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Enciclopedia delle scienze sociali (1994)
Sommario: 1. Introduzione. 2. I contadini nella storia fino al XIX
secolo: a) l'Europa occidentale; b) l'Europa meridionale; c)
l'Europa orientale. 3. Il processo di emancipazione. 4. La
transizione demografica. 5. Il XX secolo: a) l'Europa occidentale;
b) l'Europa meridionale; c) l'Europa orientale. 6. Il Terzo Mondo. □
Bibliografia.
1. Introduzione
"Fin dalle origini il genere umano si è suddiviso in tre
categorie: i sacerdoti, gli agricoltori e i guerrieri". "Le tre
categorie sono legate tra loro e non possono essere separate, in
quanto sulla funzione di ciascuna poggia l'opera delle altre e tutte
si assistono a vicenda". Questa tipologia medievale, tramandataci
nell'XI secolo da Gerardo vescovo di Cambrais e Adalberone vescovo
di Laon (citt. in Duby, 1978), ha condizionato tutta la riflessione
successiva sui contadini: collocandoli in una posizione socialmente
inferiore, gravandoli della responsabilità di provvedere ai
mezzi materiali da cui tanto dipendevano il potere e la grandezza
degli altri ceti, rendendoli politicamente soggetti alle vicende
alterne dei loro superiori, negava loro, in larga misura, ogni
possibilità di innovazione o riforma sociale e li costringeva
a forme disperate di jacqueries quando le condizioni diventavano
intollerabili. In questo senso la triade di Gerardo e Adalberone ci
fornisce una buona guida per orientarci nella storia del mondo
contadino; ma, poiché omette una quarta categoria - quella
dei mercanti, elemento importante della società già
nell'XI secolo -, non attira la nostra attenzione sui mercati urbani
e sulla loro espansione, che tanto hanno condizionato le
possibilità offerte ai contadini e l'evoluzione della
società rurale.
Adalberone ci descrive una società che era sorta in seguito
alle invasioni barbariche, quando le tribù germaniche avevano
introdotto, entro i confini dell'Impero romano, la propria
organizzazione sociale, nella quale, in origine, la distinzione tra
guerriero e agricoltore non era tracciata molto nettamente (v.
Thompson, 1965). Insediatisi in seno a una popolazione romanizzata e
alla sua aristocrazia, i capi tribù occuparono vaste
proprietà lavorate da schiavi e da servi. Inoltre essi
imposero tributi ai propri coloni - uomini liberi appartenenti alle
loro stesse tribù - nell'ambito di relazioni patrono-cliente
caratteristiche di società tribali in cui erano cominciati a
emergere diversi livelli di ricchezza privata (cfr. Bloch, in
Postan, 1966-1978, vol. I, pp. 235-290).
Col tempo quelle relazioni tribali furono adattate a un sistema
curtense che finì poi per irrigidirsi in uno schema feudale.
Il legame di parentela cedette il posto a quello di vassallaggio: un
cambiamento giuridico di enorme portata, i cui effetti si sarebbero
protratti a lungo, impose il potere e l'autorità del signore
locale fra l'uomo libero, il servo e il re, sottraendo quasi del
tutto i contadini alla giurisdizione della Corona.
Il sistema curtense e il feudalesimo, combinandosi, crearono
un'economia di oligarchie, tra le quali la Chiesa fu una delle
più potenti.
Di fatto all'epoca in cui scriveva Adalberone le cose stavano
già cambiando. Fino a poco tempo prima nelle economie chiuse
della società europea occidentale si produceva un surplus
agricolo molto scarso, si tendeva a pagare gli affitti in
prestazioni o in natura, la circolazione del denaro era inibita
dalla natura ancora incerta del commercio, signori e contadini
costituivano la maggioranza schiacciante della popolazione. Queste
condizioni stavano ormai cedendo il passo a uno sviluppo notevole
della produzione per il mercato, all'espansione delle aree coltivate
e all'incremento della popolazione, tutti fattori concomitanti con
una rinascita urbana che portò prodotti agricoli sul mercato
e immigranti nel settore artigianale in espansione. Questi nuovi
elementi costrinsero sia i proprietari terrieri sia gli affittuari a
rivedere i propri interessi, il proprio status e i propri obblighi.
2. I contadini nella storia fino al XIX secolo
a) L'Europa occidentale
"La storia della campagna nell'Europa occidentale - ha scritto Duby
- viene improvvisamente illuminata [da documenti scritti] durante il
regno di Carlomagno" (v. Duby, 1962). Due caratteristiche essenziali
della vita rurale sono state chiarite dai documenti dell'epoca: i
caratteri duraturi del sistema di produzione contadino e
l'avviluppamento di tale sistema in un groviglio di pretese
signorili, imposte ai contadini all'epoca dell'economia naturale
(5001150), da cui essi per secoli cercarono di affrancarsi. Era
un'età in cui i bisogni dei signori, sia laici che
appartenenti al clero, potevano essere soddisfatti con
approvvigionamenti diretti forniti dai coltivatori, un'età in
cui il commercio era sostanzialmente limitato alle merci pregiate,
ai tessuti costosi, alle pellicce e alle spezie (prodotti che
potevano essere spediti attraverso grandi distanze), e in cui la
circolazione monetaria riguardava soltanto il commercio di tali
generi di lusso, il commercio del bestiame e quello del vino. Nel
settore agricolo lo scambio diretto di beni e di manodopera era la
norma (v. Slicher van Bath, 1960).
Il centro dell'economia naturale era situato nell'Impero carolingio,
con le sue caratteristiche istituzioni di feudalesimo politico e di
economia curtense. Il gruppo sociale fondamentale era la famiglia
contadina, che forniva la manodopera necessaria a lavorare la terra
ed era la principale consumatrice dei suoi prodotti. Tipica era la
compenetrazione tra l'ordine basato sulla parentela e l'ordine
economico, un tratto distintivo che è sopravvissuto fino
all'età contemporanea. Inevitabilmente le pretese che i
signori avanzavano sul lavoro della famiglia si estendevano alle
questioni concernenti la famiglia stessa, giungendo a riguardare
persino matrimoni ed eredità.
