proprio in Europa che il genocidio
entrò nella storia come elemento della politica statale. Il
pensiero razzista in se stesso non cambiava, rimaneva statico.
Quando tra i razzisti sorsero controversie nel periodo tra le due
guerre, esse si svolsero sempre entro il quadro delle concezioni
passate. Così H. F. K. Günther, il maggiore teorico
nazista del razzismo, metteva l'accento, per esempio, sulle
differenze fisiche tra la razza ariana e quella ebraica, e
compilò una lista dei gesti e dei tratti tipicamente
‛ebraici'. Il suo avversario L. F. Clauss (Die nordische Seele,
1932) sosteneva invece che non tanto l'aspetto esteriore era
essenziale quanto le ‛qualità interiori' della razza. Clauss
tentava di aggirare la difficoltà costituita dal fatto che
non tutti gli ariani erano biondi, snelli e statuari. Ma questo non
rappresentò mai un problema, in quanto la maggior parte dei
razzisti ricorreva al concetto di ‛tipo ideale'. Ciò
significava che, se tutti gli ariani possedevano alcune
qualità ideali, non dovevano però presentarle tutte.
Per contro, gli Ebrei e i Negri presentavano tutte le presunte
ripugnanti qualità fisiche e mentali della propria razza.
Sebbene il pensiero razzista non mutasse in maniera significativa,
dopo il 1918 parecchi nuovi fattori contribuirono a fornirgli una
giustificazione. La psicologia cominciava a porre in risalto le
differenze razziali: non la psicologia di Freud ma, per esempio,
quella associata con Jung in Europa e con W. MacDougall negli Stati
Uniti. MacDougall, per esempio, sosteneva che l'istinto gregario era
debole nei popoli nordici e forte in quelli mediterranei. Anche
prescindendo da MacDougall, un'intera scuola di psicologi americani
impiegava adesso i test d'intelligenza per dimostrare le proprie
tesi razziste. La psicologia di Jung tendeva a sconfinare in un
simbolismo mistico; e l'accento posto su archetipi immutabili
assumeva facilmente connotazioni razziali. Fu Jung ad assumersi la
direzione del più importante periodico di psicologia sotto il
regime nazista. Molti scienziati erano inclini a distinguere tra il
laboratorio, dove rimanevano fedeli al metodo scientifico, e il
mondo esterno, in cui rendevano omaggio a ogni sorta di concezioni
irrazionali. La distinzione non poteva funzionare, e
l'irrazionalismo con cui essi guardavano alla sfera politica e
sociale portò ben presto a una fisica ariana, a una medicina
ariana, a una biologia ariana.
Il successo della rivoluzione bolscevica aggiunse un'importante
dimensione alla dinamica del pensiero razzista. I profughi della
destra russa diffusero nell'Europa occidentale i Protocolli dei savi
Anziani di Sion, e il bolscevismo fu considerato come un esempio del
successo della cospirazione mondiale ebraica. Gli Ebrei erano sempre
stati accusati di infrangere la stabilità del mondo dei
Gentili, e adesso la cospirazione ebraico-comunista divenne un luogo
comune del pensiero razzista.
Tuttavia, tra le novità del razzismo dopo la guerra,
l'elemento cruciale fu rappresentato dalla sua crescita come
movimento di massa. La cosa si verificò tanto negli Stati
Uniti quanto in Europa. Ciò che M. Grant aveva sostenuto a un
livello accademico, adesso Th. L. Stoddard lo divulgava per tutti
gli Stati Uniti attraverso qualcosa come 22 libri e numerosi
articoli. La battaglia per salvare la razza nordica doveva essere
combattuta. Il Ku Klux Klan, che assunse su di sé questo
compito, cominciò a progredire rapidamente, e nel 1923 i
membri della setta venivano calcolati tra i tre e i sei milioni.
Più importante fu la penetrazione delle idee razziste
nell'establishment, assediato dai problemi dell'immigrazione e dalla
pressione degli Stati del Sud. Il National origins act del 1924 fu,
almeno in parte, il risultato dello slancio preso dal razzismo dopo
la guerra. Ma, diversamente dall'Europa, non si costituì
nessuno specifico movimento di massa razzista che tentasse di
conquistare il potere politico. Il razzismo fu in larga misura
integrato nella struttura bipartitica, sebbene in ciascun partito
esistessero oppositori verso concezioni siffatte. Sinora, non
c'è stato spazio per una politica razziale separata e diretta
contro l'establishment.
Fu in Europa che il razzismo come movimento di massa tentò
realmente di conquistare il potere. L'antropologia e la linguistica
continuarono a svolgere un certo ruolo, ma quello che venne alla
ribalta fu l'elemento mistico del razzismo. Esso si prestava meglio
al simbolismo associato con la propaganda e le riunioni di massa.
Hitler credeva in una ‛scienza segreta' che era la vera conoscenza;
Himmler, per esempio, credeva nel ‛karma' e pensava d'essere la
reincarnazione di Enrico il Leone (v. Mosse, 1964, p. 453).
Come movimento di massa il razzismo condivise comuni fondamenti con
il vecchio socialismo nazionale. Entro la mistica del Volk tutti i
membri erano uguali. Il liberalismo era disgregatore quanto il
marxismo, e il parlamento era una forma superata di governo borghese
(v. Schmitt, 1923). Il razzismo faceva proprio l'ideale, che si era
sviluppato per tutto l'Ottocento, dell'eroe come condottiero
politico. Da Th. Carlyle a R. Wagner, tali eroi esemplificavano
nella propria persona la virilità del loro popolo. Per Wagner
simili condottieri partecipavano del ‛mito' del Volk che continuava
nel presente le forze vitali derivanti dal remoto passato germanico.
Egli ridefinì il concetto di mito, che era stato applicato
alle leggende degli antichi e ai costumi dei popoli primitivi. Il
‛mito' assurse così al rango di principio metastorico,
nordico ed eterno, che dava all'uomo le sue radici. Wagner
divulgò questa visione del mondo ponendo i suoi antichi eroi
germanici, padri della razza, in uno scenario impressionante e
spettacolare che faceva appello al romanticismo delle classi medie
tedesche. Fu H. S. Chamberlain che agganciò il ‛mito' alla
politica della guerra razziale, ma il bisogno di un mito siffatto
era diffuso specialmente nella Germania degli anni venti. A.
Rosenberg prese in considerazione diversi titoli prima di chiamare
il suo libro Der Mythus des 20. Jahrhunderts (1928). Qui il ‛mito'
diventava fondamentale per quella religione della razza che
Rosenberg opponeva a un cristianesimo ritardatario. Dal ‛mito' di un
passato immutabile il razzismo tedesco ricevette una colorazione
particolare.
La giusta guida della razza si esprimeva in un capo che la
rappresentasse, riunendo nella sua persona tutte le qualità
associate col ‛mito' appassionato della superiorità razziale.
In teoria c'era uguaglianza tra le persone, ma in pratica si
stabiliva la disuguaglianza, dovuta alla gerachia delle funzioni che
ciascun membro della razza adempiva su ordine del capo. Il modello
del confronto di Cesare col popolo, da cui Gobineau era
ossessionato, divenne l'ideale del pensiero politico razzista. Le
riunioni di massa naziste (e quelle di tutti i movimenti simili
nell'Europa orientale e centrale) simboleggiavano questo modello
politico e divennero in realtà lo scenario di una liturgia
che alla fine soppiantò le istituzioni del governo
rappresentativo. Le folle di persone che si muovevano all'unisono
facevano un netto contrasto con la solitudine del capo la cui figura
si stagliava contro la fiamma sacra. Il nazionalsocialismo, infine,
introdusse un ciclo di nuove feste nazionali basate sul mitico
passato razziale, sul simbolismo solare e sugli eroi caduti. Come
movimento di massa, il razzismo si appropriò per i suoi scopi
della tradizionale liturgia cristiana: il responsorio cristiano si
trasformò negli scambi corali tra la massa e il capo; la
‛confessione di fede' razzista era solennemente recitata. Hitler
stesso faceva dipendere i suoi successi in pace e in guerra dal
‛miracolo della Divina Provvidenza'. (v. Mosse, 1974).
Dal canto suo, il paternalismo sociale, come si esplicava ad esempio
nel movimento Kraft durch Freude, che organizzava il tempo libero
dei lavoratori, provvedeva a fornire i riti politici. Ciò
soddisfaceva molti lavoratori e s'intonava con la presunta
uguaglianza di status che il razzismo concedeva, contribuendo
così a mascherare la regolamentazione dittatoriale del
lavoro.
La visione razzistica del mondo aveva anche un altro vantaggio. I
razzisti credevano che i problemi economici si sarebbero
automaticamente risolti una volta che la razza fosse giunta al
potere. Il nazionalsocialismo poteva perciò perseguire una
politica economica pragmatica, che doveva ben presto tradire gli
interessi di quelle classi medie le quali avevano dato al movimento
il proprio appoggio. Un'eccezione, a questo proposito, fu costituita
dalla politica agraria. La figura del contadino fu, infatti,
glorificata dal razzismo in opposizione all'urbanesimo e al
modernismo. Le idee romantiche sulle virtù del lavoro
agricolo ebbero un ruolo importante nello sviluppo del razzismo.
Così, Hitler stabilì per legge l'ereditarietà
dei poderi (Reichserbhofgesetz) e seguì una politica di
facilitazioni creditizie per consentire agli agricoltori di
sbarazzarsi dei debiti. Malgrado ciò, la migrazione dei
contadini verso le città continuò con un ritmo sempre
più accelerato.
Una volta al potere, la distanza tra la teoria e la pratica poteva
essere superata attraverso il controllo imposto dalla dittatura e il
pieno ricorso al paternalismo e alla religione politicizzata. Ma
prima ancora che i movimenti razzisti conquistassero il potere,
l'attivismo assunse un'importanza cruciale nel mantenere lo slancio
iniziale. Che si trattasse del nazionalsocialismo in Germania, o
delle Guardie di ferro in Romania o degli Ustascia in Croazia, un
attivismo siffatto significava impegnarsi nella guerra civile.
Mentre i razzisti dell'Ottocento tendevano a limitarsi alla teoria,
nel dopoguerra i capi erano impegnati nel vivo della politica del
proprio tempo. L'attivismo che essi esplicavano contro i loro nemici
conduceva adesso a un tipo di estremismo dal quale i primi razzisti
erano per lo più rifuggiti.
I nazisti delle SA cantavano apertamente del sangue ebraico che
doveva gocciolare dal coltello, e i capi dei movimenti razzisti in
altre nazioni richiedevano lo sterminio piuttosto che l'esclusione
degli Ebrei. La ripresa dei pogrom in Romania, nel breve periodo in
cui le Guardie di ferro parteciparono al potere (1940-1941), ed
eccessi analoghi praticati dal fascismo razzista in Ungheria e in
Croazia mostrarono con chiarezza il predominio crescente della
violenza razzista.
L'intensificarsi della violenza condusse anche a una sempre maggiore
‛disumanizzazione' del nemico. La strada era stata preparata dagli
atteggiamenti razzisti verso le razze primitive, che venivano
ritenute più vicine alle scimmie che all'uomo. In maniera
abbastanza tipica D. Eckart, che fu il mentore di Hitler nel periodo
del suo ingresso nella ‛vita politica dopo la prima guerra mondiale,
proclamava che nessun popolo della terra avrebbe lasciato gli Ebrei
in vita se avesse potuto vedere ciò che erano e ciò
che volevano. Hitler accettò pienamente - e non solo
retoricamente, come Eckart - questo punto di vista, e
sentenziò anch'egli che il tipo umano inferiore era
più vicino alle scimmie che alle razze superiori. Allo scopo
di incoraggiare i suoi uomini al genocidio, Himmler paragonava gli
Ebrei a cimici e topi, animali nocivi che dovevano essere
sterminati. Alla documentazione provvedeva la propaganda di massa,
che mostrava le ‛tipiche' facce ebraiche accompagnate da didascalie
indicanti la scarsa rassomiglianza dei volti così ritratti
con quelli degli esseri umani. La schematizzazione inerente a tutto
il pensiero razzista giungeva così alle sue estreme
conseguenze: gli stereotipi prendevano il posto degli uomini e delle
donne reali.
