Modernizzazione
di Carlo Trigilia
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (199&)
sommario: 1. Introduzione. 2. Origini e primi sviluppi della teoria
della modernizzazione. a) Approcci influenzati dallo
struttural-funzionalismo. b) La formazione della personalità
moderna. c) Gli stadi di sviluppo e la convergenza. 3. Le critiche
rivolte alla teoria della modernizzazione. a) Inevitabilità
dello sviluppo ed etnocentrismo. b) Tradizione e modernità
come modelli contrapposti. c) I condizionamenti economici e
l'approccio dipendentista. d) Il cambiamento come evoluzione
endogena. 4. La sociologia storica della modernizzazione. 5. Le
tendenze recenti.
1. INTRODUZIONE
Le scienze sociali contemporanee fanno largo uso del termine
'modernizzazione' per indicare un processo di mutamento su larga
scala che avvicina una determinata società, in genere
nazionale, alle caratteristiche considerate proprie della
modernità. Gli aspetti più significativi della
modernità vengono individuati a livello economico nello
sviluppo industriale, a livello politico nell'affermarsi delle
istituzioni democratiche e a livello culturale nella crescente
secolarizzazione, la quale si accompagna a un ampliamento della
libertà di scelta degli individui nelle relazioni sociali.
Questi fenomeni riflettono, nel loro insieme, l'esperienza storica
che ha segnato le società occidentali in seguito alle due
grandi rivoluzioni settecentesche: quella industriale, iniziata nel
corso del secolo in Inghilterra, e quella politica, avviatasi in
Francia sul finire degli anni ottanta. L'uso del concetto di
modernizzazione, che si è affermato soprattutto a partire dal
secondo dopoguerra, fa riferimento a tale esperienza, ma seguendo
fondamentalmente due indirizzi distinti.Il primo indirizzo si
concentra soprattutto sullo studio delle origini e dei percorsi
della modernizzazione nelle società occidentali: esso si
ricollega alle grandi opere dei classici della sociologia - Marx,
Tönnies, Durkheim, Simmel, Sombart, Weber - che, sia pure in
forme diverse, cercavano di cogliere i tratti distintivi della
società moderna. Tuttavia, mentre i classici erano impegnati
a delinearne le caratteristiche strutturali e culturali - costruendo
in tal modo un tipo ideale della società moderna che si
contrapponeva a quello della società tradizionale - e a
individuare le cause che avevano condotto alla modernità, gli
studi degli ultimi decenni appartengono prevalentemente a quella che
si potrebbe definire 'sociologia storica comparata della
modernizzazione'. In essi, infatti, l'attenzione è rivolta
prevalentemente ai percorsi specifici seguiti dalla modernizzazione
nelle principali società occidentali e ai fattori che li
hanno influenzati, più che ai caratteri e alle origini della
società moderna in generale.Il secondo indirizzo seguito
dagli studi sulla modernizzazione si afferma anch'esso nell'ultimo
dopoguerra, precedendo di alcuni anni l'approccio
storico-comparativo. La tematica, in questo caso, è diversa,
come diversa è la prospettiva metodologica. Si vogliono
analizzare le caratteristiche dei paesi 'arretrati' e i problemi che
essi incontrano nel tentativo di avvicinarsi ai caratteri della
modernità propri delle società sviluppate
dell'Occidente. Alla base di questo filone di studi vi è
l'idea che la modernità occidentale costituisca una sfida che
spinge inevitabilmente le società meno sviluppate sulla
strada del cambiamento sociale. Tuttavia all'interno di questo
indirizzo gli approcci seguiti sono molto diversi.
Il primo, sviluppatosi prevalentemente negli anni cinquanta e
sessanta, è costituito dalla teoria della modernizzazione in
senso stretto. Gli studi riconducibili a questo orientamento
sottolineano l'importanza dei fattori socioculturali e politici
endogeni nel condizionare il cambiamento sociale dei paesi meno
sviluppati. Essi condividono inoltre, almeno inizialmente, l'idea
ottimistica secondo la quale l'esito del cambiamento non avrebbe
potuto che avvicinare i paesi arretrati al modello delle
società avanzate. Di fronte allo scarto crescente tra tali
attese e i risultati raggiunti, scarto dovuto alle notevoli
difficoltà incontrate nel loro percorso di sviluppo dai paesi
del cosiddetto Terzo Mondo (America Latina, Africa, Asia), è
emerso un nuovo orientamento, che ha assunto un atteggiamento
critico nei riguardi della teoria della modernizzazione, elaborando
- con particolare riferimento all'esperienza dei paesi dell'America
Latina - la cosiddetta teoria della dipendenza. In essa l'accento
è posto soprattutto sui condizionamenti economici che i paesi
più sviluppati esercitano su quelli arretrati. Tuttavia il
quadro piuttosto rigido e pessimistico degli studi orientati dal
concetto di dipendenza non riuscì, successivamente, a rendere
conto della crescente diversità che si manifestava nei
processi di modernizzazione dei paesi del Terzo Mondo. Una nuova
serie di ricerche si concentrò allora sui paesi dell'Est
asiatico, caratterizzati da un notevole dinamismo economico. In
questa prospettiva prese corpo un approccio che si può
definire 'political economy comparata', il quale poneva al centro
dell'attenzione il ruolo delle istituzioni politiche nel processo di
modernizzazione, anche attraverso un confronto tra i paesi asiatici
e quelli dell'America Latina.
Le critiche portate alla teoria della modernizzazione degli anni
sessanta - sia dall'approccio della dipendenza, sia (anche se
più indirettamente) dalla sociologia storica della
modernizzazione delle società occidentali - hanno stimolato
un processo di revisione degli assunti originari. È
così emerso un orientamento che sottolinea, in contrasto con
gli studi precedenti, la pluralità dei percorsi di
modernizzazione, il loro carattere più aperto, che non ha
come sbocco inevitabile la strada seguita dall'Occidente. Questa
prospettiva, oltre a essere sostenuta dalla political economy, viene
anche sviluppata nell'ambito di studi che tornano a dare particolare
rilievo alla dimensione culturale, collegando il concetto di
modernizzazione a quello di civiltà. Si potrebbe dunque dire
che vi è un ritorno alla problematica affrontata dai primi
studi sulla modernizzazione. Questi ultimi, tuttavia, ipotizzavano
un'acquisizione, difficile ma alla lunga inevitabile, dei valori
occidentali da parte delle società più arretrate (che
avrebbe portato anche a una convergenza istituzionale). Negli studi
più recenti l'accento è invece posto maggiormente, in
chiave weberiana, sull'influenza di alcuni tratti culturali
originari delle diverse civiltà, che condizionano il
funzionamento delle istituzioni economiche e politiche e quindi la
capacità di risposta delle società più
arretrate alle sfide poste dalla modernità.
2. ORIGINI E PRIMI SVILUPPI DELLA TEORIA DELLA MODERNIZZAZIONE
La teoria della modernizzazione maturò nel particolare
contesto internazionale del secondo dopoguerra. In questo periodo si
avviò il processo di decolonizzazione in numerosi paesi
dell'Asia e più tardi dell'Africa. Tale processo venne
notevolmente condizionato dal clima della guerra fredda, che
spingeva gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica a cercare di attrarre
nella propria orbita gli Stati di nuova formazione. Gli Stati Uniti,
in particolare, si impegnarono in consistenti programmi di aiuti ai
paesi arretrati. Il problema del sostegno ai paesi del Terzo Mondo
cominciava inoltre a essere affrontato anche nelle organizzazioni
internazionali. In questo quadro, l'interesse delle scienze sociali
per i temi dello sviluppo era quindi motivato anche da forti
esigenze pratiche. In primo piano era ovviamente l'economia,
notevolmente influenzata, in questo periodo, dalla 'rivoluzione
keynesiana'. Con riferimento ai problemi dei paesi arretrati, la
teoria dello 'sviluppo indotto' sottolineava l'importanza
dell'intervento statale e degli aiuti internazionali per avviare e
sostenere il processo di industrializzazione. I primi passi della
teoria della modernizzazione maturarono quindi come tentativo di
alcuni studiosi americani, che si collocavano nella prospettiva
sociologica, di integrare il punto di vista degli economisti. Veniva
dunque sottolineata la rilevanza dei fattori culturali e
istituzionali come elementi che condizionano la possibilità
di successo nelle politiche economiche a sostegno dello sviluppo (v.
Hoselitz, 1952).
La sociologia americana e la scienza politica del secondo dopoguerra
erano fortemente influenzate dall'approccio sistemico allo studio
della società che proprio in quegli anni veniva elaborato da
Talcott Parsons (v., 1951; v. Parsons e Shils, 1951). Sebbene
quest'autore abbia trattato molto marginalmente il problema dello
sviluppo dei paesi arretrati, la sua complessa costruzione teorica
ha costituito comunque il principale serbatoio di quegli strumenti
concettuali che, in forme diverse, sono stati utilizzati nell'ambito
degli studi riconducibili alla prima teoria della modernizzazione.
Si trattava peraltro di studi che variavano significativamente per
gli orientamenti seguiti. Alcuni si concentravano soprattutto sugli
aspetti culturali e strutturali delle società tradizionali,
contrapposte a quelle moderne; altri, che si muovevano nell'ambito
della scienza politica, mettevano soprattutto a fuoco gli aspetti e
i problemi politici della modernizzazione; altri ancora, più
influenzati dalla psicologia sociale, insistevano maggiormente sul
processo di formazione della personalità nei due diversi tipi
di società; infine, alcuni lavori individuavano diversi stadi
di sviluppo che prefiguravano un vero e proprio percorso verso la
modernità, definito sulla base dell'esperienza storica
compiuta dai paesi occidentali. Tuttavia, al di là di queste
differenze - che nelle pagine successive esamineremo più
dettagliatamente - è possibile riscontrare un nucleo comune.
Si tratta dell'idea che i paesi economicamente arretrati siano
caratterizzati da un modello di società tradizionale,
costituito da un sistema di elementi culturali e strutturali tra
loro strettamente interdipendenti. La forza di resistenza della
tradizione, a livello culturale, strutturale e della
personalità, costituisce l'ostacolo primario che è
necessario superare per procedere sulla strada dello sviluppo
economico e avvicinarsi al modello della società moderna
riscontrabile nei paesi sviluppati dell'Occidente. Gli studi sulla
modernizzazione si distinguono poi per il modo di concepire tale
passaggio, che è sempre considerato auspicabile e alla lunga
inevitabile, ma comunque irto di difficoltà e di tensioni.
Approcci influenzati dallo struttural-funzionalismo
Abbiamo già notato come i primi studi sulla modernizzazione
siano stati nel complesso orientati dalla scuola
struttural-funzionalista. Tale influenza era particolarmente
evidente in alcuni tentativi di delineare i tratti culturali e
strutturali delle società tradizionali e moderne a partire
dalle 'variabili modello' presentate da Talcott Parsons in Il
sistema sociale (1951). Bert Hoselitz (v., 1960) e Marion Levy (v.,
1966) sono stati tra i primi a muoversi in questa direzione,
già a partire dagli anni cinquanta e poi nel decennio
successivo. In questi lavori si sottolineava come lo sviluppo
economico dei paesi arretrati fosse condizionato da aspetti relativi
alla cultura e alla struttura sociale. In particolare, l'attenzione
era posta su alcuni orientamenti culturali che caratterizzano le
società tradizionali, ostacolandone lo sviluppo economico:
anzitutto, la prevalenza di norme che fanno dipendere le relazioni
economiche dall'ascrizione piuttosto che dal principio di
prestazione. Ciò implica che i ruoli economici, come certe
posizioni lavorative o la facoltà di produrre beni e servizi,
sono assegnati sulla base di criteri di appartenenza a un
determinato gruppo (gruppo d'età, famiglia, razza, casta,
ecc.), piuttosto che sulla base di criteri fondati sulle
capacità. Al peso dell'ascrizione tende anche ad
accompagnarsi, nelle società tradizionali, un atteggiamento
particolaristico in virtù del quale il processo di
valutazione dei soggetti con cui si interagisce nell'esercizio di
determinati ruoli economici o politici non dipende da criteri aventi
validità generale, ma da criteri che mutano con il mutare
delle caratteristiche dei soggetti stessi (per esempio a seconda che
essi appartengano a una determinata famiglia, razza o casta, ecc.).
