di Giorgio Sola
Élites, teoria delle
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1993)
Sommario: 1. Introduzione. 2. Significati e usi del termine
élite. 3. Teoria delle élites e scienza politica. 4.
Storia e sviluppo della teoria. a) Mosca, Pareto, Michels. b)
Lasswell e Burnham. c) Il secondo dopoguerra. d) Mills e Djilas. 5.
Le élites nelle comunità locali. 6. Elitismo e
pluralismo. 7. Democrazia ed élites.
1. Introduzione
La teoria delle élites si propone di spiegare
scientificamente una delle tendenze indiscutibili della storia
umana: il fatto che, in ogni società e in ogni epoca, una
frazione numericamente ristretta di persone concentra nelle proprie
mani la maggior quantità di risorse esistenti - ricchezza,
potere e onori - e s'impone alla quasi totalità della
popolazione. Questo fenomeno costituisce uno degli oggetti
più antichi e maggiormente discussi nelle scienze sociali:
filosofi, storici, economisti, sociologi e politologi, a partire da
Platone e Aristotele, hanno cercato d'individuare le modalità
e le cause delle diseguaglianze sociali e della distribuzione del
potere. Ma è soprattutto dalla seconda metà
dell'Ottocento, quando sia la sociologia che la scienza politica
acquistano un più deciso orientamento empirico, che il
fenomeno delle disparità potestative presenti nella
società diventa il tema centrale di queste discipline. Non
stupisce quindi che Max Weber dedichi alcune delle pagine più
interessanti della sua sociologia politica a quella che egli chiama
"la superiorità del piccolo numero" (Vorteil der kleinen
Zahl), che Friedrich von Wieser inizi la sua monumentale ricerca sul
potere (Das Gesetz der Macht, 1926) partendo dalla constatazione
della perennità del "principio minoritario" secondo cui poche
persone governano le masse, che Gaetano Mosca pretenda di costituire
la scienza politica a partire dall'analisi della dicotomia
governanti-governati, che Vilfredo Pareto identifichi nelle
élites e nella loro circolazione i concetti chiave per
un'interpretazione globale dei fenomeni politico-sociali.
La teoria delle élites presenta due dimensioni principali:
una sociologica e una più propriamente politologica.
Nella tradizione sociologica lo studio della minoranza, che possiede
in misura segnatamente più elevata del resto della
popolazione una o più caratteristiche che questa valuta
positivamente, rientra nella più generale teoria della
stratificazione sociale di impianto struttural-funzionalista e ha
come oggetto l'eterogeneità e la differenziazione sociale
strettamente congiunte ai processi di selezione sociale e al
concetto di capacità naturali. Come ha scritto Pareto, in
quella che rimane la miglior formulazione sociologica della teoria,
le élites si manifestano in parecchi modi, secondo le
condizioni della vita economica e sociale: "La conquista della
ricchezza presso i popoli commercianti e industriali, il successo
militare presso i popoli bellicosi, l'abilità politica e
spesso lo spirito d'intrigo e la bassezza di carattere presso le
aristocrazie, le democrazie e le demagogie, i successi letterari nel
popolo cinese, l'acquisizione di dignità ecclesiastiche nel
medioevo [...] sono altrettanti modi coi quali si effettua la
selezione degli uomini" (v. Pareto, 1902; tr. it., p. 163).
Nella tradizione politologica, in cui si fa ricorso specificamente
all'espressione 'élite del potere', l'oggetto dell'indagine
coincide invece con la distribuzione del potere politico definito
come possibilità di prendere e imporre, anche ricorrendo alla
forza, decisioni valevoli per tutti i membri di una
collettività. In questo senso la formulazione più
classica della teoria è stata dettata da Gaetano Mosca negli
Elementi di scienza politica (1896): "Fra le tendenze e i fatti
costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve
n'è la cui evidenza può essere a tutti manifesta: in
tutte le società, a cominciare da quelle più
mediocremente sviluppate e che sono arrivate appena ai primordi
della civiltà, fino alle più colte e più forti,
esistono due classi di persone, quella dei governanti e l'altra dei
governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a
tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi
che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa,
è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno
legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa
fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e
quelli che all'utilità dell'organismo politico sono
necessari" (v. Mosca, 1923², p. 52).
Se si segue una prospettiva sociologica le élites, di solito
accompagnate dall'aggettivo 'sociali', costituiscono una
pluralità più o meno ampia di gruppi ristretti,
identificabili in relazione ai diversi tipi di attività, al
grado di concentrazione delle risorse, agli indici più
elevati delle capacità individuali. In questa prospettiva il
problema di fondo consiste nel verificare se esista o meno
congruenza tra le qualità degli individui e le posizioni che
essi occupano nella gerarchia sociale o, come diceva Pareto, se
c'è corrispondenza tra le capacità e i "cartellini"
mediante i quali si è identificati e collocati nella piramide
della disuguaglianza. Viceversa, se ci si muove lungo un'ottica
politologica, l'élite, in questo caso al singolare, tende a
essere rappresentata come una categoria più o meno ristretta
ed eterogenea di persone e viene identificata generalmente con lo
strato superiore, quello cioè che detiene le quote più
consistenti di potere economico, ideologico e politico. Il problema
centrale dell'analisi coincide allora con la valutazione del grado
di concentrazione di risorse il cui possesso e/o controllo assicura
potere e specificamente potere politico. Nella prima prospettiva le
dicotomie utilizzate per descrivere le disuguaglianze sociali
contemplano la contrapposizione tra élites e non
élites, tra élites e massa, tra élites e classi
sociali; nella seconda le dicotomie prevalenti indicano, volta a
volta, una contrapposizione tra governanti e governati, tra
dirigenti e diretti, tra dominanti e dominati.
2. Significati e usi del termine élite
Quanto si è detto finora ha già evidenziato
l'affastellamento di molteplici e talvolta contraddittorie
connotazioni del termine élite, ora adoperato al singolare,
ora al plurale, ora con un significato valutativo, ora con mera
valenza denotativa. Se a ciò si aggiunge la confusione
generata dal frequente ricorso a sinonimi del tipo 'classe
governante', 'classe superiore', 'classe politica', 'classe
dirigente', 'classe dominante', 'aristocrazia', 'oligarchia', appare
indispensabile sviluppare alcune considerazioni di carattere
lessicale. Femminile di élit, participio passato di
élire 'scegliere', il termine appare già in uso nel
XII secolo, mentre a partire dal XVI incomincia a essere adoperato
in relazione ai gruppi sociali, sia nel linguaggio comune che nel
linguaggio colto, con il significato di eletto, scelto, eminente e
distinto.
Per mettere un po' d'ordine in una letteratura che comprende
migliaia di titoli, e dal momento che il vocabolo presenta tutti i
vantaggi ma anche tutti gli inconvenienti dei termini troppo
elastici, diventa opportuno distinguere prioritariamente tra un
senso apprezzativo e uno neutro, tra un senso lato e un senso
stretto. Il senso apprezzativo deriva dall'etimo eligere e trova
riscontro in quegli studiosi che adoperano la parola élite
come sinonimo di eminenza di valore o di capacità. È
questo l'uso che ne propone Pareto che utilizza il termine come
sinonimo di 'aristocrazia', intesa nel senso letterale dei
'migliori'; mentre proprio per questa sinonimia viene invece
rifiutato da Mosca che gli preferisce l'espressione 'classe
politica', dal momento che élite sembra "implicare un elogio
che le classi dirigenti sono in molti casi ben lungi dal meritare".
Peraltro l'uso apprezzativo è stato recentemente riabilitato
da Giovanni Sartori che, nella sua teoria della democrazia, ha
proposto di considerare l'élite come un "gruppo di
riferimento di valore", dotato di capacità ed eccellenza; una
definizione che consente di distinguere tra fatto e merito,
cioè tra chi è al potere, la classe politica, e chi
merita il potere, le potenziali élites politiche. In senso
neutro, attualmente l'uso più frequente, il termine
élite non viene impiegato come sinonimo di valore
bensì come mero indicatore di uno stato di fatto: occupare le
posizioni sovraordinate di una struttura sociale. In tale accezione
il vocabolo è associato a qualunque tipo di gruppo che, pro
tempore, occupi livelli di preminenza e di vertice nelle diverse
gerarchie sociali e politiche. Tutte le organizzazioni, le
istituzioni, le associazioni presentano in questo senso delle
élites, delle minoranze gerarchiche. A questi due significati
si accompagnano poi un impiego in senso largo e uno in senso
stretto. Adoperata in senso ampio, la parola élite è
sinonimo di posizione elevata e viene attribuita a tutti coloro che
- di fatto o di diritto, meritatamente o immeritatamente - hanno di
più, contano di più, ottengono di più, possono
di più. Viceversa, l'uso ristretto porta il più delle
volte a identificare le élites con la sola élite del
potere, con una minoranza cioè che in virtù della sua
organizzazione interna e della sua relativa omogeneità di
composizione vede i propri membri caratterizzati da elevati gradi di
coscienza, coerenza e cospirazione; una minoranza che nelle
decisioni politiche fondamentali, quando si trova in contrasto con
ogni altro possibile gruppo analogo, riesce a far prevalere,
comunque e regolarmente, le proprie scelte.
3. Teoria delle élites e scienza politica
La teoria delle élites ha svolto un ruolo essenziale nel
fondare la scienza politica contemporanea come scienza empirica del
potere. Tale risultato è stato raggiunto nella seconda
metà dell'Ottocento scomponendo il tradizionale interrogativo
della politica, 'chi ha potere?', in una serie più articolata
di domande del tipo 'chi ha potere e perché, su chi e che
cosa?', 'chi ha potere e come, su chi e che cosa?', 'chi ha quanto
potere, su chi e che cosa?'. D'altro canto la scienza politica ha
accantonato il problema dell'identificazione della 'migliore forma
di governo', sostituendolo con l'individuazione degli attori reali
della dinamica politica e la conoscenza delle modalità della
lotta per il potere. Nel primo caso la teoria delle élites ha
affrontato lo studio della natura del potere, della sua misurazione
e delle modalità di esercizio. Nel secondo ha privilegiato
come oggetto di studio i comportamenti concreti della politica,
intessuti di egoismi, passioni, interessi, inganni e sopraffazione,
rispetto alle configurazioni formali o dottrinarie. Con questo
cambio di prospettiva la teoria delle élites ha introdotto il
realismo nello studio contemporaneo della politica. Essa infatti ha
consentito di separare la scienza politica dal diritto
costituzionale insistendo sull'analisi dei poteri di fatto,
oggettivi rispetto allo studio dei poteri di diritto o formali, e
inoltre ha svolto una funzione critica nei confronti delle ideologie
e dei miti politici diffusi nell'Ottocento, differenziandosi
così dalla filosofia politica e dalla storia delle dottrine
politiche.
