Devianza
di Stanley Cohen
Sommario: 1. Introduzione: il problema della definizione. 2. I primi
discorsi sul rapporto devianza/controllo. 3. La Scuola di Chicago.
4. Il funzionalismo e i suoi derivati: a) le funzioni positive della
devianza; b) l'anomia e le teorie delle subculture. 5. Le teorie
della reazione sociale: a) la teoria; b) politica e politica
sociale; c) le critiche. 6. Le teorie radicali. 7.
Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione: il problema della definizione
A differenza di molti concetti della sociologia ('status',
'società', 'classe sociale') e delle scienze sociali in
genere ('povertà', 'personalità', 'democrazia'), il
concetto di 'devianza' non viene usato, nella vita quotidiana, in
modo ben definito o conforme all'uso specialistico. Di fatto il
termine è utilizzato per indicare più una categoria
sociologica che una categoria sociale; i rari contesti specifici nei
quali esso è comunemente usato (per esempio 'devianza
sessuale') aiutano poco a capire il suo significato più
astratto e generale. Per questo motivo qualsiasi analisi del
concetto di devianza deve cominciare tracciandone la genesi
nell'ambito delle scienze sociali e in particolare della sociologia.
Le definizioni attualmente accettate di 'devianza' ('deviance',
'deviancy') ovvero di 'comportamento deviante' ('deviant behavior')
sono utili per delineare il campo di ricerca, ma non esprimono la
travagliata storia del concetto. Quasi tutte queste definizioni
riflettono i punti di vista relativistico e interazionistico,
secondo i quali la devianza non è una qualità
intrinseca di un certo modo d'agire, ma un'interpretazione che se ne
dà. Ecco alcune definizioni standard di devianza, riportate
nei libri di testo: "comportamento che alcuni membri di una
società trovano offensivo e che, in costoro, suscita - o
susciterebbe, se fosse scoperto - disapprovazione, condanna o
ostilità" (v. Goode, 1981, p. 25); "comportamento, idee o
aspetti di uno o più individui che alcuni membri di una
società - non necessariamente tutti - reputano sbagliati,
cattivi, stravaganti, disgustosi, eccentrici o immorali: in altre
parole, offensivi" (v. Higgins e Butler, 1982, p. 2); "qualsiasi
comportamento considerato più o meno gravemente deviante
dall'opinione pubblica" (v. Thio, 1988, p. 22).
Queste definizioni sono relativistiche, in quanto implicano l'ovvia
constatazione che non si può compilare un elenco universale
dei 'comportamenti devianti', poiché non tutti i gruppi
sociali concordano su ciò che è normale e normativo.
La devianza è un dato di fatto universale, in quanto inerente
all'idea stessa di organizzazione sociale: non ci può essere
organizzazione sociale senza regole e norme, e non ci possono essere
regole e norme senza la possibilità di infrangerle o di
deviare da esse. Ma non c'è un accordo universale sulla
sostanza della devianza, non esiste un elenco standard di
comportamenti considerati ugualmente devianti in tutte le
società. Analogamente anche la reazione all'infrazione delle
regole (il 'controllo sociale', come viene generalmente chiamata)
è un dato di fatto universale, ma può assumere le
forme più disparate: ostracismo, isolamento, terapia, ecc.
Le stesse definizioni sono anche interazionistiche, in quanto
implicano, oltre all'ovvio elemento del comportamento (il fenomeno
'grezzo' puro e semplice), anche la reazione a esso (la definizione,
l'interpretazione e la classificazione dell'atto in termini
cognitivi particolari). La devianza, in altre parole, non è
una qualità obiettivamente data dell'atto, ma è
un'attribuzione soggettiva (o politica): è sempre il prodotto
di un processo interattivo. Questa tesi (riflessa nelle definizioni
sopra riportate) costituisce il messaggio principale lanciato dalle
nuove sociologie della devianza affermatesi verso la metà
degli anni sessanta (v. cap. 5).
Sostenere questa tesi significa respingere altre concezioni della
devianza, che sono probabilmente più vicine al punto di vista
suggerito dal senso comune e certamente più profondamente
radicate nei vari sistemi organizzati per il controllo della
devianza - sistemi pubblici, privati o professionali, legali,
assistenziali o psichiatrici. Così il teorico più
famoso di quel periodo, Howard Becker (v., 1963), prima di giungere
alla concezione relativistico-interazionistica, respinge altre tre
definizioni di devianza: quella che riduce la devianza a uno stato
patologico, quella che la descrive in termini statistici e quella
che l'identifica come condotta trasgressiva. Secondo la prima
definizione, la devianza è una qualità 'intrinseca' di
una persona o la qualità 'oggettiva' di un atto (questa
definizione è insostenibile, perché i criteri
medico-biologici obiettivi usati per stabilire stati di salute o
patologici non sono evidentemente applicabili all'azione sociale, se
non per vaga analogia).
In base alla seconda definizione, la devianza è uno
scostamento da una distribuzione normale, in senso statistico
(questa definizione è stata proficuamente utilizzata da
diversi studiosi - v. Wilkins, 1964 -, ma chiaramente non tiene
conto di un elemento fondamentale: il giudizio sociale negativo di
disapprovazione). Secondo la terza definizione, la devianza consiste
nell'infrangere regole e norme sociali stabilite, ovvero nel non
seguirle. Solo questa terza definizione ha un significato
sociologico. Il suo difetto è che ignora sia i numerosi atti
che infrangono le regole, ai quali non si reagisce negativamente,
sia (cosa di minore importanza) i casi di atti considerati devianti
anche se non comportano alcuna infrazione di regole.
Becker pervenne dunque a una quarta definizione: la qualità
della devianza consiste nella reazione sociale (etichettamento,
codifica, denominazione, interpretazione, classificazione). La
devianza diventa una categoria ambigua, variabile: la sua
identità risiede nell'occhio dell'osservatore (una
'società' vagamente concettualizzata) piuttosto che nella
sostanza dell'azione. Inoltre, considerando la devianza come uno
status attribuito anziché conseguito, se ne estende la
definizione fino a comprendere, oltre alle forme lampanti di
infrazione delle regole, fenomeni in cui la natura della regola non
è chiara (per esempio la malattia mentale) o il cui status
è già di per sé svalutato (vecchiaia, handicap
fisico, ritardo mentale, perfino l'appartenenza a una minoranza
etnica): sono tutti casi di stigmatizzazione o di 'identità
negata' (v. Goffman, 1963).
