Leadership
di Luciano Cavalli
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1996)
Sommario: 1. Il concetto di leadership. a) La parola e il concetto.
b) L'elaborazione scientifica del concetto. c) Altri concetti. 2.
Forme e idee della leadership nella storia. a) L'antichità
greco-romana. b) Il Medioevo. c) L'età moderna. d) Democrazia
e totalitarismo. 3. La leadership nelle scienze sociali. a) Un
secolo di ricerca. b) Comunicazione e politica simbolica. c)
Riflessioni per una sintesi. 4. Il leader: società e
politica. a) Formazione. b) Selezione. c) Poteri monocratici e
personalizzazione. 5. Qualità e 'funzioni' del leader.
a) Traits e carattere. b) Le 'funzioni sociali'. 6. Ruolo storico
della leadership. □ Bibliografia.
1. Il concetto di leadership
a) La parola e il concetto
Il concetto di leadership viene oggi impiegato, anche in sede
scientifica, per un tipo di relazione sociale che ha il più
ampio riscontro non solo nel mondo umano, ma anche in quello
animale. Anzi, lo studio di alcune specie animali e dei Primati
particolarmente ha permesso di individuare somiglianze e analogie
illuminanti con i comportamenti umani. Nel mondo degli uomini, poi,
la formazione e la durata nel tempo delle società e, dentro
di esse, dei vari gruppi sembrano strettamente associate al fenomeno
della leadership: che, se presso alcuni popoli ancora in uno stato
'primitivo' appare intermittente e connesso specificamente con
situazioni straordinarie, come la guerra, è invece
onnipresente e persistente nelle nostre società 'complesse' e
nei gruppi organizzati che le caratterizzano. Di conseguenza, lo
studio sistematico della leadership ha dovuto fare i conti con
realtà sociali e culturali molteplici, che sfidano ogni
tentativo di teoria generale. È quindi dubbio che si possa
andar oltre la definizione più generale della leadership come
base comune - una sorta di minimo denominatore comune, se si vuole -
per lo studio di tutti i disparati fatti del mondo umano e di quello
animale cui si è fatto cenno. Anche nella società
moderna il processo della leadership non può svilupparsi in
modo uguale in ogni gruppo: per esempio trova condizionamenti e
limitazioni particolari nei piccoli gruppi, che pure molti
scienziati hanno assunto come unità di studio. La leadership
si dispiega con tutt'altra pienezza di significato, anche etico, e
con ben maggiori potenzialità e articolazioni, nello Stato
nazionale o nella sovranazionale Chiesa di Roma, che d'altronde
è concresciuta con l'Occidente moderno.
Leadership deriva dal verbo inglese to lead che è stato
comunemente usato per tradurre il latino ducere, il che ha influito
sullo sviluppo storico del suo significato. Nell'uso fattone e
registrato dall'Oxford English dictionary indica fenomeni distinti,
ma tutti in questa sede rilevanti: 1) "la dignità, l'ufficio
o la posizione di leader"; 2) "la posizione di un gruppo di persone
che guidano o influenzano altri entro un determinato contesto"; 3)
il gruppo di cui al punto precedente; 4) "l'azione o influenza
necessaria per dirigere o organizzare lo sforzo (comune) in
un'intrapresa di carattere collettivo"; 5) la capacità stessa
di guidare altri (to lead). Come è evidente i primi due
significati si riferiscono a dei ruoli sociali, staticamente
considerati, il terzo invece agli occupanti di quei ruoli come
gruppo, il che rientra principalmente nello studio delle
élites e della classe dirigente. Gli ultimi due significati
introducono invece all'ambito di senso entro il quale si sono
generalmente mossi gli studiosi della leadership e i tentativi
stessi di definirla per fini scientifici. Tuttavia la rassegna di
significati comuni di cui sopra ha il merito di richiamare
l'attenzione anche sulla distinzione tra leadership collegiale e
leadership individuale, che ha un'importanza molto rilevante per il
nostro soggetto. Qui, anzi, è opportuno introdurre anche il
concetto di leader, che ovviamente ha la stessa radice. Leader
è one who leads in tutti i significati del verbo inglese, il
più generale dei quali è to cause to go along with
oneself, cioè 'farsi seguire', mentre uno dei più
specifici è to govern, governare. In effetti la ricerca sulla
leadership è in larga parte ricerca sul leader, come
protagonista della relazione sociale ineguale, asimmetrica, chiamata
leadership. Il concetto di leader esige come complemento quello di
follower, 'colui che segue'; e ciò già impone una
riflessione sull'essenza stessa della leadership come "azione o
influenza" esercitata e sulla natura stessa del rapporto tra leader
e follower. Già l'uso linguistico, non scientifico,
caratterizzava la parte del leader in quella relazione come dovuta a
un ascendente personale o di gruppo, sostanziato da una qualche
superiorità reale o supposta di natura morale, intellettuale
o di carattere, anziché a coercizione manifesta o latente,
indipendente dunque da ogni posizione sociale formalmente stabilita
e dai relativi poteri. Questa connotazione della parola è
passata anche nell'uso fattone nelle scienze sociali.
Resta da spiegare l'adozione di questa parola in italiano come in
altre lingue moderne, tanto nel linguaggio comune quanto, e
più rigorosamente, in quello scientifico. Il fatto che la
leadership sia stata oggetto di studio soprattutto in paesi di
lingua inglese appare secondario. Più importante è che
mancano termini che come leadership valgano per gli aspetti
principali del complesso fenomeno in oggetto e che, d'altra parte,
sia leader che leadership sono connotati nell'uso più
dall'ascendente personale o di gruppo che dalla coercizione e,
quindi, da poteri inerenti a un 'ufficio'. La connotazione in
termini di ascendente e di informalità ha reso possibile
l'impiego dei due termini inglesi in rapporti sociali molto fluidi,
come si può vedere dal concetto di opinion leader (che,
ovviamente, non potrebbe mai essere tradotto come 'capo' o
'dirigente' dell'opinione pubblica).
b) L'elaborazione scientifica del concetto
Va detto subito che, nel campo delle scienze sociali, le definizioni
compiute di leadership si sono moltiplicate nel tempo e non ve
n'è una su cui vi sia oggi generale accordo, perché
gli autori che si sono occupati di questo fenomeno (sociologi,
psicologi, antropologi, scienziati politici) hanno lavorato con
prospettive disciplinari diverse e, nell'ambito della stessa
disciplina, con premesse teoriche diverse. Tutte o quasi le
definizioni, esplicite o implicite, raccolgono tuttavia il senso
più generale sopra emerso. La leadership è considerata
una relazione sociale che prende forma in una situazione che
richiede scelte di principio e di comportamento. Il leader è
colui che ha una volontà motivata di scelta e i mezzi per
farla valere presso gli altri partecipi della relazione sociale,
motivando un conforme comportamento di gruppo. Ciò non
significa che il leader soltanto abbia un ruolo attivo, come
suggerivano alcuni autori del passato, ma l'interazione è
egemonizzata dal leader. Che poi la leadership possa essere
esercitata sia da un individuo sia da alcuni individui, formanti
eventualmente un coeso sottogruppo, sembra non dover infirmare
questa concezione nei suoi lineamenti essenziali.
Da queste premesse largamente comuni si può muovere per
precisare ulteriormente il carattere dinamico della leadership
idealmente intesa. Essa si esplica propriamente oltre il confine
dell'ordinario e del quotidiano, delle situazioni statiche e delle
soluzioni tradizionali, per le quali può valere come
riferimento il concetto non di leadership, ma di management.
È 'provocata' da situazioni nuove che richiedono risposte
nuove ed è esaltata dalla crisi. Può certamente
avvalersi di strumenti istituzionali, cioè di poteri inerenti
a un ufficio: ma si dimostra specificamente nell'uso creativo di
quei poteri e di altre risorse personali e sociali, quali sono
tipicamente l'ascendente personale da un lato e dall'altro le
strutture e gli strumenti della comunicazione sociale. Come i
più acuti studiosi dell'argomento hanno osservato, la
leadership è dunque eminentemente caratterizzata anche
dall'invenzione creativa che sorregge sia la volontà di
determinare comportamenti collettivi sia la "azione o influenza"
esercitata a questo fine.
Ma da tutto ciò deriva un'ulteriore conseguenza: il concetto
della leadership e del leader che si va delineando esclude la
dipendenza rigida e vincolante da ogni volontà e quindi, in
linea di principio, anche da ogni mandato e da ogni deliberazione
che possa contrastare con l'impegno ultimo che coincide con la
stessa ragione di essere del gruppo. Usando in senso lato una diade
concettuale che spesso, d'altronde, si impiega negli studi
contemporanei in materia, responsiveness e responsibility, si
può dire che il vero leader è primariamente fedele a
un criterio di responsabilità ultima e, riprendendo una
riflessione di Max Weber, si può anche dire che egli segue in
tutto il proprio giudizio e si sente veramente responsabile soltanto
davanti a se stesso. Ma questa raffigurazione ha appunto valore
analogo ai tipi ideali costruiti da Weber, rappresenta un caso
limite, e di rado un leader è effettivamente libero di
comportarsi così, quand'anche ne sia personalmente capace,
data la molteplicità dei condizionamenti che operano su di
lui per far valere altri punti di vista e in primo luogo quelli dei
molteplici interessi particolari e contingenti. D'altro canto
è evidente che il perseguimento del fine costitutivo del
gruppo come responsabilità ultima da parte del leader non
può fondarsi indefinitamente su un credito di fiducia in base
a qualsivoglia 'legittimazione' del ruolo, ma deve produrre
successo, risultati positivi nei termini culturali propri del
gruppo, e non va esente da verifiche nel tempo, come per esempio le
periodiche elezioni dello Stato democratico.
c) Altri concetti
Si è già accennato implicitamente alla relazione
esistente tra il concetto di leadership e quello di 'potere'.
È bene rilevare che, dei molti significati attribuiti a
quest'ultimo, vale qui come riferimento quello che segue:
capacità di un soggetto di imporre la propria volontà
in un gruppo nonostante eventuali resistenze di altri soggetti,
grazie alla (minaccia di) applicazione di sanzioni. Essa si
manifesta nella forma del 'comando'. Nello Stato moderno questa
capacità è attribuita in modo specifico e legale a chi
ricopre determinati ruoli che, nella sfera politica, sono ruoli di
sovraordinazione nelle sue istituzioni, e perciò si parla
anche di 'poteri istituzionali', fra loro distinti. Il potere e gli
specifici poteri cui si è fatto riferimento sono qui
considerati alla stregua di strumenti della leadership. Una
considerazione a parte meritano però quelli che alcuni
designano come 'poteri personali'. Il più incisivo e
specifico tra essi deriva dall'attribuzione di 'carisma',
cioè di una 'qualità straordinaria', a un soggetto, il
leader, da parte degli altri membri del gruppo, con il conseguente
sviluppo di un tipico processo di strutturazione del gruppo stesso
intorno al leader e di comportamenti da lui orientati.
Al concetto di potere altri se ne affiancano e devono essere
ricordati. Il più importante, forse, è quello di
'autorità', la cui storia ha inizio con gli antichi Romani.
Sembra di poter dire che, per lungo tempo, auctoritas sia valso a
distinguere la facoltà di un individuo o gruppo, per
qualità personali o per la posizione occupata, di dare un
consiglio che, come scrive T. Eschenburg (v., 1965), "non è
un comando ma agisce come se lo fosse". Tra le caratteristiche
fondanti l'autorità rientravano specialmente le gesta
compiute o, comunque, l'esperienza, la competenza, la fama, al
limite producendo quell'altra elusiva ma anche suggestiva
qualità detta 'prestigio', oppure anche 'ascendente'. Il
riferimento implicito alla magia, nel primo caso, e agli astri nel
secondo, ci dicono quanto quest'ultima qualità ci porti
vicini all'area dei processi carismatici, che hanno però ben
altra complessità. Qui si userà 'ascendente' per
indicare quell'influenza che, per caratteristiche come quelle sopra
ricordate e per effetto globale della personalità, il leader
spesso esercita sui convincimenti e sui comportamenti dei suoi
collaboratori e a volte anche di vaste masse. Correlativamente si
accoglie il concetto or ora evocato di 'influenza', per designare
genericamente la capacità di un soggetto di modificare i
comportamenti altrui senza che vi sia né comando né
sanzione.Da ultimo si deve ricordare che le posizioni istituzionali
di potere comportano anche 'poteri simbolici', che esamineremo
più avanti, e 'poteri di fatto' extraistituzionali e magari
non costituzionali, come per esempio quelli esercitati nei decenni
postbellici dai presidenti americani nel campo militare, grazie
anche all''emergenza permanente'; e, inoltre, comportano dei
privilegi nell'uso di risorse sociali che consentano di esercitare
influenza, come i mass media.