Secondo i teorici delle élites l'osservazione della
realtà dimostra che, oltre l'apparenza esteriore delle
istituzioni ufficiali, al di là delle carte costituzionali,
tutte le forme di governo sono riconducibili sostanzialmente a delle
oligarchie; così come dimostra che i principî ideali e
i valori servono, il più delle volte, a celare o a mascherare
la lotta per il potere e a manipolare il consenso dei governati. La
critica alle ideologie coinvolge il liberalismo, la democrazia e il
socialismo. Al liberalismo la teoria delle élites obietta
l'inconsistenza del principio della separazione dei poteri e
l'inefficacia dei controlli meramente formali sul potere di governo;
alla dottrina democratica contesta la rilevanza empirica del
principio della sovranità popolare, e contrappone al mito
della partecipazione politica la realtà di un'aristocrazia
perennemente dominante; al socialismo, infine, rimprovera l'utopia
della società egualitaria e l'infondatezza di una rivoluzione
che abbia come protagonista una moltitudine di persone se non
addirittura l'intera classe operaia. Nonostante questa sua
connotazione antideologica la stessa teoria delle élites
è stata talvolta proposta come ideologia. Ciò è
accaduto tutte le volte che il concetto di élite da strumento
di interpretazione della realtà politica si è
trasformato in modello valutativo, accentuando gli elementi
prescrittivi delle qualità della minoranza dominante. In tal
senso non sono mancate strumentalizzazioni di carattere razzistico,
fondate sulle presunte superiorità biologiche o etniche delle
élites dominanti, così come sono state esasperate le
connotazioni antidemocratiche, tese a sottolineare
l'impossibilità o l'indesiderabilità del governo di
tutti o quantomeno della maggioranza, e sono state accentuate quelle
antisocialistiche, rivolte alla negazione e comunque
all'assorbimento del conflitto sociale e della lotta di classe.
Negli anni più recenti la teoria delle élites ha
attenuato notevolmente la sua originaria connotazione antideologica
e la sua valenza critica si è esercitata piuttosto nei
confronti di altri modelli di distribuzione del potere diffusi nella
scienza politica contemporanea. In particolare essa si è
confrontata con il modello marxista e con quello pluralista. Alla
teoria delle classi, di derivazione marxiana, si è obiettata
l'infondatezza dell'assunto che lega indissolubilmente il potere
politico al potere economico. L'origine della formazione delle
ineguaglianze sociali e politiche, nonché della
contrapposizione tra dominanti e dominati, secondo gli elitisti non
va ricercata nella proprietà privata dei mezzi di produzione,
bensì nella struttura di autorità presente nei diversi
contesti organizzativi. In ogni organizzazione s'individuano non due
classi, ma due gruppi contrapposti: coloro che occupano le posizioni
di vertice e monopolizzano il potere e coloro che si trovano a
svolgere ruoli subordinati. In una società quindi vi possono
essere tanti gruppi dominanti quante sono le principali
organizzazioni esistenti, e i loro rapporti possono essere
improntati alla competizione e al conflitto oltre che alla
coesistenza e alla concertazione. L'altro modello, quello
pluralista, risale ad Arthur F. Bentley (1908) e interpreta la
politica come il risultato di un'incessante interazione tra gruppi
di interesse e di pressione. Secondo questo modello, sviluppato
negli anni cinquanta da David Truman e David Riesman, la struttura
del potere delle società contemporanee risulta caratterizzata
da un sostanziale equilibrio di forze controbilanciate: non esiste
una élite dominante, ma una disgregazione del potere connessa
a una pluralità di gruppi che competono e si controllano a
vicenda nell'articolazione degli interessi e nella traduzione di
questi in domanda politica. A questa configurazione gli elitisti
hanno contrapposto il modello della concentrazione del potere nelle
mani di una élite più o meno unitaria, e hanno
eccepito la natura apparente e superficiale della
conflittualità degli interessi in gioco, che maschera la
realtà della difesa di alcuni interessi predominanti.
4. Storia e sviluppo della teoria
Sotto il profilo temporale la teoria delle élites si sviluppa
nell'arco di un secolo, scandito in quattro periodi successivi. Un
primo periodo si estende dal 1880 al 1925 ed è dominato dalla
scuola italiana di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels,
alla quale si deve la formulazione classica della teoria. Sebbene in
maniera diversa - più sensibili ai fenomeni organizzativi
Mosca e Michels, più attento alle capacità soggettive
e alle connotazioni psicologiche Pareto - e con diversa terminologia
(classe politica, élites, oligarchia), questi autori, che
spesso sono accomunati sotto la denominazione di 'eredi di
Machiavelli' o di 'scuola machiavellica', hanno posto le fondamenta
della teoria politica secondo la quale è sempre una minoranza
a comandare e a guidare la maggioranza di una società. Una
seconda fase si colloca negli anni che intercorrono tra le due
guerre mondiali e si alimenta principalmente dei contributi di
Harold Lasswell, Karl Mannheim e James Burnham. Un terzo periodo
prende le mosse dalla fine del secondo conflitto e stabilisce i
canoni di quella che si potrebbe chiamare la teoria post-classica.
Essa annovera tra i maggiori protagonisti lo statunitense Charles
Wright Mills e lo iugoslavo Milovan Djilas. Questa fase, che dura
fino al termine degli anni settanta, oltre a segnare la
trasmigrazione della teoria dall'Europa agli Stati Uniti, presenta
due specifiche caratterizzazioni: l'accentuazione del carattere
empirico degli studi sulle élites e la proliferazione delle
indagini condotte a livello di comunità locale. L'ultimo
periodo, tuttora in corso, segna una decisa battuta d'arresto nel
campo della ricerca ma configura con evidente necessità
l'esigenza di una teoria generale prodotta a partire dal bilancio
dei risultati finora ottenuti.
a) Mosca, Pareto, Michels
La teoria della classe politica, nei termini in cui è stata
codificata da Mosca nell'arco di mezzo secolo - il tempo che
intercorre tra la comparsa del suo primo libro, Teorica dei governi
e governo parlamentare (1884), e quella della Storia delle dottrine
politiche (1937) -, ha l'ambizione non solo di costituire una teoria
generale della distribuzione del potere nella società, ma
anche di fondare una nuova scienza politica che sia in grado di
spiegare come gli Stati sorgono, si organizzano e decadono. La
scoperta delle tendenze che regolano l'ordinamento dei poteri
politici, delle leggi che presiedono all'organizzazione dell'umana
società, passa attraverso lo studio analitico dei caratteri
costanti e di quelli variabili delle classi dirigenti, e
l'individuazione dei fattori da cui dipendono la loro coesione e la
loro dissoluzione. Tale programma di ricerca comporta non solo la
netta separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, ma
soprattutto l'accumulazione di dati, raccolti e verificati in chiave
storico-comparativa, in ordine ai diversi modi in cui le varie
classi politiche si formano, si rinnovano e si organizzano.Il tema
della formazione presenta due dimensioni, a seconda che l'analisi
sia prevalentemente statica o dinamica. Da un punto di vista statico
la composizione della classe politica evidenzia come le minoranze
governanti ordinariamente siano "costituite in maniera che gli
individui che le compongono si distinguono dalla massa dei governati
per certe qualità, che danno loro una certa
superiorità materiale ed intellettuale o anche morale". Per
quanto tali qualità non siano sempre le stesse, potendo
mutare secondo le epoche storiche, Mosca ritiene che alcune abbiano
un carattere ricorrente nell'assicurare l'accesso alla classe
politica. Valore militare, ricchezza, sapienza religiosa o cultura
scientifica rappresentano altrettanti fattori costitutivi di una
classe politica, anche se nel passato l'elemento più
ricorrente nel determinare l'entrata o l'esclusione da essa è
stato la nascita. Con questo fattore si introduce la dimensione
dinamica della formazione che viene a coincidere con la tematica del
rinnovamento. Ogni classe politica vive per un periodo più o
meno lungo. I procedimenti più usuali attraverso cui essa si
perpetua e si rinnova sono l'eredità, la cooptazione e
l'elezione. Mosca suggerisce di studiare la dinamica politica come
l'urto di due tendenze opposte: quella che mira alla perpetuazione
delle posizioni di potere e quella, opposta, che tende al suo
rinnovamento. La prima tendenza, che egli chiama aristocratica, ha
come obiettivo la stabilizzazione del potere nei discendenti di
quella minoranza che in un dato momento storico se ne è
impossessata; la seconda, democratica, si propone di rinnovare la
classe politica sostituendola, o almeno completandola, con elementi
provenienti dalla classe governata. Se prevale la tendenza
aristocratica, i membri della classe politica sono selezionati per
nascita o cooptazione; se si afferma la tendenza democratica, si fa
ricorso alle elezioni per realizzare un rinnovamento più o
meno rapido e un ricambio più o meno ampio delle forze
governanti.
