Classe, coscienza di
di Iring Fetscher
Sommario: 1. Introduzione. 2. La coscienza di classe borghese. 3.
L'impossibilità di una coscienza di classe piccolo-borghese.
4. La coscienza di classe proletaria. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il concetto di coscienza di classe è stato sviluppato da Marx
e dal marxismo, ma si è in seguito diffuso più
ampiamente e viene oggi usato - in un senso meno preciso rispetto a
quello di Marx - anche da parte di altri autori. Bertrand Russell,
ad esempio, in Teoria e prassi del bolscevismo (1920) parla di una
'coscienza di classe' dei dirigenti del Partito Comunista Sovietico.
Noi ci proponiamo, invece, di mettere a fuoco il concetto marxista
di coscienza di classe. Le società risultano divise in classi
solo a partire dal momento in cui le differenze sociali più
antiche, fissate giuridicamente (o anche religiosamente), sono
superate, oppure hanno perso in misura così considerevole il
loro significato da non possedere più alcuna rilevanza per il
destino degli individui. In una società basata sulle caste
(come nell'India) il destino dell'individuo è largamente
determinato dall'appartenenza a una casta fissata dalla religione.
Le variazioni del destino individuale all'interno delle caste sono
notevolmente limitate. La possibilità di passare a una casta
più elevata è esclusa a priori. La mobilità
sociale viene sostituita, sul piano religioso, dalla prospettiva di
rinascere in una forma diversa (sia quella di un animale, sia quella
di un appartenente a una casta più elevata). Anche nelle
antiche società schiaviste il destino individuale degli
schiavi (o della maggior parte di essi) è rigidamente
fissato. Sono possibili tuttavia variazioni di tale destino assai
più ampie di quelle della società basata sulle caste.
Nella Roma imperiale, singoli schiavi potevano ascendere a posizioni
dignitose. Si potrebbe dire che la società schiavista nella
tarda età romana abbia cominciato a dissolversi in una
società divisa in classi.
Nella società medievale fondata sui ceti, nel suo periodo di
fioritura, la vita di ogni individuo è ampiamente determinata
dalla sua appartenenza a un ceto. Un conte rimane sempre un conte,
qualunque cosa faccia o gli accada. Egli non 'diviene' nulla,
bensì è già sempre qualcosa: un conte,
appunto.Al membro di un ceto - soprattutto dei ceti più
elevati - appartiene ovviamente sin dall'inizio la coscienza di
ceto. Un conte, ad esempio, non è affatto in primo luogo un
individuo, che debba solo in seguito divenire cosciente di
appartenere a un gruppo omogeneo, bensì è
essenzialmente sin dall'inizio un nobile, un conte, ovvero un
'esemplare' di un gruppo in sé omogeneo, e si comprende come
tale. Il suo concetto di onore, il suo orgoglio, la sua
autocoscienza appartengono al suo ceto, non alla sua individuali
tà. Il suo ethos consiste nell'essere all'altezza del ceto
cui appartiene. Nella misura in cui, con l'ascesa e l'arricchimento
della borghesia cittadina (e della monarchia assoluta),
l'appartenenza al ceto perde progressivamente significato per il
destino individuale - poiché i borghesi accedono ai posti
direttivi (e costituiscono una 'nobiltà della funzione'),
oppure sopravanzano anche la vecchia nobiltà in splendore e
ricchezza - si modifica anche il ruolo della coscienza di ceto.
Mentre presso gli uni essa acquista una crescente
aggressività e arroganza (soprattutto nei gruppi inferiori
dei ceti più elevati), presso gli altri va progressivamente
perduta.
Nella cerchia degli osservatori perspicaci di quei mutamenti sociali
si annoverano anche i transfughi del clero e della nobiltà
verso il Terzo stato, prima e dopo la Rivoluzione francese. Questi
esponenti del clero e della nobiltà non si sentivano certo
membri della borghesia in ascesa, però divenivano coscienti
dell'eguaglianza di tutti gli esseri umani, togliendo perciò
credibilità alle differenze di ceto. La divisione in ceti
più o meno elevati, distinti sulla base di privilegi dal
resto della popolazione, perse in tal modo plausibilità e
legittimità. La coscienza di ceto sopravvisse soprattutto
presso i (piccoli) funzionari, gli appartenenti alle libere
professioni, gli artigiani, ecc., nutrita dal risentimento contro la
dinamica della società borghese-capitalistica, e dunque
rivolta al passato. Questi gruppi sociali cercavano di difendersi,
con l'ausilio del concetto di ceto, dal livellamento della
società industriale capitalistica.