2. Forme e idee della leadership nella storia
a) L'antichità greco-romana
L'Ellade è stata la madre del pensiero propriamente politico
e, d'altra parte, ha sperimentato una ricca gamma di forme
costituzionali, dalla monarchia all'oligarchia, dalla tirannide alla
democrazia, che offrivano spazi diversi alla leadership e ne
condizionavano la forma e il modo di esercizio. L'esperienza
democratica della polis, in particolare, è ancor oggi
istruttiva (sia detto in contraddizione con quanti sostengono in
modo radicale l'incomparabilità con la democrazia dei
moderni).
Nei classici ellenici sono già sollevate questioni e avanzate
risposte che ancora meritano attenzione. Come esempio valga la
critica, in Platone e in Aristotele (tra il V e il IV secolo a.C.),
del demagogo, che Weber, muovendo dal significato originario,
considererà poi come il capostipite, nel bene e nel male, dei
moderni capipartito e leaders della democrazia; e, con riferimento
al demagogo in senso deteriore, le riserve di Aristotele
sull'elezione popolare diretta dei capi politici, che invece una
linea di pensiero contemporanea nelle scienze sociali, da Weber a
oggi, giudica soluzione vincente e appropriata nella democrazia
moderna. Nella Politica di Aristotele si trova anche la più
netta argomentazione contro la decisione di un solo uomo e a favore
della deliberazione collettiva come dialetticamente più ricca
e affinata - offrendo con ciò un importante riferimento a un
dibattito di centrale importanza e tuttora molto aperto, nonostante
la diffusa preferenza dei contemporanei per la leadeship collegiale.
Se poi ci eleviamo al piano di un discorso più generale
è Platone che per primo ha affermato in modo radicale, per
dirla con K. Popper (v., 1950), il "principio della leadership",
sostenendo (nelle Leggi) che vi è chi, essendo nato e formato
per ciò, deve "comandare, governare e guidare" gli altri
seguendo un criterio di utile collettivo, comunitario, verso il
quale è personalmente responsabile: una visione che, per
l'essenziale, può valere come riferimento ultimo anche per la
concezione della leadership derivata da Weber proposta nel capitolo
precedente. E, in base alla sua scelta, Platone ha potuto porre in
luce la complementarità di forza e persuasione
nell'arte-scienza del governo, esplorando le dimensioni che oggi
chiameremmo della politica simbolica, largamente manipolativa, e
specialmente il ruolo del mito in essa: così anticipando,
anche per questo aspetto, la ricerca moderna.Il tramonto della
civiltà della polis coincide con l'irruzione in Occidente,
per opera di Alessandro e dei suoi successori, del modello della
monarchia orientale assoluta e collegata al divino mediante la
divinizzazione del regnante, che trova i suoi efficaci teorici e
apologeti in autori noti attraverso frammenti raccolti da Stobeo (V
secolo d.C.). La religione, dunque, appare come riferimento di
legittimazione del potere personale, proposto con particolare
efficacia per mezzo del parallelismo tra ordine cosmico e ordine
politico, fra Dio e sovrano, che si ritrova nel trattato sulla
monarchia attribuito a Diotogene.
Roma è ovviamente il centro di altre grandi esperienze
politiche della civiltà occidentale. Roma repubblicana,
innanzitutto, le cui istituzioni (senato, consolato, tribunato,
dittatura), con le forme relative di leadership, hanno costituito
non solo sviluppi peculiari oggetto di lungo studio, ma un
riferimento, un'ispirazione, per i secoli a venire. E a chiudere la
vicenda repubblicana è stato il fenomeno che ha dato luogo a
una categoria politica e a un modello: il 'cesarismo', sostanziato
di potere personale sostenuto dall'esercito e dal popolo, che
rappresenta un riferimento importante anche per lo studioso della
leadership.
Nella cultura greca e latina l'interesse per i grandi leaders
politici e militari della polis e della Repubblica romana era
certamente grande, anche se le sue espressioni principali
appartengono all'inizio dell'età imperiale. Esso emerge
soprattutto nell'opera storica forse più celebre,
appartenente all'età augustea, cioè La storia di Roma
di Tito Livio, anche se l'attenzione è concentrata sui
caratteri peculiari del leader e della sua leadership piuttosto che
su temi più generali. Ma il più importante tentativo
di impostare un discorso comparativo è naturalmente quello
compiuto da Plutarco (I-II secolo d.C.) con le Vite parallele delle
maggiori figure greche e romane, opera nutrita di perspicace
attenzione per i caratteri posti a confronto, per le situazioni e
per i comportamenti rilevanti sotto il profilo della leadership.
Lo sviluppo dell'Impero romano deve essere qui ricordato
principalmente per due aspetti. Primo: l'estensione in forma
originale all'intero Occidente dell'esperienza orientale introdotta
da Alessandro, con la costituzione a Roma di un potere personale
assoluto e totalizzante, che si configura appieno nella lex de
imperio Vespasiani del 69 d.C. Secondo: il culto dell'imperatore si
confonde con il culto della personalità grazie all'istituto
della divinizzazione, con il concorso degli intellettuali del tempo,
come si può vedere dal Panegirico dedicato da Plinio a
Traiano davanti al senato nel 100 d.C. Se il cesarismo è
divenuto una categoria storica, un modello ancor oggi valido, questi
sviluppi dell'Impero rappresentano quantomeno dei riferimenti
culturali sui quali meditare anche nel nostro secolo; e così,
d'altronde, il simbolismo dell'Impero che a questi sviluppi si
conforma.
b) Il Medioevo
Nell'ambito di una religione monoteistica come quella
giudaico-cristiana non vi era spazio, senza eresia, per la
divinizzazione del re o dell'imperatore, ma soltanto per l'idea di
una ispirazione o di un mandato divino. E in effetti la Bibbia aveva
sviluppato questo concetto, applicandolo sia ai profeti sia ai re:
Mosè appariva nel sacro libro come il prototipo dell'eletto
per una missione divina nella storia, e da Dio direttamente
ispirato. Con la diffusione onnipervasiva del cristianesimo e con la
grande potenza acquisita dalla Chiesa di Roma, il principio della
grazia divina (spesso associato al criterio selettivo del sangue) ha
poi costituito, in Occidente, l'alta legittimazione del potere
imperiale e monarchico, dando perfino luogo all'attribuzione di
qualità straordinarie, taumaturgiche, ai re di Francia e
d'Inghilterra: il loro studio, sviluppato soprattutto da un celebre
libro di M. Bloch (v., 1924), rappresenta un contributo anche per il
nostro tema. L'idea del mandato divino ha perfino contribuito alla
formazione di credenze e pratiche pericolosamente reminiscenti
dell'antica divinizzazione, come E. Kantorowicz (v., 1957) e poi
altri hanno documentato in acuti studi, anch'essi rilevanti in
questa sede, sui "due corpi del re". D'altronde il principio della
grazia divina ha dato l'impronta a ogni momento significativo della
vita pubblica e a ogni comportamento di pubblico rilievo del re e
dell'imperatore, e più in generale all'universo simbolico del
potere.
È da notare che il modello biblico letto e interpretato al di
fuori della Chiesa e magari in polemica con essa ha ispirato una
tradizione carismatica indipendente: più volte nella storia
occidentale, specialmente nei primi cinque secoli di questo
millennio, uomini e donne si sono fatti leaders di movimenti
politico-religiosi e a volte hanno raggiunto ed esercitato il
potere, come a Münster nel XVI secolo, proclamandosi 'messia' e
'salvatori' e perfino, con grave eresia, 'Cristo reincarnato'.
Considerando tutte queste esperienze storiche di imperatori, re e
messia e di peculiari figure come Giovanna d'Arco (XV secolo), vien
fatto di pensare che la religione giudaico-cristiana ha costituito
per la leadership carismatica (nel senso di Weber) la fonte di
ispirazione, determinando al contempo la forma in cui si è
manifestata nei secoli, ivi comprese - secondo il suggerimento di N.
Cohn (v., 1957) nel suo fondamentale libro sui movimenti medievali
sopra rammentati - anche le grandi dittature totalitarie sorte in
connessione con le religioni secolari che nel XX secolo hanno
sostituito quella tradizionale, mutuandone però essenziali
schemi messianici e millenaristici.L'altra grande creazione del
Medioevo è certamente rappresentata dal fiorire della
civiltà comunale e in ispecie della democrazia comunale, al
di là dell'eventuale ripristino, pur significativo, di
istituzioni e magistrature della Roma repubblicana. Ricongiungendosi
alla vicenda dell'antichità e insieme all'esperienza degli
ordini religiosi, la democrazia comunale riprende e applica in molte
varianti il principio di maggioranza nella scelta elettiva dei
governanti e nelle deliberazioni degli organi del Comune, e dei
parlamenti, come E. Ruffini (v., 1977) ha potuto chiarire in termini
particolarmente utili qui. E la leadership collegiale si impone
contro ogni forma di monocrazia.
Proprio nel tramonto di questa civiltà in Italia, e mentre si
afferma la Signoria, la cultura occidentale produce, con Machiavelli
e Guicciardini, riflessioni moderne sul potere. Dagli studiosi
nostri contemporanei Machiavelli è generalmente considerato
il primo importante autore che dia alla leadership un grande e
definito rilievo nella storia, specialmente nel Principe (1513),
trattando dunque dell'arte-scienza del governo come insegnamento
diretto al principe: più esattamente, a colui che si sarebbe
assunto il grande impegno di fare l'Italia. Il Segretario fiorentino
non ha però l'intento di andare al di là di questo, e
il disegno di un discorso più generale sulla leadership deve
semmai essere costruito, a partire da sparsi elementi, per opera dei
vari interpreti mossi da questo specifico interesse.
c) L'età moderna
Gli imperatori e i re rappresentano le figure di leaders più
rilevanti nel Medioevo, a cui oggi gli studiosi rivolgono a volte le
loro cure con strumenti moderni; ma anche alcuni sovrani della
storia moderna e contemporanea, come Guglielmo II, hanno richiamato
giustamente l'attenzione. Non si deve dimenticare, tuttavia, che
anche ai tempi della monarchia assoluta era emersa con evidenza
l'importanza dei ministri e dei consiglieri, dei consigli, dei
parlamenti degli ordini, che partecipavano alla gestione dello Stato
o su essa influivano: le grandi individualità che hanno
ricoperto quei ruoli, come il ministro cardinale Richelieu, sono
diventate anch'esse oggetto di ricerca con approcci che vanno al di
là delle innumerevoli biografie convenzionali.
La Rivoluzione inglese del Seicento rappresenta l'inizio di un'epoca
nuova anche nella prospettiva di questi studi. La Great Rebellion e
il regicidio aprono la via al primo episodio cesaristico moderno,
cioè la dittatura personale di Cromwell, che nutre un forte
'senso di missione' ispirato dalla Bibbia e dalla cultura della
Riforma, e, d'altro canto, si appoggia al favore dell'esercito e di
una parte della popolazione. Con la Glorious Revolution di fine
secolo comincia invece la storia della monarchia costituzionale, ed
è qui da rilevare come, parallelamente, gli studiosi che
vanno elaborando la concezione del nuovo Stato distolgano
l'attenzione dalla leadership: tipicamente Locke (Due trattati sul
governo, 1690) consegna al 'potere legislativo' la posizione
centrale, preminente, nello Stato, mettendo nettamente in subordine
quello che egli sceglie di chiamare emblematicamente il 'potere
esecutivo'. Anzi, lo sviluppo del governo costituzionale in
contrapposizione alla monarchia assoluta e le resistenze e
velleità dei re hanno prodotto una sorta di duratura
diffidenza verso ogni sembianza di potere personale, tale da
ostacolare perfino la istituzionalizzazione di qualsiasi leadership
non collegiale.Tuttavia proprio nel paese in cui si avvia la
costruzione dello Stato moderno, l'Inghilterra, il nuovo ruolo del
parlamento è accompagnato dalla formazione di due partiti e
delle rispettive leaderships, e dal rapporto fra monarca e
parlamento si sviluppa il 'gabinetto' in senso moderno e alla sua
testa, con R. Walpole nella prima metà del Settecento, la
figura del premier - per molto tempo tale soltanto di fatto (il
riconoscimento formale è del primo Novecento).