Centrale nell'economia curtense era la tenuta signorile, sfruttata
dal proprietario terriero e dal suo castaldo per mezzo del lavoro
svolto dai servi: aratura, erpicatura, sarchiatura e raccolta delle
messi. I servi, inoltre, dovevano provvedere al trasporto delle
merci dei proprietari e svolgere la mansione di messaggeri, e
traevano le risorse necessarie al mantenimento delle proprie
famiglie da piccole proprietà in concessione che essi stessi
lavoravano. L'ampiezza di queste proprietà variava
considerevolmente sia all'interno di uno stesso villaggio sia da una
regione all'altra del paese. Accanto alla popolazione dei servi
c'era un gruppo di uomini liberi con le rispettive famiglie; ma con
l'ulteriore sviluppo del feudalesimo, dopo il regno di Carlomagno,
furono anch'essi sottoposti alle richieste dei signori locali, ai
quali si erano spesso affidati affinché proteggessero le loro
vite e le loro proprietà. Testatici, imposte di successione e
matrimoniali divennero la regola, così come l'obbligo di
usare il mulino, il torchio per il vino, il forno e la fabbrica di
birra del signore. I diritti signorili, che riguardavano già
le corti dei castelli, furono estesi all'uso dei mercati, dei boschi
e delle peschiere. Sui contadini, inoltre, gravavano le decime
ecclesiastiche dovute alla Chiesa, che possedeva anch'essa grandi
proprietà terriere.
Malgrado tutti questi oneri, l'agricoltura progredì, in
concomitanza con l'espansione del commercio, con lo sviluppo delle
città e con un incremento della popolazione, moderato
inizialmente - tra il 1000 e il 1150 -, più rilevante in
seguito, tra il 1150 e il 1300.
"Un importante mutamento nella produttività, l'unico nella
storia fino ai grandi progressi dei secoli XVIII e XIX, ebbe luogo
nelle campagne dell'Europa occidentale tra il periodo carolingio e
gli albori del XIII secolo" (v. Duby, 1962). Come si giustifica un
evento così eccezionale, il cui sviluppo rimane oscuro, le
cui origini e la cui evoluzione risultano complesse e la cui
diffusione geografica si rivela discontinua? Fondamentalmente i
sistemi di coltivazione beneficiarono degli effetti di un incremento
della popolazione. Si introdussero migliori sistemi di rotazione: in
alcune regioni, in un numero sempre maggiore di tenute, si
sostituì il sistema triennale a quello biennale, che, a sua
volta, aveva rappresentato un progresso rispetto al metodo 'taglia e
brucia', all'epoca ancora praticato. Migliorarono gli attrezzi da
lavoro, si sostituirono i cavalli ai buoi come animali da tiro, con
il risultato di sveltire il lavoro agricolo e di rendere possibile
un maggior numero di arature. Tra i proprietari terrieri che
desideravano migliorare l'amministrazione delle proprie tenute
cominciarono a circolare trattati di agricoltura in lingua volgare.
Tra il IX e il XIII secolo i raccolti raddoppiarono, anche grazie
alla maggiore estensione delle aree coltivate.
Queste innovazioni furono accompagnate da mutamenti sociali. Le
famiglie in grado di mettere insieme squadre di aratori divennero
l'elemento centrale della seigneurie; rispetto al loro lavoro
risultò svalutato quello dei bordars e dei cottars, i
braccianti che non lavoravano in gruppo e usavano la zappa. Ne
derivò una differenziazione sociale all'interno della
comunità di villaggio: coloro che non possedevano animali
furono obbligati a pagare le imposte feudali in denaro
anziché in servizi; cominciò a formarsi una classe di
lavoratori agricoli salariati. Andò gradualmente emergendo
una nuova struttura agraria, basata su aziende più piccole
che, grazie alla maggiore produttività, erano in grado di
assicurare il mantenimento e l'impiego a tempo pieno delle famiglie.
Nel 1305 l'abbazia di St. Bertin, nelle Fiandre francesi, si disfece
di 102 aziende: il 71% di esse aveva un'estensione inferiore ai 2
ettari; soltanto il 16% superava gli 8 ettari. Nell'Inghilterra
orientale, più o meno nello stesso periodo, il 46% delle
proprietà libere e il 29% delle proprietà servili si
estendevano per meno di 3 ettari; il 23% delle proprietà
libere e il 31% di quelle servili erano di 12 o più ettari.
A quell'epoca 12 ettari non erano garanzia né di ricchezza
né di abbondanza, e certamente molta gente non riuscì
mai a sollevarsi troppo da condizioni d'indigenza e d'inedia;
tuttavia i progressi sociali ed economici in atto erano tangibili:
lo dimostrano la minore incidenza di carestie diffuse (del tutto
assenti dai Paesi Bassi e dalla Germania tra il 1215 e il 1315) e
l'importazione di cereali dal Baltico, nel biennio 1217-1218, per
prevenire la carestia. Assai indicativa della rinascita economica
nel tardo Medioevo è l'allusione di Walter di Henly
all'effetto dei prezzi elevati sulla semina a grano delle terre
marginali (sappiamo che l'indice dei prezzi della farina crebbe da
100, negli anni 1160-1170, a 203 nel corso della generazione
successiva, e sorpassò 300 intorno agli anni 1300-1319). Ma
le prove conclusive che si trattò di un periodo di
prosperità sono fornite dal fatto che la produzione era
decisa in base alla domanda e dalla comparsa di gusti più
raffinati: i ricchi mangiavano pane bianco fatto di sola farina di
grano, per cui il grano veniva coltivato in terreni che altrimenti
sarebbero stati riservati alla segale. I ceti inferiori imitavano le
abitudini alimentari dell'aristocrazia. Duby descrive la domanda,
nata nel bel mondo cavalleresco, di vino di alta qualità, di
carne e di tessuti di lana fine tinti con colori brillanti, domanda
che "si diffuse tra i ceti sociali più bassi e, a poco a
poco, entrò a far parte delle abitudini dei signorotti di
campagna, dei nobili di città e persino dei contadini" (v.