Svolgimenti analoghi sono rintracciabili, dopo la prima guerra
mondiale, anche tra molti conservatori, che tentarono di utilizzare
il razzismo allo scopo di trasformarsi in un partito politico di
massa. I conservatori però, in Germania come altrove, non
desideravano la violenza aperta: malgrado tutta la loro, talvolta
violenta, propaganda antisemitica, essi chiedevano soltanto
l'esclusione degli Ebrei dalla vita nazionale.
La richiesta di passare alla violenza aperta proveniva in larga
misura dai movimenti socialisti nazionalisti che attiravano una
larga parte delle classi inferiori, insieme con altri settori della
popolazione. La Legione arcangelo Michele di C. Z. Codreanu (1927)
con le sue Guardie di ferro fu un movimento contadino che attirava
però anche i lavoratori dell'industria. Come la maggior parte
dei movimenti simili nell'Europa orientale sottosviluppata,
anch'esso metteva l'accento sulla natura collettiva di un
cristianesimo nazionale e mistico, e vi associava la credenza nella
cospirazione ebraico-comunista. La spietatezza delle Guardie di
ferro trovò un esatto riscontro in Ungheria nel movimento
razzista delle Croci frecciate di F. Szàlasy (1937), tra i
cui membri figurava un gran numero di lavoratori dell'industria
(43%). Il movimento nazionalistico degli Ustascia, nel breve periodo
dello Stato croato indipendente (1941-1944), massacrò
più di mezzo milione di Serbi e di Ebrei nel modo più
brutale e primitivo. In Slovacchia il partito di A. Hlinka
promulgò uno dei più severi codici razziali e
antiebraici. Modesta fu l'opposizione in questo partito, pur
largamente clericale e cattolico.
Nelle nazioni dell'Europa orientale la presunta minaccia del
bolscevismo giuocò un ruolo importante nel rafforzamento
dello slancio razzista. Essa fece presa tra le classi inferiori
proprio in quella parte dell'Europa in cui non esistevano forti
partiti socialisti; e anzi nella maggior parte di questi paesi non
esistevano in generale partiti politici strutturati. Il fascismo
razzista, quindi, divenne un mezzo di mobilitazione delle classi
inferiori proprio nel momento in cui per la prima volta esse
facevano il loro ingresso come forza nella vita politica.
Nell'Europa centrale, dove esistevano forti partiti socialisti e
comunisti, il fascismo tendeva a diventare un movimento delle classi
medie. Cionondimeno, il nazionalsocialismo hitleriano aveva
guadagnato le sue prime adesioni su larga scala tra i lavoratori
dell'Austria e della Boemia (v. Bracher, 1969, p. 59). Qui non fu la
minaccia bolscevica a giuocare un ruolo decisivo, ma la concorrenza
rappresentata da elementi slavi come i Cechi.
In Germania, dove il nazismo fu un fenomeno delle classi medie e la
‛rispettabilità' aveva una grande importanza, il programma
nazista ufficiale non chiedeva nient'altro che l'esclusione degli
Ebrei dalla vita nazionale. Tale rispettabilità si associava
poi in realtà alla guerra civile che le SA combattevano nelle
strade. La combinazione ebbe successo. Lo slancio fu mantenuto e le
classi medie che anelavano all'ordine si aggrapparono alla ostentata
moderazione di Hitler nella speranza che avrebbe alla fine prevalso.
In realtà, dopo la presa del potere le SA furono eliminate
come forza autonoma nel movimento (1934). Il nazionalsocialismo pose
in risalto le virtù della classe media, che il razzismo aveva
esaltato nell'Ottocento. Ma questa rispettabilità si
dimostrò soltanto una tattica mirante a suscitare un clima di
indifferenza o perfino di sostegno a quel programma di genocidio che
Hitler aveva in mente sin dall'inizio. Una politica di guerra
razziale totale, se voleva avere successo in un paese permeato di
valori borghesi, doveva d'altra parte essere attuata da un movimento
che aspirasse all'appoggio delle classi medie, doveva presentarsi in
modo diverso dai pogrom delle Guardie di ferro o dai linciaggi
sporadici degli Stati Uniti. Simili azioni fanatiche, dirette contro
individui singoli, erano ormai superate. Il nazionalsocialismo
invece operava una spersonalizzazione del nemico, dopo di che poteva
dirigere i suoi attacchi non più contro esseri umani, ma
contro un principio del male che aveva incidentalmente assunto forma
umana (v. nazionalsocialismo).
Le conseguenze del razzismo si manifestarono pienamente nel modo di
attuazione del genocidio, modo contraddistinto da una
sistematicità burocratica che spogliava le vittime di ogni
loro caratteristica individuale. Inoltre, la tattica di Hitler
richiedeva un'intensificazione graduale delle pressioni contro gli
Ebrei ed evitava l'azione drastica e spettacolare. Nel frattempo, la
propaganda faceva sì che la popolazione si mantenesse
neutrale, o addirittura appoggiasse misure che confinavano col
genocidio. La prima azione nazista di violenza su larga scala contro
gli Ebrei ebbe luogo soltanto il 10 novembre del 1938, cinque anni
dopo la conquista del potere, con il saccheggio di negozi e di
sinagoghe. In quell'occasione, il 63% di un piccolo campione di
membri del partito espresse indignazione; ma nel 1942, cioè
in piena guerra, soltanto il 26% di un campione analogo
dimostrò un qualche interesse per gli Ebrei, mentre il 69% si
professò indifferente (v. Müller-Claudius, 1948, pp.
162-166).
Le tappe più importanti nella preparazione del genocidio sono
facilmente individuabili. Essenziali furono le ‛leggi di Norimberga'
(1935), in quanto non solo legalizzarono la separazione degli Ebrei
dai Gentili, ma chiarirono in modo esplicito chi dovesse esser
considerato ebreo, ciò che il pensiero razzista precedente
non aveva definito con sufficiente precisione giuridica. In base a
esse chiunque fosse interamente o anche solo per tre quarti di
discendenza ebraica era ritenuto legalmente ebreo. Chi aveva due
nonni ebrei veniva considerato ‛mezzo ebreo'. Tali Mischunge, cui
non era concesso di unirsi né con Ebrei né con ariani,
erano quindi condannati all'estinzione per mancanza di discendenza.
Le ‛leggi di Norimberga' rimasero tipiche dell'impostazione
giuridica del problema ebraico, impostazione che almeno in parte (in
quanto, cioè, percorreva binari tradizionali) incontrò
una generale accettazione. Esse definirono anche con chiarezza chi
dovesse esser considerato ariano: bisognava che fossero di razza
ariana entrambi i nonni. Per essere ammesso nell'élite
razziale delle SS era però necessario risalire fino a
un'epoca precedente all'emancipazione ebraica (1750).
Alla fase giuridica dell'azione contro gli Ebrei seguì
l'arianizzazione dell'economia e la spinta all'emigrazione. Una
volta di più, fu la burocrazia a tradurre in pratica questo
programma. Alle prime violenze massicce si arrivò nel
novembre del 1938; da allora in poi furono pubblicamente discusse
misure sempre più dure, e gli Ebrei cominciarono a riempire i
campi di concentramento. Inoltre, l'annessione dell'Austria (aprile
1938) con i suoi 200.000 Ebrei rendeva imperativa la
necessità di risolvere la questione ebraica ‟in un modo o
nell'altro". Abbastanza ovvia era l'insoddisfazione con cui si
guardava all'emigrazione: era troppo lenta e non portava abbastanza
denaro nelle casse del Reich. La guerra, in ogni caso, doveva
segnarne la fine.
Il programma di eutanasia fu una prova generale del genocidio. Il
primo settembre del 1939 Hitler ordinò l'uccisione di tutti i
sofferenti di malattie inguaribili. Erano incluse in quest'ordine le
persone affette da deficienza mentale o da pazzia incurabile:
criteri questi che si prestavano ai maggiori abusi. Fino all'agosto
del 1941 furono così massacrate circa 70.000 persone. Era,
questa, eugenetica razziale applicata, e godeva dell'appoggio di
rispettabili medici e psichiatri in nome della sopravvivenza della
razza. In seguito alla protesta dell'episcopato cattolico e
all'inquietudine diffusasi nella popolazione (l'eutanasia era
difficile da tenere segreta), il programma fu ufficialmente
interrotto nel 1941; in realtà esso continuò, anche se
su scala molto ridotta.
Lo scoppio della guerra e le vittorie militari naziste fecero
maturare il momento della ‛soluzione finale' della questione
ebraica. Essa era stata preparata da lungo tempo; ora la guerra
forniva uno schermo dietro al quale, si pensava, era possibile
tradurla in pratica. Inoltre, le vittorie militari avevano portato
altri milioni di Ebrei sotto il controllo nazista. Il 31luglio del
1941 H. Goering affidò al Sicherheitsdienst di R. Heydrich la
preparazione e l'esecuzione del genocidio.
Il primo passo fu ancora una volta l'isolamento degli Ebrei,
conseguito questa volta non per via giuridica, ma mediante la loro
concentrazione, nell'Europa orientale, in ghetti di nuova
istituzione. Nell'Europa occidentale il campo di transito prese
spesso il posto del ghetto. Da questi luoghi di raccolta gli Ebrei
venivano deportati nei campi di sterminio.
L'esecuzione stessa dei massacri avveniva nel modo più
impersonale possibile. Certamente, in principio furono impiegati
plotoni d'esecuzione ma, ben presto, si fece ricorso al gas, in
carri mobili appositamente attrezzati (1941). Infine, venne
istituita la camera a gas (1942), accolta con sollievo da coloro che
erano coinvolti nella soluzione finale, dato ch'essa evitava ai
carnefici il contatto diretto con le proprie vittime. Adesso R.
Hess, il comandante di Auschwitz, poteva controllare il lavoro delle
camere a gas pensando alla sua confortevole vita di famiglia. Egli
ci racconta di non aver mai istituito un nesso qualsiasi tra
l'esistenza della sua famiglia e i milioni di donne e bambini che
mandava alla morte (v. Hess, 1963, pp. 133-134). Una simile
schizofrenia morale era la logica conseguenza del razzismo: da un
lato l'esaltazione della vita della classe media e dall'altro il
massacro di uomini e donne ormai spogliati della loro
umanità.
Le vittime erano preparate alla sottomissione dalle guardie, che
ricorrevano alla guerra psicologica: umiliazione costante,
incoraggiamento alla rivalità e all'odio tra le vittime
stesse e mantenimento di un atteggiamento di soggezione mediante la
concessione di favori che potevano significare la sopravvivenza. I
nazisti tentarono di ridurre gli Ebrei allo stereotipo
dell'ideologia razzista. Questa tattica fallì: i costanti
tentativi di trasformare il razzismo in una profezia che si
autoadempie non produssero nè un ideale ariano né uno
stereotipo ebraico. Persino le armi del terrore moderno si
dimostrarono incapaci di trasformare le chimere in realtà.
I nazisti fecero ogni sforzo per tenere nascosti i massacri in massa
sia alle vittime che alla popolazione. In ciò non ebbero
pieno successo, sebbene sia tuttora oggetto di disputa la misura in
cui riuscirono a raggiungere quest'obiettivo. A quell'epoca Hitler
pensava che la propaganda razzista non avesse ancora preparato la
gente ad affrontare le conseguenze finali: il massacro di almeno
5.100.000 Ebrei (v. Hilberg, 1961, p. 767).
Il genocidio degli Ebrei fu accompagnato dall'applicazione di una
politica diversa nei confronti dei popoli slavi. Questi ultimi
dovevano essere mantenuti nel loro stato di primitivismo e
analfabetismo, sprovvisti di qualsiasi cultura. I Russi e gli altri
popoli dell'Europa orientale erano destinati a essere gli schiavi
della razza superiore. Si applicarono a questo riguardo le teorie
razziste sui popoli primitivi e ancora una volta, attraverso l'uso
della forza (l'esecuzione capitale di preti e insegnanti), il mito
tentò di diventare realtà.
