Roberto Michels

 

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di Corrado Malandrino

Nacque a Colonia il 9 genn. 1876 da Julius e Anna Schnitzler, i quali ebbero anche una figlia di nome Ella.

La famiglia Michels apparteneva alla cerchia alto borghese di imprenditori tessili di Colonia, con parentele internazionali, e faceva parte del patriziato politico cattolico renano. Il nonno paterno Peter, importante industriale e uomo politico, aveva sposato Constance van Halen, discendente di don Juan van Halen de Perecampos, generale e uomo politico spagnolo che ebbe un ruolo anche nella storia del Belgio nella prima metà dell’Ottocento. La famiglia materna, di confessione protestante e di tradizioni bancarie e industriali, aveva ascendenze francesi e ugonotte attraverso la nonna del M., Clara Schmidt. Il nonno materno, Robert, dopo aver ricoperto la carica di sottoprefetto di Colonia abbandonò la carriera politica per consacrarsi alla musica, fondando il conservatorio di Colonia ed entrando in amicizia coi maggiori compositori dell’epoca, da Ch. Gounod a J. Brahms a G. Verdi.

Il padre Julius diede inopinatamente al figlio il nome del nonno materno e fece altre scelte che si distaccarono dalla tradizione familiare, dedicandosi soprattutto all’attività bancaria e assicurativa in Prussia, prendendo una moglie di confessione protestante e optando per una fede politica filoprussiana contrastante con l’approccio tradizionalmente cattolico e austriacante dei Michels.

Trasferito in tenera età lontano dalla città natale, il M. fu istruito dalla madre in casa fino all’età ginnasiale, per frequentare poi, dal 1885, il Collège royal français di Berlino, dal quale mutuò una predilezione per la storia e la cultura francesi del XVII e XVIII secolo. Fu iscritto quindi al Gymnasium Grossherzog Karl Friedrich di Eisenach, dove conseguì la maturità nel 1894. Subito dopo si arruolò (1895) nel reggimento «Grossherzog von Sachsen» di stanza a Weimar e a Jena. Frequentò per qualche tempo anche la scuola di guerra di Hannover.

Si trattò nel complesso di un’esperienza infelice, dalla quale il M. uscì nel 1896 con posizioni anticonformiste e antiautoritarie, disgustato per sua stessa ammissione dai maltrattamenti ai soldati e per le usanze inumane regolanti il codice di vita militare.

In vari scritti il M. fece trasparire la propria appassionata avversione non solo politica e culturale, ma anche psicologica, contro le istituzioni e la disciplina militari prussiane, baluardo invincibile a suo avviso del potere degli Hohenzollern e dell’arretratezza istituzionale della Germania guglielmina.

Deciso a perseguire la carriera universitaria, dopo aver frequentato corsi in diverse sedi (in particolare alla Sorbona di Parigi, a Monaco, a Lipsia e infine a Halle), venendo in contatto con maestri come L. Brentano, K. Lamprecht, G. Droysen e J. Conrad, il M. conseguì nel 1900 il dottorato in filosofia, storia ed economia politica presso l’Università di Halle, discutendo una tesi sull’invasione, nel 1672, di Luigi XIV in Olanda. Nello stesso anno sposò, sempre a Halle, Gisella Lindner, figlia di Theodor, professore in quell’ateneo e fra i maggiori storici coevi. Dal matrimonio nacquero cinque figli.

Gisella, oltre che fedele e appassionata compagna, fu per il M. indispensabile collaboratrice scientifica; attivista socialista, sindacale e femminista a Marburg e a Torino, fu autrice di ricerche originali sulla disoccupazione e sul movimento cooperativo e municipalista tedesco e italiano.

Fra queste si rammentino: Geschichte der modernen Gemeindebetriebe in Italien (Berlin 1909); Das Problem der Arbeitslosigkeit und ihre Bekämpfung durch die deutschen freien Gewerkschaften (con il M., Tübingen 1910); Die italienische Mutterschaftsversicherung und ihre Bedeutung (ibid. 1914).