Duby, 1962).
La domanda di prodotti agricoli proveniente dalle città
riguardava non solo i generi alimentari ma anche le fibre, le pelli
e le materie prime per l'industria tessile: canapa, lino, guado,
robbia, ginestrella, cardi e giunchi. Le regioni boscose che
circondavano la maggior parte dei villaggi fornivano non solo legna
da ardere e carbone, ma anche resina per le torce, corteccia per le
corde, cera per le candele e tigli e frassini per usi vari.
Particolarmente rilevante era, da parte dei vinai, la domanda di
legno per costruire botti. I contadini erano collegati al circuito
economico da una moltitudine di piccole città di mercato, che
cominciarono ad attrarre gli emigranti rurali alla stessa stregua
dei maggiori centri urbani. L'aumento della prosperità nelle
aree rurali favorì lo sviluppo di attività agricole
part-time o non agricole nei villaggi e nei territori circostanti,
e, soprattutto, attirò l'investimento di capitali urbani
nella campagna. Un po' alla volta l'era dell'economia naturale
cedette il passo a un'era in cui le pratiche curtensi furono
trasformate in pratiche di vassallaggio, in cui i servizi pagati in
natura furono monetizzati e in cui un'influente borghesia
trovò posto accanto al clero e all'aristocrazia. La visione
delle cose di Adalberone, mai esauriente, divenne sempre più
anacronistica.
Nella seconda metà del XIV secolo i progressi in corso furono
interrotti da svariate calamità, di cui la più
terribile fu la peste nera. Epidemie avevano infuriato in Europa sin
dall'inizio del 1300; la peste nera fu la peggiore, con un'incidenza
notevolmente diversa da regione a regione. Gli alti livelli di
mortalità associati alla peste furono probabilmente
determinati anche dalla prolungata denutrizione sofferta da alcuni
settori della popolazione nei periodi precedenti, una carenza
imputabile all'eccessivo sfruttamento delle terre marginali, dovuto
alla sovrappopolazione che caratterizzò l'inizio del XIV
secolo (v. Slicher van Bath, 1960).
Dopo il suo scoppio iniziale, fra il 1347 e il 1349, la peste
divenne endemica; in Francia le epidemie si susseguirono nei
periodi: 1360-1361, 1373-1375, 1380-1383, 1399-1401, 1438-1441,
1450-1453 e andamenti analoghi si registrarono in altre parti
d'Europa. Un'altra calamità fu la guerra, che ebbe
però un'incidenza più localizzata rispetto alla peste,
con periodi di remissione più o meno lunghi a seconda delle
regioni. Nell'Ile de France in 95 anni si ebbero 40 anni di guerra.
Probabilmente, a lungo termine, i danni maggiori furono causati non
tanto dai saccheggi e dalla distruzione di vite umane, di
proprietà e di bestiame, quanto dalla paralisi della vita
agricola dovuta alla paura di un ritorno delle truppe. Dopo il 1300
i cattivi raccolti sembrarono moltiplicarsi e le carestie divennero
più frequenti.Il calo della popolazione produsse importanti
cambiamenti nel settore rurale: la manodopera agricola
cominciò a scarseggiare e quindi aumentò il costo del
lavoro e della conduzione dei poderi. I proprietari terrieri si
trovarono ad affrontare la carenza di affittuari, servi e
lavoratori, e tentarono di contrastarla offrendo a titolo gratuito,
per un certo numero di anni, il godimento dei propri terreni,
riducendo i canoni d'affitto e ricorrendo ad altri incentivi, ma
l'abbandono della campagna e dei villaggi fu inarrestabile. Si
verificò allora una sorta di selezione naturale: le aziende e
i villaggi che sorgevano nelle zone più fertili sopravvissero
alla crisi, quelli situati in posizioni meno favorevoli scomparvero
(v. Abel, 1935). In Germania la percentuale dei villaggi abbandonati
fu più alta nelle regioni montuose del Mittelgebirge, dove le
condizioni ambientali erano meno propizie all'agricoltura. Nelle
terre più fertili del Basso Reno e dell'Ovest il numero dei
villaggi abbandonati fu molto inferiore. In Norvegia le zone
montuose furono abbandonate a favore dei territori più
pianeggianti e dei villaggi costieri, dove si poteva ricavare un
ulteriore cespite dalla pesca. Ovviamente furono abbandonate le aree
marginali dove la popolazione si era insediata sotto la spinta
dell'incremento demografico delle epoche precedenti; ma furono
abbandonati - per esempio in Inghilterra - anche villaggi che
sorgevano in zone prevalentemente arabili.
La diminuzione della popolazione determinò una flessione
della domanda di cereali. I problemi dei proprietari terrieri furono
aggravati dal ribasso dei prezzi del grano, che, nonostante
periodiche inversioni di tendenza dovute a cattivi raccolti, a
guerre e a carestie, fino alla metà del XV secolo rimasero,
nel complesso, inferiori ai livelli raggiunti nei primi anni del XIV
secolo. L'allevamento del bestiame diventò quindi
un'attività più redditizia e la conversione dei
terreni arabili in pascoli divenne una caratteristica rilevante in
alcune regioni, soprattutto in Inghilterra, ma anche in altre zone
d'Europa. Il prezzo del manzo mostrò una tendenza al rialzo
per quasi tutto il corso dei secoli XIV e XV. Aumentò
notevolmente l'importanza dei prodotti animali nella dieta di quasi
tutti i settori della popolazione: aumentò la richiesta non
solo di manzo, ma anche di pesce proveniente dalle peschiere, di
latticini, di frutta e di vino.