Dopo aver presentato una definizione ampia e deliberatamente aperta
di devianza, analoga a quella proposta da Becker, i libri di testo
standard o i corsi sull'argomento passano ad applicare la teoria
implicita in tale definizione a tutta una serie di esempi.
Nonostante si ritenga, comunemente, che anche l'infrazione delle
regole quotidiane costituisca una forma di devianza (per esempio
cattive maniere a tavola, abbigliamento inadatto, indisciplina a
scuola, violazione delle norme sessuali), i comportamenti addotti a
esempi di devianza sono, in genere, quelli tradizionalmente
etichettati come devianti, quelli pubblicamente 'costruiti' come
problemi sociali. Esistono molte classificazioni differenti, ma
quasi tutte comprendono: la criminalità, la delinquenza
giovanile, la violenza, il suicidio, l'abuso di droghe, l'alcolismo,
la malattia mentale, la devianza sessuale, ecc. Testi e corsi di
studio influenzati dalle idee femministe e radicali mettono in
rilievo esempi quali la violenza contro le donne, la devianza di
élite e corporativa, gli abusi di potere e i crimini dello
Stato.In genere ogni esempio è illustrato e analizzato
precisando quattro punti:
a) la definizione del fenomeno (per esempio la 'violenza' o la
'devianza sessuale');
b) l'estensione e la struttura del fenomeno (la percentuale di
diffusione, la distribuzione sociale);
c) le spiegazioni avanzate (le diverse teorie causali concorrenti,
biologiche, psicologiche, sociologiche, economico-politiche, ecc.);
d) il controllo sociale del fenomeno (le principali forme di
reazione sociale, rieducativa, punitiva, terapeutica, assistenziale,
ecc.).
Quanto più tali testi (o corsi di studio o progetti di
ricerca) sono sofisticati, tanto più è probabile che
seguano il paradigma della reazione sociale per tutta la trattazione
(anziché citarlo soltanto nel capitolo introduttivo, in sede
di definizione). Attualmente si tende - sia nei libri di testo (v.
Pfohl, 1985) sia nelle pubblicazioni specialistiche (v. Scull, 1988)
- a studiare la devianza facendo costante riferimento al controllo
sociale. È impossibile, per esempio, studiare la diffusione,
le cause e le forme dell''abuso dei minori' senza riferirsi
continuamente ai problemi duali della definizione e della
individuazione. In altre parole: com'è definita questa
categoria e come sono classificati i singoli casi/incidenti che
rientrano in tale definizione?
2. I primi discorsi sul rapporto devianza/controllo
I fenomeni specifici che costituiscono la nostra categoria astratta
- la devianza - erano naturalmente già compresi in sistemi
culturali che esistevano prima che la categoria stessa divenisse
oggetto di studio delle scienze sociali. Termini come 'peccato',
'male' e 'immoralità' esistevano in sistemi religiosi, di
tradizioni e di superstizioni premoderni o prescientifici, e
continuarono a essere usati anche dopo che lo Stato moderno
sovrappose a essi la propria potente terminologia legale e
legislativa. Prima che fosse definito il concetto di 'crimine'
esisteva il comportamento deviante, dannoso, indesiderabile,
cattivo, problematico o peccaminoso; prima del concetto di 'ritardo
mentale' c'erano le persone stupide, prima del concetto di
'depressione' c'era la tristezza e prima del concetto di 'alcolismo'
l'ubriachezza.
La nascita di un discorso specificamente moderno sulla devianza
risale a tre radicali trasformazioni che si verificarono verso la
fine del XVIII secolo (v. Cohen, 1985, cap. 1):
a) l'attribuzione al concetto di 'crimine' di un ruolo egemone nella
categorizzazione delle forme fondamentali di devianza, che
rafforzò il potere del sistema legale centralizzato dello
Stato moderno;
b) il prevalere di modi di controllo consistenti nella segregazione
in istituzioni specializzate chiuse (prigione, ospedale
psichiatrico, ecc.);
c) il perfezionamento dei metodi per classificare popolazioni e
fenomeni devianti, ognuno col proprio sistema di definizioni e di
spiegazioni (che cos'è 'questo'? che cosa lo determina?) e
col proprio apparato burocratico e professionale.
Quest'ultimo sviluppo - il consolidamento delle forme moderne di
potere/conoscenza (v. Foucault, 1981) - è cruciale. Noi
interpretiamo tutte le forme di devianza ufficialmente riconosciute
attraverso i tre principali schemi di regolazione e repressione: lo
schema legale/giuridico, lo schema assistenziale e lo schema
salute/malattia (v. Edwards, 1988). Gli scritti di carattere storico
su questi temi (v. Cohen e Scull, 1983) trattano della nascita di
schemi specifici: per esempio il manicomio e la prigione (v.
Rothman, 1971; v. Foucault, 1976; v. Ignatieff, 1978), o il
successivo complesso 'punizione e assistenza' (v. Garland, 1985).
Altri scritti analizzano schemi contemporanei, come la
'decarcerazione' (v. Scull, Decarceration..., 1984), la
'medicalizzazione' (v. Conrad e Schneider, 1980) o la 'dispersione'
(v. Cohen, 1985).
Sono studi che trattano dei conflitti di competenza e delle
controversie 'interdisciplinari' circa la natura della devianza e il
modo in cui reagire a essa. Alcuni tipi di devianza attraversano
'passaggi morali' (v. Gusfield, 1967), ovvero fasi successive in cui
non solo sono sottoposti a forme di controllo differenti, ma sono
anche percepiti in termini morali e cognitivi diversi.
L'omosessualità, per esempio, è passata - in un arco
di tempo relativamente breve - attraverso le fasi del peccato, del
crimine, della malattia, della diversità e della
liberazione.All'inizio del XX secolo i maggiori conflitti di
competenza sembravano risolti: la devianza doveva essere di
pertinenza di esperti e professionisti (operatori sociali,
psichiatri, avvocati), e fu separata dalla questione più
generale del potere politico. L'insieme delle attività
assistenziali, educative, legali e terapeutiche riguardanti la
devianza costituì un nuovo ambito 'sociale' (v. Donzelot,
1977), separato dal sistema politico.
La devianza criminale, per esempio, doveva essere spiegata dalla
criminologia positivista, che 'sottraeva' il soggetto del crimine
alle competenze dello Stato (v. Matza, 1964). Tutto ciò non
impedì, comunque, che si continuassero a usare, per connotare
la devianza, espressioni appartenenti al linguaggio della morale. I
nuovi sistemi di potere/conoscenza non riuscirono a sottrarre le
categorie devianti alla disapprovazione morale, alla
stigmatizzazione e alla condanna sociale.