L'esempio della coscienza di ceto può servire a illustrare, e
contrario, le peculiarità della coscienza di classe in senso
marxiano. Alla persona di rango elevato appartiene sin dall'inizio
l'autocoscienza di ceto. Gli appartenenti a una classe costituiscono
un collettivo solo oggettivamente, perlomeno all'inizio. La loro
autocoscienza quali membri di un tutto (la classe) emerge solo come
risultato di un processo di presa di coscienza, compiuto non senza
sforzo teorico. Nel caso della coscienza di ceto l'autocoscienza
collettiva è data all'inizio e va perduta nel corso del
tempo, parallelamente alla dissoluzione della società fondata
sui ceti, nella misura in cui quell'autocoscienza non viene tenuta
ferma, in una difesa reazionaria, contro la dinamica della
società divisa in classi. La coscienza di classe si trova
solo alla fine d'un processo di presa di coscienza, cui corrisponde
una determinata organizzazione.
2. La coscienza di classe borghese
La prima classe in senso moderno è la borghesia. Sotto questo
nome Marx comprende i proprietari dei (grandi) mezzi di produzione,
che vengono utilizzati economicamente ai fini della massimizzazione
dell'utile e dell'accumulazione del capitale. Definito il concetto
in questo modo, appartengono per esempio già alla borghesia
settori della nobiltà fondiaria inglese del XVII secolo.
Più esattamente, si tratta di capitalisti agrari, che si
differenziano dalla nobiltà più antica non per la
proprietà, bensì per il modo in cui l'amministrano.
Mentre la nobiltà fondiaria tradizionale utilizza la sua
ricchezza per vivere come si conviene al suo ceto e per funzioni di
rappresentanza, il che implica anche l'assunzione di funzioni
pubbliche, il proprietario terriero che amministra in modo moderno,
anche se appartiene alla nobiltà, usa la proprietà per
ricavarne una rendita, possibilmente elevata, e investe una parte
del surplus in altre imprese lucrose (in città o in
campagna).
Questo nuovo modo di utilizzazione della proprietà si
sviluppa di pari passo con la distruzione degli antichi legami
patriarcali fra signore feudale e servo della gleba (o schiavo). Il
lavoratore salariato libero e il fittavolo legato a contratti di
breve durata entrano con il signore solo in rapporti mediati dal
denaro (o da scambi in natura). La premura 'paterna' del
proprietario nei confronti dei suoi lavoranti viene bensì
mantenuta come ideologia, ma perde sempre più la sua forza
normativa. I contrasti di interessi nel processo del clearing of
estates, delle recinzioni e della trasformazione di grandi
appezzamenti di terreni coltivabili in pascoli, con la
corrispondente espulsione dei contadini dalla terra, vengono a
cadere. Questi proprietari terrieri imborghesiti non hanno ancora
una coscienza di classe borghese, ma sanno bene come far valere i
propri interessi nella Camera alta inglese (e tramite i loro figli
più giovani anche nella Camera bassa).Un'autocoscienza e una
coscienza di classe della borghesia molto più intense si
sviluppano sul continente, in Francia. Certamente si è avuta
anche qui una fusione fra la borghesia in ascesa (e frequentemente
nobilitata) e la nobiltà, ma, soprattutto nei decenni
precedenti la Rivoluzione, gli appartenenti alla nobiltà si
sono richiamati in misura ancora maggiore ai loro privilegi,
pretendendo per sé in modo esclusivo i posti più
elevati nell'esercito, ai vertici delle diocesi, a corte, ecc. La
borghesia, che formava lo strato superiore del Terzo stato,
già da tempo economicamente rafforzata, non volle rassegnarsi
a questa discriminazione. L'abate Sieyès, formalmente
appartenente al Primo stato (quello del clero), ma in realtà
uno degli scrittori che ha contribuito all'educazione della
borghesia, formula il diritto di quest'ultima a governare designando
- in forma per noi retrospettivamente paradossale - l'intero Terzo
stato come la nazione: "Che cos'è il Terzo stato? Tutto. Che
cos'è stato finora nell'ordinamento statale? Nulla. Che cosa
vuole? Diventare qualcosa". Al Terzo stato appartenevano tutti quei
Francesi che non facevano parte del clero o della nobiltà. Ma
di fatto Sieyès parlava già in nome della parte
possidente di quel ceto, una parte che s'identificava con il tutto e
di fatto rappresentò - temporaneamente - gli interessi del
tutto (dell'intera popolazione dei non privilegiati).
Nel postulato del diritto da parte del Terzo stato a esercitare una
funzione decisionale si articola, si può dire, l'incipiente
coscienza politica di classe della borghesia. La coscienza di classe
in questo senso (allora del tutto inconsueto) significa anche
autocoscienza del valore e del ruolo della propria classe, a
differenza delle altre classi (privilegiate). In questo senso
già Voltaire, tra gli altri, aveva distinto la borghesia
lavoratrice e istruita dalla nobiltà oziosa e dal clero
parassita.
La sempre più forte autocoscienza della borghesia si alimenta
dell'orgoglio per le proprie prestazioni e dell'affermazione d'una
propria più elevata moralità. Nella misura in cui
riesce a coloro che pensano in senso borghese di rendere dominanti
le norme morali della borghesia - diligenza, coscienziosità,
fedeltà al contratto - ovvero di conquistare l''egemonia'
culturale, i ceti privilegiati sono costretti sulla difensiva.