I nazisti cercarono appoggi alla loro politica razziale nei governi
dell'Europa orientale, che (ad eccezione dell'Ungheria) erano saliti
al potere in seguito alle vittorie tedesche. La Germania insisteva
sulla deportazione degli Ebrei come capitale prova di
fedeltà, e le deportazioni continuarono anche quando
interferivano con le operazioni militari. La guerra razziale aveva
altrettanta importanza - e per Hitler un'importanza anche maggiore -
che la guerra militare.
I dittatori conservatori, tuttavia, indietreggiarono o
tergiversarono di fronte alle richieste naziste di deportazione
degli Ebrei. In Romania il maresciallo Antonescu dapprima dette
l'ordine di procedere a massacri e deportazioni, ma poi tornò
sui suoi passi, cercando di mitigarne gli effetti. L'ammiraglio
Horthy, in Ungheria, oppose resistenza alla pressione nazista fino a
quando il suo paese non fu occupato. Allo stesso modo, in Occidente,
il maresciallo Pétain consegnò ai nazisti gli Ebrei
stranieri profughi in Francia, ma tentò di proteggere gli
Ebrei francesi dalla deportazione. Le dittature reazionarie debbono
essere attentamente distinte dal razzismo fascista anche prima della
seconda guerra mondiale. A uomini come Dollfuss in Austria o Franco
in Spagna potevano anche non piacere gli Ebrei; tuttavia per loro,
come per i loro colleghi saliti al potere durante la guerra, il
razzismo rappresentava qualcosa ch'era difficile accettare: si
scontrava col cattolicesimo sul quale in molti casi si basava la
loro ideologia e, cosa più importante, in quanto movimento
capace di mobilitare le masse, minacciava i loro regimi
conservatori.
In Occidente la resistenza fu più netta in quanto il razzismo
non aveva mai messo radici profonde prima dell'instaurazione del
predominio nazista su tutti i movimenti fascisti. Fascisti come i
rexisti belgi e perfino i nazionalsocialisti olandesi erano
ambivalenti nei confronti della questione ebraica. I razzisti
francesi non furono mai più che un movimento politico
periferico, per lo più ristretto a intellettuali come M.
Rébatet (Les décombres, 1942) e R. Brasillach. Il
movimento fascista di J. Doriot, il PPF (Parti Populaire
Français), non solo si astenne, fino allo scoppio della
guerra, dal proclamare una politica razziale ma, fino alla vittoria
nazista sulla Francia, per esso era più importante
l'antibolscevismo. Nell'Europa occidentale il fascismo aveva preso
come modello l'Italia, e il fascismo italiano non fu razzista fino
al 1938. Quando Mussolini adottò infine una politica
razzista, ciò si verificò in parte perché
cercava di dare nuovo slancio al suo regime ormai logoro, e in parte
anche per le pressioni dei suoi nuovi alleati nazisti. Ad ogni modo,
i fascisti italiani dovevano ora andare a cercare una tradizione
razzista autoctona, di cui non c'erano che scarse tracce. La maggior
parte degli scrittori razzisti italiani, come per es. G. Preziosi,
si limitarono semplicemente ad adattare il razzismo straniero al
passato romano dell'Italia. Dal canto suo Mussolini riscoprì
Gobineau e restò impressionato dal compendio razzista di J.
Evola (v., 1941), che tendeva a sostituire l'‛ariano mediterraneo'
all'‛ariano nordico'. In realtà Evola tentò di
stabilire una differenza tra un razzismo materialistico e biologico
da un lato e un ‛razzismo spirituale', vicino a quello di F. L.
Clauss, dall'altro. La razza per lui era una ‛idea platonica' che
conduceva a quel tipo di atteggiamento aristocratico già
lodato dal Gobineau. Anche se Evola non simpatizzava con lo slancio
popolare del fascismo, per Mussolini un simile concetto di ‛razzismo
spirituale' aveva il vantaggio della flessibilità, e
conferiva al contempo una nuova dimensione al ‛nuovo tipo di uomo'
che, a quanto si asseriva, il fascismo doveva creare. Il razzismo
dei capi fascisti era frutto di opportunismo, e anche un antisemita
di lunga data come Farinacci propagandava il pensiero razzista
probabilmente senza credervi. Quando, anche per opera sua, il
razzismo divenne una componente della politica del governo, lo
slogan di Mussolini fu ‟discriminazione piuttosto che persecuzione"
e, malgrado tutte le avversità che colpirono gli Ebrei
italiani, la politica del genocidio fu realizzata soltanto sotto
l'occupazione tedesca. L'opinione pubblica italiana, soprattutto,
non accettò mai le idee razzistiche.
Comunque, non appena il fascismo italiano divenne il partner
più debole nell'alleanza dell'Asse e Mussolini stesso ebbe
adottato una politica razziale, tutto il fascismo europeo divenne
razzista. A eccezione dell'Italia, i movimenti fascisti durante la
guerra collaborarono alla ‛soluzione finale', e senza l'ambivalenza
e le esitazioni dei dittatori reazionari.
Le nazioni che combatterono contro il nazionalsocialismo nella
seconda guerra mondiale erano unite nel condannare il razzismo.
L'Inghilterra aveva sempre stornato i propri impulsi razzisti verso
le popolazioni indigene dell'Impero. In patria, la British Union of
Fascists (1932-1940) di sir O. Mosley non era mai riuscita a
sfondare sul piano politico, nonostante avesse adottato il razzismo
allo scopo di dare dinamica al movimento. In Russia, sebbene il
vecchio antisemitismo affiorasse ogni tanto durante la guerra, la
politica sovietica ufficiale lo condannava. Solo negli Stati Uniti
continuava a sussistere il razzismo antinegro malgrado la condanna
del razzismo nazista. Ma qui pesavano fortemente i problemi del
passato.
5. Dopo la seconda guerra mondiale
Il razzismo come elemento della politica di governo cadde largamente
in discredito dopo la seconda guerra mondiale. Un ‛eccezione
è stata rappresentata dal Sudafrica, dove il razzismo
è stato sancito e applicato ufficialmente. Il partito
nazionalista era stato fondato nel 1914 allo scopo di far risorgere
le tradizioni boere dell'Afrikanerdom. Durante gli anni venti le
politiche discriminatorie contro i Negri furono estese all'intera
nazione. Gli Afrikaner trionfarono sugli orientamenti liberali della
provincia anglofona di Città del Capo. Nel corso della
seconda guerra mondiale la separazione tra le razze fu sostenuta
strenuamente dalla Chiesa protestante olandese del Sudafrica, la
quale - non diversamente da molti cosiddetti ‛protestanti tedeschi'
nel periodo nazista - concepiva la diversità di razza come
frutto di un decreto divino. A partire dal 1948 il Partito
nazionalista ha fatto approvare una serie di leggi che proibiscono
ogni sorta di mescolanza razziale, e la popolazione negra è
stata concentrata in territori separati (apartheid).
Altrove, dopo la seconda guerra mondiale, i propositi razzisti sono
stati ripudiati (anche se la parola ‛razza' è rimasta d'uso
frequente). Negli Stati Uniti, sia la Corte suprema che il governo
stesso hanno affrontato il problema della discriminazione dei Negri.
Il diritto al voto di tutti i cittadini era stato garantito sin dal
1870 con un emendamento costituzionale (il quindicesimo), che
però è stato reso effettivo solo durante gli anni
sessanta attraverso la legislazione e la campagna nel Sud per la
registrazione degli aventi diritto al voto. Nello stesso tempo i
giovani attivisti del movimento per i diritti civili del Nord hanno
aiutato i Negri del Sud a infrangere le barriere tra Negri e Bianchi
nei servizi pubblici, nei ristoranti e nei trasporti. L'integrazione
è diventata la parola d'ordine, anche se, contro un sistema
inveterato di separazione razziale, si è fatta strada solo
lentamente.
I Negri hanno cominciato, con una certa impazienza, a organizzarsi
all'interno delle loro comunità. Questi tentativi compiuti
negli anni sessanta hanno un precedente in organizzazioni più
antiche, come la Universal Negro Improvement Association di M.
Garvey negli anni venti. Garvey pensava che ai fini di un'efficace
azione di massa i Negri dovessero diventare un gruppo unito e
fornito di coscienza razziale. Negli anni sessanta sono sorte
diverse organizzazioni che hanno tentato di dare ai Negri una nuova
coscienza della loro eredità afroamericana e del colore della
loro pelle. L'accento posto sull'orgoglio e sul ‛potere nero' da
leaders come Malcom X, E. Cleaver del Black Panther Party o E.
Muhammad dei Black Muslims ha forse condotto all'affermazione di
posizioni razziste? Molti negri hanno rivendicato la propria
identità come un modo per competere con la società
bianca e forzarne le barriere. Altri hanno guardato al marxismo come
fonte d'ispirazione e la maggior parte dei gruppi del ‛potere nero'
ha aderito incondizionatamente alle lotte sostenute dalle diverse
razze del Terzo Mondo contro le grandi potenze. Se la violenza del
linguaggio ha spesso simboleggiato la violenta lotta che è
stata necessaria per combattere contro il razzismo bianco su tutti i
fronti, il ‛potere nero' non è stato però concepito
nei termini di una visione razziale del mondo.
Il pregiudizio sopravvive ancora tra molti bianchi come elemento di
una lunga tradizione razzista che ai Negri è estranea. I
‛rispettabili' White Citizens Councils hanno riaffermato la propria
opposizione all'integrazione, e gruppi estremisti come il piccolo
National States Rights Party hanno sfruttato i Protocolli dei savi
Anziani di Sion contemporaneamente contro gli Ebrei e contro i
Negri. Uomini come l'ex governatore dell'Alabama G. Wallace hanno
dato voce, oltreché all'opposizione contro l'integrazione,
allo scontento del mondo agrario e provinciale contro l'Est
urbanizzato.
Al grosso problema della sopravvivenza del razzismo non si risponde
additando l'esistenza di simili esigui gruppetti negli Stati Uniti o
in Europa. Piuttosto, ci dobbiamo chiedere se il razzismo, anche nei
casi in cui sia stato ufficialmente ripudiato, non abbia continuato
a determinare gli atteggiamenti di molti uomini nei loro rapporti
reciproci. Non manca qualche prova della sopravvivenza di un
razzismo non limitato a gruppi estremisti. Durante la guerra degli
Algerini per l'indipendenza, alcuni coloni francesi adottarono
atteggiamenti razzisti verso gli Arabi. I Rhodesiani, sollecitati
dalle nazioni bianche e nere a concedere potere politico alla
propria maggioranza negra, hanno trovato rifugio nelle concezioni
razziste. Inoltre, l'Egitto di Nasser ha fatto ricorso, nella lotta
contro Israele, a documenti come i Protocolli dei savi Anziani di
Sion e a ex propagandisti nazisti. Resta però dubbio che il
fenomeno abbia messo radici, dato che l'Islàm lascia ben poco
spazio a concezioni razziste. Anche l'America Latina è stata
contagiata dal razzismo, specie l'Argentina, che poteva vantare un
violento movimento antiebraico, basato sui luoghi comuni
dell'ideologia razzista (Tacuara). Possiamo aggiungere che, tra il
1945 e il 1964, almeno ventuno nuove edizioni del Mein Kampf di
Hitler sono apparse negli Stati Uniti, in Francia, Spagna, Messico,
Grecia, Libano e Giappone (cfr. ‟The Wiener library bulletin", 1965,
XIX, 2, p. 23). Dopo la seconda guerra mondiale, la letteratura
razzista ha continuato a trovare editori e lettori.
