György Lukács
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György Lukács (Budapest, 13 aprile 1885 – Budapest, 4
giugno 1971) è stato un filosofo e critico letterario
ungherese.
Le riflessioni di Lukács si sono orientate a liberare il
marxismo dalle interpretazioni dogmatiche: il marxismo umanistico
proposto in Storia e coscienza di classe (1922) ha influenzato sia
gli esistenzialisti francesi sia la scuola di Francoforte. Questa
visione umanistica del marxismo affronta il problema del metodo
dialettico e dell'alienazione dell'uomo nella società
capitalistica. Ugualmente influenti sono stati la sua
identificazione della filosofia nietzschana ed in generale della
cultura cosiddetta irrazionalista come matrice ideologica del
fascismo europeo.
In opere come Saggi sul realismo (1936) ha elaborato una teoria del
realismo che poi avrebbe influenzato vasti settori dell'estetica e
della critica. La sua formulazione di un sistema estetico marxista
critica duramente il controllo politico sull'arte e sui suoi
interpreti.
Biografia
Nato in una ricca famiglia ebrea da József (1855–1928) -
direttore di banca, appartenente alla piccola nobiltà - e
Adél Wertheimer (1860–1917), dopo il liceo frequentò
la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di
Budapest, appassionandosi di arte e in particolare di teatro,
fondando con altri studenti il teatro «Talia», ove
venivano rappresentate produzioni contemporanee.
Laureatosi in legge nel 1906 e in filosofia nel 1909, si
trasferì a Berlino per seguire, con l'amico Ernst Bloch le
lezioni private di Simmel: si interessò al neocriticismo e
allo storicismo di Weber e di Dilthey, e a Heidelberg
ascoltò, dal 1912 al 1914, le lezioni di Windelband e di
Rickert. Anche lo studio di Kierkegaard fu importante per la
formazione culturale del giovane Lukács: «negli ultimi
anni dell'anteguerra a Heidelberg intendevo addirittura occuparmi
della sua critica a Hegel in un saggio monografico».
A questi anni risalgono i suoi primi scritti relativi all'estetica:
La forma drammatica (1909), Metodologia della storia letteraria
(1910), Cultura estetica e, in tedesco, Die Seele und die Formen
(L'anima e le forme) (1911), Storia dello sviluppo del dramma
moderno (1912).
I primi scritti sull'estetica
Come scrisse lo stesso Lukács ripubblicando nel 1968 i suoi
lavori giovanili di storiografia letteraria, la sua Storia dello
sviluppo del dramma moderno si opponeva alle teorie artistiche
dominanti nella Ungheria di inizio Novecento, che avevano un
prevalente orientamento positivistico, con l'eccezione
dell'«impressionismo soggettivistico» rappresentato
dalla rivista Nyugat (Occidente). Non ancora marxista, Lukács
era allora influenzato dalla filosofia e dalla sociologia di Simmel,
«il quale aveva tentato di inserire singoli risultati del
marxismo nella sociologia idealista, che a quell'epoca incominciava
a svilupparsi in Germania».
I saggi - sostenne poi lo stesso Lukács - «avevano un
carattere idealistico-borghese, in quanto in essi non si muoveva dai
rapporti diretti e reali tra la società e la letteratura, ma
si cercava invece di cogliere intellettualmente e realizzare una
sintesi di quelle scienze - sociologia ed estetica - che si occupano
di tali argomenti». Di qui, il carattere di astrattezza della
tesi del libro, secondo la quale il conflitto drammatico sarebbe una
«manifestazione ideologica della decadenza di classe»:
per quanto sia vero, secondo il Lukács maturo, che «un
dramma autentico nasce solo se nella realtà sociale le norme
morali valide, che si creano necessariamente nella società,
entrano tra loro in contrasto».