Saint-Simon, che viene abitualmente annoverato fra i socialisti
utopisti, nella sua polemica contro gli "oziosi" ha solo raccolto un
topos borghese, utilizzandolo nella lotta contro la Restaurazione in
Francia. In una sua famosa parabola ha contrapposto l'ipotesi della
perdita di 50 appartenenti all'alta nobiltà, all'alto clero,
ecc., alle conseguenze della perdita dei 50 più importanti
fra "tecnici, ingegneri, architetti, banchieri, uomini d'affari,
contadini, muratori, falegnami, carpentieri". "La loro perdita
lascerebbe la Francia senza anima e vita, mentre la perdita degli
alti funzionari di corte, dei ministri, dei consiglieri di Stato,
dei cardinali, dei ricchi proprietari, ecc., affliggerebbe
senz'altro i Francesi, perché sono buoni [...]. Ma questa
perdita dei 30.000 Francesi presuntivamente più importanti li
preoccuperebbe per motivi puramente sentimentali, poiché da
essa non deriverebbe alcuno svantaggio per lo Stato".
Nel novero dei Francesi utili troviamo, gli uni accanto agli altri,
proprietari di capitali e lavoratori salariati, riuniti da
Saint-Simon sotto il concetto di industriels, ove industrie
significa al tempo stesso 'operosità' e 'industria'. Di
contro a loro il resto della società appare composto di
"lussuriosi nullafacenti", meri consumatori che vivono sulle spalle
della Francia attiva e produttiva. Bisogna però prestare
attenzione al fatto che Saint-Simon annovera tra i diligenti
produttori anche i banchieri. Vengono esclusi da lui solo quei
borghesi che vivono della loro rendita da capitale e non sono attivi
come dirigenti d'azienda sul piano economico e organizzativo. "Il
lavoro tende naturalmente all'ordine. Il disordine proviene in
ultima istanza sempre dai nullafacenti" (L'organisateur, 1819-1820).
Questo concetto rimane un nucleo dell'ideologia e dell'autocoscienza
borghesi, finché esso si articola soprattutto nella
delimitazione sociale rispetto ai ceti privilegiati. Una svolta
interviene solo quando comincia a formarsi, di contro alla borghesia
(ai proprietari di capitale), una nuova classe, il proletariato
industriale. Allora la demarcazione non può più essere
costituita dall'opposizione tra attività produttiva e ozio.
La maggior parte dei socialisti usa anzi questa demarcazione nei
confronti dei proprietari di capitali, dei quali viene evidenziata
la natura tendenzialmente superflua.Una forma di strategia difensiva
della borghesia rispetto alla classe dei lavoratori consiste nella
ripresa del concetto di ceto; un'altra nell'accentuazione delle
differenze individuali (d'intelligenza, forza di volontà,
'valore'), che vengono indicate come cause dell'appartenenza a una
classe: "ognuno è artefice del proprio destino"; le classi
sarebbero solo descrizioni mutevoli di uno stato sociale in
sé dinamico e variabile. Fondamentalmente, nell'analisi
borghese, non esistono classi, bensì solo 'ruoli' offerti
dalla società, che possono essere ricoperti da tutti a
seconda delle prestazioni di cui ciascuno è capace. Da questo
abbozzo necessariamente semplificato si deduce che una coscienza di
classe borghese in forma marcata si è avuta soprattutto
durante il contrasto con l'ancien régime e con i privilegi
dei primi due stati. In questa fase l'interesse di classe della
borghesia in ascesa fu identificato con l'interesse di tutta la
popolazione non privilegiata. Quando la posizione della borghesia fu
messa in discussione dall'avvento di una nuova classe - il
proletariato industriale -, o si restaurò il concetto di ceto
(da parte dei conservatori, ancora nel nostro secolo: si veda per
ciò Othmar Spann e il concetto fascista di ceto, integrato
nel corporativismo), oppure si contestò l'esistenza in
generale di classi chiaramente definite. La sociologia borghese o ha
accettato l'idea di una società 'stratificata', con una
molteplicità di ruoli sociali, oppure ha parlato - ad esempio
nella Germania Federale - di una società livellata di ceti
medi. Ralf Dahrendorf, per esempio, ha inteso conservare il concetto
di classe nell'ambito della struttura politica della società,
ma lo ha rifiutato come obsoleto per la struttura sociale.
Con la sostituzione del concetto di classe con quello di strato
sociale e la differenziazione dell'appartenenza sociale secondo
intrecci di elementi caratterizzanti, viene al tempo stesso negata
la possibilità di una 'coscienza di classe'. Una 'coscienza
di strato' non è possibile in quanto l'appartenenza a uno
strato specifico è in larga misura variabile, e in una
società del benessere e dei consumi le illusioni sulla
propria appartenenza a uno strato (o a una classe) giocano un ruolo
fondamentale. Gli strati vengono distinti fra l'altro in base ai
seguenti criteri: cultura, lusso dell'abitazione, attività
professionale (white collar, blue collar, ecc.), utilizzazione del
tempo libero, ecc. In una società di ineguali, orientata alla
ricerca del prestigio e alla competizione per il raggiungimento di
un certo status, vi è una tendenza generalizzata a voler dare
l'impressione di appartenere a uno strato più elevato. A
ciò si oppone la solidarietà di classe dei salariati
(operai e impiegati), che viene perciò sensibilmente
repressa.