E ancora, si notava come gli orientamenti culturali prevalenti non
incoraggiassero la specializzazione, il che determinava una scarsa
differenziazione dei ruoli dal punto di vista funzionale, e quindi
una limitata crescita della produttività. Accanto a questi
aspetti che si richiamano alle variabili di Parsons, la Levy
considerava anche la dimensione più specificamente cognitiva
dei modelli culturali prevalenti, contrapponendo all'orientamento
tradizionalistico quello razionalistico tipico delle società
moderne. Nel primo caso l'azione sociale, e quella economica in
particolare, è improntata al rispetto delle routines
tradizionali, nell'altro è invece influenzata dagli sviluppi
della scienza e della tecnica e quindi più aperta
all'innovazione. La prevalenza degli orientamenti normativi e
cognitivi sopra ricordati, riscontrabili nel modello idealtipico
della società tradizionale, si accompagna a una situazione di
scarsa differenziazione strutturale delle principali sfere di
attività e a una limitata divisione del lavoro sia tra le
unità produttive che al loro interno. Diversi studi hanno
anche cercato di misurare empiricamente, attraverso la costruzione
di indici (di sviluppo economico, urbanizzazione, alfabetizzazione,
partecipazione politica, ecc.), la collocazione delle varie
società tra il polo della modernità e quello della
tradizione (v. Lerner, 1958; v. Deutsch, 1961; v. Black, 1966).
Lo sviluppo economico - sottolinea Hoselitz - comporta un rilevante
cambiamento della cultura e della struttura sociale, perché
esso non dipende soltanto dall'accumulazione del capitale, ma da un
impiego produttivo di quest'ultimo e quindi, come era stato
osservato a partire da Adam Smith, da una maggiore divisione del
lavoro basata su ruoli funzionalmente specifici. Una divisione del
lavoro siffatta non può però svilupparsi adeguatamente
se non si affermano orientamenti razionalistici nell'azione
economica e criteri universalistici per selezionare coloro che
debbono occupare ruoli molto specializzati, e se tali criteri non si
ispirano a principî di prestazione e quindi a una valutazione
delle capacità, piuttosto che ai principî tradizionali
di tipo ascrittivo. I valori culturali tradizionali fondano dunque
modelli di comportamento e relazioni sociali relativamente stabili e
istituzionalizzati (strutture sociali) che sono tra loro
strettamente interdipendenti e ostacolano lo sviluppo economico.
Perché si avvii lo sviluppo è necessario che i modelli
culturali e le strutture sociali si modernizzino avvicinandosi alle
caratteristiche, a loro volta strettamente interdipendenti, di
razionalità, universalismo, prestazione e specificità
funzionale, tipiche delle società moderne dell'Occidente. Ma
da che cosa dipende allora l'avvio della modernizzazione?
Le risposte sono in parte diverse. In generale l'attenzione è
posta sul formarsi di nuove élites intellettuali, politiche
ed economiche che introducono innovazioni rispetto ai modelli
tradizionali. Tuttavia Hoselitz insiste maggiormente sulla crescita
dell'imprenditorialità dal basso, richiamando la teoria della
marginalità sociale: coloro che ricoprono una posizione
marginale nella società, perché stranieri, immigrati o
appartenenti a una religione diversa da quella dominante, saranno
più propensi a innovare sul piano economico e quindi
innescheranno un processo di cambiamento del contesto sociale
tradizionale. Gli altri autori, invece, prestano maggiore attenzione
al formarsi di nuove élites istruite che assumono un ruolo
guida sul piano politico. In genere questo processo è visto
come una conseguenza inevitabile dei maggiori contatti tra le
società moderne e quelle tradizionali (v. Lerner, 1958; v.
Levy, 1966). Si diffondono in tal modo le aspirazioni a modernizzare
la società per realizzare i livelli di benessere economico e
sociale tipici delle società occidentali. Di queste
aspettative si fanno interpreti anzitutto le élites istruite,
che si mobilitano sul piano politico per avviare il cambiamento.
Un modello più sistematico del cambiamento sociale nella
modernizzazione è sviluppato da quegli autori (v. Eisenstadt,
1964; v. Smelser, 1968, cap. 6) che si richiamano al concetto di
'differenziazione strutturale' al quale aveva lavorato Talcott
Parsons (v. Parsons e Smelser, 1956). In questo quadro l'attenzione
si sposta dagli attori (le élites politiche o economiche) ai
problemi strutturali che ne condizionano l'azione, sotto l'impulso
della ricerca di una maggiore efficienza, cioè di una
maggiore capacità di adattamento all'ambiente e di controllo
su di esso da parte delle diverse sfere istituzionali. In pratica,
nella fase di transizione si verifica il passaggio da strutture che
svolgono una molteplicità di funzioni a strutture
specializzate. Per esempio, nelle società tradizionali le
attività economiche sono scarsamente differenziate da quelle
familiari o parentali, mentre quando si avvia la modernizzazione la
famiglia perde le funzioni economiche e si diffondono imprese che
utilizzano forza lavoro salariata, e producono per il mercato
piuttosto che per l'autoconsumo familiare. Ciò è
dovuto al fatto che strutture economiche specializzate,
caratterizzate inoltre da una maggiore divisione interna del lavoro,
consentono di produrre in modo più efficiente. Ma questo
comporta, a sua volta, una spinta alla differenziazione della
posizione di classe dalle componenti ascrittive e il suo aggancio ai
principî di prestazione. In questo processo le famiglie estese
si riducono e si afferma la famiglia nucleare, il che implica anche
un allentamento dei controlli sociali tradizionali sulle scelte
individuali. Lo sviluppo economico accresce la mobilità
sociale e tende poi, nel tempo, a minare le credenze religiose
tradizionali e a generare nuove domande di partecipazione
politica.In tal modo, tuttavia, si determina una situazione nella
quale l'indebolimento dei modelli culturali e delle strutture
sociali tradizionali genera tensioni, resistenze e conflitti.
Rispetto ai processi di modernizzazione delle società
occidentali cambiano infatti i ritmi e le sequenze (v. Germani,
1971). Più rapido è il processo di modernizzazione,
più probabile è lo sviluppo di situazioni
conflittuali, che coinvolgono soprattutto coloro che sono stati
sottratti alle forme di integrazione tradizionale senza essere stati
efficacemente integrati in forme nuove, come in particolare le masse
inurbate e prive di stabile occupazione. Inoltre, quanto più
l'accesso al sistema politico risulta chiuso per gli interessi
mobilitati dal processo in atto, tanto maggiore è la
probabilità di una radicalizzazione politica che può
anche sfociare in forme violente di conflitto. In questa situazione
i teorici della modernizzazione considerano inevitabile un ruolo
più attivo dello Stato nel processo di sviluppo. E questo non
solo - come ritenevano gli economisti dello sviluppo - per
promuovere le attività economiche e l'industrializzazione, in
un contesto dove erano più carenti le spinte imprenditoriali
dal basso, ma anche per controllare i conflitti indotti dalla
modernizzazione. Tale ruolo dello Stato potrà essere peraltro
più efficace nella misura in cui riusciranno ad affermarsi
nuove élites politiche capaci di ottenere una forte
legittimazione attraverso ideologie nazionaliste che si
sostituiscano alle vecchie credenze religiose, come base di un
sistema di valori condiviso dalla popolazione. Qualora questa
opzione fallisse, per la debolezza delle nuove élites o per
la resistenza di quelle tradizionali al necessario cambiamento
economico (riforme agrarie) e politico (democratizzazione), si
considera come probabile un'alternativa di tipo socialista (v.
Parsons, 1960).
Gli aspetti più specificamente politici del processo di
modernizzazione hanno attirato l'attenzione di studiosi provenienti
dal campo della scienza politica, influenzati anch'essi dallo
struttural-funzionalismo (v. Almond e Coleman, 1960). In questo
ambito è stato formulato il concetto di sviluppo politico,
inteso come processo di differenziazione delle strutture e di
secolarizzazione della cultura politica che porta ad aumentare la
capacità - in termini di efficienza e di efficacia - di un
sistema politico (v. Almond e Powell, 1966; v. Pasquino, 1970). I
problemi dello sviluppo politico vengono presentati in termini
analitici attraverso l'individuazione di una serie di sfide -
ricostruite a partire dall'esperienza storica dei paesi occidentali
- che il sistema deve affrontare nel corso della modernizzazione. Il
numero di queste sfide può variare, ma in genere vengono
segnalate le seguenti. La prima riguarda la costruzione dello Stato,
ovvero la necessità da parte delle élites politiche di
creare nuove strutture per regolare le attività sociali e
reperire risorse per il funzionamento delle istituzioni politiche.
La seconda sfida, che ha una connotazione culturale, riguarda la
costruzione della nazione: si tratta di favorire il processo di
formazione di un'identità nazionale attraverso il superamento
degli orientamenti particolaristici e localistici; connesso a questo
problema è quello della legittimazione delle nuove
élites politiche che devono guidare la modernizzazione. La
sfida della partecipazione ha invece a che fare con il processo di
mobilitazione della popolazione, indotto dallo sviluppo economico e
sociale, e riguarda le modalità di integrazione delle nuove
domande di partecipazione politica attraverso processi di
democratizzazione. Infine, la sfida della distribuzione si riferisce
alla capacità del sistema politico di sviluppare interventi
atti a rispondere alle domande di maggiore uguaglianza sociale.
La letteratura su questi temi sottolinea come il tipo di soluzione
che viene dato a ogni sfida condizioni le possibilità di
rispondere efficacemente a quella successiva. Ma di particolare
rilievo è soprattutto l'idea che difficoltà specifiche
per i paesi del Terzo Mondo vengano dalla tendenza a sovrapporsi nel
tempo delle diverse sfide, che invece nelle società
occidentali si sono manifestate in sequenze più lunghe e
più graduali (v. Binder e altri, 1971; v. Grew, 1978). In
particolare, è probabile che la sfida della partecipazione e
la relativa crisi debbano essere affrontate senza che si sia ancora
consolidata un'identità nazionale e una forte
legittimità delle élites politiche, e con strutture
statuali più fragili. La stessa sfida della distribuzione,
anche per effetto dei meccanismi di apertura culturale e di
confronto con la situazione dei paesi più sviluppati, tende a
far crescere domande di maggiore uguaglianza e di sostegno dei
redditi prima che lo Stato sia in grado di ricavare dall'economia
nazionale le risorse necessarie. Ne discende dunque, per le
società che si avviano verso la modernizzazione, una forte
spinta verso la conflittualità politica e un'accentuata
instabilità.
La formazione della personalità moderna
Nell'ambito della teoria della modernizzazione notevole peso ha
avuto anche una serie di studi influenzati dalla psicologia e dalla
psicologia sociale. Questi lavori tendono in genere a condividere il
quadro idealtipico basato sulla distinzione tra la società
tradizionale, quella moderna e quella in transizione. Essi tuttavia
mettono soprattutto a fuoco i meccanismi attraverso i quali si
comincia a formare una personalità moderna come fattore
essenziale per innescare il processo di cambiamento. Un primo lavoro
che introduce questa prospettiva, anche se mantiene un orientamento
più sociologico, è quello di Daniel Lerner (v., 1958)
su alcuni paesi del Medio Oriente. Si tratta, come spesso accade
negli studi condotti nell'ambito dell'approccio psicologico, di una
ricerca empirica. Anche Lerner considera il contatto con le
società occidentali come il fattore che stimola il
cambiamento e spinge nuove élites a modernizzare. In questo
modo si innesca un processo che è stato già seguito
dalle società occidentali e che si ripresenterà con la
stessa sequenza in tutti i continenti, indipendentemente dalle
differenze originarie delle società tradizionali. Tale
sequenza, i cui aspetti essenziali sono misurabili con una serie di
indici, si svolge come segue: la crescita dell'urbanizzazione
stimola l'alfabetizzazione; questo fenomeno favorisce a sua volta la
diffusione dei mezzi di comunicazione di massa; a questo punto tende
a formarsi una propensione alla mobilità. Si diffonde una
'personalità mobile', caratterizzata da razionalità ed
empatia, cioè capacità di identificarsi con gli altri
e desiderio di essere simili a loro migliorando la propria
posizione. Questo processo, infine, si accompagna a una spinta alla
maggiore partecipazione economica (e quindi alla crescita del
reddito) e alla richiesta di una più estesa partecipazione
politica (v. anche Deutsch, 1961).