La Rivoluzione americana e la Convenzione (1787) che ne
coronò l'esito vittorioso, d'altro lato, diedero agli Stati
Uniti la trama costituzionale su cui ha potuto svilupparsi in modo
originale una repubblica presidenziale, con un presidente eletto dal
popolo e sempre più potente. Così le due democrazie
anglosassoni, con il premier e il presidente rispettivamente, si
sono assicurate una leadership personale forte nella sua progressiva
istituzionalizzazione, al contrario dei maggiori Stati continentali
europei che nel XIX secolo hanno sviluppato il modello della
democrazia parlamentare privilegiando il parlamento, da cui
dipendevano il gabinetto e il 'presidente del Consiglio' -
tendenzialmente un primus inter pares - come è tipicamente
accaduto nella Terza Repubblica francese, anche per reazione al
'bonapartismo'. E, naturalmente, questo differente sviluppo spiega
anche il concentrarsi sul premier inglese e sul presidente americano
di una parte specialmente cospicua e fruttuosa della ricerca sulla
leadership politica dei nostri giorni.
d) Democrazia e totalitarismo
Nella prospettiva sopra adottata la storia moderna d'Europa,
particolarmente degli ultimi secoli, sembra essere la storia dello
Stato di diritto e della democrazia rappresentativa fondata su
libere elezioni, in continuità ideale con la democrazia
antica e la democrazia comunale. Ma non si può dimenticare
che questo giudizio è drasticamente influenzato dall'esito
del secondo conflitto mondiale e dalla conseguente diffusione
incontrastata degli ordinamenti e degli ideali democratici e delle
forme di organizzazione economica e sociale proprie dei vincitori.
In realtà, dopo la Rivoluzione francese del 1789 che viene
convenzionalmente indicata come l'evento che segna la fine del
vecchio ordine e l'inizio del nuovo, l'Europa ha conosciuto anche
vasti sviluppi di opposto segno, illiberali e antidemocratici,
almeno secondo la concezione corrente di democrazia. La Francia
stessa ha vissuto con i due Bonaparte esperienze di 'dittatura
imperiale', che hanno anche dato ispirazione a una nuova categoria
della politica, il 'bonapartismo', in verità coincidente con
il cesarismo per l'essenziale: il potere personale appoggiato
dall'esercito e dal popolo tramite l'istituto del plebiscito.
In pieno XX secolo, poi, Italia, Germania e Russia sono state
soggette a dittature totalitarie caratterizzate dalla concentrazione
nel capo di un potere praticamente assoluto, esteso a ogni aspetto
della vita nazionale, ispirato e legittimato dalle religioni
secolari cui si è accennato; e quel modello si è
propagato e imposto, anche per forza di armi, nei paesi vicini. Lo
sviluppo più rilevante in questa sede è stato il
Führerprinzip nella declinazione che lo stesso Hitler ne ha
dato in Mein Kampf (1925-1927). Il leader espresso dalla lotta
rivoluzionaria, e in questo senso 'selezionato dalla Natura',
'riconosciuto' dal popolo, nomina i capi per tutte le istanze dello
Stato e del partito unico a lui immediatamente sottostanti, e
costoro, a loro volta, nominano i preposti al livello inferiore, e
così via, costruendo a partire dal vertice la piramide del
potere. Il Führerprinzip ha rappresentato, nel XX secolo, la
riaffermazione più consequenziaria e articolata del potere
personale e della leadership illimitata, in termini carismatici, e
il rovesciamento speculare, esatto, della concezione democratica
radicale del potere come piramide costruita dal basso per successive
deleghe che la 'base' costituita dal popolo sovrano può in
ogni momento ritirare.
Queste grandi oscillazioni pendolari del destino storico europeo
dopo la Rivoluzione francese si riflettono ovviamente in una vasta
letteratura filosofica, storica, giuridica e sociologica che, per
quasi tutto il XIX secolo, non ha peraltro grande rilevanza per il
nostro tema, fatta eccezione per un punto specifico: il ruolo
storico della leadership che, come meglio vedremo, viene
tendenzialmente marginalizzato dal 'determinismo sociale'
prevalente, a prescindere da scrittori isolati come T. Carlyle. Fra
le analisi storiche di tale ispirazione la più rilevante qui
è forse quella sviluppata da Marx (v., 1852) sul
bonapartismo, almeno in quanto prospetta un regime (cesaristico)
moderno sociologicamente determinato, che a sua volta condiziona e
caratterizza l'esercizio della leadership. Questa analisi è
stata spesso ripresa ma soprattutto in chiave ideologica, e quindi
con pochi frutti.
3. La leadership nelle scienze sociali
a) Un secolo di ricerca
Si può dire che la riflessione sistematica delle scienze
sociali sulla leadership assuma consistenza e rilievo solo verso la
fine del XIX secolo e all'inizio del XX, specialmente nella
sociologia e nella scienza politica, con i contributi tuttora
influenti di G. Mosca (v., 1896 e 1923²) sulla classe politica
e di V. Pareto (v., 1902 e 1916) sulle classi 'elette', di J. Bryce
(v., 1888 e 1910) e di M. Ostrogorski (v., 1903) sulla democrazia
nei paesi anglosassoni, di R. Michels sui partiti e i sindacati
operai (v., 1911 e 1925²) e poi sul fascismo (fra il 1925 e il
1936), di G. Simmel (v., 1908) sul rapporto fra sovraordinato e
subordinato concepito in termini di reciproca influenza, e
soprattutto di Weber (v., 1919 e 1922), che con il concetto di
carisma e l'elaborazione relativa ha lasciato l'impronta più
profonda.
La psicologia ha a sua volta dato contributi fecondi con lo studio
del rapporto fra leader e folla e fra leader e massa da parte di G.
Le Bon (v., 1895) e di S. Freud (v., 1921) - la cui opera ha
però offerto anche idee e proposte più generali su cui
gli studiosi della leadership hanno costruito nei decenni
successivi. Ma anche l'antropologia dava in quel periodo iniziale
apporti rilevanti dimostrando l'ubiquità del fenomeno
leadership, presente anche nelle cosiddette 'società senza
Stato' almeno di fronte a situazioni straordinarie, e ponendo in
evidenza l'attribuzione al leader di poteri straordinari, ovunque,
in siffatte situazioni: un insegnamento, quest'ultimo, che,
elaborato da G. Frazer in The golden bough (1890 e 1911-1915),
anticipò per certi aspetti la teoria di Weber.
Più tardi, d'altronde, l'antropologia culturale ha consegnato
alla sociologia e alla psicologia sociale americana concetti e,
soprattutto, approcci di studio destinati a produrre interessanti
tentativi nella ricerca behavioristica su realtà sociali date
(come la cittadina di R. e H. Lynd o la banda di ragazzi di W.
Whyte, particolarmente interessante per la leadership), o sui gruppi
sperimentali costituiti ad hoc: in questi studi l'osservazione
diretta si alternava o accompagnava con l'uso dell'intervista.
Sorretta da vaste ambizioni si sviluppava intanto la sociometria di
J.L. Moreno (v., 1934), consistente nello studio delle scelte
reciproche in un gruppo e quindi, si riteneva, utile fra l'altro per
individuare chi avesse il ruolo di leader. La costruzione e la
manipolazione dei gruppi sono state spesso finalizzate al vaglio di
specifiche ipotesi circa la leadership già nelle ricerche di
H.H. Jennings (v., 1943), incentrate sull'importanza della
'situazione', e in quelle di K. Lewin e dei suoi collaboratori R.
Lippitt e R.K. White (v., 1943), che, animate da spirito ideologico
e pratico insieme, erano volte a confrontare, in termini
d'efficacia, gli effetti di una leadership autoritaria con quelli di
una leadership democratica. Il behaviorismo ha rimesso radicalmente
in discussione le impostazioni tradizionali, all'inizio riducendo
tendenzialmente la leadership a una funzione del gruppo e in
particolare della 'situazione' di gruppo, in opposizione a ogni
spiegazione in termini di 'tratti', o caratteri, della
personalità del leader, e poi - con una impostazione
più equilibrata - cercando (soprattutto con tecniche
sociometriche) di individuare anche i caratteri più influenti
o, comunque, più apprezzati dai membri del gruppo. Inoltre
nel suo ambito si sono proposti successivi, sofisticati e ambiziosi
sviluppi teorici come la contingency theory di F. Fiedler (v., 1967)
e altri, che si incentrava sul rapporto fra gradimento sociometrico
del leader e rendimento del gruppo, offrendo in questa chiave una
risposta alla questione della prevedibilità dell'efficacia di
una leadership, questione specialmente stimolante per i pragmatici
studiosi americani e per il loro pubblico.
Come si può intuire dai temi di studio ricordati, il
confronto fra totalitarismo e democrazia ha ispirato molte fra le
ricerche degli anni trenta e quaranta sulla leadership. In relazione
al dittatore nazista, T. Adorno e M. Horkheimer hanno in quegli anni
sviluppato in modo originale la lezione di Freud sul rapporto fra
capo e massa, prima di compiere, sempre movendo da Freud, la famosa
e contestata ricerca sulla "personalità autoritaria" (v.
Adorno e altri, 1950). Da Freud deriva principalmente anche
l'approccio alla storia di vita adottato da H. Lasswell (v., 1930)
per leggere i comportamenti politici - costruendo anche i tipi
dell'homo politicus e, perfino, la "formula generale" della sua
formazione. Dopo la guerra il metodo della biografia
psicanaliticamente orientata è stato liberamente applicato a
leaders di grande spicco, specialmente nel celebre libro di A.L. e
J.L. George (v., 1956) sul presidente Wilson e nelle ancor
più celebri e influenti ricerche di E. Erikson sul giovane
Lutero (1958) e su Gandhi (1969), che hanno sapientemente
considerato il processo formativo lungo tutta la vita, attraverso
momenti critici decisivi e con riferimento puntuale agli avvenimenti
storici nel loro svolgimento. Questo incontro di psicanalisi e
storia ha fatto veramente scuola, ispirando una serie lunga e
nutrita di 'psicobiografie' di leaders di ogni campo e di ogni tempo
- per esempio i presidenti americani - nonché scritti teorici
e metodologici e perfino una rivista, "The psychohistory review",
che tiene viva e aggiorna questa tradizione di studi.
È opportuno però ricordare che anche altre idee di
Freud hanno ispirato la ricerca sulla leadership; e sono da
rammentare le scuole sviluppatesi essenzialmente dai semi del
pensiero freudiano, come la 'psicologia del narcisismo', che ha dato
luogo sia a riflessioni teoriche di ampio raggio sia a studi
penetranti su singoli leaders. D'altronde hanno influito, nella
vicenda di questi studi, anche linee di pensiero per così
dire alternative come quella rappresentata da A. Adler e dal suo
discepolo A. Maslow (v., 1954), la cui 'teoria dei bisogni' è
stata accolta con interesse da importanti studiosi della leadership
come J. Burns (v., 1978) particolarmente nello studio delle
motivazioni. Come elaborazione dei suggerimenti della psicologia
merita poi rilievo il tentativo di J. Barber (v., 1972) di costruire
strumenti di misurazione che consentano di cogliere le
caratteristiche psicologiche alla base del comportamento dei leaders
(o più esattamente dei presidenti americani) e quindi delle
loro difficoltà eventuali e del loro successo (o insuccesso),
con ciò offrendo la risposta più alta, sebbene
certamente criticabile anch'essa, alla richiesta di
prevedibilità dell'esito di una leadership che tormenta
particolarmente la cultura americana.
Accanto a questi approcci che ricevono un'impronta dominante dalla
psicanalisi o dalla psicologia di varia scuola se ne sono sviluppati
altri più propriamente politologici e sociologici.
Ispirandosi al contributo di Weber sul carisma, ed elaborandolo,
vari studiosi hanno assunto come oggetto di ricerca specialmente tre
tipi di fenomeni: le dittature totalitarie tra le due guerre (v.