Tra i problemi relativi alla classe politica, Mosca studiò
con maggiore attenzione quello dell'organizzazione. Oltre alla
definizione stessa di classe politica in termini di 'minoranza
organizzata', non va dimenticato che tutta la scienza politica
moschiana è profondamente collegata alla dimensione
organizzativa del potere. Innanzitutto Mosca distingue tra
organizzazione intesa come contesto, come campo strutturale che
condiziona i comportamenti degli attori politici, e organizzazione
come prodotto, ossia come risultato delle relazioni di potere, come
conseguenza di una deliberata volontà e capacità di
coordinamento. Nel primo caso organizzazione è sinonimo di
gerarchia e rimanda a un requisito strutturale dell'intera
collettività. Nel secondo è sinonimo di coesione e si
riferisce a un gruppo speciale di persone. Pertanto, se da un lato
non può esistere una società politica che non sia
organizzata, cioè che non sia strutturata gerarchicamente,
dall'altro ciò che rende una forza sociale politicamente
rilevante è la sua organizzazione interna: "Ogni forza,
perché si faccia valere proporzionatamente alla sua reale
importanza, è necessario che sia ben organizzata".Il concetto
di organizzazione viene adoperato da Mosca ora come sinonimo di
Stato e gerarchia politica, come organizzazione esterna alla classe
politica, ora invece come organizzazione interna, come risorsa
indispensabile per la conquista, l'esercizio, il mantenimento, la
trasmissione e l'eventuale rovesciamento del potere, come insieme di
attività coscientemente coordinate poste in atto dal gruppo
dirigente per accrescere la propria coesione e per conseguire
obiettivi comuni. In quest'ultima accezione la dinamica
organizzativa del gruppo dirigente fa riferimento a tre processi
distinti: il primo riguarda il modo in cui la classe politica si
è costituita e ha istituzionalizzato i rapporti tra le sue
diverse componenti (frazioni); il secondo concerne i meccanismi di
divisione del potere e l'insorgenza di una gerarchia all'interno
della stessa minoranza governante; il terzo infine rimanda alla
coesione psicologica e alla volontà di coordinazione che,
cementando i contrasti di interesse e di opposizione, rende
irresistibile l'azione del gruppo che detiene il potere. Rispetto
all'organizzazione esterna, che tende a coincidere, come si è
visto, con l'organizzazione politica della società, Mosca
individua due tipi fondamentali di strutture di potere: quella in
cui l'autorità viene trasmessa dall'alto verso il basso
(principio autocratico) e quella opposta in cui il potere emana dai
governati verso i governanti (principio liberale). Combinando
assieme le tendenze relative alla formazione e al ricambio della
classe politica con i principî che presiedono alla
trasmissione e alla strutturazione del potere, la teoria moschiana
offre un'articolata tassonomia dei sistemi politici, che configura
quattro tipi ideali di organizzazione statuale:
aristocratico-autocratica, aristocratico-liberale,
democratico-autocratica, democratico-liberale. Il principio liberale
è contraddistinto dall'introduzione di un sistema elettorale
più o meno allargato; il principio autocratico fa ricorso
solitamente all'ereditarietà delle cariche, anche se non
è raro il caso di una suddivisione tra potere di scena, che
resta appannaggio dell'autocrate titolare, e potere effettivo che
invece viene affidato, anche tramite cooptazione, a un autocrate
coadiutore.L'introduzione di questa tipologia consente a Mosca di
sviluppare ulteriori riflessioni sull'estensione e sulla
composizione della classe politica. L'attenzione alla gerarchia e
all'organizzazione esterna del potere lo porta a identificare due
livelli di classe politica. Tra l'esigua minoranza dei governanti,
"due o tre dozzine o anche un centinaio di individui, i quali
monopolizzano la direzione dello Stato", e la vastissima maggioranza
dei governati Mosca colloca un "secondo strato" della classe
politica, molto più numeroso del primo. Questo secondo strato
comprende tutte le capacità direttrici del paese ed esercita
il potere "a mezzadria" e spesso "per conto" del primo che, da solo,
non potrebbe inquadrare e dirigere l'azione delle masse. Presente in
tutte le forme di regime politico, questo secondo strato è
più o meno ampio e viene reclutato ora sulla base della
nascita e della cooptazione, ora mediante concorsi ed elezioni. Nei
regimi autocratici questo secondo strato è quasi sempre
formato da sacerdoti e guerrieri; nei regimi liberali esso tende a
coincidere con i vertici della burocrazia e i quadri dirigenti dei
partiti politici in lotta per il potere.
La teoria della classe politica si completa con l'analisi delle
modalità di legittimazione del potere. Mosca chiama "formula
politica" l'insieme dei principî astratti con cui i governanti
tendono a giustificare la detenzione e l'esercizio del potere. Nella
varietà delle formule che la storia presenta si delineano due
tipi principali: quelle che hanno il loro fondamento in una credenza
soprannaturale e quelle che si basano su un principio, almeno in
apparenza, razionale. Credere che ogni potere derivi dal sovrano, il
quale a sua volta l'ha ricevuto da Dio, è una formula del
primo genere; al contrario appartiene al secondo il principio che fa
derivare ogni legittimo potere dalla volontà popolare. Con
l'introduzione del tema della formula politica si aprono alcuni
problemi di notevole interesse per l'analisi delle forze politiche.
Il primo consiste nella relazione esistente tra forze e formule. Per
Mosca non è la formula che "determina il modo di formazione
della classe politica, ma al contrario è questa che sempre
adotta quella formula che più le conviene". Il secondo
riguarda il fatto che una formula politica può esprimere
coerentemente i reali rapporti di potere o, viceversa,
incoerentemente tendere a giustificare il potere di gruppi che in
realtà non l'hanno più: è il caso esemplificato
dall'ascesa al potere della borghesia e dalla persistenza della
formula politica dell'ancien régime. L'ultimo problema,
infine, nasce dal grado d'incoerenza e di contraddizione insito in
ogni formula politica. Tali gradi oscillano da un massimo a un
minimo: il grado d'incoerenza è per esempio massimo nei
regimi democratici, dove la formula politica si fonda sul principio
della sovranità popolare mentre la direzione del sistema
politico rimane compito esclusivo di gruppi minoritari. Il grado di
contraddizione è maggiore in tutte le situazioni in cui le
dottrine politiche sono improntate all'allargamento della
partecipazione al potere, mentre le strutture politiche continuano a
favorire il monopolio di un'oligarchia autoperpetuantesi.
La teoria delle élites di Pareto nasce dall'analisi della
eterogeneità sociale e si propone di spiegare le
disuguaglianze presenti nella società. La sua prima
enunciazione appare nella lunga introduzione premessa ai Sistemi
socialisti (1902), mentre la sua più completa formulazione va
ritrovata nei capitoli del Trattato di sociologia generale (1916).
Il punto di partenza della teoria paretiana, che risente degli studi
condotti precedentemente da Otto Ammon, Jakov A. Novikov e Georges
Vacher de Lapouge, coincide con l'analisi della curva della
ripartizione della ricchezza. Questa curva configura
tradizionalmente una piramide, o meglio una specie di trottola, in
cui i ricchi occupano la sommità e i poveri la base. La forma
della curva non è dovuta al caso, ma dipende dalla
distribuzione dei caratteri fisiologici e psicologici degli
individui, caratteri e qualità che a loro volta configurano
una varietà di piramidi sociali. Mentre non si può
sostenere che la distribuzione delle qualità individuali
abbia lo stesso andamento della distribuzione della ricchezza, in
quanto difficilmente un genio matematico o un sommo poeta occupano
la stessa posizione in entrambe le piramidi di riferimento, si
può invece osservare che, se si tiene conto del grado e del
livello di influenza e di potere politico e sociale, nella maggior
parte delle società sono gli stessi individui a occupare lo
stesso posto nelle due gerarchie. La constatazione del fatto che
coloro che occupano i livelli superiori della ricchezza occupano
anche i gradi più elevati del potere spinge Pareto a
concludere che le classi superiori sono generalmente le più
ricche. Queste classi costituiscono un'élite, un'aristocrazia
nel senso etimologico del termine. Stabilita questa definizione,
l'attenzione di Pareto si sofferma sui processi di formazione,
estinzione, rinnovamento e circolazione delle élites. Lo
studio della formazione mette in evidenza l'esistenza di tre canali
privilegiati: l'eredità, la cooptazione e l'elezione.
L'estinzione sembra a sua volta dipendere da tre motivi: la
distruzione o l'esaurimento biologico, il cambiamento delle
attitudini psicologiche, la decadenza che insorge nei momenti di
disgregazione e di pericolo ed è accompagnata dall'"invasione
di sentimenti umanitari e di morbosa sensibilità". In tali
condizioni, per mantenere la stabilità sociale e assicurare
la continuità delle élites al potere si può
fare ricorso, simultaneamente o alternativamente, a due mezzi:
eliminare le nuove élites insorgenti oppure assimilarle. Nel
caso in cui nessuna delle due strategie venga perseguita,
l'élite al potere è condannata a essere rovesciata
violentemente da una rivoluzione. La storia, vero e proprio
"cimitero delle aristocrazie", dimostra che il grado di conflitto
tra élites varia al variare della loro circolazione e della
loro permeabilità reciproca, e che solo quando si ha
circolazione si ha stabilità.
La teoria delle élites di Pareto trova la sua formulazione
più completa negli ultimi capitoli del Trattato di sociologia
generale. Ancora una volta il punto di partenza è costituito
dalla constatazione dell'eterogeneità sociale per cui gli
uomini sono "diversi fisicamente, moralmente, intellettualmente".