Nell'ottica di Lerner la formazione di una personalità
moderna è vista essenzialmente come un processo di
socializzazione secondario, in cui molto importante è il
ruolo dell'istruzione e dei mezzi di comunicazione di massa come
'moltiplicatori di empatia'. Maggiore attenzione al processo di
socializzazione primaria, che avviene nei primi anni di vita e
coinvolge maggiormente la famiglia, è prestata invece da
altri studi più specificamente legati a un approccio
psicologico. Tra di essi particolare influenza ha avuto la ricerca
condotta da David McClelland (v., 1961), il quale ha cercato di
dimostrare come lo sviluppo economico sia condizionato dalla
presenza in una determinata società di personalità
individuali caratterizzate da un forte 'bisogno di realizzazione'
(need for achievement). Influenzato dalla ricerca di Weber sui
rapporti tra etica protestante e spirito del capitalismo, egli l'ha
reinterpretata in chiave psicologica sottolineando come il
protestantesimo abbia contribuito a generare una forte motivazione
all'impegno individuale, una spinta a svolgere bene i propri
compiti. Da questo bisogno di realizzazione, che porta a impegnarsi
nel lavoro per remunerazioni non meramente monetarie, trae alimento
l'imprenditorialità e con essa lo sviluppo economico. Non
sono quindi sufficienti le spiegazioni di tipo economico, e neanche
quelle sociologiche: occorre invece guardare alle determinanti
psicologiche. McClelland sottopone a verifica, con una complessa
ricerca su numerosi paesi sviluppati e arretrati, l'ipotesi che il
bisogno di realizzazione sia collegato a caratteristiche particolari
del processo di socializzazione primaria. Là dove i genitori
stimolano i figli, nella prima infanzia, a essere autonomi e ad
avere fiducia nelle proprie forze, e hanno nel contempo elevati
livelli di attese relativamente al loro comportamento, tende a
formarsi nei ragazzi un più alto bisogno di realizzazione.
Molto vicina a questa prospettiva è un'altra ricerca su vari
paesi condotta da Everett Hagen (v., 1962). Qui, tuttavia, l'accento
è posto sui meccanismi di socializzazione primaria che nel
contesto tradizionale tendono a scoraggiare la formazione di una
'personalità innovativa' e favoriscono piuttosto una
'personalità autoritaria'. Si tratta di una combinazione tra
un forte orientamento protettivo e indulgente dei genitori, quando
il bambino è più piccolo, e una successiva fase molto
autoritaria, incentrata sul ruolo paterno. In questo modo il bambino
percepisce il mondo esterno come arbitrario e privo di un ordine
controllabile, abituandosi quindi a impostare le relazioni sociali
in termini di accettazione acritica della gerarchia sociale e
dell'autorità. Il fenomeno contrario si verifica invece in
quei contesti moderni nei quali un atteggiamento dei genitori simile
a quello descritto anche da McClelland stimola nel bambino
un''ansietà creativa', una spinta a cercare di controllare
razionalmente la realtà, impegnandosi intensamente in questo
compito. Da questa spinta scaturirà una personalità
più aperta all'innovazione e all'imprenditorialità. Ma
Hagen vuole descrivere più in dettaglio come sia possibile il
passaggio da un contesto di socializzazione tradizionale, che tende
a riprodursi, a un altro che è invece più favorevole
alla personalità innovativa. Il meccanismo sul quale attira
l'attenzione si basa sul 'ritiro di status'. Quando alcuni gruppi
sociali perdono il loro status, si innesca un cambiamento nel
processo di socializzazione che nelle generazioni successive
favorisce la formazione di personalità più innovative,
che possono sviluppare capacità imprenditoriali. Hagen cerca
di illustrare questa tesi con esempi tratti dalla storia dello
sviluppo economico del Giappone e della Colombia.
La ricerca condotta diversi anni più tardi da Alex Inkeles e
David Smith (v., 1974) è invece più vicina
all'impostazione di Lerner. Questi autori, che hanno un orientamento
sociologico, intendono sfidare la tesi degli psicologi che la
personalità si plasmi nei suoi tratti fondamentali
essenzialmente nell'infanzia. Con una ricerca condotta in vari paesi
del Terzo Mondo essi cercano di mostrare che la 'personalità
moderna' - cioè aperta all'innovazione, alla
razionalizzazione del comportamento e all'imprenditorialità -
risente degli effetti che esercitano sui soggetti alcune esperienze
essenziali come la partecipazione scolastica, l'occupazione nel
settore industriale, l'esposizione ai mezzi di comunicazione di
massa, la vita urbana. Gli autori ne traggono la conclusione
ottimistica che la capacità dei paesi in via di sviluppo di
potenziare il ruolo di determinate istituzioni, in particolare di
quelle che influenzano la cultura della popolazione, può
avere rilevanti conseguenze sulla personalità, che a loro
volta rendono più agevole il passaggio alla società
moderna.
Gli stadi di sviluppo e la convergenza
Uno dei più noti tra i primi studi sulla modernizzazione
è certamente The stages of economic growth (1960) di Walt
Rostow. Alla fortuna di questo lavoro ha contribuito la sua
capacità di offrire, partendo da un approccio di storia
economica, un'efficace sintesi di una serie di aspetti economici,
sociali e politici. Rostow elabora una sequenza degli stadi di
sviluppo più dettagliata e complessa di quelle descritte
nella letteratura, che in genere si limitano a distinguere tra
società tradizionale, di transizione e moderna. In questo
caso vengono invece indicati cinque stadi: la società
tradizionale, le precondizioni per il decollo, il decollo economico,
la spinta verso la maturità e la fase degli elevati consumi
di massa. Di particolare interesse è lo stadio di
preparazione al decollo industriale. Rostow sottolinea come per
l'avvio di questa fase sia necessaria l'"intrusione' delle
società più sviluppate in quelle arretrate,
un'intrusione che può avvenire nel senso letterale del
termine, cioè tramite un'occupazione militare, ma anche
indirettamente attraverso contatti economici e culturali. Questa
influenza esogena - evidenziata, come abbiamo visto, anche da altre
analisi - determina una sorta di shock per la società
tradizionale. Il 'nazionalismo reattivo', stimolato appunto
dall'intrusione della società moderna, è l'elemento
più potente che avvia il processo di superamento della
società tradizionale. Le nuove élites politiche
svolgono un ruolo essenziale nel determinare le precondizioni per il
decollo, attraverso una serie di misure che riguardano la
trasformazione dell'agricoltura, la formazione di un mercato
nazionale, la creazione di un sistema fiscale, l'investimento in
infrastrutture e servizi (tra cui in particolare l'istruzione).
Tutto ciò comporta la capacità di affrontare quei
complessi problemi connessi alla costruzione dello Stato e della
nazione, nonché alla legittimazione della classe politica, ai
quali si è già accennato.
Rispetto all'esperienza europea originaria vi sono vantaggi e
svantaggi per i paesi del Terzo Mondo. Tra i primi è da
considerare la disponibilità delle nuove tecnologie, che
offrono risorse maggiori; inoltre i nuovi Stati possono ora far
affidamento, per i loro progetti di investimento, su prestiti
internazionali a condizioni più favorevoli di quelle del
passato, quando i finanziamenti erano concessi soltanto da strutture
private. Per quel che riguarda invece gli svantaggi, di particolare
rilievo è il fatto che, per i progressi nel campo della
medicina, si riduce il tasso di mortalità. Ciò fa
sì che i paesi che avviano lo sviluppo economico debbano
sopportare il peso di una più elevata crescita della
popolazione. Il decollo è dunque reso più difficile
poiché si richiede una crescita del reddito maggiore di
quella che consentì il decollo ai paesi sviluppatisi in
precedenza. Inoltre questo fattore si accompagna al formarsi di
un'elevata disoccupazione urbana che è fonte di tensioni e di
conflittualità politica, anche perché le aspirazioni
al consumo sono maggiori che nel passato e quindi lo stato di
disoccupazione genera più forti frustrazioni. È in
questa situazione che la lotta contro le strutture sociali
tradizionali diventa più difficile, e ciò può
spingere le élites intellettuali, secondo Rostow, verso
soluzioni di tipo comunista. Di fronte ai paesi del Terzo Mondo si
apre quindi il dilemma tra una strada verso la modernizzazione in
cui il nazionalismo si accompagna al tentativo di costruire
strutture politiche di tipo democratico e un'altra basata invece
sulla soluzione comunista. La scelta tra queste alternative non
è predeterminata, ed è per la maggior parte nelle mani
della leadership dei paesi alle soglie del decollo economico. In
ogni caso, la strada comunista può essere considerata come
una 'malattia della transizione'. Lo schema degli stadi di sviluppo
elaborato da Rostow suggerisce infatti che la crescita economica e
il passaggio alla fase di maturità alimenteranno delle
domande economiche e sociali difficilmente compatibili con le
strutture politiche dei paesi comunisti.In questa prospettiva
è dunque insita l'idea che la strada verso
l'industrializzazione abbia dei passaggi obbligati dal punto di
vista economico; essi possono però essere realizzati tramite
strutture istituzionali differenti, specie nella fase di fuoruscita
dalla società tradizionale. Possono dunque darsi vie diverse
all'industrializzazione, esemplificate dall'alternativa tra
nazionalismo e comunismo. Alla lunga però, quando
l'industrializzazione si è consolidata, si ipotizza una
tendenza alla convergenza istituzionale delle società
industriali, e quindi un avvicinamento tra il modello comunista e
quello del capitalismo democratico. L'idea della convergenza
è maggiormente presente e sviluppata nello studio di Clark
Kerr e altri (v., 1960), Industrialism and industrial man. Secondo
questi autori vi è una 'logica dell'industrialismo',
fondamentalmente influenzata dai vincoli posti dalla tecnologia. Si
assume che esista un'unica tecnologia in grado di assicurare i
risultati più efficienti dal punto di vista
economico-produttivo, e ciò spinge le diverse società
ad acquisirla, organizzandosi dal punto di vista istituzionale in
modo da poterla sfruttare al meglio. Ne discende una potente spinta
alla convergenza istituzionale. E se ne intravedono già i
segni in una riduzione dello spazio del mercato, là dove era
maggiore, e all'opposto in una riduzione del controllo statale
sull'economia e sulla società in quei contesti - come il
sistema comunista - dove tale controllo era più forte.
L'industrializzazione spingerebbe verso un 'pluralismo' economico e
sociale nel quale crescono le classi medie, diminuisce il conflitto,
si forma una pluralità di interessi economici e sociali che
influenzano il processo politico, si attenuano le grandi ideologie,
rigide e totalizzanti.
3. LE CRITICHE RIVOLTE ALLA TEORIA DELLA MODERNIZZAZIONE
La teoria della modernizzazione è stata sottoposta a diverse
e consistenti critiche, a partire dalla fine degli anni sessanta. Le
prenderemo in considerazione distinguendo analiticamente alcuni dei
principali assunti della teoria sui quali esse si concentrano.