Con la ripresa dell'incremento demografico si assistette al ritorno
di molte caratteristiche associate ai momenti più felici del
periodo medievale: espansione del commercio e delle città,
estensione delle aree coltivate, miglioramento e intensificazione
delle tecniche agricole. Ma gli avvenimenti dei secoli XVI e XVII
non furono affatto una mera ripetizione del passato: nuovi elementi
fecero la loro comparsa nella società, per esempio la
Riforma, e la formazione delle monarchie assolute provocò uno
spostamento dell'equilibrio politico a favore dello Stato e dei suoi
rappresentanti. Nonostante lo stereotipo dell'isolamento, della
rusticità e dell'ignoranza, i contadini sono sempre stati
coinvolti nelle controversie religiose, nelle guerre di religione e
nei conflitti nazionali, e sono sempre stati soggetti alle pressioni
delle forze del mercato.
La ripresa della crescita demografica è stata attribuita al
perdurare della consuetudine di contrarre matrimonio in giovane
età: intorno ai 21 anni nel 1550, contro i 25-26 anni del
periodo 1650-1780. La popolazione della Francia, scesa a 10 milioni
di abitanti verso il 1430, si avvicinò ai 20 milioni intorno
al 1560, epoca in cui si raggiunse un tetto demografico che
restò invariato fino al 1720. Le terre abbandonate dopo la
peste furono riconquistate, e nuove terre vennero colonizzate. Nei
Paesi Bassi, tra il 1565 e il 1615, 44.000 ettari di nuove terre
furono sottratti al mare; lungo la costa tedesca del Mare del Nord
fu compiuta un'ampia opera di bonifica (v. Abel, 1935).
L'aumento della pressione demografica portò a una
frammentazione sempre maggiore delle proprietà contadine.
Nelle Fiandre, da una misura modale di 1,5-3,75 ettari, nel XV
secolo, si passò, nel XVI, a una misura modale di 0,75-1,5
ettari. I contadini erano in competizione con la borghesia per
assicurarsi l'accesso alle terre e di conseguenza gli affitti
aumentarono notevolmente. Nello stesso periodo i salari reali
diminuirono. Secondo Abel, la produzione non mantenne il passo
dell'aumento di popolazione: è "l'unica spiegazione possibile
[...] del peggioramento delle condizioni di vita dei braccianti e
del marcato aumento degli affitti" (v. Abel, 1935). Tutto questo
incise profondamente sul tenore di vita delle classi rurali, delle
famiglie degli agricoltori e delle famiglie dei lavoratori
giornalieri, che costituivano una componente notevole della
comunità di villaggio.
Lo studio di una regione a sud di Parigi coltivata a cereali e a
vite, basato su documenti del sesto decennio del XVI secolo, rivela
che un terzo degli occupati nel settore agricolo era costituito da
salariati - addetti alle vigne, lavoratori giornalieri, carrettieri
e pastori - che avevano accesso solo agli appezzamenti di terra
più piccoli, indispensabili al loro sostentamento. Quanto al
titolo di godimento delle terre, per un terzo esse erano di
proprietà dei contadini o cedute loro in affitto mediante
contratti a lunga scadenza; la vecchia nobiltà e il clero
conservavano la proprietà di quasi un terzo delle terre,
sotto forma di tenute signorili. È significativo che questi
terreni signorili, nella stragrande maggioranza dei casi, fossero
boschivi o altrimenti tenuti a pascolo e a foraggio, mentre le terre
dei contadini comprendevano pochissime foreste ma un'alta
percentuale della superficie totale coltivata a vigna e circa la
metà di quella coltivata a cereali. I poderi dei contadini
fornivano naturalmente i generi necessari al sostentamento delle
rispettive famiglie e qualche prodotto destinato al mercato. Un po'
più di un terzo delle terre era di proprietà della
borghesia parigina e locale, formata da funzionari prossimi a
diventare nobili, da mercanti e da cittadini ricchi. La maggior
parte della terra in loro possesso era coltivata a cereali,
ovviamente destinati al mercato come i prodotti dei vigneti; circa
un quarto della superficie totale coltivata a vigna era di
proprietà di questi borghesi.
Per quel che riguarda la struttura agraria, due processi
inseparabili e opposti erano in atto: la frammentazione della terra
in mano ai contadini e l'ampliamento della grande proprietà
terriera non contadina. Il secondo processo era destinato a
prevalere dopo il 1560. Marc Bloch ha descritto il modo in cui un
gruppo di persone 'socialmente mobili' - mercanti, banchieri,
esattori, usurai, avvocati, funzionari statali, proprietari terrieri
e persino contadini - intraprese la ricostituzione della tenuta
signorile. Le grandi proprietà terriere furono ricostituite
attraverso un processo di lenta accumulazione. Le proprietà
ereditarie divennero alienabili e spesso si adottò la
mezzadria. Di generazione in generazione i nuovi proprietari
svilupparono una gestione più commerciale delle proprie
tenute e cercarono di accedere alla nobiltà, spesso
riuscendoci dopo qualche tempo. I tre secoli tra il 1480 e il 1789
videro la reinstaurazione delle grandi proprietà terriere in
Francia, e in molti casi la proprietà, se non la
nobiltà, sopravvisse alla Rivoluzione (v. Bloch, 1931).