Cavalli, 1982; v. Bach, 1990); le dittature intorno alle quali si
è costituito e consolidato lo Stato nei paesi ex coloniali, e
più in generale la formazione di 'nuove nazioni' (v. Lipset,
1963); gli sviluppi della democrazia moderna verso un modello di
'democrazia con il leader', riprendendo anche la riflessione di
Weber sulla democrazia contemporanea (v. Cavalli, 1992). Ma la
ricerca sulla leadership ha tratto grande vantaggio anche da
indagini empiriche specifiche (con dati prevalentemente di
intervista e di osservazione) sulle varie istituzioni democratiche e
sul loro personale dirigente, nonché dallo studio
approfondito di singoli casi e dagli studi comparativi su larga base
quantitativa. Ripartendo in generale dal classico lavoro di Michels
(v., 1911 e 1925²), ma poi sempre più liberamente, si
sono quindi studiati nella loro peculiarità la leadership e i
leaders di partito sotto vari profili. Altrettanto si è fatto
per leadership e leaders parlamentari, particolarmente per il
Congresso americano. E in questo quadro è da ricordare anche
la riflessione sui comitati parlamentari e le loro regole operative
(la 'compensazione differita', soprattutto), portata avanti da G.
Sartori (v., 1987) e da altri, che fa luce sul complesso sistema
decisionale nella democrazia contemporanea e sugli equilibri
compromissori che ne derivano.
La ricerca sui membri del governo, i ministri, ha dato luogo a studi
quantitativi che, soprattutto sotto la guida di J. Blondel (v.,
1980; v. Blondel e Thiebault, 1991) e di M. Dogan (v., 1989), hanno
consentito di raccogliere ed elaborare sistematicamente informazioni
sulle caratteristiche 'demografiche' (in larga parte 'sociali') dei
ministri stessi e in ispecie dei leaders di governo, da un lato, e
sulle loro carriere politiche e di governo, dall'altro. Ma per i
nostri fini meritano rilievo gli studi su singoli leaders di governo
e singoli governi che gli sviluppi degli studi politologici e il
clima democratico di trasparenza consentono di fare usufruendo di
documenti, testimonianze, interviste ad hoc, e in taluni casi
perfino di dati di osservazione diretta. Così, per rammentare
solo due esempi significativi, F. Greenstein ha potuto offrirci
contributi di conoscenza suggestivi sui presidenti Eisenhower (v.
Greenstein, 1982) e Reagan, e A. King sul premier Thatcher (v. King,
1985²), nei loro ruoli di capi dell'esecutivo. Studi di questo
genere associati a ricerche biografiche più avvertite possono
fra l'altro aiutarci a conoscere meglio la concezione che della
leadership e del proprio ruolo storico hanno i leaders stessi: un
dato in molti casi di centrale importanza e che tuttavia riceve una
insufficiente attenzione.
b) Comunicazione e politica simbolica
La capacità di comunicare convincentemente con gli altri (nel
senso più ampio del verbo) è stata percepita da sempre
come fondamentale per il leader, ed è stata in particolare
curata la comunicazione verbale sia con i diretti interlocutori sia
nelle riunioni consiliari e nelle assemblee di popolo. A ciò
si ricollega l'importanza che la retorica e l'insegnamento della
retorica avevano già presso i Greci e i Romani, e in
relazione a ciò si deve valutare, per esempio, la notizia che
Cesare va a studiare quella disciplina a Rodi. Da sempre, inoltre,
è stata colta dai leaders e dai più attenti
osservatori l'importanza dei simboli, dei riti e dei miti per il
governo, e l'opportunità, anzi la necessità, di usarne
largamente e sapientemente; anche in relazione a ciò è
stata apprezzata l'organizzazione di comportamenti pubblici intorno
al leader con criteri scenici e, ove possibile, con riferimenti
'religiosi', per mobilitare le credenze e i sentimenti comuni ultimi
della società. Anche il comportamento dei leaders tende
perciò a stilizzarsi secondo un modello, e a svolgersi
secondo un copione conforme alle attese culturali dominanti, siano
esse date dalla tradizione o dalla rivoluzione.
In questo senso profondo si è detto che la vita pubblica
è teatro, in ispecie al vertice, e il leader è
l'attore protagonista: verità espressa potentemente dai
grandi tragedi, e in modo straordinario da Shakespeare nel primo
atto del Julius Caesar e in alcune scene del Richard III e di altri
drammi.Verso la fine del XIX secolo la riflessione di Le Bon (v.,
1895) e di altri psicologi sociali sul rapporto tra il leader, le
assemblee e le folle, molto penetrante anche se condotta con
strumenti scientifici poveri, ha gettato luce sulla psicologia di
massa e sui modi più efficaci per agire su di essa da parte
di un leader, mentre altri autori hanno contribuito con differenti
elementi di conoscenza, per esempio G. Sorel con lo studio del mito
(1906). Questi intellettuali e soprattutto Le Bon hanno anche
contribuito grandemente a formare la concezione della leadership di
alcuni fra i leaders più significativi del secolo, a
cominciare dai grandi dittatori fra le due guerre, Mussolini, Hitler
e forse anche Lenin. Il dittatore tedesco ha teorizzato in Mein
Kampf, e poi applicato con una certa genialità, i
principî di una leadership conforme all'insegnamento dello
studioso francese e, in particolare, ha usato con consapevolezza ed
efficacia 'scientifica' tutte le risorse della retorica e di un
universo di simboli, riti e miti da lui creati o adattati alla
grande e continua rappresentazione teatrale di cui era l'assoluto e
quasi divinizzato protagonista. Lo sviluppo delle comunicazioni e
dei mass media, ossia del cinema e della radio, gli consentiva una
sorta di ubiquità e di presenza diretta, personale, nei
ritrovi e nelle case, che dilatava enormemente il suo influsso sulla
popolazione. Se i dittatori totalitari avevano ovviamente modo di
trarne vantaggio pieno e di anticipare in qualche modo gli scenari
del futuro, tuttavia le opportunità offerte dalla
comunicazione via etere (dopo l'era della parola parlata, diretta, e
quella susseguente della parola scritta come mezzo prevalente di
influenza) non sfuggivano certamente nemmeno ai leaders democratici:
come dimostra l'uso sapiente ed efficace della radio da parte di
Roosevelt in quegli stessi anni.
Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, però, le
condizioni sociali, culturali e tecnologiche si sono fatte sempre
più propizie per una leadership scientifica capace di usare
tutte le risorse cui si è accennato, anzi ne hanno creato
l'esigenza. Basti qui ricordare lo sviluppo delle comunicazioni
aeree e dei mass media che ha dato realtà crescente a quelle
immagini di ubiquità e di presenza pervasiva in ogni luogo.
Di conseguenza si sono avuti altri sviluppi rilevanti. Per un verso
il campo di studio si è allargato per comprendere la
leadership moderna nei suoi tipici modi di esprimersi e comunicare,
condizionati dalle nuove tecnologie e dai nuovi pubblici, che al
limite privilegiano, fra i leaders, non solo qualità e
comportamenti, ma anche personalità psicofisiche diverse dal
passato. Per un altro verso questi studi influiscono in modo
sistematico e incisivo sui comportamenti politici e
sull'organizzazione della politica determinati dai generali
mutamenti di cui si è detto e dal progresso tecnologico in
particolare: scienziati ed esperti intervengono direttamente in
questo processo come consiglieri a volte molto ascoltati. La
politica, che si svolge sempre più sotto gli occhi della
popolazione, diventa quindi una rappresentazione pubblica, teatrale,
in cui però la scienza accompagna o soverchia l'arte
imponendosi anche agli attori protagonisti. Emblematici possono
essere considerati i confronti precipuamente televisivi tra i due
candidati alla presidenza americana, al culmine della campagna
elettorale e davanti a decine di milioni di spettatori, in base a
una scenografia e a regole contrattate da esperti che già
hanno curato la lunga preparazione con autentiche 'prove' (teatrali)
secondo strategie e tattiche ispirate a principî di psicologia
sociale posti al servizio di finalità politiche.
Ma la continua rappresentazione, sempre più complessa, di cui
è al centro impone al leader contemporaneo una
molteplicità di ruoli carichi di valenze simboliche e oggetto
di studio specifico, per cui la sua 'retorica' ha dovuto arricchirsi
anche per questo riguardo: sotto la guida, sempre, della scienza.
Qui cade opportunamente il richiamo alle ricerche sul simbolo e sui
suoi usi in politica, da tempo iniziate dall'antropologia, dalla
psicanalisi e anche da altre discipline, ma sviluppate in modo
continuo e attuale da due scienziati politici contemporanei: H.
Lasswell, fin dagli anni trenta, e M. Edelman, autore negli anni
sessanta di un famoso libro sugli "usi simbolici della politica" e
poi di altri scritti influenti. Entrambi, e il secondo più
del primo, hanno però privilegiato l'uso manipolativo del
simbolo presso le masse, con particolare attenzione al mito e al
rito. Altri scienziati, di formazione principalmente antropologica,
hanno pure studiato comparativamente i riti presso vari popoli e in
epoche diverse, distinguendone le varie funzioni di legittimazione,
definizione della realtà, investitura e così via, con
uno speciale interesse per i riti di massa. Questi studi illuminano
una dimensione essenziale della politica e quindi le vie della
leadership consapevolmente, scientificamente esercitata.
c) Riflessioni per una sintesi
L'estrema complessità del fenomeno leadership e la
pluralità degli approcci delle varie discipline hanno
ostacolato i tentativi ambiziosi di giungere a una teoria generale e
perfino a una sintesi organica dei contributi prodotti finora. In
effetti per qualche tempo si sono avute, nel migliore dei casi,
ricche rassegne monodisciplinari in opere collettive modestamente
titolate handbook, come quelle di psicologia sociale a cura di C.A.
Gibb (v., 1954) e di D. Katz (v., 1953). L'International
encyclopedia of the social sciences (1968) ha offerto invece
un'ampia prospettiva psicologica, sociologica e politologica del
problema. Il primo ampio e approfondito tentativo di sintesi
personale si è avuto con Leadership di J. Burns (v., 1978),
opera molto nota e per certi aspetti insuperata. Pochi altri
tentativi del genere hanno fatto seguito; meritano di essere
ricordati i lavori di studiosi come R.C. Tucker (v., 1981) e J.
Blondel (v., 1987), attenti anch'essi al quadro d'insieme. Ma lo
sforzo di offrire questo quadro e di far conoscere nuovi schemi
teorici e nuovi approcci è stato affidato in buona parte,
lungo i decenni, alle raccolte variamente organiche di saggi scritti
da studiosi del settore, come quelle curate da L. Edinger (v.,
1967), G. Paige (v., 1972), B. Kellermann (v., 1984), C.F. Graumann
e S. Moscovici (v., 1986), B.D. Jones (v., 1989).
I risultati più interessanti sono forse stati due. Primo:
aiutare considerevolmente a discernere le questioni principali del
settore, con le loro interrelazioni, e a porre a confronto i vari
contributi in argomento. Così la formazione e la selezione
dei leaders emergono come questioni centrali che possono essere
affrontate con qualche utilità solo concentrando il fuoco
dell'indagine sugli elementi di continuità (come la
motivazione di fondo) fra questi due momenti della carriera di un
leader e mobilitando criticamente la vasta conoscenza
interdisciplinare acquisita. Secondo: produrre distinzioni
concettuali e tipologie spesso utili, non fosse che per i problemi
che sollevano, e più di rado ricerche basate su esse.
Così la distinzione fra leadership rivoluzionaria e
leadership riformatrice proposta da più di uno sembra
corrispondere a tipi diversi di leaders e di rapporti fra leader e
seguito, e inoltre apre la via a una comprensione più
adeguata delle rispettive strategie: come fa Burns distinguendo tra
le strategie di riforma. Ma utile, nello stesso senso, è
l'invito di Tucker a distinguere fra leadership istituzionalizzata e
non istituzionalizzata, cioè fondata o no su una posizione o
carica con poteri definiti nello Stato o in altra istituzione,
perché la dicotomia proposta richiama l'attenzione su
differenze importanti e in particolare sul ruolo essenziale che il
leader ha personalmente, per autorità e ascendente, nella
nascita e nello sviluppo dei movimenti sia riformatori che
rivoluzionari.