Occorre però tenere conto che tale operazione comporta
inevitabilmente qualche forzatura, dal momento che, come si è
visto, non esiste una ben determinata teoria della modernizzazione,
ma piuttosto una varietà di approcci non sempre del tutto
coerenti tra loro. Quattro sono gli elementi comuni a tali approcci,
e tra loro collegati, sui quali vale la pena di attirare in
particolare l'attenzione: a) la concezione ottimistica dello
sviluppo come processo inevitabile e unilineare che tende ad
attraversare gli stadi già percorsi dalle società
occidentali determinando una progressiva convergenza istituzionale;
b) la considerazione della società tradizionale e della
società moderna come modelli idealtipici contrapposti,
costituiti da elementi tra loro strettamente interdipendenti; c)
l'idea che i rapporti che le aree e i paesi arretrati stabiliscono
con l'esterno abbiano una connotazione positiva in termini di
stimolo allo sviluppo; d) l'assunto che il motore del cambiamento
sia essenzialmente endogeno.
Inevitabilità dello sviluppo ed etnocentrismo
L'ottimismo circa le possibilità di sviluppo dei paesi
arretrati è largamente condiviso e riflette certo il clima
del primo decennio postbellico, che sembrava aprire grandi
possibilità alla crescita economica. Le nuove concezioni
economiche, che davano maggior rilievo all'intervento dello Stato e
alla cooperazione internazionale piuttosto che al ruolo del mercato,
contribuivano a rafforzare tale visione ottimistica. In questo
quadro i sociologi, gli psicologi sociali o gli storici economici -
che, come si è visto, sono i protagonisti della teoria della
modernizzazione - si preoccuparono soprattutto di mettere a fuoco
quelle variabili istituzionali che rischiavano di compromettere le
potenzialità di uno sviluppo considerato come non
problematico da un punto di vista strettamente economico. Questa
strada venne tuttavia perseguita più in termini teorici che
di ricerca empirica. Facevano eccezione, per la verità, le
ricerche dell'approccio psicologico, ma esse erano per l'appunto
centrate sulla formazione della personalità. Non vi era
invece una ricerca comparata sui concreti processi di sviluppo dei
paesi arretrati. I sociologi influenzati dallo
struttural-funzionalismo - ma anche lo stesso Rostow, quando traccia
i suoi stadi di sviluppo - cercavano di definire in termini teorici
le caratteristiche strutturali della società tradizionale e
di quella moderna nonché i meccanismi del cambiamento
sociale. Mancando di un'adeguata base di ricerca, essi finivano per
ricorrere inevitabilmente all'esperienza storica delle
società occidentali, sia per definire per contrasto la
società tradizionale, sia per identificare i meccanismi del
cambiamento.
Alla luce di questa debolezza empirica, accompagnata da un'indebita
tendenza a generalizzare partendo dall'esperienza occidentale, si
può comprendere una prima serie di critiche. Esse riguardano
anzitutto l'idea ottimistica di uno sviluppo inevitabile. Quest'idea
viene fortemente criticata alla luce delle concrete esperienze
storiche dei paesi del Terzo Mondo che, passata rapidamente la fase
di entusiasmo per la conquista dell'indipendenza politica,
incontrano forti difficoltà dal punto di vista economico e
sono spesso investiti da gravi tensioni sociali e politiche. Di qui
la conclusione che lo sviluppo non è affatto garantito e che
possono verificarsi fallimenti e blocchi nel processo della
modernizzazione (v. Eisenstadt, 1973). Ma le critiche investono
anche i presupposti di valore della teoria della modernizzazione; in
essi viene visto l'influsso di una visione 'etnocentrica' che porta
a considerare l'esperienza occidentale non solo come inevitabile, ma
anche come modello positivo al quale i paesi arretrati dovrebbero
adeguarsi per migliorare le condizioni delle loro società (v.
Bendix, 1967; v. Goldthorpe, 1971; v. Tipps, 1973).
Tradizione e modernità come modelli contrapposti
Un secondo elemento largamente condiviso nei primi studi sulla
modernizzazione riguardava la concezione della società
tradizionale e di quella moderna come modelli contrapposti,
costituiti da elementi tra loro interdipendenti. Anche in questo
caso lo scarso fondamento storico-empirico portava a sottovalutare
la concreta diversità delle società tradizionali, la
cui immagine finiva per essere ricostruita deduttivamente per
contrapposizione rispetto ai caratteri delle moderne società
occidentali, e specialmente di alcune di esse (quelle
angloamericane). Le critiche attaccano entrambi gli assunti di
quest'immagine (v. Bendix, 1967; v. Gusfield, 1967; v. Tipps, 1973).
Anzitutto si sottolinea la notevole varietà sul piano
storico-empirico delle società tradizionali e viene messo in
evidenza come elementi culturali e strutturali, sia tradizionali che
moderni, siano presenti in varia misura e in diverse combinazioni
non solo nelle società dei paesi non industrializzati, ma
anche in quelle dei paesi sviluppati. Per esempio, legami familiari
e parentali o credenze religiose persistono, anche se con peso
diverso, nelle stesse società moderne, mentre, per converso,
valori orientati alla realizzazione e all'imprenditorialità o
strutture burocratiche che funzionano secondo criteri
universalistici possono riscontrarsi anche in società
tradizionali. Non necessariamente, poi, valori tradizionali e una
ridotta differenziazione strutturale, per esempio delle
attività economiche dalle funzioni della famiglia estesa,
ostacolano lo sviluppo delle attività economiche moderne, ma
anzi possono sostenerlo; così come non ci si deve aspettare
che in un contesto moderno la differenziazione debba necessariamente
procedere in tutte le sfere. Viene dunque anche messa in discussione
l'idea, connessa con la precedente, della stretta interdipendenza
degli elementi costitutivi dei due modelli, per cui il cambiamento
verso la modernità di uno di essi comporterebbe
necessariamente l'adeguamento degli altri, secondo la sequenza
già verificata nelle società occidentali. Si
può insomma sviluppare una 'modernità selettiva', che
riguarda i mezzi di comunicazione o la domanda di consumi o le
strutture militari, ma che può non estendersi alla sfera
produttiva o al funzionamento delle istituzioni politiche, ecc.
Processi di modernizzazione di questo tipo sono frequenti sul piano
storico-empirico e non è detto che essi portino alla
modernità come definita dal modello.
I condizionamenti economici e l'approccio dipendentista
Veniamo così al terzo aspetto: l'idea che i rapporti con
l'esterno abbiano una valenza prevalentemente positiva per i paesi
che devono modernizzarsi, cioè che essi fungano da stimolo
alle forze del cambiamento viste come essenzialmente endogene. Per
Lerner o per Levy il contatto con le società moderne è
un potente solvente della società tradizionale, nel senso che
stimola a modernizzare gli orientamenti culturali e le strutture
sociali, innescando dei meccanismi di cambiamento irreversibile.
Rostow insiste anche, sul terreno più specificamente
economico, sui vantaggi che possono venire dalla diffusione
tecnologica e dagli aiuti internazionali. Ma questa impostazione
trascura il fatto che il progressivo inserimento nel mercato
internazionale comporta anche dei vincoli per lo sviluppo economico.
È più difficile che in passato avviare un processo di
industrializzazione, perché per competere con l'industria dei
paesi più sviluppati occorre ora un livello di investimenti
più elevato e, quindi, un'accumulazione di capitale
più consistente. D'altra parte, i paesi arretrati sono in
genere specializzati nella produzione di materie prime e beni
agricoli con manodopera a bassa qualificazione e basso prezzo. Essi
finiscono così per esportare prodotti a basso costo che
vengono scambiati con prodotti industriali dei paesi sviluppati a
costo invece elevato. Non si formano dunque le risorse di capitale
necessarie per lo sviluppo, mentre la concorrenza delle industrie
già consolidate degli altri paesi mette in crisi le
attività di tipo artigianale meno competitive.
L'inserimento nell'economia internazionale è fonte dunque di
rilevanti problemi e non solo di opportunità. Tali problemi
vengono segnalati da un'ampia letteratura economica, ma sono
particolarmente sottolineati dall'approccio dipendentista, che
rielabora la problematica di derivazione marxista dell'imperialismo.
Questo orientamento si forma inizialmente a partire da una
riflessione sul fallimento dei tentativi di sviluppo di diversi
paesi latino-americani (v. Gunder Frank, 1967 e 1969; v. Cardoso e
Faletto, 1969), ma si estende poi a una visione più generale
delle periferie nell'ambito della 'teoria dell'economia-mondo' di
Immanuel Wallerstein (v., 1979). Caratteristica di questo approccio
è l'idea che l'incremento dei contatti con i paesi
industrializzati, invece di favorire lo sviluppo, come sostenevano
gli orientamenti 'diffusionisti' espressi negli studi sulla
modernizzazione, provoca una situazione di sottosviluppo. Più
che di arretratezza si dovrebbe allora parlare, appunto, di
sottosviluppo, proprio per sottolineare come le difficoltà
delle periferie derivino dallo sfruttamento cui le sottopongono le
società centrali, e quindi dall'integrazione nel mercato
internazionale piuttosto che dall'isolamento. In particolare,
l'attenzione è posta su tre meccanismi che determinano una
sottrazione di risorse alle aree periferiche. Il primo si esercita
attraverso l'inserimento dipendente nel commercio internazionale,
che comporta uno 'scambio ineguale': materie prime e prodotti
agricoli sono esportati a prezzi più bassi rispetto a quelli
dei prodotti industriali importati dalle 'metropoli'. Il secondo
meccanismo riguarda la penetrazione diretta del capitale straniero,
che si insedia direttamente nel settore della produzione delle
materie prime o in quello agricolo e poi anche in quello
industriale, dove sfrutta il vantaggio di un più basso costo
del lavoro per la produzione di beni standardizzati. Ciò
comporta però, nuovamente, un drenaggio di profitti a favore
delle aree centrali. Infine l'indebolimento delle condizioni
economiche determina un ricorso crescente ai prestiti
internazionali, che comprime ulteriormente le risorse disponibili
per lo sviluppo.In questo quadro, specie con riferimento all'America
Latina, si tende anche a sottolineare il ruolo scarsamente
propulsivo della borghesia nazionale, che appare subalterna agli
interessi dei paesi centrali, sia nei settori orientati
all'esportazione di beni primari, sia nell'ambito dell'industria.
Solo un intervento adeguato dello Stato potrebbe favorire dall'alto
il processo di industrializzazione, ridefinendo l'inserimento del
paese arretrato nella divisione internazionale del lavoro; ma,
contrariamente ai dettami dell'economia dello sviluppo di
orientamento keynesiano, nell'approccio dipendentista si sottolinea
come ciò richiederebbe la fuoruscita dal quadro capitalistico
in direzione di regimi di tipo socialista (nell'ottica di
Wallerstein dovrebbe trattarsi di un socialismo internazionale in
grado di governare l'economia-mondo). Come mostra, infatti,
soprattutto l'esperienza latinoamericana, gli esponenti della
borghesia imprenditoriale e commerciale e i latifondisti non solo
non sono in grado di sostenere un progetto di sviluppo autonomo, ma,
di fronte alla situazione di instabilità sociale e politica
determinata dallo sviluppo dipendente, sono pronti a sostenere
soluzioni autoritarie con l'aiuto dei militari e dei paesi centrali,
anch'essi interessati al mantenimento dello status quo (v.
O'Donnell, 1973).
Questa prospettiva ha certo contribuito a mettere a fuoco vincoli
trascurati dai teorici della modernizzazione, ma se adottata
acriticamente presenta tutti i rischi di un'impostazione che si
limita semplicemente a capovolgere quella precedente, facendo
dipendere il sottosviluppo esclusivamente dai vincoli esterni. In
tal modo si trascura l'influenza esercitata dal contesto
istituzionale interno dei paesi periferici e non ci si attrezza dal
punto di vista analitico per valutare in che modo i fattori
istituzionali interni offrano più o meno risorse per il
processo di modernizzazione; inoltre non è possibile valutare
adeguatamente le differenze specifiche che emergono nei percorsi dei
paesi del Terzo Mondo, e che, come vedremo più avanti,
diventeranno più evidenti col passare del tempo. Non si deve
peraltro trascurare come questi rischi siano percepiti anche da
alcuni teorici della dipendenza, in particolare da Cardoso e
Faletto, i quali insistono sulla necessità di un''analisi
integrata dello sviluppo' che colleghi vincoli esterni e fattori
istituzionali interni, dando più spazio e più
autonomia alle forme specifiche di mobilitazione e organizzazione
politica.