«L'anima e le forme»
Uno sforzo di maggiore concretezza fu tentato con la raccolta di
saggi L'anima e le forme, nei quali Lukács intendeva
individuare l'essenza di determinate forme del comportamento umano,
collegandole alle forme letterarie nelle quali vengono espressi i
conflitti della vita. Non si trattava, per Lukács, di fare
dello psicologismo ma, influenzato profondamente da Hegel,
cercò di analizzare il comportamento tragico «mediante
la dialettica interna dello Spirito e sulla base del rapporto fra
l'uomo (individuo) e la società».
Ma ne L'anima e le forme - composta di saggi su Rudolf Kassner,
Kierkegaard, Novalis, Theodor Storm, Stefan George, Charles-Louis
Philippe, Richard Beer-Hofmann, Laurence Sterne e Paul Ernst - vi
sono altri determinanti influssi, quelli esercitati dagli ideologi
neokantiani della «filosofia della Vita», i quali
presupponevano la vita come principio assoluto, origine di ogni
manifestazione dell'attività umana. L'anima umana, attraverso
le «forme» - che sono le strutture che danno significato
alla realtà umana, rendendola necessaria e non causale e
contingente - si sforza di trasformare la banalità e
l'inessenzialità della propria esistenza quotidiana in quella
pienezza di vita in cui consiste l'assoluto. Ma di fronte al
principio assoluto, trascendente e positivo, della
«Vita», le forme del mondo umano non possono essere che
inadeguate, e pertanto ogni esistenza individuale si manifesta
«come scacco ontologicamente necessario di fronte a un
assoluto annichilante, totalmente altro rispetto al mondo della
storia che diventa in sé e completamente, per
necessità d'essenza, il mondo del negativo».
Lukács stabilisce un'opposizione tra lo spirito e la natura,
che si risolve in quella tra l'arte e la scienza, tra poesia ed
empiria, tra l'opera artistica e l'opera scientifica: la prima
è finita, è chiusa, è fine, «è
qualcosa di primo e ultimo, l'altra diviene superata ogni qualvolta
si produce una prestazione migliore. In breve, l'una ha una forma,
l'altra no». La forma è il «limite e il
significato» che il poeta dà alla vita, la materia
grezza che è l'oggetto della sua operazione artistica: da
questa materia egli può ricavare «univocità dal
caos, può temprare simboli dalle apparenze incorporee,
può dar forma - cioè limite e significato - alle
molteplicità disarticolate e fluttuanti».
Da questa opposizione deriva ancora che l'autentica esistenza non
è quella comune e quotidiana: «l'esistenza reale non
raggiunge mai il limite e conosce la morte soltanto come un che di
spaventosamente minaccioso, assurdo, un qualcosa che tronca
improvvisamente il suo flusso»; invece, l'esistenza autentica
è quella che assume in sé il suo proprio limite, la
sua stessa negazione, la morte, è l'esistenza vissuta
tragicamente. Inautentica è la vita vissuta per il mondo,
autentica è la vita consapevole «del non-valore del
mondo [...] e della necessità del rifiuto radicale del mondo
stesso». Non si può non vedere, qui, oltre ai richiami
di Kierkegaard e Windelband, anticipazioni di problematiche svolte
da Heidegger e dall'esistenzialismo: ma si riscontra anche
«una crescente influenza della filosofia hegeliana. La
Fenomenologia dello Spirito (nonché altre opere di Hegel) mi
indusse a tentar di chiarire il problema mediante la dialettica
interna dello «Spirito» e sulla base del rapporto fra
l'uomo (individuo) e la società».
La «Teoria del romanzo»
E influenzato da Hegel è il successivo saggio sulla Teoria
del romanzo (Die Theorie des Romans), iniziato nel 1914, ultimato
l'anno successivo e pubblicato nel 1920. La filosofia è
indicata essere, in quanto «forma vitale e condizione della
forma», il contenuto stesso della poesia e insieme «un
segno della sostanziale diversità di io e mondo,
dell'incongruenza di anima e fare».Espressione di questa
scissione è la moderna forma artistica del romanzo, laddove
invece l'antica forma dell'epica greca «raffigura la
totalità estensiva della vita»: il mondo greco è
un mondo omogeneo e «anche la separazione di uomo e mondo, di
io e tu, non giunge ad alterare questa uniformità. Come ogni
altro membro di questa ritmìa, l'anima sta nel pieno del
mondo». In questa prospettiva, l'eroe dell'epica non è
nemmeno un individuo, ma è l'intera collettività,
«in quanto la perfezione e la conchiusione del sistema di
valori che determina il cosmo epico, dà luogo a un tutto
troppo organico perché in esso una parte possa a tal punto
segregarsi in se stessa, possa così solidamente fondarsi su
se stessa, da trovare se stessa quale interiorità, da
divenire individualità».