b) L'Europa meridionale
La penisola spagnola e quella italiana - da sempre distinte, a causa
del clima, dall'Europa nordoccidentale di cui ci siamo fin qui
occupati - durante l'alto Medioevo furono teatro di eventi
peculiari, in quanto la loro vita economica si svolse, per un certo
periodo, all'interno del molto più vivace mondo commerciale
islamico. E. Sereni ci descrive la "furia delle invasioni barbariche
e [il] processo di disgregazione del paesaggio agrario ch'esse
precipitano". Di conseguenza l'estensione dei territori incolti,
boschivi e acquitrinosi - processo destinato a invertirsi - "e la
generale mancanza di sicurezza delle campagne spingono di nuovo
queste popolazioni a cercare fra le montagne un territorio di
rifugio, e nei borghi inerpicati un habitat meno esposto all'offesa
nemica" (v. Sereni, 1961, pp. 49 ss). Fu all'ombra dei casali
fortificati, all'interno e oltre i confini di questi borghi che,
alla fine, ebbe luogo la ripresa dell'agricoltura e con essa la
disintegrazione del sistema curtense, soppiantato da un sistema
economico più complesso e commerciale. "Nell'opinione di
studiosi di economia politica quali Sismondi e Cattaneo - scrive
Philip P. Jones - l'Italia medievale dimostrava perfettamente la
validità della teoria secondo cui lo sviluppo agrario
dipendeva dalle città e dal commercio" (cfr. Jones, in
Postan, 1966-1978, vol. I, p. 353). Certamente, in contrasto con
l'impoverimento economico dell'Europa nordoccidentale, l'economia
della Sicilia fiorì nel IX secolo perché "ancora una
volta [essa] trasse vantaggio da una posizione centrale all'interno
di un immenso impero economico che si estendeva dalla Spagna alla
Siria" (v. Mack Smith e altri, 1986, p. 51). In realtà si sa
ben poco delle condizioni delle classi rurali sia in Spagna sia
nell'Italia meridionale durante la dominazione musulmana.
L'esistenza di colture intensive vicino alle città indica il
diffondersi di piccole tenute e di affittanze sicure o di effettive
proprietà contadine (ibid., p. 53). Forme di coltivazione
estensive sopravvissero nelle regioni interne della Sicilia,
favorite dal clima e dall'assenza di terreni irrigati.
Benché sia corretto affermare che la conquista araba ebbe
effetti devastanti - fra cui spicca la distruzione dei boschi
accessibili - essa tuttavia fornì un contributo fondamentale
alla vita rurale della Spagna orientale, della Sicilia e, in
seguito, dell'intera penisola italiana, un contributo riconosciuto
da Sereni: "A quest'influenza araba [...] la Sicilia e il
Mezzogiorno dovranno, per una gran parte, quella certa preminenza
agricola che [...] conserveranno fino al XIV e in certi settori fino
al XVI secolo. Basti ricordare [...] la diffusione di nuove culture
come quella del riso, del cotone, della canna da zucchero [...], del
carrubo, del pistacchio, delle melanzane, degli spinaci e di
parecchie altre essenze orticole". I contributi più duraturi
degli Arabi - nota Sereni - furono l'introduzione dell'arancio e del
limone e, soprattutto, l'introduzione della sericoltura, che entro
la seconda metà del XVI secolo si diffuse anche al centro e
al nord (v. Sereni, 1961, pp. 66-67).
La reconquista e la conquista normanna del Mezzogiorno restituirono
queste terre al modello di sviluppo occidentale. I monasteri
svolsero un ruolo importante nella ricolonizzazione delle regioni di
frontiera scarsamente popolate - León, Castiglia e Aragona -
estendendo l'area coltivata a vigne e a cereali. Per attrarre
coloni, le terre vennero messe a disposizione dei contadini
pressoché libere da qualsiasi obbligo feudale, ma quando
furono riconquistate alcune regioni meridionali del paese,
più densamente popolate, l'amministrazione reale concesse
enormi tenute ai nobili, agli ordini militari e alla Chiesa, creando
latifondi e assoggettando le classi rurali a un certo controllo
personale ed economico. I sistemi di coltivazione intensiva furono
conservati nella huerta di Valenza dopo la fuga della popolazione
moresca, mentre nella Murcia i terreni regredirono a uno stato
paludoso.
La Sicilia infine divenne una colonia della Spagna. "Finché
aveva fatto parte del mondo del Nordafrica e del Levante, l'isola
era stata ricca; ma quando fu forzatamente annessa all'Europa
occidentale perse molti dei vantaggi che le derivavano dalla sua
posizione geografica. Dopo il 1194 la Sicilia divenne una piccola
regione periferica di grandi imperi che si succedettero l'uno
all'altro, e le sue risorse furono impiegate in progetti che
tenevano pochissimo conto degli interessi siciliani" (v. Mack Smith
e altri, 1986, p. 69). All'opposto la crescente prosperità e
la crescente forza economica dei Comuni italiani rivitalizzarono
l'attività agraria nelle regioni settentrionali. Stava
nascendo una nuova società, urbana, ricca e mercantile.
"I secoli tra l'XI e il XIII restano decisivi per la rielaborazione
di un paesaggio agrario organizzato in Italia, grazie alle grandi
opere collettive di bonifica, di irrigazione, di dissodamento che
ora si intraprendono, con nuove forme di organizzazione sociale, che
divengono esse stesse una potente forza produttiva" (v. Sereni,
1961, p. 74). La principale opera di valorizzazione fu il
disboscamento dei fianchi delle colline, dove vennero piantati
castagni e ulivi, piante meno esposte all'azione nociva degli
animali. Con l'avanzamento del controllo sulla campagna la vite
diventò il mezzo principale per intensificare l'uso delle
terre. Quando si costituirono varie forme di associazione furono
costruiti canali, furono intraprese bonifiche e cominciò,
come nel caso di Villafranca di Verona, nel 1185, l'insediamento di
famiglie di agricoltori.
I grandi proprietari terrieri, laici e religiosi - in particolare i
cistercensi - svolsero un certo ruolo in questa rinascita agricola,
che comprese anche la concessione di incolti a pascolo, più
estesi in Savoia, in Piemonte e in Puglia, più ridotti in
Maremma e nell'Agro Romano; in questi terreni, in parte adibiti a
pascolo per grandi mandrie di maiali, si ristabilì anche
l'antica pratica della transumanza delle pecore e fu introdotto
l'allevamento dei cavalli su vasta scala, per soddisfare la domanda
degli aristocratici e del loro seguito. Nel complesso, però,
l'effetto dell'intensificazione delle colture fu l'indebolimento del
potere e dell'autorità della seigneurie, sempre più
indebitata, le cui proprietà furono suddivise e subaffittate,
mentre una nuova razza di proprietari terrieri assunse il controllo
dell'amministrazione delle terre. Poiché le città
rappresentavano gli elementi innovatori nel nuovo sistema, i Comuni
diventarono un fattore di controllo della campagna: le loro classi
governanti, piuttosto che la signoria, cercarono di imporre tasse e
servizi alla popolazione rurale e di controllare l'immigrazione
dalle zone agricole circostanti.