Stando al carteggio col suocero, dopo un lungo soggiorno torinese tra il 1900 e il 1901 – durante il quale il M. prese contatto con il laboratorio di economia politica fondato da S. Cognetti de Martiis e proseguì le ricerche finalizzate alla abilitation (passaggio imprescindibile per la carriera accademica in Germania) sulla Francia di Luigi XIV e sulle relazioni diplomatiche e militari tra le corti di Berlino e Torino alla fine del XVII secolo –, la coppia rientrò in Germania, stabilendo la propria residenza a Marburgo, la cui Philipps-Universität era ritenuta da Lindner di orientamento più liberale per l’esistenza dell’indirizzo di studi storico-politici e filosofici di H. Cohen e P. Natorp. Tuttavia, contrariamente alle aspettative, il soggiorno a Marburgo protrattosi dal 1901 al 1907 – inframmezzato da molti viaggi a Torino durante i quali il M. consolidò i suoi rapporti con L. Einaudi, A. Loria, G. Mosca, collaborando a riviste di avanguardia come La Riforma sociale – servì soprattutto ad avvicinare Gisella e il M. alle posizioni socialiste.

Iscrittosi al Partito socialista italiano (PSI) già nel 1901, a riprova di un impegno militante sempre più forte sia in Germania sia in Italia, il M. fu delegato al congresso socialdemocratico tedesco di Dresda del 1903 e rappresentò la Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD) al congresso nazionale socialista italiano di Bologna nel 1904. Di conseguenza si allontanò definitivamente per il M., nella Germania in cui vigeva dal 1898 una legge discriminatoria nei confronti dei socialdemocratici, ogni prospettiva accademica.

La sensibilizzazione alla cultura anticonformista, femminista e alla questione sociale (e attraverso questa agli studi sociologici) si fece strada pertanto nel M. a far tempo dai primi anni del nuovo secolo e fu anche causa della rottura dei rapporti col padre Julius, conservatore irremovibile che lo privò di ogni aiuto economico.

Il M. militò con accesa passione, fra il 1902 e il 1907, nella socialdemocrazia tedesca, nel Partito socialista italiano e fu attivo anche all’interno dell’Internazionale socialista, partecipando all’importante congresso di Amsterdam del 1904. Ma, a partire da quello stesso anno, con la pubblicazione dell’articolo sulle Incoerenze internazionali del socialismo apparso nella Riforma sociale (s. 2, X [1904], 8, pp. 644-652), e con maggior evidenza dopo il 1906 – deluso dai limiti, revisionisti, nazionalisti e opportunisti della socialdemocrazia – si produsse in una critica sempre più aspra e si avvicinò alle posizioni del sindacalismo rivoluzionario stabilendo contatti in Italia con A. Labriola ed E. Leone e in Francia con G. Sorel e H. Lagardelle.

Nel 1907, preso atto dell’impossibilità di proseguire in Germania la carriera accademica e spentosi quasi del tutto il fervore socialista (anche se risulta iscritto al partito fino al 1909), il M. riparò da Marburgo a Torino, dove il rapporto con Loria gli aprì nuove prospettive. Qui maturò sul finire del primo decennio del Novecento il distacco dall’esperienza socialista, favorito dall’adesione alle teorie elitiste elaborate da Mosca e V. Pareto, nonché dall’avvicinamento all’economia storico-sociale di W. Sombart e alla sociologia weberiana della burocrazia.

Sulla scorta di tali premesse, pubblicò in varie riviste italiane e tedesche indagini sociografiche sul proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano, sull’uomo economico e la cooperazione, sul marxismo italiano e sulla morale sessuale.

Il complesso di queste suggestioni, insieme con le tesi sul partito politico che il M. iniziò a formulare fin dal 1907 – in parte criticando sulla base della propria esperienza di militante socialista e in parte per impulso delle istanze metodologiche provenienti dalla sociologia di M. Weber – trovarono una forma definitiva in Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie (Leipzig 1911; 1ª ed. italiana, Torino 1912).