Al contrario, il romanzo è l'epopea del mondo abbandonato
dagli dei e la psicologia dell'eroe da romanzo appartiene al
demonico: il romanzo «è la forma dell'avventura, del
valore proprio dell'interiorità; il suo contenuto è la
storia dell'anima, che qui imprende ad autoconoscersi, che delle
avventure va in cerca, per trovare, in esse verificandosi, la
propria essenzialità». L'eroe epico - si pensi a Ulisse
- malgrado tutte le avventure percorse, resta sostanzialmente
passivo, perché gli dei devono sempre trionfare dei demoni e
quelle avventure sono in realtà «la raffigurazione
dell'obiettiva ed estensiva totalità del mondo» e
l'eroe è il «punto interiormente più immobile
del ritmico movimento del mondo». La passività
dell'eroe da romanzo, invece, contraddistingue il suo rapporto con
la propria anima e con il mondo che lo circonda.
La svolta marxista: «Storia e coscienza di classe»
Lukács precisò successivamente che fu indotto a
scrivere la Teoria del romanzo dallo scoppio della guerra, a cui era
contrario, giudicandola l'espressione della crisi di tutta la
cultura europea: il presente, fichtianamente concepito come
«era della compiuta peccaminosità» - poteva
essere superato da una rivoluzione che tuttavia, per il
Lukács idealista di allora, doveva essere una rivoluzione
morale, della quale, per esempio, i romanzi di Dostoevskij
costituivano un preannuncio. Gli studi su Marx, ripresi durante
questo periodo per «andare al di là del radicalismo
borghese»,[1] erano accompagnati dall'influsso del
sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel, al quale era stato
indirizzato dal socialista ungherese Erwin Szabo, dalla conoscenza
degli scritti di Rosa Luxemburg, oltre che dalla sua formazione
avvenuta sotto il segno di Kierkegaard, dei «filosofi della
Vita» e di Hegel: «da tutto ciò derivava un
amalgama internamente contraddittorio nella teoria, che doveva
diventare decisivo per il mio pensiero negli anni della guerra e del
primo dopoguerra».
Iscrittosi al Partito comunista ungherese, nella Repubblica
sovietica instaurata da Bela Kun con la rivoluzione del 1919 assume
le cariche di commissario all'istruzione e di commissario politico
della quinta divisione rossa. La repressione della Repubblica lo
costringe a fuggire a Vienna, dove viene arrestato con la minaccia
dell'estradizione. Liberato grazie all'intervento di intellettuali -
tra i quali Thomas Mann - può continuare a vivere a Vienna,
allora un crocevia internazionale di esponenti comunisti, dove
collabora alla rivista «Kommunismus», organo dei
comunisti di sinistra della III Internazionale e scrive i saggi che
furono poi riuniti e pubblicati a Berlino nel 1923 con il titolo di
Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische
Dialektik (Storia e coscienza di classe. Studi sulla dialettica
marxista). L'opera è composta dagli scritti Che cos'è
il materialismo ortodosso? (marzo 1919), Rosa Luxemburg marxista
(gennaio 1921), Coscienza di classe (marzo 1920), La reificazione e
la coscienza del proletariato, Il mutamento di funzione del
materialismo storico, Legalità e illegalità (luglio
1920), Osservazioni critiche sulla Critica della rivoluzione russa
di Rosa Luxemburg e dalle Considerazioni metodologiche alla
questione dell'organizzazione.
