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di Corrado Malandrino
Nacque a Colonia il 9 genn. 1876 da Julius e Anna Schnitzler, i
quali ebbero anche una figlia di nome Ella.
La famiglia Michels apparteneva alla cerchia alto borghese di
imprenditori tessili di Colonia, con parentele internazionali, e
faceva parte del patriziato politico cattolico renano. Il nonno
paterno Peter, importante industriale e uomo politico, aveva sposato
Constance van Halen, discendente di don Juan van Halen de
Perecampos, generale e uomo politico spagnolo che ebbe un ruolo
anche nella storia del Belgio nella prima metà
dell’Ottocento. La famiglia materna, di confessione protestante e di
tradizioni bancarie e industriali, aveva ascendenze francesi e
ugonotte attraverso la nonna del M., Clara Schmidt. Il nonno
materno, Robert, dopo aver ricoperto la carica di sottoprefetto di
Colonia abbandonò la carriera politica per consacrarsi alla
musica, fondando il conservatorio di Colonia ed entrando in amicizia
coi maggiori compositori dell’epoca, da Ch. Gounod a J. Brahms a G.
Verdi.
Il padre Julius diede inopinatamente al figlio il nome del nonno
materno e fece altre scelte che si distaccarono dalla tradizione
familiare, dedicandosi soprattutto all’attività bancaria e
assicurativa in Prussia, prendendo una moglie di confessione
protestante e optando per una fede politica filoprussiana
contrastante con l’approccio tradizionalmente cattolico e
austriacante dei Michels.
Trasferito in tenera età lontano dalla città natale,
il M. fu istruito dalla madre in casa fino all’età
ginnasiale, per frequentare poi, dal 1885, il Collège royal
français di Berlino, dal quale mutuò una predilezione
per la storia e la cultura francesi del XVII e XVIII secolo. Fu
iscritto quindi al Gymnasium Grossherzog Karl Friedrich di Eisenach,
dove conseguì la maturità nel 1894. Subito dopo si
arruolò (1895) nel reggimento «Grossherzog von
Sachsen» di stanza a Weimar e a Jena. Frequentò per
qualche tempo anche la scuola di guerra di Hannover.
Si trattò nel complesso di un’esperienza infelice, dalla
quale il M. uscì nel 1896 con posizioni anticonformiste e
antiautoritarie, disgustato per sua stessa ammissione dai
maltrattamenti ai soldati e per le usanze inumane regolanti il
codice di vita militare.
In vari scritti il M. fece trasparire la propria appassionata
avversione non solo politica e culturale, ma anche psicologica,
contro le istituzioni e la disciplina militari prussiane, baluardo
invincibile a suo avviso del potere degli Hohenzollern e
dell’arretratezza istituzionale della Germania guglielmina.
Deciso a perseguire la carriera universitaria, dopo aver frequentato
corsi in diverse sedi (in particolare alla Sorbona di Parigi, a
Monaco, a Lipsia e infine a Halle), venendo in contatto con maestri
come L. Brentano, K. Lamprecht, G. Droysen e J. Conrad, il M.
conseguì nel 1900 il dottorato in filosofia, storia ed
economia politica presso l’Università di Halle, discutendo
una tesi sull’invasione, nel 1672, di Luigi XIV in Olanda. Nello
stesso anno sposò, sempre a Halle, Gisella Lindner, figlia di
Theodor, professore in quell’ateneo e fra i maggiori storici coevi.
Dal matrimonio nacquero cinque figli.
Gisella, oltre che fedele e appassionata compagna, fu per il M.
indispensabile collaboratrice scientifica; attivista socialista,
sindacale e femminista a Marburg e a Torino, fu autrice di ricerche
originali sulla disoccupazione e sul movimento cooperativo e
municipalista tedesco e italiano.