Reputata un «classico» della moderna sociologia del partito politico, della teoria della democrazia e della sociologia delle élites, resta a tutt’oggi l’opera michelsiana più complessa e di maggior peso (al punto che il M. fu considerato da alcuni vir unius libri, volendo così sottolineare la differenza di valore scientifico fra questa e le altre sue numerose pubblicazioni). In essa si mostra come all’interno dei moderni partiti politici di massa (anche in quelli che si richiamano agli ideali della democrazia e del socialismo) si sviluppi un’irresistibile tendenza all’oligarchia, che ha le sue radici nelle necessità oggettive dell’organizzazione, nella psicologia dei capi e in quella delle masse. Dall’analisi di questi fattori il M. ricava una teoria generale dei limiti della rappresentanza e della democrazia, riassunta nella cosiddetta «legge ferrea dell’oligarchia», che a suo giudizio non vale soltanto sulla scala ridotta del partito o di qualunque altra organizzazione politica, ma anche, e a maggior ragione, sulla scala più ampia dello Stato, contro qualsiasi metafisica della sovranità popolare. Il M. parte dall’assunto che i partiti rappresentano una delle forme più importanti della democrazia contemporanea, osservando che in essa coesistono tratti democratici e aristocratici. Questo fatto non è casuale, ma dipende da alcune esigenze insopprimibili dell’organizzazione, che si fanno strada allorché un partito si struttura e si organizza per il proprio interesse che non è più quello originario (per esempio, la rivoluzione sociale), cioè «altro» dal partito stesso, ma è un interesse del partito in sé e per sé. In questa fase si genera la tendenza dei capi a organizzarsi e coalizzarsi, forti della loro indispensabilità tecnica, ai fini della loro affermazione di fronte alla generale passività delle masse. Si crea così un’oligarchia – secondo una logica tipicamente weberiana – con interessi ben definiti e divergenti da quelli della massa degli iscritti, tanto che il M. poteva riassumere in termini sillogistici: «Chi dice democrazia dice organizzazione; chi dice organizzazione dice oligarchia; chi dice democrazia dice oligarchia».

Rispetto al problema del mutamento sociale, che nell’elitismo paretiano è espresso nella teoria della «circolazione delle élites», il M. si differenzia introducendo una sua «teoria dell’amalgama», per cui non si dà un vero e proprio ricambio meccanico delle élites al potere, quanto invece, più realisticamente e gradualmente, queste vengono sostituite attraverso un amalgamarsi dei nuovi elementi con i vecchi. Naturalmente non cambia la conclusione in termini di sociologia del potere, che vede pur sempre in atto la concorrenza ideologica e politica delle élites. Di fronte a queste, la grande maggioranza della società resta l’«eterna minorenne», è costretta per una crudele fatalità storica a cedere ogni prerogativa di dominio a una piccola minoranza sorta dal suo seno. La formulazione della «legge ferrea dell’oligarchia» condusse il M. a mettere in discussione con forza i meccanismi formali della democrazia liberale, pur senza inficiare il nucleo del concetto rousseauiano di democrazia diretta.

Sebbene si mettesse sempre più in luce come scienziato politico e sociologo, tanto da meritare nel 1913 la cooptazione da parte di Weber e Sombart nella condirezione dell’importante Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, la posizione accademica del M. restò sempre ancorata all’insegnamento dell’economia politica. Tuttavia, di tale disciplina professò una visione storico-sociale che lo mise in contrasto, per quel che riguardava il proseguimento della carriera in Italia, con i teorici dell’economia «pura» (come M. Pantaleoni e soprattutto U. Ricci, ma per motivo analogo fu criticato anche da Einaudi). Grazie al sostegno di Loria, che invece ne apprezzava l’approccio e la personalità politico-scientifica, il M. fu libero docente di economia politica a Torino dal 1908 fino a quando, a riconoscimento di una solida fama internazionale, non ricevette nel 1913 la chiamata a professore nella stessa disciplina dall’Università di Basilea. Qui insegnò fino al 1928, quando rientrò in Italia come professore di economia corporativa presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Perugia, ove rimase fino al 1936.

Fin dalla guerra di Libia (1911-12), sconfessando le posizioni assunte in precedenza, il M. si convertì a una visione sociale del nazionalismo italiano che illustrò in vari studi politico-demografici, poi riuniti in volume (L’imperialismo italiano, Milano 1914).

Durante la prima guerra mondiale sostenne le ragioni dell’intervento italiano contro l’Austria e s’impegnò in attività patriottiche. Il 24 maggio 1915 inviò agli amici (e a Mosca, che all’epoca era membro del governo italiano in quanto sottosegretario alle Colonie nel ministero Salandra), una lettera circolare a stampa in cui ricordava il suo attaccamento speciale all’Italia, la richiesta di naturalizzazione avviata nel 1913, la sua esclusiva attenzione alla causa irredentistica di Trento e Trieste fin dal 1902. Un patriottismo dimostrato anche con l’assunzione della responsabilità di presidente – lui, legalmente ancora tedesco, in una città piuttosto favorevole alla causa germanica – della sezione di Basilea della Società Dante Alighieri, e con la promozione di numerose iniziative culturali di sostegno alla causa italiana. Tali attestazioni gli valsero la rottura con amici tedeschi, come Weber, e una vera e propria persecuzione morale sui giornali tedeschi, svizzeri e austriaci.