Tra le distinzioni classificatorie spesso adottate ve n'è una
che merita forse un momento di speciale riflessione: quella
concernente i 'leaders intellettuali', che vari autori significativi
accolgono e discutono ampiamente, riferendosi sia a singoli
pensatori come Locke e Madison, sia a gruppi relativamente omogenei
di intellettuali come i philosophes illuministi. Sembra di poter
dire che essi siano leaders soltanto quando si accetti una
definizione di leadership estremamente generica in cui rientra ogni
influenza esercitata da un uomo su altri, o magari una sua
specificazione di carattere valoriale, come quella in cui Burns fa
rientrare la leadership degli intellettuali ("leadership
trasformatrice", che innalza leader e seguito "a più alti
livelli di motivazione e moralità": quest'ultima intesa,
sembrerebbe, in termini non culturali e quindi relativi, ma
assoluti). Ma - a prescindere dalla dubbia utilità
scientifica di ogni strumento concettuale intrinsecamente valoriale
- con siffatte definizioni la leadership viene separata, scorporata
da ogni struttura sociologica, e con ciò diviene essa stessa
qualcosa di incerto e di evanescente. Sembra essenziale, sulla linea
del discorso scientifico del secolo, considerare la leadership come
diretta a uno scopo entro una struttura di interazione sociale
formalmente definita o meno, in ogni caso caratterizzata da un
sistema di ruoli tipici incentrato nel ruolo del leader e con una
dinamica tipica condizionata principalmente da chi ricopre quel
ruolo.
Più che l'intellettuale inteso come filosofo, scienziato
sociale o artista che elabora pensiero e lo consegna alla carta
stampata per un pubblico disperso e in gran parte sconosciuto,
merita perciò di rientrare nel computo l'opinion leader: non
più inteso nel senso della celebre ricerca di E. Katz e P.
Lazarsfeld (v., 1955), cioè come tramite e filtro dei
messaggi dei media, ma come uomo dei media egli stesso, che ha un
punto di vista e la libertà di leggere il mondo in
conformità a esso, raggiungendo sistematicamente un pubblico
di utenti. Anche in questo caso si ha in effetti una struttura
sociologica come sopra precisato. Ma è bene ricordare che
l'opinion leader non dispone di 'potere' nel senso inteso qui,
bensì soltanto di 'influenza': e l'esercizio di influenza,
d'altronde, dipende in linea di principio dalla proprietà dei
media, con tutte le conseguenze alternative di condizionamento o
impotenza (o ininfluenza) che ne possono derivare per lui.
4. Il leader: società e politica
a) Formazione
In questo settore di studi hanno giustamente richiamato molta
attenzione, in prospettive diverse, i momenti contigui della
carriera del leader rappresentati dalla formazione e dalla
selezione. Tuttavia entrambi i momenti, e il primo specialmente,
riescono spesso sfuggenti, e alcuni autori, propensi a una
sociologia modellata sulle scienze naturali, osservano che le
attribuzioni del rapporto causa-effetto sono in questo campo
particolarmente incerte. L'approccio più semplice e diretto
assume come riferimento le istituzioni che hanno la parte più
importante nella socializzazione di un nuovo membro della
società: la famiglia, la scuola di ogni grado, le libere
associazioni e, naturalmente, quelle di carattere politico in primo
luogo. Le biografie di ogni tempo attestano che quelle istituzioni
hanno sempre influito anche sullo sviluppo di motivazioni e
capacità attinenti alla leadership e al successo dei leaders:
molto in condizioni sociali normali e meno, invece, nel corso delle
rivoluzioni, quando più occasioni si presentano agli uomini
nuovi. L'importanza delle istituzioni ricordate è stata
rilevante soprattutto nelle società in cui la classe
dirigente era relativamente chiusa e l'appartenenza era 'ascrittiva'
in base, per esempio, al principio ereditario. Famiglia, scuola e
associazioni esclusive contribuiscono potentemente, si direbbe, alla
costruzione di una personalità atta alla leadership,
preparano per questo compito in senso generale e tecnico, e infine
introducono in un ambiente sociale e in sistemi di relazioni sociali
che, oltre a perfezionare la formazione del leader, gli forniscono
le occasioni e il supporto per la carriera nella sfera politica o in
altra di pubblica rilevanza.
Anche gli esercizi militari e sportivi tendenzialmente esclusivi,
riservati, contribuiscono comunemente a un'appropriata educazione.
Questa classe dirigente (relativamente) chiusa ha spesso un ethos
suo proprio che comporta la scelta della vita pubblica come la
più appropriata e forse come un dovere morale, e può
anche essere portatrice di una filosofia, o almeno di una visione
del mondo e del proprio ruolo in esso, e di metodi e tecniche ad
hoc. Si rileverà con ragione che nella storia siffatti
privilegiati percorsi formativi (e selettivi) trovano riscontri
sistematici in connessione con l'esistenza di autentiche
aristocrazie, come nell'antica Roma o nella Gran Bretagna imperiale,
e sono infatti illustrati tipicamente da leaders celebri espressi da
siffatte aristocrazie come per esempio Cesare o Churchill, oppure,
mutatis mutandis, dai regimi a partito unico del nostro secolo; e
trovano riscontri interessanti anche nelle chiese fondate sul
carisma di ufficio come, per eccellenza, la Chiesa cattolica.
Tuttavia in molti paesi sono presenti residui, a volte socialmente
rilevanti, di classi dirigenti chiuse e riaffiora frequentemente la
tendenza a costituire una classe dirigente relativamente separata e
con elementi di ereditarietà, tendenza non di rado rafforzata
da istituzioni pubbliche o private per la formazione della classe
dirigente.
Alcune delle istituzioni citate meritano una ulteriore e più
particolare attenzione. La famiglia innanzitutto. Lo studio
scientifico o, almeno, sistematico delle biografie ha messo in
evidenza altri aspetti del suo contributo formativo. Studiosi di
orientamento psicanalitico hanno chiarito come il rapporto con il
padre possa in più modi riuscire rilevante per la scelta
della vita pubblica e per il perseguimento di posizioni di potere e
di leadership, per l'adozione di ideali e di obiettivi, per il modo
stesso di esercitare la leadership, con i relativi successi e
insuccessi; né ciò può apparire sorprendente,
una volta che si sia in generale ammessa l'importanza di quel
rapporto parentale nella costruzione della personalità.
Questa idea ha ispirato in parte le già citate ricerche di
Erikson su Lutero e su Gandhi ed è dominante nel famoso
studio dei George su Wilson, che fa del difficile, frustrante
rapporto con il padre la chiave della condotta del presidente
americano nella sua complessa articolazione: il recupero della stima
di sé compromessa da quel rapporto è il vero
propellente del suo impegno politico e della sua leadership e,
infine, anche la causa del suo tragico fallimento.
Sviluppo meno approfondito e originale hanno avuto in complesso gli
studi relativi alla madre. Centrale resta il suggerimento di Freud
che il 'beniamino' della madre sia spesso, da adulto, contrassegnato
da spirito di conquista e fiducia nel successo: cioè dalle
caratteristiche della personalità che molti considerano
fondamentali in un leader. D'altro lato alcuni studiosi della
psicologia del narcisismo e della sua incidenza politica ritengono
che la distorta formazione della personalità nell'infanzia
(o, più precisamente, del 'sé'), eventualmente
originata da insufficiente amore materno, possa spiegare la
mentalità e la condotta di tipici capi carismatici (e anche
del nucleo più autentico del loro seguito): l'una e l'altra
fondate su una drastica, manichea contrapposizione del Bene e del
Male, e sulla presunzione di rappresentare il Bene.
Ma troppo spesso non si dà sufficiente importanza al fatto
che gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza sono anche quelli
della socializzazione politica primaria, in cui progressivamente si
apprende a conoscere la struttura sociale e politica del proprio
paese e si sviluppa anche un attaccamento affettivo (o, viceversa,
alienazione e rigetto) verso gli ordinamenti dati e i valori
fondanti, come quello di patria; in un paese 'diviso', però,
può accadere che sia invece la classe sociale, o la minoranza
etnica, o la subcultura di appartenenza, e il partito che le
organizza, a costituire il riferimento dell'identificazione e
dell'attaccamento.
Naturalmente sono di fatto possibili varie combinazioni. Si
costituiscono così anche gli ideali e il relativo impegno dei
futuri leaders, a prescindere da quei conflitti con la famiglia che
sono stati privilegiati da gran parte della ricerca sotto
l'influenza della psicanalisi. I genitori, e più in generale
i parenti, possono avere in questa formazione un ruolo notevole, ma
semplicemente come esempi e maestri, e le vicende dolorose e magari
drammatiche vissute per quegli ideali dai parenti stretti, ed
eventualmente anche dal futuro leader, rafforzano il suo impegno per
la 'causa'. In questa chiave è soprattutto da leggere,
probabilmente, il rapporto fra Churchill e il padre, lo statista
sconfitto, deluso e prematuramente scomparso, o fra Clemenceau e il
padre, il repubblicano perseguitato da quel regime imperiale che,
d'altronde, angariava anche il futuro presidente del Consiglio
allora giovanissimo; e, per quanto consta, anche il rapporto tra il
giovane Lenin e il fratello rivoluzionario impiccato dal regime
zarista.Si deve tuttavia ricordare qui che molti leaders
storicamente importanti, anche nel nostro secolo, hanno nutrito un
'senso di missione' che li ha sostenuti e guidati nella loro
carriera e che sembra essersi costituito nell'adolescenza, in
connessione con eventi traumatici o comunque di grande impatto
emotivo. E giustamente si è rilevato che ciò è
accaduto con uomini molto diversi per personalità,
convinzioni e comportamenti. Un senso di missione si è
manifestato nei dittatori totalitari e nei leaders democratici, nei
capi di guerra e in quelli del tempo di pace, con diverse
formulazioni ed enfasi tutt'affatto diverse. Lo ritroviamo in
Hitler, conclamato, insieme alla convinzione di rappresentare il
Bene contro il Male, ma d'altra parte affiora nitidamente anche in
vari passaggi delle memorie di de Gaulle e di altri leaders
occidentali, espresso nei termini più congrui per
società democratiche e secolarizzate.Il senso di missione
può svilupparsi più compiutamente in una cultura
permeata da una religione incentrata in un Dio creatore e signore
del mondo, che può quindi affidare a singoli uomini precisi
compiti nella storia, 'missioni', come testimonia la lunga vicenda
giudaico-cristiana. Oppure nell'ambito di una delle religioni
secolari del nostro tempo, come accadde con Hitler, eletto, secondo
lui, dalla Dea Natura.
Da notare poi che un atteggiamento analogo può costituirsi
anche con l'identificazione in una figura storico-leggendaria, come,
per restare nel nostro tempo e nel quadro totalitario,
l'identificazione di Stalin in Koba, figura romanzesca di bandito
giustiziere (v. Tucker, 1973). Ed è da ricordare ancora il
concetto freudiano di 'romanzo familiare', abilmente sviluppato da
Moscovici (v., 1981) per spiegare come un bambino possa inventarsi
una seconda famiglia (reagendo, anche in questo caso, ai conflitti
con i veri genitori) e identificarsi con un grande modello umano che
orienta poi la sua vita. Ma, naturalmente, il senso di missione o
più semplicemente la dedizione assoluta a una causa da parte
di eminenti leaders non devono essere ascritti esclusivamente alle
esperienze dell'infanzia e dell'adolescenza, normali o patologiche
che siano. Esperienze traumatiche successive possono aver avuto una
parte forse decisiva. Così, per esempio, Erikson argomenta
validamente che l'esperienza di essere cacciato dalla prima classe
del treno perché indiano, a Pretoria, e il proprio
comportamento indomito di fronte a quella violenza, e ad altre che
seguirono, diedero al giovane barrister Gandhi la certezza di essere
il solo uomo predisposto dal fato per condurre con successo la lotta
contro la discriminazione e l'oppressione della sua gente.