Ciò che resta di questa storia complessa figura nelle
discipline accademiche delle scienze sociali (specialmente nella
sociologia), che hanno fatto della devianza il proprio argomento di
studio.Tra tutti i fondatori della teoria sociale classica, Durkheim
fu quello che più chiaramente anticipò i problemi
concettuali che sarebbero in seguito diventati di pertinenza della
sociologia della devianza (e delle sue branche, come la
criminologia). Il suo interesse pionieristico per la questione
dell'ordine sociale lo condusse ad affrontare proprio quegli
argomenti (la funzionalità della devianza, la
relatività delle regole, la natura della regolamentazione
morale) che poi divennero, come si vedrà, le questioni
teoriche centrali della sociologia della devianza.
Nelle concezioni sociologiche della devianza Matza (v., 1969)
individua tre contrapposizioni ricorrenti:
a) tra correzione (studiamo i fenomeni devianti perché
vogliamo estirparli) e comprensione (il nostro interesse è
capire, perfino empaticamente, i fenomeni devianti);
b) tra patologia (la devianza è una variante intollerabile e
intrinsecamente indesiderabile della normalità) e
diversità (la devianza è una variante, o un mutamento,
tollerabile, che, per ragioni estrinseche, è considerata
negativamente); c) tra semplicità (la devianza, in quanto
scostamento dalla normalità, è un fatto ovvio) e
complessità (la devianza è un fenomeno difficile da
definire, dati i suoi rapporti talvolta paradossali con la
normalità, cui spesso si sovrappone).Queste contrapposizioni
figurano in ogni importante discorso sociologico sulla devianza.
3. La Scuola di Chicago
La devianza era una questione di importanza cruciale per la prima
generazione di sociologi, soprattutto americani e inglesi. Fenomeni
come il crimine, la delinquenza e il 'vizio' erano considerati
minacce alla moralità dominante e alle concezioni vigenti
dell'ordine sociale. La devianza denotava un cattivo funzionamento
dei sistemi di socializzazione primari/informali (la famiglia, la
scuola, la moralità). Gli scienziati sociali appoggiavano
movimenti di riforma miranti a rendere più efficienti, umane
e 'progressiste' le istituzioni ufficialmente deputate al controllo
sociale (correzionalismo). Le loro teorie si basavano sul paradigma
della patologia e della semplicità. Questa "ideologia
professionale dei patologi sociali" (v. Mills, 1943), col suo
insieme di criteri morali assoluti in base ai quali valutare la
devianza, con le sue teorie causali individualistiche o
situazionali, con la sua riluttanza a pensare in termini politici o
storici, dominò il pensiero sociologico per decenni.La Scuola
di Chicago degli anni venti e trenta ereditò parte di questa
ideologia, ma cercò di affrontare il tema della devianza in
modo più 'scientifico' e meno moralistico.
I suoi seguaci usavano dati statistici (riportando la distribuzione
dei tassi di devianza su mappe della città), ma furono anche
i primi a utilizzare metodi etnografici: l'osservazione diretta, la
ricostruzione di storie individuali, lo studio di singoli casi. Le
loro descrizioni, molto dettagliate, delle bande giovanili, della
criminalità organizzata, della prostituzione, del
vagabondaggio, ecc. inaugurarono una tradizione metodologica
duratura.
Questi resoconti, apparentemente tesi a suffragare una concezione
della devianza come fenomeno semplice e patologico (un sottoprodotto
indesiderabile dei rapidi mutamenti sociali, della mobilità
sociale, dell'immigrazione, del conflitto fra culture, della
crescita urbana), paradossalmente fornirono prove a favore della
tesi della diversità e della complessità (v. Matza,
1969). La delinquenza faceva parte del 'crescere nella
città'; vizio e criminalità organizzata erano
pienamente integrati nell'apparato politico e in quello preposto
all'applicazione della legge. La città era il laboratorio
dove studiare tutto ciò, ed era la fonte del male.
I bassifondi della città - le 'zone di transizione'
contrassegnate dalla precarietà, dalla mobilità, dalla
marginalità - erano anche le aree dove risultavano più
concentrate le categorie del degrado morale e della patologia
sociale, dove si registravano le più alte percentuali di atti
criminali, suicidi, divorzi, malattie mentali, casi di
prostituzione, vagabondaggio, ecc.Queste correlazioni furono
spiegate in tre modi: in termini di 'ecologia' (la crescita urbana
crea 'ambienti naturali' favorevoli al costituirsi di rapporti
simbiotici fra varie forme di devianza), in termini di 'trasmissione
culturale' (le norme devianti vengono trasmesse da una generazione
all'altra attraverso un processo di apprendimento), in termini di
'disorganizzazione sociale' (la devianza dipende dalla debolezza -
in casi estremi dal crollo - delle forme tradizionali di controllo
sociale di fronte ai conflitti fra culture, ai mutamenti sociali
dirompenti e all'instabilità sociale).
I punti deboli della Scuola di Chicago sono stati rilevati
già da tempo: il fatto di concentrarsi su micromodelli
piuttosto che sulla struttura sociale, il fatto di basarsi su una
nozione di disorganizzazione sociale affetta da circolarità
logica (v. Downes e Rock, 1988²), ecc. Essa ha, comunque,
fornito un contributo importante e tuttora valido allo studio della
devianza: l'impostazione metodologica imperniata sulla descrizione
puntuale e fedele degli universi devianti (stili, culture, carriere)
inseriti nel contesto della vita urbana.