3. L'impossibilità di una coscienza di classe
piccolo-borghese
La coscienza di classe borghese si è sviluppata, come si
è detto, dal confronto con i ceti privilegiati dell'ancien
régime. Essa si concepisce, innanzitutto, come coscienza del
Terzo stato (di tutte le persone non privilegiate) in generale, e
avanza per questo ceto la pretesa di essere 'la nazione'. La piccola
borghesia, nella quale Marx include i piccoli produttori di merci
della città e della campagna, dispone bensì, come la
borghesia (la "classe dei capitalisti"), di propri mezzi di
produzione, ma non di lavoratori salariati. In genere, i piccoli
contadini lavorano la loro terra (o quella affittata) con l'ausilio
dei membri della famiglia; gli artigiani operano nella loro
officina, assieme ai membri della famiglia e a uno o due lavoranti
che aspirano a mettersi in proprio; i commercianti stanno nel loro
negozio e dispongono di un loro magazzino di merci. La piccola
borghesia resta legata più a lungo degli altri al concetto di
ceto, perché esso sembra assicurarle l'appartenenza alla
borghesia. Essa non si concepisce come classe, non sviluppa una
propria coscienza di classe. Quanto più si sviluppa un
proletariato organizzato, tanto più decisamente i piccoli
borghesi (artigiani, contadini) insistono sulla loro appartenenza al
ceto borghese e sono disposti, ancora oggi, a consentire che i
grandi proprietari e i grandi imprenditori rappresentino i loro
interessi.Per un settore della piccola borghesia dominante in
Francia nel 1850, e cioè i contadini piccoli proprietari,
Marx ha chiarito in modo preciso, nel 1851-1852, la loro
incapacità di sviluppare una coscienza di classe politica. I
piccoli contadini, che costituiscono la maggioranza della
popolazione francese, formano secondo Marx la base sociale del
Secondo Impero. Nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte egli scrive: "I
contadini piccoli proprietari costituiscono una massa enorme, i cui
membri vivono nella stessa situazione, ma senza essere uniti gli uni
agli altri da relazioni molteplici. Il loro modo di produzione,
anziché stabilire tra di loro rapporti reciproci, li isola
gli uni dagli altri. Questo isolamento è aggravato dai
cattivi mezzi di comunicazione della Francia e dalla povertà
dei contadini stessi. Il loro campo di produzione, il piccolo
appezzamento di terreno, non consente nessuna divisione del lavoro
nella sua coltivazione, nessuna applicazione di procedimenti
scientifici e quindi nessuna varietà di sviluppo, nessuna
diversità di talenti, nessuna ricchezza di rapporti sociali.
Ogni singola famiglia contadina è quasi sufficiente a se
stessa, produce direttamente la maggior parte di ciò che
consuma e guadagna quindi i suoi mezzi di sussistenza più
nello scambio con la natura che nel commercio con la società.
Un piccolo appezzamento di terreno, il contadino e la sua famiglia;
un po' più in là un altro piccolo appezzamento di
terreno, un altro contadino e un'altra famiglia [...]. Così
la grande massa della nazione francese si forma con una semplice
somma di grandezze identiche, allo stesso modo che un sacco di
patate risulta dalle patate che sono in un sacco" (v. Marx, 1852;
tr. it., p. 195). Ciò che qui viene considerato assente nei
contadini piccoli proprietari rappresenta, al contrario, il
presupposto della coscienza di classe, sia per la borghesia durante
l'ancien régime, sia per il proletariato nelle società
capitalistiche sviluppate. Solo il primo fondamento oggettivo di
tale coscienza, e cioè l'identità del modo di
produzione, è presente nel caso dei contadini piccoli
proprietari. Mancano invece tutti gli altri: il rapporto reciproco,
che porta alla coesione di una classe, la coscienza della
cooperazione di diverse imprese dello stesso settore o di settori
differenti (divisione del lavoro tra le aziende), l'idea
dell'interesse comune derivante da tale contesto e della
necessità dell'accordo fra interessi diversi in vista
dell'interesse di classe collettivo. Tutto questo manca, a
differenza di quanto avviene nella borghesia, soprattutto
perché i contatti fra i contadini piccoli proprietari o non
esistono affatto, o sono molto limitati, e le loro aziende producono
in larga misura in modo autarchico i mezzi di sostentamento.