Come indica il sottotitolo, i saggi di Storia e coscienza di classe
affrontano il problema del metodo del marxismo, che si fonda
essenzialmente sulla dialettica. Per Lukács, vi è una
fondamentale differenza tra il metodo delle scienze che studiano la
natura e il metodo dialettico di Marx, che si applica invece alla
realtà sociale: il metodo delle scienze della natura
«non conosce alcuna contraddizione, alcun antagonismo nel
proprio materiale». Quando sorgessero contraddizioni, sarebbe
il segno dell’esistenza di errori nella comprensione scientifica da
superare successivamente con una più precisa ricerca
scientifica: «in rapporto alla realtà sociale, invece,
queste contraddizioni non sono segni di una comprensione scientifica
ancora imperfetta, ma appartengono piuttosto inseparabilmente
all'essenza della realtà stessa, alla essenza della
società capitalistica». Esse sono contraddizioni
necessarie, espressioni del fondamento antagonistico di questo
ordinamento sociale, e possono essere superate realmente - non tanto
nel pensiero - solo nel corso dello sviluppo sociale.
La separazione operata tra metodo dialettico marxiano e scienze
della natura porta Lukács a criticare il tentativo fatto da
Engels di estendere, «seguendo il falso esempio di
Hegel», il metodo dialettico alla conoscenza della natura:
«nella conoscenza della natura non sono presenti le
determinazioni decisive della dialettica: l'interazione tra soggetto
e oggetto, l'unità di teoria e prassi, la modificazione
storica del sostrato delle categorie [economiche] come base della
loro modificazione nel pensiero». Da questo punto di vista
egli epura l'impostazione marxista di Engles da elementi
positivistici-darwinisti, rileggendo il marxismo attraverso una
analisi della dialettica Hegel. In questo senso la sua torsione
speculativa di questi anni è profondamente leninista,
cioè nel tentativo di rileggere il concetto di rivoluzione
attraverso quello di soggetto rivoluzionario (partito). In questo
senso bisognava leggere Marx, partendo dall'esperienza dell'evento
della rivoluzione d'ottobre.
Una corretta analisi del processo storico non può prescindere
dalla categoria della totalità: la realtà non si
presenta mai come un insieme disaggregato di fatti. Nell’analizzare
la totalità sociale è certamente necessario isolare
singoli elementi, ma occorre intendere «questo isolamento
soltanto come mezzo per la conoscenza dell’intero». Allo
stesso modo, anche il soggetto della conoscenza deve essere una
totalità: «L’economia classica e ancor più i
suoi volgarizzatori hanno sempre considerato lo sviluppo
capitalistico dal punto di vista del capitalista singolo e si sono
perciò avviluppati in una serie di contraddizioni insolubili
e di problemi apparenti»; questo individualismo metodologico
appartiene anche ai revisionisti del marxismo come Bernstein,
Tugan-Baranovskij o Bauer, privi della categoria della
totalità: «all’individuo il suo mondo circostante, il
suo milieu sociale [...] appare necessariamente come qualcosa di
brutale, di insensato e di fatale, che gli resta per sempre estraneo
nella sua essenza». Con questi presupposti, come non è
più possibile conoscere la realtà, così
è impossibile modificarla e questi marxisti possono solo
postulare una trasformazione etica dell’uomo e utilizzare le
«leggi» assunte fatalisticamente nella loro presunta
immodificabilità.
Secondo Lukács, il soggetto, inteso come totalità, in
grado di afferrare e penetrare la totalità che costituisce la
realtà è la classe sociale: «soltanto la classe
può penetrare mediante l'azione la realtà sociale e
modificarla nella sua totalità [...] il proletariato come
soggetto del pensiero della società lacera in un colpo solo
il dilemma dell'impotenza: il dilemma tra il fatalismo delle leggi
pure e l'etica della pura intenzione».