4. Il funzionalismo e i suoi derivati
Il funzionalismo in auge dopo gli anni quaranta non era interessato
né a una descrizione dettagliata degli universi devianti,
né ad alcun tipo di assistenzialismo o correzionalismo. Tali
questioni erano respinte come provinciali e riformiste, irrilevanti
ai fini dello studio della società 'normale'. Richiamandosi
alla teoria sociale europea classica (specialmente alle teorie di
Durkheim e Weber), i funzionalisti si interessavano dei macromodelli
dell'ordine sociale. Nella teoria di Parsons la devianza era uno
scostamento dagli standard normativi, da spiegarsi in termini di
socializzazione difettosa o di aspettative di ruolo. Comunque,
malgrado la loro dichiarata mancanza di interesse per la devianza in
sé (considerata il prodotto di scarto di una macchina mal
funzionante), il funzionalismo e le concezioni a esso ispirate
contribuirono allo studio del fenomeno con due idee estremamente
importanti.
a) Le funzioni positive della devianza
Il primo contributo del funzionalismo allo studio della devianza
è l'idea - paradossale - che la devianza, lungi dall'essere
un fenomeno puramente negativo e patologico, svolga un ruolo
fondamentale e addirittura positivo nel mantenimento dell'ordine
sociale. Questa idea si fa immancabilmente risalire alle prime tesi
di Durkheim sulla "normalità del crimine". Il crimine,
secondo Durkheim, è un fatto sociale non solo in senso
statistico, ma anche in quanto esso svolge precise funzioni sociali:
"Classificare il crimine tra i fenomeni della normale sociologia non
vuol dire solo affermare che esso è un fenomeno inevitabile,
sebbene deplorevole, dovuto all'incorreggibile debolezza dell'uomo,
ma anche che esso è un fattore di salute pubblica, una parte
integrante di tutte le società sane" (v. Durkheim, 1895).Una
società senza devianza è impossibile da immaginare. Le
"funzioni positive" della devianza sono: rafforzare la coscienza
collettiva, segnare i confini di ciò che è lecito e
anticipare mutamenti sociali desiderabili. Il crimine, lungi
dall'essere puramente distruttivo, mantiene la stabilità
sociale. (Marx aveva notato lo stesso paradosso che tanto
affascinava Durkheim; Marx, però, si chiedeva non come fosse
possibile la società, ma come fosse possibile la
società capitalistica, dove il crimine svolgeva un ruolo
necessario nel mantenimento dello status quo).
Lungo queste linee di pensiero sociologi di diverse scuole (v.
Erikson, 1966; v. Box, 1971) precisarono le funzioni positive della
devianza: la devianza rafforza la solidarietà (aggregando
l'opinione pubblica nella comune condanna del deviante) e chiarisce
i confini della morale (la denuncia del male ci informa su
ciò che è bene). La devianza è dosata in modo
tale che ogni società ottiene la quantità e il tipo di
devianza di cui 'necessita'. Più precisamente e più
proficuamente tutte queste funzioni dovrebbero essere considerate
funzioni non della devianza ma delle reazioni alla devianza.
Altri teorici sostennero un paradosso parallelo: la distinzione tra
funzioni manifeste e funzioni latenti. Sotto la superficie visibile
negativa - l'unica dimensione accessibile agli occhi del moralista -
ci sono le funzioni sociali occulte della devianza, che possono
essere rivelate solo da un analista più raffinato.
Così la corruzione presente nelle istituzioni cittadine offre
possibilità di ascesa sociale; così la prostituzione
aiuta a preservare la famiglia monogama. I funzionalisti non
sembravano rendersi conto del fatto che tali conclusioni erano
influenzate dai valori in cui essi credevano; inoltre
sottovalutavano le divisioni sociali, i conflitti e le
disuguaglianze di potere che rendono sospetta ogni formula sulle
funzioni positive della devianza. "Funzionale a chi?" resta il
quesito.
b) L'anomia e le teorie delle subculture
Anche il secondo importante contributo del funzionalismo allo studio
della devianza trae ispirazione da Durkheim. In questo caso non si
tratta degli aspetti della devianza ritenuti 'normali' o 'sani', ma
delle sue origini nella 'anormale divisione del lavoro', in certi
tratti patologici della società moderna emergente. Il famoso
termine durkheimiano 'anomia' si riferiva alla caratteristica
dissociazione, nella società moderna,
dell'individualità dalla coscienza collettiva. I desideri
individuali, che emergono dal loro "abisso insaziabile e senza
fondo", non sono sufficientemente regolati o controllati. L'anomia
era lo stato di mancanza di norme (o di deregulation) prodotto dalla
rapida fuoriuscita dalla società tradizionale, ed esacerbato
dalle crisi sociali ed economiche.
Nel Suicide - forse il primo 'classico' di sociologia della devianza
- Durkheim (v., 1897) prese in esame il suicidio, la forma di
devianza più individuale di tutte, per costruire un modello
di causazione sociale. Egli individuò le cause sociali del
suicidio (e, implicitamente, di altre patologie) nella debolezza
della regolamentazione morale delle società moderne. I
settori vulnerabili della popolazione - avulsi dalle fonti
tradizionali della coercizione e della solidarietà sociale -
erano lasciati in preda ad ambizioni illimitate, e quindi condannati
all'"infelicità perpetua", che, in casi estremi, poteva
sfociare in un comportamento autodistruttivo o in altre forme di
comportamento patologico. Tali 'devianti anomici' potevano essere
distinti sia dal 'deviante biologico', presente anche nella
società più perfetta, sia dal 'ribelle funzionale',
una persona normale che sceglie di reagire a un ordine sociale
anormale o ingiusto.
In quello che è considerato il più importante scritto
di sociologia della devianza, Merton (v., 1938) trasformò la
nozione di anomia di Durkheim in una nuova formula sociologica in
grado di spiegare l'esistenza della devianza nelle società
democratiche moderne. Per Merton l'anomia non era più
l'assenza di norme, ma la conseguenza non voluta di un divario
strutturale tra fini e mezzi. In una società che dà
troppa importanza al successo personale, al raggiungimento di
traguardi cui tutti dovrebbero aspirare ('il sogno americano'), e
che tuttavia possiede una struttura che non offre a tutti uguali
opportunità o uguali mezzi per raggiungere questi traguardi,
si determina una tensione permanente. La risposta più comune
a questa situazione sarà sempre il conformismo, cioè
l'accettazione dei mezzi legittimi e culturalmente prescritti (come
l'impegno individuale), nonché dei traguardi approvati.
