Democrazia
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Forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a
ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio
del potere pubblico.
DIRITTO
1. Cenni sulla d. antica
1. 1 La d. in Grecia
L’origine della d. si fa risalire alla fine del 6° sec., quando
culminò in Atene un processo di radicale riforma istituzionale
connesso con la progressiva presa di coscienza della massa dei
cittadini-soldati (opliti) e con lo sviluppo economico che interessò
diverse regioni della Grecia e dei territori coloniali. Diffusa
soprattutto dagli equipaggi della flotta ateniese, l’idea
democratica attecchì fra i ceti meno abbienti delle città alleate,
creando così le basi per una solidarietà interstatale, scossa di
tanto in tanto da contraccolpi oligarchici. Giungeva così a completa
maturazione un regime politico in cui il potere spettava a tutti i
nati liberi, per ciò stesso cittadini a pieno titolo, e agli
stranieri che avessero ricevuto il diritto di cittadinanza: sistema
caratterizzato dai principi dell’uguaglianza di fronte alla legge
(isonomia), della libertà di parola (isegoria) e della parità nel
concorrere alle cariche pubbliche (isotimia). Il nuovo regime si
articolava in vari organi fondamentali: un’assemblea primaria
(ἐκκλησία), alla quale partecipavano tutti i cittadini maschi
adulti, un consiglio (βουλή), che in Atene era sorteggiato
proporzionalmente fra le tribù e investito del compito di formulare
le proposte da sottoporre al giudizio dell’assemblea; dei
magistrati, eletti o sorteggiati, che restavano in carica
normalmente per il periodo di un anno con funzioni ‘esecutive’ e con
obbligo di rendiconto all’assemblea. Con l’affermarsi nei secoli
successivi delle monarchie ellenistiche a carattere territoriale,
inizia la parabola discendente della d. classica fino al completo
disfacimento, che coincide grosso modo con l’estinzione della stessa
civiltà ellenistica e con l’avvento della dominazione romana.
La d. non incontrò eccessivi consensi presso gli intellettuali del
tempo. Nella tipologia delle forme di governo descritte da Platone
nel Politico essa è definita come «governo del numero» o «della
moltitudine», ed è considerata la meno buona delle forme buone, fra
cui eccelle invece l’aristocrazia, e la meno cattiva delle forme
cattive, di cui quella più degenerata è la tirannide. Questa stessa
opinione è condivisa da Aristotele che classifica la d. come una
forma degenerata di politìa, la costituzione per antonomasia, nella
quale il «governo della maggioranza» agisce nell’interesse di tutti.
La d. è invece il «governo dei poveri contro i ricchi», e quindi il
governo di una parte che agisce nel suo esclusivo interesse
(Politica, 1279a).
1.2 Da Roma al Rinascimento
Per tutta l’epoca romana, e per buona parte del Medioevo, la d. come
parola scompare, mentre la stessa esperienza della politica si
diluisce in una configurazione più vasta, universalistica, assumendo
i contenuti tipici del diritto. La res publica romana esprime l’idea
di una «cosa di tutti», che è altra cosa di quel «potere del popolo»
di cui parlava la lingua greca. Il concetto di sovranità popolare
diventa dunque il fulcro attorno al quale ruotano le riflessioni
politiche del periodo romano-medievale, e apre la strada alla
distinzione, rivelatasi fondamentale per le concezioni moderne della
d., fra titolarità ed esercizio del potere. Se da un lato, infatti,
vale il principio enunciato da Ulpiano (Digesto, I, 4,1) che quod
principi placuit legis habet vigorem, dall’altro si riconosce che la
fonte di legittimazione di quell’autorità è comunque il popolo, che
detiene il potere a titolo originario e conserva peraltro il diritto
di creare la legge attraverso la consuetudine (Giuliano, Digesto, I,
3, 32).
Lo svolgimento della storia medievale e rinascimentale, dal 13° al
16° sec., ripropone al pensiero politico, piuttosto che il tema
della tripartizione aristotelica delle forme di governo, il tema
della contrapposizione fra regno e repubblica o tra repubblica e
principato.
2. La d. moderna
Se la d. nel suo significato letterale ha per referente la polis (la
città-comunità), la d. dei moderni si organizza in uno Stato
territoriale esteso a vastissime collettività. Rispetto alla d.
antica, che si configura essenzialmente come d. diretta , quella
moderna si connota quindi in primo luogo come d. rappresentativa .
Più in particolare, la d. moderna identifica quella specifica forma
di Stato in cui i principi del costituzionalismo liberale si sono
fusi con il principio della sovranità popolare. Così, se il
suffragio universale (➔ voto) ha sancito la piena affermazione del
cosiddetto principio maggioritario, in base al quale le decisioni
sono prese dalla maggioranza e la minoranza si conforma a esse,
dando piena espressione al principio della sovranità popolare,
questo è stato contemperato da una serie di limiti e obblighi, volti
a garantire i diritti delle minoranze.
Nel dibattito filosofico-giuridico del Novecento si è peraltro
evidenziato come la d. non possa essere ridotta a mero criterio di
legittimazione del potere politico. Secondo C. Schmitt,
consisterebbe nell’identità tra governanti e governati, mentre H.
Kelsen ritiene che abbia un fondamento relativistico, in quanto
esclude il possesso di verità assolute da parte di singoli o gruppi,
ammettendo soltanto verità relative; Kelsen ritiene altresì che la
d. non poggi sul principio di uguaglianza, ma sul principio di
libertà. Più in generale, diversi autori hanno sottolineato il ruolo
essenziale delle garanzie delle minoranze, definendo gli ordinamenti
in cui siano assenti o insufficienti i meccanismi giuridici volti a
limitare il potere delle maggioranze. Altri studiosi hanno preferito
parlare di d. costituzionali , mettendo in rilievo la centralità
della Costituzione; in tale concezione i diritti costituzionali non
sono più intesi soltanto come limiti (alla maniera di J.-J.
Rousseau) ma come strumenti essenziali dell’ordinamento
democratico-liberale.
La Costituzione italiana afferma (art. 1) che il popolo esercita la
sovranità (di cui è il solo titolare) esclusivamente nelle forme e
nei limiti stabiliti dalla Costituzione stessa (art. 1). Partendo da
tale principio, e facendo riferimento anche alle disposizioni
costituzionali immediatamente successive (art. 2 e 3), C. Mortati ha
sostenuto la coessenzialità di forma repubblicana e forma
democratica dello Stato italiano, e ha quindi ritenuto che la
garanzia della prima valesse anche per la seconda (art. 139 Cost.).
Tale tesi, fatta propria anche da V. Crisafulli, è stata contestata
da C. Esposito, sulla base della tesi secondo la quale per definire
democratica la forma di Stato non sarebbe sufficiente
caratterizzarla come repubblica. La dottrina successiva, e la stessa
giurisprudenza costituzionale, hanno accolto le tesi di Mortati,
sicché si ritiene ormai pacifico che il principio democratico
rientri tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale (C.
cost., sent. 18/1982 e 394/2006) e cioè tra quei principi che non
possono essere oggetto di revisione costituzionale (C. cost., sent.
1146/1988).
SCIENZE SOCIALI
1. D. d’élite e d. di massa
Il processo di democratizzazione dei sistemi politici contemporanei
si può descrivere essenzialmente nel passaggio dallo Stato liberale
di d. ‘limitata’ (d. d’élite) allo Stato sociale di d. ‘diffusa’ (d.
di massa). R. Dahl pone alla base di questo processo due tendenze:
la liberalizzazione , ovvero il grado in cui sono ammessi il
dissenso, l’opposizione e la competizione tra le diverse forze
politiche o politicamente rilevanti; l’inclusività , ovvero la
proporzione di cittadini che hanno titolo a partecipare in modo
diretto o indiretto alle decisioni collettive. Le diverse
possibilità di incrocio fra queste dimensioni danno modo di
costruire una tipologia dei sistemi politici democratici,
distinguendoli in oligarchie competitive, egemonie includenti e
poliarchie. La sequenza storica di questi modelli si può
rintracciare nel passaggio dalla d. di élite alla d. di massa, e
questa transizione trova riscontro sia sul piano dei riferimenti
teorici che dei referenti storici. Sul piano teorico si riflette nel
contrasto fra elitismo e pluralismo.
1.1 D. d’élite. - Le analisi che si rifanno agli assunti elitistici
(G. Mosca, V. Pareto e R. Michels) ritengono che la sovranità
popolare sia un ideale astratto che non può corrispondere a nessuna
realtà di fatto, perché in ogni regime politico, quale che sia la
sua formula, è sempre una minoranza quella che detiene il potere
effettivo. Questa impostazione è in parte corretta da J. Schumpeter,
secondo il quale vi è d. laddove vi sono diversi gruppi in
concorrenza fra loro per la conquista del potere attraverso la
competizione elettorale.
1.2 D. di massa. - All’estremo opposto le teorie pluraliste (R.
Dahl, R. Dahrendorf) puntano piuttosto a ridefinire il concetto di
leadership in termini democratici, innalzando il principio del
pluralismo a dato costitutivo della struttura sociale. Al suo
interno la d. si definisce in particolare come un sistema di
istituzionalizzazione dei conflitti mediante precise regole del
gioco. A proposito di questo insieme di regole formalizzate che
caratterizzano le poliarchie reali si è parlato di in
contrapposizione alla d. sostanziale (H. Kelsen). Sul piano delle
generalizzazioni storiche il processo di democratizzazione si
caratterizza per l’estensione dei diritti di cittadinanza e per il
loro impatto sulla struttura sociale: più precisamente nella
transizione da un regime di cittadinanza civile, nel quale ci si
limita a garantire i diritti di libertà personale, a un regime di
cittadinanza politica, che prevede l’istituzione del suffragio
universale, fino al regime di cittadinanza sociale che postula
l’uguaglianza delle opportunità (R. Bendix).
2. D. normativa e d. empirica
Nelle analisi moderne della d. si è in parte rinunciato alla ricerca
degli attributi assiologici e si preferisce descrivere i sistemi
democratici sulla base di tipologie che tengono in adeguato conto la
corrispondenza con i fatti. Fra le più importanti classificazioni
dei regimi democratici si pongono quelle a carattere istituzionale
che li distinguono sulla base delle diverse forme di governo. Da
questo punto di vista è ancora seguita la differenza di antica
tradizione fra e d. parlamentare . Su un altro versante – quello
della scienza politica di orientamento empirista – si colloca la
tipologia di A. Lijphart nella quale entrano in considerazione le
variabili della cultura politica di un paese (frammentata o
omogenea) e dei comportamenti delle élites (conflittuali o
consensuali). Si hanno così sistemi a d. consociativa (Paesi Bassi,
Belgio); sistemi di d. centrifuga (Italia, Spagna); sistemi di d.
centripeta (Gran Bretagna, Svezia); sistemi di d. depoliticizzata .
L’inscindibilità fra dimensione normativa e dimensione empirica
della d. rende tuttavia precaria qualsiasi definizione sistematica
della democrazia. Non esiste di fatto alcun regime contemporaneo,
qualunque sia la sua forma di governo, che non si definisca
‘democratico’ almeno per qualche aspetto. Il che dimostra
l’universalità della d. nel mondo moderno come valore prescrittivo,
ma anche l’estrema variabilità dei suoi referenti empirici. Ciò
nonostante si può affermare la condizione di democraticità dei
sistemi politici quando si verifichi in essi una necessaria
corrispondenza fra gli atti di governo e gli interessi di coloro che
ne sono toccati.
Questa condizione è soddisfatta normalmente dalla presenza di alcuni
parametri invarianti (strutture e modelli normativi) che si possono
considerare quanto meno come altrettanti prerequisiti minimi della
democrazia:
a) l’esistenza di regole consensualmente accettate e valide per
tutti;
b) l’esistenza di elezioni libere, periodiche e corrette, attraverso
le quali sia data a tutti i cittadini la possibilità di concorrere
alla formazione della volontà collettiva; c) l’esistenza di una
pluralità di gruppi politici organizzati;
d) l’esistenza di adeguati mezzi di tutela delle minoranze;
e) l’esistenza di meccanismi di controllo e di informazione.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1992)
di Giovanni Sartori
Sommario: 1. Premessa. 2. Democrazia politica, sociale, economica.
3. La democrazia dei Greci. 4. Tra antichi e moderni. a) Sovranità
popolare. b) Il principio di maggioranza. c) L'individuo-persona. 5.
La democrazia liberale. 6. Lo Stato dei partiti. 7. La teoria
competitiva della democrazia. 8. Libertà ed eguaglianza. a) Libertà
'da' e autonomia. b) Eguali trattamenti ed eguali esiti. 9.
Maggioranza e minoranza. a) Maggioranza 'limitata'. b) Oligarchia,
stratarchia e poliarchia. c) Il problema dell'intensità. d)
Democrazia consociativa e neocorporativismo. 10. Le condizioni della
democrazia. a) Fattori facilitanti. b) Democrazia e mercato. 11.
Democrazia e no.
1. Premessa
Il termine democrazia compare per la prima volta in Erodoto e sta
per dire, traducendo letteralmente dal greco, potere (kratos) del
popolo (demos). Ma dal III secolo a.C. al XIX secolo 'democrazia' ha
subito una lunga eclisse. L'esperienza delle democrazie antiche fu
relativamente breve ed ebbe un decorso degenerativo. Aristotele
classificò la democrazia tra le cattive forme di governo, e la
parola democrazia divenne per oltre duemila anni una parola
negativa, derogatoria. Per millenni il regime politico ottimale
venne detto 'repubblica' (res publica, cosa di tutti), non
democrazia. Kant ripeteva una comune opinione quando scriveva, nel
1795, che la democrazia "è necessariamente un dispotismo"; e dello
stesso avviso erano i padri costituenti degli Stati Uniti. Nel
Federalista Hamilton parla sempre di "repubblica rappresentativa",
mai di democrazia (salvo che per condannarla). Anche la Rivoluzione
francese si richiamava all'ideale repubblicano, e solo Robespierre,
nel 1794, usò 'democrazia' in senso elogiativo, assicurando così la
cattiva reputazione della parola per un altro mezzo secolo. Com'è
che d'un tratto, dalla metà del XIX secolo in poi, la parola torna
in auge e man mano acquista un significato apprezzativo? La risposta
- vedremo - è che la democrazia dei moderni, la democrazia che
pratichiamo oggi, non è quella degli antichi.Oggi 'democrazia' è una
abbreviazione che sta per liberal-democrazia. E mentre il discorso
sulla democrazia degli antichi è relativamente semplice, il discorso
sulla democrazia dei moderni è complesso. Separiamone tre aspetti.
Per un primo rispetto la democrazia è un principio di legittimità.
Per un secondo, la democrazia è un sistema politico chiamato a
risolvere problemi di esercizio (non soltanto di titolarità) del
potere. Per un terzo, la democrazia è un ideale.
1. La democrazia come principio di legittimità è anche l'elemento di
continuità che collega il nome greco con la realtà del XX secolo. La
legittimità democratica postula che il potere deriva dal demos, dal
popolo, e che si fonda sul consenso 'verificato' (non presunto) dei
cittadini. La democrazia non accetta auto-investiture, e tantomeno
accetta che il potere derivi dalla forza. Nelle democrazie il potere
è legittimato (nonché condizionato e revocato) da libere e
ricorrenti elezioni. Fin qui, peraltro, abbiamo stabilito soltanto
che il popolo è titolare del potere. E il problema del potere non è
soltanto di titolarità; è soprattutto di esercizio.
2. Finché un'esperienza democratica si applica a una collettività
concreta, di presenti, di persone che interagiscono faccia a faccia,
fino a quel momento titolarità ed esercizio del potere possono
restare congiunti. In tal caso la democrazia è davvero autogoverno.
Ma in quanti ci possiamo davvero autogovernare? Gli Ateniesi che
deliberavano in piazza si aggiravano, si stima, tra i mille e i
duemila. Ma se e quando il popolo diventa di diecine o anche di
centinaia di milioni di persone, qual è l'autogoverno che ne può
risultare?
È il problema risollevato, negli anni sessanta, dal rilancio della
formula della democrazia 'partecipativa'. Il cittadino partecipante
è il cittadino che esercita in proprio, per la quota che gli spetta,
il potere di cui è titolare. L'esigenza di stimolare la
partecipazione del cittadino è sacrosanta. La domanda resta: quanto
grande, o quanto piccola, è la quota di esercizio del potere che
spetta al cittadino che si autogoverna? Un quarantamilionesimo? Un
centomilionesimo? John Stuart Mill (v., 1859; tr. it., p. 26)
esattamente osservava che l'autogoverno in questione non è, in
concreto, "il governo di ciascuno su di sé, ma il governo su
ciascuno da parte di tutti gli altri", e ne ricavava che il problema
non era più - nella democrazia estesa ai grandi numeri - di
autogoverno, sebbene di limitazione e controllo sul governo. Inutile
illudersi: la democrazia 'in grande' non può che essere una
democrazia rappresentativa che disgiunge la titolarità
dall'esercizio per poi ricollegarli a mezzo dei meccanismi
rappresentativi di trasmissione del potere. L'aggiunta di taluni
istituti di democrazia diretta - quali il referendum e l'iniziativa
popolare delle leggi - non toglie che le nostre siano democrazie
indirette governate da rappresentanti.
3. A questa constatazione si può rispondere che la democrazia come è
(nel fatto) non è la democrazia come dovrebbe essere, e che la
democrazia è, prima di tutto e sopra tutto, un ideale. Tale è, in
larga misura, la democrazia come autogoverno, come governo del
popolo in persona propria su se stesso. Tale è la democrazia
egualitaria, e cioè ricondotta a un ideale generalizzato di sempre
maggiore eguaglianza. Un elemento ideale o normativo è davvero
costitutivo della democrazia: senza tensione ideale una democrazia
non nasce e, una volta nata, rapidamente si affloscia. Più di
qualsiasi altro regime politico la democrazia va controcorrente,
contro le leggi inerziali che governano gli aggregati umani. Le
monocrazie, le autocrazie, le dittature, sono facili, ci cascano
addosso da sole; le democrazie sono difficili, debbono essere
promosse e 'credute'.
Posto che senza democrazia ideale non vi sarebbe democrazia reale,
il problema diventa: com'è che gli ideali si rapportano alla realtà,
com'è che un dover essere si converte in essere? Gran parte del
dibattito sulla democrazia verte, più o meno consapevolmente, su
questa domanda. Se fosse realizzato, un ideale non sarebbe più tale.
E tanto più una democrazia si democratizza, tanto più la posta sale.
Ma fino a che punto può esser alzata? L'esperienza storica insegna
che a ideali smisurati corrispondono sempre catastrofi pratiche.
Comunque sia, in nessun caso la democrazia così com'è (definita
descrittivamente) coincide, né coinciderà mai, con la democrazia per
come vorremmo che fosse (definita prescrittivamente). La distinzione
testé menzionata tra democrazia in senso descrittivo e democrazia in
senso prescrittivo è importante non solo perché centra il dibattito
sulla democrazia, ma anche perché ci aiuta a impostarlo
correttamente. Dopo la seconda guerra mondiale si è sostenuto che le
democrazie sono due, che al tipo occidentale si contrapponeva una
democrazia 'popolare' più autentica. L'autodeflagrazione, tra il
1989-1991, dei sistemi comunisti dell'Est europeo e dello stesso
regime sovietico ha risolto la questione: la cosiddetta democrazia
'reale' (comunista) tale non era. Ma è pur sempre importante capire
com'è che la tesi delle 'due democrazie' sia stata dimostrata e
creduta. Una corretta impostazione avrebbe richiesto un confronto
tra i due casi condotto - giusta la distinzione tra prescrizioni e
descrizioni - due volte: una volta tra gli ideali, e una volta tra i
fatti. Ma i sostenitori della democrazia comunista hanno invece
incrociato le accoppiate, paragonando gli ideali (non realizzati)
del comunismo con i fatti (e i misfatti) delle democrazie liberali.
In questo modo si vince sempre; ma solo sulla carta. La democrazia
alternativa dell'Est era un ideale senza realtà. La sola democrazia
che esiste e che merita questo nome è la democrazia liberale.
2. Democrazia politica, sociale, economica
Da sempre la parola democrazia ha indicato una entità politica, una
forma di Stato e di governo; e questa resta l'accezione primaria del
termine. Ma siccome oggi parliamo anche di democrazia sociale e di
democrazia economica, è bene stabilire subito che cosa di volta in
volta s'intenda.La nozione di democrazia sociale si pone con
Tocqueville nella sua Democrazia in America. Visitando gli Stati
Uniti nel 1831 Tocqueville fu soprattutto colpito da uno 'stato
della società' che l'Europa non conosceva. Si ricordi che a livello
di sistema politico gli Stati Uniti si dichiaravano allora una
repubblica, non ancora una democrazia. E dunque Tocqueville percepì
la democrazia americana in chiave sociologica, come una società
caratterizzata da eguaglianza di condizioni e prepotentemente
guidata da uno 'spirito egualitario'. In parte quello spirito
egualitario rifletteva l'assenza di un passato feudale; ma esprimeva
anche una caratteristica profonda dello spirito americano.
Democrazia non è dunque, qui, il contrario di regime oppressivo ma
di 'aristocrazia': una struttura sociale orizzontale al posto di una
struttura sociale verticale. Dopo Tocqueville è segnatamente Bryce
che meglio raffigura la democrazia come un ethos, un modo di vivere
e convivere, e quindi come una generale condizione della società.
Per Bryce (v., 1888) democrazia è sì, prioritariamente, un concetto
politico. Ma anche per lui la democrazia americana era
caratterizzata da 'eguaglianza di stima', da un ethos egualitario
che si risolveva nell'eguale valore che le persone si riconoscono
l'un l'altra. Nell'accezione originaria della dizione, dunque,
'democrazia sociale' denota una 'democratizzazione fondamentale',
una società il cui ethos richiede ai propri membri di vedersi e
trattarsi come socialmente eguali.
Dall'accezione originaria si ricava facilmente un secondo
significato di 'democrazia sociale': l'insieme delle democrazie
primarie - piccole comunità e associazioni volontarie concrete - che
innervano e alimentano la democrazia a livello di base, a livello di
società civile. In questo riferimento una dizione pregnante è quella
di 'società multi-gruppo', strutturata in gruppi volontari che si
autogovernano. Qui, dunque, democrazia sociale sta per
l'infrastruttura di microdemocrazie che fa da supporto alla
macrodemocrazia d'insieme, alla sovrastruttura politica. Di recente
si è affermato anche un uso generico di 'democrazia sociale', che si
affianca alle nozioni altrettanto generiche di Stato sociale e di
giustizia sociale. Se tutto è, o deve essere, 'sociale', occorre che
anche la democrazia lo sia. A detta di Georges Burdeau (v., 1977, p.
54), "la democrazia sociale mira all'emancipazione dell'individuo da
tutte le catene che lo opprimono". Ma lo stesso può essere detto
dello Stato sociale, dello Stato di giustizia, dello Stato del
benessere, di 'democrazia socialista' e anche, ovviamente,
dell'eguaglianza. E dunque l'accezione generica poco o nulla
aggiunge al discorso.
'Democrazia economica' è, a prima vista, dizione che si spiega da
sola. Ma solo a prima vista. Dal momento che la democrazia politica
fa pernio sull'eguaglianza giuridico-politica, e che la democrazia
sociale verte primariamente sull'eguaglianza di status, in questa
sequenza democrazia economica sta per eguaglianza economica, per il
pareggiamento degli estremi della povertà e della ricchezza, e
quindi per ridistribuzioni che perseguono un benessere
generalizzato. Questa è l'interpretazione che potremmo dire
intuitiva della dizione. Ma 'democrazia economica' acquista un
significato preciso e caratterizzante sub specie di 'democrazia
industriale'.Il concetto risale a Sidney e Beatrice Webb (v., 1920),
che nel 1897 scrissero Industrial democracy, una massiccia opera
successivamente coronata a livello di sistema politico da una più
smilza Constitution for the socialist commonwealth of Great Britain.
Qui l'argomento è nitido. Democrazia economica è democrazia sul
posto di lavoro e nell'organizzazione-gestione del lavoro. Nella
società industriale il lavoro si concentra nelle fabbriche e dunque
è nella fabbrica che occorre immettere la democrazia. Così al membro
della città politica, al polites, subentra il membro di una concreta
comunità economica, il lavoratore; e a questo modo si ricostituisce
la microdemocrazia, o meglio s'instaura una miriade di
microdemocrazie nelle quali si dà insieme titolarità ed esercizio
del potere. Nella sua forma compiuta la democrazia industriale si
configura dunque come l'autogoverno del lavoratore nella propria
sede di lavoro, dell'operaio nella propria fabbrica; un autogoverno
'locale' che dovrebbe essere integrato a livello nazionale da una
'democrazia funzionale', e cioè da un sistema politico fondato su
criteri di rappresentanza funzionale, di rappresentanza per mestieri
e competenze.In pratica la democrazia industriale ha trovato la sua
incarnazione più avanzata nell' 'autogestione' iugoslava,
un'esperienza che è ormai da ritenere fallita in chiave economica e
fallace in chiave politica; e trova oggi la sua progettazione più
ardita, in Svezia, nel piano Meidner (che peraltro resta ancora un
progetto). Di regola, e con maggior successo, la democrazia
industriale si è assestata su formule di partecipazione operaia alla
conduzione dell'azienda - la Mitbestimmung tedesca - e su pratiche
istituzionalizzate di consultazione tra direzioni aziendali e
sindacati. Una via alternativa è l'azionariato operaio, che può sì
essere concepito e disegnato come una forma di democrazia
industriale, ma che di per sé comporta comproprietà e partecipazione
al profitto piuttosto che democratizzazione.
Democrazia economica si presta anche a essere intesa,
generalissimamente, come la visione marxista della democrazia, in
funzione della premessa che la politica e le sue strutture sono
soltanto 'sovrastrutture' che riflettono un sottostante Unterbau
economico. Che il molto discorrere di democrazia economica sia di
lata ispirazione marxista, e cioè che discenda dall'interpretazione
materialistica della storia, è fuor di dubbio. Tuttavia le 'teorie
economiche della democrazia' propriamente dette e precisamente
formulate, che esordiscono con Anthony Downs (v., 1957) e che sono
poi state sviluppate, in genere, in chiave di social choice, di
teoria delle scelte sociali, provengono da economisti, e non hanno
alcun sottinteso marxista: si avvalgono di concetti e analogie della
scienza economica per interpretare i processi politici (v. Buchanan
e Tullock, 1962; v. Riker, 1982).Il fatto è che il marxismo - quanto
meno da Marx a Lenin - gioca bene contro la democrazia che dichiara
capitalistica e borghese; ma gioca male in casa propria, e cioè
quando si tratta di spiegare quale sia la democrazia che rivendica
per sé, la democrazia del comunismo realizzato. Lenin in Stato e
rivoluzione dice e disdice; ma alla fine la sua conclusione è che il
comunismo, abolendo la politica, abolisce al tempo stesso la
democrazia. Nel testo che più fa testo, dunque, il marxismo non
dispiega una democrazia economica. E il punto da ribadire è che
democrazia economica e teoria economica della democrazia sono, a
dispetto della prossimità delle dizioni, cose del tutto estranee
l'una all'altra.Poste le distinzioni, qual è il rapporto tra
democrazia politica, democrazia sociale e democrazia economica? Il
rapporto è che la prima è la condizione necessaria delle altre. Le
democrazie in senso sociale e/o economico estendono e completano la
democrazia in senso politico; sono anche, quando esistono,
democrazie più autentiche, visto che sono microdemocrazie,
democrazie di piccoli gruppi. Peraltro, se non si dà democrazia a
livello di sistema politico, le piccole democrazie sociali e di
fabbrica rischiano a ogni momento di essere distrutte o
imbavagliate. Per questo 'democrazia' senza qualificazioni sta per
democrazia politica. Tra questa e le altre democrazie la differenza
non è solo tra un'accezione stretta e un'accezione lata del concetto
di democrazia; è soprattutto che la democrazia politica è
sovraordinata e condizionante; le altre sono subordinate e
condizionate. Se manca la democrazia maggiore facilmente mancano le
democrazie minori. Il che spiega perché democrazia sia sempre stato
un concetto preminentemente svolto e teorizzato a livello di sistema
politico.
3. La democrazia dei Greci
Esiste continuità tra democrazia degli antichi e democrazia dei
moderni? Chi oggi rivendica l''ideale classico' di democrazia
suppone di sì. Fermiamo, allora, le differenze e la distanza. La
democrazia greca, così come veniva praticata in Atene nel corso del
IV secolo a.C., incarna la massima approssimazione possibile del
significato letterale del termine: il demos ateniese ebbe allora più
kratos, più potere, di quanto ne abbia mai avuto qualsiasi altro
popolo. Nell'agorà, nella piazza, i cittadini ascoltavano e poi
decidevano per acclamazione. Tutto qui? No. La polis era sì
un'entità relativamente semplice; ma non tanto semplice da
risolversi senza residuo in un'assemblea cittadina (ekklesia). La
componente assembleare, e per essa l'autogoverno diretto dei
cittadini, costituiva la parte appariscente più che la parte
efficiente della gestione della città. Intanto esisteva anche una
bulè, un consiglio di 500 membri; e la sostanza risiedeva - secondo
Aristotele - nel fatto che "tutti comandavano a ciascuno, e ciascuno
comandava a sua volta a tutti" (Politica, 1317b), vale a dire in un
esercizio del potere effettivamente e largamente distribuito
mediante una rapida rotazione nelle cariche pubbliche. Anche così,
'tutti' non erano mai davvero tutti: nemmeno quando il totale è
appena di 30.000 cittadini su una popolazione complessiva, al
massimo, di 300.000. Eppure l'approssimazione si dava; e si dava
perché la maggior parte delle cariche pubbliche era sorteggiata.
Tutti si autogovernavano a turno, dunque, nell'accezione
probabilistica del termine, in chiave di eguali probabilità. Più e
meglio di così, in sede di diffusione generalizzata di esercizio del
potere, non si saprebbe davvero come fare.
Ciò posto, giova inquadrare la democrazia degli antichi nella
classica tripartizione aristotelica delle forme di governo: governo
di uno, dei pochi, dei molti. Per Aristotele la democrazia è la
forma corrotta del governo dei molti: tale perché nella democrazia i
poveri governano nell'interesse proprio (invece che nell'interesse
generale). La democrazia definita come "governo dei poveri a proprio
vantaggio" ci colpisce come una straordinaria anticipazione di
modernità, come una visione socioeconomica di democrazia. Ma non è
così. Intanto, potrebbe sembrare che Aristotele arrivi ai poveri
perché i più, i molti, sono poveri. Ma Aristotele avverte che una
democrazia sarebbe tale anche se i poveri fossero in minor numero.
Il punto è che l'argomento è logico. Aristotele costruisce la sua
tipologia complessiva su due criteri: il numero dei governanti, più
l'interesse che essi servono (generale o proprio). Così il governo
di uno si sdoppia in monarchia (buona) e tirannide (cattiva); il
governo dei pochi in aristocrazia (buona) e oligarchia (cattiva
perché governo dei ricchi a proprio vantaggio); e il governo dei
molti in politeia (buona) e democrazia (cattiva). Quella di
Aristotele non era dunque una definizione economica della
democrazia, ma uno dei tre casi possibili di malgoverno, di governo
nell'interesse proprio.
Meccanismo logico a parte, Aristotele registrava la parabola
degenerativa dell'esperienza greca. All'inizio la democrazia era
isonomia (che Erodoto, Storie, III, 80, dichiarava, alla metà del V
secolo a.C., "il nome di tutti più bello"), eguali leggi, regole
eguali per tutti: il che sottintendeva un governo delle leggi (così
Aristotele, Politica, 1287a: "è preferibile che governi il nomos,
più che qualunque cittadino"). Ma a un secolo da Erodoto il demos
aveva già travolto il nomos facendo e disfacendo leggi a suo
piacimento; cosicché alla fine troviamo soltanto una città
polarizzata e spaccata dal conflitto tra poveri e ricchi. La
democrazia ateniese finisce, diremmo noi, nella lotta di classe. Ed
è un esito che non sorprende. Il cittadino era tale a tempo pieno.
Ne risultava un'ipertrofia della politica in corrispondenza di
un'atrofia dell'economia. Il 'cittadino totale' creava un uomo
sbilanciato. Da quanto sopra si evince che la democrazia indiretta,
e cioè rappresentativa, non è soltanto un'attenuazione della
democrazia diretta; ne è anche un correttivo. Un primo vantaggio del
governo rappresentativo è che un processo politico tutto intessuto
di mediazioni consente di sfuggire alle radicalizzazioni elementari
dei processi diretti. E il secondo vantaggio è che la partecipazione
non è più una conditio sine qua non; anche senza 'partecipazione
totale' la democrazia rappresentativa pur sempre sussiste come
sistema di controllo e di limitazione del potere. Il che consente
alla società civile, intesa come società prepolitica, come sfera
autonoma e autosufficiente, di dispiegarsi come tale. Insomma, il
governo rappresentativo libera a fini extrapolitici, di attività
economica o altra, l'enorme insieme di energie che la polis
assorbiva nella politica. Chi torna oggi a esaltare la democrazia
partecipativa non ricorda che nella città antica al lavoro
attendevano gli schiavi e che la polis sprofondò in un vortice di
troppa politica.