Fra queste si rammentino: Geschichte der modernen Gemeindebetriebe
in Italien (Berlin 1909); Das Problem der Arbeitslosigkeit und ihre
Bekämpfung durch die deutschen freien Gewerkschaften (con il
M., Tübingen 1910); Die italienische Mutterschaftsversicherung
und ihre Bedeutung (ibid. 1914).
Stando al carteggio col suocero, dopo un lungo soggiorno torinese
tra il 1900 e il 1901 – durante il quale il M. prese contatto con il
laboratorio di economia politica fondato da S. Cognetti de Martiis e
proseguì le ricerche finalizzate alla abilitation (passaggio
imprescindibile per la carriera accademica in Germania) sulla
Francia di Luigi XIV e sulle relazioni diplomatiche e militari tra
le corti di Berlino e Torino alla fine del XVII secolo –, la coppia
rientrò in Germania, stabilendo la propria residenza a
Marburgo, la cui Philipps-Universität era ritenuta da Lindner
di orientamento più liberale per l’esistenza dell’indirizzo
di studi storico-politici e filosofici di H. Cohen e P. Natorp.
Tuttavia, contrariamente alle aspettative, il soggiorno a Marburgo
protrattosi dal 1901 al 1907 – inframmezzato da molti viaggi a
Torino durante i quali il M. consolidò i suoi rapporti con L.
Einaudi, A. Loria, G. Mosca, collaborando a riviste di avanguardia
come La Riforma sociale – servì soprattutto ad avvicinare
Gisella e il M. alle posizioni socialiste.
Iscrittosi al Partito socialista italiano (PSI) già nel 1901,
a riprova di un impegno militante sempre più forte sia in
Germania sia in Italia, il M. fu delegato al congresso
socialdemocratico tedesco di Dresda del 1903 e rappresentò la
Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD) al congresso nazionale
socialista italiano di Bologna nel 1904. Di conseguenza si
allontanò definitivamente per il M., nella Germania in cui
vigeva dal 1898 una legge discriminatoria nei confronti dei
socialdemocratici, ogni prospettiva accademica.
La sensibilizzazione alla cultura anticonformista, femminista e alla
questione sociale (e attraverso questa agli studi sociologici) si
fece strada pertanto nel M. a far tempo dai primi anni del nuovo
secolo e fu anche causa della rottura dei rapporti col padre Julius,
conservatore irremovibile che lo privò di ogni aiuto
economico.
Il M. militò con accesa passione, fra il 1902 e il 1907,
nella socialdemocrazia tedesca, nel Partito socialista italiano e fu
attivo anche all’interno dell’Internazionale socialista,
partecipando all’importante congresso di Amsterdam del 1904. Ma, a
partire da quello stesso anno, con la pubblicazione dell’articolo
sulle Incoerenze internazionali del socialismo apparso nella Riforma
sociale (s. 2, X [1904], 8, pp. 644-652), e con maggior evidenza
dopo il 1906 – deluso dai limiti, revisionisti, nazionalisti e
opportunisti della socialdemocrazia – si produsse in una critica
sempre più aspra e si avvicinò alle posizioni del
sindacalismo rivoluzionario stabilendo contatti in Italia con A.
Labriola ed E. Leone e in Francia con G. Sorel e H. Lagardelle.
Nel 1907, preso atto dell’impossibilità di proseguire in
Germania la carriera accademica e spentosi quasi del tutto il
fervore socialista (anche se risulta iscritto al partito fino al
1909), il M. riparò da Marburgo a Torino, dove il rapporto
con Loria gli aprì nuove prospettive. Qui maturò sul
finire del primo decennio del Novecento il distacco dall’esperienza
socialista, favorito dall’adesione alle teorie elitiste elaborate da
Mosca e V. Pareto, nonché dall’avvicinamento all’economia
storico-sociale di W. Sombart e alla sociologia weberiana della
burocrazia.
Sulla scorta di tali premesse, pubblicò in varie riviste
italiane e tedesche indagini sociografiche sul proletariato e la
borghesia nel movimento socialista italiano, sull’uomo economico e
la cooperazione, sul marxismo italiano e sulla morale sessuale.