Esistono però anche adattamenti devianti, di cui i più
importanti sono l'innovazione e la rinuncia. L'innovazione consiste
nel perseguire i fini culturali prescritti (in particolare il
successo materiale), facendo però uso di mezzi illegittimi
(per esempio il furto, la frode, la violenza); la rinuncia (una
categoria di comportamenti nella quale Merton includeva gli
'adattamenti devianti' come il suicidio, la malattia mentale e la
tossicomania) consiste nel rifiuto sia dei fini prescritti sia dei
mezzi convenzionali.La formula mertoniana "l'anomia porta alla
devianza", nonostante le numerose critiche cui è stata
sottoposta, perché non tiene conto del processo attraverso
cui si perviene alle soluzioni devianti (v. Cohen, 1965),
perché reifica la struttura sociale, perché presuppone
il consenso sui valori e perché trascura la questione del
controllo sociale (v. Clinard, 1964), ha tuttavia esercitato
un'influenza duratura. La più importante conseguenza della
concezione mertoniana, per lo studio della devianza, è stata
lo sviluppo delle teorie delle subculture, specialmente a proposito
della delinquenza giovanile. Queste teorie, pur notevolmente diverse
tra loro (v. Cloward e Ohlin, 1960; v. Downes, 1964), hanno in
comune due caratteristiche: si basano tutte sul presupposto che la
delinquenza sia una soluzione culturale condivisa di problemi
indotti strutturalmente, e tutte rappresentano un tentativo di
combinare un macromodello derivato da una teoria sul tipo di quella
dell'anomia (che chiama in causa le tensioni, le pressioni, le
frustrazioni e le ineguali opportunità di successo generate
dalle democrazie industriali avanzate) con un micromodello derivato
da una teoria sul tipo di quella della Scuola di Chicago (che mette
in luce i processi sociali concreti attraverso i quali si giunge
agli adattamenti devianti, li si impara e li si adotta come stili di
vita).
Le teorie delle subculture godono ancora di notevole credito; a esse
si contrappone una teoria nota come 'teoria del controllo' (v.
Hirschi, 1969). Rifacendosi (quasi) alla nozione di Durkheim,
secondo cui l'anomia è l'effetto di un controllo
insufficiente, questo modello sostiene che, siccome la tensione
è un fatto universale (ognuno ha i suoi problemi), la
questione non è come spiegare la devianza, ma come spiegare
il conformismo. Anziché postulare che la maggior parte della
gente segua le regole a meno che non accada qualcosa di speciale
(anomia, tensione, frustrazione, alienazione, ecc.), si dovrebbe
partire dal presupposto che i desideri devianti sono normali. La
maggior parte delle persone infrangerà le regole a meno che
delle circostanze speciali - per esempio un forte legame sociale,
uno stretto controllo sociale e un forte attaccamento alle
istituzioni convenzionali - non glielo impediscano. Si diventa
devianti perché si è liberi di diventare tali, non
perché vi si sia costretti da problemi strutturali. Oltre
alle differenze teoriche tra questi modelli, vanno notate le loro
diverse implicazioni politiche e pratiche (un importante terreno su
cui confrontare le varie teorie della devianza). Le teorie che fanno
riferimento al binomio 'tensione'/'opportunità' si prestano a
ispirare riforme come quelle che propugnano una maggiore uguaglianza
nel campo dell'istruzione o in quello del lavoro; la teoria del
controllo suggerisce programmi più conservatori, come quelli
che auspicano l'introduzione di una disciplina più severa a
scuola o in famiglia.
5. Le teorie della reazione sociale
Verso la metà degli anni sessanta, dapprima negli Stati Uniti
e poi in Gran Bretagna e nell'Europa occidentale, si affermò
una nuova concezione della devianza, una combinazione - talora
incoerente - di svariati principî teorici e pratici, che
assunse diverse denominazioni: teoria interazionista, transazionale,
scettica, della reazione sociale, della reazione societaria, o -
più comunemente - teoria dell'etichettamento.
a) La teoria
A livello teorico, la nuova concezione traeva diversi spunti dalla
Scuola di Chicago (la nozione di devianza come comportamento
appreso, l'uso di metodi etnografici) e dal funzionalismo (la
relazione paradossale tra devianza e controllo), nonché
dall'interazionismo simbolico, dalla fenomenologia e - a volte -
dalla teoria del conflitto. Anche Durkheim può essere
considerato un precursore della teoria dell'etichettamento, come lo
è stato di molti concetti oggi usati nello studio della
devianza. Famoso, al riguardo, è il suo esempio della
società di santi - il "convento perfetto di individui
esemplari" -, dove, benché non esista il crimine vero e
proprio, " le più piccole mancanze" saranno considerate
devianti. Non è la natura intrinseca di un certo atto che ne
determina la condanna, ma il fatto che l'atto violi le regole che lo
vietano. "Uno stesso atto, compiuto nello stesso identico modo e con
le stesse conseguenze materiali, è oggetto di riprovazione o
meno a seconda che esista o no una regola che lo proibisce".Il
concorso di spunti teorici così eterogenei ha dato luogo a
una concezione relativistica della devianza piuttosto che assoluta,
soggettivamente o politicamente aperta piuttosto che effettivamente
data; espressione di diversità piuttosto che di patologia, e
di complessità piuttosto che di semplicità; una
proprietà conferita piuttosto che inerente a qualsiasi
comportamento.
La tesi principale dei nuovi teorici era che la variabile cruciale
nello studio della devianza non fosse l'attore (il suo patrimonio
genetico, la sua personalità, il suo status sociale, o altro)
e neppure l'atto (la sua presunta pericolosità), ma piuttosto
la pubblica opinione. Le due formulazioni seguenti, tratte dalla
teoria della reazione sociale, sono riportate in quasi tutte le
analisi teoriche della devianza comparse negli ultimi vent'anni.
1. "La devianza è creata dalla società. Con ciò
non intendo dire - come si fa di solito - che le cause della
devianza risiedono nella situazione sociale del deviante o nei
'fattori sociali' che lo spingono all'azione. Intendo invece dire
che i gruppi sociali creano la devianza stabilendo le regole la cui
infrazione costituisce la devianza e applicando queste regole a
persone particolari, che etichettano come outsiders. Da questo punto
di vista, la devianza non è una qualità dell'azione
commessa, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione, da parte di
altri, di regole e sanzioni al 'trasgressore'. Il deviante è
uno cui l'etichetta è stata applicata con successo; il
comportamento deviante è il comportamento così
etichettato dalla gente" (v. Becker, 1963, p. 9).
2. "La vecchia sociologia tendeva a basarsi massicciamente sull'idea
che la devianza porti al controllo sociale. Io sono giunto a pensare
che l'idea opposta, cioè che il controllo sociale porti alla
devianza, è ugualmente sostenibile e costituisce l'ipotesi
potenzialmente più feconda per lo studio della devianza nella
società moderna" (v. Lemert, 1967, p. V).Queste affermazioni
ingannevolmente semplici hanno dato origine a numerose varianti e
hanno suscitato diversi interrogativi: quando la devianza è
'realmente' devianza? che cosa sono esattamente questi 'gruppi
sociali'? esistono delle regole che riscuotono un consenso
così universale che infrangerle costituisce in effetti un
atto intrinsecamente deviante? quanto dev'essere estesa, intensa o
formalizzata la 'reazione'? in che modo, esattamente, il controllo
'porta' alla devianza? ecc. A prescindere dalle risposte date a
questi interrogativi, il semplice fatto che essi siano stati posti
dalle nuove teorie degli anni sessanta rivoluzionò lo studio
della devianza.