Nella formazione di un leader e, d'altronde, nel suo successo ha una
parte, in vari modi, anche la scelta professionale. In particolare
la professione di avvocato è stata fortemente collegata alla
carriera politica nelle democrazie rappresentative, perché
garantiva competenza nell'amministrazione della cosa pubblica, da un
lato, e nella protezione degli interessi particolari
dell'elettorato, dall'altro, e inoltre lo studio professionale era
una base organizzativa valida anche per gestire le campagne
elettorali e il rapporto continuo con le clientele. Con l'evoluzione
sociale e politica generale, tuttavia, altre condizioni
professionali sono emerse come utili nella carriera pubblica
democratica: per cominciare, quella dell'uomo di spettacolo, che ha
grandemente contribuito a fare di uomini nuovi, come Ronald Reagan,
i protagonisti della grande politica, essendo la capacità di
comunicare via media con la popolazione ormai richiesta tanto nelle
competizioni elettorali quanto nell'esercizio del potere di governo
(v. Cavalli, 1987 e 1992).Una particolare riflessione merita infine
un antico quesito: se si possa insegnare sistematicamente la
leadership, oppure no. Platone è generalmente considerato
colui che per primo e più vigorosamente, proponendo l'ideale
del re filosofo, ha sostenuto che ciò può, anzi, deve
essere fatto. Ma l'antico filosofo credeva, come direbbe Popper, nel
'principio della leadership' come fondamento dello Stato. E appunto
Popper, rigettando in modo radicale quel principio, ha negato anche
l'opportunità di affidare alle istituzioni scolastiche il
compito di formare una classe dirigente politica, perché si
risolverebbe in un danno per le capacità critiche e creative
e avrebbe, perfino, potenzialità totalitarie. Probabilmente
sarebbe più ragionevole considerare la leadership politica
senza pessimismo preconcetto e il suo esercizio come in parte almeno
arte e in parte scienza. Come scienza, è tutta da imparare;
come arte, richiede qualità e caratteristiche native affatto
insostituibili ma tuttavia passibili di sviluppo e affinamento per
effetto di appropriati insegnamenti e di una pratica guidata in modo
competente. È ragionevole credere, per esempio, che la public
school, principalmente diretta alla formazione del carattere, abbia
contribuito non poco a formare una classe dirigente politica fra le
più apprezzate nella storia della democrazia, quella inglese,
ai cui vertici, d'altronde, quel tipo di scuola è ancora
sovrarappresentata. Ai nostri giorni, poi, l'École Nationale
d'Administration, nonostante una caratterizzazione prevalentemente
'tecnocratica', ha dato alla Francia non soltanto alti quadri
amministrativi ma anche leaders politici di governo molto
qualificati, come V. Giscard d'Estaing, più volte ministro e
poi presidente della Repubblica.
È anche da ricordare, in questo contesto, l'importanza che
l'insegnamento della retorica ha avuto, segnatamente in Atene e
nell'antica Roma, e che ha tuttora nei paesi democratici moderni.
Negli Stati Uniti, dove grande è la tradizione del pubblico
dibattito, il public speaking ha da tempo un posto anche nelle
scuole non d'élite, con corsi e competizioni ad hoc; ed
è probabilmente significativo che uomini politici che hanno
raggiunto alte posizioni, come i presidenti Johnson e Nixon, siano
stati cultori di questo genere (che il primo ha perfino insegnato).
Anche le chiese cristiane e, forse più di altre, la Chiesa
cattolica hanno tradizionalmente curato, nella formazione dei propri
ministri, l'insegnamento retorico e anche la pratica di parlare in
pubblico e, difatti, l'eloquenza ha sempre costituito un mezzo molto
importante ai fini della guida spirituale del 'gregge' e della
conversione religiosa.
b) Selezione
Il processo di selezione dei leaders varia naturalmente a seconda
del tipo di società e di Stato, e coincide in parte con il
più generale processo di selezione della classe dirigente e
in parte con quello di assegnazione delle cariche nelle varie
strutture istituzionali, non soltanto politiche; sicché
è con un continuo riferimento a più ampi quadri
sociologici che debbono essere contemplati alcuni elementi qui di
specifico interesse. Va ricordato, innanzitutto, che l'acquisizione
delle cariche che consentono l'esercizio eventuale della leadership
ha avuto luogo, nella storia, secondo criteri tipici come
l'estrazione a sorte e l'elezione (che erano complementari nella
democrazia ateniese), la nascita e la cooptazione (tipiche
rispettivamente del regime aristocratico e di quello oligarchico, ma
di fatto spesso complementari), la 'rotazione' (appropriata a una
confederazione, come la Svizzera), la 'chiamata', che caratterizza i
nuovi poteri fondati sul carisma; e la 'nomina' da parte del
superiore, che concerne principalmente le cariche di potere
subordinato (ma anche un segretario di Stato americano è
nominato dal presidente).
Tutti questi criteri sono stati di fatto operanti anche nelle
democrazie contemporanee, sebbene quello formalmente stabilito per
le cariche pubbliche consista generalmente nell'elezione. La
condizione fondamentale di questo polimorfismo della selezione
democratica sta nel fatto che il partito ha assunto il ruolo di
tramite fra il cittadino e le istituzioni, e di fatto ha avuto un
tendenziale monopolio nella selezione della classe politica e nella
distribuzione delle cariche, anche se l'assetto partitocratico
è stato indebolito e modificato dall'emergenza in qualche
paese e in altri ancora è entrato in crisi sotto la spinta di
profondi mutamenti nella società e negli equilibri
internazionali. È nel partito che in effetti prevale il
criterio della cooptazione da parte di uomini o gruppi potenti, a
volte associato in qualche modo con il criterio della nascita e
quello della rotazione: sicché l'elezione pubblica viene a
legittimare formalmente una scelta compiuta nel partito in base a
quei criteri. Naturalmente la selezione affidata al partito presenta
due pericoli principali: il primo è che l'eletto sia
più ligio ai valori e agli interessi del partito che a quelli
dello Stato e della nazione; il secondo è che le
caratteristiche che portano alla scelta del candidato, per esempio
la fedeltà al partito e la capacità di procurargli
vantaggi, non siano quelle più qualificanti per il governo
dello Stato. Questi pericoli divengono più seri quando viga
una legge elettorale proporzionale, che assicuri tendenzialmente ai
partiti un maggior potere di determinare e le candidature e gli
esiti delle elezioni. Lo scrutinio con il metodo uninominale
maggioritario indebolisce un poco questo potere, perché la
personalità e il curriculum del candidato acquistano maggior
peso. Ma questo metodo elettorale, di per sé, rende l'eletto
più dipendente dagli interessi del suo collegio e da altri
interessi particolari della cosiddetta società civile.
Sottoposto da un lato alle esigenze del partito e dall'altro a
interessi localistici e di gruppi di pressione, il parlamentare,
comunque eletto, non sembra in posizione tale da essere, come
generalmente pretendono le costituzioni, il rappresentante della
nazione, che ha l'interesse generale come criterio assoluto del suo
mandato. Una qualche limitata garanzia in questo senso, e ancor
più sotto il profilo della capacità e della
competenza, è secondo certuni rappresentata dalla prassi
adottata dai partiti in alcuni paesi di stabilire almeno dei cursus
honorum di massima. Il primo scalino può consistere, come si
è visto anche in Italia, in un periodo di servizio nel
partito, seguito o accompagnato da cariche elettive in enti locali o
nella regione. Un ulteriore scalino è ovviamente costituito
dalla candidatura e dall'elezione al parlamento. Qui la carriera
può continuare con altri passaggi successivi, come la
presidenza di una commissione e un sottosegretariato, fino
eventualmente alla titolarità di un ministero e, magari, alla
carica di presidente del Consiglio. Ma non si tratta di un cursus
obbligato, anzi sono numerose le eccezioni. Inoltre si obietta che
lo stabilirsi di questi cursus di fatto accresce ancora il controllo
del partito sulla selezione con lo sviluppo di un deteriore
professionismo politico, consegnato in buona parte a funzionari di
partito e a elementi marginali della società senza
alternative consistenti di mobilità ascensionale.
L'avversione per il professionismo politico è invero divenuta
un tratto dominante dell'opinione pubblica democratica, e si
invocano leggi elettorali e regole connesse che lo sconfiggano e
assicurino un facile transito dalle carriere civili alla politica
per tempi limitati, con un continuo e sempre rinnovato apporto di
competenze, qualità personali e spirito di servizio.
Nelle democrazie della seconda metà del secolo, poi, hanno
acquistato importanza crescente nel processo selettivo i mass media,
stabilendo un rapporto diretto fra candidato ed elettore che,
specialmente con il metodo uninominale maggioritario, dovrebbe
consentire una scelta più meditata e anche un controllo
maggiore sugli eletti. Tuttavia questa speranza non si è per
ora realizzata in misura soddisfacente perché i media hanno
consentito la manipolazione demagogica delle campagne elettorali e
dei comportamenti parlamentari, anche per la difficoltà, in
quest'ultimo caso, di addivenire a probanti riscontri, a causa degli
intrecci di responsabilità collettiva e, più in
generale, della 'distanza' del cittadino medio dalla politica
nazionale, determinata anche dalla scarsa disponibilità e
dalla non educazione caratterizzanti le popolazioni quasi ovunque.In
conclusione si può dire che la selezione della classe
politica, se è probabilmente il momento cruciale del processo
democratico, è però anche il più problematico.
Fin dall'inizio del secolo le ricerche di Bryce, Ostrogorski,
Michels avevano messo in evidenza la modestia dei risultati
raggiunti e molte delle relative cause, cui si è aggiunta la
disfunzione dei media. Il giudizio complessivo non può essere
neppur oggi positivo anche se, peraltro, vi sono differenze di
qualità media come preparazione, efficacia ed etica, che
corrispondono grosso modo alla maturità civile e politica dei
diversi popoli. Ciò naturalmente si riflette anche sulla
leadership nelle più alte cariche dello Stato, in proporzione
alla facoltà di condizionare le carriere e le cariche stesse
che è concessa ai partiti e, ora, anche a non regolati
sistemi di media.
Logica ed esperienza suggeriscono ormai che un miglioramento nella
selezione, per quanto riguarda la classe parlamentare, possa essere
ottenuto perseguendo un modello di semplificazione e
disciplinamento. I riformatori avanzano proposte schematiche:
monocameralismo, riduzione del numero dei parlamentari, riduzione
dei mandati; e, insieme, cursus honorum fondati su confronti a due,
con riorganizzazione su base scientifica delle campagne e
soprattutto dell'intervento dei media.
c) Poteri monocratici e personalizzazione
La riflessione teorica che ha preparato, fondato e accompagnato lo
sviluppo dello Stato democratico nell'Occidente moderno ha coltivato
gli ideali della separazione dei poteri e della direzione
collegiale, e ha ovviamente condannato la personalizzazione della
leadership. Ma quegli ideali potevano ispirare la realtà in
un'epoca di democrazia borghese, quando i compiti dello Stato erano
relativamente pochi e semplici e la dirigenza politica era espressa
dalle ristrette classi superiori e in seguito prevalentemente dalle
frazioni di esse inserite nello sviluppo economico capitalistico.
Questo stesso sviluppo e in particolare la 'democratizzazione',
intesa come partecipazione sempre più allargata della
popolazione al processo politico con l'estensione progressiva del
suffragio e la crescita dei partiti di massa, hanno via via
modificato le condizioni di fondo, mentre i compiti dello Stato si
sono fatti più numerosi e complessi, come conseguenza in
primo luogo degli impegni di natura economica e sociale. Inoltre la
necessità di una veduta d'insieme, di un coordinamento a essa
conforme, di decisioni tempestive e dirette in base a un flusso
coordinato di informazioni, oltre alle relazioni internazionali
sempre più fitte e impegnative, hanno prodotto una
concentrazione crescente di potere effettivo nel governo e in
ispecie nel suo capo: una tendenza che, d'altronde, Bryce (v., 1921)
aveva individuato già all'indomani della prima guerra
mondiale. L'iniziativa legislativa del governo, la delega di poteri
al governo, l'istituzione di servizi direttamente dipendenti dal
governo, la delegificazione a vantaggio dei poteri regolamentari del
governo sono fra i fenomeni che hanno più marcato la tendenza
a favore dell'esecutivo che tutte le emergenze, di ogni genere,
hanno accelerato. Si procede verosimilmente verso una sempre
maggiore integrazione fra potere legislativo ed esecutivo a
vantaggio del governo, realizzata in modo tipico dalla Gran Bretagna
(il 'modello Westminster').