Il complesso di queste suggestioni, insieme con le tesi sul partito
politico che il M. iniziò a formulare fin dal 1907 – in parte
criticando sulla base della propria esperienza di militante
socialista e in parte per impulso delle istanze metodologiche
provenienti dalla sociologia di M. Weber – trovarono una forma
definitiva in Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen
Demokratie (Leipzig 1911; 1ª ed. italiana, Torino 1912).
Reputata un «classico» della moderna sociologia del
partito politico, della teoria della democrazia e della sociologia
delle élites, resta a tutt’oggi l’opera michelsiana
più complessa e di maggior peso (al punto che il M. fu
considerato da alcuni vir unius libri, volendo così
sottolineare la differenza di valore scientifico fra questa e le
altre sue numerose pubblicazioni). In essa si mostra come
all’interno dei moderni partiti politici di massa (anche in quelli
che si richiamano agli ideali della democrazia e del socialismo) si
sviluppi un’irresistibile tendenza all’oligarchia, che ha le sue
radici nelle necessità oggettive dell’organizzazione, nella
psicologia dei capi e in quella delle masse. Dall’analisi di questi
fattori il M. ricava una teoria generale dei limiti della
rappresentanza e della democrazia, riassunta nella cosiddetta
«legge ferrea dell’oligarchia», che a suo giudizio non
vale soltanto sulla scala ridotta del partito o di qualunque altra
organizzazione politica, ma anche, e a maggior ragione, sulla scala
più ampia dello Stato, contro qualsiasi metafisica della
sovranità popolare. Il M. parte dall’assunto che i partiti
rappresentano una delle forme più importanti della democrazia
contemporanea, osservando che in essa coesistono tratti democratici
e aristocratici. Questo fatto non è casuale, ma dipende da
alcune esigenze insopprimibili dell’organizzazione, che si fanno
strada allorché un partito si struttura e si organizza per il
proprio interesse che non è più quello originario (per
esempio, la rivoluzione sociale), cioè «altro»
dal partito stesso, ma è un interesse del partito in
sé e per sé. In questa fase si genera la tendenza dei
capi a organizzarsi e coalizzarsi, forti della loro
indispensabilità tecnica, ai fini della loro affermazione di
fronte alla generale passività delle masse. Si crea
così un’oligarchia – secondo una logica tipicamente weberiana
– con interessi ben definiti e divergenti da quelli della massa
degli iscritti, tanto che il M. poteva riassumere in termini
sillogistici: «Chi dice democrazia dice organizzazione; chi
dice organizzazione dice oligarchia; chi dice democrazia dice
oligarchia».
Rispetto al problema del mutamento sociale, che nell’elitismo
paretiano è espresso nella teoria della «circolazione
delle élites», il M. si differenzia introducendo una
sua «teoria dell’amalgama», per cui non si dà un
vero e proprio ricambio meccanico delle élites al potere,
quanto invece, più realisticamente e gradualmente, queste
vengono sostituite attraverso un amalgamarsi dei nuovi elementi con
i vecchi. Naturalmente non cambia la conclusione in termini di
sociologia del potere, che vede pur sempre in atto la concorrenza
ideologica e politica delle élites. Di fronte a queste, la
grande maggioranza della società resta l’«eterna
minorenne», è costretta per una crudele fatalità
storica a cedere ogni prerogativa di dominio a una piccola minoranza
sorta dal suo seno. La formulazione della «legge ferrea
dell’oligarchia» condusse il M. a mettere in discussione con
forza i meccanismi formali della democrazia liberale, pur senza
inficiare il nucleo del concetto rousseauiano di democrazia diretta.