La crescita economica promosse la mobilità sociale e questo
fenomeno rese in particolare quanto mai eterogenea la classe dei
proprietari terrieri. Accanto ad antiche famiglie feudali - alcune
delle quali (Visconti, Este, Malatesta, ecc.) contribuirono al
miglioramento dell'agricoltura e conservarono, se non aumentarono,
le proprie tenute - si affermarono nuovi proprietari terrieri:
nobili e mercanti che acquistavano le terre un po' per volta e
finivano per costruirvi le proprie residenze di campagna,
commercianti, affittuari arricchiti, contadini intraprendenti, ecc.
La tendenza di lungo periodo era quella di separare la
proprietà della terra dalla sua amministrazione. Fecero la
loro comparsa forme di mezzadria, emerse una classe di
amministratori commerciali. Nette disuguaglianze si determinarono
all'interno della stessa popolazione rurale: accanto a contadini
decisamente benestanti - i 'contadini grassi' - vivevano contadini
pressoché indigenti. Alcuni, ovviamente, non erano
agricoltori a tempo pieno e lavoravano nelle città come
artigiani; altri svolgevano lavori stagionali lontani dai propri
villaggi, poiché i loro poderi erano troppo piccoli per
offrire lavoro a tempo pieno a un'intera famiglia. Si formò
una classe di lavoratori salariati.
Liberi dagli antichi obblighi curtensi, i contadini dovettero
però competere in un mondo in cui il commercio aveva un
rilievo sempre maggiore, e dove, dal momento che le comunità
agricole divennero lo strumento della politica urbana - soprattutto
di quella fiscale -, le classi rurali subirono numerose imposizioni.
"In termini strettamente formali [...] il Comune urbano fu una
creazione della società feudale; esso nacque col
trasferimento di certi diritti pubblici [...] da un signore feudale
a un gruppo di vassalli associati a questo scopo" (v. Luzzatto,
1949). Le città furono invase da immigrati provenienti dalla
campagna, tra cui vi erano non solo servi, che così
ottenevano la propria libertà, e affittuari liberi, ma anche
proprietari terrieri e signori feudali, che rinunciavano alla
giurisdizione sui propri sudditi cedendola al Comune. Ciò
permise al Comune, a sua volta, di invadere la campagna per
proteggere i propri interessi. In competizione con le industrie
cittadine, i laboratori curtensi decaddero o scomparvero; ne
derivò una netta divisione del lavoro tra campagna e
città: la funzione primaria della campagna diventò
quella di produrre generi alimentari e materie prime, mentre la
città diventò il centro dell'industria e del
commercio. Le città cominciarono a trattare la campagna come
un territorio coloniale, impedendovi la fabbricazione dei beni che
esse stesse producevano, sempre attente a mantenere bassi i prezzi
dei generi alimentari a causa dei loro effetti sui salari. La
verità - conclude Philip Jones - è che "la
dissoluzione curtense, che emancipò i contadini, era soltanto
un aspetto di una rivoluzione più ampia, che finì col
danneggiarli" (cfr. Jones, in Postan, 1966-1978, vol. I, p. 427).
Nell'Italia meridionale, nelle zone in cui le condizioni urbane o
commerciali erano favorevoli allo sviluppo, la terra fu minutamente
suddivisa e coltivata intensivamente da piccoli proprietari e
affittuari enfiteutici, ma la maggior parte del Sud - soprattutto
l'interno - rimase isolata, e l'economia, dominata da vaste
proprietà, restò in larga misura un'economia naturale.
I proprietari, attratti dalle città, "lasciarono le loro
proprietà nelle mani di amministratori che, di solito, erano
altrettanto ignoranti e brutali quanto i contadini di cui si
dovevano occupare [...]. La popolazione contadina fu tenuta in uno
stato di totale soggezione nei confronti di una classe di
maggiorenti feudali. La situazione rimase invariata, nella maggior
parte del Sud, fino al periodo borbonico" (v. Luzzatto, 1949).
c) L'Europa orientale
Germania orientale, Ungheria, Polonia. - La colonizzazione tedesca
dei territori orientali al di là dell'Elba resta una delle
imprese più notevoli del tardo Medioevo. Si calcola che vi
siano state coinvolte circa 200.000 persone nel XII secolo e
altrettante nel XIII, anche se queste cifre vanno prese con
beneficio di inventario. Per il solo ducato di Sassonia si è
calcolato che una popolazione di meno di 50.000 persone, che nel
1100 lavorava un sesto dei terreni coltivabili, sia aumentata fino a
raggiungere un totale di 400.000 unità entro il 1300, quando
si arrestò l'immigrazione. Aggirando i Monti Metalliferi con
un moto a tenaglia, un'ondata di colonizzazione si propagò,
tra l'VIII e l'XI secolo, dalle regioni da tempo colonizzate della
Baviera fino all'Austria inferiore, alla Carinzia e al Tirolo. Nel
XII secolo i coloni attraversarono la Saale e l'Elba e si sparsero
nel territorio intorno a Berlino. Nello stesso periodo re
Géza II d'Ungheria invitò coloni provenienti
soprattutto dai distretti della Mosella - Metz, Aquisgrana,
Lussemburgo e Bassa Sassonia - a disboscare i territori della
Transilvania. Nel XIII secolo la colonizzazione tedesca si estese
alla maggior parte del Meclemburgo, del Brandeburgo e della Slesia e
alla regione attraversata dal corso inferiore della Vistola; nel XIV
secolo, con il disboscamento e la colonizzazione dei territori
prussiani, il processo si arrestò (v. Franz, 1970, pp.