Gli equilibri costituzionali e politici sono stati specificamente
modificati a favore del capo effettivo dell'esecutivo, vuoi
soprattutto di fatto, come negli Stati Uniti, vuoi con nuove
costituzioni e nuove leggi elettorali, come nella Quinta Repubblica
francese: si ha così un vero e proprio 'capo del governo' con
crescenti poteri monocratici. La resistenza dei partiti a siffatti
sviluppi, in Italia particolarmente, è stata causa precipua
di ingovernabilità.Né a questa tendenza hanno fatto
realmente contrasto da un lato la crescente partecipazione alle
attività governative di gruppi di consiglieri e di corpi
burocratici e dall'altro il condizionamento sul governo esercitato
dagli interessi organizzati in varie forme, di cui le lobbies non
rappresentano che l'esempio più citato. Anzi si può
dire che questi fenomeni propongono anch'essi l'esigenza di un
governo gerarchizzato e omogeneo nel quale, quindi, un leader
(premier o che altro esso sia) è capo effettivo, per
autorevolezza e poteri, ed è circondato da uomini leali e con
lui in sintonia: perciò, nel caso ideale, da lui scelti ed
eventualmente rimossi. Come infatti avviene nei paesi cui sopra si
faceva riferimento.
A questo sviluppo di carattere essenzialmente strutturale, con
valenze monocratiche sempre più nette, viene d'altronde a
corrispondere una 'personalizzazione' progressiva della politica
moderna e della leadership di governo in particolare, manifestatasi
con evidenza dapprima negli Stati Uniti e poi anche in Europa,
specialmente con l'avvento al potere di de Gaulle, in relazione al
quale Mabileau (v., 1964) e altri hanno portato il fenomeno in
questione, soprattutto come 'personalizzazione del potere',
all'attenzione della ricerca. Qui, però, è necessaria
una premessa di carattere generale. La 'personalizzazione del
potere' sembra avere radici antropologiche profonde come dimostra -
secondo la ricerca delle scienze sociali - la tendenza riscontrabile
in civiltà e tempi diversi a riconoscere il potere solo
attraverso la persona e a identificarlo con essa. Ma lo sviluppo
della società moderna, quasi paradossalmente, ha esteso il
fenomeno della personalizzazione a tutta la sfera politica,
liberando l'individuo dai condizionamenti di gruppi e
comunità tradizionali e potenziando in lui (con l'istruzione,
l'informazione, ecc.) capacità e volontà di avere un
ruolo più indipendente e attivo nei processi politici.
Questo fenomeno si rivela, dalla parte del cittadino elettore, nelle
scelte di voto più indipendenti e determinate dalla fiducia
nella persona del candidato, soprattutto quando sia da eleggere
direttamente (almeno de facto) chi governerà lo Stato: come
ormai avviene in numerosi paesi conformemente alle esigenze
oggettive (di governabilità) e soggettive di massa sopra
illustrate. Non soltanto, ma anche dopo le elezioni il cittadino
privilegia con la sua attenzione chi è a capo del governo,
sopra la testa degli 'intermediari' - per dirla con Ostrogorski che
forse per primo aveva osservato questo processo nello stato
iniziale, a cavallo fra i due secoli - e quindi prescindendo anche
dal partito, già protagonista collettivo della politica.
Questo atteggiamento diffuso si incontra con la preminenza oggettiva
che il capo del governo ha assunto o sta assumendo negli Stati
moderni e con l'esigenza del leader di comunicare direttamente con
la popolazione per fini di ordinario consenso, di indirizzamento
politico ed eventualmente di mobilitazione, che sono spesso
imprescindibili in una società di massa e che i partiti non
sono più in grado di perseguire efficacemente. E tale
incontro ha luogo primariamente nei mass media, che già per
propria natura personalizzano fortemente la politica e d'altra
parte, per la logica stessa dell'informazione, devono privilegiare
la figura del capo del governo come centro dinamico della vita
politica. In questo senso si può parlare, riprendendo la
terminologia di Weber, di una tendenza complessiva verso una
democrazia con un leader. Ciò non significa ovviamente che
tale tendenza si sia potuta affermare vittoriosamente ovunque, o che
non possano determinarsi altre crisi di leadership, data la
molteplicità delle variabili che influenzano le relazioni
internazionali e la vita sociale dei vari paesi.
5. Qualità e 'funzioni' del leader
a) Traits e carattere
La questione delle caratteristiche che costituiscono il leader come
tale è stata posta fin dall'antico, ma è stata
generalmente affrontata per singole figure storiche, senza pretese
di generalizzazione, o nella costruzione di modelli ideali nei
quali, più che delle qualità di leadership, si tratta
in realtà delle virtù morali e, magari, dell'aspetto e
del portamento più congrui. Il Principe di Machiavelli
consente certamente deduzioni più utili, ma non un discorso
sistematico.
Nel nostro tempo la questione è stata presa in esame negli
studi sui gruppi, nonostante il pregiudizio che ha privilegiato a
lungo la 'situazione'. Ne sono venuti risultati spesso non proprio
concordanti e ancor più spesso piuttosto ovvi, ad esempio che
il leader è comunemente abbastanza intelligente ed estroverso
e ha un certo gusto del potere, mentre non è, forse mai, un
timido introverso; né molto aggiunge sapere quali siano le
caratteristiche più apprezzate dal gruppo. È bene
anzi, a questo punto, contestare la convinzione, diffusa soprattutto
oltreoceano, che gli studi sui gruppi possano dare risultati
illimitatamente generalizzabili e, addirittura, segnino punti fermi
nella costruzione di una teoria generale. La critica di queste
pretese è stata riassunta da L. Seligman (v., 1968) in una
domanda: si può estrapolare liberamente dal 'micro' al
'macro'? Trasferire sullo Stato nazionale, per esempio, conclusioni
suggerite dallo studio di gruppi ristretti, spesso artificiali, che
hanno un fine definito e relativamente semplice e una durata nel
tempo anch'essa limitata? Un leader di governo ha un compito
estremamente complesso, che in realtà comprende molti compiti
relativamente distinti, e quindi deve giocare molti ruoli che
richiedono capacità e cognizioni diverse, affrontare
contrasti e conflitti di alto impegno e portare grandi
responsabilità.
È vero che alcune democrazie consentono a uomini sotto ogni
rispetto insufficienti di raggiungere la posizione di vertice, e
inoltre il meccanismo della politica democratica può
sottrarre troppo tempo e troppe energie al leader impedendogli, come
suggerisce J. Schumpeter (v., 1942), di profondere nel governo tutto
l'impegno necessario. Ma i parametri di una leadership adeguata
restano quelli indicati, per cui sembra più logico cercare di
individuare i 'tratti' che fanno un leader per mezzo dello studio di
esperienze 'macro' di leadership in grandi e complesse istituzioni,
come gli Stati nazionali o, magari, la Chiesa cattolica, avvalendosi
di ogni genere di documento e testimonianza e cercando semmai negli
studi sui gruppi spunti, chiarimenti e conferme, per quel tanto che
possono offrirne.L'approccio centrato sulle esperienze 'macro'
è stato di fatto adottato da Burns e altri, pur tuttavia
attenti alla ricerca sui gruppi. La sua applicazione più
meditata suggerisce che certe distinzioni tradizionali, come quella
fra leaders grandi e minori, hanno senso, e che certi casi,
opportunamente selezionati, insegnano molto circa le qualità
che fanno un leader nella più pura significazione del
termine. Qualità che hanno un fondo naturale, anche se sono
poi sviluppate con l'educazione e l'esercizio: capacità di
analisi e sintesi, immaginazione, creatività, memoria,
velocità del pensiero ed efficacia della parola.
Al centro di questa ricca sindrome, d'altronde, alcuni fra i leaders
più riconosciuti del secolo, statisti democratici come de
Gaulle e dittatori come Mussolini, rifacendosi magari a Bergson,
hanno voluto porre una qualità specialmente elusiva e
prestigiosa: l'intuizione. E non si può negare che taluni
abbiano dimostrato una capacità spiccata di cogliere
d'acchito l'essenza di un problema, di leggere le intenzioni altrui
e prevedere le mosse degli avversari, di scegliere la via e il tempo
giusti dell'azione nel labirinto delle possibilità; ma
d'altra parte è anche vero che la fiducia nella propria
intuizione e nella propria fortuna ha tradito più di un
leader - quando non era assistita, come osservava de Gaulle, da una
uguale capacità di verifica razionale. Tuttavia si direbbe
che tutte queste preziose qualità intellettuali siano di per
sé insufficienti. La leadership che si impone veramente, e
lascia un segno, sembra avere le sue radici nella 'convinzione': la
quale, come osservava J.S. Mill, fa prevalere l'uomo che la possiede
su quanti hanno solo 'interessi', generando un incisivo potere
sociale e politico. Si può anche dire, con Weber, che essa
ispira la 'volontà di potenza' propria di ogni leader
politico, e sorregge la sua lotta per il potere e l'uso stesso del
potere come strumento di leadership nel senso qui definito con
riferimento a una causa pubblica. Tuttavia la convinzione non si
riferisce solo a una causa, ma anche alla propria persona; implica
insomma fiducia in se stessi. È questa duplice convinzione
che costituisce, direbbe de Gaulle, quell'homme de caractère
che è, in ultima essenza, il vero leader. Dell'importanza di
questa duplice convinzione, d'altronde, sembra dare conferma una
parte almeno della ricerca sul gruppo, e d'altro canto già
alcuni esponenti delle scienze sociali a cavallo fra i due secoli,
come G. Le Bon o W. Hellpach, avevano fatto comprendere che la
convinzione del leader è alla base della sua forza di
suggestione sul gruppo. E la riflessione sul carisma, da Weber in
poi, ha suggerito che l'attribuzione al leader di una
'qualità straordinaria' da parte del gruppo sia dettata in
larga parte dalla forza della duplice convinzione e dalla sua
naturale contagiosità.
A quest'ultimo proposito è opportuno riprendere qui,
liberamente, l'idea di Weber che dove vi è leadership vi
è carisma. In realtà il leader di una grande e
complessa istituzione, come lo Stato moderno o la Chiesa cattolica,
non può esercitare effettivamente il suo ruolo soltanto per
mezzo dei poteri, materiali e simbolici, inerenti al ruolo stesso.
Nei rapporti con i collaboratori, nelle riunioni di governo, nelle
assemblee legislative, nel rapporto stesso con la popolazione,
diretto o attraverso i media, il leader, per essere tale ed essere
come tale riconosciuto, deve attingere alle risorse più
personali. In tutte le sedi delle decisioni pubbliche egli deve
essere in grado di controllare il dibattito e far prevalere le sue
soluzioni in coerenza con il progetto generale e, per questo e di
là da questo, deve essere 'sentito' dagli altri partecipanti
come investito di una superiorità complessiva fatta di
qualità dell'intelletto e del carattere e magari di storia
personale ('autorità'), ma anche di qualcosa d'altro ancora
che è una funzione della personalità come un tutto
('ascendente'): cosicché ci si rivolge naturalmente a lui
come guida. Questo ovviamente è uno stato di cose ideale, che
tuttavia sembra trovare soddisfacente riscontro nei rapporti
intrattenuti ai vari livelli politici e istituzionali da alcuni
leaders democratici del nostro secolo (come Franklin D. Roosevelt)
per buona parte del loro mandato; e del resto abbiamo testimonianza
di uomini giunti al vertice del potere nello Stato, o in altre
importanti istituzioni, e tormentati dall'incapacità di
occupare effettivamente il centro della scena e di far valere la
propria leadership, per una sorta di deficit interiore di cui essi
erano oscuramente, dolorosamente consci. Ma, beninteso, anche gli
ordinamenti e le circostanze hanno avuto il loro peso in questi
successi e in questi insuccessi.
b) Le 'funzioni sociali'
L'importanza da attribuire alla personalità diviene anche
più evidente quando si considerino alcune 'funzioni sociali'
che il leader può svolgere, almeno là dove gli
ordinamenti e la cultura data consentano il dispiegarsi della
leadership come avviene, a livello 'macro', nella 'democrazia con un
leader'. Tutta la ricerca, 'micro' e 'macro', sembra innanzitutto
attribuire al leader una parte rilevante nella formazione e nella
conservazione del gruppo, grande o piccolo, anche come riferimento
di identificazione collettiva al di là delle differenze e dei
conflitti eventuali. I cultori delle varie scienze sociali
riconoscono d'altronde al leader anche la facoltà di
contribuire, spesso potentemente, a 'definire la realtà' per
il proprio gruppo (che può anche essere la nazione intera)
come premessa necessaria di coesione e di comportamenti comuni nelle
circostanze di fatto sempre elusive, cangianti e cariche di
incognite, ovvero, secondo alcuni studiosi, nella pura e semplice
non esistenza d'una realtà di per sé comune. Inoltre
il leader è non di rado sentito come 'protettore' contro
pericoli e difficoltà collettive (la figura paterna o del
'fratello maggiore' di tanti studi), con poteri di intervento contro
le leggi dell'economia o le leggi medesime dello Stato (la
'giustizia sostanziale').