Le teorie 'positiviste' convenzionali studiano il comportamento, di
cui cercano di individuare le cause alla luce di un qualche modello
deterministico (biologico, psicologico o sociale). Le nuove teorie
non solo hanno messo in discussione il determinismo in nome di un
modello meno rigido dell'azione umana (basato sui concetti di
'deviazione', 'processo', 'significato soggettivo', 'carriera',
'identità negoziata'), ma hanno evitato ogni tipo di
spiegazione causale; inoltre hanno integrato (a volte sostituito) lo
studio del comportamento con quello della reazione sociale.La
reazione sociale si esplica a tre livelli: a livello di definizione,
a livello di classificazione e a livello di effetti; perciò
studiare la reazione sociale equivale ad affrontare e risolvere i
tre problemi seguenti.Il problema della definizione: perché e
come, in primo luogo, viene creata una categoria deviante? di che
tipo di categoria si tratta?
Il problema della classificazione: come sono classificati i singoli
casi che rientrano nella suddetta categoria? Nel modello medico
della devianza la 'classificazione' si chiama 'diagnosi': per
esempio, data la categoria 'psicopatico', si tratta di stabilire se
un determinato individuo presenta i sintomi di una psicopatia. Nel
modello criminale la classificazione dell'atto (questo atto
particolare è veramente un caso di furto?) costituisce
l''applicazione della legge'.Il problema degli effetti: quali sono
le conseguenze sociali del fatto di aver etichettato come deviante
un atto, un attore o un gruppo? In particolare, per quale strana
concatenazione di eventi i tentativi di eliminare la devianza a
volte sortiscono l'effetto opposto, ovvero incoraggiano, amplificano
e istituzionalizzano proprio il comportamento 'incriminato'?
A loro volta anche le possibili risposte agli interrogativi elencati
si situano a tre diversi livelli: il primo è quello
strutturale e storico, il secondo è quello organizzativo, il
terzo è quello interazionale o psicologico. Così, per
esempio, le origini di una categoria deviante come l'abuso di droga
potrebbero essere studiate a livello storico (quali erano le
pressioni politiche che in origine crearono la legislazione
antidroga?) oppure in termini organizzativi (quali interessi
burocratici spingono le istituzioni preposte all'applicazione della
legge a sostenere particolari definizioni del problema?). Al quesito
della classificazione si potrebbe rispondere politicamente
(perché sono stati presi di mira i gruppi più
marginali e privi di potere?) oppure in termini di potere esercitato
da determinate categorie professionali. Gli effetti potrebbero
essere descritti in termini psicologici: i cambiamenti
nell'identità e nell'immagine di sé prodotti
dall'etichettamento, dalla stigmatizzazione o dalla segregazione.
La maggior parte delle ricerche nel campo della devianza fatte dopo
gli anni sessanta segue l'una o l'altra di queste direzioni.
Esistono quindi moltissimi studi su argomenti quali: le origini
storiche di particolari sistemi di controllo; le dinamiche delle
'crociate morali' che cercano di creare nuove categorie devianti o
di cambiare le vecchie; il funzionamento quotidiano delle
istituzioni preposte al controllo sociale; la rappresentazione della
devianza nei mass media (v. Cohen e Young, 1981); la dipendenza
delle statistiche ufficiali sulla devianza da strati di significati
costruiti socialmente; i modi in cui le forme problematiche della
devianza diventano proprietà pubblica di gruppi professionali
(v. Gusfield, 1981); la formazione di stereotipi sulla devianza; il
processo in base al quale vengono create e gestite le
identità e le carriere devianti.
b) Politica e politica sociale
A livello politico queste idee sono state integrate e affiancate da
diverse concezioni alternative riguardanti le modalità di
controllo della devianza (v. Cohen, 1985). Gli anni sessanta hanno
visto l'affermarsi di numerosi movimenti sociali volti a indebolire,
scavalcare o perfino abolire le strutture convenzionali di controllo
appartenenti ai diversi sistemi: legale, assistenziale,
psichiatrico. Sono state propugnate e anche adottate alternative
innovative e radicali alle strutture e alle ideologie vigenti. In
alcuni casi questi movimenti (per esempio il movimento per la
liberazione degli omosessuali) sono stati promossi dagli stessi
gruppi devianti nelle loro lotte contro modi di categorizzazione e
di controllo che consideravano ingiusti e oppressivi. In altri casi
sono stati i professionisti stessi che hanno dato vita a movimenti
per riformare o perfino abolire le discipline o i monopoli di loro
competenza. Così, nell'ambito della criminologia, del
diritto, dell'assistenza sociale e della psichiatria sono nate varie
concezioni critiche o controculture (per esempio l'antipsichiatria).
A volte l'iniziativa del cambiamento è venuta da gruppi
politici più convenzionali o - più tardi - dal
movimento femminista.
Ciò che accomunava quasi tutti questi gruppi era la
volontà di imporre una qualche forma di destrutturazione: le
strutture e le ideologie fossilizzate del controllo sociale
ereditate dal secolo precedente dovevano essere smantellate. A volte
l'oggetto dell'attacco era 'il potere': le procedure, le istituzioni
e l'apparato attraverso cui si esercitava ufficialmente il controllo
sociale. Per esempio:
a) contro il controllo della devianza attraverso il monopolio
burocratico centralizzato del modello penale, nacquero movimenti per
la decentralizzazione, la decriminalizzazione, la giustizia
informale, la diversione, ecc.;
b) contro la classificazione dei gruppi devianti in categorie
distinte, ciascuna di competenza di particolari esperti, considerati
ufficialmente i depositari esclusivi delle conoscenze al riguardo,
sorsero movimenti per la deprofessionalizzazione, la
demedicalizzazione, l'antipsichiatria, ecc.;
c) contro la segregazione e l'incarcerazione dei devianti in
istituti chiusi di pena, trattamento o custodia, si levarono
movimenti a favore della decarcerazione, dell'abolizione di tali
istituti, dell'affidamento dei 'devianti' alla comunità, ecc.
A volte l'oggetto dell'attacco era 'la conoscenza': teorie e
paradigmi alternativi furono contrapposti ai modelli accademici
convenzionali della devianza, come quello della criminologia
positivista, la teoria giuridica liberale, i modelli medici della
malattia mentale o dell'abuso di droga, ecc.