Dopo la guerra, il 3 marzo 1921 con la registrazione del relativo decreto regio si concluse felicemente la lunga e controversa pratica di naturalizzazione italiana avviata fin dal 1913.

A quel punto il M. si adoperò per un ritorno definitivo nella patria d’adozione, che si realizzò – grazie all’intervento di B. Mussolini – solo nel 1928. Proprio il rapporto del M. con Mussolini e il regime fascista rappresenta uno dei capitoli più rilevanti per la biografia michelsiana. L’attenzione del M. nei confronti del fascismo non fu dapprincipio né immediata né intensa, considerato il fatto che visse a Basilea gli anni cruciali della crisi postbellica.

Solo il 3 giugno 1922 egli pubblicò un primo breve articolo in materia, Der Faschismus und Genua, nella Neue Schweizer Zeitung, in cui trattava prevalentemente di temi socioeconomici, mentre un secondo, più meditato e ampio, Der Aufstieg des Faschismus in Italien, apparso a puntate nella Neue Zürcher Zeitung tra il 26 e il 29 dic. 1922, era destinato a informare in modo critico, ma benevolo, l’intelligencija svizzera sui caratteri del movimento che inopinatamente era pervenuto al potere dopo la marcia su Roma, favorito a suo avviso dalla decadenza della classe liberale dominante e dalla sconfitta storica della teoria e della prassi del movimento socialista.

Si può fondatamente presumere che lentamente, e in correlazione con lo svolgimento delle vicende politiche che portarono all’imporsi del fascismo – visto come soggetto politico «giovane» e vitale, salvatore delle sorti della Nazione in preda a tensioni prerivoluzionarie filobolsceviche –, l’assioma del patriottismo nazionale assolse al ruolo di «navetta» per traghettare il M. nell’alveo dapprima del mussolinismo, e quindi del fascismo. Fu infatti il rapporto personale con Mussolini, che il M. incontrò la prima volta durante la Pasqua del 1924, a determinare una conversione piena alla causa fascista.

Tra il 1924 e il 1925 il M. si impegnò in un’approfondita analisi degli aspetti a suo avviso innovativi del fascismo – anche sul piano sociale e soprattutto in rapporto alla corruzione ideale del socialismo – che sfociarono nei due volumi di Sozialismus und Faschismus in Italien (München 1925). Nella vastissima produzione scientifica michelsiana del periodo ebbero rilievo, oltre ai rinnovati studi sul partito politico, quelli sui movimenti sociali, rielaborati nel Corso di sociologia politica (Milano 1927; rist., a cura di A. Campi - L. Varasano, Soveria Mannelli 2009).

Il 6 giugno 1928, dopo il trasferimento all’Università di Perugia, il M. s’iscrisse al Partito nazionale fascista (PNF) e svolse da allora sempre più intensa attività di «ambasciatore» culturale (Di Nucci) in favore del regime all’estero.

La sua adesione al fascismo fu caratterizzata da una visione scientificamente disincantata e politicamente impegnata in un nazional-patriottismo accentuante consapevolmente la dimensione mitologica dell’antica Roma, della latinità comune a vari popoli europei, della missione dell’Italia nel mondo; caratteristiche che emersero nelle due opere di maggior respiro dedicate all’Italia fascista, Der Patriotismus. Prolegomena zu seiner soziologischen Analyse (München-Leipzig 1929; trad. it., Prolegomena sul patriottismo, Firenze 1933) e Italien von heute. Politische und wirtschäftliche Kulturgeschichte von 1860 bis 1930 (Zürich-Leipzig 1930).