Sebbene si mettesse sempre più in luce come scienziato
politico e sociologo, tanto da meritare nel 1913 la cooptazione da
parte di Weber e Sombart nella condirezione dell’importante Archiv
für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, la posizione
accademica del M. restò sempre ancorata all’insegnamento
dell’economia politica. Tuttavia, di tale disciplina professò
una visione storico-sociale che lo mise in contrasto, per quel che
riguardava il proseguimento della carriera in Italia, con i teorici
dell’economia «pura» (come M. Pantaleoni e soprattutto
U. Ricci, ma per motivo analogo fu criticato anche da Einaudi).
Grazie al sostegno di Loria, che invece ne apprezzava l’approccio e
la personalità politico-scientifica, il M. fu libero docente
di economia politica a Torino dal 1908 fino a quando, a
riconoscimento di una solida fama internazionale, non ricevette nel
1913 la chiamata a professore nella stessa disciplina
dall’Università di Basilea. Qui insegnò fino al 1928,
quando rientrò in Italia come professore di economia
corporativa presso la facoltà di giurisprudenza
dell’Università di Perugia, ove rimase fino al 1936.
Fin dalla guerra di Libia (1911-12), sconfessando le posizioni
assunte in precedenza, il M. si convertì a una visione
sociale del nazionalismo italiano che illustrò in vari studi
politico-demografici, poi riuniti in volume (L’imperialismo
italiano, Milano 1914).
Durante la prima guerra mondiale sostenne le ragioni dell’intervento
italiano contro l’Austria e s’impegnò in attività
patriottiche. Il 24 maggio 1915 inviò agli amici (e a Mosca,
che all’epoca era membro del governo italiano in quanto
sottosegretario alle Colonie nel ministero Salandra), una lettera
circolare a stampa in cui ricordava il suo attaccamento speciale
all’Italia, la richiesta di naturalizzazione avviata nel 1913, la
sua esclusiva attenzione alla causa irredentistica di Trento e
Trieste fin dal 1902. Un patriottismo dimostrato anche con
l’assunzione della responsabilità di presidente – lui,
legalmente ancora tedesco, in una città piuttosto favorevole
alla causa germanica – della sezione di Basilea della Società
Dante Alighieri, e con la promozione di numerose iniziative
culturali di sostegno alla causa italiana. Tali attestazioni gli
valsero la rottura con amici tedeschi, come Weber, e una vera e
propria persecuzione morale sui giornali tedeschi, svizzeri e
austriaci.
Dopo la guerra, il 3 marzo 1921 con la registrazione del relativo
decreto regio si concluse felicemente la lunga e controversa pratica
di naturalizzazione italiana avviata fin dal 1913.
A quel punto il M. si adoperò per un ritorno definitivo nella
patria d’adozione, che si realizzò – grazie all’intervento di
B. Mussolini – solo nel 1928. Proprio il rapporto del M. con
Mussolini e il regime fascista rappresenta uno dei capitoli
più rilevanti per la biografia michelsiana. L’attenzione del
M. nei confronti del fascismo non fu dapprincipio né
immediata né intensa, considerato il fatto che visse a
Basilea gli anni cruciali della crisi postbellica.
Solo il 3 giugno 1922 egli pubblicò un primo breve articolo
in materia, Der Faschismus und Genua, nella Neue Schweizer Zeitung,
in cui trattava prevalentemente di temi socioeconomici, mentre un
secondo, più meditato e ampio, Der Aufstieg des Faschismus in
Italien, apparso a puntate nella Neue Zürcher Zeitung tra il 26
e il 29 dic. 1922, era destinato a informare in modo critico, ma
benevolo, l’intelligencija svizzera sui caratteri del movimento che
inopinatamente era pervenuto al potere dopo la marcia su Roma,
favorito a suo avviso dalla decadenza della classe liberale
dominante e dalla sconfitta storica della teoria e della prassi del
movimento socialista.
Si può fondatamente presumere che lentamente, e in
correlazione con lo svolgimento delle vicende politiche che
portarono all’imporsi del fascismo – visto come soggetto politico
«giovane» e vitale, salvatore delle sorti della Nazione
in preda a tensioni prerivoluzionarie filobolsceviche –, l’assioma
del patriottismo nazionale assolse al ruolo di «navetta»
per traghettare il M. nell’alveo dapprima del mussolinismo, e quindi
del fascismo. Fu infatti il rapporto personale con Mussolini, che il
M. incontrò la prima volta durante la Pasqua del 1924, a
determinare una conversione piena alla causa fascista.