In alcuni casi questi movimenti propugnavano programmi liberali
moderati, tesi a riformare determinati sistemi di controllo o a
modificare teorie in voga: in nome di un pluralismo liberale e
tollerante - 'la cultura della diversità' - gli effetti
dannosi e controproducenti dell'etichettamento dovevano essere
rimossi o mitigati. In altri casi l'obiettivo era più
politico e utopistico: l'abolizione completa delle categorie
cognitive, dei paradigmi propri delle singole discipline e delle
strutture di potere.
c) Le critiche
La teoria dell'etichettamento e i modelli di strategia politica
implicitamente associati ad essa sono stati fatti oggetto di
numerose critiche negli ultimi due decenni. La teoria è stata
di volta in volta accusata di un eccessivo relativismo e pluralismo,
di eludere le questioni della motivazione e della causazione, di
attribuire potere causale all'atto dell'etichettamento. Si è
sostenuto che, col suo concetto di devianza deliberatamente ambiguo
e mutevole, la teoria perda di vista l'aspetto obiettivo dell'atto e
le sue varianti dipendenti da variabili sociologiche standard, quali
la classe, il sesso, il potere, la cultura, ecc. Alcuni critici
reputano banale e ovvia la duplice insistenza sulla
relatività delle regole e sul fatto che tutti gli eventi
sociali sono costruiti socialmente. Da un punto di vista opposto
(fenomenologia ed etnometodologia), la teoria è considerata
troppo poco attenta alle problematiche della costruzione sociale. Da
un'altra prospettiva ancora, i critici radicali sottolineano la
presunta difficoltà che la teoria incontrerebbe nel passare
da un'analisi interazionistica a un discorso in termini di potere e
di tipo storico; questa difficoltà dipenderebbe dal fatto che
la teoria considera la sequenza 'comportamento-reazione' come una
coppia di eventi contrapposti ed episodici, isolati dalle regole e
dai modelli di infrazione dominanti in un certo periodo storico.
Le repliche a tali critiche (v. Plummer, 1979; v. Goode, 1981; v.
Schur, 1971) riconoscono che alcune di esse sono giustificate,
mentre altre dipendono da un fraintendimento. La teoria era
semplicemente una 'prospettiva' sulla devianza e non ha mai preteso
di offrire un'alternativa alle spiegazioni convenzionali del
comportamento. Non si possono negare né le differenze
'obiettive' di manifestazione, distribuzione e portata dei vari
comportamenti giudicati devianti, né l'importanza di spiegare
queste differenze; ma la classificazione deve sempre essere
considerata problematica. Se l'esistenza di una regola non significa
che questa sarà seguita - e le diverse infrazioni saranno
modellate socialmente secondo la classe, l'età, il sesso,
ecc. -, allora anche l'esistenza di tali infrazioni non significa
che esse saranno universalmente riconosciute nello stesso modo da
chi le commette o da altri soggetti interessati.Alcune delle
politiche associate a questo gruppo di teorie sono state attuate con
successo (per esempio vari progetti di 'autotutela' e la fondazione
di comunità); altre hanno portato a risultati non sempre in
linea con le intenzioni originarie (per esempio la decarcerazione);
alcune (per esempio la decategorizzazione) sono state respinte
perché vaghe e irrealizzabili; altre sono ancora oggetto di
dibattito (per esempio la decriminalizzazione dei 'crimini senza
vittime', come l'uso di droga).
6. Le teorie radicali
Alla fine degli anni sessanta le nuove teorie della devianza -
già radicali per le loro implicazioni culturali e per la loro
contestazione delle teorie positiviste ortodosse - assunsero un tono
più radicale anche nel senso politico convenzionale del
termine. In Gran Bretagna, specialmente, alla teoria
dell'etichettamento si diede una netta svolta: a) annoverando la
reazione sociale fra i meccanismi più generali del potere
statale; b) considerando gli adattamenti devianti come comportamenti
razionali, significativi e implicitamente di carattere politico (v.
Pearson, 1975).
Il passo successivo - ispirato all'ideologia della Nuova Sinistra,
alla teoria critica di tipo marcusiano e alla tradizione marxista
classica - consistette nell'inquadrare la dialettica
devianza/controllo nel contesto dell'ordine sociale capitalista. I
radicali sostenevano che il concetto generico di 'devianza' non
fosse adatto per comprendere la natura del potere statale. Secondo
loro il capitalismo moderno aveva generato due categorie di devianti
(v. Spitzer, 1975): i 'rifiuti della società' (social junk,
forme di comportamento che non costituivano una minaccia per
l'ordine sociale vigente e che potevano essere affidate alle cure di
assistenti sociali o psichiatri oppure essere benevolmente ignorate)
e la 'dinamite sociale' (social dynamite, forme di comportamento
percepite come una minaccia per l'ordine politico, la sicurezza
individuale o la proprietà privata, e che quindi erano
strettamente sorvegliate e severamente punite dallo Stato). Furono
fatti alcuni tentativi per reinterpretare certe forme di devianza
'leggera' (sessualità, uso occasionale di droga, malattia
mentale) in termini politici, ma l'attenzione si era chiaramente
spostata sul crimine.
I teorici radicali (v. Greenberg, 1981) si muovevano lungo due
direzioni. La prima li portò a elaborare una sociologia
giuridica di stampo storico, tesa a scoprire le origini e le
funzioni del diritto penale nell'economia politica del capitalismo.
Ideologie come 'il governo della legge' furono spiegate come modi
per proteggere la proprietà privata, per mantenere
l'ineguaglianza e la gerarchia di classe (perfino legittimandole
come giuste), per piegare l'opposizione politica, per dividere la
classe lavoratrice e per ottenere una forza lavoro ben disciplinata.
Questa stessa analisi dell'origine e del contenuto della legge fu
poi estesa alla questione dell'applicazione della legge (per
esempio, denunciando forme di discriminazione selettiva praticate
dalla polizia e dai tribunali) e al problema della punizione (per
esempio, ricostruendo la storia politica dell'incarcerazione). La
maggior parte degli studiosi di ispirazione marxista si
dedicò a questi argomenti (la legge e la punizione). Si
giunse a sostenere che l'insistenza con cui l'opinione pubblica e il
mondo accademico mettevano sotto accusa i crimini della strada (i
reati tipici dei deboli, dei poveri e degli emarginati) era un
atteggiamento di carattere ideologico, una mistificazione che mirava
a celare i 'veri' crimini, cioè i crimini commessi dai
detentori del potere economico e politico e la categoria, ancor
più generale, delle violazioni dei diritti umani.