Tale disuguaglianza è accresciuta dal fatto che, in ogni ramo
dell'attività umana, vi sono individui che hanno indici
più alti di capacità e altri che hanno indici
più bassi. Coloro che hanno gli indici più elevati
compongono la classe eletta, l'élite. Ogni società
quindi è composta da élites e non élites;
tuttavia, al fine di studiare la forma e il movimento di una
società, Pareto ritiene di dover isolare come più
rilevante la classe eletta. Questa si ripartisce a sua volta in due
settori: la classe eletta di governo, che raccoglie tutti coloro che
"hanno il cartellino di uffici politici non troppo bassi [...] e
direttamente o indirettamente hanno parte notevole nel governo", e
la classe eletta non di governo, che comprende i membri dello strato
superiore che non occupano tuttavia posizioni di governo.La
composizione delle élites dipende in ultima analisi da due
fattori: 1) le principali motivazioni all'azione (chiamate "residui"
da Pareto) che caratterizzano i loro membri; 2) i settori di
attività più rilevanti per strutturare l'equilibrio
sociale. Nel primo caso Pareto ritiene di primissimo rilievo i
residui delle combinazioni e quelli che, al contrario, rivelano
sentimenti a favore della persistenza degli aggregati. Nel secondo
caso vengono indicati come fondamentali per la strutturazione della
società i settori governativo, politico, economico e
intellettuale. Rispetto alla distribuzione dei residui, quindi, le
élites sono progressiste, innovative, aperte e tolleranti,
oppure conservatrici, tradizionali, chiuse e autoritarie; rispetto
al settore di attività si identificano invece élites
governanti, politiche, economiche e intellettuali. Combinando
assieme gli elementi appena descritti, la mappa
dell'eterogeneità proposta da Pareto viene a configurare
quattro coppie di élites, una per ogni settore di
attività, ciascuna articolata al suo interno in due
componenti, a seconda della preminenza dell'uno o dell'altro
residuo. L'élite di governo si ripartisce tra coloro che
governano con la forza e coloro che ricorrono all'astuzia;
l'élite politica si scinde in materialisti e idealisti;
l'élite economica si divide tra speculatori e redditieri;
l'élite intellettuale si articola in scettici e dogmatici.
Ogni società è quindi caratterizzata dalla diversa
proporzione dei gruppi delineati e dalla modalità con cui
avviene la circolazione fra un gruppo e l'altro. Il mutamento
sociale dipende dal modo in cui avviene il passaggio di elementi
dalla classe non eletta alla classe eletta; il mutamento politico
è legato, più specificamente, al passaggio tra classe
eletta non di governo e classe eletta di governo. Le varie forme di
governo differiscono poi, quanto alla sostanza, a seconda della
proporzione tra forza e consenso e, quanto alla forma, a seconda dei
diversi modi in cui le componenti delle élites fanno ricorso
all'una o all'altro.Preceduta da una serie di saggi sulla classe
politica e le tendenze oligarchiche presenti nella società,
fa la sua comparsa, nel 1911, la prima edizione tedesca della
Sociologia del partito politico di Roberto Michels. Con questo
contributo, tradotto in italiano nel 1912, in francese nel 1914 e in
inglese nel 1917, la teoria classica delle élites si
arricchisce di un ulteriore tassello: l'insorgenza di una
élite di potere in tutte le organizzazioni a base volontaria.
Anche in questo caso, come già in Mosca, viene privilegiato
il legame che intercorre tra organizzazione e gruppo di potere. Ma
mentre in Mosca l'organizzazione è vista soprattutto come un
requisito per la formazione della minoranza governante e uno
strumento per l'esercizio del potere, Michels tende a dimostrare che
la stessa organizzazione finisce per consolidare il gruppo dirigente
e per diventare la causa principale della sua trasformazione da
leadership in oligarchia.
Per Mosca la minoranza genera l'organizzazione per consolidare e
imporre il proprio potere; per Michels l'organizzazione genera la
minoranza per esigenze di sopravvivenza e di successo nel
raggiungimento dei fini. Per quanto il libro di Michels si possa
leggere come un vero e proprio trattato di sociologia della
leadership, e della leadership di partito in particolare, il
contributo più saliente dell'analisi va ritrovato nella
codificazione della legge ferrea dell'oligarchia che, nella sua
formulazione più completa, recita: "chi dice democrazia dice
organizzazione, chi dice organizzazione dice oligarchia, chi dice
democrazia dice oligarchia". Come si può notare
dall'enunciato della legge, due sono le ipotesi verificate nel corso
della ricerca: la prima concerne il rapporto che lega lo sviluppo
dell'organizzazione alla nascita e al consolidamento di
un'oligarchia dirigente; la seconda tende a dimostrare che anche le
organizzazioni non costrittive di ispirazione democratica o, come
nel caso della socialdemocrazia tedesca studiata da Michels, di
chiara derivazione socialista tendono a sviluppare un gruppo
dirigente minoritario, una nuova élite, che si impone alla
stragrande maggioranza degli associati. Le ragioni dell'insorgenza
dell'oligarchia vengono fatte dipendere da un concorso di elementi
che comprendono: fattori organizzativi, quali l'ampliamento delle
dimensioni organizzative e l'aumento dei compiti; fattori di
psicologia individuale, concernenti le qualità vere o
presunte dei leaders; fattori di psicologia collettiva, che
rimandano all'apatia, al misoneismo delle masse e al bisogno di
venerazione dei capi.
Le minoranze dirigenti dei partiti di massa tendono a suddividersi
in due gruppi: i leaders elettivi, che dipendono direttamente dal
consenso elettorale, e i leaders burocratici, la cui posizione di
potere è legata al controllo dell'apparato. Non tutte le
leaderships di partito si trasformano necessariamente in oligarchie.
Solo quando s'instaura una stretta connessione tra competenza,
indispensabilità e inamovibilità si può parlare
propriamente di élite oligarchica. In questo caso i membri
dell'élite tendono a cumulare le cariche e ad accentrare il
potere. Alla loro identificazione con il partito fa seguito il fatto
che interessi personali o di gruppo vengano proposti agli associati
come interessi dell'intera organizzazione. Le conseguenze
dell'affermazione di un'oligarchia sono di tre tipi. Rispetto agli
oppositori, si assiste a una chiusura di casta del gruppo dirigente
e al ricorso a pratiche di cooptazione. Rispetto al partito si
verifica, da un lato, quel fenomeno che Michels chiama "sostituzione
dei fini", ossia il fatto che "l'organizzazione, da mezzo per
raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa", e, dall'altro, si
accresce la prudenza, l'immobilismo, quando non addirittura la
conservazione. Rispetto agli iscritti o agli elettori, infine, si
manifesta una crescente differenziazione degli interessi e delle
aspettative, cui si accompagna una concomitante
deresponsabilizzazione dei leaders nei confronti dei propri seguaci.
L'oligarchia di partito è quindi per Michels il risultato
dell'organizzazione della lotta politica nelle democrazie
rappresentative e si caratterizza, sotto il profilo della
composizione, per l'ingresso nelle sue file di veri e propri
professionisti della politica. Memore dell'insegnamento di Weber sui
rapporti che intercorrono tra processi di razionalizzazione,
burocratizzazione e professionalizzazione, Michels presenta i membri
della leadership del partito di massa come "burocrati della
politica", una "casta di politici di professione", di tecnici
dell'organizzazione i quali, in virtù delle loro competenze,
tendono a ridurre la lotta politica a gestione amministrativa e a
trasformare la mobilitazione degli associati in partecipazione
passiva e istituzionalizzata. La competizione tra i partiti e,
all'interno di questi, tra i diversi leaders non ha come conseguenza
la sostituzione di un gruppo dirigente con un altro: il più
delle volte essa si conclude con un lento processo di rinnovamento e
di fusione, in cui la cooptazione assurge a principale canale di
selezione della leadership. Il ricorso continuo alla cooptazione -
meccanismo mediante il quale i vecchi leaders offrono ai nuovi
cariche onorifiche per lo più prive di potere effettivo -, se
da un lato porta i potenziali avversari a condividere le
responsabilità di potere senza averne concreti e immediati
vantaggi, dall'altro vanifica le procedure elettive e annulla la
responsabilità dei dirigenti del partito, sia nei confronti
degli iscritti sia nei confronti degli elettori.Un'oligarchia
selezionata per cooptazione stravolge inoltre la rispondenza della
leadership alle aspettative e ai desideri dei seguaci, e rimodella
il problema dell'efficienza organizzativa. L'introduzione del
principio della delega, adottato nel partito in analogia con il
sistema politico caratterizzato da una democrazia rappresentativa e
quindi indiretta, riduce il coinvolgimento e il senso di
responsabilità delle masse e al tempo stesso "produce un
diritto morale al proseguimento della stessa". I dirigenti che
ricevono una regolare delega per un determinato periodo di tempo
pretendono di trasformarla in carica a vita, quasi fosse una loro
proprietà. Questo spiega secondo Michels perché i
leaders non cercano di adeguarsi ai desideri degli elettori, ma
hanno presente principalmente l'interesse dell'organizzazione dalla
quale traggono potere, quando addirittura non perseguono,
egoisticamente, obiettivi e vantaggi personali. Analogamente anche
il problema dell'efficienza, ossia l'adeguatezza dei leaders ai
compiti che debbono affrontare, subisce una profonda alterazione. Un
gruppo dirigente stabile e centralizzato è in condizione di
scegliere tra diverse alternative che comprendono sia il
perseguimento degli interessi dei seguaci, sia la realizzazione
degli interessi dell'organizzazione in sé e per sé,
sia infine il soddisfacimento degli interessi dello stesso nucleo
dirigente. Ma mentre la scelta di interessi più vasti di
quelli degli associati può essere attribuita a una
élite lungimirante, che persegue il rafforzamento e il
consolidamento dell'organizzazione da essa diretta anche per conto
dei suoi aderenti, la scelta degli interessi personali configura
un'oligarchia non solo irresponsabile ma sfruttatrice, una vera e
propria casta che, all'interno del partito di massa, riproduce la
divisione tra governanti e governati, trasformando i delegati in
sovrani e i gestori del partito in padroni.
b) Lasswell e Burnham
Negli anni che intercorrono tra la fine del primo conflitto mondiale
e quella del secondo la teoria delle élites viene riproposta
in diversi contesti nazionali, ma, se si escludono alcuni contributi
americani, si è di fronte più ad applicazioni o
esemplificazioni che a formulazioni teoriche innovative. In Italia,
dove Mosca dà alle stampe la versione definitiva della sua
teoria nella seconda edizione ampliata degli Elementi di scienza
politica (1923), i contributi più significativi nel campo
della classe politica fanno capo soprattutto a Piero Gobetti, che
utilizza il concetto moschiano come una delle idee direttrici sia
della sua ricerca storica, sia del suo programma politico.