Il cambiamento come evoluzione endogena
Se le critiche dell'approccio dipendentista agli studi sulla
modernizzazione si sono concentrate soprattutto sulla tesi che i
condizionamenti economici esterni influiscono positivamente sul
cambiamento, un'altra serie di interventi ha invece messo in
discussione il modello di cambiamento evoluzionistico basato sulla
differenziazione strutturale. Come abbiamo visto, il riferimento a
questo modello non è presente in egual misura in tutti gli
approcci allo studio della modernizzazione, ma solo in alcuni di
essi più specificamente influenzati dallo
struttural-funzionalismo, secondo cui il meccanismo chiave - che
vale peraltro per qualsiasi tipo di società - è
costituito dal processo di differenziazione strutturale. La spinta a
costituire ruoli e strutture sociali più differenziate deriva
dall'insoddisfazione crescente per il funzionamento di una
determinata struttura, e quindi da una ricerca di maggiore
efficienza che si concretizza in una più elevata
specializzazione funzionale delle nuove strutture che sostituiscono
la precedente. Il cambiamento è dunque visto come un processo
di adattamento della società, considerata come un sistema di
elementi interdipendenti, all'ambiente fisico e sociale. Ed è
possibile individuare tipi strutturali più o meno evoluti,
sulla base del grado di differenziazione strutturale e quindi della
capacità di adattamento all'ambiente e di controllo su di
esso. Al vertice di questi stadi vi sono le società moderne
occidentali (v. Parsons, 1966 e 1971).
Possiamo distinguere tre tipi di critiche nei confronti di questi
assunti. Al primo si è già accennato: esso resta
sostanzialmente all'interno della tradizione funzionalista, ma
sottolinea come la differenziazione non necessariamente comporti
l'incremento atteso di efficienza, perché può
accompagnarsi a problemi di integrazione che determinano fenomeni di
instabilità e di blocco della modernizzazione. Il secondo
ordine di critiche è più radicale e investe l'idea che
sia possibile, sulla base delle esperienze storiche passate,
stabilire delle sequenze evolutive che possano valere anche per il
futuro. Quest'idea è messa in discussione perché
presuppone una concezione della società come sistema
tendenzialmente chiuso e coerente, come un organismo il cui stato
futuro possa essere predetto sulla base delle sue caratteristiche
strutturali in un determinato momento (v. Bendix, 1967; v. Nisbet,
1969; v. Goldthorpe, 1971; v. Boudon, 1984). Si sottolinea invece
come il cambiamento non sia un processo soltanto endogeno di
adattamento, ma sia condizionato dai rapporti tra la società
e l'ambiente esterno, un ambiente che muta continuamente con lo
sviluppo storico e che quindi pone vincoli e offre
opportunità diversi da quelli del passato alle singole
società. Gli stimoli che vengono dall'ambiente esterno non
sono solo positivi, come sostengono i teorici della modernizzazione,
e non sono solo negativi, come ritiene l'approccio dipendentista. I
primi non tengono conto del fatto che l'ambiente esterno può
portare a reazioni interne nelle società in via di
modernizzazione, che non seguono necessariamente l'esperienza delle
società occidentali; i secondi sono attenti ai vincoli
economici che vengono dalla divisione internazionale del lavoro, ma
perdono di vista i fattori endogeni.
Il mutamento è invece un processo complesso, in cui si
intrecciano da un lato condizionamenti economici, politici,
culturali provenienti dall'esterno (ma anche singoli eventi
contingenti, per esempio le guerre) e dall'altro le caratteristiche
interne di una determinata società. Tra queste particolare
importanza deve essere data non solo alle spinte a una maggiore
efficienza, provenienti dall'economia, ma anche al ruolo delle
élites intellettuali, ai processi di mobilitazione politica,
all'intervento dello Stato. In questo quadro è necessario
prestare maggiore attenzione ai soggetti che introducono il
cambiamento, alle loro identità, ai loro interessi e ai loro
conflitti, mentre nell'interpretazione struttural-funzionalista
questa dimensione tende a scomparire a favore di processi astratti e
impersonali, i quali, più che spiegare come si è
effettivamente determinato il cambiamento, portano a tracciare una
sorta di statica comparata delle diverse società.
Contro questa tendenza si cerca dunque di guardare all'analisi
storica comparata per mettere a fuoco i processi specifici di
cambiamento per i quali non è possibile tracciare delle leggi
generali. È tuttavia da segnalare un altro tipo di critica
che non è necessariamente incompatibile con una prospettiva
evoluzionistica. In questo caso viene criticata la
possibilità di individuare stadi di sviluppo basati su un
grado maggiore o minore di capacità di adattamento (e quindi
di differenziazione strutturale) (v. Granovetter, 1979). Per
riuscire in questo obiettivo bisognerebbe conoscere i problemi
ambientali futuri che una determinata società dovrà
affrontare. Infatti, la capacità di adattamento misurata dal
grado di differenziazione strutturale delle società
più sviluppate non può essere considerata in assoluto
come un obiettivo necessario da raggiungere per quelle meno
sviluppate che devono modernizzarsi, perché non è
detto che i problemi futuri con cui quest'ultime devono misurarsi
siano simili a quelli affrontati con successo dalle prime. Tutto
ciò porta a escludere che si possano stabilire gerarchie di
avanzamento, o stadi di sviluppo, sulla base delle caratteristiche
strutturali di ogni società. E del resto questa è
anche la strada che segue la biologia moderna, la quale esclude che
si possano indicare quali sono le caratteristiche di una specie che
la rendono in assoluto più adatta alla sopravvivenza, ma
indaga su quali condizioni ambientali favoriscono l'adattamento di
una determinata specie con particolari caratteristiche strutturali.
Anche per questa seconda via, che sottolinea la possibilità
di un'evoluzione multilineare, si arriva dunque a un risultato
vicino a quello dell'orientamento precedente. Entrambi i tipi di
critiche convergono nel sottolineare la necessità di
"approcci alla modernizzazione che evitino dubbie assunzioni circa
la natura delle istituzioni tradizionali e del loro contributo al
processo di modernizzazione, che incorporino gli 'stimoli esterni'
come variabili significative, che vedano la modernizzazione come un
processo essenzialmente multilineare, e che enfatizzino le
discontinuità oltre che le relazioni di funzionalità
nella modernizzazione" (v. Tipps, 1973, p. 216).
LA SOCIOLOGIA STORICA DELLA MODERNIZZAZIONE
Molte delle critiche rivolte alla teoria della modernizzazione dei
paesi arretrati vengono da autori impegnati in un'attività di
ricerca specifica e largamente autonoma: lo studio comparato del
processo di modernizzazione storica delle società
occidentali, e soprattutto di quelle europee. Al centro di questa
prospettiva vi è il tentativo di comprendere meglio le
differenti modalità attraverso le quali si sono combinati,
nell'esperienza occidentale, il processo di industrializzazione in
campo economico e quello di democratizzazione in campo politico. Ad
attrarre particolarmente l'attenzione è la diversità
dei percorsi politici che si sono accompagnati
all'industrializzazione, giacché in alcuni casi, come in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti, la crescita industriale e lo sviluppo
democratico hanno proceduto insieme, mentre in altri, come in
Germania, in Italia e in Unione Sovietica, lo sviluppo economico ha
convissuto con regimi politici di tipo antidemocratico. Il tentativo
di spiegare tali fenomeni spinge ad andare oltre i grandi modelli
interpretativi, formulati dai classici della teoria sociale, sui
caratteri generali della società moderna e sui meccanismi che
ne determinano la genesi. Molti spunti vengono ovviamente ripresi
dai classici, ma forse è il pensiero di Max Weber a
influenzare maggiormente questa prospettiva. Si potrebbe dire che
essa sviluppa l'approccio storico-comparato del sociologo tedesco,
cercando di applicarlo all'interno delle società occidentali
per comprendere meglio le somiglianze, ma anche le differenze, che
ne hanno segnato i percorsi di sviluppo. Ne discende un'accresciuta
sensibilità rispetto al carattere complesso e multilineare
del processo di modernizzazione, che porta poi, più o meno
direttamente, a mettere anche in discussione il modo in cui esso
è stato concettualizzato per le società del Terzo
Mondo. All'interno di questo filone di studi possiamo distinguere:
a) un approccio più vicino alla storia economica comparata,
che mette particolarmente in evidenza le diverse modalità del
processo di industrializzazione, viste in relazione al ruolo dei
fattori istituzionali; b) una prospettiva, di tipo più
sociologico, che guarda all'influenza specifica dei fattori politici
sui diversi percorsi di modernizzazione; c) un'impostazione che si
concentra maggiormente sui fattori economico-sociali, e in
particolare sulla struttura di classe preindustriale.
Uno studio molto influente, che sottolinea la diversità dei
processi di industrializzazione dei paesi europei, è quello
di Alexander Gerschenkron (v., 1962 e 1968). Quest'autore mette in
luce efficacemente come i fattori che favorirono la crescita
industriale nei paesi che per primi avviarono questo processo, in
particolare l'Inghilterra, non fossero diffusi in altri che si
mossero più tardi. Nel primo caso il fenomeno fu più
graduale e si valse di una trasformazione precoce dell'agricoltura
in direzione capitalistica, che ne aumentò la
produttività, favorendo contemporaneamente la formazione di
un'offerta di lavoro per l'industria e l'accumulazione del capitale;
esso poté inoltre basarsi sulla spinta dal basso di una
vigorosa borghesia imprenditoriale. Paesi dell'Europa continentale
come la Germania o l'Italia, e ancor di più la Russia, non
godevano invece di queste condizioni favorevoli. Essi dovettero
quindi affrontare la sfida dell'industrializzazione per
salvaguardare la loro stessa sopravvivenza come unità
politiche autonome nella competizione internazionale tra gli
Stati.Secondo Gerschenkron si stabilì una sorta di
correlazione tra il grado di arretratezza economica e la
necessità di far ricorso a 'fattori sostitutivi' rispetto a
quelli che avevano favorito la prima industrializzazione. Di qui il
ruolo più rilevante che in paesi come la Germania e l'Italia
acquisirono le banche nel sostenere la crescita industriale,
nonché la funzione ancora più rilevante svolta dallo
Stato. Tanto più che per competere efficacemente era
diventato necessario avviare delle strutture produttive più
consistenti, che richiedevano un maggiore impiego di capitale e di
capacità organizzative. In queste condizioni
l'imprenditorialità, invece di essere un prerequisito della
crescita industriale, è stimolata dall'azione congiunta dei
diversi fattori sostitutivi. D'altra parte, fu anche necessario
utilizzare l'apparato amministrativo e coercitivo dello Stato per
difendere le nuove attività dagli interessi più
tradizionali (soprattutto legati all'agricoltura), che in questi
paesi erano più consistenti e ostili ai nuovi sviluppi. Ma il
maggiore sforzo che l'industrializzazione dei paesi arretrati
comporta non potrebbe avere luogo senza un forte impegno anche sul
versante ideologico, tendente a creare un clima favorevole al
cambiamento. In effetti in tutti i paesi ritardatari attecchiscono
ideologie economiche e politiche che si allontanano dal laissez
faire. Così, se la Francia fu caratterizzata dalle influenze
dirigistiche e 'tecnocratiche' del saint-simonismo, in paesi come
l'Italia e la Germania fu forte invece il peso del nazionalismo.
Nello stesso modo, secondo Gerschenkron, si potrebbe spiegare la
notevole influenza del marxismo in Russia come espressione del grado
di arretratezza ancor più accentuato di quel paese.
L'arretratezza non influenza peraltro soltanto il clima ideologico,
ma anche la portata delle tensioni sociali che i paesi ritardatari
devono affrontare come conseguenza dell'industrializzazione. Esse
derivano dal sommarsi delle resistenze degli interessi tradizionali
alle domande di riconoscimento sociale e politico di quelli nuovi
(la classe operaia). Le tensioni possono così raggiungere
proporzioni tali da portare a esiti dittatoriali.