Nell’ambito degli studi sulla sociologia del patriottismo, totalmente ignorati dalla critica della seconda metà del Novecento, il M. enunciò una legge storica altrettanto ferrea, a suo dire, di quella dell’oligarchia, la cosiddetta «legge della trasgressione», che regolerebbe la condotta degli Stati e delle nazionalità nelle relazioni internazionali. Una legge la cui elaborazione gli apparve fondata sulle inclinazioni psicologiche dei popoli (la formulazione fu verosimilmente influenzata dalla Völkerpsychologie di W. Wundt e dal Grundriss der Soziologie di L. Gumplowicz), una legge in virtù della quale «il patriottismo etnico degenera e diviene politica di conquista dei trionfatori ubriacati dalla vittoria»: le guerre d’indipendenza, iniziate a suo parere da un popolo in nome del principio di nazionalità, correvano sulla china che portava alla negazione dei medesimi diritti ad altri popoli.

Una breve sistematizzazione degli elementi dottrinali ed etico-religiosi del fascismo fu condotta dal M. nella voce Faszismus, redatta nel 1928 per conto dell’opera enciclopedica Die Religion in Geschichte und Gegenwart.

Tuttavia l’interpretazione michelsiana del fascismo non fu priva di sfaccettature e di sfumature: la reazione all’assassinio di G. Matteotti e all’aspra fase politica apertasi con esso fu di dichiarata preoccupazione. A giudizio del M. la gestione del potere mussoliniano avrebbe dovuto essere purgata da questi aspetti della «prima ora» squadristica: se la violenza poteva considerarsi giustificata, nel biennio successivo alla guerra, dal fine di riportare ordine, condiviso dai ceti intermedi urbani, dagli agrari del Sud e dal grande capitale del Nord, era ormai necessario per il fascismo «dimostrare la propria qualificazione politico-statuale» e passare al compito rivoluzionario di ricostruire un’Italia patriotticamente pacificata dai conflitti di classe.

Teorico e propagandista della ristrutturazione istituzionale e sociale corporativa scaturente dalla Carta del lavoro, il M. riteneva che allo Stato fascista dovevano esser riconosciuti compiti fondamentali in campo economico ed etico.

A tener insieme il quadro istituzionale era la funzione insostituibile del capo carismatico del partito e del governo. Con evidenti cadute apologetiche, egli cercò senza molto successo di formulare la concezione di una «nuova» democrazia che, mantenendo un aspetto strutturale oligarchico-carismatico, grazie al diretto rapporto tra le masse popolari nazionalizzate e il duce si mostrasse in grado di superare i limiti rilevati nella democrazia formale e borghese. La monarchia restava in tale contesto un elemento di continuità, di conservazione, di rappresentanza nazionale.

Negli anni anni Trenta il M. divenne consuocero di Einaudi per il matrimonio della figlia Manon con Mario, primogenito di Einaudi.

La coppia di giovani, preso atto dell’impossibilità per Mario – che nutriva sentimenti antifascisti – di perseguire la carriera universitaria in un’Italia che pretendeva il giuramento di fedeltà al regime da parte dei docenti, emigrò già nel 1933 negli Stati Uniti d’America. Il M., estremamente legato alla figlia, soffrì molto per tale scelta.

Dal 1928 al 1936 il M. ricoprì sempre più intensamente il ruolo di intellettuale organico dell’Italia fascista, sia come cattedratico, sia come «apostolo dell’italianità» all’estero. Non sentendosi del tutto appagato dalla collocazione accademica di economista corporativo a Perugia, chiese più volte inutilmente un trasferimento a Roma come storico delle dottrine economico-politiche. Compì numerose missioni e tenne conferenze, tra l’altro, a Lipsia, Aquisgrana, Colonia, Parigi, Zurigo, Liegi, illustrando aspetti della storia e della cultura italiana, nonché della politica estera ed economica del regime, che difese contro il boicottaggio delle grandi potenze.

Fu durante uno di questi viaggi intensi e laboriosi che il M., soggetto fin dalla gioventù a malattie circolatorie, fu colpito a Bordeaux il 13 febbr. 1936, nel corso di una conferenza, da un grave attacco emorragico che lo condusse in fin di vita. Ripresosi parzialmente, rientrò a Roma in condizioni precarie. Qui morì il 2 maggio 1936; fu sepolto nel cimitero del Verano.

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Robert Michels, in italiano: Roberto Michels (Colonia, 9 gennaio 1876 – Roma, 3 maggio 1936), è stato un sociologo e politologo tedesco naturalizzato italiano che studiò il comportamento politico delle élite intellettuali e contribuì a definire la teoria dell'elitismo. La sua opera più nota è il saggio sulla sociologia dei partiti politici, nel quale viene descritta la ferrea legge dell'oligarchia.