Cosa resta da dire del razzismo in Europa? I Francesi hanno
dimostrato la sua sopravvivenza durante la guerra algerina per
l'indipendenza, quando l'antisemitismo razzista forniva materia per
una quantità di libelli e scritte murali. Inoltre, nel 1969
la città di Orlèans fu testimone di un'improvvisa
sommossa popolare contro i locali commercianti ebraici, sommossa che
prese lo spunto dalle leggende della contaminazione sessuale e dai
Protocolli dei savi Anziani di Sion (v. Morin, 1969). Le ansie della
vita moderna hanno fatto rivivere un'ideologia da molti ritenuta
morta ma che, in realtà, era solo assopita sotto la
superficie. Nelle regioni rurali arretrate e nelle piccole
città della Germania si usa ancora la parola ‛ebreo' nel suo
vecchio significato, anche se il vecchio razzismo è limitato
nel complesso a piccoli gruppi periferici. Il Partito nazionale
tedesco, che registrò alcuni temporanei successi elettorali
sul finire degli anni sessanta, era conservatore piuttosto che
razzista. Comunque, nessun movimento razzista di massa è
emerso dopo la seconda guerra mondiale. È piuttosto la
sopravvivenza del razzismo come religione secolare e visione del
mondo, al di fuori di qualsiasi immediata cornice politica, che
è in discussione.
Non possediamo statistiche attendibili circa la capacità di
penetrazione degli atteggiamenti razzisti. Là dove il
razzismo aveva trovato un terreno fertile nei secc. XIX e XX, tali
atteggiamenti sembravano più diffusi. Tuttavia in Francia,
che pure non aveva in passato favorito i movimenti razzisti, il
razzismo è affiorato dopo la guerra. La Germania - la nazione
che ha portato il razzismo al suo trionfo - non ha visto il suo
risveglio, sebbene molti dei vecchi atteggiamenti razzisti
continuino a sussistere, in attesa forse di un'epoca di crisi per
riemergere. L'Europa orientale, essendo diventata comunista, ha
represso gli atteggiamenti razzisti (che, peraltro, con molta
probabilità sopravvivono). Anche l'Italia, che non ha avuto,
in passato, una vera e propria tradizione razzista, è rimasta
relativamente immune dal razzismo dopo la seconda guerra mondiale.
Gli atteggiamenti razzisti si sono rivelati più pronunciati
in quei paesi che, dopo la guerra, hanno avuto problemi con le
minoranze.
Negli Stati Uniti il razzismo - ridotto in gran parte dell'Europa a
un'esistenza sotterranea - ha determinato, seppure a livello
subconscio, l'atteggiamento di larghi strati della popolazione sia
al Nord che al Sud. Il Sudafrica e la Rhodesia, come abbiamo visto,
si sono battuti per mantenere la supremazia bianca. La Gran
Bretagna, che non aveva una radicata tradizione razzista, ha
conosciuto un'ondata di razzismo in seguito all'immigrazione
dall'India occidentale e dal Pakistan. Questo tipo di razzismo trova
le sue radici nei problemi sociali associati alla concorrenza per
l'occupazione, gli alloggi e lo status sociale. Cionondimeno,
è in genere considerato sconveniente esprimere pubblicamente
opinioni razziste. La moralità della classe media, che era
stata sua alleata in passato, ha respinto il razzismo dopo
l'esperienza nazista. Rimane però il fatto che gli
atteggiamenti umani non mutano tanto rapidamente e che una visione
del mondo è più facile conservarla anziché
gettarla nel mucchio dei rifiuti della storia.
Lo stereotipo ha continuato a informare la mentalità di
molti: è accaduto di nuovo che la struttura corporea e
l'aspetto esteriore siano associati alla vera moralità e agli
ideali razziali in campo estetico. Le leggendarie radici ‛storiche'
hanno continuato a formare una parte vitale del nazionalismo
moderno. Accade ancora che gli uomini guardino con ansia e timore
alle differenze esistenti al di fuori della propria comunità
e cerchino rifugio dalla crisi del modernismo nella sicurezza del
simbolismo e della superiorità razziali. Un fattore di
sopravvivenza può essere anche il ricordo di un razzismo che
era servito a mobilitare le folle come forza politica; il razzismo
era stato infatti associato a una democrazia che si contrapponeva a
una presunta artificiosità e angustia del sistema
parlamentare. La verità è che il razzismo diffuse la
propria carica di aggressività in un mondo la cui devozione
agli ideali dell'indipendenza nazionale e dell'autodeterminazione
era solo apparente.
Il razzismo è definito dalla storia che lo ha prodotto. Dai
suoi inizi sul terreno scientifico e storiografico nel Settecento
esso è diventato, verso la metà dell'Ottocento, una
visione del mondo pienamente sviluppata. I razzisti hanno celebrato
il proprio trionfo nel periodo tra le due guerre mondiali,
spacciandosi come difensori dei valori tradizionali. Chi può
escludere che, ove tali valori (per es. la moralità o la
nazionalità) siano in pericolo, il razzismo si erga ancora
una volta a loro protettore? Nè può destare meraviglia
che neppure gli orrori che il razzismo ha scatenato
sull'umanità abbiano distrutto gli atteggiamenti da esso
creati: la verità è che un movimento di tale potenza e
influenza lascia la sua impronta sulla storia per molte generazioni.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Imanuel Geiss
Razzismo
Sommario: 1. Definizione ed etimologia del termine. 2. Mito e
realtà. 3. Elementi distintivi del razzismo. 4. L'idea
razziale nell'antichità. 5. Le teorie razziali
nell'età moderna. 6. I primi teorici. 7. L'affermarsi del
razzismo moderno. 8. La fondazione 'scientifica' delle moderne
teorie razziali. 9. Il razzismo in Germania. 10. Il razzismo dopo il
1945. □ Bibliografia.
DEFINIZIONE ED ETIMOLOGIA DEL TERMINE
Nel presente articolo indicheremo con 'razzismo' l'insieme delle
teorie razziali in quanto distinte sia dalla discriminazione
razziale intesa come razzismo messo in pratica, sia
dall'antisemitismo, sebbene spesso tali concetti siano usati come
equivalenti.'Razzismo' è uno di quei concetti del nostro
tempo che sfuggono a una definizione precisa e unanimemente
accettata. Come spesso accade, anche in questo caso può
essere d'aiuto richiamarsi alla storia del termine, poiché le
parole non sono frutto di un arbitrio intellettuale, ma rispecchiano
in forma astratta la realtà stessa dei fenomeni.
Il termine 'razzismo' venne coniato tra le due guerre mondiali
nell'Occidente democratico come protesta verso teoria e prassi del
nazionalsocialismo tedesco, che nel Terzo Reich si appellava alla
propria 'dottrina razziale' intesa in un'accezione positiva,
rifiutando le connotazioni polemiche insite nel termine razzismo.
Nel 1945, dopo il crollo del nazismo, 'razzismo' assunse i caratteri
di una categoria oggettiva, ma nello stesso tempo divenne un termine
spregiativo usato in senso politico-ideologico per diffamare gli
avversari.Il razzismo può essere considerato l'edificio
teorico che fa da complemento alla discriminazione razziale moderna,
il complesso di dottrine che guida e fonda la prassi razzista. Suo
assioma fondamentale è la distinzione tra presunte 'razze
superiori' e 'razze inferiori', in quanto postula la
superiorità innata, fondata biologicamente, di una
determinata razza - nella fattispecie, della razza cui appartengono
coloro che lo propugnano.
Il razzismo in senso proprio nasce solo nell'età moderna, e
più precisamente a partire dall'illuminismo, allorché
viene fissato in forma scritta in trattati, saggi, articoli e norme
legislative. Già in precedenza, peraltro, esistevano pratiche
e orientamenti analoghi che possiamo definire 'protorazzismi'.
Se il razzismo moderno era l'ideologia con cui i bianchi cercavano
di legittimare le loro pretese di dominio sul resto del mondo, forme
di protorazzismo si ritrovano in tutti i luoghi e in tutte le epoche
storiche in cui è esistita una situazione analoga di
preminenza di determinati gruppi su altri subordinati. Le ideologie
protorazziste non ebbero un'esplicita formulazione o
sistematizzazione teorica; ciò si deve anche al fatto che di
solito erano sancite sul piano religioso.Sulla definizione del
concetto di 'razza', com'è noto, non esiste unanimità
di vedute tra gli studiosi; il numero stesso delle razze è
oggetto di controversie, come già rilevava ironicamente
Darwin nell'Origine dell'uomo allorché elencava le ipotesi
avanzate dai vari autori: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 11, 15, 16, 22,
60, 63. La definizione delle 'razze' è assolutamente
arbitraria. In questo caso l'etimologia del termine può
essere d'aiuto. 'Razza' deriva senza dubbio dalle lingue romanze
(spagnolo 'raza', portoghese 'raça', francese 'race'), e da
queste è stato mutuato in seguito dal tedesco e dall'inglese.
Tutte le altre etimologie restano ipotesi dubbie. La più
plausibile rimanda all'arabo 'ras', che significa 'capo, testa', ma
anche 'stirpe', 'discendenza' (nobile o aristocratica): chi 'aveva
razza' aveva la sua stirpe ('ras') 'nella testa' ('ras'), ossia la
conosceva a memoria, e poteva elencare un numero pressoché
sterminato di illustri antenati (di sesso maschile).L'orgoglio per
la stirpe aristocratica era particolarmente spiccato tra le
tribù nomadi dei Berberi d'Arabia, che a partire dal 711, a
seguito della Conquista, si insediarono nella penisola iberica.
All'incontro/scontro con gli Spagnoli e i Portoghesi si deve forse
la comparsa del termine 'razza' nelle lingue iberiche. Il vocabolo
originariamente veniva impiegato sia per gli uomini che per gli
animali - in particolare per i nobili cavalli 'purosangue' arabi.
Perlomeno dopo Auschwitz, però, non è più
lecito parlare di 'razze' in riferimento all'uomo, e per questo
motivo il termine in tali occorrenze comparirà qui sempre tra
virgolette. Spesso al concetto di razza era associata l'idea di
appartenenza a una stirpe superiore alle altre per valore e
nobiltà. Chi era di 'razza' nel senso originario del termine,
costituiva una presunta razza 'superiore'.
MITO E REALTÀ
Il concetto di razza denota anche fatti oggettivi, ossia la
divisione dell'umanità nelle tre principali 'razze' (bianca,
gialla, nera), che oggi sarebbe peraltro preferibile chiamare
'grandi gruppi' in contrapposizione a gruppi di minori dimensioni
difficilmente classificabili. Sarebbe irragionevole chiudere gli
occhi di fronte a tali differenze, reali quanto basilari, tra gli
esseri umani. A scanso di equivoci, occorre però precisare
che alle 'razze' non sono associati particolari valori individuali o
collettivi tali da determinare una superiorità o
inferiorità 'innata', 'razziale' in senso biologico e quindi
permanente dell'uno o dell'altro gruppo. I concetti di 'superiore' e
'inferiore' rinviano piuttosto alla posizione assunta da alcuni
grandi gruppi umani ('razze') nel corso della storia, al ruolo che
essi hanno svolto nel processo di civilizzazione. La
'superiorità' in questo caso non ha nulla a che vedere con
fatti biologici, ma è legata invece all'accesso diversificato
delle varie società o gruppi umani ai principali centri
dell'evoluzione, ai contatti e alle possibilità di contatto,
poiché lo sviluppo di una società complessa è
impossibile o seriamente ostacolato nell'isolamento.
Le differenze di fatto esistenti tra i grandi gruppi umani, e che
vanno al di là dei semplici caratteri fisici (colore della
pelle, tipo di capelli, forma degli occhi, ecc.), si possono
pertanto spiegare in termini di differenze nel livello di sviluppo,
che determinano un vero e proprio ordinamento gerarchico di rango e
di 'beccata' tra i popoli: i gruppi e le società che di volta
in volta si trovano in condizioni di superiorità disprezzano
quelli subordinati, soprattutto quando questi sono costretti a
lavorare per i 'superiori' in qualità di schiavi, servi della
gleba, iloti, ecc. Il razzismo moderno appare dunque come
un'ideologia intesa a legittimare l'effettiva supremazia mondiale
degli europei ('bianchi') o dei loro ceti superiori in quanto posti
al vertice della piramide dello sviluppo nell'età moderna. La
spiegazione razionale del razzismo rimanda dunque a fenomeni
socioeconomici, la cui copertura ideologica ha subito un processo di
autonomizzazione nelle teorie razziali.