Più fortuna riscuote la teoria delle élites di Pareto.
Applicata dallo stesso autore in una serie di saggi dedicati agli
sconvolgimenti sociali e politici intervenuti in Europa nel
dopoguerra (saggi raccolti successivamente nel volumetto
Trasformazione della democrazia, apparso nel 1921), la teoria viene
ripresa pochi anni più tardi da Carlo E. Ferri nel libro
Lineamenti di una teorica delle élites in economia (1925), a
testimonianza della continuità di un filone di studi che
già in precedenza aveva costituito l'oggetto privilegiato
dell'indagine di due economisti di scuola paretiana: Gino Borgatta e
Guido Sensini. D'altro canto, gli scrittori più vicini al
fascismo preferiscono affrontare lo studio dei rapporti di potere
nell'ottica delle relazioni fra il duce e le masse, e solo due
contributi di rilievo, La classe dirigente (1926) di Roberto
Cantalupo e Governanti e governati del nostro tempo (1933) di Guido
Bortolotto, si propongono di conciliare le teorie di Mosca e di
Pareto con l'organizzazione politica del fascismo. Nel frattempo
c'è da registrare anche l'interesse di Antonio Gramsci che,
per quanto estremamente critico nei confronti degli autori e delle
loro opere, finisce per fare proprie molte delle osservazioni della
teoria classica delle élites, a partire dall'accettazione del
fatto "primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)" che
"esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti".
Ma è soprattutto negli Stati Uniti, dove le principali opere
di Michels, Pareto e Mosca vengono tradotte rispettivamente nel
1917, nel 1935 e nel 1939, che si assiste a un rilancio della
teoria. I primi ad applicare il modello michelsiano sono i suoi
stessi traduttori in lingua inglese, i coniugi Eden e Cedar Paul,
che nel 1920 danno alle stampe uno studio sulla rivoluzione
sovietica (Creative revolution. A study of communist ergatocracy),
che si conclude con la descrizione della nuova oligarchia dominante.
Il contributo più importante degli anni trenta è
invece legato a quella che è stata chiamata la Scuola di
Chicago e ai lavori di Harold D. Lasswell. Il suo volume Politics:
who gets what, when, how, apparso nel 1936, costituisce una vera e
propria riformulazione delle tesi proposte da Pareto. Lasswell
infatti ritiene di identificare le élites sulla base del
successo, anziché delle capacità, e restringe gli
indeterminati settori di attività di cui parlava il sociologo
italiano a tre soli 'valori', che giudica più rilevanti per
l'analisi politica: ricchezza, deferenza e sicurezza. L'élite
risulta quindi composta da coloro che occupano la posizione di
vertice nelle tre piramidi di distribuzione dei valori considerati.
Di questa élite, i cui membri rappresentano gli influenti, i
potenti, "coloro che hanno di più nella società",
Lasswell studia poi in dettaglio i metodi adoperati per conquistare
o per conservare il predominio, il ricorso agli strumenti di
violenza o agli apparati simbolici - l'ideologia e la propaganda -,
le pratiche di governo perseguite ora in direzione dell'ampliamento
della democrazia ora in vista del consolidamento di un regime
dittatoriale.
Gli anni quaranta sono contraddistinti da due lavori di James
Burnham. Il primo, The managerial revolution (1941), costituisce una
fortunata valorizzazione della tendenza a interpretare la storia del
XX secolo in termini di crescente burocratizzazione; il secondo,
apparso due anni più tardi, rappresenta già a partire
dal suo titolo, The Machiavellians, una delle più complete e
più popolari esposizioni della tradizione elitistica europea.
L'assunto di Burnham nel primo lavoro è che il sistema
capitalistico è in declino, come dimostra la progressiva
estromissione dei proprietari dal controllo della produzione a
favore di una élite di dirigenti e tecnocrati. Coniugando la
teoria delle classi di impostazione marxista con le analisi di Mosca
e di Pareto, Burnham arriva alla conclusione che il controllo e non
la proprietà degli strumenti di produzione assicura l'accesso
al potere, e che la classe dominante del futuro sarà
costituita da una minoranza di managers tecnicamente indispensabili.
Il secondo libro invece, che reca come sottotitolo I difensori della
libertà, si propone di divulgare una politica scientifica e
presenta dettagliatamente i teorici dell'élite come "gli
unici che hanno detto la completa verità sul potere",
mettendo in luce, tra l'altro, come la libertà in un sistema
politico dipenda dall'esistenza e dall'attività di
un'opposizione in grado di limitare e controllare effettivamente il
potere dell'élite dominante pro tempore. L'ultimo contributo
di rilievo apparso in questi anni consiste infine in una ricerca di
Michels sugli spostamenti sociali e intellettuali del primo
dopoguerra, pubblicata postuma in Italia nel 1936 con il titolo
Nuovi studi sulla classe politica.
c) Il secondo dopoguerra
La ripresa della teoria elitistica nel secondo dopoguerra vede in
prima fila due studiosi italiani: Guido Dorso e Filippo Burzio. Il
primo prende le mosse dalla teoria moschiana, il secondo si richiama
invece all'opera di Pareto. Il saggio di Dorso, Dittatura, classe
politica e classe dirigente, è scritto in occasione di un
convegno sui problemi del Mezzogiorno, svoltosi a Bari nel dicembre
1944. In esso si ritrova la distinzione di rilievo, nell'ambito
dell'élite del potere, tra classe dirigente e classe
politica: la prima comprende tutti coloro che in una determinata
società svolgono una funzione direttiva, economica, politica,
intellettuale; la seconda coincide con quella parte della classe
dirigente che esercita esclusivamente funzioni politiche e agisce
come "comitato direttivo" o "strumento tecnico" della prima. Dorso
si dimostra particolarmente sensibile all'interdipendenza tra classe
dirigente e classe diretta, studia i partiti politici come canale di
formazione e di circolazione delle élites, si sofferma sulle
modalità della lotta politica che, nella società
contemporanea, portano alla scissione della classe politica in due
ulteriori distinte frazioni: la classe di governo e la classe di
opposizione. Con Essenza e attualità del liberalismo, uscito
all'indomani della liberazione, nel 1945, Burzio riprende la
paretiana teoria delle élites con il duplice proposito di
elaborare una nuova tipologia delle minoranze dirigenti e di
formulare un programma politico d'ispirazione liberal-democratica.
Due sono le leggi sociologiche fondamentali che sono alla base del
suo progetto: la legge dell'ineguaglianza, o delle élites, e
la legge della loro circolazione. Come pure due sono sostanzialmente
i principî che presiedono alla formazione e alla
trasformazione delle élites: il postulato liberale e quello
autoritario nel primo caso, il postulato democratico e quello
aristocratico nel secondo. Ne consegue che un programma politico che
si vuole liberal-democratico deve tendere a selezionare le
élites mediante la concorrenza e far sì che esse
vengano elette e controllate dai cittadini: solo a queste condizioni
si avranno élites aperte, tolleranti, benefiche;
élites che "si propongono" e non "si impongono" ai governati.
Se i lavori di Dorso e di Burzio testimoniano la ripresa e
l'approfondimento dell'elitismo nell'Italia post-fascista, e il suo
accreditamento in pensatori di provata fede democratica, è
tuttavia all'estero che bisogna guardare per trovare significativi
contributi di teoria generale. Sotto questo profilo gli anni
cinquanta segnano una significativa ripresa della teoria delle
élites che, attraverso gli apporti di Lasswell, Mills e
Djilas, riacquista una posizione centrale negli studi sul potere e
viene ad assumere rinomanza internazionale. Il contributo di
Lasswell è legato a un libro e a un progetto. Il libro, Power
and society (1950), redatto insieme al filosofo Abraham Kaplan,
rappresenta lo sforzo più maturo condotto in quegli anni per
formulare un lessico e una metodologia adatti a una teoria politica
empiricamente orientata. Il progetto, impostato per conto del Hoover
Institute di Stanford in California, si propone di studiare le
principali rivoluzioni del XX secolo alla luce delle élites
che le hanno guidate. Ma mentre tale progetto si esaurisce
rapidamente in quattro monografie raccolte successivamente nel
volume World revolutionary elites (1965) - rispettivamente dedicate
al politbjuro sovietico, all'élite fascista, a quella nazista
e al Guomindang cinese - nelle pagine di Potere e società si
trovano concetti e formulazioni sul potere e sulle élites
destinati ad assumere un grande rilievo nella scienza politica
contemporanea. Innanzitutto Lasswell pone al centro della politica
non più il semplice possesso di risorse o di valori,
bensì l'effettiva partecipazione al processo in cui vengono
prese le decisioni significative per la società. Ciò
gli permette di distinguere tra l'élite del potere, ossia
coloro che occupano una posizione preminente nel processo
decisionale, e la classe dominante, costituita dalle persone che
hanno posizioni di rilievo nell'ambito della distribuzione dei
valori. Questa separazione consente a Lasswell non solo di superare
la rigida dicotomia governanti-governati, a favore di una più
ampia ricognizione della costellazione dei gruppi, delle influenze e
dei poteri reciproci presenti in una società, ma anche di
stabilire delle tipologie più articolate che, da un lato,
evidenziano la presenza di un'élite, di un'élite media
e di una massa all'interno di ciascun gruppo e, dall'altro,
distinguono tra una classe dominante, detentrice del potere
effettivo, una classe dipendente, titolare del potere formale, e una
classe soggetta, dotata a sua volta, sia pure in misura minore, di
quote di potere.