Tra il 1924 e il 1925 il M. si impegnò in un’approfondita
analisi degli aspetti a suo avviso innovativi del fascismo – anche
sul piano sociale e soprattutto in rapporto alla corruzione ideale
del socialismo – che sfociarono nei due volumi di Sozialismus und
Faschismus in Italien (München 1925). Nella vastissima
produzione scientifica michelsiana del periodo ebbero rilievo, oltre
ai rinnovati studi sul partito politico, quelli sui movimenti
sociali, rielaborati nel Corso di sociologia politica (Milano 1927;
rist., a cura di A. Campi - L. Varasano, Soveria Mannelli 2009).
Il 6 giugno 1928, dopo il trasferimento all’Università di
Perugia, il M. s’iscrisse al Partito nazionale fascista (PNF) e
svolse da allora sempre più intensa attività di
«ambasciatore» culturale (Di Nucci) in favore del regime
all’estero.
La sua adesione al fascismo fu caratterizzata da una visione
scientificamente disincantata e politicamente impegnata in un
nazional-patriottismo accentuante consapevolmente la dimensione
mitologica dell’antica Roma, della latinità comune a vari
popoli europei, della missione dell’Italia nel mondo;
caratteristiche che emersero nelle due opere di maggior respiro
dedicate all’Italia fascista, Der Patriotismus. Prolegomena zu
seiner soziologischen Analyse (München-Leipzig 1929; trad. it.,
Prolegomena sul patriottismo, Firenze 1933) e Italien von heute.
Politische und wirtschäftliche Kulturgeschichte von 1860 bis
1930 (Zürich-Leipzig 1930).
Nell’ambito degli studi sulla sociologia del patriottismo,
totalmente ignorati dalla critica della seconda metà del
Novecento, il M. enunciò una legge storica altrettanto
ferrea, a suo dire, di quella dell’oligarchia, la cosiddetta
«legge della trasgressione», che regolerebbe la condotta
degli Stati e delle nazionalità nelle relazioni
internazionali. Una legge la cui elaborazione gli apparve fondata
sulle inclinazioni psicologiche dei popoli (la formulazione fu
verosimilmente influenzata dalla Völkerpsychologie di W. Wundt
e dal Grundriss der Soziologie di L. Gumplowicz), una legge in
virtù della quale «il patriottismo etnico degenera e
diviene politica di conquista dei trionfatori ubriacati dalla
vittoria»: le guerre d’indipendenza, iniziate a suo parere da
un popolo in nome del principio di nazionalità, correvano
sulla china che portava alla negazione dei medesimi diritti ad altri
popoli.
Una breve sistematizzazione degli elementi dottrinali ed
etico-religiosi del fascismo fu condotta dal M. nella voce
Faszismus, redatta nel 1928 per conto dell’opera enciclopedica Die
Religion in Geschichte und Gegenwart.
Tuttavia l’interpretazione michelsiana del fascismo non fu priva di
sfaccettature e di sfumature: la reazione all’assassinio di G.
Matteotti e all’aspra fase politica apertasi con esso fu di
dichiarata preoccupazione. A giudizio del M. la gestione del potere
mussoliniano avrebbe dovuto essere purgata da questi aspetti della
«prima ora» squadristica: se la violenza poteva
considerarsi giustificata, nel biennio successivo alla guerra, dal
fine di riportare ordine, condiviso dai ceti intermedi urbani, dagli
agrari del Sud e dal grande capitale del Nord, era ormai necessario
per il fascismo «dimostrare la propria qualificazione
politico-statuale» e passare al compito rivoluzionario di
ricostruire un’Italia patriotticamente pacificata dai conflitti di
classe.