4. Tra antichi e moderni
a) Sovranità popolare
La differenza tra democrazia diretta dei Greci e democrazia
rappresentativa dei moderni è anche, e forse ancor più, differenza
di distanza storica. Per cogliere questa distanza si deve guardare a
quel che nel IV secolo a.C. ancora non c'era, rispetto a quel che si
aggiunge dopo, alle acquisizioni successive. Cominciando dalla
teoria della sovranità popolare, che è di elaborazione medievale e
che si rifà al diritto pubblico romano. Possibile che la nozione di
sovranità popolare fosse ignota ai Greci? Dopotutto - si potrebbe
osservare - la loro democrazia diretta era l'esatto equivalente di
un sistema interamente risolto nella sovranità popolare. Appunto:
siccome la loro sovranità popolare era tutto e riassorbiva tutto,
proprio per questo la nozione non venne scorporata. Inoltre, il
populus dei Romani non era il demos dei Greci. Tra l'altro, nella
misura in cui il demos di Aristotele e anche di Platone si
identificava con i poveri, nella stessa misura quel demos non era
l'intero (l'insieme di tutti i cittadini), ma una parte dell'intero;
laddove il populus dei Romani erano tutti, e per di più un tutto
estendibile, man mano che populus diventava un concetto giuridico,
extra moenia, al di fuori delle mura della città. Così mentre il
demos finiva con la fine della piccola città, il populus si poteva
estendere per quanto si estendeva lo spazio della res
publica.Comunque sia, il punto è che la dottrina della sovranità
popolare pone la distinzione - ignota ai Greci - tra titolarità ed
esercizio del potere, e trova la sua distintività e ragion d'essere
nel contesto di quella distinzione. Per i Greci titolarità ed
esercizio erano la stessa cosa: la distinzione non era per loro
necessaria. Lo stesso valeva per i 'barbari'. Il mondo che
attorniava i Greci, e che finì per travolgerli, poteva soltanto
essere, ai loro occhi, un mondo ferreamente sottoposto al
dispotismo. E la distinzione tra titolarità ed esercizio del potere
è tanto irrilevante nel contesto dei regimi dispotici - quale
l'Impero persiano - quanto lo è nel contesto di una democrazia
diretta.
Ma la prospettiva dei giuristi medievali era diversa. È vero che
anche la repubblica dei Romani era finita in dispotismo, nella
sottomissione del populus al princeps, agli imperatori. Ma per lungo
tempo i Romani erano stati, a loro modo, liberi. Pertanto i
glossatori medievali non potevano accettare l'inevitabilità del
dispotismo così come l'avevano intesa i Greci. E la dottrina della
sovranità popolare emerge nel contesto di un dominio dispotico che
non poteva più essere visto come 'naturale'. Per un verso doveva
essere legittimato; per l'altro poteva essere limitato. Nel Digesto
Ulpiano aveva stabilito che quod principi placuit, legis habet
vigorem (D. I. 4,1), che quel che piace al principe diventa legge;
ma diceva anche che il principe ha tale potestà perché il popolo
gliel'ha conferita.Conferita in che modo, a che titolo? Per gli uni
- noi diremmo i fautori dell'assolutismo - tra popolo e principe era
avvenuta una translatio imperii, e cioè un trasferimento non
revocabile del potere del popolo al principe. Per gli altri (invero
una minoranza), non c'era translatio, ma solo concessio imperii: la
trasmissione era solo di esercizio, non di titolarità; e il
titolare, il popolo, 'concedeva' tale esercizio mantenendo il
diritto di revocarlo. L'essenziale resta che sia per gli uni come
per gli altri la titolarità del potere non nasceva nel principe e
con lui: gli veniva da trasferimento o concessione del popolo.Poco
importa che per secoli e secoli abbiano operato, nel fatto, regimi
di translatio. Anche così in teoria erano già poste le premesse che
consentivano di superare la microdemocrazia cittadina, e di attuare
sistemi a legittimazione democratica nei quali il titolare del
potere, il popolo, si limita a 'concedere' l'esercizio. Nel Defensor
pacis di Marsilio da Padova, nella prima metà del XIV secolo, quel
disegno è già precisato: il potere di fare le leggi, che è il potere
principale, spetta unicamente al popolo o alla sua valentior pars,
che concede ad altri, alla pars principans, soltanto il potere
(revocabile) che noi diremmo esecutivo, il potere di governare
nell'ambito della legge.
b) Il principio di maggioranza
Che il principio di maggioranza fosse ignoto ai Greci può stupire
non meno della tesi che essi ignorassero il principio della
sovranità popolare. Si capisce che nell'ekklesia vinceva, di fatto,
il voto o l'acclamazione dei più; ma quel fatto era un espediente
pratico lasciato passare senza riconoscimento ufficiale, senza una
dottrina di sostegno. Fino a Locke il principio sostenuto dalla
dottrina è stato l'unanimità, non il diritto della maggioranza di
prevalere su una o più minoranze. Restando alla polis, occorre
capire bene che l'unità politica dei Greci non era una città-Stato
(e ancor meno uno Stato nell'accezione moderna del termine) ma una
città-comunità, una koinonia, un'autentica Gemeinschaft nella quale
i cittadini vivevano in simbiosi con la loro città, alla quale erano
avvinti non solo da un comune destino di vita e di morte (i vinti
venivano allora passati a filo di spada o venduti come schiavi), ma
anche da un sistema di valori che era indifferenziatamente
etico-politico. La città greca si fondava - lo ripetono Platone,
Aristotele e Demostene - sull'homonoia, su uno spirito comune, una
concordia civica che si fondava a sua volta sulla philia,
sull'amicizia. Riconoscere il principio di maggioranza sarebbe, in
questo contesto, come validare un principio di disunione, la
divisione che porta la città alla rovina. Se è vero (sempre a detta
di Aristotele) che la polis non si traduce in homophonia, deve pur
sempre consistere di symphonia, deve pur sempre essere, per essere,
un tutto armonioso. E l'armonia, alla pari della homonoia, non può
accogliere un diritto di maggioranza.
Le tecniche elettorali che vennero poi inizialmente attuate nei
comuni medievali non ci arrivano dunque dai Greci (i quali, di
regola, sorteggiavano), ma dagli ordini religiosi, dai monaci
arroccati nei loro conventi-fortilizi, che nell'alto Medioevo si
trovarono a dover eleggere i propri superiori. Non potendo ricorrere
né al principio ereditario, né a quello della forza, a loro non
restava che eleggere votando. Ma i monaci eleggevano un capo
assoluto. Era una scelta grave e importante. Così dobbiamo
all'arrovellarsi dei monaci il voto segreto e l'elaborazione di
regole di voto maggioritarie. Ma, per loro e poi per tutto il
Medioevo e il Rinascimento, la maior pars doveva pur sempre restare
congiunta con la melior pars, con la parte migliore. E, alla fine,
l'elezione doveva pur sempre risultare unanime (i riottosi venivano
sgridati, e anche bastonati). Regole maggioritarie sì; ma diritto di
maggioranza no. Il principio consacrante, fino a Locke, era e
restava l'unanimità.La svolta avviene con Locke perché con lui il
diritto della maggioranza si inserisce in un sistema costituzionale
che lo disciplina e controlla. Ma il catalizzatore fu l'emergere di
una concezione 'pluralistica' dell'ordine politico. Alla fine del
XVII secolo dalle macerie e dagli orrori delle guerre religiose era
scaturito l'ideale della tolleranza, mentre la fede cattolica si
frammentava nelle sette protestanti. Su queste e altre premesse si
venne lentamente affermando l'opinione che la diversità e anche il
dissenso sono compatibili con la tenuta dell'insieme, l'idea che la
concordia può anche essere discorde, l'idea della concordia discors.
In questo caso, la cosa pubblica può essere articolata e anche
disarticolata in maggioranze e minoranze. E la regola di maggioranza
consente al popolo di uscire dal limbo della finzione giuridica per
diventare un soggetto concretamente operante. Se si decide a
maggioranza, e la maggioranza decide, allora anche un soggetto
collettivo qual è il popolo ha modo di agire e decidere.
c) L'individuo-persona
I regimi democratici sono a un tempo regimi liberi, regimi di
libertà. Ma libertà di chi? "Ateniesi e Romani erano liberi - notava
Hobbes (Leviatano, XXI) - vale a dire, le loro città erano libere".
Fustel de Coulanges (v., 1864; tr. it., vol. I, p. 325) è l'autore
che sostiene al riguardo la tesi estrema: "Avere diritti politici,
votare, nominare magistrati, poter essere arconte, ecco ciò che
[nelle città antiche] si chiamava libertà; ma non per questo l'uomo
è meno asservito allo Stato". Al che si oppone che quantomeno
all'epoca di Pericle la libertà individuale dell'Ateniese era
assoluta. Chi ha ragione? La controversia, che risale alla celebre
orazione del 1819 di Benjamin Constant su La libertà degli antichi
comparata a quella dei moderni, è sterile se non facciamo capo alla
concezione dell'uomo degli antichi. Nel definire l'uomo un animale
politico Aristotele dichiarava la propria antropologia: egli
intendeva che l'uomo è compiutamente tale in quanto vive nella polis
e la polis vive in lui. Nel vivere politico i Greci non vedevano una
parte o un aspetto della vita: ne vedevano la pienezza e l'essenza.
L'uomo non-politico era per i Greci un idion, un essere incompleto e
carente (il nostro 'idiota') la cui insufficienza stava, potremmo
dire, nella sua debolezza di polis. Insomma, per i Greci l'uomo era,
senza residuo, il polites, il cittadino, e la città precedeva il
cittadino: era il polites a dover servire la polis, non la polis il
polites. Per noi non è così. Noi non riteniamo che i cittadini siano
al servizio dello Stato, ma che lo Stato (democratico) sia al
servizio dei cittadini. Nemmeno riteniamo che l'uomo si risolva
nella politicità, che il cittadino sia 'tutto l'uomo'. Riteniamo
invece che la persona umana, l'individuo, sia un valore in sé,
indipendentemente dalla società e dallo Stato. Tra noi e gli
antichi, dunque, tutto si ribalta. Si ribalta perché nel frattempo
c'è stato il cristianesimo, il Rinascimento, il giusnaturalismo e,
alla fin fine, tutta la lunga meditazione filosofica e morale che si
conclude con Kant. Detto in breve, il mondo antico non conosceva
l'individuo-persona, non pregiava il 'privato' (privatus, in latino,
è privazione, togliere) come sfera morale e giuridica 'liberante' e
promotrice di autonomia, di autorealizzazione.
C'è oggi chi spregia la scoperta dell'individuo e del suo valore
usando 'individualismo' in senso derogatorio. Forse troppo
individualismo è cattivo; e certo l'individualismo si manifesta in
forme deteriori. Ma al tirare delle somme non dovrebbe sfuggire che
il mondo che non riconosce valore all'individuo è un mondo spietato,
disumano, nel quale uccidere è normale, normale come morire. Era
così anche per gli antichi; non più per noi. Per noi uccidere è
male; male perché la vita di ogni individuo conta, vale, è sacra. È
questa attribuzione di valore che ci rende umani, che ci fa
rifiutare la crudeltà degli antichi e, ancor oggi, delle società
non-individualistiche. Dunque gli Ateniesi erano liberi o no? Sì; ma
non alla stregua del nostro concetto di libertà individuale. Certo,
l'età aurea della democrazia ateniese può essere resa come una
poliedrica esplosione di spirito individuale. Certo, i Greci hanno
fruito di uno spazio privato che era tale nel fatto. Ma i Greci non
possedevano (non era per loro possibile conoscerlo) quel concetto di
libertà del singolo che si riassume nella formula del 'rispetto
dell'individuo-persona'. Quando si nega, allora, che i Greci fossero
individualmente liberi si intende dire che nelle loro città
l'individuo era indifeso e in balia della collettività. L'individuo
non aveva 'diritti', e non fruiva in alcun senso di 'difesa
giuridica'. La sua libertà si risolveva senza residuo nella sua
partecipazione al potere e nell'esercizio collettivo del potere. A
quel tempo era molto. Ma nemmeno a quel tempo 'garantiva'
l'individuo. Né si riteneva, a quel tempo, che l'individuo fosse da
garantire o che avesse diritti individuali da far valere.Si aggiunga
che nelle condizioni moderne nemmeno gli antichi sarebbero in alcun
modo liberi. Torniamo a sottolineare che la città greca non si
costituiva in Stato. Ora, senza Stato un esercizio collettivo del
potere può ancora fare le veci della libertà, può ancora essere un
surrogato della libertà (politica). Ma quando arriva lo Stato,
quando la piccola città si estende a dismisura, senza limiti, e
quando, di conseguenza, titolarità ed esercizio del potere si
disgiungono, allora non è più così. Non è solo che la democrazia dei
moderni tutela e promuove una libertà che non accetta di risolversi
nella sottomissione dell'individuo al potere dell'insieme. È anche
che con l'arrivo dello Stato i termini del problema si invertono.
Nella città-comunità degli antichi la libertà politica non si
affermava in opposizione allo Stato, perché lo Stato non c'era. Ma
quando c'è, allora il problema della libertà dallo Stato si pone.La
formula 'tutto nella polis' promuove, o può promuovere, una
democrazia ad alto tasso di fusione comunitaria. La formula 'tutto
nello Stato', che poi si esplica in tutto per lo Stato, è invece la
formula dello Stato totalitario. Al modo dei Greci, noi saremmo
schiavi.
5. La democrazia liberale
Tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni s'interpone, si
è visto, la disgiunzione tra titolarità ed esercizio del potere, il
principio di maggioranza e la concezione dell'individuo-persona.
Peraltro, per passare dalla prima alla seconda manca ancora l'anello
di congiunzione essenziale: il costituzionalismo e, al suo interno,
la rappresentanza politica. Il termine 'liberalismo' e il suo
derivato 'liberale' sono di conio relativamente recente (attorno al
1810); ma Locke, Montesquieu, Madison e Hamilton (per il
Federalista), Benjamin Constant, sono a buon diritto dichiarati
'liberali', e cioè gli autori che hanno concepito politicamente (il
percorso più propriamente giuridico attinge ad altri nomi, quali
Coke e Blackstone) lo Stato limitato, lo Stato controllato e, così,
lo Stato liberal-costituzionale. In coda a Constant si può
aggiungere Tocqueville e poi John Stuart Mill; ma specialmente con
quest'ultimo arriviamo già allo Stato liberaldemocratico, al quale
farà seguito, ai nostri giorni, lo Stato democratico-liberale.
Dunque, tre tappe: primo, lo Stato liberale che è soltanto lo Stato
costituzionale che ingabbia il potere assoluto; secondo, lo Stato
liberaldemocratico che è prima liberale (costituzionale) e poi
democratico; terzo, lo Stato democratico-liberale, nel quale il peso
specifico delle due componenti si inverte: il potere popolare
prevale sul potere limitato.
La genealogia storica complessiva è questa: la democrazia pura e
semplice (quella degli antichi) precede il liberalismo; il
liberalismo precede la democrazia moderna. Ancora per i costituenti
di Filadelfia, così come per Constant, 'democrazia' indicava un
cattivo governo, l'esperienza fallimentare degli antichi; e se il
Tocqueville del 1835-1840 ammirava la 'democrazia sociale' degli
americani, egli pur sempre temeva, nella Democrazia in America, la
tirannide della maggioranza e ripudiava il dispotismo democratico, e
cioè la democrazia in senso politico. Il giro di boa avviene, con
Tocqueville, nel 1848. Fino alla rivoluzione di quell'anno egli
aveva nettamente separato la democrazia dal liberalismo. Ma
all'Assemblea Costituente Tocqueville dichiarò una nuova e diversa
separazione: "La democrazia e il socialismo sono congiunti solo da
una parola, l'eguaglianza; ma si noti la differenza: la democrazia
vuole l'eguaglianza nella libertà, e il socialismo vuole
l'eguaglianza [...] nella servitù". Con questo memorabile passo
nasce, nelle coscienze, la liberaldemocrazia. La nuova antitesi, la
nuova polarizzazione, non è più tra democrazia e liberalismo, ma tra
socialismo da un lato (il nuovo protagonista emerso, appunto, nelle
turbolenze del 1848), e liberaldemocrazia dall'altro.
Non è che Tocqueville avesse cambiato idea; coglieva invece,
profeticamente, il riallineamento che avrebbe prevalso nel secolo e
mezzo successivo. Con l'intuizione dei grandissimi Tocqueville
riconcepiva la democrazia, la capiva come una creatura del tutto
inedita che sorgeva ex novo dal seno del liberalismo. La democrazia
riesumata da Rousseau era solo una creatura di biblioteca. La
'democrazia reale', quella che stava davvero nascendo, era
tutt'altra cosa: era, appunto, la democrazia liberale. Per tutto
l'Ottocento prevalse, in quel composto, la componente liberale: il
liberalismo come teoria e prassi della protezione giuridica,
mediante lo Stato costituzionale, della libertà individuale. Ma man
mano che il suffragio si estendeva, di pari passo si poneva una
liberaldemocrazia nella quale la 'forma' dello Stato sempre più
recepiva 'contenuti' di volontà popolare. Alla fine lo Stato
liberaldemocratico si capovolge nello Stato democratico-liberale nel
quale - nell'ottica tocquevilliana - la bilancia tra libertà ed
eguaglianza inclina a favore di quest'ultima.Al momento basta
affermare - approfondiremo in seguito - che lo Stato 'giusto', lo
Stato sociale, lo Stato del benessere sono pur sempre, in premessa,
lo Stato costituzionale costruito dal liberalismo. Dove e quando
quest'ultimo è caduto, come nei paesi comunisti, è caduto tutto: in
nome dell'eguaglianza si è instaurato il 'socialismo nella servitù'.
La lezione che oggi ci viene dall'Est e dalla parabola
dell'esperienza comunista conferma quel che la dottrina liberale ha
da sempre sostenuto, vale a dire che il rapporto tra libertà ed
eguaglianza non è reversibile, che l'iter procedurale che collega i
due termini va dalla libertà all'eguaglianza e non, viceversa,
dall'eguaglianza alla libertà. Il 'superamento' della democrazia
liberale non c'è stato. Oltre lo Stato democratico-liberale non c'è
più né libertà, né democrazia.
6. Lo Stato dei partiti
La democrazia dei moderni è rappresentativa e presuppone, come sua
condizione necessaria, lo Stato liberal-costituzionale, la
controllabilità del potere. Finora nulla si è detto di un altro
strumento di attuazione: i partiti. Già nel 1920 Kelsen asseriva
senza mezzi termini: "Solo l'illusione o l'ipocrisia può credere che
la democrazia sia possibile senza partiti politici" (v. Kelsen,
1920; tr. it., p. 25). Di quando in quando (a cominciare da
Ostrogorski: v., 1902) si torna a sostenere che la democrazia può
non solo operare senza partiti, ma che senza partiti funzionerebbe
meglio; e anche se questa tesi è poco e mal sostenuta in dottrina,
in pratica il problema può essere riproposto, oggi, alla luce della
cosiddetta dissoluzione dei partiti americani. In verità, negli
Stati Uniti i partiti non hanno mai pesato quanto in Europa, e non
hanno mai conseguito la consistenza organizzativa dei partiti di
massa europei, specie dei partiti comunisti, o comunque di apparato.
La burocratizzazione della socialdemocrazia tedesca che Michels già
registrava e denunciava come causa inevitabile di oligarchia attorno
al 1910, questa burocratizzazione negli Stati Uniti non è mai
arrivata. Peraltro, ai fini del quesito se i partiti siano
indispensabili non è necessario che il partito sia 'forte' e che, di
conseguenza, il sistema dei partiti sia fortemente strutturato. La
tipologia storica dei partiti distingue tra partito dei notabili,
partito di opinione, e partito di massa; o anche, correlativamente,
tra partiti a orientamento legislativo (largamente quiescenti tra
un'elezione e l'altra) e partiti a orientamento elettorale e, tra
questi ultimi, tra partiti di mera organizzazione elettorale ovvero
partiti capaci di mobilitazione permanente. Ora, il partito
'necessario' è sufficiente che sia il partito di opinione; e nemmeno
la dissoluzione dei partiti americani li dissolve, per la verità, al
di sotto della soglia nella quale 'canalizzano l'opinione'. E quando
si asserisce che la democrazia non si può attuare senza
l'intermediazione dei partiti si fa riferimento al sistema partitico
come sistema di aggregazione e canalizzazione del voto. Nulla più;
ma anche nulla meno. Gli elettori si esprimerebbero a vuoto e
creerebbero il vuoto - il caos di una miriade di frammenti - se
mancasse il quadro di riferimento e di alternative proposto dai
partiti. Difatti ogni volta che una dittatura cade e che si
ricomincia a votare, rispuntano i gruppuscoli che si propongono al
voto. I superstiti, i votati, diventano partiti. È un processo del
tutto spontaneo che di per sé attesta l'inevitabilità dei partiti.
Se i partiti occorrono, la loro necessità non li redime dai loro
peccati. È vero che l'intermediazione dei partiti si trasforma,
spesso, in un diaframma, o anche in una sopraffazione
partitocratica. Ma combattere le degenerazioni e criticare i partiti
è un conto, rifiutarli un altro. Ciò posto, un ulteriore e diverso
problema investe la diversità dei sistemi di partito, e quindi la
questione di quale sistema di partito funzioni meglio e sia, in
questo senso, 'funzionale' ai fini del governo democratico. Dopo le
cattive esperienze - segnatamente quella della Repubblica di Weimar
(1919-1933) - del periodo tra le due guerre mondiali, negli anni
cinquanta si affermò la tesi che le democrazie funzionanti erano
bipartitiche, o comunque a relativamente pochi partiti, mentre i
sistemi troppo frammentati generavano governi instabili, effimeri, e
largamente incapaci di governare. Questa tesi è stata
successivamente raffinata e modificata. Troppi partiti sono sì
troppi; ma il numero dei partiti non è la variabile decisiva; lo è,
invece, la polarizzazione del sistema, e cioè la distanza ideologica
o di altra natura che separa i partiti e i loro elettori (v.
Sartori, 1976).
Se il problema fosse soprattutto di frammentazione, sarebbe
rimediato dall'adozione di sistemi elettorali poco o punto
proporzionali, e cioè riduttivi del numero dei partiti. Ma se i
partiti vengono diminuiti e la polarizzazione rimane, allora non c'è
guadagno, e anzi la conflittualità si può acutizzare. Di pari passo
non è detto che i governi monocolori che sono la regola dei sistemi
bipartitici (e anche dei sistemi a partito predominante operanti,
per lunghi periodi, in Svezia, Norvegia, India, e ancor oggi in
Giappone) siano a ogni effetto preferibili ai governi di
coalizione.La discriminante è se le coalizioni di governo sono
scollate, tra partiti 'distanti', come in Italia, oppure, come nei
sistemi a bassa polarizzazione, se le coalizioni sono tra partiti
'vicini', amalgamabili. Con il che si torna a dire che il fattore
decisivo è la polarizzazione: lo spazio competitivo nel quale
'spazia' il sistema partitico. Se lo spazio competitivo è esteso, se
è tra poli estremi molto lontani tra loro, allora la competizione
tra partiti è esposta a tentazioni centrifughe, il disaccordo
prevale sull'accordo, il sistema diventa 'bloccato', e quindi
funziona con difficoltà. Se invece lo spazio competitivo è corto,
allora la competizione tende a essere centripeta, la litigiosità
bloccante 'non paga', e il sistema consente governabilità.Lijphart
(v., 1977) divide le democrazie in due tipi - maggioritaria e
consociativa - e sostiene che alle società conflittuali occorre la
'democrazia consociativa', e cioè una gestione della cosa pubblica
fondata su 'minoranze concorrenti' (la formula di Calhoun) che
ripudiano il principio maggioritario. La teoria di Lijphart convince
in parte, e in parte no. Il consociativismo è da raccomandare, e
funziona, per le società segmentate quali l'Olanda (a lungo, ma non
più, divisa tra cattolici e protestanti), l'Austria (divisa tra
cattolici e socialisti), il Belgio (dove il conflitto è
etnico-linguistico) e la Svizzera (l'esempio più illustre). Ma le
società in questione sono segmentate, non sono polarizzate: le loro
'isole' chiedono soltanto di essere rispettate nella propria
identità (il cleavage è isolante, non aggressivo e prevaricante).
Dunque non è detto che il consociativismo vada altrettanto bene per
le società altamente polarizzate, e certo non sembra applicabile
alle religioni militanti (quali il fondamentalismo islamico). Sul
punto della distinzione tra democrazia maggioritaria e consociativa
torneremo. Qui importa solo notare che il consociativismo rinvia a
nozioni come società conflittuale, o 'società divisa', assai meno
precise e precisabili della nozione di 'società polarizzata', e che
i sistemi di partito si misurano e commisurano meglio - ci sembra -
in chiave di polarizzazione. Con ogni probabilità lo Stato dei
partiti non è surrogabile. Ma varia, e può essere variato. Il
problema del sistema partitico ottimale è sempre aperto e sempre da
riaprire. Aggiungi che i partiti facilmente degenerano in centri di
eccesso di potere, di 'colonizzazione', di insediamento parassitario
e di corruzione. Il che non toglie che la teoria della democrazia i
partiti li debba recepire.
7. La teoria competitiva della democrazia
In linea di principio, la democrazia - la democrazia liberale - è da
definire come un sistema politico fondato sul potere popolare, nel
senso che la titolarità del potere appartiene al demos mentre
l'esercizio del potere è affidato a rappresentanti periodicamente
eletti dal popolo. In termini di esercizio, dunque, il potere
popolare si risolve in larghissima parte nel potere elettorale. Il
che spiega perché la definizione operativa o applicativa della
democrazia dia per scontata la sovranità popolare (la fonte di
legittimità) per arrivare subito al meccanismo, come in questa
definizione di rito: la democrazia è un sistema pluripartitico nel
quale la maggioranza espressa dall'elezione governa nel rispetto dei
diritti delle minoranze. Il rispetto dei diritti delle minoranze, e
per esso l'interpretazione 'limitata' del principio maggioritario, è
un punto nodale che richiede di essere trattato a sé. Soffermiamoci,
al momento, sulla riconduzione della democrazia a un sistema
pluripartitico. Che i partiti siano necessari si è già veduto. Ma
qual è la democraticità di questo assetto? Rousseau sosteneva che
chi delega il proprio potere lo perde. Vero? Se tale delega fosse
permanente, se fosse una translatio imperii, allora sarebbe vero. Ma
è una delega a scadenza e rinnovo periodico, una concessio
temporanea, e per di più una delega a titolo rappresentativo: il
rappresentante è tenuto ad agire nell'interesse dei rappresentati
nell'ambito di strutture e procedure che lo vincolano a questo
intento. Dunque Rousseau era nel torto. Anche così, la
rappresentanza politica non dà le garanzie della rappresentanza di
diritto privato. Come si fa ad assicurare che l'interesse servito
dal rappresentante sia davvero quello dei rappresentati (e non
l'interesse proprio)? Lo si può fare solo in termini di larghissima
approssimazione. Ma qui il meccanismo che più serve è la
competizione, non l'elezione. E qui siamo a Schumpeter, alla sua
'teoria competitiva della democrazia'. Nella teoria 'classica' della
democrazia - argomenta Schumpeter - la selezione del rappresentante
risulta "secondaria rispetto allo scopo primario [...] di investire
l'elettorato del potere di decidere le questioni politiche"; ma la
realtà è che questo potere è "secondario rispetto all'elezione delle
persone che andranno poi a decidere". Da qui la sua citatissima
definizione: "Il metodo democratico è quell'assetto istituzionale
per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone
acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per
il voto popolare" (v. Schumpeter, 1947², p. 269).
La prima cosa da notare è che Schumpeter dice "metodo democratico",
spostando così la messa a fuoco su una definizione procedurale del
concetto di democrazia. In secondo luogo, il demos è qui riproposto
come tertium gaudens, come un terzo che gode dei benefici che gli
vengono promessi dai 'concorrenti' che ne corteggiano il voto. Il
che implica che dal potere di voto discende un 'accoglimento di
preferenze'. Così la democrazia in entrata, in input, si collega
alla demofilia in uscita, in output, e più precisamente il potere
popolare (di voto) si trasforma in demo-distribuzioni, in benefici
di ritorno.Tornando al quesito iniziale, l'interpretazione
schumpeteriana dei meccanismi democratici assicura davvero che il
rappresentante servirà gli interessi del rappresentato? 'Interessi'
è concetto complesso. Interessi immediati e male intesi? Interessi
durevoli e bene intesi? Interessi soltanto 'miei', soltanto
egoistici? Non occorre perdersi in questo ginepraio. Difatti abbiamo
detto che il metodo descritto da Schumpeter assicura l'accoglimento
di 'preferenze', l'ascolto di 'domande'. L'obiezione è semmai che il
popolo vota di regola ogni quattro anni, e che nell'interregno il
rappresentante non è revocabile. L'obiezione può dunque essere che
nell'intervallo tra un'elezione e l'altra il rappresentante può fare
il sordo e servire soprattutto se stesso. Ma non è così se al
meccanismo competitivo colto da Schumpeter si aggiunge, a suo
completamento, il "principio delle reazioni previste" enunciato da
Carl Friedrich (v., 1946, pp. 589591). In funzione di quel principio
l'eletto sconta a ogni momento la prevedibile 'reazione' dei suoi
elettori a quel che fa o si propone di fare. Il controllo è dunque
continuo, ché quella 'previsione' (di come l'elettore reagirà) è
costante.
Da quanto sopra si può ricavare la definizione che segue: democrazia
è "la procedura e/o il meccanismo che a) genera una poliarchia
aperta la cui competizione nel mercato elettorale b) attribuisce
potere al popolo e c) specificamente impone la rispondenza
[responsiveness] degli eletti nei confronti degli elettori" (v.
Sartori, 1987, p. 156). È complicato perché la democrazia è
complicata. E, si noti, questa definizione è soltanto descrittiva
(non è, e non pretende di essere, prescrittiva), si limita cioè a
spiegare come funziona la macrodemocrazia (politica). È quindi una
definizione minima che stabilisce la condizione necessaria e
sufficiente ai fini della messa in opera di un sistema che può a
buon diritto essere dichiarato democratico. Senza il cosiddetto
modello di Schumpeter il funzionamento effettivo della democrazia
rappresentativa resta tutto da capire. Ma da qui il discorso
prescrittivo atteso a promuovere e sviluppare la democrazia resta
tutto ancora da fare. Democrazia è una cosa; grado di democraticità
e democratizzazione un'altra.
8. Libertà ed eguaglianza
a) Libertà 'da' e autonomia
Si è veduto che Tocqueville e dopo di lui Guido De Ruggiero (v.,
1941²) e molti altri equiparano la liberaldemocrazia alla
congiunzione tra libertà ed eguaglianza. Ma quale libertà? E cosa
s'intende per eguaglianza? La libertà che interessa in questa sede è
la libertà politica: la libertà del cittadino nell'ambito dello
Stato. È, dunque, una libertà specifica ed eminentemente pratica.
Non è la libertà morale; non è il libero arbitrio (la libertà del
volere); non è una libertà onnicomprensiva; e tanto meno è una
libertà suprema, la 'vera libertà' (così come è stata variamente
concepita, per esempio, da Spinoza, Leibniz, Hegel o Croce). Nel
Saggio sull'intelligenza umana Locke definisce la libertà come
autodeterminazione dell'io ("acting under the determination of the
self"), mentre nel secondo dei Due trattati sul governo (v. Locke,
1690; tr. it., p. 251) la definisce come il non essere "soggetto
all'incostante, incerto, ignoto, arbitrario volere di un altro
uomo". Locke capiva bene, dunque, che in sede politica non si cerca
l' 'essenza della libertà' e non interessa l'indagine metafisica
sulla sua natura ultima. Per Locke la libertà politica è, in
sostanza, libertà dall'arbitrio dei potenti. Altrettanto concreto
era stato, prima di lui, Hobbes: libertà significa "assenza di
impedimenti esterni" (Leviatano, XXI). Per la verità Hobbes
assegnava questa libertà al contesto della "libertà naturale" prima
che a quello della "libertà civile"; inoltre, gli impedimenti in
questione erano detti of motion, "impedimenti di movimento". Ma
questa qualificazione era dettata dalla natura meccanicista della
sua filosofia, e cade se cade il meccanicismo. Resta così la formula
"assenza di impedimenti esterni" che da allora ha efficacemente
sintetizzato la natura e l'ambito della libertà politica.
Successivamente si è detto che la libertà politica è una libertà da
(dallo Stato), non una libertà di. E oggi è invalso l'uso di
dichiararla una libertà 'negativa'. Fin qui nulla da eccepire.
Senonché questa libertà 'negativa' viene poi riletta come una
libertà da poco, o persino da nulla. La conclusione così diventa che
la libertà che conta è la libertà di, la libertà 'positiva'. Il che
non è più esatto. Che la libertà politica sia una libertà incompleta
è vero (ma lo è alla stessa stregua di tutte le libertà specifiche,
di tutte le libertà declinate al plurale, ognuna delle quali può
essere dichiarata, da sola, incompleta). Resta fermo che la libertà
da è condizione necessaria di tutte le libertà di. Se siamo impediti
- in prigione, o minacciati di prigione - le libertà al positivo
diventano lettera morta.Meglio sarebbe, allora, chiamare la libertà
politica 'protettiva' (invece di negativa), tale perché è la libertà
di poteri minori, di poteri di singoli cittadini, bisognosi di
protezione perché facili da schiacciare. Beninteso, la libertà
politica non è soltanto libertà da (negativa o protettiva). Quando
si dispiega, la libertà politica diventa anch'essa una libertà di
(di votare, di partecipare, ecc.); ma deve essere caratterizzata
come libertà da, come non impedimento, perché questo ne è l'aspetto
pregiudiziale e caratterizzante. Si potrà osservare che il discorso
sulla libertà politica precede Hobbes e Locke. Certo; ma fino a
Locke e alla costruzione dello Stato costituzionale la salvezza, la
salvezza della libertà, era soltanto nella legge. Cicerone lo diceva
con mirabile concisione per tutto il mondo antico: "legum servi
sumus ut liberi esse possimus" (Oratio pro Cluentio, 43), siamo
liberi in quanto sottoposti a leggi. Questa era ancora la formula di
Rousseau: l'uomo è libero quando non obbedisce ad altri uomini ma
solo alla legge. Sì; ma Rousseau constatava al tempo stesso che
l'uomo, nato libero, si trovava ovunque in catene. Quando si afferma
lo Stato, e in particolare lo Stato dell'età dell'assolutismo
monarchico, la legge da sola non salva più. Non è dunque un caso che
il discorso sulla libertà politica ricominci nel XVII secolo. La
libertà politica definita come libertà dallo Stato si definisce così
quando lo Stato c'è (non prima). Ma da allora questa ne è la
definizione pressoché costante.