Gerschenkron, ma anche un economista interessato ai problemi dello
sviluppo come Albert Hirschman (v., 1971), trae da questa
prospettiva esplicite conseguenze critiche nei riguardi della teoria
degli stadi di sviluppo di Rostow, o degli approcci che sottolineano
l'importanza dell'imprenditorialità, o della formazione di
personalità innovative, per lo sviluppo dei paesi arretrati.
Non solo non è possibile stabilire prerequisiti
dell'industrializzazione universalmente validi, ma le modificazioni
del sistema di valori tradizionale e la formazione di una forte
imprenditorialità dal basso non sono indispensabili per lo
sviluppo economico. La storia economica europea mostra molti esempi
di come le attività imprenditoriali si siano potute
sviluppare, anche rapidamente, in un contesto di valori fortemente
ostili, sotto la spinta di fattori istituzionali adeguati. Il
problema dei paesi in via di sviluppo è allora quello di
mettere a punto 'fattori sostitutivi' dell'industrializzazione dal
basso, capaci di sostenere la loro crescita nelle condizioni
contemporanee.Nella prospettiva sviluppata da Gerschenkron i
differenti caratteri ideologici e politici che connotano il processo
di modernizzazione sono influenzati dal ritardo con cui i vari paesi
affrontano la sfida dell'industrializzazione. Ci si può
però chiedere se il grado di arretratezza economica non possa
essere a sua volta influenzato da fattori politico-istituzionali e
se questi ultimi non condizionino anche autonomamente le
modalità secondo le quali i vari paesi gestiscono le
conseguenze economiche e sociali dell'industrializzazione. Intorno a
questi due interrogativi si snoda il lavoro di uno degli studiosi
che maggiormente hanno contribuito alla sociologia storica della
modernizzazione: Reinhard Bendix (v., 1964 e 1978). Quest'autore
è stato profondamente influenzato dal pensiero di Weber, e si
è contrapposto con forza all'interpretazione che del
sociologo tedesco aveva dato Parsons - un'interpretazione orientata
allo sviluppo di una teoria generale della società a elevato
livello di astrazione, basata sul ruolo centrale, per l'ordine
sociale, di un sistema di valori condivisi. Per Bendix è
invece necessario recuperare l'orientamento weberiano verso una
sociologia storica che metta in luce il ruolo fondamentale dei
conflitti nella vita sociale e l'importanza della dimensione
politica. In questa prospettiva il primo dei problemi sopra indicati
che egli affronta riguarda le conseguenze politiche del processo di
industrializzazione (v. Bendix, 1964).
La tesi sostenuta da Bendix si pone in aperta contrapposizione con
l'idea di Marx, secondo la quale il conflitto sociale esprimerebbe
la deprivazione economica e l'alienazione lavorativa della nascente
classe operaia. La protesta operaia sarebbe da intendersi piuttosto
come una domanda di riconoscimento politico; essa è
alimentata dalla rottura delle forme tradizionali di integrazione
delle classi subalterne, che le mette in balia del mercato e le
spinge a ricercare il riconoscimento di nuovi diritti politici (di
associazione, di rappresentanza, di voto) per poter sostenere i
propri interessi. Là dove le nuove domande politiche vengono
accolte gradualmente, come in Inghilterra, si ha un processo di
integrazione politica dei nuovi gruppi sociali, che conduce al
rafforzamento della democrazia. Se invece la domanda di cittadinanza
viene respinta o fortemente limitata, si danno le condizioni per una
radicalizzazione rivoluzionaria del movimento operaio e per una sua
contrapposizione allo Stato nazionale, che possono comportare anche
un allontanamento più o meno marcato dai modelli di governo
democratici, com'è avvenuto in Germania e, in forma diversa,
in Russia. In sostanza, dunque, è il grado di apertura del
sistema politico alle nuove domande che influisce sulle conseguenze
dell'industrializzazione. Questo fattore però non dipende
solo dall'esito contingente del confronto tra coalizioni sociali, ma
è anche influenzato dalle tradizioni politico-istituzionali
che offrono risorse e vincoli per gradi diversi di apertura del
sistema politico. Quest'ultimo aspetto è stato
successivamente sviluppato da Bendix (v., 1978), che alla formazione
di queste diverse tradizioni ha dedicato un'impegnativa analisi
comparata. È da notare però che attraverso questa
esplorazione non viene solo in luce il ruolo dei fattori
politico-istituzionali nella fase successiva
all'industrializzazione, ma anche l'influenza che essi esercitano
sul grado di arretratezza economica; si affronta cioè anche
il secondo degli interrogativi che abbiamo prima richiamato.
L'analisi è chiaramente orientata dalle riflessioni di Weber
sul potere patrimoniale e su quello feudale, e da quelle dello
storico tedesco Otto Hintze sul feudalesimo e l'origine delle
costituzioni rappresentative. In quest'ottica l'idea di fondo
è che l'elemento chiave per ottenere un assetto
costituzionale di tipo rappresentativo sia, come insegna il caso
inglese, il bilanciamento tra centralizzazione e autonomie locali.
Allontanandosi da tale equilibrio si determinano, se prevalgono le
spinte locali, tendenze centrifughe che possono portare fino a una
situazione di anarchia, e viceversa, se prevale il centralismo,
tendenze verso forme di governo dispotico. Queste strutture
politico-istituzionali di lunga durata si formano sotto la
'monarchia primitiva' nella fase preindustriale. L'equilibrio tra
centro e periferia è infatti legato al rapporto che si
stabilisce tra la monarchia e l'aristocrazia. Se l'aristocrazia non
ha, o perde, una base di potere autonomo, saranno forti le spinte
verso un centralismo dispotico che ostacolerà la formazione
di una società civile autonoma rispetto allo Stato.
È questo il caso della Russia, dove il dispotismo degli zar
non ha incontrato limiti di natura religiosa, data la ridotta
autonomia della Chiesa ortodossa, e ha potuto praticare una politica
di sradicamento territoriale dell'aristocrazia terriera,
trasformandola in un'aristocrazia di servizio in campo militare e
amministrativo. In Giappone, invece, l'isolamento del paese ha
favorito il mantenimento per lungo tempo di un'aristocrazia locale
con ampi margini di autonomia; quando venne restaurata la monarchia
centrale, l'aristocrazia perse la sua autonomia economica, legata al
possesso della terra, e venne trasformata anche in questo caso in
un'aristocrazia di servizio. A differenza di quel che accadde in
Russia, essa mantenne però ampi margini di autonomia sul
terreno dell'amministrazione locale, limitando in tal modo gli
effetti del dispotismo centrale.In contrasto con queste esperienze,
il feudalesimo dell'Europa occidentale si distingue per la sua forma
contrattuale, non riscontrabile appieno altrove. Ciò tende a
rafforzare l'aristocrazia dandole una base di potere autonomo, e
favorisce in tal modo l'evoluzione verso lo Standestaat (Stato dei
ceti), con la formazione di organi rappresentativi che concorrono
con l'autorità regia nella determinazione di decisioni
politiche rilevanti di natura militare o amministrativa. Tuttavia,
nell'ambito di questo quadro generale, si manifestano differenze,
ben evidenziate dal confronto tra il caso tedesco e quello inglese.
In Germania il raggiungimento dell'unità politica fu
ostacolato dai rapporti tra Chiesa e Impero e dall'organizzazione
feudale. Solo in seguito alla Riforma, e sfruttando le esigenze di
accentramento favorite da motivi di carattere militare,
l'unificazione potrà essere portata a termine. Tuttavia, una
volta ridimensionati i suoi organi rappresentativi, fu lasciata
all'aristocrazia un'ampia autonomia a livello locale e nel godimento
dei suoi possessi fondiari. Viceversa in Inghilterra la posizione
geopolitica rese possibile la formazione precoce di un'unità
politica senza che fosse necessario sradicare le istituzioni di
origine feudale che limitavano il potere della monarchia. Si
stabilì così un equilibrio tra monarchia e
aristocrazia, la quale conservò un'autonoma base di potere
legata al possesso della terra. Questa situazione non solo
facilitò uno sviluppo costituzionale in direzione del sistema
rappresentativo, ma, limitando il ruolo degli apparati
amministrativi, favorì anche la dinamica capitalistica. Con
questo tipo di analisi comparata, dunque, Bendix fornisce una base
per inquadrare le origini di diverse tradizioni istituzionali, che
condizionano il grado di apertura del sistema politico di fronte ai
problemi sociali e politici posti dall'industrializzazione. Ma egli
fa anche intravedere, sulla scia di Weber, in che modo lo sviluppo
del capitalismo sia influenzato da fattori politico-istituzionali:
un forte controllo politico da parte dello Stato limita l'autonomia
della società civile e lo sviluppo economico. Si determina
così un ritardo nel processo di industrializzazione che -
come abbiamo visto con Gerschenkron - deve poi essere colmato con
specifici interventi istituzionali e può portare a esiti
politici non democratici, come i regimi fascisti o quelli comunisti.
L'approccio di Bendix mette dunque a fuoco l'influenza dei fattori
politico-istituzionali sul processo di modernizzazione. Questa
prospettiva viene di solito contrapposta a quella di un altro autore
che ha particolarmente influenzato il filone di studi che stiamo
esaminando: Barrington Moore (v., 1966). In realtà le due
prospettive, più che contrapporsi, si integrano, anche se
sono state sviluppate indipendentemente l'una dall'altra. Mentre
Bendix, richiamandosi a Weber e Tocqueville, rivendica con forza
l'autonomia della dimensione politico-istituzionale, Moore
sottolinea i vincoli che alla politica vengono dalla struttura di
classe preindustriale. L'insistenza sui rapporti di classe e sul
ruolo della borghesia nel processo di modernizzazione richiama
ovviamente l'analisi di Marx. Tuttavia quest'influenza è
mediata dalla particolare attenzione che Moore dedica al peso e al
ruolo delle classi agrarie (aristocrazia e contadini) nel
condizionare i caratteri e l'azione della borghesia nei diversi
contesti. In che modo dunque la struttura di classe e le coalizioni
tra i vari gruppi sociali influenzano il processo di
modernizzazione? Moore individua tre strade che portano al mondo
moderno: la prima è quella delle rivoluzioni borghesi, in cui
il processo di industrializzazione si è accompagnato al
consolidamento della democrazia politica, come in Inghilterra, negli
Stati Uniti e in Francia; la seconda è quella della
rivoluzione dall'alto, in cui il processo di industrializzazione
viene sostenuto dallo Stato e passa attraverso regimi di tipo
fascista, come in Germania, Italia e Giappone; la terza infine
è quella in cui l'industrializzazione è avviata dalle
rivoluzioni comuniste, come in Russia e in Cina. In tutti i casi
è decisivo il grado di forza della borghesia nella fase di
avvio del processo di modernizzazione; ma questo fattore dipende, a
sua volta, dall'influenza dell'aristocrazia e dalla sua
capacità di mobilitare i contadini a difesa dell'ordine
tradizionale. D'altra parte il ruolo dell'aristocrazia chiama in
causa proprio quegli elementi di tradizione politico-istituzionale
su cui ha attirato maggiormente l'attenzione Bendix, ma che sono
tenuti presenti anche da Moore. In regimi fortemente accentrati, in
cui l'aristocrazia non ha una base di potere autonomo a livello
locale, l'autonomia della società civile e lo sviluppo
economico sono ostacolati, e con essi la stessa formazione della
borghesia.
Proprio in relazione a quest'ultimo elemento si può
comprendere il caso inglese, che costituisce il modello della via
democratica alla modernizzazione. Qui in effetti si è
determinato un equilibrio tra il potere centralistico della
monarchia e il potere locale dell'aristocrazia, dovuto alle sue
proprietà terriere. In Inghilterra ciò favorì
la trasformazione in senso borghese dell'aristocrazia, la
commercializzazione dell'agricoltura e la crescita della borghesia.