Citando Marx - «il proletariato esegue la condanna che la
proprietà privata infligge a se stessa producendo il
proletariato» - Lukács deduce la «coscienza
di classe» come la verità del processo storico
«come soggetto», come consapevolezza del processo
dialettico che richiede, nei momenti di crisi dello sviluppo
storico, l'azione pratica, organizzata dal partito politico, il
quale è la «forma della coscienza proletaria di
classe». La coscienza di classe viene definita da
Lukács anche l'etica del proletariato, l'unità della
sua teoria e della sua prassi, ma in definitiva essa rimane un
concetto astratto: Lukács stesso criticherà poi la sua
esposizione come idealistica e la conversione della coscienza in
prassi rivoluzionaria «come un puro e semplice
miracolo».
Un'analisi approfondita viene compiuta da Lukács sul problema
della reificazione (Verdinglichung, il diventare una cosa),
sviluppato nel saggio La reificazione la coscienza del proletariato,
il cui spunto è dato dalle pagine dedicate da Marx ne Il
Capitale sul carattere di feticcio della merce e la
trasformazione, che avviene soltanto nella coscienza umana, dei
rapporti sociali, che intercorrono tra gli uomini, in apparenti
rapporti tra cose: come scrive Lukács, «una relazione
tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un'
«oggettività spettrale» che occulta nella sua
legalità autonoma, rigorosa, apparente, conclusa e razionale,
ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra
uomini». D'altra parte, nell'economia capitalistica, la
capacità produttiva del lavoratore, la forza-lavoro, è
una merce come ogni altra, e dunque è effettivamente una
cosa: «questo trasformarsi in merce di una funzione umana
rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e
disumanizzante del rapporto di merce».
La moderna fabbrica è l'espressione della reificazione:
è «un processo regolato secondo leggi meccaniche che si
svolge indipendentemente dalla coscienza sul quale l'attività
umana non ha alcun influsso [...] modifica anche le categorie
fondamentali del rapporto immediato dell'uomo con il mondo: esso
riduce il tempo e lo spazio a un unico denominatore [...] la persona
diventa [...] uno spettatore incapace di influire su ciò che
accade della sua esistenza, come una particella isolata e inserita
in un sistema estraneo». Nell'analisi della moderna
organizzazione del lavoro Lukács mette l'accento non tanto
sull'uso capitalistico dell'utilizzo della forza-lavoro operaia,
quanto sugli effetti dell'introduzione delle macchine, così
che la reificazione finisce per essere una conseguenza del progresso
scientifico e tecnico e non già, marxianamente,
un'espressione dei rapporti di produzione della società
borghese.
La filosofia di Hegel superava l'opposizione al soggetto della
realtà esterna concependo quest'ultima come un prodotto
alienato del soggetto stesso, opposizione che veniva risolta in una
successiva riappropriazione dell'oggetto da parte del soggetto, che
così ricostituiva l'unità originaria: infatti in Hegel
qualunque oggetto - dunque tutta la realtà - è un
prodotto del soggetto; in Marx, invece, solo la realtà
sociale - non la natura - è prodotta dall'uomo e a lui si
oppone come estranea. Lukács, pur volendo sviluppare un
aspetto della critica marxista, finisce per concepire hegelianamente
l'opposizione tra soggetto e oggetto sociale come un'opposizione
generalizzata tra soggettività e oggettività, tra
pensiero ed essere: «poiché l'oggetto, la cosa, in
Hegel esiste soltanto come alienazione dell'autocoscienza, la sua
riassunzione nel soggetto rappresenterebbe la fine della
realtà oggettiva, quindi della realtà in generale.
Ora, Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui
l'estraneazione viene posta sullo stesso piano dell'oggettivazione.
Questo fondamentale e grossolano errore ha sicuramente contribuito
in notevole misura al successo di Storia e coscienza di classe [...]
Per la critica filosofica-borghese della cultura, basti pensare a
Heidegger, era del tutto ovvio sublimare la critica in una critica
puramente filosofica, fare dell'estraneazione per sua essenza
sociale un'eterna condition humaine».