A questo si oppone, talvolta, che la libertà da è una libertà minore
superata da una libertà maggiore: l'autonomia. Si è testé asserito
che Rousseau, in tema di libertà, non devia di un millimetro da
Cicerone. In tutti i suoi scritti ripete a distesa che la certezza
della quale è più certo è che la libertà è governo delle leggi. Ma
nel Contratto sociale (I, 8) troviamo questo passo: "l'obbedienza
alla legge che ci siamo prescritta è libertà" (corsivo mio). È il
passo dal quale si è ricavato che Rousseau concepisce la libertà
come autonomia. Ma qui chiediamo al topolino di partorire la
montagna. Il fatto è che Rousseau elogiava Spartani e Romani, non
gli Ateniesi. La isonomia (eguali leggi) degli Ateniesi era
degenerata in licenza, in leggi incerte disfatte e rifatte dalla
volubilità del demos. Pertanto Rousseau invocava un Mosè, un
Licurgo, un Legislatore 'fondante' che stabilisse una volta per
tutte poche, fondamentali e pressoché inalterabili Leggi supreme.
Nessuno ha mai ingabbiato la libertà nella fissità delle Leggi (con
la maiuscola) più di Rousseau. Quella di Rousseau sarebbe dunque
l'autonomia del nulla o quasi nulla fare.
La verità è, ci sembra, che 'autonomia' è un'arbitraria e
pasticciata proiezione all'indietro di Kant su Rousseau.
L'autonomia, il dare a se stessi la propria legge, è concetto
kantiano, che però Kant riferisce alla libertà morale, alla libertà
interiore (del volere). La libertà politica è invece una libertà
esteriore (di fare). Il contrario della prima è eteronomia; il
contrario della seconda è coercizione. La mia volontà resta libera
(autonoma) anche se mi trovo in carcere (coercito); ma l'essere
interiormente libero non mi rende in alcun modo libero esternamente
(dal carcere). Pertanto la tesi che la 'minore' libertà da (libertà
liberale) sia superata da una 'maggiore' libertà democratica,
l'autonomia, è difficile da accogliere. Che l'autonomia, così come
l'autorealizzazione, siano libertà, e ideali di superiore libertà,
questo sì. Ma non superano la libertà da: la presuppongono.
b) Eguali trattamenti ed eguali esiti
Se la libertà politica può essere ricondotta all'idea-base di 'non
impedimento', il discorso sull'eguaglianza è molto più complesso.
Già Aristotele distingueva nell'Etica Nicomachea (libro V) tra due
diversissimi tipi di eguaglianza, l'una 'aritmetica', l'altra
'proporzionale'. Il criterio della prima è 'lo stesso a tutti'; il
criterio della seconda è 'lo stesso agli stessi', e pertanto cose
eguali agli eguali ma diseguali ai diseguali. Nell'eguaglianza
aritmetica ciò che è eguale è identico: punto e basta.
Nell'eguaglianza proporzionale (tale, spiegava Aristotele, perché
"gli ineguali sono trattati in proporzione alla rispettiva
diversità") è invece l'eguaglianza nel diverso, o tra diversi, che
assegna a ciascuno il suo: qui vige la regola del suum cuique
tribuere. È chiaro che a volte adottiamo la prima, a volte la
seconda eguaglianza. Eguali leggi sono tali in quanto identiche per
tutti, mentre le tasse dirette sono proporzionali, in proporzione
alla ricchezza, e dunque eguali per eguali ma diseguali per
diseguali. Ma l'eguaglianza proporzionale pone, man mano che viene
approfondita, due problemi: primo, quanta proporzione; secondo, e
ancor più difficile, a chi spetta la proporzione. Qui, si ricordi,
la regola non è più 'a tutti lo stesso', ma 'lo stesso (eguali
quote, privazioni o benefici) a ciascun eguale'. Pertanto la domanda
diventa: quale 'stessità' è rilevante? E, correlativamente, quali
sono le differenze rilevanti? Sono domande che scoperchiano il vaso
di Pandora.Semplificando al massimo, i criteri dell'eguaglianza
proporzionale sono riconducibili a due: 1) a ciascuno in ragione dei
suoi meriti, capacità o talenti; 2) a ciascuno in ragione dei suoi
bisogni (di quanto gli manca). È superfluo sottolineare che ciascun
criterio è passibile, in concreto, di innumerevoli interpretazioni.
Quali meriti? Quali capacità? E quali bisogni, in che misura? Né le
complicazioni finiscono qui.Per dipanarle conviene rifarsi a una
prospettiva storica. Storicamente la prima eguaglianza è la
isonomia, noi diremmo l'eguaglianza giuridico-politica: eguali
leggi, eguale libertà ed eguali diritti. Sono, queste, eguaglianze
facili (aritmetiche): eguale si traduce in 'identico per tutti'. C'è
poi l'eguaglianza sociale (v. cap. 2, democrazia sociale) che non
pone problemi dal momento che si dispiega come un ethos. Di problemi
è irta, invece, la terza eguaglianza, l'eguaglianza di opportunità,
o nelle opportunità, che è la tipica rivendicazione egualitaria del
nostro tempo.
Da una comune dizione qui si diramano e si divaricano, in realtà,
due eguaglianze: 1) opportunità come eguale accesso; 2) opportunità
come eguale partenza. Eguale accesso vuol dire 'eguale
riconoscimento a eguali capacità' e dunque promuove una
meritocrazia: eguale carriera (promozione) a eguale talento. Eguale
partenza è ben altro, e ben di più. A questo effetto si richiede
l'eguagliamento delle posizioni e delle condizioni iniziali della
corsa: eguale educazione per tutti per cominciare; ma poi anche un
relativamente eguale benestare che cancelli il vantaggio dei ricchi
sui poveri. E a questo punto l'eguale opportunità di posizioni di
partenza trapassa nell'eguaglianza economica.Finché quest'ultima è
relativa - finché è questione di proporzioni - siamo ancora
nell'eguaglianza che potremmo chiamare di 'opportunità materiali'.
L'eguaglianza economica vera e propria, a sé stante, è invece
aritmetica: eguali averi o -nel comunismo - eguale nullatenenza per
tutti. Babeuf era egalitario alla lettera. Marx era più sfumato.
Nella Critica al programma di Gotha del 1875 Marx enuncia tre
criteri: 1) a ciascuno secondo i suoi bisogni; 2) a ciascuno secondo
il suo lavoro (il principio del valore-lavoro); 3) da ciascuno in
ragione delle sue abilità. Non è facile collegarli e nemmeno
decifrarli. Ma siccome in ogni caso il comunismo presuppone
l'abolizione della proprietà privata, a questo effetto è chiaro che
anche l'eguaglianza economica di Marx era aritmetica: egualmente
niente a nessuno.
Il collasso dei regimi comunisti largamente decapita rebus ipsis la
versione aritmetico-negativa dell'eguaglianza economica. Ma resta
l'istanza della libertà dal bisogno - assicurare a tutti un eguale
minimo di decorosa sussistenza - che progredisce man mano nella
rivendicazione di 'eguali averi' che effettivamente eguaglino le
posizioni di partenza. Come? Finché un relativo eguagliamento degli
averi viene perseguito mediante redistribuzioni, e specialmente
redistribuzioni di reddito, restiamo nell'ambito di una problematica
prevalentemente economica. Ma, intanto, le redistribuzioni in
questione devono essere incessanti; inoltre, non bastano mai;
talché, alla fine, dalle redistribuzioni si passa agli
spossessamenti. E a questo punto il problema diventa eminentemente
politico. Eguali condizioni materiali (sia pure elasticamente
intese) richiedono uno Stato 'forte', abbastanza forte da imporre
espropriazioni e tanto forte da decidere a favore di chi, in che
rispetto e in quanta misura. In questo caso lo Stato eguagliante
trapassa nello Stato coercitivo che deve spezzare e spazzare via -
se vuole riuscire - la 'libertà di resistenza' dei cittadini.
Il nocciolo del problema è che eguali trattamenti (leggi eguali) non
producono eguali esiti (eguagliamenti in esito); dal che deriva che
per essere resi eguali (più eguali) occorrono trattamenti diseguali
(leggi settoriali e discriminazioni compensanti). Se corridori lenti
e veloci debbono arrivare al traguardo insieme, i veloci debbono
venire penalizzati e i lenti avvantaggiati. Non più, allora, eguali
opportunità. Al contrario, o meglio al rovescio, al fine di essere
eguagliati in arrivo occorrono in partenza 'opportunità diseguali'
(trattamenti preferenziali). Si può sostenere che se così deve
essere, sia. Sì, ma leggi settoriali, trattamenti privilegianti,
'discriminazioni', non solo attizzano e moltiplicano la
conflittualità sociale (i non-preferiti si ribellano e rivendicano a
loro volta privilegi), non solo facilitano l'arbitrio, ma anche
ledono la protezione fornita da eguali leggi e, in linea di
principio, dal principio 'lo stesso per tutti'. Perché la generalità
delle leggi è importante? È importante perché sottopone il
legislatore allo stesso danno che le leggi possono infliggere a chi
le subisce. Se la norma 'a chi mente viene tagliata la lingua' si
applica anche al legislatore che la promulga, quella norma non
verrà; se lo esonera, potrà venire.Beninteso, tra libertà ed
eguaglianza si danno molte possibili soluzioni di equilibrio, molte
possibili compensazioni; ma esiste pur sempre un punto di rottura
oltre il quale (per ripetere Tocqueville) ci aspetta "l'eguaglianza
nella servitù". Il problema dell'eguaglianza resta dunque
apertissimo. Tra libertà ed eguaglianza ci può essere felice
congiunzione, ma anche pericolosa disgiunzione. Nelle democrazie
liberali la libertà promuove, o quantomeno consente, politiche ed
esiti eguaglianti. Nei regimi comunisti l'eguaglianza non ha
prodotto libertà e ha livellato soltanto in basso, nel malessere.
9. Maggioranza e minoranza
a) Maggioranza 'limitata'
Maggioranza sta per 'regola di maggioranza', ovvero per 'l'insieme
dei più'. Nel primo caso la nozione di maggioranza è procedurale:
indica un metodo di risoluzione dei conflitti e, correlativamente,
un criterio decisionale. Nel secondo caso la nozione di maggioranza
è sostantiva: indica la parte maggiore, più numerosa, di un
aggregato concreto, di una popolazione. E se questa distinzione non
viene chiaramente affermata, tutto il discorso s'impasticcia senza
rimedio.Siamo soliti dire, in breve, che la democrazia è majority
rule, regola-comando della maggioranza. Detto così, è detto troppo
in breve. Inoltre, qual è la maggioranza in questione? Procedurale o
sostantiva? Di per sé non è chiaro. C'è chi intende l'espressione in
un senso, chi nell'altro, e chi - i più - indifferenziatamente.
Precisiamo subito, allora, che in questo paragrafo ci occuperemo di
'maggioranza' come regola, criterio o principio, e non di
maggioranze sostantive. In tal caso asserire che la democrazia è
majority rule significa che in democrazia si decide a maggioranza.
Vero? Non del tutto. Spiegato così il principio di maggioranza
risulta 'assoluto', senza limiti né freni, laddove la democrazia
richiede - per funzionare e durare - un principio di maggioranza
'limitato'. La regola delle democrazie liberali è che la maggioranza
governa (prevale, decide) nel rispetto dei diritti della minoranza.
Chi dice majority rule dimenticandosi dei minority rights non
promuove la democrazia: l'affossa. Il punto teorico è stato
formulato con insuperata chiarezza da Kelsen (v., 1920; tr. it., p.
12): "Anche colui che vota con la maggioranza non è più sottomesso
unicamente alla sua volontà. Ciò egli avverte quando cambia
opinione"; infatti, affinché "egli sia nuovamente libero sarebbe
necessario trovare una maggioranza a favore della sua nuova
opinione". Si aggiunga che, se le minoranze non sono tutelate, la
possibilità stessa di trovare una maggioranza a favore della nuova
opinione diventa problematica, poiché chi passa dall'opinione in
maggioranza a quella in minoranza si ritroverà tra coloro che non
hanno il diritto di far valere la propria opinione. Al limite il
punto è che la prima elezione sarà l'unica vera elezione, quella che
distingue una volta per tutte tra chi è stato libero (in quel
momento iniziale) e chi libero non è stato allora e non sarà mai.
Rispettare le minoranze e i loro diritti è dunque parte integrante
dei meccanismi democratici. E non è solo questione di meccanismi.
'Minoranza', vedremo, sta per molteplici referenti. Tra questi
troviamo le minoranze religiose, linguistiche, etniche, o altre, e
cioè collettività sostantive che tengono alla propria identità e che
si costituiscono attorno alla propria lingua, religione, o razza.
Queste minoranze sono tanto più reali e compatte quanto più sono
'intense', quanto più sentono fortemente il legame che le
caratterizza. E qui il principio maggioritario si ferma o viene
fermato, potremmo dire, per forza maggiore. Perché se alle minoranze
intense non viene riconosciuto il diritto alla propria identità,
esse cercheranno la secessione e rifiuteranno, nel frattempo, lo
stesso principio maggioritario.
b) Oligarchia, stratarchia e poliarchia
Passiamo a 'maggioranza' intesa in senso sostantivo e - per partire
dall'inizio - al popolo inteso operativamente come l'insieme dei
più, come il maggior numero. In tal caso l'espressione majority rule
equivale a dire 'comanda la maggioranza del popolo'; e in tal caso
la tesi diventa che in democrazia chi decide è la parte maggiore di
un'entità detta 'il popolo sovrano'. Vero? Falso? Per molti
senz'altro falso, anche se per motivi opposti. Per una schiera la
tesi è falsa perché le nostre sono pseudodemocrazie che defraudano
il popolo dello scettro che gli compete; per l'altra schiera la tesi
è falsa perché la democrazia intesa come potere popolare è
impossibile. I nomi che spiccano in questo secondo gruppo sono
quelli di Gaetano Mosca e di Roberto Michels; e i loro argomenti non
possono venire ignorati.Per la teoria della classe politica di Mosca
"in tutte le società [...] esistono due classi di persone: quella
dei governanti e l'altra dei governati" e "la prima, che è sempre la
meno numerosa [...] monopolizza il potere" (v. Mosca, 1939³, vol. I,
p. 83). Il succo della tesi di Mosca è che al comando c'è sempre una
minoranza 'organizzata' (nel senso generico di essere relativamente
omogenea e solidale). La tesi non era, nel 1884, inedita; ma elevata
al rango di 'legge' fa colpo; fa colpo perché distrugge la classica
tripartizione aristotelica delle forme di governo. Per la legge di
Mosca tutti i governi sono, sempre e ovunque, oligarchie (anche se
Mosca non usa il termine, il concetto è questo).
Alla tesi di Mosca è facile obiettare, e si è sovente obiettato, che
la sua 'legge' è troppo generica: tanto generica da sfuggire a ogni
verifica (o falsificazione). Mosca potrebbe essere smentito solo
dall'esistenza di sistemi anarchici privi di ogni comando e di ogni
verticalità. Ma se nel mondo reale qualsiasi sistema politico
richiede verticalità (lo Stato e strutture di comando), allora
abbiamo sempre una stratarchia che è sempre a forma piramidale.
Mosca scopre la piramide e la dichiara oligarchica. Ma stratarchia
non è oligarchia. Per passare dalla prima alla seconda occorre una
'legge' che predica e produca una minoranza che abbia
invariabilmente caratteristiche oligarchiche. Questo passaggio in
Mosca non c'è. L'ultimo Mosca concede semmai quel che la sua teoria
non gli consente, perché nel 1923 egli distingue tra classi
politiche ereditarie (aristocrazie) e classi formate dal basso, e
correlativamente distingue tra potere che discende dall'alto
(autocrazia) e potere che proviene dal basso. In questo modo, però,
lo stesso Mosca spezza in due la sua classe politica e infirma, di
riflesso, il significato minoritario-oligarchico (che nega la
possibilità della democrazia) della sua legge.L'argomento di Michels
(v., 1911; tr. it., p. 522) è diverso. La sua "legge ferrea
dell'oligarchia", formulata attorno al 1910, sostiene che
l'organizzazione è inevitabile, che di tanto l'organizzazione
cresce, di altrettanto snatura la democrazia e la trasforma in
oligarchia, e quindi - in conclusione - che "l'esistenza di capi è
un fenomeno congenito a qualunque forma di vita sociale" e che "ogni
sistema che preveda dei capi è incompatibile con i postulati
essenziali della democrazia".Osserviamo, in primo luogo, che in
Michels il concetto di organizzazione è centrale e anche assai più
preciso di quanto non lo fosse in Mosca. Peraltro nemmeno Michels è
preciso su 'oligarchia': definirla un "sistema di capi" non è
definizione adeguata e sufficiente. La seconda osservazione è che
Michels ricava la sua legge dallo studio della socialdemocrazia
tedesca (il grande partito di massa del suo tempo). A questo effetto
il terreno di prova di Michels è incomparabilmente più solido di
quello di Mosca. Mosca si fondava genericamente sulla storia;
Michels su un ben documentato studio di un caso specifico. La storia
si può leggere in tanti modi; il caso studiato da Michels fa testo,
e la sua analisi della degenerazione organizzativa delle
associazioni volontarie (ché tali sono i partiti e i sindacati) è
stata ripetuta a dritta e a manca, e quasi sempre confermata, da tre
quarti di secolo. Pertanto la critica a Michels non è la stessa che
si può fare a Mosca.
In ultima analisi, la confutazione della legge di Michels si trova
nella teoria competitiva della democrazia di Schumpeter. Anche se
fosse sempre vero che i partiti (e i sindacati) tendono sempre
all'oligarchia, dalla premessa 'i partiti non sono democratici' non
è lecito cavare la conclusione che 'la democrazia non è
democratica'. La prova non è solo troppo piccola ma anche impropria
(non pertinente) ai fini di quella conclusione. Michels parte da una
democrazia in piccolo e la proietta nella democrazia in grande,
nella macrodemocrazia d'insieme. Ma quest'ultima non è in alcun modo
un ingrandimento della prima. Ammettiamo pure che nessuna
organizzazione politica, o di rilevanza politica, sia mai
internamente democratica. Anche così, a livello di sistema politico
la democrazia definita da Schumpeter sussiste: sussiste perché è
posta dalla dinamica competitiva tra organizzazioni. La democrazia
d'insieme non è una somma statica di organizzazioni internamente
democratiche; è, invece, prodotta dalle interazioni tra una
pluralità di organizzazioni in gara per catturare il voto popolare.
Per smontare la tesi di Michels occorre Schumpeter; e chi sconfessa
Schumpeter rischia di incappare in Michels.
Passiamo ora a vedere qual è il gioco delle maggioranze - i più -
nell'ambito di strutture verticali attese a produrre un parlamento e
un governo, e pertanto attese a ridurre aggregati di milioni di
votanti in organismi migliaia di volte più piccoli. Data, allora,
una necessaria struttura piramidale, e dati altrettanto necessari
processi riduttivi, cosa succede in itinere alle maggioranze?
Succede che a ogni livello del processo in questione troviamo una
maggioranza che per un verso elimina una minoranza e, per l'altro,
si ripropone 'in meno', come un minor numero. A livello elettorale è
maggioranza chi vince (elegge), minoranza (eliminata) chi spreca il
voto. A livello di eletti è maggioranza chi ha votato il partito più
votato, minoranza chi ha votato i partiti meno votati. Peraltro,
anche gli eletti votati dalla maggioranza sono un piccolissimo
numero, un'esigua minoranza, rispetto alla maggioranza elettorale
dalla quale derivano. Salendo ancora di un gradino, a livello di
parlamento il partito più votato si può trovare in minoranza se
altri partiti (di minoranza) si coalizzano contro il partito di
maggioranza (relativa). Torniamo ora indietro, all'elettore di
partenza. Quante volte può essere battuto, e cioè ritrovarsi in
minoranza? Parecchie. All'inizio può votare senza successo, e quindi
essere subito eliminato. Ma anche se il suo voto elegge qualcuno, il
suo eletto può appartenere a un partito di minoranza che magari non
ha nessun peso (in parlamento); oppure può essere un eletto che si
trova in minoranza all'interno del proprio partito. Non occorre
continuare nell'illustrazione. Il punto è già chiaro, ed è questo:
che il 'comando di minoranza' non dimostra per nulla che le
democrazie non sono tali, che il popolo che si manifesta nel maggior
numero, il popolo dei più, è un sovrano truffato o spodestato. Nella
democrazia quel popolo avvia il processo di formazione dei governi;
e a ogni livello troviamo una maggioranza che conta più della
minoranza che la fronteggia.
Il problema del 'comando di minoranza' si sposta dunque sul terreno
della formazione di tali minoranze, della loro natura e anche (non
dimentichiamolo, anche se qui non ne trattiamo) dei limiti imposti
al loro potere. Se formuliamo il problema in termini moschiani, la
domanda è: la classe politica è una (tendenzialmente coesiva e
omogenea), e quindi 'classe' in un'accezione sostantiva del termine;
oppure è molteplice (una poliarchia antagonistica), e quindi
'classe' nell'accezione classificatoria del termine? Insomma,
singolare o plurale? Lo spartiacque è questo. E qui soccorre la
verifica, l'accertamento, proposto da Dahl (v., 1958).Se, argomenta
Dahl, una ruling elite (davvero 'una') esiste davvero, in tal caso
deve risultare empiricamente identificabile. Se c'è, chi è? I
dominanti, chi sono? Per accertarlo la nozione di potere va
operazionalizzata. Come si fa a stabilire se una persona, o un
gruppo, ha potere, e beninteso, un potere decisivo e controllante?
Dahl suggerisce che il potere si rivela solo quando una decisione è
controversa. Dunque, la prova proposta da Dahl si formula così: per
dimostrare l'esistenza di una classe di comando (il sistema di capi
di Michels) occorre stabilire che, per tutta una sequela di
decisioni controverse, prevale sempre uno stesso gruppo
identificabile come tale. Per contro, se questo gruppo non è lo
stesso, non perdura, e non prevale regolarmente, allora Mosca,
Michels e, negli Stati Uniti, C. Wright Mills (v., 1956) hanno
torto: la democrazia esiste e funziona, nella dizione di Dahl (v.,
1956 e 1971), come "poliarchia".
c) Il problema dell'intensità
Torniamo ora a 'maggioranza' in senso procedurale, come regola di
maggioranza, principio maggioritario. Si è già ricordato che questo
principio risale a Locke ('i molti' di Aristotele erano una
quantità, non una regola decisionale). Perché così tardi? A noi,
oggi, il principio maggioritario sembra ovvio. Eppure è stato
accettato con molta riluttanza, e nemmeno oggi da tutti. La
riluttanza verte, in linea teorica, sul diritto, sul maggior diritto
che viene attribuito alla maggioranza. Nella celebre frase di Taine
"dieci milioni di ignoranze non fanno un sapere". Difficile negarlo;
ma l'argomento prova solo che non tutto (e non il sapere) va a
maggioranza, che il principio maggioritario è da usare solo quando
occorre. Non è nemmeno necessario elevarlo al rango di 'diritto', o
anche di un valore. Basta considerarlo una tecnica, il migliore dei
possibili modi di risolvere le controversie pacificamente.La
riluttanza perdura tuttavia in chiave pratica. Come si è già
accennato di passata, la complicazione è data dall'intensità.
Ciascuno di noi sente le questioni con diversa intensità. Alcune
nostre preferenze sono deboli, altre forti, appassionatamente e
intensamente sentite. La regola maggioritaria ignora la diversa
intensità delle preferenze individuali. Ignorandola, di fatto la
pareggia: presume che le preferenze siano di eguale intensità. Ma
non lo sono. E questo spiega come mai il principio maggioritario non
è mai accettato più di tanto, e soprattutto perché non viene
accettato affatto dalle minoranze 'intense': i gruppuscoli della
contestazione del '68, e poi le minoranze religiose, etniche,
linguistiche, se e quando toccate nell'identità che sta loro a
cuore, alle quali sono ulteriormente da aggiungere minoranze intense
su singole questioni, per esempio l'aborto, il divorzio,
l'inquinamento, l'omosessualità. In tutti questi casi finisce che le
maggioranze indifferenti (non intense) non premono, oppure cedono, o
anche perdono. Le piccole democrazie dirette e l'assemblearismo
della contestazione sono il terreno d'azione ideale per 'gruppi
intensi' attesi a vincere a ogni costo a dispetto sia del principio
maggioritario, sia delle maggioranze sostantive.Non ci possiamo
addentrare su quanto l'intensità incida e sposti, tanto a effetto
della teoria come della prassi delle democrazie (v. Sartori, 1987,
pp. 225-238 e cap. 8 passim). Basterà richiamare come l'intensità si
rifletta sul referendum, vale a dire sul modo nel quale un elemento
di democrazia diretta può essere inserito nella democrazia
rappresentativa.
Premettiamo che le tecniche decisionali possono produrre (nella
terminologia che ci proviene dalla teoria dei giochi) esiti a somma
positiva, a somma nulla, e a somma negativa. Somma positiva vuol
dire che tutti guadagnano qualcosa; somma nulla che chi vince
guadagna esattamente quello che la controparte perde; e somma
negativa che tutti perdono. La distinzione fondamentale è comunque
tra somma positiva e somma nulla. Le elezioni popolari così come il
referendum sono entrambe tecniche a somma nulla: o si vince o si
perde. Peraltro le elezioni non sono 'finali' nello stesso senso nel
quale lo è un referendum.Le elezioni eleggono o non eleggono (a
somma nulla) un rappresentante; ma così si avvia un processo che
prosegue in parlamento e poi ancora al governo, che non è più, di
solito, a somma nulla. Le elezioni decidono chi andrà a decidere; e
gli eletti, quando si ritrovano faccia a faccia, dibattono,
negoziano, e spesso addivengono a soluzioni (decisioni) di
compromesso, il che vuol dire a somma positiva: nessuno perde tutto,
e tutti, sia pure in diversissima misura, ottengono qualcosa.
Dunque, le elezioni mettono in moto un processo rappresentativo
'continuo' che tende a produrre esiti a somma positiva. Il che
implica che quel processo consente di accomodare, o altrimenti di
congelare e accantonare, le istanze delle minoranze intense.
Non così il referendum. Qui il voto non elegge chi deciderà, ma
decide ipso facto. Il voto referendario è conclusivo ed è
necessariamente a somma nulla: la maggioranza (referendaria) vince
tutto, e chi resta in minoranza, ivi comprese le minoranze intense,
perde tutto. Dal che consegue che nelle società segmentate (divise
da, e tra, intense minoranze religiose, etniche, o altre), così come
su questioni 'calde' (quali, ad esempio, l'integrazione razziale),
il referendum è controproducente: non chiude ma semmai aggrava i
conflitti. Chi raccomanda un indiscriminato e sempre maggior
decidere diretto del demos e così la democrazia referendaria, ignora
(per cominciare) il problema dell'intensità.
d) Democrazia consociativa e neocorporativismo
Esistono tipi diversi di democrazia rappresentativa? Siccome la
realtà è varia, è sempre bene fermare questa varietà in
classificazioni e tipologie. Così, in riferimento al potere
esecutivo si distingue tra sistemi presidenziali e sistemi
parlamentari; in riferimento al sistema partitico tra sistemi
pluripartitici e bipartitici, polarizzati e no (v. Sartori, 1976); e
in riferimento al principio maggioritario tra democrazie
maggioritarie e consociative. Beninteso le dicotomie sopra
richiamate ammettono forme miste o intermedie. Così, tra
presidenzialismo e no si interpongono sistemi semipresidenziali (la
V Repubblica francese) e di governo di gabinetto (Inghilterra); tra
il pluripartitismo estremo (frammentazione partitica) e il
bipartitismo si interpongono sistemi di pluripartitismo limitato e
moderato. Qui ci soffermeremo soltanto sulla già ricordata
democrazia consociativa teorizzata da Lijphart. La teoria di
Lijphart è stata, all'inizio, tipologica (1968); si è poi sviluppata
empiricamente nella contrapposizione tra democrazia maggioritaria e
democrazia consociativa (1977); trasformandosi ed estendendosi, alla
fine, nella preferenza generalizzata per la "democrazia consensuale"
(1984), una dizione che sostituisce, diluendola, quella di
democrazia consociativa. Nel primo e secondo Lijphart la democrazia
consociativa si applicava alle "società segmentate"; nell'ultimo
Lijphart quella dizione è sostituita e diluita da quella di "società
plurali". I passaggi in questione sono graduali; ma importa
fissarli, ché l'ultimo Lijphart convince assai meno del primo, e
anche del secondo.Cominciamo dall'antitesi tra democrazia
maggioritaria, il cosiddetto 'modello Westminster', e democrazia
consociativa (definibile, in questa contrapposizione, come
non-maggioritaria). La domanda immediata è se i due modelli in
questione siano 'tipi ideali' (polari o estremi) oppure siano 'tipi
empirici' riconducibili quasi senza residuo a casi concreti. Se sono
tipi ideali, allora l'antitesi è illuminante. Ma se la
contrapposizione tra democrazia maggioritaria e consociativa non è
più tra tipi ideali ma invece tra tipi empirici, allora appare
forzata. È vero che nei sistemi bipartitici di tipo inglese la
distinzione, in parlamento, tra maggioranza e opposizione è più
netta che in qualsiasi altro sistema, e questo perché nel
bipartitismo il governo è monopartitico, e quindi il governo governa
e l'opposizione si oppone. Il che non toglie che il principio
maggioritario sia pur sempre, in Inghilterra e nei paesi consimili,
'limitato', e cioè inteso come diritto della maggioranza nel
rispetto delle minoranze. Si consideri inoltre che in gran parte dei
veri e propri sistemi parlamentari - tali perché hanno nel
parlamento il loro epicentro - lo stesso principio maggioritario si
afferma "come un principio di compromesso, di accomodamento degli
antagonismi politici" (v. Kelsen, 1920; tr. it. p. 66). Democrazia
maggioritaria sì; ma non più di tanto.
E la forzatura diventa ancora più marcata quando, nell'ultimo
Lijphart, l'opposto di democrazia maggioritaria diventa "democrazia
consensuale". La modificazione è più terminologica che di sostanza.
Ma la dizione basta di per sé a suggerire che la democrazia
maggioritaria non sia consensuale: il che è fuorviante. Di pari
passo l'ultimo Lijphart (v., 1984, p. 22) modifica ed estende
l'applicabilità della sua formula. Se all'inizio la democrazia
consociativa è necessaria per le società segmentate, ora diventa
ottimale per le "società plurali". Anche a questo effetto la
modificazione è più di dizione che di sostanza, ché le plural
societies sono definite "società che sono nettamente divise [...] in
sottosocietà virtualmente separate". Ma una volta fatta sparire la
parola 'segmentate' il discorso di Lijphart si svolge sull'onda
della parola 'plurali'; e man mano le inclusioni crescono:
dopotutto, un po' di 'plurale' c'è dappertutto. E così la tesi
dell'ultimo Lijphart non è più che il consociativismo è necessario
nei relativamente pochi casi nei quali il criterio maggioritario è
sicuramente controproducente, ma diventa che il
consociativismo-consensualismo è preferibile anche quando non è
necessario.
Quale, dunque, il Lijphart che più convince? Premesso che tutte le
liberaldemocrazie sono maggioritarie con limiti, è vero che lo sono
in diversissima misura. La nozione di democrazia consociativa
coglie, e coglie proficuamente, il caso del ricorso minimo a
decisioni maggioritarie, il caso nel quale la maggioranza è prodotta
da 'minoranze concorrenti' a ciascuna delle quali viene riconosciuto
un diritto di veto. Ne risulta, a detta di Lijphart, che il
consociativismo è caratterizzato da maxicoalizioni e da un
proporzionalismo generalizzato (elettorale e anche spartitorio: la
proporz austriaca). Ma la caratteristica decisiva, ci sembra, è
quella messa in evidenza dal primo Lijphart (e poi lasciata slittare
in penombra), e cioè che il consociativismo richiede - per
funzionare come previsto dal modello - "élites cooperative", élites
solidali nel neutralizzare le spinte dirompenti delle società
segmentate. Tutto ciò posto, la tesi che convince è che la
democrazia consociativa sia un rimedio, ma pur sempre un rimedio,
per le società 'difficili' a struttura segmentata. La tesi che
convince assai meno è, invece, che la democrazia consensuale (e cioè
la versione allargata e diluita del consociativismo) sia buona in
assoluto, e cioè sempre migliore della democrazia maggioritaria.
Intanto, anche il 'modello Westminster' è un modo di gestire il
consenso (sarebbe davvero strano che fosse un modo di attizzare il
conflitto); e non è per nulla sicuro che ne sia una gestione
infelice. Difatti l'obiezione che si può fare al modello
raccomandato da Lijphart è che il perenne accomodamento delle
divisioni e dei conflitti rischia di consolidarli e anche di
moltiplicarli e aggravarli. La pace a ogni costo è costosa e foriera
d'impantanamento (si vedano le otto direttrici di marcia della
democrazia consensuale riassunte in Lijphart, 1984, p. 30). Senza
contare che un sistema affidato, a titolo di condizione necessaria,
a élites cooperanti e solidali è un sistema intrinsecamente fragile:
bastano, per farlo crollare, élites che scoprano, o riscoprano, il
cannibalismo competitivo.