Cenni biografici

Michels nacque in una ricca famiglia tedesca di imprenditori, studiò in Inghilterra, a Parigi (alla Sorbona), e nelle Università di Monaco di Baviera, Lipsia (1897), Halle (1898), e Torino. Si iscrisse al Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) mentre era professore all'Università di Marburgo (1902), e in questa sede si candidò alle elezioni comunali come socialista (1904); cosa che gli fece perdere automaticamente la cattedra (in Germania i socialisti non potevano avere cattedre universitarie ordinarie). Lasciò l'SPD nel 1907, dopo essersi trasferito ormai in Italia.

Brillante allievo di Max Weber, sposato con Gisela Lindner (1900), ricercatrice storica famosa per le sue ricerche sulla condizione delle donne e figlia dello storico Theodor Lindner, nel 1911 Michels acquistò notorietà per il testo già citato, ancor oggi posto a fondamento della sociologia della politica, basato su approfondite conoscenze storiche e sociologiche: "Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie", (La sociologia del partito politico nella democrazia moderna : studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici), saggio in cui Michels mostrava come i partiti politici, persino quelli socialisti più estremi, si trasformassero rapidamente in burocrazie oligarchiche. Durante i primi anni passati in Italia Michels fu molto vicino al sindacalismo rivoluzionario, ala estrema del Psi. Michels era molto critico col determinismo esplicito nella dialettica marxiana, considerandola frutto di fondamentale ignoranza della storia stessa e di una certa ispirazione millenaristica calata dall'alto; non ne ricusava gli ideali, ma basava il suo socialismo su basi empiriche e storiche, nella linea del Sombart. Michels era molto attratto dall'Italia e ciò lo spinse a cercare in quel paese una cattedra che non avrebbe mai ottenuto nella sua patria.

Questa insistenza gli fece ottenere nel 1907, grazie all'intercessione del liberale Luigi Einaudi ed ancor più dell'economista e socialista non marxista Achille Loria, una cattedra all'Università di Torino, dove insegnò Economia Politica e Sociologia Economica, pur non avendo al suo attivo veri studi in campo economico. Nel 1914 divenne ordinario di economia all'Università di Basilea, dove insegnò sino al 1926. Dopo la Prima guerra mondiale aderì al Fascismo, partito dell'ex socialista Benito Mussolini. Michels riteneva che Mussolini, grazie alle sue origini proletarie ed al suo carisma, potesse rappresentare direttamente il proletariato, senza la mediazione, che Michels riteneva burocratica, delle rappresentanze sindacali e dei partiti politici. Passò i suoi ultimi anni in Italia, insegnando dal 1927 Economia politica a Perugia come professore ordinario. Nel 1933 rappresentò l'Italia a Parigi, descrivendo il fascismo come un movimento pacifista e antirazzista. I suoi colloqui sono stati trascritti da sua figlia Daisy Michels.

Ebbe tre figli: Manon, Mario e Daisy. Manon, diplomata in belle arti, sposò Mario Einaudi, figlio dell'economista e futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che finirà alla Cornell University negli Stati Uniti, dove ricoprirà le cariche di professore di Teoria politica e diritto costituzionale comparato. Daisy, diplomata alla scuola di traduzione, sposerà Filippo Gallino, futuro dirigente delle cartiere Burgo, figlio di Giovanni Gallino, un magistrato che aveva preso parte al processo dello Smemorato di Collegno, appartenente alla più abbiente famiglia di Canale. Mario, chimico di chiara fama, morirà relativamente giovane dopo essersi stabilito a Basilea in Svizzera ed essersi colà sposato con Margherita, che ospiterà poi Luigi Einaudi durante l'esilio.
Il sistema teorico di Michels