Teorico e propagandista della ristrutturazione istituzionale e
sociale corporativa scaturente dalla Carta del lavoro, il M.
riteneva che allo Stato fascista dovevano esser riconosciuti compiti
fondamentali in campo economico ed etico.
A tener insieme il quadro istituzionale era la funzione
insostituibile del capo carismatico del partito e del governo. Con
evidenti cadute apologetiche, egli cercò senza molto successo
di formulare la concezione di una «nuova» democrazia
che, mantenendo un aspetto strutturale oligarchico-carismatico,
grazie al diretto rapporto tra le masse popolari nazionalizzate e il
duce si mostrasse in grado di superare i limiti rilevati nella
democrazia formale e borghese. La monarchia restava in tale contesto
un elemento di continuità, di conservazione, di
rappresentanza nazionale.
Negli anni anni Trenta il M. divenne consuocero di Einaudi per il
matrimonio della figlia Manon con Mario, primogenito di Einaudi.
La coppia di giovani, preso atto dell’impossibilità per Mario
– che nutriva sentimenti antifascisti – di perseguire la carriera
universitaria in un’Italia che pretendeva il giuramento di
fedeltà al regime da parte dei docenti, emigrò
già nel 1933 negli Stati Uniti d’America. Il M., estremamente
legato alla figlia, soffrì molto per tale scelta.
Dal 1928 al 1936 il M. ricoprì sempre più intensamente
il ruolo di intellettuale organico dell’Italia fascista, sia come
cattedratico, sia come «apostolo dell’italianità»
all’estero. Non sentendosi del tutto appagato dalla collocazione
accademica di economista corporativo a Perugia, chiese più
volte inutilmente un trasferimento a Roma come storico delle
dottrine economico-politiche. Compì numerose missioni e tenne
conferenze, tra l’altro, a Lipsia, Aquisgrana, Colonia, Parigi,
Zurigo, Liegi, illustrando aspetti della storia e della cultura
italiana, nonché della politica estera ed economica del
regime, che difese contro il boicottaggio delle grandi potenze.
Fu durante uno di questi viaggi intensi e laboriosi che il M.,
soggetto fin dalla gioventù a malattie circolatorie, fu
colpito a Bordeaux il 13 febbr. 1936, nel corso di una conferenza,
da un grave attacco emorragico che lo condusse in fin di vita.
Ripresosi parzialmente, rientrò a Roma in condizioni
precarie. Qui morì il 2 maggio 1936; fu sepolto nel cimitero
del Verano.
*
Wikipedia
Robert Michels, in italiano: Roberto Michels (Colonia, 9 gennaio
1876 – Roma, 3 maggio 1936), è stato un sociologo e
politologo tedesco naturalizzato italiano che studiò il
comportamento politico delle élite intellettuali e
contribuì a definire la teoria dell'elitismo. La sua opera
più nota è il saggio sulla sociologia dei partiti
politici, nel quale viene descritta la ferrea legge
dell'oligarchia.
Cenni biografici
Michels nacque in una ricca famiglia tedesca di imprenditori,
studiò in Inghilterra, a Parigi (alla Sorbona), e nelle
Università di Monaco di Baviera, Lipsia (1897), Halle (1898),
e Torino. Si iscrisse al Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD)
mentre era professore all'Università di Marburgo (1902), e in
questa sede si candidò alle elezioni comunali come socialista
(1904); cosa che gli fece perdere automaticamente la cattedra (in
Germania i socialisti non potevano avere cattedre universitarie
ordinarie). Lasciò l'SPD nel 1907, dopo essersi trasferito
ormai in Italia.