Il Libano, uno dei primi casi di Lijphart, è esploso nel peggiore di
tutti i modi possibili. Il Belgio 'consociativo' riesce a
sopravvivere facendo di necessità virtù; ma ciò non dimostra che la
formula odierna sia superiore a quella preesistente. La Svizzera è
l'esempio sempre vincente; ma la Svizzera non dispiega, come
società, nessuna delle tensioni che richiedono soluzioni
consociative: è tranquillamente 'segmentata' e basta. Si è molto
discusso se l'Italia sia consociativa o no. Lo è in parte, ma non
abbastanza (la società italiana non è, per esempio, segmentata). Il
che non impedisce di chiedere se all'Italia convenga diventare più
consociativa o, invece, più maggioritaria. Per l'ultimo Lijphart,
sappiamo, la via da battere è sempre la prima. Al che si può opporre
che il consociativismo consolida e anche incoraggia la
frammentazione, laddove un maggioritarismo ben gestito riesce a
ridurla.Diverso è il dibattito sul cosiddetto neocorporativismo, che
può essere in qualche modo collegato a quello sul consociativismo,
ma con chiara cognizione della rispettiva diversità. La democrazia
neocorporativa non è tanto un tipo di democrazia, quanto una
trasformazione interna del modo di operare dei sistemi democratici
soprattutto (ma non soltanto) a fronte dei conflitti di lavoro e
della cosiddetta politica dei redditi. Il neocorporativismo ha molte
varianti (v. Schmitter e Lehmbruch, 1979; v. Williamson, 1989), ma
l'idea centrale è che sindacati, padronato e Stato gestiscono il
sistema economico 'accorpati' in una fitta rete di interessi comuni
gestiti 'contrattando' più che lottando (scioperando). Una
importante modifica introdotta da questa interpretazione riguarda il
ruolo dello Stato, che cessa di essere un arbitro sopra le parti per
diventare esso stesso parte. E anche qui il dibattito è se la
trasformazione neocorporativa sia da accettare, se e quando si dà,
come male minore ovvero come soluzione ottimale.
10. Le condizioni della democrazia
a) Fattori facilitanti
Liberalismo, un sistema politico, non è liberismo, un sistema
economico. Del pari, la liberaldemocrazia è un sistema politico, non
un sistema economico. Peraltro la prima distinzione è più netta
della seconda.Il costituzionalismo liberale emerge a cavallo tra Sei
e Settecento e dunque, nel fatto, assai prima del vangelo
liberistico. E nemmeno logicamente si vede perché il liberalismo sia
da collegare a stati economici. Il liberalismo pone in essere lo
Stato limitato, il controllo del potere e la libertà da (del
cittadino); ma non distribuisce beni, non attende al benessere.
Difatti il liberalismo è nato in società ancora povere (poverissime
per i nostri criteri) e prima della rivoluzione industriale. Non
esistono, dunque, specifiche condizioni o precondizioni economiche,
né liberistiche, né di ricchezza, né altre, del liberalismo come
tale. Ma il problema cambia quando il liberalismo si avvince alla
democrazia e in funzione della componente democratica della
liberaldemocrazia. Ché la democrazia inevitabilmente, anche se con
velocità storicamente molto diverse, approda a distribuzioni e
redistribuzioni di ricchezza.Alla fine della seconda guerra mondiale
si dava largamente per scontato che, specie nel Terzo Mondo,
occorressero in primo luogo riforme economiche (riforma agraria, una
più equa distribuzione delle ricchezze, più lo sviluppo
industriale), riforme che avrebbero quasi automaticamente generato,
nella loro scia, la democrazia politica. Questo era un semplicismo
economico propugnato da economisti. Ma anche l'analisi più
approfondita e meditata delle condizioni della democrazia che si è
successivamente sviluppata su impulso iniziale di S. M. Lipset (v.,
1960) dà pur sempre centralità alla componente economica (v. Usher,
1981). Che l'economia sia la 'causa' della democrazia non è più, in
questa forma semplicistica, tesi sostenuta da nessuno. Ma la tesi
che pur sempre sussiste è che un 'prima' economico debba precedere
il 'dopo' democratico. Al che si oppone, o si può opporre, che è la
democrazia che viene prima e che 'causa' lo sviluppo economico.In
verità, se guardiamo particolareggiatamente ai casi di successo
economico e/o - disgiuntamente o congiuntamente - di successo
democratico, se ne ricava che non si dà nessun singolo fattore
causale che debba necessariamente agire per primo. Se così, il
discorso è da spostare su condizioni facilitanti - condizioni che
non sono né necessarie né sufficienti - e investe, potremmo dire,
'ottimizzazioni convergenti'. È dunque in chiave di condizioni
facilitanti che passeremo tra poco a considerare il nesso tra
democrazia liberale ed economia di mercato. Ma prima vediamo in
generale.
Come si arriva alla democrazia? In moltissimi modi che si riflettono
in una molteplicità d'interpretazioni, teorie e modelli (v. Morlino,
1986, pp. 94-132; v. anche 1980, cap. V). Per dipanare la matassa è
utile distinguere tra percorsi, da un lato, e fattori o condizioni
dall'altro. Non ci possiamo in alcun modo addentrare nei primi (v.
Rokkan, 1970, pp. 72-144); e quanto ai secondi occorre quantomeno
ricordare che la democrazia presuppone la 'politica come pace' (non
la politica come guerra teorizzata da Carl Schmitt), l'autonomia
della società civile (una caratteristica che si riallaccia alla
separazione tra pubblico e privato e alla secolarizzazione della
politica), e credenze di valore pluralistiche. Si deve altresì
sottolineare che tra i fattori culturali il fattore religioso può
pesare assai più delle condizioni economiche o socioeconomiche.
Basti osservare, a conferma, che ancora nel 1990 è raro imbattersi,
in giro per il mondo, in Stati islamici liberi (e men che meno
democratici). Nell'area islamica la differenza tra ricchezza (gli
Stati ricchi di risorse petrolifere: Iran, Iraq, Arabia Saudita,
Indonesia) e povertà non ha fatto, a tutt'oggi, differenza. Dunque i
fattori in gioco non sono soltanto economici. Ciò premesso,
vediamoli.
Che oggi democrazia e benessere siano frequentemente associati (la
correlazione è relativamente forte), è vero, ed è anche abbastanza
ovvio. Se la tesi è formulata come la formulava prudentemente Lipset
(v., 1960, pp. 49-50), "tanto più un paese è prospero, tanto più è
probabile che sostenga la democrazia", allora è difficile da
smentire. Ma una correlazione non spiega. Per spiegare occorre
quantomeno un'imputazione causale: per esempio che il benessere
'facilita' la democrazia. È vero? Abbastanza, seppure con la grossa,
davvero grossa eccezione dell'India, democratica ma povera.Per
contro, che la democrazia produca benessere è ipotesi dubbia. Se lo
produce, ciò avviene probabilmente perché le democrazie non
disturbano i processi economici più di tanto, e cioè lasciano fare
il mercato. Ma la democrazia in sé e per sé, come sistema politico,
riesce anche a impoverire. L'Uruguay illustra bene questo caso; e
molte democrazie intermittenti dell'America Latina sono state,
quando in carica, dissipatrici di ricchezza. E se Mancur Olson (v.,
1982) ha ragione quando sostiene che qualsiasi società 'vecchia',
democrazie incluse (e Inghilterra in testa), rallenta, con le sue
incrostazioni irrigidenti, lo sviluppo economico, allora democrazia
e declino economico si possono benissimo appaiare. Sia come sia,
veniamo al nesso tra democrazia e mercato.
b) Democrazia e mercato
È da più di mezzo secolo che si dibatte se la democrazia presupponga
un sistema di mercato. Per la verità questo dibattito è stato
largamente deviato sulla nozione di capitalismo e di economia
capitalistica. Ma il collasso dei sistemi a economia pianificata ha
di per sé rettificato la messa a fuoco: ché la sconfitta
dell'economia pianificata è, prima di tutto, la sconfitta del
non-mercato, di una economia comandata incapace di fondarsi su un
calcolo economico dei costi (come già ben dimostrato da Hayek: v.,
1935). Della sostituibilità del capitalismo si continuerà a
discutere; ma di quella del mercato no: la vittoria di quest'ultimo
è schiacciante. Certo, le formule di mercato possono essere varie (e
variamente efficienti-inefficienti); ma l'essenziale del meccanismo
- il calcolo dei costi - non è più ripudiabile. È dunque corretto
centrare il problema su democrazia e mercato.Cominciamo dal rilevare
che il mondo abbonda di sistemi di mercato senza democrazia. Invece
tutte le liberaldemocrazie passate e presenti sono, al tempo stesso,
sistemi di mercato. Da questa constatazione si ricava la certezza
che il mercato non è condizione sufficiente di democrazia, e il
quesito se la democrazia trovi nel mercato una sua condizione
necessaria. Stabilito che il mercato non dà democrazia, resta da
stabilire se la democrazia postuli il mercato. La risposta è:
probabilmente sì in chiave di ottimizzazione; forse no in chiave di
necessità.
L'argomento è da svolgere sia in sede economica che in sede
politica. Il discorso economico si può riassumere così: quanto più
una democrazia conta sul benessere ed è attesa a distribuirlo, di
altrettanto richiede un'economia in crescita, e cioè una torta
crescente che consenta sempre più ampie spartizioni. Vero è che
anche il mercato può fallire; vero è che produrre la torta è un
conto, suddividerla un altro; ma se la torta non c'è, se la gallina
non fa uova, allora nulla. Peraltro, il nesso in questione è posto
da un'aspettativa. Se, in ipotesi, ci contentassimo di una
democrazia austera, spartana, non spendacciona, allora non è più
detto che il mercato ne sia una condizione sine qua non. Oggi però
anche le società sottosviluppate, o comunque in stato di autentica
povertà (come i paesi devastati dal fallimento delle economie
pianificate), ricavano i loro livelli di aspettativa dall'esempio
delle società sviluppate.
Passiamo al discorso politico. Per quanto sistema politico e sistema
economico siano o diventino strettamente interconnessi, le due cose
non sono mai la stessa, e il requisito politico della
liberaldemocrazia è la diffusione del potere: una
diffusione-dispersione atta a consentire spazio e tutela alla
libertà individuale. Non è - come sostengono i marxisti - che la
liberaldemocrazia rifiuta un'economia pianificata di Stato perché la
democrazia capitalistico-borghese nasce e sussiste per difendere la
proprietà privata; è, pregiudizialmente, perché qualsiasi
concentrazione di tutto il potere - specie di tutto il potere
politico congiuntamente a tutto il potere economico - crea un potere
soverchiante contro il quale all'individuo non resta possibilità di
difesa. Già lo sapeva Trockij: nel comunismo chi non obbedisce non
mangia. Quando lo Stato diventa il solo datore di lavoro, la
prigione non occorre più: basta licenziare e non riassumere.
Dunque l'argomento è che i sudditi diventano cittadini (con diritti
e 'voce') solo all'interno di strutture politiche, economiche e
anche sociali che spezzino il potere concentrato (da non confondere
con la centralizzazione del potere) mediante una molteplicità di
poteri intermedi e controbilancianti. A questa condizione tassativa
qualsiasi ordinamento economico è politicamente accettabile. Se poi
quell'ordinamento funziona poco e male sul piano economico, in tal
caso è per tornaconto, al fine di massimizzare il benessere, che
possiamo preferire il mercato. Ma, si diceva, l'accoppiata
democrazia-mercato è ottimizzante; non è ancora dimostrato, a
rigore, che sia obbligata e obbligante.
11. Democrazia e no
Il sostantivo democrazia denota e circoscrive una cosa, una
determinata realtà. 'Democratico' è invece un predicato che connota
una proprietà o attributo di qualcosa. Il sostantivo induce a
chiedere cosa è, e cosa non è, democrazia. L'aggettivo induce,
invece, a graduare: democratico in che misura, quanto. Lo sviluppo
quantitativo delle scienze sociali ha diffuso l'idea che la domanda
'cosa è democrazia?' sia obsoleta e superata dalla domanda 'quanta
democrazia?'. Ma le due domande non sono fungibili, e sono entrambe
corrette a patto che vengano logicamente trattate in modo
corretto.Che cosa è democrazia? L'obiezione di rito è che questa
domanda porta a dicotomizzare tra democrazia e no. Non è
necessariamente così. Certo, la determinazione dei concetti è sempre
data, quantomeno in via preliminare, da definizioni a contrario. Il
bello è il contrario del brutto, il bene il contrario del male, il
caldo il contrario del freddo. Ma non è che questi contrari
escludono casi o stati intermedi. Ovviamente ammettono il semibello
e il semibrutto, il bene-male, e il tiepido. Chi ha mai stabilito,
in logica, che per i contrari in generale tertium non datur? Certo
che si dà. Il principio aristotelico del 'terzo escluso' si applica
soltanto ai 'negativi', soltanto alla specifica sottoclasse dei
contrari che si definiscono per esclusione-negazione reciproca (blu
oppure non-blu, sposato oppure non-sposato, vivo oppure morto).
Dunque, la domanda 'che cosa è democrazia' non impone dualizzazioni
manichee, distinzioni tra tutto e nulla. E niente vieta che anche il
cosiddetto trattamento qualitativo del concetto di democrazia
includa semidemocrazie, quasi-dittature e tutte le miscele
intermedie che vogliamo.
Ciò precisato, è anche importante trovare un contraddittorio, un
negativo, che davvero stabilisca dove la democrazia finisce, che
cosa 'democrazia' include e che cosa esclude. Perché se non sappiamo
a che cosa 'democrazia' si applica, oppure non si applica, tutto
diventa nebuloso e il discorso si impantana (anche nell'imbroglio).
Per esempio, da che cosa ricaviamo empiricamente le proprietà o le
caratteristiche dei sistemi democratici? Ovviamente dalle democrazie
che osserviamo, che esistono. Ma se non abbiamo deciso quali sistemi
siano o non siano democratici, allora non possiamo decidere quali ne
siano le proprietà caratterizzanti. È così che negli ultimi
cinquant'anni si è potuto spacciare tutto, o quasi tutto, per
democrazia. Il che non ha giovato né alla chiarezza delle idee, né
alla causa della democrazia. Tra i possibili negativi di democrazia
forse il più calzante è autocrazia. Qui davvero tertium non datur,
perché i principî di investitura e di legittimità 'saltano', e cioè
non variano per gradi. Autocrazia è autoinvestitura, proclamarsi
capo da sé (o per diritto ereditario), laddove il principio
democratico è che il potere può essere conferito solo dal popolo, o
comunque da quella popolazione sulla quale il potere viene
esercitato. Qui abbiamo dunque due criteri che si definiscono senza
residuo per esclusione reciproca: aut aut, o così o non così. Il che
ci consente di stabilire senza incertezze e in ogni occasione dove
c'è democrazia oppure no.
Quando passiamo alla domanda 'quanta democrazia?' l'intento non è
più di identificare un oggetto, ma di misurarlo, sia in valori
numerici (v. ad esempio Morlino, 1980, appendice; v. Powell, 1982),
sia, e molto più spesso, in termini di più-meno. In tal caso non
procediamo per opposti, ma per gradi. Il trattamento logico non è
più binario o dicotomico (sì-no) come nel procedimento
classificatorio, ma invece 'continuo' (maggiore-minore), come in
ogni misurazione.In verità, 'quanta democrazia' sta per quanta
democraticità: predichiamo qualcosa di qualcosa; il che comporta che
il referente si slarga. Le domande possono essere due: primo, in che
misura una democrazia è democratica; secondo, e alternativamente, in
che misura qualsiasi città politica è democratica. Nel primo caso
dobbiamo anzitutto identificare che cosa sia democrazia. Nel secondo
caso no: la presunzione è (a torto o a ragione) che in qualche
misura o grado vi sia, o possa essere, democraticità ovunque. Ma in
ogni caso chi chiede 'quanta democrazia' si deve prima chiedere:
democrazia rispetto a quali caratteristiche? Tanto la democrazia
scompare come entità, di altrettanto occorre stabilire quali siano
le proprietà o attributi della democraticità. Se predichiamo
qualcosa, che cosa è che predichiamo? La caratteristica prescelta
può essere 'partecipazione', oppure può essere 'principio
maggioritario', oppure può essere 'eguaglianza', e poi anche
consenso, competizione, pluralismo, costituzionalismo, e così via.
Nulla vieta, si intende, di ricondurre 'democraticità' a più di una
caratteristica, o anche a tutte quante. Ma se vogliamo approdare,
lungo questa via, a un indice di democraticità che le aggreghi in
una singola misura, allora si deve tener presente che ogni
caratteristica in più aggiunge complicazioni in più.Dunque, 'che
cosa è' e 'quanto' sono quesiti diversi (anche in chiave di
trattamento logico). Chi non risponde al primo lascia il concetto di
democrazia senza definizione, talché nemmeno sappiamo se e quando il
termine si applica. Rispondere al secondo quesito sviluppa e precisa
l'analisi empirica delle democrazie. Una comprensione esauriente
della democrazia è tale, allora, perché li affronta entrambi. Ma in
tal caso conviene che prima si stabilisca che cosa la democrazia è,
e poi si accerti di quanto una democrazia sia più o meno democratica
di un'altra. La tecnica di analisi più proficua è di stabilire, in
premessa, gli opposti; e poi di concepirli come i poli estremi del
continuo, e più ancora della dimensione, definita da quei poli.
Mettiamo che gli opposti prescelti siano democrazia-dittatura oppure
democrazia-autoritarismo. In questi e simili esempi la questione di
quali sistemi siano più o meno democratici, quali a mezza strada
(semidemocratici), e quali più-o-meno non-democratici, si risolve
piazzando i casi concreti, i singoli regimi, in punti diversi del
continuo, più o meno vicini al polo al quale sono da avvicinare.In
ogni caso, qualsiasi teoria della democrazia è tenuta a stabilire
che cosa democrazia non è (qual è il confine o criterio che divide
la democrazia dai suoi opposti, e ancor più dal suo negativo), per
poi passare a misurare quanto una democrazia sia più o meno
democratica di un'altra (in funzione delle caratteristiche
dichiarate atte ad accertarlo), ovvero se elementi (caratteristiche)
di democraticità sussistano in una qualche misura in qualsiasi
sistema politico.
Enciclopedia del Novecento (1977)
di Georges Burdeau
Sommario: 1. Introduzione. 2. La democrazia come valore. 3.
Evoluzione dell'esigenza democratica. a) Garanzia della libertà. b)
Strumento di giustizia. c) La ricerca del benessere. d) La
democrazia contestata. 4. La democrazia come forma di governo. a) lI
popolo della democrazia. b) Democrazia governata e democrazia
governante. c) Potere aperto e potere chiuso. d) Le possibilità
della democrazia nelle società postindustriali.
1. Introduzione
Un tempo, quando la democrazia era ancora soltanto un ideale, era
facile darne una definizione. Poiché si contrapponeva ai sistemi
politici allora in vigore, che si fondavano sul principio
d'autorità, sembrava che essa dovesse realizzarsi nel momento in cui
gli affari comuni fossero gestiti dai governati. Il ‟governo del
popolo da parte del popolo per il popolo" sembrava rispondere in
modo soddisfacente a tale esigenza. Senza dubbio tale formula
implicava una filosofia politica, giacché il popolo poteva reclamare
l'esercizio del potere, solo in quanto ne era il titolare. Ma di
fatto questo postulato veniva considerato come implicito nella
strutturazione dei meccanismi del potere popolare. La democrazia era
essenzialmente una forma di governo.
Questa concezione statica, che identifica la democrazia con uno
schema costituzionale, si è rivelata insufficiente una volta che gli
uomini non si sono più limitati a rappresentarsi la democrazia ma
hanno cominciato a viverla. Risultò allora evidente che il concetto
puramente formale della democrazia era veramente troppo angusto per
dar conto di un'esigenza il cui contenuto si ampliava al ritmo
dell'evoluzione sociale. Ne consegue che l'analisi della democrazia
porta a considerarla più una tendenza che una forma. D'altronde,
anche considerando esclusivamente le istituzioni politiche in cui
essa prende corpo, risulta evidente come la pratica abbia spezzato
l'unità concettuale che aveva contrassegnato la democrazia presso i
suoi primi teorici. ‟Il governo del popolo da parte del popolo...":
sta bene, ma quale popolo? e a quali fini? Lo stesso principio del
governo democratico poneva ineluttabilmente tali interrogativi. La
discordanza delle risposte che ad essi sono state date rende
inevitabile la costatazione che democrazia è un termine che, se si
vuol render ragione della realtà, va scritto al plurale. Tuttavia,
tutte queste differenti immagini della democrazia hanno visibilmente
una caratteristica comune: si professano tutte al servizio
dell'uomo. Il dramma è che esse non ne hanno una stessa concezione;
cosicché, prendendo le mosse dall'esame di una formula di governo,
ogni riflessione sulla democrazia porta a un inquietante
interrogativo metafisico: che cosa è l'uomo?
2. La democrazia come valore
Nessuna testimonianza è più probante dell'odierna politicizzazione
della sfera sociale quanto l'estrema varietà dei fenomeni che oggi
vengono qualificati con l'aggettivo democratico. Sono detti
democratici uno spettacolo, un ristorante o un mezzo di trasporto,
alla stessa stregua, del resto, di certi metodi d'insegnamento,
certe tecniche di distribuzione dei prodotti, certe concezioni
urbanistiche o dell'arte musicale. Dall'empireo della teoria
politica, l'idea democratica è discesa nella prosaicità
dell'universo più quotidiano per servire come termine di riferimento
per situazioni o comportamenti che non hanno nulla a che fare con
l'organizzazione o il funzionamento dei poteri pubblici.
Contrariamente alle apparenze, ciò non rappresenta una degradazione
della nozione di democrazia. All'opposto, il suo intervenire nei
fenomeni più diversi rivela ch'essa è utilizzata come un criterio
del loro valore. Un valore che si connette alla posizione della
maggioranza rispetto ai fatti o ai rapporti considerati: questi,
infatti, saranno ritenuti democratici nella misura in cui sono
promossi dalla maggioranza o suscitati in suo favore. Per banale che
possa apparire, questa osservazione assume tutta la sua portata se
si tiene presente che tale evocazione del numero va molto al di là
del dato aritmetico: essa introduce nell'aggettivo ‛democratico'
un'implicazione morale. In effetti, oggigiorno, nessuno si
sognerebbe di porre apertamente in dubbio che, là dove la
maggioranza è il motore o la beneficiaria di un'istituzione, là dove
essa sceglie e decide, là dove si tien conto delle sue aspirazioni,
là non sia il Bene.
Ci porremo in seguito il problema dell'origine e dello sviluppo di
tale credenza o postulato. Ma ciò che va fin d'ora sottolineato è
che tale valorizzazione della democrazia, in base agli atteggiamenti
e alle aspirazioni della massa, non rappresenta una frattura nel
modo di intendere l'idea democratica. Certo, è facile contrapporre
il fenomeno contemporaneo dell'avvento delle masse all'originaria
concezione della democrazia, che si radicava in una determinata
immagine dell'uomo considerato come portatore, nella sua natura
individuale, di un valore universale; ma in realtà non vi è quella
contraddizione che alcuni si ostinano a denunciare. La democrazia
del numero non si oppone - nel suo fondamento - alla democrazia
individualista, ma ne costituisce una continuazione ampliandone la
prospettiva, estendendo, cioè, a tutti gli uomini, nelle contingenze
della loro situazione concreta, il privilegio di partecipare alla
dignità umana. Forse che il numero sarebbe degno di rispetto, se si
potesse mettere in dubbio la qualità degli elementi che lo
compongono? So bene che talvolta la massa può offuscare tale dignità
umana; ma è precisamente in quel momento che la massa cessa di
essere un criterio di democrazia; essa non è più un modo d'essere
degli uomini tra loro, ma è soltanto una forza bruta, senza volto e
senza coscienza, una forza in cui le personalità umane si dissolvono
e di cui si sa anche troppo bene come sia facile volgerla contro la
stessa democrazia.
Che la democrazia sia il Bene, è una convinzione di cui, su un piano
filosofico, si può discutere l'esattezza. Ciò che sembra invece
impossibile contestare è la considerevole forza che viene all'idea
democratica dal significato morale che le si attribuisce. L'etica
che essa incarna le conferisce, come forma politica, un'efficacia
senza pari, che rasenta l'invulnerabilità. E, in realtà, nel
conflitto che contrappone le varie forze politiche, i fautori della
democrazia beneficiano di una superiorità, loro esclusiva, che
consiste nel poter disonorare l'avversario. Attribuendo infatti alla
loro lotta un significato morale, potranno - se sono i più forti -
mitigare la brutalità della forza presentandola come strumento del
Bene e, se sono i più deboli, imputare la loro sconfitta a una
congiura di forze malvage. Vincitori, saranno degli eroi; vinti, dei
martiri. E poiché il sangue dei martiri non è mai versato invano,
l'idea democratica trova, nelle sue stesse sconfitte, la premessa di
immancabili rivincite. Tutto ciò dipende dal fatto che, nella
mentalità comune, l'idea democratica esprime imperativi di coscienza
che nessuna forza potrebbe mai cancellare. Al contrario, al suo
confronto, gli avversari non rappresentano che interessi, ambizioni,
bramosie di dominio. Sopra la loro coalizione, il cielo è vuoto: nè
il Diritto nè la Giustizia assistono con la loro presenza di numi
tutelari l'esercito dei combattenti, la loro unica risorsa consiste
nel profittare delle circostanze, nello sfruttare rancori o nello
stimolare appetiti. Nel campo degli avversari della democrazia,
tutto si colloca al livello della mediocrità umana, laddove, in
virtù di un paradosso che soltanto la fede può spiegare, la
democrazia, che pretende di avere come criterio di misura l'uomo,
mobilita al proprio fianco gli dei.
Si comprende quindi l'accanimento con cui movimenti sociali e regimi
politici si proclamano democratici. Se tentano di farsi scudo di
quel nome, anche quando ne ripudiano le forme, essi non lo fanno
tanto per sedurre il popolo e ottenerne l'appoggio - il popolo sa
distinguere benissimo l'etichetta dalla merce - quanto per evitare
le conseguenze politiche della riprovazione morale che colpisce ogni
sistema che metta in dubbio l'eccellenza della democrazia. Per
convincersene, basta considerare l'insistenza con cui i regimi
autoritari cercano di ingannare l'opinione internazionale sulla
propria vera natura.
Tale omaggio indiretto, resole dal realismo dei dittatori, prova -
se ancora ce ne fosse bisogno - che la democrazia attinge la propria
forza più dall'ideale che incarna che dalle istituzioni in cui si
manifesta. Le istituzioni possono sbagliare: il loro errore sarà
imputato alle circostanze; il numero può ingannarsi nel valutare il
bene collettivo: il suo errore apparirà come conseguenza di un
difetto di informazione; la massa può lasciarsi trascinare ad
atteggiamenti demagogici: i suoi eccessi saranno imputati alle
manovre di un agitatore diabolico. In nessun caso l'ideale sarà
offuscato e sempre, dopo i disinganni della pratica, tornerà a farsi
sentire l'invito persuasivo: ‟E se ricominciassimo?". Il fatto è che
l'idea democratica trova nell'ideale su cui si fonda non soltanto la
fonte della propria invulnerabilità, ma anche il motore della
propria dinamicità.
Se l'ideale democratico è sempre sopravvissuto ai disinganni che
hanno non di rado accompagnato il suo attuarsi, se non è stato
offuscato dalle miserie dell'esperienza vissuta, se nel corso della
storia non gli sono mai mancati i sostenitori, anche quando le folle
si abbandonavano inebetite all'oppressione, ciò si deve al fatto
ch'esso si fonda su di una convinzione imperitura: la fede nella
grandezza dell'uomo. Certo, la democrazia raggiunge la sua
dimensione più vera soltanto sul piano politico, in quanto determina
il fondamento del potere. Ma quella sovranità del popolo ch'essa
proclama è persuasiva solo in quanto il popolo è la sintesi dei
valori umani che riunisce in sé. Il popolo è portato ad assumersi la
responsabilità del proprio destino, in quanto ogni uomo è chiamato a
una medesima responsabilità in ciò che lo concerne personalmente.
Tale responsabilità lo nobilita, giacché testimonia della sua
libertà. Ed è in questo senso che l'uomo è libero agli occhi dei
filosofi dell'antichità: la ragione che dimora in lui lo affranca,
anche quando sia di condizione servile. Ed è ancora in tal senso
ch'è possibile parlare del fermento democratico del messaggio
evangelico: che cosa varrebbero, infatti, agli occhi di Dio
un'adorazione e una fede che non fossero libere? E nella stessa
prospettiva la scuola giusnaturalista, dopo aver vanamente
perseguito un compromesso con l'assolutismo, doveva approdare alla
filosofia democratica, giacché i diritti che l'uomo ha per natura
possono realizzarsi pienamente solo nella misura in cui il potere,
che procede dalla sua volontà, non rischi di lederli.
Il fondamento della democrazia è dunque la fiducia nell'uomo. Questo
ottimismo può derivare da fonti diverse: può ispirarsi al
razionalismo laico, come agli insegnamenti della rivelazione divina;
può spiegarsi con l'innata generosità di colui che lo professa o
giustificarsi mediante una interpretazione della storia. Poco
importa l'eterogeneità delle fonti dal momento ch'esse, convergendo
tutte nell'affermazione della dignità della persona umana, postulano
la democrazia come l'ambiente necessario al suo esplicarsi.
Ma il carattere estremamente generale del fondamento della
democrazia e la diversità delle correnti di pensiero cui essa appare
come l'unica soluzione valida dei problemi posti dalla vita in
società, se spiegano indubbiamente la risonanza universale dell'idea
democratica, non spiegano la forma esteriore che essa assume nelle
sue incarnazioni storiche. Per comprenderne le metamorfosi, gli
scacchi e i successi, occorre tener presente che la democrazia non
si limita a postulare astrattamente il valore originario dell'uomo,
ma è un'esigenza che mira a iscrivere questo valore in un momento
concreto della storia. E, poiché l'oggetto di tale esigenza è
funzione di un ambiente, di un'epoca e di una cultura, essa è di
necessità soddisfatta in modo sempre contingente e provvisorio. Più
oltre avremo occasione di ricostruire l'evoluzione del contenuto di
questa esigenza. Ma ciò che ora interessa osservare è ch'essa, a
mano a mano che viene soddisfatta, si amplia; va sempre oltre ciò
che ha ottenuto, perché non è mai appagata. È cosa ben nota che un
democratico troverà sempre qualcuno più democratico di lui, pronto a
rimproverargli, appunto, la sua tiepidezza di democratico. Quando
viene praticato dai partiti, questo continuo rilancio può apparire
spiacevole e sospetto. Ma bisogna ammettere che esso ha le sue
radici nella stessa idea democratica, che tende ad arricchire
incessantemente i propri dettati con nuove speranze. Il fascino
della democrazia sta proprio nel suo non esser mai pienamente
realizzata. E non si tratta di uno slogan: si è voluta la democrazia
nello Stato, e si è avuta la democrazia politica; la si è voluta nei
rapporti economici, ed è stata la democrazia sociale; la si è voluta
nell'impresa, ed ecco l'obiettivo della democrazia industriale; la
si vuole ora nella scuola, nella famiglia, nell'esercito e
addirittura, come testimoniano recenti incidenti, nelle prigioni!
Tale progressione, lungi dall'essere una degenerazione patologica
dell'idea democratica, ne rivela l'essenza. Essa è in relazione con
quell'inquietudine di fondo che porta gli uomini a pensare di valer
più di quanto non sia loro concesso dalla loro situazione attuale.
Sul piano filosofico si affermerà il concetto che l'idea democratica
conferisce alla persona umana una dimensione che supera sempre, per
qualche aspetto, le condizioni della sua esistenza; a livello
sociologico si vedrà in essa un appello per liberare gli individui
dalle alienazioni che gli derivano dall'ordine sociale costituito; e
infine, sul terreno psicologico, se ne troverà la radice in un
sentimento di frustrazione dal quale la democrazia, realizzandosi,
libererà l'uomo portandolo a una pienezza sia materiale che
spirituale.
Quali che siano i punti di vista che determinano queste convinzioni,
è tuttavia chiaro che l'eticà democratica non è separabile dal
movimento che suscita. Entro questo quadro, non può sorprendere che
l'ideale democratico non abbia mai cessato di costituire per gli
uomini il punto di riferimento nel lento cammino che, malgrado le
tortuosità del corso storico, deve condurli a raggiungere, su tutti
i piani, la pienezza del loro essere. Per colui che accetta questa
prospettiva ottimistica, il valore morale della democrazia viene
rafforzato da una giustificazione finalista, che ne accentua il
dinamismo: l'idea democratica è il motore che, nel corso dei secoli,
spinge l'uomo a realizzare la propria vocazione.
Ci si può tuttavia domandare se, in quanto tecnica di governo, la
democrazia riscuota un'adesione pari a quella che le procura il suo
incontestabile valore etico. Scartare una risposta negativa
significherebbe non tener in alcun conto i fatti. La democrazia
contemporanea è un regime di dubbia efficacia: genera con frequenza
disordini e le politiche cui dà luogo difettano di coerenza. La sua
sensibilità agli umori popolari la rende inadatta alle prospettive
di lungo periodo, che sole - si afferma - garantirebbero la
stabilità di un paese. Ne è prova il fatto che, ogniqualvolta uno
Stato si trova di fronte a una crisi interna o internazionale, la
cui gravità metta in giuoco la sua esistenza, le istituzioni
democratiche sono, se non abolite, perlomeno messe tra parentesi, sì
da permettere ai governanti di esercitare, senza controlli,
l'autorità necessaria. Queste critiche sono talmente note che non è
necessario insistervi. Ma il fatto più grave è che ci si può
chiedere se sia possibile piegare la pratica politica, cioè
l'esercizio del potere, al rispetto del principio democratico. In
mancanza di una tale coordinazione, il regime democratico sarebbe,
nel migliore dei casi, solo una approssimazione molto imperfetta a
quel principio e, nel peggiore dei casi, un'ipocrisia mirante a
mascherare, dietro il prestigio di un grande nome, una realtà molto
meno rispettabile.