99-117).
Gli autori tedeschi non perdono occasione per sottolineare il
carattere non coloniale di queste imprese; nessuna assistenza da
parte della madrepatria, nessun vantaggio economico per essa. Le
terre venivano disboscate, bonificate, colonizzate e suddivise in
appezzamenti dalla forma caratteristica, come caratteristica era la
forma del villaggio. Vennero fondate città che si diedero
propri statuti. La natura sistematica di tutta l'operazione ne
costituisce l'aspetto più vistoso e memorabile: principi,
signori, vescovi e abati germanici e slavi assumevano esperti
agrimensori, cui affidavano il compito di organizzare la
strutturazione, il finanziamento e il popolamento della colonia.
Come ricompensa per i rischi che si assumevano, questi imprenditori
ricevevano terre coltivabili, spesso esenti da canoni e da decime,
il diritto di costruire mulini e locande e di detenere altri
monopoli, e il diritto (ereditario o meno) di agire in
qualità di giudici e di sorveglianti del villaggio (tutte
queste concessioni erano alienabili). Veniva così offerto
loro un trampolino di lancio per entrare a far parte della
nobiltà minore rurale o per rafforzare le basi
originariamente urbane della loro ricchezza. Da parte loro, i
contadini che abbandonavano le regioni occidentali sotto la spinta
della pressione demografica, data la loro competenza in materia di
disboscamento, bonifica e valorizzazione dei terreni, erano talmente
richiesti che furono insediati in proprietà esenti da canoni,
ereditabili e alienabili, liberi di andarsene a loro piacimento e
tenuti soltanto al pagamento, a favore del loro signore, di moderate
tasse fisse, che in un primo momento furono sospese per rendere la
proposta più allettante. Pertanto i colonizzatori della
Germania orientale erano contadini relativamente liberi e
indipendenti, che occupavano tenute sufficientemente estese da
garantire il pieno impiego di tutta la famiglia ed erano tutelati da
proprie norme sulla proprietà e di diritto penale e da
proprie corti di giustizia. Questa società contadina era
collegata a una rete di mercati e di città la cui fondazione
era parte integrante dello stesso processo di colonizzazione.
Ciò "innanzitutto garantì all'Est un'economia
controllata dal mercato completa, permanente e caratterizzata dalla
divisione del lavoro" e una struttura sociale che "aveva subito un
sostanziale mutamento con l'introduzione di una vera classe
contadina, economicamente solida e libera", la cui esperienza
avrebbe migliorato le condizioni della popolazione slava asservita,
che lavorava le riserve signorili dei signori feudali (cfr. Aubin,
in Postan, 1966-1978, vol. I, p. 481).
Nel 1250 ebbe origine nel Brandeburgo un commercio di esportazione
in Occidente di cereali, pelli e bestiame, che si fondava su questa
struttura agraria. Tuttavia le sorti mutevoli di questo commercio
nel corso del tempo, la presenza, all'interno di tale struttura, di
estesi possedimenti di proprietà di aristocratici, lo sfacelo
provocato dalla guerra e dalla peste e la forza politica della
nobiltà nei confronti della monarchia contribuirono a
rovesciare l'intera struttura e a rimpiazzarla con un sistema
agrario unico nel suo genere - la Gutsherrschaft - che distinse
queste regioni dal resto dell'Europa e influenzò il loro
sviluppo socioeconomico fino all'epoca della seconda guerra
mondiale.
Intorno al 1400 ebbe inizio un lungo, progressivo processo di
soppressione delle libertà contadine, al termine del quale i
contadini si ritrovarono vincolati alla terra, furono costretti a
fornire prestazioni obbligatorie, i loro salari vennero fissati, le
loro terre confiscate e messe in vendita a tutto vantaggio
dell'aristocrazia; fu addirittura posto un limite alla loro
libertà di scelta del coniuge. Così, intorno alla
metà del XVII secolo, "i discendenti dei primi coloni liberi
erano ormai indistinguibili dai servi. Costituivano insieme un'unica
massa di servi ereditari, contrapposta alla nobiltà" (v.
Slicher van Bath, 1960).
La colonizzazione tedesca dell'Est proseguì durante
quest'epoca di nuova servitù, mentre l'economia della
Gutsherrschaft si espandeva nelle stesse condizioni vantaggiose per
i contadini, verificatesi nel periodo precedente. La Prussia degli
Hohenzollern promosse attivamente la colonizzazione. I 300.000
coloni che giunsero in Prussia e occuparono, durante il regno di
Federico il Grande, per lo più terre di sua proprietà,
portando con sé 2 milioni di talleri, 6.392 cavalli, 7.875
bovini, 20.548 pecore e 3.227 maiali, resero coltivabili circa
400.000 ettari di terreno. Il re poté così affermare,
a buon diritto, di aver guadagnato per il proprio Stato, con mezzi
pacifici, un'intera provincia. La perdita della Slesia indusse anche
gli Asburgo a conquistare interi distretti, se non province,
ricorrendo alla colonizzazione. I grandi proprietari terrieri
ungheresi incoraggiarono la colonizzazione tedesca in seguito
all'allentarsi del dominio turco sul bacino pannonico; le zone di
frontiera attrassero molti coloni, i cui discendenti, in seguito,
colonizzarono parti della Croazia e della Slovenia e, dopo il 1878,
anche della Bosnia. Come in passato, i coloni erano reclutati nelle
regioni occidentali della Germania, compresi i Paesi Bassi. La loro
abilità nel prosciugare i terreni paludosi ebbe un'importanza
cruciale nella valorizzazione delle terre adiacenti al corso
inferiore della Vistola (nell'arco di un decennio il valore delle
terre aumentò di dieci volte) e i magnati polacchi cercarono
di assicurarsi i loro servizi. Di nuovo le condizioni della
colonizzazione favorirono la libertà dei contadini; ma anche
in questo caso i benefici effetti della colonizzazione sulla
posizione sociale dei contadini furono transitori, per il
diffondersi della nuova servitù cui si è accennato in
precedenza.