Quanto sia dannosa l'autarchia locale per lo sviluppo di rapporti
liberi, è stato illustrato da Marx con l'esempio del 'modo di
produzione asiatico', in India e altrove. Lì sono i villaggi
che, in quanto strutture pienamente autarchiche, subiscono lo
sfruttamento da parte di un potere burocratico centrale; in Francia
sono i contadini piccoli proprietari che, essendo incapaci di
articolare i loro interessi, si sottomettono a una figura simbolica:
Napoleone III. Marx riassume il risultato della sua descrizione nel
modo seguente: "Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in
condizioni economiche tali che distinguono i loro modi di vita, i
loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li
contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano una classe" (pp.
195-196). Dunque in termini oggettivi i contadini piccoli
proprietari costituiscono una classe. "Ma nella misura in cui tra i
contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali e
l'identità dei loro interessi non crea tra di loro una
comunità, un'unione politica su scala nazionale e
un'organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. Sono
quindi incapaci di far valere i loro interessi nel loro proprio
nome, sia attraverso un parlamento, sia attraverso una convenzione"
(p. 196).Per la coscienza di classe della borghesia fu importante
l'istituzione del parlamento, nel quale si può scorgere una
specie di stanza di compensazione per i differenti interessi
parziali della borghesia stessa. Dalla discussione e dal compromesso
fra tali interessi parziali risulta poi l'interesse di classe, la
cui tutela nei confronti del resto della popolazione viene
assicurata inizialmente dal suffragio basato sul censo, ovvero con
l'esclusione dal diritto di voto degli strati sociali inferiori. In
seguito è riuscito alla borghesia di legare a sé una
parte degli strati inferiori (della piccola borghesia e di settori
del proletariato) mediante ideologie nazionalistiche e
imperialistiche. Ai contadini piccoli proprietari non è stato
possibile, a causa dei limiti locali della loro unione, creare
un'organizzazione comune (un partito) o una rappresentazione sociale
complessiva dei loro interessi. Il loro status di classe 'in
sé' non ha potuto costituirsi in una coscienza di classe
('classe per sé').
Un destino analogo, secondo Marx, è proprio della piccola
borghesia in generale, che viene per così dire 'schiacciata'
fra la borghesia e il proletariato organizzato e può
decidersi solo per l'una o per l'altra delle due classi organizzate.
Ma anche se non si può più considerare corretta la
previsione marxiana e marxista circa il tendenziale dissolvimento
degli strati intermedi (la nascita di nuovi strati intermedi
è stata comunque evidenziata da Marx stesso come
caratteristica del capitalismo sviluppato), rimane importante la sua
teoria dell'ostacolo, per la formazione d'una coscienza di classe,
costituito da modalità di lavoro e di vita 'isolanti'.
L'esempio della coscienza di classe proletaria renderà
visibile ancora una volta quale sia al contrario il presupposto
della presa di coscienza dell'interesse collettivo di classe.
4. La coscienza di classe proletaria
Nella Miseria della filosofia (1847) Marx descrive nel modo seguente
il processo di formazione della coscienza di classe proletaria: "La
grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone
sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide nei loro
interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune
che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso
proposito di resistenza: coalizione. Così la coalizione ha
sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai
tra loro, per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Se
il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari,
a misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito
di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in
gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento
dell'associazione diviene per gli operai più necessario
ancora di quello del salario. Ciò è talmente vero, che
gli economisti inglesi rimangono stupiti vedendo come gli operai
sacrifichino una buona parte del salario a favore di associazioni
che, agli occhi di questi economisti, erano state istituite solo a
favore del salario. In questa lotta - vera guerra civile - si
riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi necessari a una
battaglia imminente. Una volta giunta a questo punto, l'associazione
acquista un carattere politico" (v. Marx, 1847; tr. it., pp.
223-224).
In altre parole, a differenza dei contadini piccoli proprietari
francesi del 1851, in questo caso riesce il passaggio
dall'identità degli interessi all'unità di una
organizzazione, che per parte sua diviene, da semplice mezzo per gli
interessi individuali, un fine in sé, per il quale vengono
sacrificati perfino gli interessi individuali immediati. "Le
condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della
popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha
creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni.
Così questa massa è già una classe nei
confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta
[...] questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se
stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di
classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta
politica" (p. 224).
Mentre dalle argomentazioni di Marx si potrebbe concludere che lo
sviluppo della coscienza di classe proletaria sorga per così
dire spontaneamente dal contrasto fra le classi, Lenin ha
espressamente sottolineato, nel Che fare? (1902), la
necessità di "diffondere la coscienza politica di classe nel
proletariato". Da questa concezione - che prende le mosse da una
osservazione di Karl Kautsky - è derivata anche la teoria
leniniana del 'partito di tipo nuovo'. "Abbiamo detto che gli operai
non potevano ancora avere una coscienza socialdemocratica. Essa
poteva essere apportata loro solo dall'esterno. La storia di tutti i
paesi attesta che la classe operaia, con le sue sole forze,
può elaborare soltanto una coscienza tradunionistica" (v.