Michels studia il partito socialdemocratico tedesco e perviene alla conclusione che nel partito politico si attuano le stesse dinamiche che interessano lo Stato. Un esempio è l’SPD, che per la sua natura dovrebbe coinvolgere maggiormente le masse, ma invece è interessato da processi fortemente oligarchici. Nel suo pensiero il parlamento diventa il luogo in cui le burocrazie dei partiti si accordano, Michels dirà: “io di rivoluzioni ne ho viste tante, di democrazie mai”. Anche in un regime democratico sono i vertici del partito che si fanno eleggere: legge ferrea dell’oligarchia. In realtà nel parlamento non esiste una vera competizione tra partiti, poiché i vari dirigenti hanno interesse a perpetuare la situazione in essere. L'analisi di Michels per molti aspetti riproduce gli studi precedenti, svolti da Moisei Ostrogorski, sulla degenerazione oligarchica dei partiti. Ma mentre Ostrogorski, a partire da questo comune scetticismo sul carattere democratico dei partiti, esamina e propone nuove più efficaci forme di democrazia per eliminare questa tendenza, Michels al contrario aderisce all'elitismo.

Michels discute di questi argomenti con Max Weber, c’è bisogno di una novità in politica e la può portare solo l’”eroe carismatico”, dal momento che al parlamento viene attribuita una valenza negativa. C’è bisogno di un’idea nuova e carismatica: il fascismo; verrà, così, meno la mediazione dei partiti tra leader e popolo e si instaurerà tra di essi un rapporto diretto. A differenza di Weber, il quale ritiene che il carisma del leader si possa formare in parlamento, Michels ritiene che per esserci carisma non si possa prescindere da un rapporto diretto e non mediato con il popolo. Maggioranza e opposizione fanno finta di lottare: il loro scopo è di farsi rieleggere e di perpetuarsi al potere. Con l’adesione al fascismo trova un'alternativa alla ‘’legge ferrea dell’oligarchia’’, che ha per lui una valenza fortemente negativa. Il fascismo esprime un leader carismatico, e questo è l’unico modo per superare la pseudemocrazia che era affermata.

Approfondendo alcuni brani tratti da “L’oligarchia organica costituzionale” si possono enucleare alcuni tratti del sistema teorico di Michels:

    Il parlamentarismo è una falsa leggenda: non siamo noi che votiamo i rappresentanti ma i rappresentanti che si fanno scegliere da noi,
    Lo Stato non importa alla maggior parte delle persone, soprattutto per ciò che attiene le vicende prettamente istituzionali: non si può sperare che la partecipazione parta dal basso,
    Le classi politiche non si sostituiscono come ci aveva spiegato Pareto; puntano, invece, all’amalgama, si servono della cooptazione per non perdere mai il loro potere,
    L’opposizione parlamentare mira all’unico scopo, in teoria, di sostituire la classe dirigente avversaria; in pratica, invece, finisce per amalgamarsi con la classe politica al governo,
    A nulla valgono i movimenti popolari, perché chi li guida abbandona la massa e viene assorbito dalla classe politica: “parte incendiario e arriva pompiere”.

Anche dalla lettura di passi tratti da “La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia” si possono trarre alcuni spunti interessanti:

    È una funzione scientifica dimostrare l’inganno del parlamentarismo,
    Non è vero che ad una rivoluzione seguirà un regime democratico,
    I socialisti democratici vengono definiti “fanatici partigiani dell’organizzazione”.

“Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia”; l’organizzazione e la seguente degenerazione oligarchica causano veri e propri mutamenti genetici nei partiti socialdemocratici: le masse non possono più interferire con le decisioni, i capi non sono più gli organi esecutivi della volontà della massa ma si emancipano completamente dalla massa stessa. Tanto più grande diventerà il partito, tanto di più si riempiranno le sue casse e la tendenza oligarchica si farà strada con maggior vigore; la base non potrà più controllare in alcun modo i vertici del partito. Il regime democratico non è molto confacente ai bisogni tattici dei partiti politici: il partito politico, così come si deve organizzare per competere con gli altri partiti, è qualcosa di distante dalla comune idea di democrazia. Il principio della democrazia è ideale e legale (perché comunque si va a votare) ma non è reale in quanto, in realtà, la base non può scegliere nulla. Votando non diventiamo compartecipi del potere: “la scienza ha il dovere di strappare questa benda dagli occhi delle masse”. Anche Michels, perciò, ha un approccio scientifico e non ideologico. “La formazione di regimi oligarchici nel seno dei sistemi democratici moderni è organica”. “L’organizzazione è la madre della signoria degli eletti sugli elettori”.

Una frase sintetizza con efficacia il pensiero di Michels: “sulla base democratica si innalza, nascondendola, la struttura oligarchica dell’edificio”.