Il libro fu criticato da Zinov'ev a nome dell'Internazionale
comunista e anche dal massimo teorico socialdemocratico dell'epoca,
Karl Kautsky. Lukács non replicò alle critiche, per
quanto non le condividesse. Secondo la sua testimonianza, solo nel
1930, quando a Mosca divenne collaboratore dell'Isituto Marx-Engels
e poté leggere il testo autografo dei Manoscritti
economico-filosofici di Marx, fino ad allora sconosciuti e lì
custoditi e decifrati per la pubblicazione, «caddero in una
volta tutti i pregiudizi idealistici di Storia e coscienza di classe
[...] ricordo ancora oggi l'impressione sconvolgente che fecero su
di me le parole di Marx sull'oggettività come
proprietà materiale primaria di tutte le cose e di tutte le
relazioni [...] l'oggettivazione è un modo naturale -
positivo o negativo - di dominio umano del mondo, mentre
l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che
si realizza in determinate circostanze sociali. Con ciò erano
crollati definitivamente i fondamenti teorici di ciò che
rappresentava il carattere particolare di Storia e coscienza di
classe. Questo libro mi divenne completamente estraneo, così
come era accaduto nel 1918-19 per i miei scritti anteriori».
«Il giovane Hegel»
Alla morte di Lenin, nel 1924, l'editore viennese di Lukács
lo invitò a scrivere un profilo del rivoluzionario russo,
impegno portato a termine in poche settimane. Secondo Lukács,
è caratteristico di Lenin considerare ogni categoria
filosofica sotto il punto di vista dell'azione politica concreta:
Lenin non è «né un teorico né un pratico,
ma un profondo pensatore della prassi [...] un uomo il cui
penetrante sguardo è sempre rivolto al punto in cui la teoria
trapassa nella prassi e la prassi nella teoria».
L'anno dopo uscirono due sue recensioni critiche degli scritti di
Bucharin, Teoria del materialismo storico, e della Scienza della
società borghese di Karl August Wittfogel: la polemica
è rivolta contro le concezioni
«materialistico-volgari» e
«borghese-positivistiche» che vedono nella
«tecnica» il principio dello sviluppo delle forze
produttive e pertanto del mutamento sociale, concezioni che
neutralizzano l'attività politica rivoluzionaria
sostituendole l'attesa fatalistica del rinnovamento, che dovrebbe
scaturire per intima necessità dal seno stesso della
società.
Proseguiva intanto il suo impegno di militante del Partito comunista
ungherese: nel 1928, Lukács presentò al congresso di
partito le sue tesi - chiamate Tesi di Blum dal suo nome di
clandestino - nelle quali proponeva che, a fronte della dittatura di
Miklós Horthy, il partito dovesse proporre l'alternativa
politica di una Repubblica democratica, accantonando per il momento
l'obiettivo di una Repubblica sovietica. La proposta presupponeva la
possibilità di un'alleanza con le forze socialdemocratiche,
possibilità appena esclusa dall'Internazionale comunista che
nell'ultimo congresso, sotto l'influenza del gruppo di maggioranza
raccolto intorno a Stalin, aveva tacciato i socialdemocratrici di
«socialfascismo».
Il partito ungherese respinse le sue Tesi e il capo indiscusso del
partito, Bela Kun, minacciò persino la sua espulsione:
Lukács si piegò, facendo autocritica, per quanto,
scrisse poi, «del tutto convinto della giustezza del mio punto
di vista, sapevo anche [...] che allora un'espulsione dal partito
rappresentava l'impossibilità di partecipare attivamente alla
lotta contro il fascismo che si avvicinava», ma più in
generale, una sua emarginazione politica avrebbe forse pregiudicato
la possibilità di rimanere inserito nel dibattito culturale e
filosofico di quegli anni. A Berlino, infatti, continuò la
sua collaborazione con la rivista «Linkskurve»,
pubblicando recensioni di critica letteraria e i suoi primi saggi
sul realismo finché, con l'avvento del nazismo, nel 1933, si
trasferì a Mosca, lavorando nell'Istituto di Filosofia
dell'Accademia delle Scienze e pubblicando in riviste moscovite gran
parte dei suoi saggi di critica e di estetica letteraria, che
saranno raccolti in volume nel successivo dopoguerra.