Lenin, 1902; tr. it., p. 39). Tra la lotta economica, che gli operai
conducono con l'aiuto del sindacato per migliori condizioni
salariali e di lavoro, e la lotta politica per il potere nello Stato
non c'è continuità. Corrispondentemente, c'è un
salto anche tra la coscienza dello sfruttamento economico nella
fabbrica e la coscienza politica di classe, salto che la classe
operaia non può compiere senza aiuti esterni: "La lotta
economica è la lotta collettiva degli operai contro i loro
padroni per conquistare vantaggiose condizioni di vendita della
forza lavoro, per migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli
operai. Questa lotta è necessariamente sindacale,
poiché le condizioni di lavoro sono estremamente diverse
nelle diverse categorie e quindi la lotta per il miglioramento di
tali condizioni deve essere condotta per categorie" (p. 78). Si ha
l'impressione che Lenin abbia qui presenti i sindacati inglesi,
divisi secondo le categorie professionali (non secondo le
industrie). È comunque lunga la strada che conduce dalla
lotta economica alla lotta politica di classe. Gli operai, secondo
Lenin, invitano gli intellettuali a fornir loro il 'sapere
politico', senza il quale non possono sviluppare una coscienza di
classe politica. L'errore fondamentale degli 'economicisti' nel
movimento operaio russo è, secondo Lenin, quello di credere
che "la coscienza politica di classe degli operai si possa
sviluppare dall'interno, sulla base della loro lotta economica,
cioè muovendo solo [...] da questa lotta, partendo solo (o
quantomeno principalmente) da questa lotta" (p. 96). Per contro
Lenin ribadisce energicamente la sua posizione: "La coscienza
politica di classe può essere portata all'operaio solo
dall'esterno, cioè dall'esterno della lotta economica,
dall'esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il campo
dal quale soltanto è possibile attingere questa conoscenza
è quello dei rapporti fra tutte le classi e gli strati
sociali e lo Stato e il governo, il campo dei rapporti reciproci fra
tutte le classi" (p. 97).
Rosa Luxemburg ha decisamente respinto questa concezione leniniana
già nel 1903, ribadendo in seguito la propria critica
soprattutto in base alle sue esperienze della rivoluzione russa del
1905. Ella non vede un salto tra le lotte economiche (fino allo
sciopero di massa) e le lotte politiche, bensì una
continuità, nello svolgimento della quale l'organizzazione
politica del proletariato deve certo esercitare un ruolo attivo,
senza però poter assumere una funzione esclusiva di
direzione.
Nell'articolo Problemi di organizzazione della socialdemocrazia
russa (apparso sulla "Neue Zeit"), Rosa Luxemburg sottolinea la
differenza fondamentale tra le condizioni dell'azione
socialdemocratica e quella dei rivoluzionari francesi radicali negli
anni successivi al 1789. L'azione socialdemocratica "sorge
storicamente dalla lotta di classe elementare. Essa si muove in
questa contraddizione dialettica, che da un lato l'esercito
proletario si recluta solo nel corso stesso della lotta e dall'altro
è ancora soltanto nella lotta che ne chiarisce a se stesso
gli scopi. Organizzazione, chiarificazione, lotta non sono qui
momenti divisi, meccanicamente e anche temporalmente separati, come
in un movimento blanquista, ma sono soltanto facce diverse di un
medesimo processo" (v. Luxemburg, 1903-1904; tr. it., p. 222). Non
è dunque la "diffusione della teoria socialdemocratica" nella
classe lavoratrice, bensì l'esperienza della lotta politica
ciò che, secondo Rosa Luxemburg, consente lo sviluppo tanto
dell'organizzazione quanto della coscienza di classe del
proletariato. Questa convinzione si rafforza in lei in seguito alla
rivoluzione russa del 1905-1906. "L'improvvisa generale sollevazione
del proletariato in gennaio sotto la spinta potente degli
avvenimenti di Pietroburgo era verso l'esterno un atto politico di
dichiarazione di guerra rivoluzionaria all'assolutismo. Ma questa
prima generale azione diretta di classe reagì, proprio in
quanto tale, tanto più fortemente verso l'interno, svegliando
per la prima volta come per mezzo di una scossa elettrica il
sentimento e la coscienza di classe in milioni e milioni di
lavoratori" (v. Luxemburg, 1906; tr. it., p. 315). La coscienza
politica di classe - tale la sua valutazione - si è
sviluppata in Russia, grazie all'esperienza del grande sciopero,
molto più rapidamente ed efficacemente che non in Germania
sulla base di una pur assai intensa educazione teorica: "Un anno di
rivoluzione ha dato al proletariato russo quella educazione che
trent'anni di lotte parlamentari e sindacali non possono dare
artificialmente al proletariato tedesco" (p. 346). Rosa Luxemburg
introduce nella discussione i concetti di 'sensibilità di
classe' e di 'istinto di classe', e individua in questo istinto il
'fondamento' della coscienza di classe, che nasce nella lotta e
dalla lotta.Stalin ha condannato questa concezione di Rosa Luxemburg
definendola "teoria spontaneistica". Anche Lenin l'ha respinta,
considerandola impraticabile, soprattutto perché da essa
consegue una limitazione della funzione direttiva del
partito-avanguardia, in quanto le esperienze della classe in lotta
appaiono più importanti dell'insegnamento e della guida
pratica di quella minoranza, che sola ritiene di aver raggiunto il
livello richiesto alla coscienza politica di classe del
proletariato. Sebbene Rosa Luxemburg non neghi affatto il ruolo di
un partito politico di classe, ella concepisce il rapporto fra
partito e classe in modo diverso da Lenin. A suo avviso il
partito-avanguardia non può diffondere nella classe dei
lavoratori una coscienza di classe (coscienza politica o
socialdemocratica) desunta teoricamente, bensì soltanto
agevolare alla classe in lotta, mediante aiuti organizzativi e
parole d'ordine, la via per la presa di coscienza della sua
condizione.