ELEMENTI DISTINTIVI DEL RAZZISMO
Auschwitz come simbolo del genocidio perpetrato dal Terzo Reich
nella seconda guerra mondiale ('Olocausto', 'soluzione finale' della
questione ebraica) e l'apartheid in Sudafrica possono essere
considerati, nonostante il diverso grado di impiego della violenza
che li caratterizza, gli esempi estremi delle due principali forme
del razzismo, i cui presupposti storici si sono sviluppati in larga
misura in modo indipendente. In Germania l'antisemitismo e il
razzismo contro i negri finirono per confluire, nel movimento di
agitazione politica dei gruppi populisti sin dal 1900, e
nell'opinione pubblica più ampia verso la fine della prima
guerra mondiale; tuttavia mentre il razzismo tedesco contro i negri
rimase in larga misura un fenomeno propagandistico, che esplose nel
1923 con l'occupazione francese dell'area della Ruhr, attuata anche
con soldati di colore, l'antisemitismo assurse tra il 1944 e il 1945
a dottrina ufficiale di Stato del nazismo nel Terzo
Reich.Nell'antisemitismo nazista e nell'apartheid sudafricano si
possono cogliere nel modo più chiaro gli elementi centrali
del razzismo: la xenofobia e l'odio per gli stranieri; l'endogamia
come rifiuto della commistione con 'razze inferiori'; l'orgoglio
aristocratico per la presunta 'purezza di sangue'; la creazione di
un sistema gerarchico di caste superiori e caste inferiori;
l'etnocentrismo; lo schiavismo; l'atteggiamento di superbia di tutte
le culture evolute nei confronti dei 'barbari' e dei 'selvaggi', e
dei 'barbari' nei confronti dei 'selvaggi'; il rifiuto dei diritti
umani attraverso la negazione della dignità umana; il
disprezzo per i seguaci di altre religioni. L'idea fissa della
'purezza di sangue' fa nascere inevitabilmente il problema dei
'mezzosangue', frutto della mescolanza di gruppi diversi. La
posizione intermedia che essi hanno tra dominanti e dominati
concretizza e acuisce la tensione tra la pressione per il
riconoscimento dell'eguaglianza e la sua negazione che arriva sino
alla discriminazione e persino alla discriminazione razziale. Nel
complesso dell'antisemitismo/antigiudaismo, un ruolo analogo
è assunto dai cosiddetti conversos, gli ebrei convertiti al
cristianesimo e i loro discendenti, nonché quelli più
o meno assimilati. Tutti questi elementi - con diverso grado di
intensità, isolatamente o in combinazioni di volta in volta
diverse - si ritrovano anche nei protorazzismi di ogni tempo e di
ogni luogo.
Solo il razzismo moderno tuttavia unificò tutti i singoli
elementi dei protorazzismi sistematizzandoli in costrutti teorici.
Un presupposto basilare del razzismo, perlopiù occultato
ideologicamente, è costituito dalle differenze oggettive di
sviluppo e di ricchezza, che a livello soggettivo si trasformano in
meccanismi di disprezzo e di odio, in pretese di superiorità
e in una compensazione aggressiva di complessi di
inferiorità. L'antisemitismo/antigiudaismo riguardava
fondamentalmente i rapporti interni dei 'bianchi', poiché sia
gli ebrei in quanto semiti che i 'caucasici' appartengono alla
'razza bianca'. L'antico antigiudaismo nell'Impero romano era stato
fomentato da una effettiva situazione di competizione socioeconomica
e culturale nelle città dell'Impero d'Oriente tra due gruppi
urbanizzati e altamente civilizzati, i Greci e gli Ebrei, ma si
espresse fondamentalmente sul piano religioso. Le Chiese cristiane,
sia quella cattolico-latina che quella greco-ortodossa, tramandarono
i pregiudizi contro gli Ebrei estremizzandoli e dando loro una
sanzione religiosa. Nel corso dei secoli, se non dei millenni, tali
pregiudizi subirono un processo di autonomizzazione, cosicché
in seguito gli esponenti dell'antigiudaismo persero memoria della
situazione storica originaria da cui erano scaturiti. Per contro
l'antigiudaismo/antisemitismo cristiano dei secoli successivi fu
alimentato soprattutto dai complessi di inferiorità in campo
economico, sociale e culturale delle società prima contadine
e poi industrializzate nei confronti degli Ebrei. In quanto
più antico popolo letterato e urbanizzato nella storia
mondiale, dopo il declino del mondo antico, gli Ebrei
rappresentarono sempre anche un modello di continuità
culturale rispetto ai 'popoli ospiti', rimasti per lungo tempo
analfabeti. Agli occhi degli abitanti delle campagne, di
conseguenza, gli Ebrei urbanizzati che svolgevano professioni
intellettuali non erano altro che 'parassiti'.
Il razzismo contro i negri tipico dei 'bianchi' - ma anche dei
'gialli' (cinesi e giapponesi) - si fonda sulla superiorità
tecnico-materiale degli europei rispetto a 'razze' di colore
diverso, e a differenza dell'antisemitismo riguarda i rapporti dei
'bianchi' con l'esterno. Suo presupposto storico essenziale è
lo schiavismo; sin dall'antichità infatti l'Africa Nera aveva
rappresentato una importante riserva di schiavi per il mondo
occidentale, cosicché in genere al di fuori dell'Africa gli
africani erano conosciuti solo come schiavi. La tratta dei neri nel
Nuovo Mondo non fece che riattivare, rafforzare e diffondere
nell'età moderna tali meccanismi più antichi.
Ad alimentare l'orgoglio razziale dei bianchi contribuì anche
il 'mito ariano' - gli indoeuropei sarebbero stati gli unici o i
più antichi creatori e portatori di cultura, e ciò
solo perché tra alcuni popoli indoeuropei, come gli Indoari,
i Germani e i Celti, predominava probabilmente il tipo biondo di
pelle chiara. D'altro canto il sistema castale indiano che si
andò affermando nel millennio successivo alla conquista
indoaria dell'India settentrionale (1500 a.C. circa) è il
primo esempio di apartheid istituzionalizzato praticato in modo
continuato. Il sistema delle caste poté fare a meno di una
fondazione teorica fissata in testi scritti poiché era ed
è tuttora sancito sul piano religioso attraverso la credenza
nella metempsicosi.
Ogni società antica, qualunque fosse il suo livello di
sviluppo, considerava solo i propri membri (di sesso maschile) come
esseri umani a pieno titolo, escludendo dal genere umano le donne, i
servi, gli schiavi e i gruppi culturalmente inferiori. La negazione
della dignità umana e quindi dei diritti dell'uomo era
generalizzata nella prassi irriflessa di tutte le società:
l'estraneo era identificato senz'altro con il nemico, e in quanto
isolato e privo di tutela facilmente riducibile in schiavitù.
Quale forma estrema di lavoro coatto lo schiavismo perpetuava la
negazione dello status di esseri umani. Dopo l'emancipazione, il
disprezzo per gli schiavi, considerati esseri subumani, si estese
anche ai loro discendenti quando questi, come accadeva in America,
erano fisicamente e quindi 'razzialmente' diversi dal resto della
popolazione bianca. Il moderno razzismo contro i negri si
sviluppò dalla problematica degli ex schiavi, che prima della
emancipazione universale del 1863-1865 erano perlopiù
meticci. La discriminazione razziale, soprattutto negli Stati Uniti,
fu una conseguenza immediata dell'emancipazione; analogamente,
l'emancipazione degli Ebrei portò all'antisemitismo, sebbene
perlopiù solo dopo secoli di tentata assimilazione.
Per delineare un quadro storico del razzismo è necessario
istituire un collegamento tra il piano delle teorie e delle idee e
quello dei fatti storici concreti, perché solo così si
può evitare che l'esposizione delle dottrine dei vari autori
nella loro successione cronologica si trasformi in un mero esercizio
accademico-scolastico fine a se stesso. Le teorie infatti avevano
una duplice funzione: da un lato sistematizzavano ed esplicitavano
il sapere dell'epoca, inquadrandolo in edifici concettuali
preesistenti o creandone di nuovi; dall'altro contenevano
indicazioni per un'azione politica concreta da attuarsi in un futuro
imprecisato, influenzando il pensiero delle élites e prima o
poi anche l'opinione pubblica più ampia. Nel fornire
direttive politiche alla loro società, i teorici del razzismo
influenzarono, seppure indirettamente, anche il corso della storia;
nello stesso tempo le teorie gettano luce sulla realtà
storica stessa. Esiste dunque una stretta interdipendenza tra
sviluppi teorici ed eventi storici, cosicché non si possono
comprendere appieno gli uni senza gli altri.
L'IDEA RAZZIALE NELL'ANTICHITÀ
Solo nell'età moderna emergono singoli autori cui ricondurre
le teorie razziali. I primi tentativi di spiegare le divisioni
dell'umanità si mossero dapprima sul terreno dei miti
collettivi o delle rappresentazioni religiose, e si collocavano
quindi nel contesto delle concezioni generali relative alle origini
del mondo (cosmogenesi) e alla sua fine, nonché al posto
dell'uomo nell'accadere cosmico.Le distinzioni tra 'razze' erano
estranee alla visione del mondo egizio, poiché dopo la
conquista della Nubia la popolazione di pelle nera venne integrata
saldamente nella civiltà dell'antico Egitto. I negri dunque
non erano conosciuti unicamente come schiavi. Di conseguenza i
confini tra il gruppo di appartenenza e il mondo esterno - come
avviene del resto in tutte le grandi civiltà, dalla Cina
all'antica Grecia - erano concepiti come confini tra civiltà
e 'caos' della 'barbarie', a prescindere dal colore della pelle di
quelli che di volta in volta assumevano i ruoli di popoli
'civilizzati' e di 'barbari'. Successivamente la concezione non
razzistica propria dell'antico Egitto venne ripresa dai Greci, anche
se l'orgoglio di questo popolo per la propria civiltà poteva
assumere connotazioni quasi o protorazzistiche.
La concezione egizio-greca fu soppiantata dal racconto
mitico-religioso del libro della Genesi dell'Antico Testamento, in
cui la divisione dell'umanità viene ricondotta alla
maledizione di Noè: "Maledetto sia Canaan il figlio di Cam!
Sarà l'infimo servo dei suoi fratelli!" (Genesi, 9, 24-27).
La tripartizione dell'umanità nei discendenti dei figli di
Noè: Jafet, Sem e Cam rispecchiava i tre grandi gruppi
conosciuti all'epoca in Occidente - i bianchi (figli di Jafet), i
semiti e i figli di Cam, che (in seguito) vennero identificati con i
neri e già da allora associati perpetuamente, ossia in modo
intrinseco-strutturale, alla schiavitù. Successivamente, il
cristianesimo e l'islamismo ripresero e accentuarono questa
interpretazione, che diverrà l'argomentazione standard di
tutti gli esponenti del razzismo moderno che si richiamano alla
Bibbia. Alle latenti implicazioni razzistiche della maledizione di
Noè si contrapponeva però il superiore principio
dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio enunciato
all'inizio della Genesi: "E Iddio creò l'uomo a sua immagine"
(1, 27). Sarà questo il principio fondamentale cui si
richiameranno in seguito tutte le argomentazioni non razzistiche o
antirazzistiche che l'Europa oppose al razzismo da cui fu dominata
per lungo tempo.