L'aristocrazia non oppose quindi forti ostacoli a un processo di
modernizzazione basato sull'industrializzazione dal basso e sulla
democrazia politica. Anche negli altri due casi della via
democratica alla modernizzazione queste resistenze per motivi
diversi non ci furono o vennero superate: negli Stati Uniti
perché non esisteva un'aristocrazia originaria, in Francia
perché il peso dell'aristocrazia era stato sostanzialmente
ridimensionato dalla Rivoluzione. Ne discende un'importante
conseguenza comune: in tutti e tre questi paesi non si davano le
possibilità di opporsi alle domande politiche dei nuovi
gruppi sociali, mobilitati dal processo di industrializzazione, con
soluzioni autoritarie basate su una coalizione tra aristocrazia,
borghesia e contadini.
La via 'capitalista e reazionaria' si contrappone alla precedente
perché la borghesia è più debole, mentre
più forti sono le resistenze al processo di modernizzazione
provenienti da un'aristocrazia ancora potente e legata alla
monarchia. In questo caso, come ha messo in rilievo Gerschenkron, il
processo di industrializzazione è avviato dall'alto, con un
ruolo prevalente dello Stato, poiché esso appare a un certo
punto inevitabile per non soccombere nella competizione
internazionale. Il processo si sviluppa inoltre in un contesto
politico caratterizzato da impulsi molto deboli in direzione del
sistema rappresentativo e della democrazia. Di fronte alle
conseguenze sociali innescate dall'industrializzazione, e alle forti
tensioni politiche che ne discendono, si presentano inoltre
condizioni sociali più favorevoli a soluzioni di tipo
fascista, basate su coalizioni tra aristocrazia, borghesia e
contadini, con il sostegno della burocrazia, dei militari e della
monarchia. Nonostante una coalizione di questo tipo sia stata
tentata anche in Russia, la rivoluzione comunista è stata
favorita in quel caso, come anche in quello cinese, da una debolezza
ancora maggiore della borghesia e dalla forte influenza di un
centralismo dispotico che si avvaleva di una consistente
aristocrazia di servizio. In questo quadro le spinte verso uno
sviluppo di tipo capitalistico e poi verso l'industrializzazione
sono state bloccate. Le classi urbane non erano in grado di
partecipare efficacemente - neanche in forma subalterna, come
avvenne in Germania, Italia, Giappone - al processo di
modernizzazione, nonostante i tentativi effettuati in questa
direzione. Restava una vasta massa contadina che, soggetta alle
tensioni dovute alla progressiva disgregazione delle strutture
sociali tradizionali, sostenne lo sforzo rivoluzionario di ristrette
élites intellettuali. Furono i regimi comunisti ad avviare,
come in Cina, o a consolidare, come in Russia, il processo di
industrializzazione.
Nel complesso gli studi che abbiamo richiamato contribuiscono a
tratteggiare un quadro più articolato e complesso della
modernizzazione 'classica' delle società-Stato europee e
degli Stati Uniti, ma anche di alcuni grandi paesi asiatici, come la
Cina e il Giappone. Questa tradizione di analisi sarà inoltre
arricchita da altri importanti lavori comparati sulla formazione
dello Stato nel contesto europeo (v. Tilly, 1975; v. Rokkan, 1975).
Possiamo sintetizzare le conseguenze che ne discendono per il modo
di concepire il processo di modernizzazione nei seguenti punti.
1. Non c'è un percorso unico, lineare e necessario che porti
alla modernizzazione: la situazione di partenza, il percorso, gli
esiti del processo sono differenziati. Ciò non porta
però ad escludere la possibilità di un approccio
sociologico optando per un orientamento storicistico; è
invece possibile, attraverso l'analisi comparata, delineare dei tipi
ideali in senso weberiano che consentano di collegare teoria e
ricerca e di formulare delle ipotesi causali.
2. Il percorso verso la modernizzazione è influenzato da
fattori esogeni e da eventi contingenti come le guerre; questi
fattori sono di natura non solo economica, ma anche politica e
culturale. In particolare i paesi 'primi arrivati' tendono a
condizionare l'esperienza di quelli che si muovono in ritardo,
creando stimoli, per esempio attraverso la "mobilitazione
intellettuale" di cui parla Bendix, ma anche vincoli e
condizionamenti legati a rapporti di potere economico, politico e
militare.
3. Il processo di modernizzazione è influenzato in modo
decisivo dal tipo di risposta alle sfide esterne che i fattori
endogeni consentono. Questi ultimi non sono comprensibili nei
termini di un concetto generico di società tradizionale. La
società preindustriale è caratterizzata da differenti
combinazioni di elementi culturali e istituzionali sia tradizionali
che moderni; l'influenza di questi elementi va valutata individuando
i gruppi sociali concreti, le loro alleanze e i loro conflitti,
cioè prestando attenzione ai soggetti storici della
modernizzazione.
5. LE TENDENZE RECENTI
Esauritosi il primo filone di studi sui paesi del Terzo Mondo, e
conclusasi la stagione dei grandi affreschi di sociologia storica
comparata sulle società più sviluppate, il concetto di
modernizzazione è stato meno direttamente utilizzato nella
teoria e nella ricerca sociale. Tuttavia è possibile mostrare
come i problemi relativi al cambiamento dei paesi arretrati siano
stati di fatto affrontati con un approccio influenzato dalle
critiche ai primi studi, e anche dai risultati della sociologia
storica comparata. Vi è stata insomma una pratica di ricerca
sui problemi della modernizzazione che, pur non utilizzando
esplicitamente questo concetto, ha interpretato il processo di
cambiamento in modo più aperto, più differenziato e
più orientato a un'analisi storico-comparata.
Negli anni settanta, e ancor più nel decennio successivo, il
quadro delle esperienze di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo si
è ulteriormente arricchito e differenziato. Le
difficoltà, per molti dei nuovi paesi, hanno continuato a
sussistere e, in alcuni casi (specie nel continente africano), si
sono addirittura aggravate. Ma in altri contesti, sia all'interno
dell'America Latina che nell'Est asiatico, si sono anche verificati
processi rilevanti di sviluppo economico (v. Gereffi e Wyman, 1990).
Questa situazione ha orientato la ricerca in due direzioni.
Anzitutto ha fatto maturare una crescente consapevolezza dei limiti
sia della prima teoria della modernizzazione che di quella della
dipendenza. Gli studiosi di entrambi questi approcci tendevano
infatti a presentare la realtà dei paesi più arretrati
in termini sostanzialmente omogenei, anche se gli uni formulavano
un'ipotesi ottimistica circa le possibilità di sviluppo e gli
altri invece condividevano una prospettiva molto pessimistica.
Nessuna delle due teorie appariva dunque in grado di render conto
della crescente differenziazione dei processi di cambiamento. In
secondo luogo si è fatta strada l'idea che per comprendere
meglio i fenomeni di dinamismo, di stagnazione o di regressione sia
necessario servirsi di comparazioni tra un numero limitato di casi.
Molti studi hanno quindi messo a confronto i paesi dell'Est
asiatico, mentre altri si sono concentrati su quelli dell'America
Latina, e altri ancora su paesi dei diversi contesti. Ha preso
così forma un approccio che è stato definito 'nuova
political economy comparata' (v. Evans e Stephens, 1988).
Se negli studi sulla modernizzazione l'attenzione era
prevalentemente centrata sulla dimensione culturale e nell'approccio
della dipendenza sulla dimensione economica, nella political economy
ci si concentra invece sul ruolo dello Stato. Naturalmente questo
non significa che i due orientamenti precedenti non riconoscessero
la rilevanza di questo fattore, ma nel caso dei teorici della
modernizzazione e dello sviluppo politico, e nell'analisi dello
stesso Rostow, il ruolo dello Stato era prevalentemente confinato
alla costruzione delle precondizioni per un efficace funzionamento
del mercato. Viceversa i teorici della dipendenza propugnavano un
più deciso intervento dello Stato contro i processi di
espropriazione subiti dalle società periferiche, ma
consideravano tale intervento difficile da realizzare, proprio per
la debolezza intrinseca delle istituzioni statali rispetto agli
interessi economici interni e internazionali. Un secondo aspetto che
distingue la prospettiva della political economy riguarda i rapporti
con l'esterno. Questi non sono visti solo come stimoli, di tipo
culturale o economico, che promuovono lo sviluppo, come nella teoria
della modernizzazione, e neanche esclusivamente come vincoli e
condizioni di espropriazione di risorse, come nell'approccio della
dipendenza. I fattori esterni - tra i quali viene annoverata anche
la dimensione geopolitica - sono considerati come opportunità
e insieme come vincoli. La possibilità di far prevalere gli
aspetti più favorevoli allo sviluppo, o di trasformare i
vincoli in risorse, dipende dal ruolo esercitato dallo Stato, dalla
sua capacità di controllare e 'negoziare' i legami
internazionali. È su questa base che viene quindi spiegato il
successo delle strategie di industrializzazione dei paesi asiatici
(v. Deyo, 1987; v. Camarda, 1992) rispetto a quelli
latino-americani, e anche le differenze tra questi (v. Gereffi e
Wyman, 1990).
Il ruolo dello Stato nell'assicurare il successo a una strategia di
industrializzazione, e più in generale nel far funzionare
efficacemente il mercato, era già stato messo in evidenza da
Gerschenkron a proposito della prima fase di crescita dell'industria
nei paesi occidentali alla fine dell'Ottocento. Ma nella prospettiva
della political economy si evita qualsiasi implicazione
funzionalista, che faccia discendere dalla rilevanza dello Stato
l'idea che il suo ruolo di supporto allo sviluppo economico
sarà inevitabilmente svolto in modi efficaci (v. Rueschemeyer
e Evans, 1985). Il comportamento dello Stato è variabile e
storicamente contingente. Da questo punto di vista, per esempio,
sono da tenere presenti i gravi problemi che si manifestano nel
continente africano (v. Bates, 1982). Quali sono allora i fattori
che influenzano l'efficacia dell'intervento statale? Due sono le
condizioni sulle quali si può richiamare l'attenzione. La
prima è la presenza di strutture burocratiche sviluppate ed
efficienti, quindi di una buona macchina statale, indispensabile per
poter contrattare con gli interessi esterni, per indirizzare e
guidare lo sviluppo industriale all'interno, e per tenere sotto
controllo gli interessi di settori particolari. Essenziale è
poi l'esistenza di una leadership politica orientata allo sviluppo,
largamente indipendente dagli interessi economici e sociali presenti
nella società. L'isolamento istituzionale delle élites
statali dagli interessi privati è considerato particolarmente
importante affinché esse possano giocare un ruolo di
indirizzo strategico dello sviluppo, senza subire i condizionamenti
dei diversi settori. Questi ultimi tendono quindi o a essere
cooptati in forma dipendente nel processo di decisione, come avviene
spesso agli imprenditori, oppure a essere esclusi, come accade di
solito alla classe operaia e alle classi popolari.
Nel complesso la political economy comparata si presenta come una
'nuova sintesi' caratterizzata da una serie di elementi che la
distinguono dagli approcci precedenti. Anzitutto i fattori
internazionali sono per essa importanti, ma le loro conseguenze
variano nei diversi contesti (per esempio l'influenza americana,
legata a problemi geopolitici nell'ambito del confronto con l'URSS,
ha facilitato lo sviluppo di alcuni paesi asiatici, mentre ha avuto
un ruolo meno favorevole in America Latina). Inoltre le conseguenze
dei fattori esogeni non sono predeterminate, ma sono mediate dalla
capacità strategica dello Stato. Questa a sua volta dipende:
a) dal formarsi di coalizioni di interessi economici e sociali che
favoriscono o meno l'autonomia delle élites politiche; b) da
tradizioni culturali che garantiscono la legittimazione della
leadership; c) da tradizioni istituzionali che influiscono
sull'efficienza della macchina statale. Fattori culturali e
istituzionali condizionano dunque il processo politico, ma non
è possibile predeterminarne gli esiti e le conseguenze. Su di
essi incide autonomamente l'interazione che si stabilisce tra gli
attori sociali e politici, sulla base dei condizionamenti interni e
internazionali. Dalla political economy comparata viene dunque
un'importante conferma dell'idea, già maturata nell'ambito
della sociologia storica, della fondamentale varietà dei
processi di modernizzazione sul piano storico-empirico. Viene
però anche l'indicazione che i casi in cui il processo di
industrializzazione consegue i risultati migliori - cioè
quelli dei paesi asiatici - sembrano associati a strutture statali
più efficaci, ma anche più autoritarie, che si muovono
in un contesto di economia di mercato aperta di tipo capitalistico,
con un orientamento ideologico e di politica economica dirigista.