Ma, anche senza arrivare a questi estremi, è giuocoforza riconoscere
che, come forma di governo da parte del popolo, la democrazia trova
la sua collocazione in regimi equivoci. Certo, a una delle sue forme
- la democrazia marxista - l'attributo dell'equivocità sembra
difficilmente applicabile. Sia a livello della dottrina che della
pratica politica quotidiana, in URSS, in Cina e nelle democrazie
popolari l'eliminazione dei centri di potere economico lascia posto
solo a un potere politico che si incarna, totalmente ed
esclusivamente, nel popolo. Non è infatti quest'ultimo che detiene
tutto il potere ovunque, nelle assemblee, nelle fabbriche e nei
campi? I valori, le istituzioni e gli obiettivi acquistano un
carattere di certezza che esclude in partenza qualsiasi ambiguità.
Tuttavia, vista dal di fuori, questa sicurezza non è completamente
convincente. Dov'è il potere? Nelle masse popolari o nel Praesidium
del Soviet Supremo? Nel partito o nell'uomo che se n'è assicurato il
dominio? E, allora, non emerge forse l'equivoco dalle fluttuazioni
che, a seconda delle circostanze, fanno passare l'autorità dalle
masse al partito, e dal partito alla cerchia ristretta dei suoi
dirigenti? E una democrazia che tollera l'incertezza circa la sede
del potere politico non è già di per sé ambigua? Il dubbio si
aggrava quando si confronti la filosofia con la struttura del
regime. In teoria, si tratterebbe di eliminare la subordinazione dei
governati mediante la cancellazione del potere statale, secondo la
teoria marxiana del deperimento dello Stato; ma, nella realtà
pratica, i vincoli coercitivi si rafforzano e, di fronte a un potere
esoterico, l'individuo non è meno disarmato di quanto fosse un tempo
di fronte alla volontà sovrana del monarca. Che cosa, dunque,
bisogna prendere in considerazione: la meta lontana o le
realizzazioni presenti? È evidente come il significato del regime
risulti completamente diverso a seconda che ci si collochi nell'una
o nell'altra prospettiva.
Interrogativi siffatti posti dalle democrazie marxiste hanno senso
soltanto per i non credenti. Per chi possiede la fede comunista,
essi non mettono in causa la struttura fondamentale del sistema,
giacché la logica di questo è, da un punto di vista puramente
concettuale, impeccabile. Nel caso delle democrazie di tipo
occidentale, specialmente di quelle europee, la situazione è
diversa, giacché si può dire che in esse l'equivoco è
istituzionalizzato. In questi regimi, tutto - i fini non meno che le
procedure, la filosofia non meno che la tecnica costituzionale -
rivela un'impotenza a scegliere. Troviamo dappertutto opzioni e mai
principî irreversibili. Ogni cosa vi è salvaguardata e promessa,
sicché l'ordine giuridico, lasciato in balia del fluttuare delle
contingenze, si presenta come un accampamento provvisorio, allestito
in attesa di eventi. Gli elementi di stabilità, di solidità, di
coerenza, sono inseriti in un quadro di sviluppo che il minimo
incidente mette in crisi.
L'equivoco ha radici profonde, legate da un lato all'impossibilità
per il popolo di fare a meno di mediatori a livello politico, e
dall'altro all'ambiguità della nozione di autorità quando si tenti
di inserirla nelle modalità democratiche di esercizio del potere.
Che il popolo abbia bisogno di mediatori, è cosa evidente. Non c'è
democrazia realizzata senza partiti politici. Ma i partiti non sono
semplici intermediari: essi sono anche organismi forniti di
obiettivi propri. Che questi obiettivi coincidano, alla lunga, con
la volontà di una parte del popolo, è cosa possibile; ma rimane il
fatto che la strategia di partito impone direttive alla cui
formulazione è raro che i governati abbiano preso pienamente parte.
Poiché, infine, tutti gli organismi costituzionali sono lottizzati
dai partiti, tra la volontà popolare e i meccanismi destinati alla
sua piena attuazione si introduce uno iato. La frattura è tanto più
netta in quanto i partiti, richiamandosi al popolo di cui sono i
mandatari, pretendono di governare in suo nome. È a questo punto che
si pone il problema dell'autorità. Come emanazione di partiti, essa
sarà legittima soltanto agli occhi di chi ne viene soddisfatto e,
poiché è impossibile governare accontentando tutti, l'autorità sarà
sempre contestata. E, tuttavia, la democrazia ha bisogno
dell'autorità più di ogni altro regime, giacché la gran quantità di
progetti che il popolo vuol realizzare lo condanna a non poterli
realizzare in prima persona. Nel momento stesso in cui giunge a
comandare, è necessario che elegga dei capi. L'ambiguità si installa
allora nel cuore delle istituzioni, giacché le leggi che le regolano
vogliono governanti forti quando si tratti di realizzare la volontà
del popolo e disarmati quando si tratti invece di resisterle.
Emerge, per questa via, l'intera questione dei rapporti tra
parlamento e governo, questione che non ammette soluzione, giacché
il primo si rifà a ciò che è auspicabile, mentre il secondo si
attiene a ciò che è possibile. I testi costituzionali non lesinano
alle assemblee le prerogative del potere, poiché esse rappresentano
il popolo sovrano; ma la vita politica rivela la loro debolezza, sia
perché la divisione del popolo in fazioni rivali le condanna
all'inerzia, sia perché la loro struttura e il loro modo di lavorare
sono inadatti ai problemi delle società contemporanee. Quanto al
governo, esso è allo stesso tempo sospetto, in quanto le sue
responsabilità lo costringono a deludere l'attesa di ciò che è
auspicabile, e fortissimo, allorché le assemblee, constatata la
propria impotenza, si rassegnano a lasciargli realizzare il
possibile. Alcune norme rafforzano la sua autorità, mentre altre la
stemperano. La loro contraddittorietà rispecchia l'atteggiamento
della democrazia dinanzi al potere: lo teme, ma sa di essere del
tutto impotente senza di esso. Da qui quegli artifici costituzionali
con cui si tenta di conservarne la virtù purificandolo dai vizi.
Le costituzioni democratiche contengono articoli che hanno un vero e
proprio valore di esorcismi, come quelli che sanciscono la sovranità
popolare, mentre ne contengono poi altri il cui fine è di mantenere
aperte certe possibilità: ad esempio le norme che autorizzano la
delega del potere legislativo al governo. Altri ancora hanno come
unico eventuale effetto di tenere a freno nostalgie (si pensi al
caso delle disposizioni relative alla separazione dei poteri). Ce ne
sono infine altri che procedono per eufemismi: consacrando, ad
esempio, la supremazia della legge quando in realtà è la burocrazia
che, mediante i regolamenti vigenti e con decisioni di ogni genere,
orienta la vita collettiva e impone ai governati i gravami più
pesanti. Ma, in tutto questo groviglio di organi e di procedure,
dove sta l'autorità vera, la forza animatrice dell'intero
meccanismo? Nel popolo, risponde la teoria. Ma di quale popolo si
tratta? Quello che manifesta le proprie tendenze nelle urne
elettorali, o quello che si esprime mediante scioperi, blocchi
stradali, dimostrazioni spettacolari? Niente di tutto ciò -
risponderà l'osservatore che si vuole realista - l'autorità risiede
nella tecnostruttura, che dissimula la propria forza nell'anonimato
del suo modo di influire. Ma si crede che i gruppi di pressione
sarebbero così audaci se gli individui non ne fossero complici? La
verità è che in una società democratica l'autorità non è mai
definitivamente localizzata. Essa sta ora là dove si tratta di
difendere una situazione costituita, ora là dove emerge un'esigenza
che vuole soddisfazione. Parlare della volontà del popolo significa
accontentarsi di una formula molto astratta, giacché, in pratica, il
più delle volte accade che il popolo si lasci influenzare piuttosto
che esprimere una volontà propria e, quando vuole, non sempre vuole
la stessa cosa; e, del resto, non si vale sempre degli stessi
interpreti per esprimere le proprie aspirazioni.
Non può dunque sorprendere che la tecnica democratica si rassegni a
istituzioni aperte a tutte le eventualità. Al filosofo, amante di
sistemi meglio strutturati, allo storico, esperto nel discernere il
giuoco di forze meno incerte, al giurista ortodosso, cui sono
familiari costruzioni più coerenti, a tutti costoro i regimi
democratici offrono un volto piuttosto sconcertante. E tuttavia, se
si trattasse di giudicarli (come non è qui intenzione), sarebbe
opportuno far precedere a qualsiasi valutazione la riflessione che
le loro contraddizioni sono innanzitutto proprie della vita stessa.
Certo, un tale regime ha poco stile; la vaghezza dei contorni e
l'accumularsi di buone intenzioni lo rendono confuso, pudibondo e
grigio. Ma potrebbe, se avesse una maestà maggiore, rimanere fedele
a quel popolo di cui consacra politicamente l'avvento?
L'idea democratica trae il proprio valore dall'immagine generosa che
essa ha degli uomini; la debolezza delle tecniche democratiche va
imputata alla mediocrità di questi ultimi. È proprio per questo che,
tra l'ideale e il reale, s'intreccia una dialettica la quale, al di
là dei disinganni, continua sempre a far brillare la speranza.
3. Evoluzione dell'esigenza democratica
Se questo dinamismo dell'idea democratica viene considerato non più
in astratto, ma nei fenomeni concretamente osservabili, si constata
ch'esso ha dato luogo a un'evoluzione in cui sono distinguibili
numerose fasi. In ciascuna di tali fasi la democrazia è apparsa come
risposta a un problema posto da una situazione di fatto nettamente
delimitata nel tempo dai fattori sociali, economici e morali che la
determinavano. Se si può dire dunque che la democrazia è stata
successivamente intesa come una garanzia della libertà, come uno
strumento di giustizia e come una gestione del benessere, va però
anche immediatamente sottolineato che queste interpretazioni, da un
lato, corrispondono, per ciascuna società, a un determinato momento
della sua storia, dall'altro, non si escludono reciprocamente. Per
rilevare come il contenuto dell'idea democratica sia condizionato
dall'ambiente e dalle circostanze è sufficiente un minimo di
osservazione. I coloni della Virginia o del Massachusetts non
concepivano la democrazia allo stesso modo in cui l'intenderanno,
due secoli dopo, i negri di Harlem o i portoricani di Chicago. Né
oggi il senso della democrazia è eguale sulle rive del Nilo e a
Torino fra gli operai delle officine Fiat. La democrazia cambia
aspetto a seconda del tenore di vita, del bagaglio intellettuale e
della cultura dell'individuo che la crea. Di più, essa non è
realizzabile secondo le medesime modalità per l'elettore che, a
Londra, vota conservatore o laburista e per il contadino indiano che
dà il suo suffragio al Partito del Congresso. Ci si può, certo,
dolere del carattere contingente delle esigenze democratiche, che
conferisce ai regimi ad esse ispirati una duttilità ribelle a ogni
costruzione dogmatica. Ma si deve comprendere che è appunto a questa
facoltà di adattamento all'ambiente che l'idea democratica deve non
soltanto la sua vitalità, ma anche la sua unità profonda. L'idea
democratica è una grande dispensatrice di istituzioni che,
considerate isolatamente, possono apparire eteroclite, ma che, in
essa, trovano il loro principio di coerenza. Le immagini della
democrazia sono indubbiamente molteplici; sono però tutte momenti
della medesima impresa che, prendendo a proprio fondamento il valore
dell'uomo, mira a renderlo padrone del suo destino.
Ne deriva che l'evoluzione del contenuto dell'esigenza democratica,
più che realizzarsi per successive mutazioni, segue un processo di
addizione. È dunque inesatto affermare: la democrazia fu dapprima la
libertà, poi la giustizia, quindi il benessere. La verità è che, se
in un primo tempo essa fu certamente ricerca della libertà, divenne
in seguito libertà più giustizia e infine libertà più giustizia più
benessere. Questa osservazione è importante, perché spiega
quell'arricchimento del concetto di democrazia che lo ha fatto
slittare dal piano strettamente politico, dove si collocava quando
gli uomini erano essenzialmente in cerca di libertà, al piano
sociale, al quale si è allargato quando la democrazia è stata intesa
come strumento di giustizia e di benessere. D'altronde, il fatto che
l'evoluzione si sia prodotta non per sostituzione, ma per
sedimentazione di esigenze che venivano ad aggiungersi le une alle
altre, permette di comprendere come mai la pratica della democrazia
divenga sempre più difficile. Più l'obiettivo è ambizioso, più sono
disagevoli le strade che vi conducono. Finché la democrazia fu solo
una formula politica, la sua realizzazione fu relativamente facile.
Ma, non appena ha avuto di mira la trasformazione delle strutture
sociali, essa s'è scontrata con resistenze che non ha potuto
superare senza talvolta contraddire il proprio principio. Da qui la
necessità di seguire cammini tortuosi e di giungere addirittura a
rinnegare i principî, cosa che apparirebbe condannabile se non si
tenesse presente che la ragion d'essere della democrazia non
consiste nel conformarsi alla coerenza logica di una teoria, ma nel
fornire agli uomini la possibilità di elevarsi sino all'alta idea
che hanno di se stessi.
a) Garanzia della libertà
La democrazia è inseparabile dall'idea di libertà. Se viene definita
come il governo del popolo da parte del popolo è in ragione di ciò
che questa formula esclude: vale a dire il potere di un'autorità che
non promani dal popolo. È quindi chiaro che prima esigenza della
democrazia è un sistema di governo in cui le relazioni tra chi
comanda e chi obbedisce siano fondate sul consenso dei governati.
L'autorità permane ma, promanando dall'adesione di coloro che le
sono sottomessi, risulta compatibile con la loro libertà.
Il fatto è però che la libertà ha più di un volto. Quello cui s'è
inizialmente ispirata la democrazia è la libertà considerata quale
prerogativa inerente a ciascun essere umano. L'uomo la porta in sé
in quanto è persona autonoma. Si tratta in questo caso della
‛libertà-autonomia'. Ma, poiché tale autonomia è vulnerabile, gli
uomini si sono preoccupati di proteggerla, se non contro tutti i
pericoli, perlomeno contro quello ch'era il più temibile e di cui
avevano un'esperienza immediata: il pericolo costituito dal
carattere arbitrario del potere politico. Da qui la comparsa di un
altro volto della libertà: quello che possiamo qualificare come
‛libertà-partecipazione', giacché consiste nell'associare i
governati all'esercizio del potere per evitare che questo divenga
oppressivo. Questa partecipazione è assicurata tramite i diritti
politici: mediante il suffragio, ovviamente, ma anche mediante
quelle prerogative che rendono quest'ultimo effettivo, come le
libertà di stampa, di associazione, di riunione, ecc. Con questi
diritti, di cui la Dichiarazione del 1789-1791 è l'espressione più
alta, l'individuo sfugge alla più pesante delle servitù: la servitù
politica, giacché la norma cui è vincolato promana dalla sua
volontà.
È tuttavia essenziale notare che, in questa prospettiva, la
libertà-autonomia e la libertà-partecipazione non si collocano sul
medesimo piano. Esiste tra esse un rapporto gerarchico, in cui
l'autonomia occupa il primo posto. La libertà politica non è fine a
se stessa; essa non ha altra ragion d'essere che quella di garantire
l'autonomia dei governati. Da qui il corollario - implicito ma di
capitale importanza - secondo cui la libertà politica cessa d'essere
legittima quando si propone altri fini. È per questo che la
concezione originaria della democrazia è legata alla filosofia
liberale. L'uomo ‛è' libero, e perché lo rimanga l'esercizio della
funzione politica viene regolato in modo ch'egli possa averne il
controllo. In altri termini, il diritto politico poggia sulla
libertà individuale: non si giustifica che tramite essa e non ha
altro oggetto che garantirne la piena realizzazione.
È su questo postulato che fu innalzato l'edificio della democrazia
liberale. Si può certo contestarne la solidità, ma non è lecito
tuttavia dimenticare che esso è stato il prodotto di un lungo sforzo
di emancipazione spirituale, nel corso del quale - a partire dalla
Riforma sino ai philosophes del XVIII secolo - è venuto emergendo il
riconoscimento della libertà originaria della persona umana.
Evidentemente né la fede nella preesistente libertà dell'individuo
nè la sua coscienza politica sono sufficienti ad assicurargli
l'effettivo conseguimento della situazione che egli vagheggia. La
democrazia liberale non pretende di essere un paradiso sotto ogni
aspetto, né ritiene che tutto vada per il meglio nel migliore dei
mondi: ciò ch'essa afferma in compenso è che, se nessun ostacolo è
frapposto dal potere all'esercizio delle libertà individuali,
particolarmente in campo economico, la condizione umana non potrà
che diventare migliore. Il diritto alla felicità (the pursuit of
happiness) figura nel novero dei diritti dell'uomo; ma è compito di
ciascuno raggiungerla mediante un uso accorto della propria libertà.
Si tratta quindi anche di una forma di resistenza al potere: se
infatti i governati vi partecipano, è per limitarlo e non per
servirsene. (V. libertà)
b) Strumento di giustizia
Fondata su tale prospettiva ottimistica, la scommessa risultò
inevitabilmente perduta quando apparve chiaro, con i primi effetti
della rivoluzione industriale, che se la libertà è una dignità che
appartiene a tutti, non è però concesso a ognuno di poterne far uso.
Divenne evidente il contrasto tra la libertà metafisica dell'uomo e
l'asservimento cui lo sottopongono le costrizioni sociali ed
economiche ch'egli sopporta. Di conseguenza, ciò che importa è
introdurre nella società una giustizia che impedisca che la libertà
sia soltanto privilegio di alcuni. La libertà politica, se non è
associata all'eguaglianza, è solamente una mistificazione giacché,
come Marx dimostrerà senza difficoltà, essa è soltanto una libertà
formale destinata a servire da alibi a coloro che, detenendo il
potere economico, sono i soli in grado di utilizzarlo per
consolidare il proprio dominio. Per gli altri, vale a dire per tutti
coloro che dispongono soltanto della loro forza-lavoro, la libertà
politica è solo una prerogativa sterile. A che serve infatti che
l'uomo sia libero di pensare, se l'esprimere la propria opinione lo
espone all'ostracismo della società? Cosa importa che sia libero di
discutere le proprie condizioni di lavoro, se la sua situazione
economica lo costringe a piegarsi ai dettami del datore di lavoro? O
anche che sia libero nella sua scelta quando depone nell'urna la
scheda elettorale, se i mezzi di propaganda, la stampa e gli stessi
candidati sono infeudati ai detentori del capitale?
Così, non appena i governati presero coscienza della forza insita
nel loro diritto di voto, una buona parte di essi comprese anche
ch'esso non esauriva l'esigenza democratica. Divenne chiaro che la
libertà non è un dato preesistente, ma una facoltà che occorre
conquistare. Al godimento di una libertà intemporale si sostituì
l'attesa di una liberazione. Il concetto di democrazia assunse nel
contempo una dimensione nuova. Da un lato, poiché la liberazione che
si attendeva era inseparabile da una trasformazione delle strutture
economiche esistenti, l'idea di una democrazia sociale venne ad
arricchire l'imperativo democratico inserendolo nella stessa società
e non più solamente nei rapporti tra governanti e governati.
Dall'altro, questo nuovo obiettivo conduceva a una revisione del
ruolo di un potere democratico. Anziché essere limitato al rispetto
delle libertà preesistenti, esso diveniva strumento per la creazione
di una libertà effettiva. Al potere garante imparziale dell'ordine
costituito si sostituiva l'immagine di un potere creatore di realtà
sociali.
La democrazia sociale mira all'emancipazione dell'individuo da tutte
le catene che l'opprimono. Essa estende a tutti i campi il principio
che caratterizza la democrazia politica: vale a dire, la
partecipazione di chi obbedisce all'elaborazione delle norme che è
tenuto a osservare. Ciò significa che la democrazia sociale comporta
che, in qualsiasi settore essa operi, il potere sia subordinato al
controllo di coloro che lo subiscono. E, poiché è in campo economico
che tale potere grava più pesantemente sull'individuo, ciò che
occorre intraprendere è l'eliminazione delle strutture di dominio.
La giustizia sociale postula l'introduzione di un'eguaglianza reale
tra gli uomini. Ora, è chiaro che tale eguaglianza può realizzarsi
soltanto se tutti beneficiano, nelle medesime condizioni, dei
vantaggi della vita sociale. La giustizia è il primo frutto della
disalienazione. E poiché i fattori essenziali dell'alienazione
stanno nell'assetto della proprietà, nel lavoro salariato, nelle
forme di remunerazione, nell'insicurezza del posto di lavoro,
nell'assenza di garanzie dinanzi all'infortunio, alla malattia o
alla vecchiaia, la democrazia sociale coincide con l'avvento di un
tipo di società dalla quale siano eliminate queste cause di servitù.
Un programma del genere amplia considerevolmente l'ambito dei
diritti dell'uomo, giacché più che di garantire diritti ch'egli già
possiede e di cui basta dunque riconoscergli la facoltà d'esercizio,
si tratta di agire sull'ambiente che lo circonda per permettergli di
esercitarli davvero. Si parla quindi di diritti sociali, in un
duplice senso: da un lato, essi sono riconosciuti non a un essere
astratto, ma all'uomo collocato in un ambiente determinato, che lo
rende quale è; e, dall'altro, tali diritti si risolvono in crediti
dell'individuo rispetto alla società. Mentre il diritto individuale
protegge l'uomo contro il potere, il diritto sociale, il quale,
tirate le somme, altro non è che la consacrazione giuridica del
bisogno, richiede l'intervento dei governanti. Da questi ultimi
appunto ci si attende che agiscano sulle strutture economiche e
sociali al fine di renderle confacenti a quell'imperativo di
giustizia che conferisce alla democrazia la sua dimensione reale.
La legittimità democratica di questo slittamento dell'ideale di
libertà verso l'esigenza di giustizia è stata contestata. Cos'è mai
questa giustizia - si è detto - la quale, per provvedere ai bisogni
degli uni, esige che si attenti alla libertà degli altri? E quale
politica, quale programma, quale legge potrebbero vantarsi di
enunciare la giusta soluzione in un mondo così complesso in cui il
giusto può essere ottenuto soltanto mediante ingiustizie che si
compensino reciprocamente? L'obiezione sarebbe, a rigore, fondata se
si trattasse di una giustizia assoluta, sul tipo di quella che,
nella città platonica, assicura l'armonia tra esseri egualmente
perfetti. Ma qui non si tratta di un ideale di questo genere. La
giustizia, l'appello alla quale ha caratterizzato l'evoluzione
dell'idea democratica, non è in contraddizione con la libertà: essa
ne è piuttosto la condizione, giacché non si dà libertà senza
possibilità di scelta. Non v'è libertà dove manchino le possibilità.
Di conseguenza, perché tutti godano della libertà, è necessario che
le loro possibilità siano eguali e dunque che gli ostacoli a questa
eguaglianza, in primo luogo quelli che derivano dail'asservimento
economico, siano eliminati. (V. eguaglianza)
Che il tendere verso la giustizia sia inerente all'idea democratica
è talmente vero che, all'epoca in cui la borghesia dominante
pretendeva, sotto la maschera del liberalismo, di porla
esclusivamente al servizio della sola libertà formale, i beneficiari
dell'ordine costituito poterono sostenere la loro tesi soltanto
fingendo di ignorare la miseria fisica e morale delle classi
lavoratrici. Naturalmente, essi non contestavano l'esistenza della
condizione proletaria; ma negavano che potesse costituire un dato
dell'azione politica. Un'ipocrisia elevata a sistema metteva tra
parentesi ciò che si chiamava la ‛questione sociale' per indicare
che essa non apparteneva al campo della politica. Ciò che, in fin
dei conti, ha condannato il liberalismo è proprio questa arbitraria
limitazione dell'ambito di competenza della politica e, per
conseguenza, della finalità della democrazia. Era inevitabile che
così avvenisse, giacché la politica non è, necessariamente, tale
quale è definita dalle dottrine: essa è ciò che gli uomini vogliono
che sia. E poiché la democrazia è la testimonianza del loro rifiuto
di subire, fa parte della sua stessa essenza il procurare agli
uomini il mezzo per assicurarsi la giustizia che li emancipi. Non si
può riconoscere il potere del popolo e, contemporaneamente,
vietargliene l'impiego in certe direzioni.
Ora, nel momento in cui l'idea di democrazia sociale esercitava
sulle masse un grande fascino, questo uso del potere si collocava
per molti in una prospettiva rivoluzionaria: rivoluzione per via
legale, se la situazione parlamentare lo permetteva; rivoluzione per
via violenta, se questa risultava essere l'estrema risorsa. Poste
tra riformismo e rivoluzione, le vie che conducono alla democrazia
sociale esigono una scelta estremamente impegnativa. In paesi come
la Francia e l'Italia, in cui la rivoluzione avrebbe significato
l'instaurazione di un regime comunista, l'equilibrio dei partiti ha
rimandato questa scelta; ma la sua possibilità non ha cessato di
pesare sulla vita politica negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale. La democrazia politica di tipo pluralistico (v. sotto,
cap. 4, § c, 2) potè così incamminarsi solo timidamente verso quella
democrazia sociale della cui realizzazione proclamava tuttavia con
forza la necessità.
c) La ricerca del benessere
L'idea di democrazia ha la sua origine in una psicosi di povertà.
Poiché la quantità dei beni consumabili è limitata, si impone la
costituzione di un'autorità capace di ripartirli equamente. Che si
proceda secondo giustizia è sempre cosa auspicabile ma, in un mondo
votato alla penuria, quest'imperativo diviene ancor più perentorio.
È esattamente a questo modo che gli economisti classici - Smith,
Malthus, Ricardo - vedevano la società. Ed è sempre per mitigarne la
miseria che i socialisti lanciarono i loro appelli. Si comprende, in
tali circostanze, l'asprezza della vita politica. Essa è, infatti,
focalizzata sulla conquista del potere, giacché appunto da questo si
attende la creazione di una società giusta, in cui il benessere che
verrà agli uni sarà ottenuto mediante ciò che sarà strappato agli
altri.
A questa immagine di una democrazia sociale, che si instaura al
termine di una lotta di tipo rivoluzionario, era certo possibile
contrapporre una visione meno aggressiva. L'esempio americano non
mostrava forse che il livellamento delle classi, l'elevazione del
tenore di vita, la liberazione dei lavoratori dall'insicurezza
economica - in una parola tutti i contrassegni esteriori di una
democrazia sociale - erano suscettibili di venire realizzati senza
alcun trasferimento dell'autorità da un gruppo all'altro, senza che
l'ascesa degli uni poggiasse sull'impoverimento degli altri, senza
sostituire una nuova struttura sociale a quella su cui era stata
edificata la potenza americana, senza che i progetti del potere
schiacciassero gli sforzi dell'iniziativa individuale? Senza dubbio.
Ma si riteneva che questa evoluzione fosse legata al peculiare
ambiente americano, il quale beneficiava dei fattori favorevoli
all'instaurazione di una democrazia sociale tramite la prosperità.
Nei vecchi paesi europei, invece, impoveriti dalla guerra, privi
ditali possibilità, l'avvento della democrazia sociale non si
sarebbe realizzato senza un profondo travaglio.
Ora, l'accelerazione del progresso tecnologico e il vigoroso
sviluppo economico - verificatosi a partire dagli anni cinquanta -
hanno reso meno evidente l'esattezza di questa convinzione.
Indubbiamente diversi fattori hanno contribuito a che, nell'agitato
periodo postbellico, la prospettiva di estendere il potere popolare
a tutti i settori della vita nazionale non abbia avuto un esito
rivoluzionario. Da un lato la presenza americana e l'equilibrio
delle forze contrapposte rendevano incerta una tale via e dall'altro
molta gente, anche tra quanti avrebbero avuto tutto da guadagnarne,
pensava che, se il prezzo di una giustizia futura dovevano essere le
libertà presenti, esso era troppo alto. Di fatto, comunque, lo
scontro non ebbe luogo. I preliminari della battaglia si
stemperarono in un'atmosfera di attesa durante la quale, a
prescindere dalle dottrine e dalle strategie dei politici, il rapido
accrescersi della produzione industriale venne a mutare i termini
del problema.
Sarebbe certo eccessivo prendere per abbondanza ciò che era soltanto
una diminuzione della penuria e parlare di prosperità là dove non si
poteva constatare che un regresso della miseria. Ma in politica
l'immagine che ci si fa dei fenomeni conta più della loro realtà.
Orbene, in un breve periodo di anni, all'incirca alla metà del
nostro secolo, è andata generalizzandosi una nuova visione del
mondo, che smentiva il pessimismo precedente. Nell'universo delle
credenze diffuse, l'abbondanza finì col sostituire la povertà.
Perché mai la penuria dovrebbe essere ineliminabile, dal momento che
gli uomini sono ormai intellettualmente e tecnicamente in grado di
ottenere che la natura provveda ai bisogni di tutti? Sostenuta dallo
spettacolo dello sviluppo delle società industriali, che dalle
rovine della guerra fecero sorgere il ‛miracolo' della loro ripresa,
incoraggiata dai progressi della scienza economica, che appariva in
grado di garantire la crescita, verificata da molti in base
all'elevarsi del tenore di vita, questa convinzione ha raggiunto le
proporzioni e la risonanza delle vecchie ideologie di cui segnava il
declino.
Ci si potrebbe ovviamente domandare se si tratti di una convinzione
fondata e indagare se il compiacimento con cui è sostenuta dai
beneficiari dell'ordine costituito non celi secondi fini tutt'altro
che disinteressati. Ma qui ci basta rilevare come la promessa di una
società opulenta - per quanto lontana ne appaia ancora la realtà -
conferisca alla vita politica uno stile che rivela una nuova
trasformazione del significato attribuito all'idea democratica.
Si tratta cioè non più tanto di conquistare il potere affinché
questo, promanando dalle categorie sociali più sfavorite,
redistribuisca la penuria, quanto invece di ottenere da esso che
accresca la prosperità. Infatti, una volta ammesso che la torta non
è irrimediabilmente insufficiente, ma che può crescere sino a
soddisfare gli appetiti di tutti, ciò che conta è non più lo
spartire, ma il produrre. Certo, da questo calcolo la giustizia non
rimane esclusa, ma si ritiene che la si raggiungerà più facilmente
distribuendo un profitto accresciuto piuttosto che mediante le
restrizioni imposte da un'economia stagnante. Il potere diviene così
il promotore di un benessere che non esige più che gli abbienti
siano sacrificati a vantaggio dei diseredati. Il problema non è più
quello di eliminare il capitale, ma quello di farlo fruttare in modo
che la totalità del gruppo possa godere dei suoi prodotti.
L'esigenza democratica viene così a confondersi con una volontà di
benessere. Ci si preoccupa più che dell'origine del potere e delle
sue tecniche di esercizio, dei vantaggi materiali che esso procura
ai governati.
L'assunzione di una tale meta riserva naturalmente il ruolo
principale ai tecnici, la cui preoccupazione è la produttività. La
via della democrazia non passa più per il sogno, ma per la
riflessione sulle statistiche. Tuttavia un tale mutamento di
prospettiva non sarebbe stato possibile se la gran massa degli
individui - quelli che ancora poco tempo fa si sentivano ai margini
della società, in cui erano inseriti solo fisicamente - non fosse
giunta a ritenere che questa poteva essere anche la loro società. Si
tratta di una mutazione spirituale cui hanno contribuito tutti i
fattori dell'evoluzione tecnica, economica e culturale che tramite i
mezzi di comunicazione di massa accelerano il processo di
integrazione sociale. Non è certo possibile affermare che tale
integrazione sia già un fatto compiuto; non vi è del resto qui la
possibilità di accertarsi se non si rischi di raggiungerla a prezzo
di un avvilimento della condizione umana. Ciò che ci interessa
rilevare è soltanto che, se si prescinde dai contestatori -
raggruppati, per comodità di discorso, sotto la denominazione di
gauchistes - la maggioranza dei membri della società tecnologica
accetta i suoi meccanismi di funzionamento. Ciò non vuol dire che
gli uomini considerino questa come la loro società perché vi si
trovano bene, ma significa che la società ch'essi immaginano come
più accogliente o più generosa è soltanto un'estrapolazione dei
caratteri di quella presente. Ch'essa non soddisfi le aspirazioni di
tutti è cosa evidente, ma quella concepita come capace di
soddisfarle non sarebbe altro che la società attuale arricchita dal
realizzarsi di tutte le virtualità materiali in essa racchiuse. In
altri termini, tra la società esistente e quella che si auspica non
c'è differenza di natura, ma soltanto una differenza di grado nella
realizzazione degli obiettivi.
Senza dubbio i conflitti d'interesse non sono stati eliminati e
neppure i conflitti di classe; ma si è venuta costituendo, al di là
di questi antagonismi, una solidarietà fondata sulla volontà di
mantenere - e se possibile di accelerare - lo sviluppo economico.
Accettata questa finalità, tutti hanno l'impressione di trovarsi
sulla stessa barca. Certo tra i passeggeri vi sono quelli di prima e
quelli di terza classe; ma poiché si è d'accordo sullo scopo del
viaggio, nulla impedisce di estendere a tutti le comodità di alcuni.
Per di più, se la nave va a fondo, tutti finiranno annegati.