LE TEORIE RAZZIALI NELL'ETÀ MODERNA
Solo l'espansione europea oltreoceano, a partire dalla scoperta di
Cristoforo Colombo nel 1492 e dal viaggio di Vasco da Gama nelle
Indie nel 1498, mandò in frantumi la visione eurocentrica del
mondo e dell'umanità che aveva dominato sino a quel momento,
portando a conoscenza l'esistenza di gruppi umani che non
rientravano nella classificazione biblica. Si cercò allora di
concettualizzare la nuova situazione creando nuove categorie in
grado di fissare la posizione degli occidentali rispetto a
un'umanità diversa e sino ad allora sconosciuta. Si trattava
ancora di invenzioni collettive e anonime, ma la loro comparsa
è databile con certezza e in sé assai istruttiva: di
'negri' si comincia a parlare intorno al 1516, ossia quando comincia
la tratta degli schiavi nelle terre d'oltreoceano; 'mulatto' compare
verso il 1604; 'casta' e 'meticcio' risalgono al 1615; 'bianchi'
diventa d'uso corrente nelle colonie inglesi del Nordamerica verso
il 1689 circa, ossia all'inizio dell'espansione coloniale
britannica.Nello sviluppo delle dottrine razziali moderne emerge in
modo particolarmente evidente l'interazione tra la sfera delle idee
e quella della realtà storica. Allo spostamento dei centri di
gravità nazionali in Europa nel corso dell'espansione
oltreoceano fa riscontro un analogo processo sul terreno delle
dottrine razzistiche. All'inizio l'egemonia in questo campo fu
detenuta dagli Spagnoli, che dibattevano sul posto da assegnare
nell'umanità agli Indios trovati in America e ai negri
importati come schiavi dall'Africa.
Con il declino politico-coloniale della penisola iberica, a partire
dalla metà del XVII secolo, furono la Francia e la Gran
Bretagna ad assumere un ruolo di primo piano sia nel campo
dell'espansione coloniale, sia in quello delle teorie razziali. Da
allora in poi Francesi e Inglesi fornirono significativi contributi
alla sistematizzazione teorica delle nuove conoscenze, e ciò
fu nello stesso tempo un riflesso della loro crescente
partecipazione alla tratta degli schiavi e alla produzione di
zucchero basata sul lavoro schiavile nei Caraibi. Solo verso la fine
del XVIII secolo nel dibattito cominciarono a inserirsi anche autori
tedeschi - preannunzio, dapprima solo teorico-accademico, della
futura espansione del nuovo Impero tedesco al principio del
Novecento, e del ruolo preminente che la Germania avrebbe avuto da
allora nella teorizzazione, nella prassi e nella propaganda del
razzismo sino al 1945.
Egualmente degna di nota è la 'divisione del lavoro' tra
Vecchio e Nuovo Mondo per quanto concerne il razzismo contro i
negri. Con la scoperta dell'America vennero creati i presupposti
storici per la nascita di questa forma di razzismo: acquisizione da
parte dei 'bianchi' europei dello status di padroni degli schiavi
nelle piantagioni del Nuovo Mondo e del dominio mondiale da un lato,
riduzione del resto del mondo a riserve di schiavi, colonie, fonti
di materie prime e mercati di sbocco per gli europei dall'altro. La
sistematizzazione teorica delle notizie sui paesi e sui popoli dei
lontani territori d'oltremare che affluivano nelle metropoli degli
imperi coloniali continuò in Europa sino alle soglie del
razzismo moderno. Fu comunque nelle colonie del Nuovo Mondo che il
razzismo esplose per la prima volta e nella sua forma più
massiccia. Dalla Giamaica, uno dei centri di produzione dello
zucchero basata sul lavoro schiavile, esso si diffuse a partire dal
1788, ossia all'inizio del movimento abolizionista e
dell'emancipazione degli schiavi, anche negli Stati Uniti di recente
formazione.Nel frattempo nel Vecchio Mondo continuava la tendenza
razzistica presente già da lunga data, e venne rafforzata dal
razzismo del Nuovo Mondo, dove prassi (schiavismo, discriminazione
razziale) e teoria procedevano di pari passo. Se nel Vecchio Mondo
il razzismo contro i negri era conosciuto in via essenzialmente
teorica e per sentito dire, nella seconda metà del XIX
secolo, con il pieno affermarsi dell'industrializzazione e del
nazionalismo, ebbe uno sviluppo impetuoso la seconda forma di
razzismo, storicamente più antica, ossia l'antisemitismo.
Sotto un altro aspetto ancora la storia delle dottrine razziali
può rivestire un interesse particolare che va ben oltre il
tema specifico. Secondo una interpretazione piuttosto formalistica
del progresso, quella che di volta in volta si presenta come la
teoria o la concezione più nuova, e dunque più
moderna, costituirebbe lo 'stadio più avanzato della ricerca'
e in quanto tale è considerata automaticamente migliore di
quelle precedenti. La storia delle teorie razziali dimostra peraltro
che può essere vero anche il contrario: dacché, a
partire dal 1774-1785, cominciarono ad argomentare in senso
razzistico, gli esponenti di tale 'scienza' apparentemente moderna
per due secoli hanno prodotto conseguenze sempre più
catastrofiche.Nel quadro dello sviluppo generale del razzismo si
può citare un esempio che illustra assai bene questo punto.
Alla fine del XVIII secolo si affermò la teoria poligenetica,
secondo la quale l'umanità avrebbe avuto un'origine
molteplice, sarebbe derivata da una varietà di ceppi. Tale
teoria forniva una risposta apparentemente plausibile alla antiquata
divisione biblica dell'umanità seguita alla maledizione di
Noè, e offriva una sistematizzazione 'scientifica' delle
nuove informazioni sull'esistenza di gruppi umani che non
rientravano nello schema della Genesi. Il primo illustre esponente
della teoria poligenetica, l'inglese lord Monboddo, salutò
addirittura l'Orang-Utan, allora recentemente scoperto, come
"fratello dell'uomo". Si trattava probabilmente di eccesso di
entusiasmo per la riscoperta della 'grande catena dell'essere' -
teorizzata da Aristotele e poi caduta nell'oblio nel mondo
occidentale - che va dalla materia inerte, inorganica, sino all'uomo
dotato di piena coscienza (cfr. A. Lovejoy, The great chain of
being, Cambridge, Mass., 1936). Ma già un anno dopo, in
Giamaica, Edward Long associò le due idee - l'ipotesi
poligenetica e l'attribuzione dell'Orang-Utan alla specie umana - e
attribuì loro una chiara impronta razzistica, in quanto
interrompeva la 'catena dell'essere' al di sotto degli europei e
collocava i negri al livello degli Orang-Utan: le teorie più
nuove non sono sempre automaticamente le migliori, o anche solo
valide.
I PRIMI TEORICI
L'urgenza di sistematizzare il flusso caotico di nuove conoscenze
nelle metropoli dell'Europa coloniale segnò l'inizio di una
serie di teorie razziali formulate individualmente. Nel 1684 il
medico e viaggiatore francese François Bernier usò per
la prima volta il concetto chiave di 'razza' in senso moderno per
indicare le divisioni tra gruppi umani. Il suo trattato, intitolato
appunto Nouvelle division de la Terre par les différentes
éspèces ou races d'homme qui l'habitent, rappresenta
il primo tentativo autonomo e individuale di ordinare le nuove
conoscenze sulle terre d'oltremare e sui loro abitanti in un sistema
razionale, non più legato allo schema biblico. La nuova
categoria della 'razza' non implicava ancora alcun giudizio di
valore morale, non era 'razzistica' nel senso ristretto, ma aveva un
carattere quasi scientifico. Per quasi un secolo dominò un
concetto di 'razza' non razzistico, usato prevalentemente ai fini di
una classificazione scientifica dell'umanità che le scoperte
più recenti rendevano una necessità pragmatica. Ma a
partire dal 1775, allorché l'Europa e il Nordamerica andarono
consolidando il loro status di potenze mondiali, la categoria
introdotta da Bernier assunse gradatamente connotazioni prettamente
razzistiche. Passo dopo passo i vari autori apportarono i singoli
elementi che successivamente avrebbero formato il razzismo.
Con Bernier hanno inizio le moderne teorie razziali in senso
più ampio: nello stesso tempo, egli aprì la strada
alle controversie sul numero (arbitrario) delle 'razze' e sui
criteri per distinguerle. Lo stesso Bernier non era ben sicuro se le
razze fossero quattro o cinque: europei (più egiziani e
indiani); africani; cinesi; giapponesi e lapponi; amerindiani - che
egli tuttavia assimilava agli europei. Fu ancora un medico, lo
svedese Carl von Linné (Linneo), a elaborare nel suo Systema
naturae (1735) il successivo, grande progetto di classificazione.
Per la prima volta dopo Aristotele, Linneo inseriva nuovamente
l'uomo nel sistema della natura, considerandolo parte del regno
animale. Egli fu il primo a utilizzare come criterio distintivo il
colore della pelle, dividendo i gruppi umani in bianchi, rossi,
gialli e neri. Così facendo, però, diede inizio anche
all'associazione di valori morali alle 'razze' - positivi nel caso
dei bianchi, negativi per i neri.Gli illuministi europei ebbero una
posizione ambivalente su quello che un secolo più tardi
diventerà noto come 'problema delle razze'. Ancora in piena
sintonia con l'antica concezione cristiana non razzistica, il
francese G. L. L. Buffon asserì la fondamentale unità
del genere umano, che solo in un secondo tempo si sarebbe
differenziato in molteplici 'variétés'.
Contro la nuova teoria poligenetica, Buffon si attenne all'antiquata
ma più umana monogenesi, alla teoria dell'origine unitaria
dell'uomo che in seguito la scienza moderna ha confermato.
Coerentemente con questa posizione Buffon, al pari di alcuni
illuministi tedeschi (tra cui Herder), rifiutò il concetto di
razza, dando così avvio a quella corrente minoritaria
fermamente antirazzistica che si affermò soprattutto in
Francia e in Inghilterra.
Sul versante opposto si colloca invece il filosofo razionalista
scozzese David Hume, che in una nota per l'edizione del 1754 dei
suoi Essays (1741) presentò in forma già condensata
gli argomenti tipici del razzismo moderno: i 'negri' sarebbero per
natura inferiori, privi di civiltà, e perlomeno in Giamaica
privi di un ingegno superiore (ingenuity).Fu Immanuel Kant a
introdurre in Germania il concetto di 'razze' distinguendone
quattro: bianca, negra, mongolica o calmucca, indù o
indostanica (Von der verschiedenen Racen der Menschen, 1775), ma
senza conferirgli ancora alcuna connotazione razzistica.Già
in bilico verso l'incipiente razzismo fu invece l'antropologo
tedesco Johann Friedrich Blumenbach, che nel trattato in latino De
generis humani varietate nativa (1775) riprese la precedente
suddivisione pragmatica dei gruppi umani - caucasici, mongoli,
etiopi, americani (Indiani d'America), malesi - introducendo
però un ordinamento gerarchico delle razze basato su criteri
estetici, in cui naturalmente il primo posto era assegnato al
proprio gruppo di appartenenza. Indubbiamente contro la sua
volontà - poiché va detto che Blumenbach fu uno dei
principali sostenitori in Germania dell'abolizione dello schiavismo,
la forma più brutale di razzismo dell'epoca -, le sue teorie
slittarono fatalmente verso posizioni razzistiche: fu Blumenbach a
introdurre il concetto della 'razza caucasica', partendo
dall'ipotesi che il Caucaso fosse la terra d'origine degli europei,
e fu sempre lui a inventare la categoria della 'razza ebraica'.
In Blumenbach confluiscono quindi sul piano teorico le due
principali forme del razzismo moderno: l'antigiudaismo/antisemitismo
e il razzismo contro i negri. Sebbene le sue categorie non fossero
intese come strumenti di lotta contro determinati gruppi
identificati come nemici, tuttavia i futuri razzisti poterono
abusarne utilizzandole come slogan e armi contro le razze
considerate 'inferiori'.
Al pari di Hume, anche Rousseau e Voltaire sostennero l'intrinseca
inferiorità dei 'negri' rispetto agli europei. Voltaire
espresse giudizi improntati prevalentemente al rifiuto e al
disprezzo degli ebrei, considerati incalliti seguaci di
superstizioni medievali. La posizione di Voltaire esemplifica nel
modo più chiaro la dialettica o l'ambivalenza
dell'illuminismo, che da un lato propugnava l'eguaglianza tra gli
europei, dall'altro ne rivendicava la superiorità
manifestando un disprezzo razzistico nei confronti dei negri e
carico di implicazioni antisemite nei confronti degli ebrei.