Resta da vedere se e in che misura questa indicazione verrà
confermata dall'esperienza di altri paesi, così come non
è per il momento possibile valutare se, nei casi in cui
l'industrializzazione ha avuto successo, ci saranno o meno pressioni
e sviluppi significativi verso un rafforzamento della democrazia
politica e verso la crescita di interventi in campo sociale (Welfare
State) o persisteranno modelli autoritari, con orientamenti
dirigisti sul piano economico e con uno Stato sociale molto
ridotto.Interrogativi di questo genere riconducono evidentemente a
un tipo di problematica che era tipico della prima teoria della
modernizzazione. In quella prospettiva, infatti, un certo grado di
variabilità dei percorsi di sviluppo era previsto, ma vi era
anche l'ipotesi forte di una progressiva convergenza istituzionale
indotta dal processo di industrializzazione. La political economy,
con il suo approccio storico-empirico, non si impegna su questo
terreno, anche se segnala la varietà dei processi in corso.
Tuttavia sono da richiamare alcuni tentativi recenti di riaffrontare
la questione in termini teorici, rifacendosi all'impostazione di
Weber e alla sua analisi comparata delle diverse civiltà.
Il primo di questi tentativi nasce proprio da un'esperienza di
ricerca sul 'capitalismo asiatico', cioè sui paesi asiatici
di nuova industrializzazione e anche sul Giappone (v. Hamilton,
1994). Il punto di partenza di questa riflessione è
costituito dall'individuazione di alcune caratteristiche specifiche
dell'industrializzazione di questi paesi, che non riguardano
soltanto il ruolo dello Stato nell'economia, ma anche le forme di
organizzazione dell'attività produttiva e i rapporti di
lavoro. Economisti industriali e sociologi dell'economia hanno messo
in evidenza alcuni aspetti che, pur variando da paese a paese, sono
tipici del capitalismo asiatico (v. Dore, 1987; v. Hamilton e
Biggart, 1988). Per quel che riguarda l'organizzazione produttiva,
questi tratti distintivi consistono nella diffusione dei networks,
cioè nelle reti di imprese. Nel capitalismo occidentale
l'impresa ha un'identità forte, una struttura organizzativa
dai confini ben delimitati e rinforzati anche dalle norme
giuridiche. Il capitalismo asiatico è invece caratterizzato
da un'impresa debole inserita in networks forti, basati su relazioni
che non sono solo finanziarie o giuridiche, ma comprendono
soprattutto legami di tipo personale, familiare, comunitario.
D'altro canto, anche sul piano del lavoro, i rapporti di tipo
contrattuale e impersonale più tipici dell'esperienza
occidentale lasciano il passo a forme di identificazione comunitaria
nell'impresa, con modelli di sindacato (là dove è
presente) di tipo aziendale. Riflettendo su queste esperienze di
industrializzazione, e anche sui recenti sviluppi in Cina, Gary
Hamilton è giunto alla conclusione che ci si trovi di fronte
a specificità della sfera istituzionale economica, oltre che
di quella politica, caratterizzate dalle particolari forme di
intervento dello Stato prima ricordate. A suo avviso tali
specificità istituzionali pongono due problemi. Anzitutto,
non possono essere spiegate soltanto in una prospettiva di political
economy, ma chiamano in causa il concetto di civiltà. In
secondo luogo, un collegamento più stretto tra processo di
modernizzazione e tipo di civiltà in cui esso prende forma
porta a negare l'ipotesi di una convergenza istituzionale dominata
dal modello occidentale.
Per quel che riguarda il primo punto, viene messo in evidenza come
le istituzioni economiche e politiche, e i rapporti che si
stabiliscono tra loro, non possono essere compresi esclusivamente in
termini di variabili che mirano a definire l'autonomia e la
capacità strategica dello Stato. Vi sono dei caratteri
più generali che determinano i modelli di legittimazione del
potere, sia politico che economico. Essi rimandano ad alcuni tratti
culturali diffusi in una vasta area, rinviano a visioni del mondo
che hanno una matrice originaria nell'influenza delle grandi
religioni. In particolare, per il capitalismo asiatico è
importante il ruolo del confucianesimo. La sfera di influenza di una
grande religione tende a delimitare lo spazio di una civiltà,
intesa come un insieme di società che condividono alcuni
tratti culturali e istituzionali. In questa prospettiva è
dunque necessario richiamarsi all'analisi comparata delle
civiltà avviata da Max Weber, utilizzando le visioni del
mondo che sono alla base delle grandi civiltà, nel senso
proposto dal sociologo tedesco. Le immagini del mondo, i
principî di valore, orientano l'azione ma non ne
predeterminano l'esito. Stabiliscono delle 'traiettorie di
sviluppo'; forniscono quadri di riferimento nell'ambito dei quali si
definiscono i diversi interessi materiali e ideali che attraverso i
loro conflitti determinano poi lo sviluppo storico. In questa
prospettiva è da rilevare - come aveva già intuito
Weber - che il confucianesimo costituiva un quadro di riferimento
culturale tale da ostacolare lo sviluppo capitalistico, ma che
poteva anche fornire delle risorse rilevanti per adattarvisi.
Hamilton sottolinea, da questo punto di vista, gli ostacoli
frapposti alla piena affermazione dell'autonomia individuale, in
campo sia economico che politico, e la forte insistenza culturale
sugli obblighi di appartenenza alla rete familiare, parentale,
comunitaria, e anche a quella politica più ampia. I rapporti
di autorità sono determinati in base a una visione armonica
del mondo in cui la posizione dell'individuo è definita dal
contributo atteso al mantenimento di tale integrazione. È in
questo quadro che si possono dunque meglio comprendere sia le forme
di legittimazione del potere politico, sia le caratteristiche
dell'organizzazione produttiva basata sui networks e su rapporti di
lavoro a forte impronta comunitaria. Tutti questi elementi
'tradizionali', e il minor grado di differenziazione sociale a essi
associato, nella visione originaria dei teorici della
modernizzazione avrebbero dovuto costituire un ostacolo allo
sviluppo. Paradossalmente, invece, sono diventati una risorsa
cruciale per il dinamismo economico, che addirittura suscita
l'attenzione crescente del mondo occidentale e vi stimola tentativi
di imitazione.Ma l'esperienza asiatica offre anche lo spunto per
andare oltre e per porsi il problema dei rapporti tra civiltà
diverse. Essa porta a respingere l'idea che la diffusione del
capitalismo fuori dall'Occidente e i crescenti processi di
globalizzazione dell'economia prefigurino l'avvento di un'unica
civiltà mondiale. Lo sviluppo di un'economia globale non si
accompagna a una maggiore uniformità istituzionale, ma
piuttosto alla differenziazione dei processi di modernizzazione,
alimentata dai quadri di riferimento delle diverse civiltà,
che offrono risorse istituzionali diverse per adattarsi alle sfide
dell'economia mondiale.
A queste stesse conclusioni arriva, per altre strade, anche Samuel
Eisenstadt (v., 1980), dopo un lungo percorso intellettuale che lo
ha visto tra i protagonisti dei primi sviluppi della teoria della
modernizzazione. Dalle critiche nei confronti di quella esperienza,
e dell'approccio struttural-funzionalista che la orientava, anche
Eisenstadt ha tratto da tempo la convinzione che sia necessario non
rinunciare al concetto di modernizzazione, ma ridefinirlo
richiamandosi alle intuizioni e alle analisi di Weber sulle
dinamiche interne delle diverse civiltà. In questa
prospettiva egli si è quindi impegnato in un programma di
ricerca tendente a ricostruire le origini della grande
varietà di risposte simboliche e istituzionali con le quali
le diverse società hanno reagito alla modernità
occidentale. Anche per Eisenstadt le prospettive di studio della
modernizzazione si legano all'indagine comparata sulle
civiltà. Al centro del suo approccio vi è l'idea delle
élites intellettuali e politiche come imprenditori
istituzionali che si confrontano e si scontrano per ridefinire
l'organizzazione di una determinata società sulla base dei
quadri di riferimento culturale offerti dalle diverse
civiltà. Queste offrono diversi modi per interpretare
l'ordine sociale, sulla base di visioni del mondo legate al rapporto
tra realtà umana e realtà trascendente, che si sono
formate con le grandi religioni. Ci sono dunque spazi diversi per le
'eterodossie', ambiti di interpretazione e ridefinizione culturale
che possono essere sfruttati dalle élites per formare
coalizioni, per alimentare i processi di mobilitazione e di
protesta, e quindi per modellare le varie sfere istituzionali e il
cambiamento sociale di fronte alle sfide esterne e ai problemi
interni.
L'impegno di ricerca di Eisenstadt, sulla scia di Weber, si è
però concentrato prevalentemente sul passato, alla ricerca
dei quadri di riferimento originari delle diverse civiltà.
Resta pertanto aperto il problema di collegare più
direttamente i processi di modernizzazione contemporanei ai
caratteri specifici delle diverse civiltà. È presto
per dire se questa prospettiva verrà percorsa in misura
significativa in futuro, come i contribuiti di Hamilton e di
Eisenstadt suggeriscono. Certo è che, nonostante i successi
conseguiti dalla political economy comparata - e anzi forse proprio
per effetto di tali risultati - si manifesta l'esigenza di collegare
l'ormai riconosciuta varietà dei processi di modernizzazione
a variabili che non siano soltanto politico-istituzionali ma anche
culturali. Ronald Dore (v., 1990) ha messo opportunamente in
evidenza come questo compito sia oggi particolarmente importante, ma
non si può perseguirlo limitandosi a cercare delle consonanze
tra le idee religiose analizzate in chiave comparata e certi tipi di
comportamento economico. Occorre piuttosto indagare specificamente
con un approccio storico-empirico, paziente e alieno dalle
tentazioni positivistiche delle generalizzazioni forti, su come
aspetti legati per esempio alla legittimazione dell'autorità,
alla fiducia impersonale, all'impegno nel lavoro, all'interesse per
la tecnologia, siano più o meno favoriti dagli orientamenti
culturali. È in questa chiave che si può comprendere
meglio il successo dei paesi asiatici, andando al di là dei
risultati della political economy. L'esperienza di questi paesi ha
riportato l'attenzione sull'importanza di un clima favorevole al
cambiamento su cui aveva insistito Gerschenkron, un clima alimentato
da una forte sensibilità culturale all'arretratezza rispetto
ad altre società e culture, e quindi da una 'voglia di
sviluppo' che porta a legittimare lo sforzo delle élites e ad
assecondarlo. Tutto ciò spinge dunque a riconsiderare le
dimensioni culturali e motivazionali, ma significativi stimoli nella
stessa direzione sembrano venire anche dalle esigenze di
interpretazione del difficile cambiamento nei paesi dell'Europa
orientale dopo il crollo dei regimi comunisti (v. Sztompka, 1993; v.
Offe, 1995). In questo senso si può dunque concludere notando
come vi si sia una ripresa di interesse per quella dimensione
culturale che era al centro dei primi studi, e che aveva finito per
essere indebitamente travolta dalle critiche al modo in cui veniva
trattata in quei lavori. Oggi tale dimensione viene a essere
riconsiderata come elemento necessario, anche se non sufficiente,
per una visione più matura, più aperta e
plurifattoriale della modernizzazione e dei suoi esiti.