In questa prospettiva, la lotta per la conquista del potere appare a
un tempo sorpassata e sterile. Sorpassata perché, in una società a
sviluppo avanzato, la gestione degli affari pubblici lascia ai
governanti solo un margine di decisione estremamente ridotto. Se,
quindi, non c'è possibilità di una politica di ricambio, a qual pro
battersi per insediare nelle cariche di governo uomini che sarebbero
costretti a fare ciò che facevano i loro predecessori? Sterile
perché l'agitazione creata dalla competizione politica genera
un'incertezza e un disordine che pregiudicano il rendimento
dell'apparato economico.
Esclusa la competizione in senso più pieno, la democrazia non lascia
aperta altra via che quella di una partecipazione all'esercizio del
potere. Ed è appunto questo lo slogan fondamentale di cui si servono
i governanti odierni per associare gli individui alla loro politica.
Ovviamente gli organi costituiti per consentire tale partecipazione
offrono il vantaggio di trattare i problemi a un livello tale che i
governati se ne sentano direttamente investiti e possano apportar
loro soluzioni concrete: habitat, ambiente, formazione
professionale, sviluppo regionale, ecc. Ma la decisione può
intervenire soltanto nel quadro delle scelte fissate dal potere;
cosicché per molti partecipare significa rendersi complici
dell'ordine costituito. Questo stato d'animo, unito al fatto che la
partecipazione è, per la dedizione quotidiana che esige, meno
esaltante della lotta, spiega come mai la partecipazione abbia
trovato sinora ben scarso seguito nelle masse operaie.
d) La democrazia contestata
Sembrerebbe proprio che, con la concezione che vede nella democrazia
il regime generatore e dispensatore del benessere, l'esigenza
democratica sia giunta al suo limite. Ci si può persino domandare se
le vie che conducono a soddisfarla non siano, in ultima analisi,
incompatibili con l'obiettivo che ha sempre stimolato il movimento
democratico, vale a dire la piena esplicazione della dignità umana.
È comunque giocoforza constatare che proprio la coscienza di questa
incompatibilità è, almeno in parte, all'origine della forma
contemporanea di critica della democrazia, così come viene espressa
non soltanto dalla contestazione gauchiste, ma anche da numerose
persone le quali, pur fondamentalmente democratiche, temono che la
virtù della democrazia sia compromessa dall'eccesso delle sue
pretese.
Non si tratta qui di un riemergere della critica tradizionale, la
quale ha costantemente denunciato, da E. Burke sino a Ch. Maurras,
passando per J. de Maistre e L. G. A. de Bonald, la vanità delle
volontà umane quando queste pretendano di rifare il mondo a dispetto
delle leggi immutabili che presiedono all'ordinamento delle società.
Né tanto meno si tratta di una riabilitazione delle dottrine
fasciste, con la loro esaltazione del culto del capo e la loro
contrapposizione del carattere virile del vincolo diretto tra uomo e
uomo alla fiacchezza delle istituzioni, il cui anonimato sarebbe
solo e soltanto la copertura di interessi particolari, di egoismi e
di viltà. Ciò che è in causa non è né la natura dell'ordine sociale
né il fondamento dell'autorità, ma, hic et nunc, l'incapacità di un
potere, quale che sia l'ideologia cui si richiami, a procurare agli
individui le possibilità di una vita piena e libera, e ciò proprio
nel momento in cui esso si vuole fedele al loro appello. Il potere
della democrazia del benessere è asservito alla società esistente e,
per democratico che possa esserne l'esercizio, tale servitù lo
condanna.
In tal modo sono messi sotto accusa non tanto i governanti, quanto
la società al cui servizio essi si pongono. La verità è che la
società in questione non è una società qualsiasi, ma quella
specifica società in cui siamo inseriti e che viene chiamata società
dei consumi se si fa riferimento all'ideale che la guida, società
fondata sul mercato se ci si attiene ai suoi meccanismi economici, e
società industriale se si pone l'accento sulle forze che mette in
opera. Ma tutte queste qualifiche derivano da un unico fenomeno,
ossia l'importanza del ruolo assunto dalle tecniche. Sarebbe
indubbiamente puerile affermare che le tecniche siano una scoperta
del nostro secolo; la storia infatti non offre esempi di società che
le abbiano ignorate. La novità è data dal fatto ch'esse hanno
cessato di svolgere il ruolo subalterno che, per secoli, le ha rese
uno strumento per realizzare le finalità concepite dallo spirito
umano. La tecnica impone oggi agli uomini di servire gli obiettivi a
lei propri. Un tempo il potere dei monarchi si appropriò
dell'invenzione della polvere da sparo, facendo del cannone lo
strumento delle proprie decisioni. Oggi la situazione è rovesciata:
sono la scissione dell'atomo o le imprese dell'astronautica che
determinano i programmi politici. In una parola, la finalità sociale
è concepita in funzione delle esigenze del progresso tecnico.
Data l'estrema varietà delle tecniche, ci si potrebbe domandare se
non sia una forzatura pretendere ch'esse convergano tutte verso un
unico obiettivo. Ma si dimenticherebbe così che le tecniche sono
tutte guidate da un'unica preoccupazione: il continuo progredire
dello sviluppo economico. Si è avuta così, all'interno delle
società, la nascita di quella che J. K. Galbraith ha chiamato la
tecnostruttura, vale a dire un sistema di poteri che traggono dalle
tecniche di cui dispongono in tutti i campi gli strumenti per il
controllo di tutti i meccanismi sociali. Ha scritto H. Marcuse che
‟l'apparato tecnico di produzione e di distribuzione [...] funziona
non come la somma di semplici strumenti, che possono essere isolati
dai loro effetti sociali e politici, ma piuttosto come un sistema
che determina a priori il prodotto dell'apparato non meno che le
operazioni necessarie per alimentarlo ed espanderlo. In questa
società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella
misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e
gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le
aspirazioni individuali" (v. Marcuse, 1964; tr. it., p. 13).
A parte il tono eccessivo, è innegabile che quest'analisi è, nel suo
insieme, esatta. Ma in che misura l'idea democratica viene ad
esserne intaccata? Non c'è dubbio che, nelle società altamente
sviluppate, l'estensione degli obiettivi del potere, la
preoccupazione di accrescere il prodotto nazionale lordo e il timore
di una recessione comportino la creazione di tecnostrutture come
luogo d'incontro di governanti e di dirigenti delle imprese private,
visto che i loro interessi sono solidali; ma, si dirà, questa
tecnicizzazione del potere è meramente strumentale e non altera
l'autonomia della sfera politica, giacché il potere, le cui scelte
rimangono libere, resta padrone dei propri fini. E poiché la scelta
dei fini rimane aperta, la volontà popolare può determinarne la
sostanza.
È questa un'illusione, alimentata dalla formidabile potenza dello
Stato moderno che appare, più ancora del Leviatano di Hobbes, come
il dio alla cui volontà la società nel suo insieme deve il proprio
stile e ciascuno di noi, in particolare, la possibilità di vivervi.
Occorre però tener presente che il moderno Leviatano è incatenato
dalle sue stesse pretese. La tecnica gli detta gli obiettivi, come
una truppa mercenaria in rivolta che imponga al generale sia il
nemico da combattere sia il luogo della battaglia. Poiché la
crescita è l'ipotesi di base - la cui realizzazione condiziona tutti
i programmi statali - lo Stato è vincolato agli imperativi tecnici
dello sviluppo. Consideriamo, ad esempio, la pianificazione, che
costituisce dappertutto - ufficialmente o implicitamente a seconda
dei vari paesi - la struttura portante dei progetti politici:
sembrerebbe ragionevole attendersi che lo Stato, in teoria
completamente libero di determinare le linee future di intervento,
includa nel piano la soddisfazione dei bisogni trascurati dalla
tecnostruttura. Dovrebbero cioè figurare nel piano le esigenze dei
servizi pubblici non remunerativi, la salute, la lotta contro
l'inquinamento, l'umanizzazione dei trasporti collettivi,
l'organizzazione dei luoghi di riposo e di svago, l'aspetto estetico
della vita quotidiana, ecc. E indubbiamente preoccupazioni di questo
tipo non sono totalmente assenti dai documenti elaborati dalle
équipes di pianificatori. Ma è ben chiaro che esse vi sono inserite
alla stregua di mere clausole retoriche. I mezzi destinati a
soddisfare tali esigenze rimangono nell'indeterminato, oppure sono
caratterizzati da una pericolosa elasticità. Ma il prodotto
nazionale lordo, il tasso di sviluppo e il volume degli investimenti
produttivi non sono soggetti da trattare in modo così disinvolto.
Essi sono al centro del sistema. Qui, è la tecnostruttura a
comandare.
E i suoi imperativi sono tanto più tassativi in quanto non hanno
bisogno di ricorrere alle forme brutali con cui, un tempo, il
capitalismo trionfante imponeva ai governanti i propri punti di
vista. Essa agisce con la mediazione delle mentalità individuali.
Plasmate dalla pubblicità, dai mezzi di comunicazione di massa,
dalle mode intellettuali, queste esprimono, in maniera anonima ma
con un'enorme efficacia, i bisogni da cui la tecnostruttura trae la
sua legittimità. L'uomo socializzato non è più in grado di agire
nella e sulla società. È la società che agisce tramite lui. E poiché
egli deriva dalla società gusti e pensieri, aspettative e delusioni,
non può evitare di fare propri i simboli che essa venera e di
aderire alle finalità da essa concepite. In una simile situazione è
vano attendersi che i governati aiutino il potere a emanciparsi
dallo stato di subordinazione in cui lo tiene la società
tecnologica. Le istituzioni democratiche ne risultano snaturate sino
al punto di divenire un mezzo di espressione del conformismo
generale. L'asservimento degli uomini fa sì che il potere sia
vincolato. E dunque, si giunge a dire, la democrazia non può
liberare gli uomini. Al contrario: determinati dai bisogni e dai
desideri che la società tecnologica alimenta in essi, gli uomini
esigono e ottengono dal potere che esso metta in opera per
soddisfarli l'intero apparato della sua potenza. Né a livello della
comunità né a livello dei progetti del potere vi sono margini per
una libera scelta degli obiettivi politici. Un'unica finalità impone
scopi e mezzi: quella che, sotto il nome di progresso, mira a
impedire l'arresto dell'enorme e schiacciante meccanismo sociale.
Non è questa la sede per discutere la fondatezza di tale analisi.
Basti rilevare come sia essa che conduce una parte dell'opinione
pubblica, i giovani in particolare, a considerare le istituzioni
democratiche come strumenti di oppressione, oppressione che non
nascerebbe più, come un tempo, dall'arbitrio dei governanti, ma
sarebbe esercitata anonimamente da una società che non rispetta la
vocazione dell'uomo. Questo atteggiamento racchiude uno dei pericoli
più gravi cui la democrazia possa andare incontro, giacché la priva
dell'energia necessaria al suo funzionamento. Poiché non si crede
più nell'efficacia delle armi, si finisce col disertare la
battaglia.
4. La democrazia come forma di governo
L'idea di porre nella collettività stessa il fondamento
dell'autorità che la regge è antica quanto il pensiero politico. Ma,
se presuppone necessariamente l'origine popolare del potere, la
democrazia esige anche che il popolo, supporto dell'autorità
politica, sia messo in grado di esercitarla o, perlomeno, di
controllarne l'esercizio. In pratica il problema si risolve nella
creazione di istituti costituzionali in virtù dei quali la volontà
del gruppo possa determinare l'atteggiamento dei governanti. Non è
però lecito pensare che l'elaborazione di meccanismi di governo
democratici comporti soltanto la scelta delle procedure tecniche
mediante le quali il popolo farà conoscere la sua volontà. Prima di
organizzare l'espressione di questa volontà, occorre sapere dove
essa risieda. La democrazia è il governo del popolo. Sia pure! Ma
che cos'è il popolo che governa?
a) Il popolo della democrazia
1. Il popolo di cittadini. - Nella concezione originaria della
democrazia, che vuole la libertà-partecipazione complemento della
libertà-autonomia, il popolo è un'entità omogenea costituita
dall'insieme dei cittadini. La sua volontà risiede nell'entità
collettiva ‛nazione'. Essa è qualificata come sovranità nazionale ed
è a tale titolo che s'impone ai governanti. Questa tesi ebbe il suo
riconoscimento ufficiale in Francia dai membri della Costituente,
che la inclusero nell'articolo 3 della Dichiarazione dei diritti
dell'uomo del 1789: ‟Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella nazione". Senza dubbio a questa concezione, che
vedeva nel popolo un'entità indivisibile proprio ad evitare che la
sovranità potesse essere frazionata, sembra opporsi la differente
interpretazione di Rousseau secondo la quale la sovranità ha per sua
sede ciascun individuo facente parte del gruppo nazionale e, di
conseguenza, la sovranità del popolo non può essere altro che una
somma di sovranità individuali. Prendendo atto di questa apparente
contraddizione, gli esegeti hanno creduto di poter distinguere tra
l'allegoria nazionale, concepita dall'assemblea costituente perché
fosse il fondamento del potere (sovranità nazionale), e il popolo
così come lo concepiva Rousseau, ossia un'accolta di individui
ciascuno dei quali detiene una particella della sovranità (sovranità
popolare).
In realtà tale opposizione si risolve nel concetto di cittadino, che
costituisce - per Rousseau come per i costituenti del 1791 - il vero
fondamento del potere. In effetti l'individuo in cui il Contratto
sociale colloca l'origine della sovranità non è un essere di carne e
sangue, la cui volontà sia determinata dalla condizione sociale o
dal genere di vita, ma un individuo che - puro spirito e coscienza
pura - ascolta in se stesso i dettami della ragione. In una parola,
esso è il cittadino, che non coincide, come ci chiariscono le
Considerazioni sul governo di Polonia, con l'‛uomo di natura'. Sono
Licurgo, Mosè o Numa che lo formano dandogli ‛costumi e usanze',
vale a dire modellandolo mediante l'educazione civica. Prodotto di
un'ascesi spirituale non molto dissimile da quella che Ignazio di
Loyola imponeva ai suoi discepoli, il cittadino ascolta in se stesso
la volontà generale. Scrive Rousseau: ‟ogni individuo può, in quanto
uomo, avere una volontà particolare contraria o diversa dalla
volontà generale che ha come cittadino. Il suo interesse particolare
può parlargli in modo molto diverso dall'interesse comune" (Contrat
social, lib. I, cap. VII; tr. it. in: Scritti politici, vol. II,
Bari 1971, p. 96). Se si piega a questa voce particolare,
l'individuo non è più sovrano. Egli è infatti tale, soltanto in
quanto aderisce alla volontà generale la quale esprime ciò che,
razionalmente, è il bene della collettività, senza fare posto alcuno
alle differenze di aspirazioni o ai conflitti di interessi che
dividono i membri del gruppo. Ne risulta che l'individuo, membro
della sovranità, non ha più diritto di far valere la propria volontà
individuale (quella che Rousseau chiama, per respingerla, la sua
volontà particolare) di quanto non l'abbia l'individuo membro della
nazione nella teoria della sovranità nazionale. In ambedue i casi,
l'individuo è oggetto dell'alienazione denunciata da Marx: nell'un
caso si aliena nella volontà generale, nell'altro nella nazione. Se
la democrazia classica accetta ch'egli corra questo rischio, è
perché i suoi teorici ritengono opportuno pagare un tale prezzo per
l'unità primordiale del potere e, di conseguenza, della collettività
che ne è il fondamento.
2. Democrazia diretta e democrazia rappresentativa. - C'è tuttavia
un punto in cui la tesi di Rousseau porta a una conseguenza
originale: ossia circa il modo di espressione della volontà del
popolo. È chiaro che, se si ammette che ciascun cittadino detiene
una particella della sovranità e che non può delegarla senza
alterarla (Contrat social, lib. II, cap. I), la decisione sovrana -
e, in primo luogo, la legge - sarà valida soltanto se ciascuno avrà
espresso personalmente il proprio assenso al riguardo. Questo
intervento dei membri della collettività che deliberano, senza
intermediari, sui problemi che impegnano l'avvenire del gruppo,
realizza la ‛democrazia diretta'. In teoria essa è - si afferma - la
sola formula che soddisfi realmente l'esigenza democratica, giacché
per suo mezzo si attua quella identificazione di governanti e
governati che è l'asintoto di ogni sistema democratico. Ma una
soluzione del genere è, di fatto, impraticabile, non fosse che a
causa dell'impossibilità di mobilitare il popolo in permanenza e di
convocarlo tutto nello stesso luogo per chiamarlo a deliberare. È
per questo che la democrazia diretta non ha mai avuto
un'applicazione integrale. Ma, non potendo eliminare completamente i
mediatori, il popolo può almeno iscrivere nella costituzione il
proprio diritto a intervenire direttamente in certe circostanze e
per le decisioni più gravi. L'iniziativa legislativa popolare, il
veto e il referendum gli garantiscono appunto tale facoltà.
Questi istituti sono estremamente diffusi. Oltre che in Svizzera
(dove si riserva loro così largo spazio, ai vari li- velli comunale,
cantonale e federale, che si è potuto dire che le votazioni chiamano
i cittadini elvetici all'esercizio di una seconda professione), il
referendum e l'iniziativa legislativa popolare sono previsti dalle
costituzioni dei singoli Stati membri degli Stati Uniti, dalle
costituzioni australiane, da quelle dei Länder della Repubblica
Federale Tedesca, da quelle dell'URSS e di alcune democrazie
popolari. In Francia è stato frequentemente utilizzato il referendum
costituente ma, in materia di leggi ordinarie, l'istituto
referendario fu introdotto soltanto con la costituzione della Quinta
Repubblica.
Questo generalizzarsi degli istituti della democrazia semidiretta
non deve però creare illusioni. Da un lato gli interventi diretti
del popolo sono rari, tranne che in Svizzera, dall'altro, ed è ciò
che più conta, il loro fondersi con il sistema rappresentativo ne
altera il significato originale. Essi finiscono per costituire, più
che uno strumento destinato a permettere al popolo l'espressione
spontanea della sua volontà, un'arma utilizzata dagli organi
elettivi per far prevalere questa o quella particolare opinione nei
conflitti che li dividono.
In realtà è illusorio credere che, nello Stato moderno, il popolo
possa esercitare il suo potere senza delega. Non a caso, in tutti i
paesi in cui vige la democrazia, questa esiste soltanto sotto la
forma rappresentativa, appena temperata in qualche caso, ma più in
teoria che in realtà, dal referendum o dall'iniziativa legislativa
popolare. Va peraltro sottolineato che, nel suo significato
originario, la rappresentanza non si giustificava esclusivamente per
la sua necessità pratica. Essa si richiamava a un fondamento
razionale, che svela il senso profondo della democrazia
rappresentativa. Infatti lo scopo della rappresentanza, così
com'essa fu originariamente concepita e applicata, consiste non già
nel permettere la manifestazione di una volontà preesistente nel
corpo nazionale, ma piuttosto nel dotare il popolo di una volontà.
Secondo l'espressione che torna incessantemente nei discorsi
pronunciati dinanzi alle assemblee della Rivoluzione francese, la
funzione dei rappresentanti è di ‛volere per la nazione'. Ciò
significa che la volontà esiste soltanto dal momento in cui un atto
dei rappresentanti ne fa conoscere la sostanza. Designando i suoi
rappresentanti la collettività non delega loro il potere di
interpretare le proprie aspirazioni, ma li autorizza a dire ciò
ch'essa vuole, a esprimere una volontà che, una volta formulata, le
sarà imputata. La rappresentanza attua non già una traslazione, ma
una dichiarazione di volontà.
Torneremo presto sulle conseguenze di questa teoria in materia di
assetto e di funzionamento delle istituzioni politiche. Ma ciò che
occorre sottolineare è ch'essa è stata concepita non tanto per
promuovere la democrazia, quanto per prevenirne gli eccessi. Il
problema che la media borghesia portata al potere dalla Rivoluzione
doveva risolvere era chiaro. Si trattava da un lato di scalzare
l'autorità monarchica, ciò che fu ottenuto affermando la sovranità
del popolo, e dall'altro di impedire che questo popolo, elevato
all'autorità suprema, ne abusasse per imporre le proprie demagogiche
decisioni. Innalzata come uno schermo tra le esigenze del popolo
nella sua realtà sociologica e le volontà ad esso attribuite, la
rappresentanza rispondeva bene a questa preoccupazione. Essa fu
costituita infatti per fungere da correttivo a quella che Sieyès
chiama la ‟democrazia pura".
3. L'avvento del popolo reale. - È oggi di moda denunciare,
nell'immagine del popolo che fu così proposta, una sorta di simbolo
mistificatore, destinato a scongiurare gli effetti del potere
popolare. Ma chi considera l'allegoria nazionale null'altro che
un'impostura escogitata dalla classe dominante per riservarsi
l'esclusiva dell'espressione dei desiderata della nazione, trascura
un aspetto essenziale della realtà. La verità è che, nel corso del
XIX secolo, le istituzioni democratiche poterono progressivamente
insediarsi soltanto perché il popolo rassomigliava davvero alla sua
immagine. Essere un popolo di cittadini gli era sufficiente, perché
le prerogative connesse a questo titolo apparivano ancora
apprezzabili. Certo, in una siffatta democrazia formale, il
cittadino non può esigere tutto; egli è vincolato dall'abnegazione
impostagli dal civismo. Ma il ricordo del tempo in cui l'uomo era
soltanto un suddito era abbastanza recente perché, per contrasto, ci
si sentisse liberi partecipando con la scheda elettorale
all'esercizio del potere sovrano.
E tuttavia nel momento stesso in cui la democrazia di cittadini
diveniva il regime giuridico comune alle nazioni civilizzate, le
esigenze della libertà si facevano più ambiziose. Il popolo s'è
impadronito del potere per proteggere la propria libertà; perché non
gli sarebbe possibile utilizzare questo stesso potere per portare la
libertà a coloro che ne sono ancora privi? Poiché la libertà propria
del cittadino l'ha liberato dall'arbitrio politico, l'individuo si
serve ora dei suoi diritti di cittadino per emanciparsi dalle altre
forme di oppressione e specialmente da quelle di ordine economico e
sociale. Lo sviluppo del suffragio universale abituò l'elettore
all'efficacia della scheda elettorale e, risvegliato dalle nascenti
dottrine socialiste, egli prese coscienza della disparità esistente
tra la nobile condizione del cittadino e la situazione del
lavoratore asservito dalle necessità economiche.
È allora che, nella concezione della democrazia, all'allegoria
nazionale si viene a sostituire un popolo che possiamo affermare
come interamente nuovo. Dopo diversi tentativi prematuri, del cui
fallimento il cartismo in Inghilterra, la Rivoluzione del 1848 e la
Comune del 1871 in Francia sono altrettante tappe, l'avvento di
questo popolo reale si attuò attraverso le istituzioni vigenti,
mediante l'accesso per via legale dei rappresentanti delle masse
operaie ai parlamenti della democrazia borghese. La struttura
istituzionale ne fu appena incrinata, ma la spinta che animava il
sistema amministrativo era di natura talmente nuova che tutto il
funzionamento ne fu influenzato. Il fatto è che, con l'avvento del
popolo reale, entra sulla scena politica un essere nuovo: l'uomo
concreto, definito non dalla sua essenza, dalla sua parentela con un
tipo ideale o dalla ragione che ha sede in lui, ma dalle
particolarità ch'egli deve alla situazione contingente in cui si
trova. Quest'uomo, che è un prodotto del suo modo di esistere, è
l'uomo che chiameremo ‛situato': è quello stesso che incontriamo
nelle relazioni della vita quotidiana, quale è caratterizzato dalla
sua professione, dai suoi mezzi e dal suo modo di vivere, dai suoi
gusti, dai suoi bisogni e dalle possibilità che gli si offrono. In
una parola, è l'uomo condizionato dal suo ambiente, che viene
rivelato non da una riflessione metafisica sul suo essere, ma
dall'osservazione della sua maniera di essere. Ora, tra la varietà
infinita dei fattori che determinano questa situazione, ce n'è uno
che svolge un ruolo preponderante: il lavoro. In un universo in cui
un uomo è valutato solo in funzione della quantità di beni di cui
può disporre, scompare la distinzione tra l'individuo e il lavoro
che svolge. Fino a un'epoca recentissima (v. sotto, § d), l'uomo si
identificava con il lavoratore, giacché senza lavoro cessava di
essere. A ciò si deve se il popolo degli uomini ‛situati' s'è
affermato da principio come il popolo dei lavoratori. E poiché si
trattava non tanto genericamente di tutte le specie di lavoro,
quanto eminentemente del lavoro manuale, le società nate dalla prima
rivoluzione industriale furono società operaie.
A differenza di quanto era avvenuto per il cittadino, l'avvento
dell'uomo ‛situato' non è stato preparato da alcuna dottrina. Esso
s'è imposto con l'evidenza brutale dei fatti, come conseguenza delle
trasformazioni sociali dovute al rinnovarsi delle tecniche
produttive e allo sviluppo del sistema capitalistico. Ma, malgrado
questa sua spontaneità, il fenomeno è stato colto da una filosofia
sociale - il marxismo - con una comprensione così esatta della sua
portata innovatrice e un'intuizione così acuta delle sue conseguenze
che, per una circostanza rara nella storia delle idee, fatto e
dottrina si sono compenetrati al punto da divenire inseparabili. Non
è evidentemente il caso di esporre e neppure di ricordare qui la
dottrina di Marx; ma è perlomeno necessario constatarne,
indipendentemente da ogni giudizio di valore, l'ascendente sulle
masse. Tale ascendente poggia non tanto sull'esattezza di questa o
quella analisi economica, quanto su una presa di coscienza della
realtà umana delle masse operaie. Prima d'essere rivolta o profezia,
il marxismo è testimonianza: è l'espressione degli uomini ‛situati'.
Esso implica una trasformazione nel modo di concepire l'origine
della forza politica e di prospettare i fini del potere. Da tale
trasformazione l'idea democratica e le tecniche della sua attuazione
uscirono rinnovate. Anche là dove il quadro formale della democrazia
rappresentativa è stato conservato, nel momento in cui ha dovuto
accettare il popolo reale come motore e l'uomo ‛situato' come fine
di ogni dinamica politica, esso ha assunto un significato
radicalmente nuovo.
b) Democrazia governata e democrazia governante
Fatta eccezione per i paesi di osservanza marxista, questa
trasformazione del potere popolare ha avuto ripercussioni solo
marginali sui testi delle costituzioni. A leggerli, si potrebbe
crederli atemporali, tanto le formule odierne assomigliano a quelle
che furono adottate più di un secolo fa. Una tale permanenza delle
istituzioni (suffragio politico, parlamento, governo responsabile,
ripartizione delle competenze tra i diversi organi) sarebbe
stupefacente se non vi si scorgesse chiaramente una cecità voluta.
Fingendo di credere che le tecniche tradizionali siano in grado di
adattarsi a un potere popolare altrettanto nuovo nella sua struttura
che imperioso nelle sue ambizioni, si spera di poter conciliare, per
non so quale virtù che sarebbe riposta nelle istituzioni
tradizionali, il potere delle masse con la libertà dell'individuo.
Ma la verità è che la democrazia contemporanea è stata mal servita
dalla mancanza di coraggio o di immaginazione dei costituzionalisti
(compilatori di costituzioni e teorici), i quali non hanno saputo
rinvenire le forme istituzionali in cui essa potrebbe esprimersi e
concretarsi.
Per mettere in evidenza la cesura, mal dissimulata dalla continuità
delle istituzioni, io ho proposto di qualificare come democrazia
governata il regime di un tempo, fondato sul potere della nazione, e
come democrazia governante quello odierno, in cui domina la volontà
del popolo reale. Sarebbe naturalmente possibile discutere circa
l'adeguatezza di queste denominazioni, ma la realtà delle differenze
che esse indicano rimarrebbe comunque inalterata.
La democrazia governata, forma prima della democrazia
rappresentativa, è un regime in cui il popolo è incontestabilmente
sovrano, giacché i governanti promanano da lui e inoltre esso è
signore dell'opera compiuta dalle istituzioni dello Stato. Solo che
la maniera in cui viene chiamato a costituirsi - mediante il
suffragio - e quella in cui i meccanismi costituzionali fanno
emergere la sua volontà - mediante un compromesso tra le tendenze
reali - fanno sì che il popolo sia il supporto di un insieme di
valori oggettivamente determinati e indifferenti agli impulsi della
folla come alle fantasie individuali. La molla morale di questa
democrazia, costruita razionalmente perché nata non da una rivolta
degli umili, ma dalla speculazione degli scrittori politici, è il
civismo, la più eroica delle virtù; la sua molla politica è il
cittadino, vale a dire un tipo d'uomo prodotto esclusivamente dalla
ragione e dalla cultura. Ne risulta che, in un tale sistema, è il
cittadino che governa, mentre gli uomini reali - con le loro
personali predilezioni, i loro bisogni, i loro interessi e le loro
ambizioni - sono governati. Ma questo regime è democrazia governata
in misura anche maggiore a causa dell'indipendenza di cui godono in
esso i governanti. Certo, a termini di legge, le loro decisioni
debbono ispirarsi ai desiderata popolari. Ma di fatto essi sono
indipendenti, perché sono stati investiti del potere non già per
essere i portavoce di una classe o di una tendenza sociale
determinata, ma per dire ciò che la nazione vuole nella sua unità e
indivisibilità. Il mandato che ricevono è la testimonianza di una
fiducia che li libera e non già di un sospetto che li
paralizzerebbe. ‟Il parlamento - diceva Burke agli elettori di
Bristol che lo avevano eletto nel 1774 - non è un congresso di
ambasciatori rappresentanti interessi diversi e ostili; esso è
l'assemblea deliberante di una nazione, che ha di mira un solo e
medesimo interesse, quello del paese [...]". Nello stesso spirito,
J. Madison scriveva nel Feaeralist, questa bibbia della democrazia
americana prima maniera, che ‟l'effetto della rappresentanza è di
purificare e render più aperto lo spirito pubblico filtrandolo in un
ambiente formato da un corpo scelto di cittadini, la cui saggezza
saprà distinguere il vero interesse della loro patria, e che saranno
meno disposti, in virtù del loro patriottismo e del loro amore di
giustizia, a sacrificare questo interesse a considerazioni
transitorie o parziali". Ed è sempre per sottolineare l'assenza di
subordinazione giuridica dell'eletto ai suoi elettori che in Francia
l'Instruction dell'Assemblea Nazionale dell'8 gennaio 1790
disponeva, a proposito della formazione delle assemblee
rappresentative, che ‟il deputato non rappresenta né dei collegi
elettorali né dei cittadini in quanto tali, e neppure una qualsiasi
accolta di individui ut singuli, bensì la nazione in quanto corpo
unitario, considerata nella sua universalità globale [...]".
Indubbiamente si potrebbe obiettare che i testi appena citati
risalgono a un'epoca in cui la democrazia era ancora soltanto una
promessa. Ma la realtà è che dal momento in cui gli uomini
l'introdussero, timidamente, nelle istituzioni, la sua fisionomia è
rimasta sostanzialmente immutata per più di un secolo. La mancanza
del mandato imperativo, che di questa fisionomia è il tratto
essenziale, non è forse sopravvissuta fino ai nostri giorni? Così
quando, nel 1789, Sieyès dichiarava che ‟il popolo non può avere che
una voce, quella della legislatura nazionale", egli annunciava la
confusione tra la volontà del popolo e il potere ufficiale, fondava
l'egemonia parlamentare, giustificava l'autorità della legge
presumendola come conforme ai desideri del popolo: in una parola,
enunciava i principî che sono serviti da struttura portante per il
governo democratico sino al primo quarto del nostro secolo.
A livello di attuazione pratica la democrazia governata è stata
realizzata mediante una particolare tecnica di formazione delle
decisioni statali: la tecnica del ‛governo deliberativo'. Con ciò
bisogna intendere non soltanto che ogni decisione deve essere stata
sottoposta a discussione, ma anche che essa deve la propria autorità
appunto all'esistenza di questa discussione. Il governo deliberativo
ha per scopo di evitare l'effetto brutale della legge del numero,
pur consentendo di ascrivere al popolo la soluzione che, alla fine,
sarà prevalente. La necessità di una deliberazione organizzata,
autentica e leale rende impossibile a ogni volontà popolare, quale
che sia la sua veemenza o l'importanza del gruppo numerico di cui è
emanazione, di pretendere di imporsi ai governanti senza passar
prima per il crogiuolo della discussione. Con porte e finestre
chiuse a ogni fermento del mondo esterno, l'assemblea discute, non
diversamente da come farebbe un'accademia scientifica,
esclusivamente preoccupata di accertare la verità e insofferente a
qualsiasi pressione che non proceda dalle argomentazioni. Certo,
tutte le tendenze dell'opinione debbono avere accesso al dibattito.
Ma, come elementi della controversia, esse sono ancora delle mere
ipotesi rispetto alla decisione che infine prevarrà. Esse non
beneficiano di alcuna preponderanza. Tale è l'articolazione della
logica del governo deliberativo e in base ad essa si può affermare
non soltanto che tutto il popolo è stato ascoltato, ma anche ch'esso
ha ‛voluto' la norma che viene approvata. A seguito del dibattito
diviene infatti decisione dello Stato non questa o quella
rivendicazione della tale o della talaltra classe o categoria
sociale, questo o quell'articolo di un programma di partito e
neppure questo o quel punto programmatico di una maggioranza
elettorale o parlamentare. Quella che è emersa nel corso della
discussione, a cui il popolo tutto intero si presume aderisca
(grazie appunto alle garanzie offerte dal governo deliberativo), è
una volontà interamente nuova.
Beninteso, non si vuole qui pretendere che nel suo funzionamento il
regime deliberativo abbia riprodotto rigorosamente la neutralità
razionale dello schema teorico. Né interessi né passioni sono stati
assenti dalle assemblee dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento.