Una formulazione filosofica del concetto leniniano di coscienza di
classe è stata presentata da György Lukács nel
1923 in Storia e coscienza di classe. Punto di partenza per la
teoria di Lukács è la tesi che l'essenza del marxismo
autentico consiste nella nozione dell'indipendenza delle forze
realmente motrici della storia dalla coscienza (psicologica) degli
uomini. Nel caso della coscienza di classe proletaria non si tratta
dunque della coscienza di singoli proletari o della loro
maggioranza, bensì di una coscienza che, sulla base di
un'interpretazione complessiva della società e della sua
dinamica, può essere attribuita alla classe come tale.
L'unica prospettiva di classe, però, in base alla quale
è possibile una conoscenza comprensiva della totalità
sociale, è quella del proletariato. Ciò accade
perché il proletariato - tendenzialmente - produce la
totalità delle condizioni sociali di vita, ed è dunque
'soggetto' della realtà storico-sociale. Dal punto di vista
della borghesia - questa la deduzione di Lukács - tale
totalità non è afferrabile. Alla classe borghese
appartiene una 'necessaria incoscienza' rispetto alla
totalità sociale.
Con ciò è anche confutata, sul piano teorico, la
pretesa borghese di dominio sulla totalità. "Di fronte
all'indubbia superiorità dei mezzi nel campo del potere, del
sapere, dell'educazione, della routine, ecc., che la borghesia
continuerà a possedere fin quando rimarrà la classe
dominante, l'arma decisiva, l'unica vera superiorità del
proletariato, è la sua capacità di cogliere la
totalità della società come totalità concreta,
storica, di comprendere le forme reificate come processi fra uomini,
di portare positivamente alla coscienza e di tradurre nella prassi
il senso immanente dello sviluppo, che nelle contraddizioni della
forma astratta di esistenza viene alla luce solo negativamente" (v.
Lukács, 1923; tr. it., p. 259). Questa capacità
corrisponde certamente, come 'possibilità oggettiva', al
punto di vista del proletariato, ma non può in alcun modo
essere sviluppata spontaneamente dal proletariato stesso. Questo
compito spetta piuttosto agli intellettuali (come i leniniani
'tribuni del popolo' o leaders di partito). Il partito comunista
è perciò per Lukács "una forma autonoma della
coscienza di classe proletaria nell'interesse della rivoluzione.
È necessario comprenderlo in modo teoricamente corretto in
questo duplice rapporto dialettico: come forma e al tempo stesso
come forma di questa coscienza, ovvero a un tempo nella sua
autonomia e nella sua coordinazione" (p. 407). In un altro saggio
dello stesso libro Lukács si riallaccia strettamente a Rosa
Luxemburg e sottolinea che "l'organizzazione è molto
più una conseguenza che un presupposto del processo
rivoluzionario, così come il proletariato stesso può
costituirsi in classe solo nel processo e in virtù del
processo" (p. 54). Egli aggiunge però subito che al partito
"spetta perciò l'alta funzione di essere portatore della
coscienza di classe del proletariato, coscienza della sua missione
storica" (ibid.). Anche se Lukács, analogamente a Lenin e
collegandosi a lui, afferma la relativa autonomia del partito in
quanto 'forma' della coscienza di classe proletaria, il rapporto fra
partito e classe è da lui visto piuttosto alla maniera di
Rosa Luxemburg. Il partito non appare come precettore e maestro,
bensì come ausilio (e ciò anche se è ben fermo,
per lui come per Lenin, che il partito possiede una conoscenza
più avanzata rispetto al resto della classe). "La coscienza
di classe è l'etica' del proletariato, l'unità della
sua teoria e della sua prassi, il punto in cui la necessità
economica della sua lotta di liberazione si rovescia dialetticamente
in libertà. Essendo riconosciuto come forma storica e veicolo
attivo della coscienza di classe, il partito diviene al tempo stesso
il veicolo dell'etica del proletariato in lotta [...]. Perché
la forza del partito è una forza morale: essa è
alimentata dalla fiducia delle masse spontaneamente rivoluzionarie,
costrette alla rivolta dallo sviluppo economico; è alimentata
dal sentimento che il partito è l'oggettivazione del loro
più proprio sapere, a loro stessi non ancora del tutto
chiaro, la forma visibile e organizzata della loro coscienza di
classe. Solo quando il partito ha conquistato questa fiducia
può divenire guida della rivoluzione. Perché solo
allora l'impulso spontaneo delle masse spingerà con forza e
sempre più istintivamente verso il partito, verso la presa di
coscienza" (p. 55). In tal modo Lukács cerca di conciliare le
teorie luxemburghiana e leniniana del partito.