La seconda direzione lungo cui si muovevano i teorici radicali
verteva sull'eziologia del crimine: essi cercarono di dimostrare che
il capitalismo in sé è 'criminogeno'. Nozioni quali
quelle di 'tensione', 'anomia' e 'opportunità bloccata'
furono ricondotte nell'ambito dell'economia politica. Si trattava,
secondo i radicali, di caratteri intrinseci, non correggibili, del
capitalismo moderno. Le cause del crimine risiedono
nell'ineguaglianza, nell'abbrutimento, nel lavoro degradante, nella
disoccupazione e nell'alienazione. I radicali aspettavano l'avvento
di una 'società libera dal crimine'; ciò poteva
significare o che le condizioni che generano il crimine sarebbero
state eliminate, o che il potere dello Stato di criminalizzare la
diversità e la devianza sarebbe stato indebolito, o entrambe
queste cose.
Tutte queste tesi sono state criticate sulla base del fatto che i
legami esatti tra devianza e capitalismo restano indimostrati e
forse sono indimostrabili. Il modello radicale si risolve in una
sorta di 'funzionalismo di sinistra', in cui tutta la complessa
dialettica della devianza e del suo controllo è ridotta alle
necessità dell'ordine sociale capitalistico. In risposta a
queste osservazioni, alcuni radicali hanno cercato di perfezionare
ulteriormente l'analisi marxista tradizionale (v. Lynch e Groves,
1986): alcuni si sono dedicati all'analisi comparativa delle
società socialiste, altri hanno rivisto le proprie posizioni
originarie e hanno finito per riconoscere la 'realtà' del
crimine e della vittimizzazione convenzionali (v. Young, 1989).
L'intera tradizione radicale è ora in corso di
riconsiderazione (v. Cohen, 1988).
7. Conclusioni
Come un sito archeologico, il discorso in atto sulla devianza
contiene in pratica le tracce di tutti i suoi strati precedenti.
Nell'ambito del senso comune, della politica, dei mass media, della
pratica professionale e delle teorie sociologiche si incontrano
tutte le combinazioni possibili delle concezioni moralista,
patologica, funzionale e radicale.Il modello sociologico dominante
della devianza resta quello delineato dalle teorie degli anni
sessanta. Le polemiche suscitate dalla teoria dell'etichettamento
continuano tuttora - senza alcun costrutto, secondo alcuni critici
(v. Scull, 1988) -, ma non si vede alcuna alternativa effettiva a
tale teoria. La tradizione etnografica (che studia singoli casi di
devianza e le culture devianti) ha perso di importanza. Si propende
a studiare le vittime piuttosto che gli aggressori, specialmente le
donne che hanno subito violenze sessuali. Si sta manifestando una
certa rinascita di interesse per la devianza come categoria morale,
come dimostra, per esempio, un recente studio sulla attrazione che
esercita il 'comportarsi male' (v. Katz, 1988). Il concetto
originario di devianza come status attribuito piuttosto che
conseguito conserva la sua importanza nello studio di varie
categorie socialmente svalutate - i vecchi, i disabili, i ritardati,
le minoranze etniche -, ma questi soggetti tendono ora ad avere i
loro 'propri' sociologi piuttosto che essere studiati nell'ambito
della sociologia della devianza.Gli sviluppi teorici più
promettenti potrebbero venire da quattro concezioni affini:
1) la teoria critica del controllo sociale;
2) il costruzionismo sociale;
3) il femminismo;
4) il pensiero di Foucault.
1. In sede di revisione critica della teoria del controllo sociale
(v. Cohen, 1989) si sta abbandonando il modello centrato sullo Stato
e la concezione secondo cui il controllo sociale si ridurrebbe
esclusivamente all''insieme delle reazioni organizzate alla
devianza'. È in corso di elaborazione un modello di controllo
più antropologico, che ruota intorno alla nozione di
'controllo della vita sociale'.
2. Il problema di come siano costruite e gestite socialmente
determinate categorie, quali la 'devianza' e il 'problema sociale',
viene affrontato dal costruzionismo sociale applicando un paradigma
derivato dalla sociologia della scienza e della conoscenza. Quale
che sia l'argomento - l'AIDS, la guida in stato di ebbrezza o
l'incesto -, si fa ricorso a uno scetticismo ontologico radicale per
scoprire come vengano costruite le opinioni su ciascun fenomeno.
3. La teoria femminista recente ha attirato l'attenzione sul ruolo
onnipresente del sesso nel controllo della vita sociale e nella
costruzione di ciò che viene reputato 'deviante' sia per le
donne che per gli uomini. Oltre a ciò, la metodologia
femminista, trasformando radicalmente le categorie di 'privato' e
'pubblico' e stabilendo un collegamento tra il personale e il
politico, offre prospettive più generali per lo studio della
devianza e del controllo sociale.
4. Senza dubbio l'eredità di Foucault rappresenta la sfida
più radicale lanciata agli studiosi della devianza e del
controllo. Le implicazioni delle sue genealogie dei sistemi di
controllo sociale, la sua topologia del potere normalizzante in aree
come quelle della salute mentale e della sessualità e la sua
teoria generale del rapporto tra potere e conoscenza devono ancora
essere assorbite da discipline quali la giurisprudenza, la
psichiatria, la criminologia e la sociologia della devianza.
Quale che sia la linea di ricerca seguita, lo studio della devianza
resta uno dei più creativi delle scienze sociali. Il tema
della devianza - perché la gente si allontana dalle norme
sociali nei modi più strani, più molesti, più
offensivi e più dannosi, e i modi, straordinariamente
diversi, di reagire a tutto ciò - sarà sempre un
argomento affascinante.Il successo delle scienze sociali
nell'affrontare questi argomenti può essere misurato in base
a due criteri differenti. Il primo criterio, il più ovvio,
consiste nella nostra capacità di comprendere le
caratteristiche intrinseche dei vari modelli di devianza e di
controllo e (se è questo che ci interessa) di ideare le
opportune politiche umane e, appunto, sociali. Il secondo criterio
consiste nel confermare la convinzione di Durkheim, di Freud e ora
di Foucault secondo cui proprio l'osservazione dell'anormale, del
deviante e del patologico ci porta a comprendere il funzionamento
'normale' della società. Siamo ancora lontani dalla
possibilità di applicare con successo entrambi questi
criteri.