Ma occorre notare ch'essi non vi avevano accesso che con il pretesto
di una riflessione disinteressata mirante al bene pubblico nella sua
totalità. E ancora più importante è il fatto che la trasformazione
che essi subiscono nel corso della discussione ha per effetto di
neutralizzarli. Interessi e passioni hanno potuto bensì esprimersi
nel corso della discussione, ma, una volta avvenuta la
deliberazione, è il popolo che si è pronunciato. Nessuna forza
esterna può contestare la sua legale volontà. Tutta la vita politica
si accentra interamente negli organi dello Stato, la cui autorità
pertanto non conosce rivali.
Far dipendere ogni decisione dall'esito di un dibattito, da cui
appunto essa deriverà la propria forza, non solo significa affermare
in linea di principio l'eccellenza della discussione, ma presupporre
anche che è sempre possibile giungere a una decisione. Ora, tale
possibilità implica che si escludano dal dibattito le questioni su
cui non è pensabile alcuna intesa. Perché il dibattito possa aver
luogo occorre che sia accettato un linguaggio comune, vale a dire
che per tacita convenzione un certo numero di principî fondamentali
sia considerato fuori discussione. È per tutto ciò che la democrazia
governata e il regime deliberativo, che ne è la formula di governo,
si confanno perfettamente alla filosofia liberale. Su di un piano
politico il liberalismo vieta al potere qualsiasi pretesa di rifare
il mondo: esso non lo autorizza che a gestire la società esistente e
soltanto nella misura in cui non sia in grado di provvedervi la
libera iniziativa individuale. È chiaro che i governi non potrebbero
attenersi a una funzione così limitata qualora si ammettesse che il
popolo può esigere una trasformazione dell'ordine sociale esistente
al fine di correggere le ingiustizie sociali. Il principio per cui
il suffragio esprime soltanto delle volontà di cittadini risponde a
questa considerazione. Ne consegue che sono argomento di discussione
soltanto opinioni esenti da qualsiasi istanza di classe. La
deliberazione è possibile perché non concerne ciò che è essenziale
nella vita quotidiana dell'individuo. La gestione della società
esistente non coinvolge i valori fondamentali cui si rifanno le
ideologie; essa non mette in discussione le convinzioni su cui
sarebbe impossibile transigere. Ciò spiega come mai il regime della
discussione si confaccia alla modestia di questa attività di
gestione: esso provvede ai bisogni di una società considerata
omogenea dal punto di vista politico. Il regime della discussione
non implica sconvolgimenti delle strutture economiche e non
coinvolge il destino dell'uomo nella sua totalità. Esso si colloca a
livello dei metodi, delle tecniche, delle procedure, in una parola
di tutto ciò di cui è possibile discutere per la ragione appunto che
non tocca l'essenziale. La democrazia governata è inseparabile dalle
modeste finalità che il liberalismo assegna al potere. (V.
liberalismo)
Sul piano delle tecniche di governo, la democrazia governata ha
trovato il suo strumento più appropriato nel regime parlamentare.
Certo, si potrebbe osservare che quest'ultimo sopravvive oggi nel
contesto di numerose democrazie governanti. Ma in effetti ciò che vi
permane è la lettera, non lo spirito del parlamentarismo. La
comparsa del regime parlamentare ebbe luogo al punto d'incontro di
due linee evolutive: da un lato quella che segnava l'accrescersi del
prestigio dell'organo della rappresentanza nazionale, il Parlamento,
e dall'altro quella che vedeva l'indebolimento del potere regio. Al
punto d'intersezione tra la curva ascendente del potere parlamentare
e la curva discendente dell'autorità monarchica, i due poteri
risultavano equivalenti; la gestione degli affari pubblici esigeva,
come ebbe a sottolineare Montesquieu, che essi ‟procedessero di
concerto". L'essenza del parlamentarismo sta appunto in questo
dualismo del potere, che, senza escludere la volontà del popolo,
permette di decantarne le esigenze. E a ciò si deve se il regime
parlamentare è stato il mezzo per adattare il liberalismo alla
democrazia. Tuttavia non si è trattato che di un regime di
transizione. Nel momento in cui non ha più trovato nell'autorità del
capo dello Stato un punto d'appoggio per resistere alle Camere, il
governo è caduto in loro balia. Un potere unico per quel che
riguarda l'origine e le esigenze - il potere dei partiti - decide la
politica da seguire. Certo, in Inghilterra la solidarietà che lega
il Gabinetto alla maggioranza parlamentare assicura all'esecutivo
una possibilità d'iniziativa e una libertà di movimento che il
partito di maggioranza è costretto a tollerare, perché al momento
delle elezioni gli elettori giudicheranno lui non meno che il
governo. Ma in tutti gli altri paesi, il proliferare dei partiti
riduce il governo al ruolo di agente di una coalizione precaria.
Malgrado la sopravvivenza dei meccanismi del parlamentarismo -
scioglimento o voto di fiducia - è un regime di assemblea quello che
così si instaura, che è poi quello voluto dalla logica della
democrazia governante.
Avendo escluso dai propri mezzi di sostegno il soccorso delle
ideologie consolatorie, rifiutando l'appoggio delle risorse emotive
delle masse, non facendo appello che al suo valore razionale per
definire l'interesse di una collettività unificata in quanto
astratta, il governo deliberativo non è potuto sopravvivere alla
smentita che i fatti hanno dato al suo ottimismo. Esso aveva fidato
sulla ragione e sul progresso di cui questa sarebbe immancabilmente
promotrice. Agli occhi del popolo, la sua legittimità si dissolse
quando la volontà popolare, nutrita dei disinganni e delle
aspirazioni degli individui reali, cessò di riconoscersi in norme e
decisioni risultanti da procedure il cui vero scopo era di tenerli
lontani. L'avvento politico del popolo reale, per il fatto stesso
che esso rendeva impraticabili le sottigliezze del regime della
discussione, impose un nuovo modo di intendere la democrazia,
secondo il quale il popolo non ha più bisogno né di chi interceda
per lui né di mentori: la democrazia governante.
Ciò che distingue la democrazia governante dalla democrazia
governata non sono le differenze di organizzazione costituzionale o
per lo meno queste non svolgono che un ruolo secondario, e neppure
contrastanti tecniche di governo, ma, fondamentalmente, il fatto che
nei due regimi la volontà popolare non è la stessa. Essa differisce
a un tempo per la sua origine, per la sua sostanza e per il suo modo
di manifestarsi. La sua origine è il popolo degli uomini e
‛situati', realtà sociologica e non entità artificiosamente
costruita per preservare l'unità nazionale. La sua sostanza è data
dalle esigenze derivanti dal disagio delle situazioni individuali e
non da un compromesso tra le aspirazioni degli uomini e i limiti che
ad esse imporrebbero gli obblighi di un ordine sociale ostile al
loro esplicarsi. La sua manifestazione è quella che le dà
direttamente il popolo e non risulta da decisioni discusse, meditate
ed elaborate da organismi che parlano in suo nome. Con la democrazia
governante la volontà risiede nel popolo e vi resta. Mentre con la
democrazia governata tutto ciò che era legge era considerato senza
riserve volontà del popolo, ma non ogni volontà del popolo era
legge, la democrazia governante eleva a legge la vox populi. Ciò che
essa vuole importa poco; basta che voglia.
Costruita su un siffatto fondamento, la democrazia governante tende
naturalmente all'instaurazione della democrazia sociale. Pur non
essendo essa stessa la democrazia sociale, ne è per lo meno lo
strumento. In effetti, dato che è la maggioranza che comanda e che,
all'epoca in cui questa formula ebbe origine, la maggioranza la
impose proprio perché constatava l'impotenza della sola libertà
politica a emanciparla da tutte le forme di oppressione economica e
sociale, è inevitabile che la parte meno favorita del gruppo
nazionale cerchi di utilizzare il potere per trasformare la società.
Trasformazione che sarà possibile soltanto quando il popolo avrà
instaurato il proprio controllo su tutti i centri decisionali. Ed è
così che alla democrazia governata, che era una garanzia delle
libertà già acquisite, si oppone la democrazia governante, che è
piuttosto un processo di liberazione.
Ed è perciò che quest'ultima è, nella sua essenza, un regime di
lotta. Regime di lotta innanzi tutto sul piano sociale, perché
ripudia il mito dell'omogeneità nazionale per considerare soltanto
ciò che per essa è l'unica realtà: il conflitto delle classi. Il
motore della politica è il conflitto permanente tra i difensori
dell'ordine costituito e l'immagine di un futuro desiderabile: cioè
quello di una società giusta. Ma regime di lotta essa è anche sul
piano politico, perché questa visione di un avvenire migliore
suscita poteri di fatto che si pretendono qualificati a realizzarlo.
Contro questi, altri poteri di fatto si organizzano per la
resistenza, talché tutta l'energia politica viene assorbita da tali
forze che si costituiscono a livello della collettività. Il potere
statale non è più protagonista: esso è soltanto la posta in giuoco.
La sua autorità non gli appartiene in proprio: è solo quella che i
partiti sono disposti a consentirgli, ed essi se ne appropriano là
dove essa maggiormente si manifesta: nelle fabbriche, nei campi e
nelle piazze. È qui infatti che bisogna conquistarla per imporla poi
ai poteri pubblici. Ne deriva che la democrazia governante è infine
un regime di lotta anche a livello delle stesse istituzioni
costituzionali. Tutti i meccanismi creati per dar corpo alla
democrazia governata vedono il loro funzionamento alterato
dall'energia nuova che li utilizza. La rappresentanza non è più uno
strumento destinato a designare i più saggi, ma un mezzo per sapere
chi sono i più numerosi. I parlamenti non sono più le sedi dove si
confrontano le opinioni perché ne emerga una decisione accettabile
per tutti, ma arene in cui si affrontano forze costituitesi già al
di fuori. La separazione dei poteri, concepita per garantire
all'esecutivo la libertà indispensabile al suo compito, degenera in
una gerarchia in cui un'assemblea onnipotente subordina a sé un
governo da essa nominato e revocato a discrezione. Le stesse
procedure vengono stravolte quando rischiano di ritardare la
soddisfazione delle rivendicazioni maggioritarie. Certo, la
democrazia governante non si ritrova intatta nella pratica che ad
essa si richiama, più di quanto si ritrovi la democrazia governata.
La vastità stessa di ciò che il popolo vuole, condanna quest'ultimo
a non poterlo fare in prima persona. Di conseguenza riappaiono
coloro che intercedono per lui. L'identificazione di governanti e
governati è ricollocata in una prospettiva lontana. Ma almeno è
questa la prospettiva che guida il sistema, come del resto ne spiega
le difficoltà di funzionamento.
c) Potere aperto e potere chiuso
I sistemi di governo vigenti si richiamano ufficialmente al dogma
del primato della volontà popolare, che emana direttamente dal
popolo reale e che effettivamente governa. Solo che, mentre nei
paesi occidentali il potere che promana dalla collettività nazionale
è aperto a tutte le aspirazioni presenti del popolo e a tutte le
innovazioni che nel futuro possono trasformarne la volontà, nei
paesi di osservanza marxista il potere trova le sue radici in una
volontà popolare monolitica che esclude nel presente qualsiasi
pluralismo e qualsiasi contraddizione e la cui ortodossia si oppone
a qualsiasi modificazione futura.
La democrazia del potere aperto è quella in cui la volontà popolare,
che detta ai governanti gli imperativi che ne guidano l'azione, è
accettata nella sua complessità reale. Essa viene chiamata
democrazia pluralista, perché poggia su una società di cui ammette
l'eterogeneità. La varietà delle sue strutture, la molteplicità
delle famiglie spirituali, la contraddizione degli interessi
contribuiscono a fare della voce popolare un coro dalle stridenti
dissonanze piuttosto che un canto monocorde. Indubbiamente il ‛pro'
prevarrà perché in suo favore giuoca la potenza del numero, ma il
‛contro' sarà stato ascoltato, perché non gli si contesta il diritto
di farsi sentire. Più ancora, la sua esclusione dal potere non è
definitiva, giacché gli resta la speranza di conquistare alle sue
idee la maggioranza. In altri termini il criterio obiettivo di una
democrazia di questo tipo è la presenza di un'opposizione la cui
esistenza è costituzionalmente garantita dalla facoltà
riconosciutale di esprimersi apertamente e di reclutare adepti. In
un regime siffatto, l'elemento motore della dinamica politica sta
nel confronto tra maggioranza e opposizione. Certo, questo confronto
può manifestarsi come dialogo o irrigidirsi sino a giungere alla
lotta extraparlamentare; ma è in ogni caso evidente che con il
potere aperto la partita non è mai chiusa, perché è sempre possibile
rientrare in giuoco.
Al contrario, il potere chiuso è quello che poggia su una volontà
popolare la cui sostanza non conosce incrinature né divergenze. È il
potere che trova il suo fondamento in una società omogenea. Ed è
proprio perché l'omogeneità sociale è la condizione prima della sua
esistenza ch'esso si afferma soltanto nei paesi in cui il marxismo
s'è imposto per via rivoluzionaria. Con l'eliminazione delle classi
la rivoluzione realizza l'unità del popolo. Questa unità è, a sua
volta, consacrata dalla soppressione della proprietà privata dei
mezzi di produzione. A questo punto, avvenuta cioè l'unificazione
della struttura a livello economico, la sovrastruttura - vale a
dire, secondo la lezione del materialismo storico, le idee, le
credenze, le aspirazioni - converge verso un unico obiettivo: la
costruzione della Città socialista. Non esistono più divergenze. Il
gruppo diviene comunità con una fede unanimemente condivisa. Ora,
questa unanimità fa della democrazia marxista una monocrazia
popolare. Il potere che si rifaccia ad essa non può essere che un
potere chiuso. La sua ispirazione, il suo programma e i suoi piani
sono determinati secondo le esigenze di un'ideologia assimilata, per
ipotesi, al volere popolare.
Il potere chiuso è dunque un potere partigiano, poiché la
strutturazione dell'esercizio del potere statale è tale che tutti i
suoi organi sono sottoposti al controllo del partito, custode
dell'ideologia ufficiale. Esso è anche un potere dogmatico, giacché
l'essere a esclusivo servizio di questa ideologia gli impedisce di
considerare le concezioni divergenti altrimenti che come eresie da
distruggere. In realtà infatti nella prospettiva marxista
l'opposizione è l'incarnazione dell'errore. Escludendola, il potere
chiuso si rinserra nell'assolutismo della propria verità.
1. La democrazia marxista. - Il carattere democratico di un regime
fondato su simili premesse è senza dubbio contestabile. Eppure non
si può non rimanere colpiti dall'indifferenza mostrata dai suoi
sostenitori verso le argomentazioni che vengono loro opposte. La
verità è che affrontare il dibattito partendo dal criterio della
democrazia significa condannarlo a non avere sbocchi. Ciò su cui, in
realtà, si dissente è la natura dell'uomo. Ebbene, per il marxismo
l'uomo raggiunge la pienezza del suo essere solamente quando,
emancipato da tutte le forme di alienazione, ritrova la sua vera
natura, che lo fa eguale tra eguali. E poiché tale eguaglianza non è
una prerogativa metafisica, ma una condizione reale, essa si
realizza soltanto in un regime comunista. Se giudicato in funzione
dei valori che esprimono le convinzioni dell'uomo alienato, questo
regime può essere considerato come non democratico; ma agli occhi
dell'uomo comunista esso è la sola forma autentica di democrazia.
(V. comunismo).
Ci sono in realtà due modi di concepire l'imperativo democratico
dell'identificazione di governanti e governati: fare discendere il
potere verso il popolo o elevare il popolo verso il potere, dove i
due termini ‛discesa' ed ‛elevazione' vanno presi nel loro senso
letterale di abbassamento e di esaltazione. Ora, dato che la prima
soluzione compromette la riuscita della causa socialista per
l'insufficienza di un potere soggetto agli impulsi di masse
inesperte, è indispensabile trasformare radicalmente le mentalità
perché possano raggiungere quel livello di iniziative e di
responsabilità che la prospettiva marxista giudica come proprio del
potere. Solo a questo prezzo le istituzioni democratiche potranno
funzionare senza rischiare di arrestare l'avvento della società
socialista. Non serve a nulla obiettare a chi crede nel comunismo
che il prezzo è pesante, giacché comporta l'abdicazione
all'autonomia personale; per il credente la trasformazione che si
prende in considerazione porta in se stessa la propria
giustificazione. Tale trasformazione consiste nella presa di
coscienza da parte dell'individuo della sua vocazione umana e,
risvegliando la volontà di emancipazione da ogni forma di
alienazione, è strumento della liberazione dell'uomo.
Si comprende quindi come l'obiettivo principale dei regimi marxisti
vada, nella sua essenza, molto al di là del rovesciamento delle
strutture sociali o del rinnovamento dei meccanismi economici. Loro
obiettivo è la creazione dell'uomo comunista. Ne consegue, oltre
alla propaganda dottrinale, la mobilitazione costante delle masse,
la quale, sia nelle democrazie popolari che in URSS, mantiene gli
individui sotto pressione nei diversi organismi sociali cui la loro
situazione concreta li porta ad appartenere. Senza dubbio questi
organismi hanno ufficialmente lo scopo di assicurare la
partecipazione diretta dei loro membri all'esercizio di quelle
funzioni di controllo di cui gli organi statali dovrebbero essere
progressivamente spogliati. In tal senso questa tendenza si colloca
nella prospettiva del deperimento dello Stato, che - per lontana che
possa apparirne la realizzazione - rimane pur sempre uno dei punti
fondamentali della dottrina marxista. Ma a breve termine tale
mobilitazione delle masse ha un obiettivo ancora più ambizioso: essa
mira a una socializzazione integrale dell'individuo, il quale, persa
l'abitudine all'azione individuale, si abituerà all'idea che non vi
è per lui altro destino che quello collettivo. La nascita dell'uomo
comunista è legata al generalizzarsi di questa mentalità.
Ma questo atteggiamento spirituale può nascere soltanto da una
disciplina dei modi di comportamento. E la necessità di tale
disciplina giustifica, a sua volta, il ruolo del partito, la cui
missione consiste nell'innalzare il gruppo tutto intero alla
comprensione degli imperativi indispensabili all'edificazione della
Città socialista. Che il partito sia composto di un numero ristretto
di membri, che sia forte mente gerarchizzato, che le sue decisioni
siano avvolte nel mistero: queste sono particolarità che non
compromettono, agli occhi di un marxista, il suo carattere
democratico. Infatti, nella concezione marxista, il partito non è
un'organizzazione destinata a raccogliere adesioni in vista delle
elezioni. Esso ha un significato a un tempo storico e metafisico.
Storicamente, esso è stato l'avanguardia del proletariato: il
piccolo gruppo degli uomini che, per primi, hanno impegnato
battaglia contro gli oppressori e si sono organizzati in vista della
lotta. Strumento di guerra, il partito non è - per sua stessa
essenza - una forza spontanea (Lenin ha incessantemente schernito la
vanità delle sollevazioni popolari): esso è una vera e propria unità
militare addestrata e disciplinata in vista del combattimento. Una
volta conseguita la vittoria, il partito ha il ruolo metafisico di
coscienza del proletariato: ne è, su di un piano spirituale, l'ala
marciante, ne incarna la missione e i valori. Certo questi tratti,
molto marcati al tempo della clandestinità, hanno dovuto, alla
lunga, ammorbidirsi. Vittorioso, il partito divenne la forza
ufficiale del regime. Esso dovette adattarsi alla scomparsa del
proletariato in una società in cui la rivoluzione aveva eliminato le
classi. Divenne la coscienza della collettività nel suo insieme. Ma
rimane un'aristocrazia aperta soltanto agli elementi migliori del
popolo. Lungi dall'attenuarsi, il suo magistero spirituale si
rafforza a causa dei pericoli che potrebbe far correre
all'ortodossia un successo che, offrendo la tentazione della
facilità, favorisca le deviazioni. In quanto gruppo di capi, il
partito è un educatore. È chiaro quindi che il senso della
democrazia marxista non può essere compreso che alla condizione di
vedervi, oltre che una forma del potere popolare, una forma di
redenzione dell'uomo che partecipa all'esercizio di questo potere.
Essa si ricongiunge per questa via, al di là della separazione
dovuta alle sue temporanee incarnazioni, a un'esigenza basilare che
caratterizza il pensiero democratico. Aristotele escludeva gli
schiavi dal godimento dei diritti civili, Montesquieu pensava che il
godimento di tali diritti dovesse essere legato alla ‛virtù',
Rousseau non attribuiva alcun valore alla volontà dell'‛uomo di
natura', e gli stessi fondatori della democrazia classica
immaginarono, quale suo suppprto, la severa figura del cittadino.
Non s'impone quindi la constatazione che la democrazia, non
diversamente da qualsiasi altro regime, sceglie il tipo d'uomo per
cui è fatta, quello della cui intelligenza e della cui adesione
possa vivere? Essa mira ad un'unanimità che non si realizza mai se
non nell'ascetismo.
Sul piano della vita politica concreta, questa filosofia si concilia
con la necessaria partecipazione degli individui al processo di
elaborazione delle decisioni mediante l'attuazione di un principio
ideato dai teorici sovietici: il principio del ‛centralismo
democratico'. Quando si pensi che appunto da questo principio si
attende la scomparsa della differenziazione - generatrice di
oppressione - tra governanti e governati, se ne comprenderà
agevolmente l'importanza nella teoria costituzionale dell'URSS e
delle democrazie popolari.
Il centralismo democratico è la formula che qualifica il duplice
movimento che, dalla base al vertice, assicura l'unità politica del
gruppo. Alla base è accordato un ampio potere di iniziativa e di
discussione; quindi la volontà del gruppo risale, di gradino in
gradino, verso l'autorità centrale, decantandosi e precisandosi,
attraverso i molteplici organismi in cui via via si esprime.
L'autorità centrale ne fissa infine la sostanza, che, da questo
momento in poi, vincola imperativamente l'insieme del popolo.
Se vi si vedesse soltanto una tecnica di formazione delle decisioni
in seguito a discussione, questo processo apparirebbe ben poco
originale. Risulterebbe imparentato con il regime deliberativo di
tipo liberale. Ma in realtà l'accosta- mento è infondato, poiché il
centralismo democratico deve essere considerato nel contesto
marxista, in cui gli imperativi della Città socialista delimitano la
discussione. E questi imperativi sono formulati dall'autorità
centrale. Il dibattito non può dunque vertere che sulle modalità
della loro applicazione e sul modo di adattarli alle circostanze.
Cioè nel centralismo democratico si instaura, sin dall'inizio del
processo, un rapporto di collaborazione tra la base e il vertice. Ma
l'apporto fornito rispettivamente dall'una e dall'altro non è
identico, giacché mentre il vertice emana direttive che esprimono
prese di posizione autonome, le ‛iniziative' della base sono
legittime soltanto nella misura in cui rivelano una presa di
coscienza delle esigenze obiettive della costruzione del socialismo.
La volontà della base non trae validità solo dalla sua origine; essa
è presa in considerazione esclusivamente nella misura in cui è il
risultato di uno sforzo di riflessione sulla dottrina. Date tali
premesse, è evidente che il significato del processo varia a seconda
che si ponga l'accento sul centralismo o sulla democrazia: sino a
che punto è tollerabile l'autonomia della base? Nell'Unione
Sovietica fu originariamente il centralismo ad avere la meglio (cfr.
le risoluzioni dell'VIII e IX Congresso del Partito, citate da M.
Lesage, Les régimes politiques de l'URSS et des pays de l'Est, Paris
1971, pp. 52 ss.). Successivamente fu tollerata una certa libertà
d'espressione, ma alla condizione di non cadere nel frazionismo o
nel deviazionismo. Ora, si sa che queste eresie vengono definite
dopo una prova di forza tra le istanze superiori del partito, prova
in cui, secondo ogni apparenza, la discussione democratica non ha
praticamente alcuna occasione di farsi valere. In Cina, invece, il
centralismo democratico, elevato a norma dallo statuto del Partito
Comunista Cinese adottato dal IX Congresso (14 aprile 1969), sembra
riservare uno spazio di gran lunga maggiore alle iniziative della
base. L'articolo 5 dispone infatti che ‟gli organi direttivi, a
tutti i livelli del partito, devono [...] raccogliere costantemente,
all'interno e all'esterno del partito, l'opinione delle masse e
accettare il loro controllo. Tutti i membri hanno il diritto di
rivolgere critiche e suggerimenti alle organizzazioni e ai dirigenti
del partito. Tutti i membri che non condividano le risoluzioni o le
istruzioni delle organizzazioni del partito sono autorizzati a
mantenere le proprie opinioni e hanno il diritto di rivolgersi
direttamente alle istanze superiori, sino al Comitato centrale e al
presidente del Comitato centrale [...]". È tuttavia assai dubbio che
questa libertà giunga sino ad autorizzare la messa in discussione
del pensiero del presidente Mao.
Denunciare nella teoria del centralismo democratico una soperchieria
destinata a mascherare lo spodestamento delle masse è senza dubbio
facile. Nella misura in cui si applica alle decisioni prese
all'interno del partito, è certo che tale teoria non riserva ai
governati la parte che sarebbe lecito attendersi da una
partecipazione democratica: la linea politica è affare esclusivo
dell'Ufficio politico, il quale non è tenuto a render ragione delle
sue decisioni. Per quanto concerne invece la procedura di
elaborazione delle leggi, la discussione estremamente ampia cui
danno luogo i progetti di legge riveste un incontestabile carattere
democratico. Vengono convocate innumerevoli riunioni alle quali
partecipano, nel quadro delle varie organizzazioni di appartenenza,
milioni di cittadini (cfr. C. A. Jampolskaja, Les organisations
sociales et le développement de la socialisation de l'Etat,
Strasbourg 1968).
Solo che - ed è il punto essenziale - la democrazia che stiamo
considerando è una democrazia marxista, vale a dire una democrazia
in cui l'individuo e i gruppi non hanno potere che nella misura in
cui sono comunisti. È questo il postulato fondamentale che delimita
a un tempo le prerogative politiche dell'individuo e l'ambito dei
suoi diritti. Il potere non è organizzato in modo arbitrario per
essere esercitato in una società qualsiasi. Si tratta del potere
della Città socialista. Soltanto i credenti sono ammessi a
parteciparvi. Il vero problema - sollevato dappertutto, dalla
Cecoslovacchia alla Cina - diviene allora quello di sapere quale
parte debbono avere i credenti nella definizione dell'ortodossia.
2. La democrazia pluralista. - È proprio questo ascetismo spirituale
che la democrazia pluralista ripudia. In essa il potere non è
l'organo di una verità preliminarmente stabilita, ma lo strumento di
una società diversificata in cui interessi e rappresentazioni
dell'ordine auspicabile si intrecciano e talvolta si scontrano.
Questo pluralismo è sociale e spirituale a un tempo. Esso ammette
come un dato di fatto l'eterogeneità delle categorie sociali, con i
valori propri a ciascuna, ed esce rafforzato dall'adesione a una
filosofia che pretende di salvaguardare l'interesse delle correnti
spirituali e, per tale via, di proteggere le particolarità
individuali dall'asservimento a un ordine totalitario. Purtuttavia
questa sollecitudine per l'autonomia personale è diversa da quella
che ispirava la democrazia classica. Il rapporto politico non si
istituisce più su una relazione diretta tra l'individuo e il potere.
È per il tramite del gruppo cui appartiene che l'uomo è chiamato a
controllare il governo. Ciò è tanto vero che la democrazia
pluralista può essere descritta nel modo più efficace dicendo
ch'essa sostituisce all'individualismo tradizionale un
individualismo di gruppi.
Vedere in questa filosofia pluralista il risultato di una scelta
effettuata dai mentori dottrinali del regime sarebbe eccessivo. Essa
può indubbiamente rifarsi sia al pensiero cristiano, sia a un certo
liberalismo intellettuale di cui furono impregnati, in opposizione
al marxismo-leninismo, le scuole socialiste francesi e italiane non
meno che il laburismo britannico. Tuttavia determinanti, più
dell'ascendente delle idee, sono stati gli avvenimenti; sono essi
che hanno deciso del patrocinio spirituale sotto la cui autorità si
sono poste le democrazie occidentali. Queste ultime hanno insomma
fatto una filosofia dell'atteggiamento imposto da una necessità
storica.
Gli antagonismi sociali, infatti, sono stati tali, almeno
nell'Europa continentale, che, per evitare i rischi di una lotta
estremamente brutale, è parso opportuno elevare a regola di condotta
una coesistenza che si poteva infrangere solo al prezzo di
impegnarsi in un'avventura drammatica. Il pluralismo fu quindi
chiamato a dare veste filosofica a ciò che in effetti altro non era
che l'equilibrio delle forze politico-sociali. Fatte le debite
proporzioni, esso può considerarsi l'equivalente, sul piano interno,
della coesistenza pacifica nell'ambito delle relazioni
internazionali. In Inghilterra il rispetto tradizionale del
comportamento altrui, il valore riconosciuto alla libertà e le
garanzie che la proteggono forniscono al pluralismo un fondamento
meno labile. Ma è altrettanto certo ch'esso sarebbe risultato
inattuabile se non avesse posto le proprie radici su un fondo comune
di tradizioni verificate dall'esperienza (bipartitismo, alternanza
al governo, tolleranza) e che nessuno pensa di mettere in
discussione, secondo quella che è una regola fondamentale della vita
politica britannica. Quanto agli Stati Uniti, la democrazia
pluralista è un retaggio dell'epoca in cui la politica si svolgeva
principalmente a livello locale. Allora la decisione scaturiva da
una contrattazione tra i gruppi. Ma, a partire dal momento in cui il
potere, a causa delle sue responsabilità sia interne che
internazionali, si è centralizzato, il pluralismo è divenuto la
dottrina che nobilita la rivalità dei gruppi di pressione. Anche in
questo caso dunque le circostanze hanno avuto un ruolo preponderante
rispetto alla pura speculazione intellettuale nella determinazione
della filosofia del regime.
Non è il caso di analizzare qui le forme particolari assunte nei
singoli Stati da una forma di esercizio del potere il cui principio
generale ispira istituzioni e stile di vita politica di un insieme
di paesi che posseggono, sul piano economico, più di due terzi della
ricchezza mondiale. Un potenziale di tale portata basterebbe da solo
a far comprendere che i problemi politici connessi non sono
riducibili a meccanismi stereotipati. Più fecondo - pur se alquanto
arrischiato - è invece procedere alla ricerca dei caratteri
fondamentali della democrazia pluralista. Ed è questo il nostro
tentativo. Tali caratteri possono compendiarsi in tre parole:
equivoco, conflitto, impotenza.
La democrazia pluralista è equivoca perché l'essere numerosi non
risolve nulla, se non si sa a che cosa si tende, se alla lotta o
all'accordo. Certo, nella prospettiva democratica è inevitabile che
le differenti tendenze dell'opinione propongano ai governanti
atteggiamenti divergenti. Ma, se si rimane nell'ottica della
democrazia governata, tali tendenze non sono che semplici
indicazioni. Non avendo quindi esse carattere di forze,
l'indipendenza dei governanti permette di conciliarle, e la
soluzione di compromesso sarà la sola ad avere autorità. Con la
democrazia governante, le cose vanno invece diversamente: infatti le
esigenze dei vari raggruppamenti si impongono al potere a titolo di
imperativi. O il potere cede a una di esse, e allora il pluralismo
non è più che una facciata, oppure tenta un arbitrato e in tal caso
rimane vittima di una congiura di tutte le forze, nessuna delle
quali ha avuto soddisfazione.
Occorre infatti riconoscere che il ruolo di arbitro, che i teorici
della democrazia pluralista si compiacciono di attribuire allo
Stato, non è di quelli che si possano assolvere disarmati. Ma di
quale forza potrebbe disporre il potere ufficiale, dal momento che
tutte le volontà popolari sono polarizzate dai poteri di fatto? Per
assolvere la sua funzione, il potere statale ha bisogno di una base
sociale omogenea: certo non proprio di quella sorta di unanimità
ossequiente che è il sostegno di un ordine totalitario, ma almeno
dell'adesione dei governati ad alcuni valori fondamentali, non
suscettibili di essere scossi dalla rivalità dei partiti. Ora, nel
quadro della democrazia governante il pluralismo contemporaneo non
riunisce già le legittime divergenze che distinguono l'una
dall'altra le mentalità individuali, ma oppone tra loro concezioni
del mondo diverse. Talché la democrazia pluralista presuppone
un'autorità che è compromessa dal suo stesso fondamento: le volontà
popolari cui si richiama sono, infatti, le stesse che ripudiano
l'accordo ch'essa dovrebbe realizzare.
Ne risulta che nella sua forma governante la democrazia pluralista è
un regime conflittuale. Essa istituzionalizza la lotta per la
conquista del potere più di quanto non instauri la pace necessaria
al suo esercizio. Indubbiamente una tale lotta è inerente a ogni
società dinamica e sarebbe dar prova d'irrealismo misconoscerne sia
il carattere permanente che la fecondità. Solamente va aggiunto che,
affinché l'assetto politico non ne sia gravemente scosso, è
opportuno che tali caratteri si mantengano entro limiti che ne
escludano ogni esito rivoluzionario.
A tale proposito è particolarmente istruttivo il confronto tra
l'interpretazione americana del pluralismo e il significato di
questo nei paesi europei dove i partiti socialisti svolgono un ruolo
importante. Gli Stati Uniti non hanno mai accettato la tesi
razionalista che fonda la democrazia sull'esigenza di una volontà
perfettamente omogenea. La concezione americana ha un fondamento
sociologico, e risale ai primi anni dell'Unione. Per i Federalisti,
permeati dalle idee di Locke e di Montesquieu, la realtà sociale non
è formata da individui che dovrebbero fungere da supporto di una
volontà unanime, ma è costituita da una pluralità di gruppi che
talora si contrappongono, talora si trovano a convergere. Il fine di
un'organizzazione democratica è di instaurare tra essi, mediante la
competizione, un equilibrio che ne salvaguardi la vitalità impedendo
al contempo che uno solo di essi assuma un ruolo egemonico per lungo
tempo. La democrazia è dunque il regime politico che, impedendo la
paralisi conseguente al predominio di una sola delle tendenze che
costituiscono la società nel suo insieme, risponde alle specifiche
esigenze di una collettività in perpetua trasformazione.