L'emancipazione degli schiavi di cui si fecero sostenitori gli
illuministi contribuì direttamente all'affermarsi del
razzismo contro i negri, indirettamente e in modo più sottile
all'antisemitismo: l'emancipazione degli ebrei infatti era vista con
favore solo a condizione che essi si adeguassero agli altri popoli
europei illuminati, il che significava l'annullamento attraverso
l'assimilazione. Il rifiuto dell'assimilazione da parte degli ebrei,
o la sua negazione da parte dei 'popoli ospiti', ad esempio
attraverso una nuova discriminazione, ebbe come inevitabile
conseguenza l'antisemitismo.
L'AFFERMARSI DEL RAZZISMO MODERNO
Negli stessi anni il razzismo moderno si era già manifestato
in tutta la sua pienezza nel Nuovo Mondo, per così dire al
primo posto del 'fronte razziale', come verrà chiamato in
seguito. In Giamaica - il centro della produzione dello zucchero e
dello schiavismo britannici nei Caraibi - Edward Long, in un
capitolo del secondo dei tre volumi della sua History of Jamaica
(1774) intitolato Negroes, ripropose tutti i vecchi pregiudizi
contro i negri dando loro una veste pseudoscientifica. Nell'opera di
Long, che in Giamaica aveva potuto conoscere solo negri ridotti in
schiavitù, riemerge la secolare equiparazione tra neri e
schiavi. In base alla sua classificazione delle 'razze', che
raggiunge livelli di grossolanità sino allora sconosciuti,
esisterebbero solo tre specie del genere umano: gli europei e i loro
affini, i negri e gli Orang-Utan (la cui esistenza era nota solo di
recente in Europa) sino a tutte le scimmie senza coda.
L'integrazione dell'uomo nel regno animale inaugurata da Linneo
veniva spinta dunque sino all'assurda conseguenza di collocare i
neri tra i bianchi e le scimmie antropomorfe. Le idee di Long
rimasero in auge nelle dottrine dei razzisti per circa un secolo, e
continuarono a essere riproposte dalla propaganda razzistica di
minimo livello morale e intellettuale sino al XX secolo.
Long era un sostenitore della nuova teoria poligenetica, che da
allora in poi riemergerà solo come argomento razzistico. Fu
Long ad asserire che i mulatti sono sterili (al pari dei muli, da
cui probabilmente il termine deriva), sebbene egli avesse
quotidianamente sotto gli occhi la dimostrazione concreta della
falsità di questa ipotesi. Hitler in Mein Kampf avrebbe
ripreso e divulgato la favola della infecondità delle razze
miste, che nel quadro della sua politica razziale e demografica era
destinata ad avere le più funeste conseguenze. Nel 1788, con
la ristampa sulla rivista newyorkese "Columbia magazine" del
capitolo dedicato ai negroes, Long divenne il principale punto di
riferimento del razzismo nordamericano dopo l'emancipazione degli
schiavi.A soli undici anni di distanza dall'importante contributo di
Long, le nuove idee, dopo una lunga preparazione, penetrarono anche
nel Vecchio Mondo, investendo ora anche la Germania. Sebbene
all'epoca questa non fosse ancora direttamente coinvolta nella
politica coloniale, tuttavia beneficiava indirettamente della
generale ripresa economica che il processo di espansione europea
nelle terre d'oltreoceano da ormai quasi tre secoli aveva
contribuito a determinare. I Tedeschi non potevano e non volevano
restare estranei alle nuove conoscenze e alle nuove dottrine. Gli
intellettuali che per primi se ne fecero interpreti erano attivi in
quegli anni in due università, direttamente o indirettamente
collegate alle nuove correnti: quella di Königsberg e quella di
Gottinga, fondata come università riformata nel 1734
nell'elettorato di Hannover, legato all'Inghilterra da un'unione
personale. A Gottinga venivano coltivate soprattutto le scienze
naturali, il cui spirito pervadeva peraltro anche le altre
facoltà. Fu qui che gli storici illuministi istituirono la
storia come disciplina accademica. Blumenbach vi deteneva la
cattedra di antropologia.
Il filosofo di Gottinga Christoph Meiners aprì la strada al
razzismo anche in Europa con il suo Grundriss der Geschichte der
Menschheit (1785), la prima storia universale in una prospettiva
razziale. Fu Meiners il primo a sviluppare in forma generalizzata le
conseguenze razzistiche della tesi poligenetica, postulando
l'esistenza di una pluralità di "razze umane originariamente
diverse" con "caratteri ereditari e indelebili", ordinate
gerarchicamente in base a giudizi di valore: gli Europei (eccettuati
gli Slavi) sarebbero superiori a tutti gli altri popoli. La
concezione di Meiners è improntata a un dualismo razzistico
fondato su criteri estetici (vi sarebbero sostanzialmente solo due
'razze', una "chiara e bella", l'altra "scura e brutta"), che arriva
al punto di paventare una mescolanza tra razze nobili e razze vili
che porterebbe alla degenerazione delle prime. Nelle tesi di Meiners
si ritrovano già alcuni elementi chiave delle teorie razziali
di Gobineau. Poiché questi fu fortemente influenzato dalla
cultura tedesca ed ebbe in Germania la massima risonanza, si
può affermare che Meiners pose i fondamenti teorici del
razzismo europeo in senso proprio, inaugurando la serie cumulativa
degli apporti tedeschi che ebbero Auschwitz come punto terminale.
Per onestà e correttezza intellettuale va detto peraltro che
Meiners impiegò anche un altro schema categoriale il quale,
epurato da ogni connotazione peggiorativa o autoglorificante, si
rivela utile per una analisi razionale dell'evoluzione storica
dell'umanità.
Secondo tale schema, ai 'selvaggi' (i cacciatori e raccoglitori)
sarebbero succeduti i 'barbari' (che Meiners identificava solo con i
pastori nomadi, escludendo il primo stadio di un'agricoltura
intensiva), e infine la 'civiltà'. Con l'imparzialità
derivatagli da una formazione classica, Marx usò tali
categorie in senso oggettivo, come formule abbreviative per
designare complesse strutture socioeconomiche. Epurato da ogni
giudizio di valore e inteso come schema categoriale definito con
precisione e quindi oggettivo, la triade stato
selvaggio-barbarie-civiltà può risultare (nuovamente)
valida, poiché coglie effettivamente alcuni aspetti
essenziali dell'evoluzione dell'umanità. D'altro canto tale
oggettivazione di concetti altrimenti sospetti aiuta a isolare,
perlomeno sul piano teorico, il nucleo essenziale del razzismo -
poiché questo si alimenta sostanzialmente della superbia
culturale dei popoli 'civilizzati' nei confronti di quelli non
civilizzati, o che lo sono in misura minore.
Da Meiners in poi continueranno a essere sviluppate senza sosta le
reali implicazioni del dogma razzistico: gerarchizzazione
dell'umanità e degradazione delle 'razze' non bianche.
L'anatomista olandese Peter Camper inventò la craniometria
per quantificare la bellezza fisica del volto umano, istituendo una
correlazione tra la maggiore o minore inclinazione dell'angolo che
misura l'aggetto del bordo alveolare verso l'innanzi (il cosiddetto
'angolo facciale di Camper') e un ordinamento gerarchico di 'razze'
superiori e inferiori - dagli europei ai calmucchi sino ai negri e
alle scimmie.Julien-Joseph Virey nella sua Histoire naturelle du
genre humain (1801) sviluppò coerentemente le argomentazioni
di Meiners, contrapponendo le 'razze' 'bianche e belle' a quelle
'nere e brutte'. Lorenz Oken nobilitò la propria teoria
razziale combinandola con la dottrina classica degli elementi: la
razza nera sarebbe 'terrestre' o 'scimmiesca'; quella bianca 'umana'
e caratterizzata dall'elemento igneo; i mongoli sarebbero associati
all'aria, gli indiani all'acqua.
Nella sua Anthropologie (1822) in due volumi, Henrik Steffens
sostituì il termine razza con il neologismo 'lei'. Per il
resto riprese con poche modifiche le tesi di Oken, sicché
ogni lei risultava associato a uno dei quattro elementi, in una
progressione gerarchica crescente articolata nel modo seguente:
terra (negri), acqua (indiani), aria (asiatici mongolici), luce
(europei). Analogamente Carl Gustav Carus, nella sua opera Über
die ungleiche Befähigung der verschiedenen Menschenstämme
für höhere geistige Entwicklung (1848), distinse quattro
'razze' - aurorale (gialla), diurna (bianca), crepuscolare (rossa) e
notturna (nera).
Nel corso del XIX secolo anche il razzismo risentì in vario
modo dell'influsso di diverse scoperte scientifiche che davano il
colpo di grazia alla spiegazione del mondo propria del cristianesimo
ortodosso, già scossa dall'illuminismo. In primo luogo la
scoperta delle lingue indoeuropee - cui a partire dal 1816 il
linguista tedesco Franz Bopp diede con le sue ricerche un ampio
fondamento scientifico- fornì il materiale per il 'mito
ariano', la falsa credenza che tutte le culture evolute siano
derivate dagli indoeuropei, identificati con gli ariani (v.
Poliakov, 1971). Dapprima l'interesse si concentrò in forma
ancora nebulosamente romantica sull'India, che dalla fine del XVII
secolo aveva soppiantato la Cina nelle predilezioni esotiche degli
europei. Nello stesso tempo all'indoeuropeo venne attribuito lo
status di lingua originaria dell'umanità, detenuto in passato
dall'ebraico. In seguito la rosa dei popoli che potevano fregiarsi
del titolo di unici creatori e portatori della civiltà si
restrinse agli indoeuropei del Nord (gli 'indogermani'), ai Germani,
ai Celti e agli Slavi (così sosteneva ancora H. S.
Chamberlain), per ridursi poi in Germania ai soli Germani e ai loro
discendenti, i Tedeschi: nobiltà e bellezza vennero
considerati prerogativa esclusiva della razza bionda con la pelle
chiara e gli occhi azzurri
.A partire dalla Vita di Gesù (1835) di David Strauss lo
studio scientifico della Bibbia demolì definitivamente
l'autorità delle Scritture come rivelazione diretta di Dio e
indebolì la posizione di tutti coloro che, seguendo il
racconto della Genesi, sostenevano la teoria monogenetica con le sue
implicazioni antirazzistiche (davanti a Dio tutti gli uomini sono
eguali). La geologia moderna tolse ogni fondamento alla cronologia
biblica, estendendo gli spazi temporali entro cui situare l'origine
della Terra e delle specie animali e vegetali; l'astronomia e
l'astrofisica moderne fecero lo stesso per quanto riguarda la
nascita dell'universo. Con la scoperta dell'Uomo di Neanderthal a
Düsseldorf (1856) furono poste le basi dello studio scientifico
della preistoria e dell'origine dell'uomo, proiettata sempre
più indietro nel tempo quanto più 'progrediva' la
scienza.