d) Mills e Djilas
Con la pubblicazione del libro di Charles Wright Mills, The power
elite (1956), la teoria delle élites compie un significativo
salto di qualità. In primo luogo questo lavoro costituisce la
prima verifica empirica sorretta da un appropriato metodo
sociologico e da un'ampia documentazione - se si eccettua l'analisi
condotta da Mosca nella Teorica dei governi (1884) sulla classe
governante italiana di fine secolo - dell'esistenza di
un'élite del potere in una società contemporanea. In
secondo luogo esso riguarda una nazione, gli Stati Uniti, in cui non
solo l'ideologia dominante è improntata al più
radicale egualitarismo, ma dove gli studi condotti fino a pochi anni
prima avevano a più riprese evidenziato l'esistenza di una
struttura del potere amorfa e indifferenziata. Basti pensare alle
conclusioni della ricerca pubblicata nel 1950 da David Riesman, in
cui si sottolineava la presenza di una miriade di gruppi di potere
tra loro bilanciati, forti a sufficienza da impedire la presa di
decisioni contrarie ai propri interessi, ma non abbastanza da
promuoverne a proprio esclusivo vantaggio. La configurazione della
struttura del potere delineata da Mills è radicalmente
opposta. Attraverso una dettagliata analisi storica e sociologica,
Mills dimostra come gli Stati Uniti degli anni cinquanta siano
dominati da una ristretta élite del potere composta da coloro
che occupano le posizioni chiave nei tre settori dell'economia,
dell'esercito e della politica. Ed è proprio
nell'individuazione delle componenti del gruppo dirigente che va
ritrovato il contributo più saliente di Mills alla teoria
delle élites. A differenza di Pareto, il sociologo americano
ritiene infatti che la composizione di un'élite non possa
essere definita in termini di successo o di capacità dei suoi
membri, ma debba invece essere analizzata nel contesto della
struttura economica e sociale. Le posizioni di potere non sono
legate tanto alle qualità degli individui, quanto ai ruoli
che essi svolgono nelle grandi istituzioni in cui si articola la
società. Il potere è istituzionalizzato e certe
istituzioni occupano, per la loro burocratizzazione e il grado di
accentramento decisionale, posizioni strategiche nella struttura
sociale. I massimi livelli della gerarchia di queste istituzioni
corrispondono alle posizioni-chiave del potere, dal momento che
assumono decisioni di portata almeno nazionale. Per quanto
eterogenea in termini di composizione istituzionale e differenziata
al suo interno secondo una gerarchia di poteri, l'élite
risulta tuttavia unificata al punto da costituire un 'raggruppamento
coerente'. Tale unitarietà dipende, secondo Mills, da tre
ordini di fattori: la permeabilità sociale e
l'affinità psicologico-culturale dei suoi membri, i rapporti
reciproci e i punti d'interesse comuni, la coordinazione esplicita.
Ciò non significa tuttavia che l'élite del potere sia
monolitica e totalmente stabile: i membri dell'élite non solo
non costituiscono un gruppo permanente dai confini fissi e formali,
ma sono sottoposti a un'intensa circolazione. Peraltro, questa
circolazione risulta attenuata sia dalla sostanziale
omogeneità sociale dei requisiti necessari per essere
selezionati e per occupare le posizioni di vertice, sia dalla
notevole interscambiabilità, realizzata mediante cooptazione,
che si verifica tra i titolari delle gerarchie istituzionali. A
un'élite il cui operato è sovente sconosciuto al
pubblico, essendo improntato alla segretezza, si contrappone una
massa di cittadini atomizzati, la cui eterodirezione risulta
accentuata dalla centralizzazione dei mezzi di informazione nelle
mani di pochi. L'uomo della strada dispone di poteri limitati al
mondo quotidiano in cui vive: l'educazione obbligatoria e il
monopolio dei mass media consentono alle élites di formare le
opinioni, suscitare i problemi, canalizzare le aspirazioni,
orientare gli atteggiamenti attraverso una manipolazione costante
che costituisce il modo più diffuso di esercizio del potere
nella società industriale contemporanea.
Nello stesso anno in cui Mills dava alle stampe la sua ricerca
sull'élite del potere in America, il sociologo iugoslavo
Milovan Djilas terminava la stesura della sua analisi
dell'oligarchia dei paesi socialisti, conosciuta in Occidente sotto
la suggestiva denominazione di La nuova classe. Sviluppato in una
prospettiva e con una metodologia rigorosamente marxiste, il lavoro,
che tuttavia doveva costare al suo autore dieci anni di prigione, si
presenta come "una critica marxista del comunismo contemporaneo" e
come la verifica del fatto che anche nell'Unione Sovietica e negli
altri paesi comunisti si fosse consolidata un'élite del
potere, una nuova classe dominante, il cui potere "è il
più assoluto conosciuto finora dalla storia". La
dimostrazione dell'esistenza di uno strato sociale e politico
privilegiato che sorge dall'apparato di partito prende l'avvio dalla
constatazione che il comunismo realizzato nell'Europa orientale
coincide in realtà con l'instaurazione di un capitalismo di
Stato. In un sistema in cui la proprietà privata dei mezzi di
produzione risulta virtualmente abolita è la burocrazia
professionale del partito unico che formalmente "fa sua, amministra
e controlla" sia la proprietà nazionalizzata sia l'intera
vita della società. La nuova classe dominante deve il suo
potere al controllo monopolistico dei mezzi di produzione: la
macchina statale diventa quindi elemento di protezione e strumento
di potere per una minoranza privilegiata. Ciò non toglie
tuttavia che la "nuova classe" presenti alcune caratteristiche
strutturali che la distinguono e la differenziano dalle classi
dominanti del passato. In primo luogo le origini sociali dei suoi
membri vanno ritrovate non negli strati superiori, ma nel
proletariato; inoltre essa non è reclutata attraverso
l'ereditarietà, bensì attraverso un continuo
collegamento con "i più bassi e larghi strati" della
popolazione. Formalmente aperta a tutti, essa richiede tuttavia come
criterio di inclusione "la sincera e completa lealtà verso il
partito o verso la nuova classe". Meglio organizzata delle
precedenti, più intransigente - come dimostra la fermezza
adoperata nei confronti di oppositori e antagonisti - la nuova
classe trova la sua spina dorsale nella burocratizzazione della
società e nell'esistenza di un partito unico in grado di
imporre una completa uniformità ideologica e una disciplina
di ferro. Sono queste le basi per l'affermazione di una dittatura
totalitaria dell'oligarchia di partito o per il consolidamento di
una dittatura personale. In questo caso il titolare del massimo
potere è colui che esprime e protegge più
ragionevolmente ed efficacemente "gli interessi della nuova classe
in un dato momento".
Agli inizi degli anni sessanta si consolidano due modelli di tipo
funzionale. Il primo, ispirato a Parsons, viene delineato da Suzanne
Keller nel libro Beyond the ruling class (1963); il secondo,
più complesso, è presentato nel 1964 da Carl Beck e da
James M. Malloy al VI Congresso mondiale dell'Associazione
Internazionale di Scienza Politica. La Keller imposta la sua ricerca
sul concetto di élites strategiche, individuate sulla base
dei processi di differenziazione e specializzazione in atto nelle
società industriali avanzate, e perviene all'identificazione
negli Stati Uniti di una decina di élites, che con il loro
numero e la loro eterogeneità smentirebbero in maniera
clamorosa la tesi di Mills relativa all'esistenza di un'unica
élite del potere. Di carattere più ambizioso è
invece la proposta di Beck e Malloy che, con valenza descrittiva e
classificatoria, costruiscono un modello che configura tre tipi
ideali di élites, distinti sulla base della dimensione
divisione/unità e della distinzione
permeabilità/impermeabilità. Si delineano così
élites unite e impermeabili, come quelle al potere nei paesi
totalitari; élites divise e impermeabili, tipiche dei paesi
sudamericani; élites divise e permeabili, presenti nelle
democrazie competitive occidentali.Un'ulteriore rivitalizzazione
della teoria si manifesta quasi vent'anni dopo attraverso gli studi
di G. Lowell Field, John Higley e Michael G. Burton. Questi studiosi
ripropongono un nuovo paradigma elitista, che nelle loro intenzioni
dovrebbe dare nuovo impulso alla ricerca politologica e porre le
basi per una teoria generale del potere. A partire da Elitism,
apparso nel 1980 ad opera di Field e Higley, per arrivare a The
elite variable in democratic transitions and breakdowns, pubblicato
da Higley e Burton nel 1989, il nuovo paradigma elitistico si sta
progressivamente ponendo al centro dell'attenzione della sociologia
politica americana per la sua capacità di affrontare in
chiave comparativa i nessi tra tipi di élites governanti e
stabilità politica. Esso viene anche adoperato per
ripercorrere la storia politica dell'Occidente, a partire dal
Cinquecento, in cerca dell'individuazione dei fattori che hanno
indotto l'affermarsi della democrazia o alternativamente lo scoppio
delle rivoluzioni.
5. Le élites nelle comunità locali
La necessità di verificare empiricamente la presenza o
l'assenza di élites del potere, in base a una metodologia
improntata alle tecniche quantitative, ha fatto nascere, a partire
dalla metà degli anni cinquanta, un gran numero di ricerche
sulla struttura del potere. Questi studi, protrattisi fino alla
metà degli anni settanta, hanno a lungo costituito uno dei
campi d'indagine più significativi della scienza politica
contemporanea, la sede privilegiata per lo studio delle
élites, e hanno avuto come oggetto soprattutto le
comunità locali ritenute più facilmente accessibili
per la raccolta dei dati. Tra le centinaia di indagini, dedicate ora
a villaggi con poche migliaia di abitanti, ora a città delle
dimensioni di Chicago e New York, due si sono imposte per il loro
carattere paradigmatico: la ricerca condotta da Floyd Hunter su
Atlanta, capitale della Georgia, e quella sviluppata da Robert Dahl
su New Haven, una cittadina del Connecticut con 150.000 abitanti. La
prima, che praticamente ha dato l'avvio a questo filone di studi,
è stata pubblicata nel 1953 con il titolo Community power
structure e ha dimostrato l'esistenza, anche a livello di
comunità, di un'unica élite del potere, omogenea e
coesiva, che esercita il suo dominio in modo informale e 'nascosto',
facendo ricorso a pressioni e a manipolazioni per ottenere il
consenso. La seconda, data alle stampe pochi anni dopo con il titolo
Who governs? (1961), ha viceversa individuato la presenza di una
molteplicità di élites, eterogenee e in concorrenza
tra loro, che subiscono la forte influenza che i cittadini possono
esercitare sul loro operato mediante varie forme di partecipazione
politica e, soprattutto, attraverso l'esercizio del voto.