È a questa immagine della democrazia che corrisponde la
denominazione di poliarchia, introdotta da alcuni autori (v. Dahl,
1956). Il potere del popolo non ne è certo escluso, giacché i
leaders possono imporsi all'interno dei gruppi in competizione
soltanto col consenso dei loro membri. Ma rimane il fatto che motore
del sistema è la contrattazione portata avanti dai leaders. Sono
essi che, in definitiva, detengono il potere reale; ma, proprio
grazie al loro competere non si corre il rischio che il potere
divenga oppressivo. A questo schema di una democrazia poliarchica
bisogna in effetti aggiungere che, nella prospettiva americana, le
tensioni che rendono vitale il sistema non presentano pericoli gravi
per i gruppi minoritari, giacché da un lato la mobilità sociale e
dall'altro l'esistenza di un consenso profondo circa la finalità
della funzione politica impediscono sia la cristallizzazione
dell'autorità in un'ortodossia oppressiva, sia la sua esclusiva
appropriazione da parte di un qualche leader momentaneamente
vittorioso.
Che in questo modo di intendere la democrazia sia presente una
preoccupazione di render conto di ciò che accade realmente, è
incontestabile. Che la tesi poliarchica tenda a legittimare l'azione
dei gruppi di pressione, è altrettanto certo. Ma a parte il fatto
che tale tesi è stata criticata negli stessi Stati Uniti da alcuni
sociologi (v. Wright Mills, 1956), essa ha validità solamente in un
contesto socioeconomico in cui la contrattazione tra i gruppi possa
avere senso. È necessario, cioè, il presupposto che tutte le parti
possano sperare di avvantaggiarsene, ciò che avviene quando la
società sia ricca abbastanza da soddisfare almeno in parte le
richieste che le vengono rivolte.
Ma il pluralismo può essere nient'altro che un eufemismo che
mascheri un conflitto irriducibile, com'è il caso di quei paesi, si
pensi all'Italia e alla Francia, in cui il comunismo raccoglie un
numero considerevole di suffragi. Ed è questo stesso conflitto che
porta il regime all'impotenza, poiché, se esso agisse, rischierebbe
di infrangersi contro la resistenza dei partiti che non accontenta.
L'esempio più chiaro di tale impotenza è stato fornito dalla Quarta
Repubblica francese, a proposito della quale si è potuto affermare
che la dottrina della maggioranza dei suoi uomini di governo era
nient'altro che l'immobilismo.
La verità è che democrazia governante e pluralismo sono
difficilmente conciliabili, perché la dialettica dell'ordine e del
movimento, che è l'essenza della funzione politica (v. Burdeau,
19702, t. III, pp. 449 ss.), viene paralizzata dall'incompatibilità
delle contrapposte ideologie. Nondimeno, a fil di logica, la
democrazia governante dovrebbe trovare la sua concreta forma
costituzionale nel regime assembleare. In esso, la lotta delle forze
politiche si incentra sulla conquista del potere e il partito o la
coalizione vittoriosa, insediatisi nell'assemblea, impongono le loro
vedute a tutti gli altri organi dello Stato. L'onnipotenza del
parlamento deriva da una forte politicizzazione della vita
collettiva. I governati s'impegnano a fondo, perché la politica
appare loro come l'unico mezzo atto a porre rimedio all'ingiustizia
della loro condizione. Nel periodo successivo alla seconda guerra
mondiale l'Italia, la Francia, l'Inghilterra (con l'avvento al
potere del Labour Party) e, in misura minore, la Germania
occidentale hanno conosciuto un momento di tal genere in cui alle
assemblee elette tutto sembrava possibile. Le assemblee
egemonizzavano e subordinavano a sé i governi, i quali del resto
promanavano da esse e ne erano considerati gli strumenti.
L'esperienza doveva dimostrare che, nato da un'euforia democratica
portata al parossismo, il regime assembleare non era vitale, almeno
nelle società pluraliste. A prescindere dagli argomenti tecnici ch'è
possibile invocare contro di esso, ciò che lo condanna alla radice è
il fatto che esso delude i governati. Una volta realizzate le
riforme più urgenti, occorre provvedere alle necessità della vita
quotidiana dello Stato. Si rendono necessarie misure che non sempre
sono popolari e sulle quali le maggioranze si spaccano. L'agitazione
fomentata da organizzazioni irresponsabili s'impadronisce della
piazza. Di fronte a un disordine che non riescono più a controllare,
i parlamentari s'intimoriscono. L'esecutivo, sino ad allora relegato
in un ruolo secondario, appare come la risorsa estrema; e la
democrazia governante, accettando l'abdicazione della rappresentanza
nazionale, ripristina l'autorità del governo per consentirgli di far
fronte a difficoltà che l'assemblea non ha potuto o saputo
risolvere. Il controllo parlamentare si attenua, le deleghe del
potere legislativo si moltiplicano, i partiti si fanno meno
aggressivi. Al regime d'assemblea si sostituisce una formula senza
nome, pragmatica, caratterizzata da una maggiore indipendenza dei
governanti rispetto alle esigenze popolari.
Questa evoluzione, conosciuta in gradi diversi da tutte le
democrazie occidentali, s'era manifestata, sino a un'epoca recente,
soltanto nei periodi di crisi. Ciò che veniva chiamato il
‛rafforzamento dell'esecutivo' era considerato solamente come una
misura provvisoria, destinata a far fronte a una situazione
eccezionale. Invece, da qualche anno a questa parte, il provvisorio
e l'empirico tendono a istituzionalizzarsi. Il primato
dell'esecutivo va affermandosi dappertutto. Ma il fatto davvero
importante è che, per una gran parte dell'opinione corrente, esso
non è più qualcosa di tollerato come una necessità passeggera, ma è
considerato come la sola formula adeguata per la conduzione degli
affari politici nelle società giunte a un alto grado di sviluppo
economico e sociale.
Partendo dalla constatazione fatta in precedenza e che sembra
ineccepibile - ossia che l'esigenza democratica è sempre stata
contrassegnata dai caratteri della società in seno alla quale veniva
formulata - non c'è ragione di pensare che oggi le cose vadano
altrimenti. Nelle società contemporanee si può notare che le due
tendenze che in passato furono foriere di conflitti - quella a
render massima la produzione e quella a perequare le condizioni -
tendono a incontrarsi anziché a combattersi. Ciò avviene perché, pur
senza che si sia raggiunto uno stadio di totale prosperità, il
sistema economico-sociale è tale che, nell'insieme, le
diseguaglianze da un lato sono sopportabili e, dall'altro, sono
percepite come suscettibili di una progressiva riduzione. Sembra
dunque possibile attendersi dallo sviluppo economico ciò che, ancora
poco tempo fa, appariva realizzabile soltanto nella prospettiva di
un sovvertimento dell'ordine costituito. D'altronde si ritiene che i
progressi della scienza siano tali da permettere ai gruppi umani non
soltanto di affrontare - e da una posizione di forza - gli ostacoli
materiali che si frappongono allo sviluppo, ma anche di avere una
conoscenza dei meccanismi economici e sociali sufficientemente
oggettiva da garantire, mediante una regolamentazione razionale, la
continuità del movimento ascendente di tutta intera la società.
Non si vuol sostenere che quest'analisi sia esatta, è certo tuttavia
ch'essa, nella misura in cui esprime una convinzione dominante nel
gruppo, contribuisce a modificare sensibilmente il senso della
democrazia governante. Che questa continui a esistere in quanto i
valori ispiratori dei partiti politici promanano dalla collettività
stessa è indubbio; è essa che determina le finalità delle
limitazioni imposte necessariamente alla vita comunitaria; i
governanti, prescelti in funzione della loro capacità di raggiungere
tali obiettivi, non potrebbero mantenere le loro cariche se
venissero meno a questo dovere. Ma, per tutto ciò che concerne il
loro concreto agire, nonché i modi e il contenuto della
legislazione, la volontà popolare si astiene dall'intervenire. È ai
dirigenti che spetta scegliere i mezzi, fissare le tappe, calcolare
costi e ricavi: in una parola, controllare l'insieme del meccanismo
di produzione del benessere.
Con ciò non si vuol dire tuttavia che in un simile conte- sto tutti
i conflitti sociali siano riassorbiti. Essi rimangono virulenti,
giacché le diverse categorie sociali si contendono i benefici della
crescita. Si tratta però di un'agitazione non più rivoluzionaria, ma
soltanto rissosa. Ci si batte non per mutare la società esistente,
ma per conquistarvi una collocazione più favorevole. Non si rifiuta,
ma si rivendica.
A questo sistema - cui l'esistenza di un consenso di fondo conserva
un carattere democratico, ma in cui la passività dei governati
lascia mano libera ai governanti nella gestione degli affari - si
potrebbe dare il nome di democrazia consenziente se fosse plausibile
qualificare come democratico un regime in cui l'individuo trova nei
benefici ch'esso gli procura un pretesto per abdicare alle proprie
responsabilità.
d) Le possibilità della democrazia nelle società postindustriali
Fino a pochi decenni fa, gli Stati Uniti erano il solo paese in cui
l'alto grado di sviluppo dell'economia permettesse alla democrazia
di essere considerata come un regime di gestione della prosperità,
controllato dalla concorrenza dei vari gruppi, egualmente
interessati al suo mantenimento. Ora, pur senza arrivare a
eguagliare la ricchezza americana, il progredire della produzione
tende ad avvicinare i paesi europei alla situazione esistente oltre
Atlantico. Abbiamo già osservato che questa evoluzione non ha
lasciato inalterata la mentalità degli individui, ma li ha portati a
concepire la democrazia come l'amministrazione del benessere. Ci si
domanda dunque: in che misura questa trasformazione dell'esigenza
democratica rischia di pregiudicare il funzionamento delle
istituzioni politiche della democrazia? È questo il problema del
nostro tempo, cui tuttavia sarebbe presunzione rispondere se non con
semplici ipotesi.
La democrazia governante, nata dalle tensioni interne al gruppo
nazionale, ha avuto per conseguenza di istituzionalizzare i
conflitti, facendo dei meccanismi costituzionali gli strumenti della
lotta per il potere. Le elezioni esplicitano una contrapposizione di
classi, i parlamenti sono arene in cui si misurano forze in lotta,
il governo si batte per la propria conservazione, l'opposizione mira
a rovesciarlo e i partiti - che sono gli animatori di tutte queste
battaglie - elaborano la loro strategia in funzione della conquista
o della conservazione del potere. Questa atmosfera di mobilitazione
permanente non è favorevole allo sviluppo della società tecnologica.
Quando la crescita economica, l'incremento del reddito nazionale
nonché il conseguente miglioramento del tenore di vita vengono
considerate finalità supreme dell'organizzazione della vita
collettiva, la politica nel senso stretto del termine, con le
rivalità personali fra i suoi protagonisti, i suoi programmi
demagogici e il suo verbalismo, appare come un'attività insieme
futile e pericolosa. Futile perché il mondo dell'economia ha le sue
leggi, contro le quali non hanno possibilità di prevalere gli
imperativi di un'ideologia partigiana; pericolosa perché lo sviluppo
economico potrebbe essere compromesso da fermenti provocati dalle
lotte politiche.
Affermare che convinzioni di questo tipo siano oggi unanimemente
diffuse tra i governati sarebbe indubbiamente eccessivo; ma sarebbe
altrettanto imprudente non tener conto del favore che vanno
riscuotendo presso una parte dell'opinione pubblica. Sono queste
convinzioni che costituiscono il supporto delle cosiddette
‛maggioranze silenziose', le quali sono in grado, a dispetto della
loro scarsa rumorosità, di determinare l'orientamento del regime.
Del pari, il declino dell'istituto parlamentare - fenomeno comune a
tutte le democrazie europee - testimonia anch'esso lo smarrimento
della classe politica, posta di fronte a compiti che le assemblee
non sono in grado di assumersi. La funzione legislativa va sfuggendo
alle assemblee, perché la società tecnologica esige una
regolamentazione che risponda esclusivamente a esigenze di
razionalizzazione, il che esclude il confronto ideologico; e il
controllo sull'attività governativa diviene loro impossibile, perché
esigerebbe strumenti più sofisticati del semplice rovesciamento
della compagine che è al potere. Questa sorta di paralisi si estende
infine ai partiti, giacché i problemi di gestione non lasciano che
scarso spazio a politiche alternative, tanto che, se si prescinde
dalle soluzioni rivoluzionarie, tutti i programmi si rassomigliano.
Tale è l'origine del discredito che colpisce le formazioni politiche
agli occhi dell'opinione pubblica, avida più di realizzazioni che di
promesse. Quanto poi all'opinione pubblica, essa a sua volta è preda
del conformismo instillato dai mezzi di comunicazione di massa,
agenti più o meno clandestini della società dei consumi.
Ne risulta così che l'attività degli organi statali non può più
essere subordinata alle esigenze - spesso contraddittorie e
passionali - espresse dalle reazioni popolari. L'origine del potere
non è più sufficiente per abilitarlo ad assolvere il compito che gli
incombe, giacché, pur ammettendo che la sua provenienza democratica
lo renda legittimo, non per questo essa gli conferisce le competenze
tecniche necessarie. Si è allora indotti a ritenere che, in una
collettività in cui benessere e progresso futuro dipendono
interamente dallo Stato, questo assolva una funzione il cui
contenuto e il cui stile sono determinati da dati oggettivi, cui
sarebbe senz'altro dannoso sostituire l'ossequio alle passioni delle
masse. La decisione politica deve dunque venire sottratta ai fattori
passionali che turbano le folle e obbedire esclusivamente alla
razionalità dell'analisi e del calcolo. Eravamo abituati a scorgere
i fondamenti del potere nella domanda secolare: ‟Chi ti ha fatto
re?". Ma ora, nelle società sviluppate del nostro tempo, la
questione non è più di sapere chi vuole, ma di determinare ciò ch'è
possibile volere e di scegliere il procedimento più sicuro per
raggiungere i fini perseguiti. Posti in questi termini, i problemi
politici escludono i conflitti di legittimità. L'autorità dipende
più dalla capacità di realizzare i fini sociali che dal fondamento
cui essa può richiamarsi. È meno importante domandarsi chi ha fatto
il re che prendere in considerazione ciò ch'egli è capace di fare.
Le premesse di questa concezione di una politica passibile di un
approccio razionale possono essere agevolmente rintracciate nelle
profezie del sansimonismo o nella fisica sociale cara ad A. Comte.
Essa si riconnette per altro verso a certe considerazioni di Marx
sulla società comunista, la quale non avrà bisogno di un'autorità
dirigente, perché si governerà mediante il solo giuoco della sua
logica interna. Ma, a dispetto di un tale impressionante patrocinio,
sembra lecito domandarsi quale posto possano ancora pretendere di
avere i meccanismi della democrazia in un sistema organizzato
secondo una logica così rigorosa.
Bisogna ammettere che, a livello delle opzioni fondamentali, essi
non svolgono più alcun ruolo. Non si tratta infatti di scegliere il
tipo di società in cui gli uomini vorrebbero vivere, ma soltanto di
sviluppare e di utilizzare al massimo il potenziale di benessere
materiale implicito nell'assetto economico esistente. Nello Stato
funzionale la democrazia deve adeguarsi al postulato secondo cui il
dinamismo e le possibilità delle società postindustriali sono tali
da soddisfare le esigenze della collettività. Tuttavia una gestione
razionale della società esistente è concepibile soltanto da parte di
un potere che goda di un largo consenso popolare. Si sarà quindi
indotti a trovarne la realizzazione nella fiducia accordata dal
popolo a un uomo o a un gruppo. La democrazia sarà così salva per il
fatto che il potere verrà dal popolo. Ma una tale fiducia
significherà anche l'abdicazione, giacché ciò che i governati
riconoscono è non tanto l'autorità dei governanti che si sono dati -
ché questo tratto è comune a tutte le forme di democrazia - quanto
la propria impotenza a intervenire nel processo di formazione della
decisione politica. Forte della sua sovranità, il popolo ne affida
l'uso a gestori cui lascia la cura di servirsene nel modo migliore.
È in effetti questa la situazione verificatasi in Francia quando era
al potere il generale De Gaulle. Forte di una legittimità personale
ch'egli doveva al suo ruolo storico e che a partire dal 1962 gli
sarà confermata dall'elezione a suffragio universale diretto, il
capo dello Stato si faceva consegnare dal popolo - mediante il
referendum - un mandato in bianco che l'autorizzava a perseguire una
politica di cui egli era il solo a determinare gli obiettivi e a
fissare i mezzi. L'unica denominazione, atta a definire il regime
allora in vigore, è quella di democrazia plebiscitaria.
Una formula del genere è applicabile in pieno soltanto nel caso di
una personalità dotata di un carisma che le permetta di sottrarsi al
controllo quotidiano dei governati. Ma, anche senza arrivare a una
forma così accentuata, il disinteresse dei cittadini per gli affari
pubblici può condurre la democrazia a non rappresentare più che un
sistema in cui il ruolo del popolo si limiti all'investitura dei
governanti. Si giungerebbe così a una sorta di democrazia passiva,
di democrazia consenziente.
Non si può escludere tuttavia che i cittadini ritrovino la parola,
una volta che i governanti comprendano l'opportunità di farli
partecipare all'elaborazione delle decisioni, giacché va notato che
questa democrazia consenziente, se non è rivoluzionaria, è però
litigiosa. Non è rivoluzionaria perché non mette in discussione i
capisaldi fondamentali dell'ordine sociale costituito; ma - come
aveva previsto Tocqueville osservando la società americana - è
litigiosa perché i diversi gruppi sociali si contendono i benefici
dello sviluppo economico. Ciascuno di essi mira a trarre il massimo
profitto dallo sviluppo e ad ottenere dallo Stato, ch'è il promotore
dell'espansione, che questa sia indirizzata a proprio vantaggio. In
quest'atmosfera di mercanteggiamenti, in cui ciascuna categoria
sociale si considera come un avente diritto, una guida autoritaria
non riuscirebbe che a inasprire le rivendicazioni e di conseguenza a
compromettere il buon funzionamento dei meccanismi economici. A ciò
si deve se il potere preferisce, piuttosto che impartire ordini,
negoziare con quelli che le necessità oggettive qualificano come
suoi partners sociali. Ne derivano le procedure di azione concertata
e le formule di partecipazione che vediamo oggi proliferare e il cui
scopo è di coinvolgere nell'elaborazione della norma coloro che vi
saranno soggetti.
Certo, si tratta in tali casi di istituzioni indubitabilmente
democratiche, che presentano il vantaggio di spingere gli individui
a pronunciarsi sui problemi concreti posti dalla vita quotidiana. Ma
si converrà ch'esse escludono la discussione sulle principali
scelte. Questa discussione non la si può infatti concepire se non a
un livello elevato, dove gli interessi, pur senza scomparire, si
articolino in termini di dottrina e dove al prendere in
considerazione le rivendicazioni si accompagnino costantemente
soluzioni globali atte a conciliarle. La sede in cui venivano
elaborate le scelte politiche, nel senso ampio del termine, è stata
sino a poco tempo fa il parlamento. È per il suo tramite che il
popolo prendeva parte alle scelte che decidevano del suo destino. Ma
allorché questo destino è definitivamente segnato dall'accettazione
di un tipo di società - la società tecnologica e mercantile - che
detta le leggi inesorabili dei meccanismi economici ai quali deve la
sua vitalità, il ruolo del parlamento risulta considerevolmente
indebolito. Per emanare la complessa normativa necessaria, gli
uffici governativi sono più qualificati del parlamento, così come,
per difendere gli interessi settoriali delle diverse categorie
sociali, sono più efficaci i gruppi di pressione. I governi sono più
vulnerabili di fronte a un'agitazione di piazza che a un voto
parlamentare e una legge ha migliori probabilità di essere adottata
se è sostenuta da uno sciopero che se è difesa da un discorso, per
quanto convincente possa essere.
Se i parlamenti sono in tal modo ridotti al ruolo accademico di
comparse, ciò avviene perché la concertazione e la partecipazione
trovano la loro collocazione a livello della gestione, vale a dire a
livello di ciò che, per convenzione, si chiama l'amministrazione. E
in effetti se la democrazia ha ancora qualche possibilità di
sopravvivere nelle società postindustriali, è proprio nella misura
in cui, eliminando l'esoterismo dell'apparato amministrativo e
rifuggendo dall'arbitrarietà delle decisioni unilaterali, lo stile
democratico riuscirà a rinnovare lo spirito dell'amministrazione.
‟Vietato l'accesso al pubblico" si legge oggi sulle porte dietro le
quali si decidono l'organizzazione e il funzionamento dei servizi
pubblici. Ma, nel momento in cui l'amministrazione assume su di sé
il destino della collettività nazionale nella sua totalità e mira a
disciplinare e a razionalizzare i comportamenti di ogni suo singolo
membro in vista di un fine comune, l'esigenza democratica richiede
un capovolgimento della consegna. ‟Qui i cittadini sono a casa
loro": questa dovrebbe essere la scritta per esprimere la necessaria
trasformazione del mondo dell'amministrazione. Ormai, è all'interno
di questo mondo che occorre introdurre il controllo democratico.
La democratizzazione del potere amministrativo non è certo un
compito facile, in nessun paese. Oltre a una trasformazione della
mentalità dei pubblici funzionari, essa presuppone nei governati una
volontà di collaborazione con i vari servizi e un'autodisciplina
tali da rendere superflua la tecnica degli ordini tassativi. Si
tratta di condizioni realizzabili soltanto in un gruppo
spiritualmente omogeneo, in cui non si discuta più della finalità
del potere, ma soltanto dei mezzi più idonei al suo conseguimento.
Ora, è perfettamente evidente che questa omogeneità implica
l'accettazione dell'ordine sociale costituito, ossia quel regno del
conformismo che la società tecnologica e mercantile instilla negli
animi tramite una molteplicità di canali, dalla pubblicità
all'importanza data a un certo tenore di vita. Sono proprio questi
aspetti che fanno mettere in dubbio il valore autenticamente
democratico di una tale democrazia consenziente, in cui i governati
sono sì chiamati a partecipare alla gestione di un sistema ma non a
metterne in causa il valore. La loro collaborazione assume l'aspetto
di una complicità che, pur accettata e volontaria, annulla di fatto
la loro libertà. Il nodo del problema non sta nei rapporti tra
governati e potere e cioè nelle modalità con cui questo viene
esercitato, ma va individuato direttamente nella natura della
società, di cui il potere è un prodotto. Se la società obbedisce
soltanto agli imperativi della crescita, se è asservita alla
tecnologia, la cui ragion d'essere è il motore stesso della sua
espansione (cfr. E. Jantsch, Prospective et politique, OCDE 1971, p.
57), allora davvero ‟la produzione e la distribuzione di una
crescente quantità di beni e servizi fanno dell'ubbidienza un
atteggiamento tecnologico razionale" (v. Marcuse, 1964; tr. it., p.
68).
In una tale situazione, importa poco che l'uomo possa stabilire le
regole della vita comune mediante procedure democratiche, se poi
egli stesso, condizionato dal suo ambiente fisico e spirituale, è
asservito a una società che gli detta, oltre che i comportamenti,
persino i sogni. Se ciò fosse vero, la democrazia non sarebbe ormai
altro che lo strumento mediante il quale, grazie alla sonnolenta
docilità degli individui e alle innumerevoli tecniche del comfort e
del consumo, la tecnostruttura contemporanea si assicura il
controllo del potere politico. Beninteso, una tale analisi
presuppone il permanere di una situazione economica favorevole. Una
crisi riaccenderebbe la lotta, giacché è nella giungla che nascono
le belve; nelle fertili praterie pascolano grandi e pacifiche
mandrie in attesa soltanto di pastori evoluti, abili nel mungerle a
suon di musica.
Un quadro simile non è rassicurante. Esso è appena delineato e già
fa paura. Paura ai partiti, i quali temono che l'illanguidirsi dello
spirito di lotta porti loro via una clientela che ne costituiva la
forza. Paura ai moralisti, timorosi che una protettiva gestione
statale lasci negletti i valori etici. Paura agli amici della
libertà, spaventati dal regno di una tecnocrazia tanto più temibile
in quanto maschererà la propria potenza sotto le apparenze della
realtà. Non vediamo forse già i futurologi fingere di lasciare ai
politici la scelta dell'avvenire auspicato, quando, in effetti, le
loro anticipazioni, sotto la maschera di previsioni scientifiche in
realtà nient'affatto neutrali, non fanno che proiettare nel futuro i
valori attuali della società tecnoburocratica? Tutte queste paure
convergono verso una preoccupazione comune, cioè quale sia il posto
cui la democrazia possa ancora aspirare in un mondo ossessionato
dall'ideologia della crescita.
Il problema, certo non vano, è tuttavia espressione di una tendenza
a minimizzare la duttilità dell'idea democratica. La democrazia
designa, a un tempo, l'adesione a un insieme di valori e la pratica
di certe tecniche politiche. Ora, abbiamo visto come sia questi
valori che queste tecniche assumano il loro significato soltanto in
relazione a un ambiente e a un momento determinati. La democrazia
non aveva certo lo stesso senso e non era subordinata alle stesse
procedure per i minatori di Carmaux o di Anzin all'epoca del
Germinal di Zola e per i membri di una colonia puritana nella
Pennsylvania del XVII secolo. Sarebbe quindi altrettanto
sorprendente che, in una società altamente industrializzata, dove
l'economia è orientata dai consumi di massa e la cui omogeneità
spirituale tende a costituirsi tramite la generalizzazione delle
attività del tempo libero e delle tecniche di comunicazione
audiovisive, le esigenze democratiche fossero analoghe a quelle che
esprimevano le speranze del popolo all'epoca della prima rivoluzione
industriale e potessero essere soddisfatte negli stessi modi.
Una volta esclusa l'ipotesi rivoluzionaria, è giuocoforza rinunciare
alla concezione romantica della democrazia, quella che associava
democrazia e barricate. Si tratta di una trasformazione non
dissimile da quella intervenuta nel campo della difesa nazionale. Un
tempo la leva in massa era considerata come una panacea: la nobiltà
della causa, l'ardore delle truppe e la loro volontà di vincere
dovevano bastare a tutto. Ebbene, come le caratteristiche della
guerra moderna hanno portato all'abbandono di questa fiducia
nell'efficacia degli assalti eroici, allo stesso modo i dati
sociali, economici e politici che sono alla base delle collettività
contemporanee altamente sviluppate esigono l'abbandono di una
visione certo generosa, ma troppo sommaria, della democrazia. La
piena conquista del potere è meno importante del suo esercizio.
Occorre dunque accettare l'idea di una democrazia di gestione, di
una democrazia che richiede, un giorno dopo l'altro, nella monotonia
di un compito modesto, quell'impegno di vigilanza e di applicazione
che sono propri del corretto esercizio di un mestiere. Certo, la
prospettiva non è esaltante, ma è necessario comprendere come sia
anacronistico, in una società che ha rinunciato ai pennacchi, che
l'impegno politico pretenda di conservare il suo.
Ciò che ancora non sappiamo è se la gestione di una società la cui
unica finalità è quella di dispensare a tutti un benessere
standardizzato non finirà per scontrarsi con una contestazione
generale di questo tipo di organizzazione sociale. E, pur ammettendo
che la contestazione rimanga un fatto marginale, non è affatto certo
che un ordine economico e sociale animato esclusivamente dalla
ricerca delle soddisfazioni materiali sia in grado di stimolare gli
individui ad assumersi la responsabilità del proprio destino. Tutto
dipende da loro: il nostro tempo ha bisogno non tanto di istituzioni
democratiche quanto di democratici. Se gli uomini si
accontenteranno, volenti o nolenti, di essere clienti del potere, la
democrazia, ammesso pure che se ne rispettino i riti, non sarà che
una cornice formale vuota di ogni contenuto spirituale.
Ogni riflessione sulla democrazia porta dunque all'uomo e, più
precisamente, a ciò ch'egli si attende o è in diritto di attendersi
dalla politica. Ora, è evidente che sotto questo profilo le sue
esigenze sono sempre crescenti. Torna alla mente l'iscrizione che
nel maggio 1968 si poteva leggere sui muri dei locali occupati dagli
studenti: ‟Vogliamo nient'altro che la felicità". La felicità? Ma la
felicità di chi? E a qual prezzo? Non occorre sottolineare
l'ambiguità che un tale obiettivo riverbera sulle istituzioni e la
situazione non agevole in cui pone i governanti. Certo, si potrebbe
sostenere che questi altro non fanno che assumere il ruolo del
potere; energia di una rappresentazione dell'ordine desiderabile (v.
Burdeau, 19702, t. I, pp. 263 ss.), il potere è appunto il promotore
di essa nell'ordinamento giuridico positivo. Nella democrazia questa
rappresentazione è esplicita, perché viene apertamente formulata dal
popolo. Il potere è tenuto a ispirarvisi abrogando le norme
corrispondenti alle strutture sociali sorpassate e garantendo
contemporaneamente, con l'introduzione di nuove norme, la sicurezza
di quelle relazioni che la vita comune comporta. Così facendo il
potere obbedisce alla dialettica dell'ordine e del movimento che,
come sappiamo, è il ritmo normale dell'azione politica.
Ciò è verissimo. Solo che il compito dei governanti delle democrazie
contemporanee viene complicato dal fatto che l'ordine e il movimento
non s'incarnano in due campi nettamente differenziati. Certo, forze
risolutamente conservatrici o incondizionatamente rivoluzionarie
esistono ancora; ma la maggioranza dei governati vuole insieme
l'ordine e il movimento. Questa duplice esigenza inoltre non esprime
un'aspirazione più o meno vaga e discreta.
Nei confronti dell'ordine si propende spesso proprio per ciò che
questo ha di più arcaico, di più impermeabile al mutamento,
foss'anche incontestabilmente benefico. E, analogamente, il
movimento auspicato non si risolve in una correzione dell'ordine
costituito, ma mira a un rinnovamento totale delle strutture sociali
esistenti: è il movimento proprio di un progetto rivoluzionario.
Questa contraddizione è intrinseca alla democrazia governante: essa,
infatti, attribuendo una sovranità effettiva al popolo reale,
riconosce con ciò stesso all'individuo il diritto di far valere
politicamente la pluralità delle tensioni che lo costituiscono quale
esso è. Ma va anche detto che la contraddizione emerge nel regime
politico, perché esiste innanzitutto nell'uomo. Certo, la scienza
politica non ha atteso la nostra epoca per scoprire la dualità degli
esseri che portiamo in noi stessi. Per convincersene basti ricordare
la distinzione fatta da Rousseau tra cittadino e ‛uomo di natura'.
D'altra parte, se Rousseau e con lui i teorici della democrazia
governata avevano ben individuato i due personaggi, era per impedire
a uno di essi l'accesso alla scena politica: l'‛uomo di natura' era
infatti bandito da questa proprio perché avrebbe rischiato di
introdurvi le contraddizioni connesse con la sua situazione
concreta. Il cittadino, inoltre, il solo qualificato a volere
politicamente, era un essere la cui dignità era commisurata al suo
disprezzo per le contingenze. Ben diverso è l'uomo cui la democrazia
governante dà la parola. Egli non solo è l'uomo totale, cui non si
domanda di distaccarsi dai condizionamenti deterministici che lo
modellano nella vita quotidiana, ma è anche un uomo nel quale
l'appartenenza alla società tecnologica sviluppa una coscienza
dilacerata.
In quanto trova la sua collocazione nella società nella sua
interezza, quest'uomo è conquistato all'euforia ch'essa produce.
Diversamente dalle società tradizionali, le società contemporanee
altamente sviluppate non schiacciano i loro membri sotto il peso di
una eredità; esse li stimolano piuttosto a costruirsi da sé la loro
prigione. Li incatenano con i godimenti ch'essi ricercano e si
assicurano così la loro docilità. Condizionato dai sogni che tali
società alimentano in lui, nonché dal modesto benessere ch'esse gli
procurano, l'individuo ne accetta i valori, ne condivide le
credenze, è pronto a difenderne l'ordine. Ma, nel contempo, egli è
anche l'uomo prigioniero di una situazione specifica: quella del
lavoratore di fabbrica, quella dell'intellettuale inquieto, quella
del piccolo commerciante minacciato dalle concentrazioni
industriali. Egli è cioè ancora l'uomo di una classe e in quanto
tale avverte i disagi propri di questa situazione e ne prova un
sentimento di frustrazione. È appunto in questo ambiente che
immediatamente lo circonda che l'individuo è maggiormente sensibile
all'appello del movimento. Ma non si tratta di un appello decisivo,
perché è controbilanciato dal conformismo spirituale e
dall'indolenza politica che la società globale impone ai suoi
membri.
Sarebbe dunque un errore rappresentare l'opposizione tra l'ordine e
il movimento come un vallo profondo che divida coloro che protestano
da coloro che accettano. Se così fosse, nella pratica della
democrazia tutto sarebbe semplice: una frontiera separerebbe i due
campi e i governanti, soggetti al rapporto di forze esistente,
sarebbero gli strumenti del vincitore. Una tale dicotomia fu
certamente valida per le lotte politiche di ieri. Ma ha cessato di
esserlo oggi, giacché, a parte casi che, per numerosi che siano,
sono pur sempre marginali, la linea di demarcazione non separa più
fisicamente due collettività: essa passa all'interno di ciascuno di
noi, lasciandovi l'uno accanto all'altro l'uomo dell'adesione e
l'uomo del rifiuto. È questa l'ambiguità della democrazia
contemporanea: il popolo, che in essa è padrone, in essa vive
nell'irresolutezza.