Brillante allievo di Max Weber, sposato con Gisela Lindner (1900),
ricercatrice storica famosa per le sue ricerche sulla condizione
delle donne e figlia dello storico Theodor Lindner, nel 1911 Michels
acquistò notorietà per il testo già citato,
ancor oggi posto a fondamento della sociologia della politica,
basato su approfondite conoscenze storiche e sociologiche: "Zur
Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie", (La
sociologia del partito politico nella democrazia moderna : studi
sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici), saggio in cui
Michels mostrava come i partiti politici, persino quelli socialisti
più estremi, si trasformassero rapidamente in burocrazie
oligarchiche. Durante i primi anni passati in Italia Michels fu
molto vicino al sindacalismo rivoluzionario, ala estrema del Psi.
Michels era molto critico col determinismo esplicito nella
dialettica marxiana, considerandola frutto di fondamentale ignoranza
della storia stessa e di una certa ispirazione millenaristica calata
dall'alto; non ne ricusava gli ideali, ma basava il suo socialismo
su basi empiriche e storiche, nella linea del Sombart. Michels era
molto attratto dall'Italia e ciò lo spinse a cercare in quel
paese una cattedra che non avrebbe mai ottenuto nella sua patria.
Questa insistenza gli fece ottenere nel 1907, grazie
all'intercessione del liberale Luigi Einaudi ed ancor più
dell'economista e socialista non marxista Achille Loria, una
cattedra all'Università di Torino, dove insegnò
Economia Politica e Sociologia Economica, pur non avendo al suo
attivo veri studi in campo economico. Nel 1914 divenne ordinario di
economia all'Università di Basilea, dove insegnò sino
al 1926. Dopo la Prima guerra mondiale aderì al Fascismo,
partito dell'ex socialista Benito Mussolini. Michels riteneva che
Mussolini, grazie alle sue origini proletarie ed al suo carisma,
potesse rappresentare direttamente il proletariato, senza la
mediazione, che Michels riteneva burocratica, delle rappresentanze
sindacali e dei partiti politici. Passò i suoi ultimi anni in
Italia, insegnando dal 1927 Economia politica a Perugia come
professore ordinario. Nel 1933 rappresentò l'Italia a Parigi,
descrivendo il fascismo come un movimento pacifista e antirazzista.
I suoi colloqui sono stati trascritti da sua figlia Daisy Michels.
Ebbe tre figli: Manon, Mario e Daisy. Manon, diplomata in belle
arti, sposò Mario Einaudi, figlio dell'economista e futuro
presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che finirà alla
Cornell University negli Stati Uniti, dove ricoprirà le
cariche di professore di Teoria politica e diritto costituzionale
comparato. Daisy, diplomata alla scuola di traduzione,
sposerà Filippo Gallino, futuro dirigente delle cartiere
Burgo, figlio di Giovanni Gallino, un magistrato che aveva preso
parte al processo dello Smemorato di Collegno, appartenente alla
più abbiente famiglia di Canale. Mario, chimico di chiara
fama, morirà relativamente giovane dopo essersi stabilito a
Basilea in Svizzera ed essersi colà sposato con Margherita,
che ospiterà poi Luigi Einaudi durante l'esilio.
Il sistema teorico di Michels
Michels studia il partito socialdemocratico tedesco e perviene alla
conclusione che nel partito politico si attuano le stesse dinamiche
che interessano lo Stato. Un esempio è l’SPD, che per la sua
natura dovrebbe coinvolgere maggiormente le masse, ma invece
è interessato da processi fortemente oligarchici. Nel suo
pensiero il parlamento diventa il luogo in cui le burocrazie dei
partiti si accordano, Michels dirà: “io di rivoluzioni ne ho
viste tante, di democrazie mai”. Anche in un regime democratico sono
i vertici del partito che si fanno eleggere: legge ferrea
dell’oligarchia. In realtà nel parlamento non esiste una vera
competizione tra partiti, poiché i vari dirigenti hanno
interesse a perpetuare la situazione in essere. L'analisi di Michels
per molti aspetti riproduce gli studi precedenti, svolti da Moisei
Ostrogorski, sulla degenerazione oligarchica dei partiti. Ma mentre
Ostrogorski, a partire da questo comune scetticismo sul carattere
democratico dei partiti, esamina e propone nuove più efficaci
forme di democrazia per eliminare questa tendenza, Michels al
contrario aderisce all'elitismo.