A Berlino aveva già iniziato, e completò a Mosca nel
1937 il suo saggio su Il giovane Hegel che sarà pubblicato
nel dopoguerra. La tesi di Lukács è una elaborazione
delle considerazioni di Engels sulla filosofia hegeliana: «per
questa filosofia non vi è nulla di definitivo, di assoluto,
di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la
caducità, e null'altro esiste per essa all'infuori del
processo ininterrotto del divenire e del perire [...] essa ha
però anche un lato conservatore: essa giustifica determinate
tappe della conoscenza e della società per il loro tempo e
per le loro circostanze [...] il carattere conservatore di questa
concezione è relativo, il suo carattere rivoluzionario
è assoluto».
Per Engels, il carattere conservatore e, soprattutto, caduco, di
Hegel, è il suo «sistema» filosofico, mentre il
suo carattere rivoluzionario consiste nel metodo dialettico: per
Lukács, Hegel «voleva dominare teoricamente determinate
connessioni sociali e storiche, e si serviva della filosofia solo
per effettuare le generalizzazioni indispensabili», deducendo
dai rapporti esistenti tra l'uomo e la società leggi
dinamiche che implicano «contraddizioni il cui superamento e
la cui riapparizione a un livello più alto rende
comprensibile, in ultima istanza, l'intera struttura della
società e della storia».
«La distruzione della ragione»
Il realismo nell'arte
Per quanto riguarda l'arte, essa è una forma di sistema in
cui si supera l'accidentalità e si arriva ad un momento
eterno; essa deve essere realista ma non naturalista. L'estetica
è legata al realismo che dà l'idea dell'uomo nella sua
totalità, non solo interiormente ma anche nelle sue
interrelazioni (soprattutto in Walter Scott). Invece l'arte
naturalista come quella di Zola, Maupassant o Verga si compiace
nell'affondare nel patologico-fisiologico, dimenticando la politica
e la storia: l'uomo è considerato nella sua
individualità e una conseguenza delle sue origini, ciò
conduce alla creazione di personaggi staccati dalla società e
in contrasto con la ricerca della totalità. Questo è
uno dei motivi per cui egli preferisce il romanzo storico.
Il Realismo è visto come riproduzione fedele di circostanze
tipiche in cui si intrecciano realtà con caratteristiche
unitarie, dialettiche e problematiche. Il romanzo racchiude la
storia di un popolo: per esempio in Ivanhoe di Scott il protagonista
non è un eroe classico come Achille ma appartiene alla
piccola nobiltà inglese. Si rievoca un intero periodo storico
attraverso un eroe medio, che ha una dimensione umana e storica. La
rievocazione di un passato si crea necessariamente con un
anacronismo, perché non può essere identico. Infatti
lo scontro di classi a quell'epoca era sicuramente caotico, mentre
Scott lo presenta in maniera molto chiara. Per Lukács il
primo eroe di un romanzo storico è Waverley nel 1814, che
insieme a Ivanoe è un personaggio-tipo che rappresenta
istanze sociali, è un'idea.
Tomba di Lukács a Budapest
Lo scopo del romanzo storico è di dimostrare con mezzi
poetici le circostanze storiche e far diventare la storia un modello
assoluto. Esso crea un nesso tra la spontaneità delle masse e
la consapevolezza storica della classe dominante; Scott cerca di
comunicare questa consapevolezza alla massa comportandosi come un
intellettuale organico. La rievocazione del passato lontano è
ripresa da Cooper, considerato continuatore di Scott, che scrive
delle lotte tra inglesi e indiani.
Per Lukács Manzoni è superiore a Scott (pur essendone
un continuatore, e anche in virtù della sua esperienza di
tragediografo) nell'individuazione dei personaggi e nel descrivere
le vicende e le sofferenze degli italiani, la crisi della vita di un
intero popolo in relazione alle dominazioni e alle condizioni
feudali e conservatrici ad esso imposte.