Il problema comune alla teoria leniniana del partito e della
coscienza di classe e alla teoria hegelo-marxista di Lukács
è lo svincolamento del partito-avanguardia dai bisogni reali
della classe dei lavoratori, che sono considerati seriamente e
accettati solo nella misura in cui corrispondono all'idea della
corretta coscienza di classe che il partito le attribuisce. Durante
la lotta rivoluzionaria in una società basata sulle classi
ciò può essere non problematico, ma quando il
monopolio interpretativo della coscienza di classe è detenuto
da un unico partito al potere, non più limitato da forze e
organizzazioni politiche indipendenti, anche i membri della classe
dei lavoratori sono soggetti a una grave limitazione della
libertà.La "coscienza di classe che nasce e si sviluppa con
la conoscenza della situazione e degli interessi comuni non
è, presa in astratto, specifica del proletariato" (p. 229).
Unica è però la direzione di questa coscienza di
classe proletaria, rivolta 'alla totalità' e al rovesciamento
della totalità. Come autocoscienza della merce, della cellula
germinale dell'intera società, il proletariato supera con la
sua autocoscienza, che spinge all'azione, l'intera realtà
capitalistica. La sua coscienza "non è coscienza di un
oggetto che le si contrappone bensì autocoscienza
dell'oggetto stesso"; perciò "l'atto della presa di coscienza
rovescia la forma di oggettività del proprio oggetto" (p.
234). L'apparente 'cosalità' di merce, denaro e capitale
viene superata e colta come risultato di rapporti sociali. Tale
coscienza di classe può però divenire pratica solo
come azione della classe in quanto tale, non di singoli individui:
"l'individuo non potrà mai divenire misura di tutte le cose,
perché egli ha necessariamente di fronte a sé la
realtà oggettiva come un complesso di cose rigide, che egli
trova pronte e immutabili, e che può soltanto riconoscere o
respingere in un giudizio soggettivo. Solo la classe (non il
'genere', che è solo un individuo contemplativamente
stilizzato e mitologizzato) può riferirsi in modo pratico,
rivoluzionario, alla totalità della realtà. E anche la
classe può farlo solo se, nell'oggettività cosale del
mondo che trova di fronte a sé, è capace di scorgere
un processo, che è al tempo stesso il suo destino" (p. 254).
Con il compimento pratico della coscienza proletaria di classe
nell'azione rivoluzionaria verrebbero superate sia la classe che la
società fondata sulle classi. La coscienza di classe
storicamente determinata del proletariato, dell'unica classe che sia
sorta sul terreno della società (capitalistica) basata sulle
classi, supera dunque se stessa con il suo compimento. Diverso
è il caso dell'autocoscienza degli antichi ceti privilegiati,
che era divenuta sempre più debole verso la fine dell'ancien
régime, per essere infine soppiantata dalla coscienza di
classe borghese. Le strade procedono dunque nei due casi in
direzioni opposte.L'espressione 'coscienza di classe', nel suo
preciso senso marxista, è legata alla teoria marxista della
storia. Negli ultimi decenni essa è divenuta obsoleta per due
ragioni: per un verso, a causa del mutamento della struttura sociale
dei paesi capitalisti altamente industrializzati, per un altro
verso, a causa della perdita di capacità persuasiva della
teoria marxista del progresso. Anche se la grande maggioranza della
popolazione nelle società capitalistiche è costituita
da lavoratori dipendenti, le differenze nell'ambito di essa sono
diventate così grandi che non è più pensabile
la formazione d'una coscienza unitaria.Nel linguaggio corrente,
infatti, il concetto di 'coscienza di classe' viene oggi inteso in
un senso del tutto diverso da quello marxista, se si prescinde da
alcuni marxisti ortodossi. Così, ad esempio, un giornalista
della Germania Federale parlava recentemente della 'coscienza di
classe' degli arrampicatori sociali americani, che cercano di
distinguersi dai loro concittadini mediante consumi di lusso. Nelle
società sottosviluppate, per contro, il concetto di classe
può essere applicato sensatamente, in riferimento alla
frattura della società fra proprietari privilegiati e
contadini ridotti in miseria, lavoratori della terra ed emarginati,
ma non può essere conciliato con il concetto marxista della
coscienza proletaria di classe.