Michels discute di questi argomenti con Max Weber, c’è
bisogno di una novità in politica e la può portare
solo l’”eroe carismatico”, dal momento che al parlamento viene
attribuita una valenza negativa. C’è bisogno di un’idea nuova
e carismatica: il fascismo; verrà, così, meno la
mediazione dei partiti tra leader e popolo e si instaurerà
tra di essi un rapporto diretto. A differenza di Weber, il quale
ritiene che il carisma del leader si possa formare in parlamento,
Michels ritiene che per esserci carisma non si possa prescindere da
un rapporto diretto e non mediato con il popolo. Maggioranza e
opposizione fanno finta di lottare: il loro scopo è di farsi
rieleggere e di perpetuarsi al potere. Con l’adesione al fascismo
trova un'alternativa alla ‘’legge ferrea dell’oligarchia’’, che ha
per lui una valenza fortemente negativa. Il fascismo esprime un
leader carismatico, e questo è l’unico modo per superare la
pseudemocrazia che era affermata.
Approfondendo alcuni brani tratti da “L’oligarchia organica
costituzionale” si possono enucleare alcuni tratti del sistema
teorico di Michels:
Il parlamentarismo è una falsa leggenda:
non siamo noi che votiamo i rappresentanti ma i rappresentanti che
si fanno scegliere da noi,
Lo Stato non importa alla maggior parte delle
persone, soprattutto per ciò che attiene le vicende
prettamente istituzionali: non si può sperare che la
partecipazione parta dal basso,
Le classi politiche non si sostituiscono come ci
aveva spiegato Pareto; puntano, invece, all’amalgama, si servono
della cooptazione per non perdere mai il loro potere,
L’opposizione parlamentare mira all’unico scopo,
in teoria, di sostituire la classe dirigente avversaria; in pratica,
invece, finisce per amalgamarsi con la classe politica al governo,
A nulla valgono i movimenti popolari,
perché chi li guida abbandona la massa e viene assorbito
dalla classe politica: “parte incendiario e arriva pompiere”.
Anche dalla lettura di passi tratti da “La democrazia e la legge
ferrea dell’oligarchia” si possono trarre alcuni spunti
interessanti:
È una funzione scientifica dimostrare
l’inganno del parlamentarismo,
Non è vero che ad una rivoluzione
seguirà un regime democratico,
I socialisti democratici vengono definiti
“fanatici partigiani dell’organizzazione”.
“Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia”;
l’organizzazione e la seguente degenerazione oligarchica causano
veri e propri mutamenti genetici nei partiti socialdemocratici: le
masse non possono più interferire con le decisioni, i capi
non sono più gli organi esecutivi della volontà della
massa ma si emancipano completamente dalla massa stessa. Tanto
più grande diventerà il partito, tanto di più
si riempiranno le sue casse e la tendenza oligarchica si farà
strada con maggior vigore; la base non potrà più
controllare in alcun modo i vertici del partito. Il regime
democratico non è molto confacente ai bisogni tattici dei
partiti politici: il partito politico, così come si deve
organizzare per competere con gli altri partiti, è qualcosa
di distante dalla comune idea di democrazia. Il principio della
democrazia è ideale e legale (perché comunque si va a
votare) ma non è reale in quanto, in realtà, la base
non può scegliere nulla. Votando non diventiamo compartecipi
del potere: “la scienza ha il dovere di strappare questa benda dagli
occhi delle masse”. Anche Michels, perciò, ha un approccio
scientifico e non ideologico. “La formazione di regimi oligarchici
nel seno dei sistemi democratici moderni è organica”.
“L’organizzazione è la madre della signoria degli eletti
sugli elettori”.
Una frase sintetizza con efficacia il pensiero di Michels: “sulla
base democratica si innalza, nascondendola, la struttura oligarchica
dell’edificio”.