La struttura del potere descritta da Hunter è configurabile
come una piramide il cui vertice comprende solo una quarantina di
persone a fronte di una comunità di cinquecentomila abitanti.
Fra l'esigua minoranza che costituisce l'élite e la
totalità dei cittadini si frappone uno strato intermedio di
alcune centinaia di individui che, dotati per lo più di
potere formale, svolgono un ruolo esecutivo e ausiliario rispetto
alle decisioni assunte dal vertice. Ma i dati più
significativi riguardano tre fenomeni che l'indagine evidenzia: la
predominanza dell'élite economica sull'élite
politico-amministrativa, l'esistenza di un alto grado di coesione
tra i detentori del potere, la quasi totale assenza di
responsabilità per le loro azioni. Viceversa, la struttura
del potere di New Haven configura una molteplicità di
piramidi di potere, una per ciascun settore decisionale. Questa
pluralità di élites risulta inoltre accentuata
dall'eterogeneità della provenienza sociale dei loro membri,
dalla mancata integrazione delle diverse componenti, spesso in
contrasto e competizione tra loro, dall'assoluta fluidità
delle posizioni pro tempore prevalenti, dalla responsabilità
continua nei confronti del corpo elettorale.
6. Elitismo e pluralismo
Con l'apparire di queste due ricerche la teoria delle élites,
fino allora unitaria, ha conosciuto l'affermazione di due modelli
radicalmente opposti. Il primo modello, che è stato chiamato
elitistico, descrive l'élite del potere nazionale o locale
accentuando la contrapposizione tra i 'pochi' dominanti e la 'massa'
subordinata, e presenta l'élite come una minoranza unica,
omogenea e coesiva; il secondo modello, che è conosciuto come
pluralistico, sottolinea invece il processo di reciproca
interdipendenza e condizionamento che lega, almeno nelle democrazie
occidentali, i 'pochi' ai 'molti', e configura l'élite del
potere come l'insieme di una pluralità di minoranze,
eterogenee e discordanti. Si è venuta così delineando
la contrapposizione tra due modelli di distribuzione del potere che,
col tempo, non solo ha dato luogo a due vere e proprie 'scuole'
diverse, ma si è spinta al punto di alimentare due
prospettive ideologiche opposte. L'antitesi tra 'scuole' è
arrivata all'estremo di attribuire ai sociologi una propensione per
il modello elitistico, e di imputare ai politologi una predilezione
per il modello pluralistico. Il contrasto ideologico ha confusamente
indotto a qualificare ora come 'conservatori', ora come 'radicali' i
sostenitori dell'élite unica, mentre ha gratificato della
connotazione di 'progressisti' o di 'democratici' quanti hanno
difeso l'esistenza di una molteplicità di gruppi di potere.Ma
al di là di queste polemiche, che dimostrano ancora una volta
il nesso che esiste tra concezioni teoriche e prospettive
ideologiche, o più propriamente tra uso scientifico e uso
ideologico di una teoria, le reali divergenze tra elitismo e
pluralismo possono essere ricondotte a tre ordini di fattori: il
concetto di potere adoperato, le ipotesi di partenza, il metodo
impiegato nel corso della ricerca. Per quanto concerne il concetto
di potere, gli elitisti restano ancorati a una prospettiva
'sostanziale', che lega il potere alle risorse che ne costituiscono
o possono costituirne la base. Essi ritengono che il potere sia un
fenomeno cumulativo, che dà luogo a una distribuzione a somma
zero, nel senso che un individuo o un gruppo godono di una quota di
potere nella stessa misura in cui altri individui o gruppi ne sono
privi, che il potere di un soggetto aumenti o diminuisca nella
misura in cui aumenta o diminuisce il potere di un altro soggetto.
Inoltre per gli elitisti il potere è essenzialmente potere
sulle persone ed è tendenzialmente antagonistico, coercitivo
e unidirezionale, dal momento che dal vertice fluisce a senso unico
verso la base della piramide sociale. Per i pluralisti, invece, il
potere ha un carattere relazionale e non è una sostanza
immutabile che conserva uno stesso peso e una stessa validità
erga omnes. Al contrario è un rapporto differenziato che
varia a seconda dei soggetti coinvolti, delle questioni cui si
applica, del momento in cui si estrinseca. Sottoposto come tutte le
relazioni sociali alla regola delle reazioni previste, regola che
stabilisce un'anticipazione delle reazioni altrui alla propria
azione, per i pluralisti il potere comporta quindi un'incessante
negoziazione nel rapporto comando-obbedienza e un costante ricorso
alle pratiche del consenso. Ancora, il potere è una delle
tante risorse presenti nella società, è
prevalentemente esercitato in vista del perseguimento di obiettivi e
fluisce secondo un andamento bidirezionale dal vertice alla base e
viceversa.
Un altro modo di evidenziare la differenza tra elitisti e pluralisti
consiste nell'individuare le rispettive ipotesi di ricerca. Partendo
dalla constatazione di una diseguale distribuzione delle risorse
(ricchezza, prestigio, status, ecc.), gli elitisti ipotizzano
un'analoga distribuzione del potere politico; i pluralisti, pur
accettando l'ineguale distribuzione delle risorse e della influenza
politica, non condividono l'assunto secondo cui esse sarebbero
distribuite allo stesso modo in tutte le società o in tutte
le componenti di una stessa comunità politica. La
cumulatività delle ineguaglianze e l'automatica conversione
delle risorse economico-sociali in potere politico costituiscono per
i pluralisti un oggetto specifico di ricerca. Dal che si deduce che,
mentre gli elitisti intraprendono lo studio della struttura di
potere alla luce dell'interrogativo 'chi possiede il potere?', i
pluralisti si domandano invece: 'chi governa?'. Limitandosi al primo
quesito si corre il rischio di confondere il potere potenziale con
il potere reale; insistendo sul secondo si può essere indotti
a scambiare il potere esercitato con il potere effettivo.Anche le
opinioni in tema di diffusione o di concentrazione del potere
contribuiscono a differenziare le prospettive in esame. Per gli
elitisti il potere tende alla concentrazione, sia per il suo stretto
legame con le risorse, sia per la tendenza a stabilizzarsi in
istituzioni gerarchicamente organizzate. Per i pluralisti, al
contrario, il potere è intrinsecamente condiviso, diffuso e
disperso, dal momento che le relazioni di potere sono molteplici e
compartimentalizzate e i soggetti che soccombono in un campo possono
essere i vincitori in un altro. Da queste due differenti prospettive
sono nate due configurazioni alternative dell'élite: la prima
(monistica) tende a descriverla come un gruppo unico, unitario,
coeso; la seconda (pluralistica) come un insieme di gruppi, divisi e
discordanti. Da ultimo, a partire dai lavori di Peter M. Bachrach e
Morton Baratz, The two faces of power (1962) e Power and poverty
(1970), si è delineata una nuova prospettiva di ricerca che
è conosciuta come 'neo-elitista'. Essa si propone di studiare
la dimensione non visibile del potere, che sfugge sia agli elitisti,
propensi a considerarne detentori coloro che occupano i vertici
delle gerarchie istituzionali, sia ai pluralisti, convinti di dover
concentrare l'analisi sulla diretta partecipazione ai processi
decisionali. La nuova ipotesi di ricerca, tradotta
nell'interrogativo 'chi trae vantaggio?', presuppone che qualsiasi
status quo attribuisca vantaggi a qualcuno in modo non proporzionato
e che queste persone debbano essere identificate come i reali
detentori del potere, anche se non occupano cariche formali e se non
sono visibilmente coinvolte nel processo decisionale.Un terzo
elemento che può spiegare la divergenza tra elitisti e
pluralisti chiama in causa le tecniche adottate nel corso
dell'indagine. A mettere in evidenza l'esistenza di una correlazione
tra metodo e configurazione della struttura di potere è stato
John Walton che, in un articolo apparso nel 1966, Substance and
artifact: the current status of research on community power
structure, dopo aver considerato trentatré differenti
ricerche relative a cinquantacinque comunità, è giunto
alla conclusione che l'adozione di un metodo reputazionale porta a
individuare una piramide del potere, mentre il ricorso al metodo
decisionale favorisce la conclusione opposta, secondo cui esiste una
pluralità di centri di potere. Il primo, che è il
metodo più di frequente scelto dagli elitisti - è
stato adoperato ad esempio da Hunter -, consiste nel descrivere la
struttura del potere e nell'identificare la composizione
dell'élite basandosi sul parere di 'giudici' opportunamente
prescelti. Il ricorso alla reputazione degli esperti, cui si chiede
di fornire indicazioni sulle persone più influenti della
comunità, indicazioni che vengono in vario modo verificate
attraverso una serie di controlli incrociati che culminano con le
interviste dirette ai membri dell'élite, porta solitamente a
sopravvalutare il potere 'dietro le quinte' e ad accentuare il
carattere 'cospirativo' dell'esercizio del potere nonché la
coesione, la consapevolezza, la coordinazione e la cospirazione
della minoranza dominante.
Viceversa, il metodo decisionale, elaborato per oltrepassare la
'facciata' delle reputazioni e delle posizioni formali, consiste
nell'individuare gli attori che di fatto prendono parte direttamente
ai principali processi decisionali della comunità. Questo
metodo consente di differenziare le varie aree di esercizio del
potere, come pure di distinguere tra un potere generale e un potere
specializzato. Delineato nelle sue linee generali da Dahl, esso
comporta una netta distinzione tra decisioni fondamentali e
decisioni di routine, e richiede l'attenta ponderazione
dell'attività di quanti partecipano alle decisioni,
attività che si può manifestare nella promozione di
una scelta che supera l'opposizione, nell'esercizio di un veto sulle
scelte promosse da altri, oppure nel sostenere una scelta che non
incontra opposizione. A questi metodi i neo-elitisti ne hanno
affiancato un terzo, conosciuto come analisi della 'mobilitazione
delle preferenze'. Partendo dal presupposto che il potere non si
esprime unicamente in decisioni concrete, ma si realizza anche nel
sopprimere le decisioni che sarebbero sfavorevoli, i sostenitori di
questo metodo suggeriscono di considerare pure il contesto
istituzionale e organizzativo in cui le decisioni vengono prese.