Fin dai tempi antichi, poi, si è proposto il leader politico,
il re, come modello per le masse. Questa concezione viene oggi
riformulata, nel senso che la gente cerca spesso nel leader politico
le qualità e le virtù apprezzate dalla propria
cultura, così come, secondo varie ricerche, fanno molti
cittadini americani nei confronti del loro presidente. E il leader
che le impersona efficacemente rafferma la popolazione in certi
valori e convincimenti morali e nei comportamenti conformi, o
viceversa può contribuire a modificarli in modo graduale,
proponendosi con efficacia come il campione di una superiore
realizzazione del significato più intimo, quintessenziale,
della cultura comune nella novità dei tempi e delle
circostanze. Al tema del mutamento si ricollega un altro importante
aspetto dell'esercizio della leadership: dare, con la direzione di
movimento e le indicazioni degli obiettivi, anche la motivazione,
anzi l"entusiasmo', producendo così quella mobilitazione
morale di massa che è spesso la condizione necessaria per la
realizzazione di rilevanti imprese collettive anche nel campo del
progresso civile e sociale, per tacere delle grandi emergenze.
Ovviamente alcuni di questi effetti sono stati ricercati e anche
prodotti con particolare e temibile efficacia negli Stati
totalitari, che per questo verso hanno costituito una sorta
d'esperimento di gruppo, con il controllo quasi assoluto delle
variabili rilevanti. Bisogna inoltre ricordare qui i tipici sviluppi
negativi - anch'essi manipolati - del rapporto tra leader e
popolazione, posti in luce dagli studiosi di quei regimi: la fuga di
massa dall'insicurezza e dalla solitudine del mondo moderno che
diventa, secondo l'analisi di E. Fromm (v., 1941), "fuga dalla
libertà" per ritrovare la perduta appartenenza in un regime
totalitario incentrato nel capo assoluto; la "proiezione dilatata a
dismisura dell'io impotente di ogni singolo" nel capo, che è,
secondo Horkheimer e Adorno, alla base della sommissione di massa e
del suo sfruttamento politico - con la scientifica fanatizzazione
della massa teorizzata e praticata da Hitler, e la violenza
collettiva diretta su chi viene definito come il nemico.Con la
citata riflessione di Fromm relativa all'origine di quei regimi si
è giunti allo snodo centrale del rapporto leader-massa nelle
grandi crisi che minacciano l'esistenza stessa di una società
statualmente organizzata. La grande crisi può aprire
un'alternativa fra progressiva anarchia e tendenziale disgregazione,
spesso conflittuale, da un lato, e, dall'altro, l'insorgere di una
leadership in grado di ricomporre la sintesi unitaria. Ma la
qualità del leader e del suo seguito, la predisposizione
diffusa ad abbandonarsi a chi impersona la speranza, e il favore,
anzi la forza, delle circostanze, possono invece dar luogo a una
tirannia con gli sviluppi tipici dei regimi cui anche qui si
è fatto riferimento e, in particolare, con quel 'culto della
personalità' che ha assunto nel nostro secolo forme e
dimensioni peculiari, a volte approssimandosi agli antichi modelli
della divinizzazione.
6. Ruolo storico della leadership
Gli studiosi contemporanei della leadership ritengono di doversi
porre prioritariamente una domanda più generale, che sovrasta
i molti difficili problemi particolari di cui si è finora
trattato. Essa può esser formulata così: è
possibile determinare anche la funzione storica della leadership?
cioè dare innanzitutto delle ragioni per credere che essa
conti veramente, incida, indirizzi lo sviluppo storico, e
possibilmente specificare in qualche modo questo influsso con dati
dell'esperienza?
Questa domanda è stata drasticamente proposta dal dibattito
sul ruolo delle grandi personalità nella storia che negli
ultimi due secoli ha coinvolto la filosofia, la storia e le scienze
sociali. Nonostante la grande impressione fatta da Napoleone sui
contemporanei, da Goethe a Hegel, si sono affermate teorie dello
sviluppo storico regolato da leggi che sono forme alternative di
"determinismo sociale", per dirla con S. Hook, in quanto riducono la
grande personalità, il leader, "a un simbolo, un indice,
un'espressione, uno strumento o una conseguenza delle leggi
storiche" (v. Hook, 1945). In questo gruppo rientrano la filosofia
idealistica della storia di Hegel, la sociologia evoluzionista di
Spencer e il materialismo storico di Marx e di Engels, per ricordare
soltanto tre filoni di pensiero che hanno esercitato grande
influenza nel secolo scorso e, per quanto riguarda il marxismo, fino
ai nostri giorni. Ma forme isolate di determinismo sociale sono
emerse anche nel XX secolo. Nel progressivo sviluppo delle nuove
scienze sociali e della sociologia in particolare, d'altronde, ha
prevalso la tendenza a concentrare l'attenzione sulla struttura
della società e dei gruppi, sulle uniformità
statistiche di comportamento e sui processi collettivi, che
già nell'opera così influente di Durkheim sono i veri
protagonisti del mutamento storico.
Pochi filosofi e sociologi hanno invece conferito un ruolo storico
centrale alla 'grande personalità', come T. Carlyle, W.
James, Nietzsche (nell'ambito di un discorso più generale),
e, in questo secolo, Weber, soprattutto con la teoria del carisma
che per la prima volta colloca il leader in un contesto sociologico
propriamente ricostruito, aprendo la via a ricerche scientifiche su
una parte almeno della materia. Anche la comparsa dei grandi
dittatori totalitari non ha mutato in maniera rilevante gli
equilibri fra gli esponenti delle opposte posizioni. Durante la
seconda guerra mondiale Hook ha, invero, compiuto un riesame della
questione sul terreno della logica e della documentazione storica,
che ha operato qualche chiarimento in materia e ha recuperato il
ruolo storico della grande personalità sotto il concetto di
eventmaking-man, con un influsso riconosciuto, o comunque evidente,
su alcuni importanti studiosi dei successivi decenni, come Burns. Ma
l'orientamento prevalente nelle scienze sociali resta tuttora
tendenzialmente 'sociologistico'.
Riconsiderando questo lungo dibattito, sembra oggi possibile
stabilire alcuni punti fermi ai fini dello studio della leadership.
Innanzitutto il dibattito è stato esasperato da impostazioni
poco precise e partigiane, anzi estremiste, del rapporto tra leader
e società (o, se si vuole, cultura), che è stato
forzato riduttivamente da alcuni a vantaggio del primo e da altri,
molto più numerosi, a favore del secondo elemento; mentre,
secondo gli studiosi contemporanei più avvertiti, si tratta
di un rapporto di interazione che va esaminato nel suo concreto
equilibrio in ciascun caso storico. È vero che le condizioni
date del momento (ivi comprendendo gli interessi e le passioni)
costituiscono la problematica realtà su cui il leader deve
intervenire e restringono le sue alternative d'azione; ma queste
sussistono e il leader deve operare scelte sui fini, i mezzi, i
modi, i tempi, in continua successione, tentando di signoreggiare
una complessa trama storica in sviluppo. Quando Trockij suggerisce
che la Rivoluzione sovietica avrebbe avuto luogo anche senza Lenin,
per la forza delle circostanze storiche e la determinazione delle
masse, può essere nel vero; ma i critici hanno buon gioco
rilevando che, nella sua stessa ricostruzione, Lenin è il
leader che, con la sua personalità e le sue scelte,
largamente determina in concreto lo svolgimento della rivoluzione e
il suo successo. La rilevanza del fattore leadership resta
innegabile, anche se il suo peso specifico è ovviamente
oggetto di valutazioni che differiscono fra loro. Né, d'altra
parte, si può accogliere senza scetticismo la tesi di Engels
e Plechanov secondo cui la situazione storica suscita quasi
meccanicamente potenziali leaders atti ad affrontarla efficacemente
rispondendo a un bisogno collettivo ormai maturo; per cui, come
suggerisce il secondo, se non ci fosse stato Napoleone, qualche
altro generale della Rivoluzione francese avrebbe assolto alla
medesima necessità storica, negli sviluppi interni e anche
nelle molteplici guerre, perché aveva a disposizione
l'esercito 'incomparabilmente' migliore del tempo.
È stato da più parti argomentato che i due autori
considerano riduttivamente il ruolo storico di Napoleone come
statista e soprattutto come generale, con ciò stesso
dimostrando la debolezza del loro schema. Questa, d'altronde, appare
ancora più evidente se si applica lo schema ad altri sviluppi
storici in qualche modo comparabili, come quelli ricordati da
Machiavelli nell'ultimo capitolo del Principe. L'esempio più
ovvio, però, è forse costituito dalla conquista di un
immenso impero da parte di Alessandro: operazione per la quale certo
esistevano alcune condizioni propizie, ma la condizione principale
sembra essere stata il sogno e la volontà - sia pure maturata
in quella cultura - di Alessandro stesso, e non già le
esigenze oggettive e un corrispondente bisogno maturato nel popolo e
nell'esercito. Sicché è ben poco credibile che senza
Alessandro si sarebbe mai compiuta un'impresa così carica di
storiche conseguenze.
Anche la tesi che il leader - sia egli Lenin, Napoleone o Alessandro
- è il prodotto della cultura e della situazione, dunque in
un certo senso strumento della società nel suo sviluppo
storico, appare insieme vera e non vera: perché certamente
ciascuno subisce nella sua formazione l'influsso dell'ambiente in
senso lato, ma le potenzialità genetiche vanno al di
là dell'ambiente, le esperienze di vita sono uniche, e
d'altronde il leader, come personalità pienamente adulta, ha
spazi di libertà e alternative di scelta che trascendono i
tendenziali determinismi ambientali. In conclusione non sembra che
questo lungo dibattito abbia potuto dimostrare che l'importanza
storica della leadership, e di quella personale in ispecie, è
ridotta, anzi marginale, anche se, contro le affermazioni eccessive
di Carlyle e pochi altri, esso ha contribuito a porre in evidenza i
condizionamenti di varia natura cui il leader è soggetto - e
che costituiscono però anche un banco di prova, una sfida,
che può fornire la misura di quel leader. Cogliendo questo
aspetto della questione Machiavelli scriveva, nelle pagine sopra
ricordate, che per conoscere la "virtù" di Mosè, la
"grandezza d'animo" di Ciro e la "eccellenzia" di Teseo erano
necessarie le condizioni rispettivamente di schiavitù,
oppressione e dispersione dei loro popoli, quando ne avevano assunto
la guida, e che quelle tre condizioni si trovavano unitamente
presenti in Italia, esasperate, per far sì che si potesse
alla prova "conoscere la virtù d'uno spirito italico".
Quale che sia la rilevanza storica riconosciuta alla leadership, gli
studiosi concordano però nel giudizio che essa conti
soprattutto nelle situazioni straordinarie, ossia di fondazione,
trasformazione, o pericolo di uno Stato, anzi di ogni gruppo, e che
un leader (sia esso da considerare un uomo eccezionale o fungibile,
alla Engels) può, in siffatte situazioni, raggiungere il
massimo consentito di incidenza. Si è appena detto di
Machiavelli, studioso pragmatico della storia e della politica. Ma
nella filosofia della storia di Hegel l'individuo "cosmico storico"
è pur sempre il protagonista delle grandi crisi di
transizione, colui che squarcia l'involucro soffocante del vecchio
ordine per far nascere il nuovo, e il leader delle forze sociali
ascendenti, come Lenin, svolge il medesimo compito, mutatis
mutandis, in quella singolare mistura di filosofia e di scienza
sociale che è il marxismo. Salvo che, naturalmente, per
Machiavelli il leader opera in una situazione di storia aperta,
senza telos, mentre per Hegel e Marx le crisi si collocano nello
sviluppo dialettico della storia verso il suo fine.