LA FONDAZIONE 'SCIENTIFICA' DELLE MODERNE TEORIE RAZZIALI
Nel giro di pochi anni due autori posero le teorie razziali su nuove
basi 'scientifiche' apparentemente inattaccabili: Gobineau,
soprattutto attraverso la rielaborazione di teorie precedenti, e
Darwin con la nuova teoria della selezione naturale. Sebbene Darwin
non mirasse esplicitamente a costruire una teoria razziale, tuttavia
la sua opera, che in sé si muoveva sul terreno strettamente
biologico, ebbe un impatto rivoluzionario che influenzò anche
il successivo sviluppo delle teorie razziali.Il più
importante esponente delle teorie razziali prima della svolta
segnata da Darwin, il francese Joseph-Arthur de Gobineau,
apportò pochi elementi originali, ma riuscì a
sistematizzare e a dare una veste organica alle idee sino a quel
momento disperse e contraddittorie del razzismo ancora in fase di
sviluppo. Già nel titolo della sua opera principale in due
volumi, Essai sur l'inégalité des races humaines
(1854), è preannunciato l'intero suo programma. Sebbene in
quanto cattolico fosse ancora formalmente legato alla narrazione
biblica della creazione, Gobineau destituì di ogni
validità la tesi monogenetica della Genesi postulando
l'esistenza di un 'uomo primitivo' ('adamitico'), da cui in seguito
sarebbero derivate le diverse 'razze'. Pur riproponendo l'idea di un
ordinamento gerarchico tra 'razze' superiori (bianca) e inferiori
(nera), Gobineau attribuì ai negri e agli ebrei considerevoli
facoltà; tra i bianchi, veri creatori di cultura e
civiltà sarebbero gli 'ariani', finché si mantengono
'puri'. Nuove razze potrebbero nascere da una mescolanza, ma quelle
superiori dovrebbero preservare il loro nuovo status mantenendosi
'pure', per scongiurare il pericolo di una degenerazione che
determinerebbe la loro estinzione, e in ultimo quella
dell'umanità intera. Il pessimismo misantropico di Gobineau
in seguito poté essere interpretato in senso attivistico,
come esortazione alle 'razze superiori' a difendersi da quelle
inferiori attraverso una 'guerra razziale' all'esterno e,
all'interno, con la 'selezione', l''eugenetica' e il genocidio.
Come aveva giustamente previsto, con la teoria evoluzionistica
sviluppata in On the origin of species (1859) Charles Darwin risolse
la controversia tra poligenesi e monogenesi in favore di
quest'ultima. Tuttavia anche la teoria monogenetica lasciava ampio
spazio a conclusioni razzistiche. Con il concetto di 'lotta per
l'esistenza' introdotto da Herbert Spencer, il socialdarwinismo
traeva conseguenze razzistiche dal principio dell'evoluzione sociale
attraverso la selezione: le razze più forti e più
valide avrebbero dovuto tenere a freno quelle inferiori ma
numericamente preponderanti. All'epoca dell'imperialismo era chiaro
a chi ci si riferiva, tanto più che Darwin stesso, in The
descent of man (1871), aveva parlato di "razze con diversi
caratteri" - espressione che, avulsa dal contesto, venne ben presto
interpretata come un riferimento alle cosiddette 'qualità
razziali'.
Francis Galton, cugino di Darwin, sviluppò ulteriormente il
socialdarwinismo creando con l''eugenetica' una nuova disciplina che
si proponeva il miglioramento della specie umana. Al di là
della preoccupazione moralmente giustificata di migliorare le
condizioni di salute e di vita delle masse nelle città
industriali, l'eugenetica, attribuendo un peso maggiore ai fattori
ereditari rispetto a quelli ambientali, conteneva implicitamente
l'idea che fosse necessario impedire la riproduzione dei membri
della società affetti da malattie ereditarie. Da qui al loro
isolamento e al loro sterminio il passo era breve, come accadde nel
Terzo Reich con il programma di 'eutanasia'. Anche se Galton era
inglese, le sue idee, al pari di quelle di Gobineau, ebbero in
Germania la loro massima risonanza.
Con Spencer, Darwin, Gobineau e Chamberlain il socialdarwinismo
divenne un movimento di massa talmente diffuso sia in Europa che in
America, che risulta difficile isolare altri autori. Numerosi
studiosi con pretese scientifiche - sia biologi (come Ernst
Häckel) che storici e filosofi - applicarono i principî e
le idee dell'evoluzionismo al proprio ambito disciplinare. Anche la
letteratura, sia di alto che di basso livello, contribuì a
divulgare le nuove dottrine, da cui i movimenti di agitazione
poterono trarre i loro slogan politici. Come ideologia di
legittimazione fondata su presunte basi scientifiche
dell'imperialismo bianco, il socialdarwinismo poteva servire a
giustificare la lotta contro le 'razze inferiori' all'esterno, e
all'interno le rivalità nazionali nell'ambito del sistema
europeo nonché il conflitto tra le classi. Pertanto anche
l'ideologia del nascente socialismo, che si sentiva autorizzato a
"gettare la borghesia nel mondezzaio della storia", come si
espressero in seguito i comunisti, non era altro che un
socialdarwinismo applicato alla lotta di classe. Anche
l'antisemitismo trovò dunque accesso in una corrente del
movimento socialista, soprattutto in Francia e in Russia, mentre
un'altra corrente lo contrastò in via di principio o in
generale, soprattutto in Germania.
IL RAZZISMO IN GERMANIA
Fu comunque in Germania, divenuta intorno al Novecento una delle
maggiori potenze industriali e che aspirava tenacemente al ruolo di
potenza mondiale, che il socialdarwinismo nelle sue estremizzazioni
razzistiche ebbe la massima diffusione. L'esaltazione della razza
tedesca era già cominciata come reazione contro la
Rivoluzione francese e le imprese napoleoniche - una variante
tedesca dell'idealizzazione romantica dei popoli nazionali delle
origini (i Galli per i Francesi, i Britanni per gli Inglesi, i
Visigoti per gli Spagnoli, ecc.). Con il mito della razza ariana
cominciò la restrizione quasi razzistica della rosa dei
popoli superiori ai soli Germani, che escludeva persino altri popoli
europei, in particolare gli Slavi, dalla comunità dei
'bianchi' europei ('indogermani'), per arrivare infine sotto Hitler
alla degradazione degli Slavi a esseri inferiori che meritavano lo
sterminio. Nell'epoca dell'imperialismo il mito ariano divenne a
tutti gli effetti l'ideologia di legittimazione dell'ascesa fulminea
della Germania a massima potenza del continente europeo, che per due
volte fu sul punto di "afferrare il dominio mondiale" (Fritz
Fischer). Ai lampi di genio nel campo intellettuale - come
già aveva predetto con chiaroveggenza Heinrich Heine nella
sua Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland (1835) -
i Tedeschi fecero seguire di fatto lampi e tuoni, in due guerre
mondiali, con tutti i loro misfatti.
Dopo la crisi mondiale (il 'grande crollo') del 1873, le idee di
Gobineau raggiunsero la massima influenza nel Reich tedesco, dove
vennero promosse, divulgate e popolarizzate soprattutto da Richard
Wagner e dalla cerchia di Bayreuth, sino ad arrivare al genero di
Wagner, Houston Stewart Chamberlain, che può essere
considerato l'autentico successore di Gobineau. In Germania, sua
patria d'elezione, Chamberlain poté offrire al suo pubblico
colto, aggiornato sulle acquisizioni più recenti della
ricerca scientifica in molti campi, una Weltanschauung affascinante
anche sul piano letterario, che doveva lusingare le aspirazioni di
'politica mondiale' dei Tedeschi (v. Chamberlain, 1899). Fu
Chamberlain ad associare per la prima volta l'antisemitismo con il
razzismo contro i negri. Tuttavia, se questi sono definiti "una
razza inferiore e in sé incapace di cultura", il vero e
proprio nemico è identificato con 'Giuda' (assieme al 'Rom').
È 'Giuda' che contende ai 'Germani' (ossia ai 'Tedeschi') il
dominio mondiale che spetta loro di diritto, diventando per
ciò stesso il nemico mondiale. Il dualismo razziale di
Chamberlain si spinge sino alla prefigurazione di un conflitto
finale a livello mondiale tra 'bene' e 'male', tra 'Germani' e
'Giuda/Rom'. Guglielmo II e Hitler furono tra gli ammiratori di
Chamberlain, che è altresì considerato dal razzismo
nazista suo padre fondatore e precursore ideologico.
Sebbene sino alla prima guerra mondiale il razzismo di impronta
antisemita restasse in Germania una sottocorrente di estremisti,
tuttavia riuscì a farsi strada sino ai vertici dello Stato.
La crisi generale seguita alla prima guerra mondiale e la disfatta
tedesca nel novembre 1918 contro un 'mondo di nemici' contribuirono
a trasformare il razzismo in una sorta di ideologia di resistenza
teutonica per la rinascita della Germania come potenza mondiale.
Data l'assenza di una 'popolazione di colore' in Germania,
destò particolare scandalo l'occupazione del territorio della
Ruhr nel 1923 da parte dell'esercito francese, in cui erano
arruolati tra gli altri anche marocchini e africani (l''oltraggio
nero').
Progressivamente il razzismo tedesco, che dapprima si era incentrato
soprattutto sugli Ebrei, cominciò a investire anche gli
europei 'inferiori' (Slavi e Francesi 'negrizzati'), nonché
gli Italiani, sia pure in misura minore dopo l'avvento del fascismo.
La vittoria del nazionalsocialismo diede una sanzione ufficiale alla
'dottrina razziale' che propugnava la superiorità dell'uomo
ariano, 'nordico'. Attraverso l'indottrinamento e l'agitazione
politica essa divenne nel corso della seconda guerra mondiale
l'ideologia di legittimazione del programma di eutanasia
all'interno, e della 'soluzione finale' della questione ebraica
all'esterno, con lo sterminio di milioni di Ebrei e la riduzione in
schiavitù degli Slavi.
Negli stessi anni il razzismo si affermò anche in Giappone,
mentre l'Italia fascista, l'altro paese alleato della Germania, non
sviluppò un proprio razzismo autonomo.
IL RAZZISMO DOPO IL 1945
Dopo la sconfitta delle potenze dell'Asse nel 1945, il fascismo
sembrò messo al bando in tutto il mondo, e trovò una
esplicita condanna in vari documenti delle Nazioni Unite e
dell'UNESCO. L'opposizione al razzismo in Europa, sino ad allora
sostenuta da una minoranza, divenne sul piano teorico la posizione
della maggioranza. In pratica, tuttavia, il razzismo continuò
a sopravvivere in varie forme per legittimare la discriminazione.
Negli Stati Uniti esso rimase sino al 1965 una tangibile
realtà politica - nel Sud ufficialmente approvata anche dallo
Stato - e da allora ha continuato a sussistere in forma latente con
conseguenze esplosive. Nell'ideologia dell'apartheid in Sudafrica si
mescola una credenza biblico-calvinistica nella predestinazione, che
avrebbe attuato la sua 'selezione' per così dire in forma
concreta, sfociando nella segregazione dei 'neri'. Accanto ai
parallelismi con il razzismo degli Stati del Sud americani, il
razzismo dei boeri presenta innegabili affinità e simpatie
con quello di stampo nazista.
D'altro canto, dopo il processo di decolonizzazione in ampie aree
del Terzo Mondo sono emerse in modo tangibile forme autoctone di
protorazzismo che, prive di una controparte teorica sotto forma di
specifiche dottrine razziali, si configurano principalmente come
prassi discriminatoria nel quadro di conflitti interni. Esiste un
contrasto stridente tra la condanna ufficiale del razzismo e la
discriminazione praticata in varie parti del mondo contemporaneo
(dopo la caduta del comunismo anche nell'ex blocco orientale), che
sfocia talvolta in veri e propri pogrom e massacri.Il razzismo
dunque non è una idea astratta propugnata da singoli
individui, ma lo spietato risultato di un antichissimo meccanismo
sociale che ha portato nel corso dei secoli alla costruzione di una
'teoria razziale' fondata su una corrente della scienza moderna che
allora si proclamava progressista: l'idea germogliata nella mente di
un singolo si diffuse diventando l'idea di molti; l'idea di molti
venne messa poi in pratica da altri. Nel loro aspetto rivolto al
futuro, le teorie sviluppate per fondare e definire il razzismo
avevano una funzione analoga a quella della fantascienza moderna: si
trattava di direttive per l'azione politica coniugate con utopie
pseudoscientifiche che prefiguravano l'avvento di un presunto 'brave
new world' migliore di quello attuale. Nelle epoche segnate da gravi
crisi - la formazione di nuovi Stati nazionali nel XIX e nel XX
secolo, e attualmente la crisi mondiale dell'industrialismo -
riaffiorano antiche angosce esistenziali che trovano nelle teorie
razzistiche una legittimazione pseudoscientifica per una prassi
discriminatoria e per l'odio verso i rivali nella lotta per
l'appropriazione di risorse sempre più scarse in questa
nostra Terra minacciata sul piano ecologico.