Ciò equivale a spostare il fuoco dell'analisi sulle regole
del gioco e sui valori dominanti, che potrebbero preselezionare le
proposte su cui decidere, limitandole a quelle su cui esiste un
consenso generalizzato, o addirittura non includere nell'agenda
decisionale quei temi che si ritengono lesivi degli interessi
dominanti.
7. Democrazia ed élites
Il dibattito conseguente alla contrapposizione tra elitismo e
pluralismo ha avuto, tra gli altri meriti, anche quello di ridare
attualità a un vecchio e spinoso problema: la
compatibilità tra élite e democrazia. La storia di
questo rapporto è più che secolare, in quanto affonda
le sue radici nella seconda metà del secolo scorso, e ha
conosciuto tante manifestazioni quanti sono i significati che si
sono attribuiti al termine democrazia, sia nella sua dimensione
realistica sia in quella prescrittiva. A una concezione della
democrazia come forma di governo la teoria delle élites ha
contrapposto la realtà di una inevitabile e perenne
strutturazione oligarchica del potere. Alla presentazione della
democrazia come forma di emancipazione popolare gli elitisti hanno
reagito descrivendo il popolo come una massa, come un'entità
atomizzata, inerte, incapace di produrre spontaneamente azioni
organizzate e coerenti. All'ideale della partecipazione si è
opposta la constatazione dell'apatia e dell'eterodirezione, mentre
il valore dell'eguaglianza politica è stato criticato, alla
luce della constatazione del carattere perenne dell'ineguaglianza
nella distribuzione delle risorse e delle capacità. Solo
negli ultimi tempi si è delineata un'area di conciliazione, a
partire dal progressivo rifiuto di una democrazia intesa come
partecipazione diretta e dalla crescente esaltazione dei processi di
competizione che coinvolgono una pluralità di élites
eterogenee e conflittuali anche al loro interno.
Di solito, quando si vuole porre l'accento sulla non
compatibilità tra teoria delle élites e democrazia, si
ricorre alle pagine in cui Pareto presenta la democrazia come una
"derivazione metafisica", definisce la rappresentanza popolare "una
finzione", e riconosce come unica prerogativa del governo
democratico una maggiore propensione al clientelismo e al consenso
manipolato, anziché all'uso della forza. Tuttavia, sempre per
restare nell'elitismo classico, già in Mosca si trovano
indicazioni di conciliabilità, come quando egli distingue tra
regimi aristocratici e regimi democratici che, a differenza dei
primi, sono governati da classi politiche articolate, eterogenee,
aperte e soggette alla regola della libera discussione, oppure
quando definisce il sistema rappresentativo come l'unica forma di
organizzazione in cui una molteplicità di forze politiche
sono poste in condizione di controllarsi efficacemente a vicenda. Ma
è soprattutto qualche decennio più tardi, prima con
Mannheim, successivamente con Schumpeter e Lasswell, che si sono
poste le basi per una teoria elitistica della democrazia. Il
sociologo ungherese Mannheim, in un'analisi scritta negli anni
trenta ma pubblicata postuma con il titolo The democratization of
culture (1956), ha sostenuto che la democrazia non esclude la
presenza di élites, ma implica uno specifico principio di
formazione e di reclutamento di queste ultime. L'economista di
origine austriaca Schumpeter è andato ancora più in
là proponendo, in Capitalism, socialism and democracy (1942),
una nuova teoria della democrazia che ha il suo punto di forza
proprio nei problemi relativi alla composizione e alla formazione
dell'élite politica. Anche se il nome di Gaetano Mosca non
compare mai nel libro di Schumpeter, la critica al concetto classico
di democrazia in esso contenuta poggia in gran parte sugli stessi
fondamenti sui quali il politologo italiano rigettò l'idea
della sovranità popolare. Come Mosca, infatti, Schumpeter
ritiene che in nessun caso la maggioranza possa governare e che in
tutti i regimi sia sempre una minoranza a dirigere la maggioranza.
La definizione letterale del termine democrazia come 'governo del
popolo' non ha, tranne che nelle comunità politiche molto
piccole, alcun senso reale, mentre il concetto di 'bene comune'
risulta essere empiricamente più il prodotto fittizio della
minoranza governante che la forza propulsiva del processo politico.
Ma se non è possibile modificare il carattere minoritario
della classe politica, né pensare alla volontà
popolare come al soggetto che decide circa i problemi politici, si
possono invece rovesciare i termini del problema e progettare una
democrazia realistica in cui il popolo abbia l'opportunità
effettiva di accettare o rifiutare gli uomini che dovranno
governarlo. In altri termini, partendo dalla constatazione che il
compito del popolo è di produrre un governo, o un corpo
intermedio che a sua volta genererà un esecutivo, Schumpeter
propone di identificare la democrazia con una specifica
modalità di selezione della classe politica. In questa
prospettiva la democrazia è "lo strumento istituzionale per
giungere a decisioni politiche in base al quale singoli individui
ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha
per oggetto il voto popolare" (v. Schumpeter, 1942; tr. it., p.
257). Con questa nuova definizione, che qualifica come democratica
una procedura di "accettazione" di una classe politica, Schumpeter
sottolinea come il grado di autonomia e di iniziativa popolare sia
connesso a un'effettiva competizione tra più individui o
più gruppi che mirano al raggiungimento del potere. Solo la
pluralità delle forze politiche in lotta per il potere e una
genuina concorrenza per il comando costituiscono l'ultima roccaforte
di difesa della dottrina democratica, l'unico modo possibile per
conciliare l'inevitabilità di un'élite politica
minoritaria con l'intervento diretto della stragrande maggioranza
dei cittadini. In questi termini la teoria delle élites e la
dottrina della democrazia liberale non solo non sono
contraddittorie, ma diventano complementari: la proposta teorica di
Schumpeter equivale a un'integrazione di elementi elitisti in una
impalcatura democratica, che al concetto di 'governo del popolo'
viene a sostituire quello di 'governo approvato dal popolo'.
Qualche anno più tardi, nel già ricordato Potere e
società, Lasswell tratteggia una conclusione più o
meno simile: la democraticità di una struttura sociale non
dipende dal fatto che vi sia o meno un'élite, bensì
dai rapporti che intercorrono tra l'élite e la massa, dalle
procedure con cui l'élite è reclutata sulla base di
valori egualmente accessibili a tutti e dal modo in cui essa
esercita il suo potere. Un dominio è egualitario nella misura
in cui è ugualmente distribuito non il potere ma l'accesso al
potere. Le ricerche di Dahl e dei pluralisti in genere hanno
consentito quindi di completare su base empirica il modello
dell'elitismo democratico, in cui la democrazia si ritiene
salvaguardata dalla pluralità, dalla varietà, dalla
permeabilità e dall'ampiezza delle élites. I valori
centrali di questo nuovo modo di intendere la democrazia coincidono
con la libertà, la stabilità e la legittimità
conseguita per mezzo del sistema elettorale, mentre la
partecipazione è considerata un valore periferico e la
massimizzazione dell'eguaglianza è interpretata come una
reciproca compensazione e neutralizzazione tra diseguaglianze
effettive.
Da ultimo gli studi di Giovanni Sartori, The theory of democracy
revisited (1988), hanno consentito di superare definitivamente gli
ostacoli residui che si frapponevano all'integrazione tra elitismo e
democrazia, da un lato evidenziando come l'esistenza di tendenze
oligarchiche all'interno delle singole organizzazioni non escluda la
presenza, a livello sistemico, di una vigorosa ed effettiva
competizione tra oligarchie e, dall'altro, sottolineando come il
controllo elettorale, esercitato liberamente nei confronti di una
pluralità di élites concorrenti, conferisca un
effettivo potere potestativo all'elettorato, rendendo le minoranze
governanti responsabili verso di esso. In conclusione, riconoscere
che anche la politica democratica è dominata, in misura
maggiore o minore, da élites ha comportato l'individuazione
dei seguenti requisiti ritenuti indispensabili per configurare
un'effettiva compatibilità tra élite e democrazia: 1)
l'elettorato è in grado di scegliere tra una pluralità
di élites in competizione; 2) le élites non possono
rendere ereditario il loro potere o impedire a nuovi gruppi sociali
di accedere alle posizioni di vertice; 3) le élites
raccolgono sostegno da parte di coalizioni mutevoli in modo che
nessuna può diventare permanentemente predominante; 4) le
varie élites dominanti nei diversi settori della
società non stabiliscono mai un'alleanza comune.Posta in
questi termini, l'iniziale contrapposizione tra élite e
democrazia risulterebbe superata dalla formula 'elitismo
democratico' con cui si vuole indicare che in una poliarchia il
potere politico è esercitato mediante un'alternanza tra
diverse élites mobili e aperte, élites che si
propongono e non si impongono, e che l'influsso che il popolo in
quanto elettorato opera sul governo dipende in ultima analisi
dall'effettivo pluralismo delle élites e dalla competizione
reale che si instaura tra di esse. Tutto ciò equivale, come
ha notato Peter Bachrach nel suo lavoro The theory of democratic
elitism (1967), non solo a ripudiare l'ideale etico della democrazia
classica e a ridimensionare le istanze partecipative, ma soprattutto
a ribadire l'inalterabilità della dicotomia
élite-massa anche nelle società industriali
contemporanee. Nella teoria classica il fuoco dell'attenzione
verteva sul popolo e sulla sua partecipazione al potere;
nell'elitismo democratico l'attenzione si concentra
sull'élite e sul suo carattere pluralistico e competitivo,
con il conseguente arretramento del principio egualitario da
uguaglianza di potere a uguaglianza della possibilità di
accedere a posizioni di potere.