Uno dei fattori principali che portò all'assoggettamento dei
contadini fu il desiderio dei signori di assicurarsi la manodopera
da adibire alla coltivazione, per scopi commerciali, delle proprie
tenute, che erano diventate di nuovo redditizie. Nel 1600 l'80% del
grano che giungeva ad Amsterdam proveniva da Danzica via mare. La
nuova servitù fu una risposta alle forze di mercato. "La
proprietà terriera era soltanto un'impresa commerciale che
produceva per il mercato" (v. Slicher van Bath, 1960). Ma va
puntualizzato che la produzione era diretta a un mercato estero, non
interno. La domanda proveniente dal mercato urbano locale si era
indebolita e il dominio della classe borghese era in declino, in
seguito alle distruzioni provocate dalle guerre e alla concorrenza
dei mercanti inglesi e olandesi nel Baltico e di quelli tedeschi in
Boemia e in Ungheria. Le Gutsherrschaftsbetrieben - le grandi
proprietà dei magnati - avevano acquisito proprio ciò
che gli autori tedeschi si sforzano di negare riferendosi alla
colonizzazione medievale: una chiara fisionomia coloniale,
caratterizzata dall'esportazione di prodotti agricoli e
dall'importazione di manufatti. L'obiettivo principale dei
proprietari terrieri divenne quello di mantenere i costi di
produzione al livello più basso possibile, obiettivo che
raggiunsero pretendendo sempre di più dai contadini.
La nuova servitù si diffuse in regioni meno raggiungibili dal
commercio baltico, per esempio in Ungheria, dove però, nel
XVII secolo, si era sviluppato un importante mercato interno, legato
allo stanziamento di truppe straniere in occasione delle guerre
turche. Tale mercato fu ampliato a partire dal 1715 con la
costituzione di un esercito permanente in Ungheria e in seguito a
una serie di guerre, a cominciare dalla guerra di successione
austriaca fino alle guerre dell'era napoleonica. I grandi
proprietari terrieri colsero al volo le opportunità
commerciali offerte da questi eventi. Dopo la rivolta di
Dózsa del 1514 cominciò un processo di
assoggettamento. In un primo momento il contadino si trovò
legato alla terra; poi, nel 1608, perse la libertà di
emigrare e la sua persona fu posta sotto il controllo giuridico
delle corti locali, che erano feudi dei proprietari terrieri. Alla
nuova servitù si accompagnò una progressiva
differenziazione all'interno della società contadina: in
particolare divenne sempre più numerosa la classe degli
indigenti senza terra (i sottoinquilini), così poveri che
abitavano nelle casette dei servi (gli inquilini). Nel 1848 ogni 100
servi della gleba che avevano accesso a qualche appezzamento di
terra, per quanto insufficiente, vi erano 147 sottoinquilini.
Analogamente in Polonia l'epoca della nuova servitù fu
un'epoca di differenziazione sociale non solo nel mondo contadino,
ma anche tra gli appartenenti alla nobiltà minore. Tra il XVI
e il XVIII secolo le proprietà terriere (di meno di 1.600
ettari) della piccola nobiltà diminuirono di numero e in
estensione. A metà del XV secolo, nella regione di Lublino,
la nobiltà minore controllava il 50% di tutte le terre; entro
la fine del XVIII secolo tale percentuale si era ridotta del 10%.
Nello stesso periodo la quota nelle mani dei nobili che possedevano
oltre 9.000 ettari passò dal 13 al 42%.
In Boemia, alla fine del XIV secolo, il contadino era, nella maggior
parte dei casi, un piccolo proprietario pressoché
indipendente, che pagava i propri debiti in denaro e vendeva una
parte dei suoi prodotti sul mercato. Le guerre ussite distrussero
sia le proprietà dei contadini sia quelle dei signori; questi
ultimi, dopo un periodo in cui si preoccuparono di altre questioni,
cercarono di ristabilire i propri privilegi. Una legge del 1480
legò i contadini alla terra e nel 1500 essi furono sottoposti
alla giurisdizione curtense. L'incremento della popolazione, la
concorrenza commerciale fra nobili e borghesi e un prospero
commercio di grano contribuirono al risveglio dell'interesse dei
signori per la coltivazione delle proprietà fondiarie; ma
l'oppressione dei contadini ebbe inizio solo dopo la guerra dei
Trent'anni, le cui devastazioni giustificarono in qualche misura
l'affermazione dei nobili secondo cui la ripresa economica poteva
aver luogo solo se preceduta da una restaurazione dell'ordine. Nuovi
nobili, di origine straniera, furono protagonisti del ripristino
della pace. Essi non si sentivano affatto vincolati dalle
restrizioni di stampo antico e paternalistico o dalla propensione a
favorire il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini,
che temperavano le azioni degli antichi signori. Erano intenzionati
a far pagare agli eretici la follia delle loro insurrezioni, e
decisi a ricavare il più possibile, il più in fretta
possibile, dalla nuova situazione in cui si trovavano, come
ricompensa per le proprie fatiche. Il loro patrono, il trionfante
Ferdinando II, non aveva alcuna intenzione di tenerli a freno da
questo punto di vista. Avrebbe preteso la sottomissione dei nuovi
signori al proprio potente governo, ma in cambio di tale
sottomissione avrebbe abbandonato completamente i contadini al
potere del rispettivo signore. Grazie al proprio potere e alla
propria autorità, questi nuovi aristocratici si frapposero
tra il monarca e la gran massa della popolazione. Nonostante le sue
evidenti inefficienze, il sistema del lavoro obbligatorio (robot)
offriva vantaggi politici reali e fu perpetuato sulla base di
motivazioni politiche finché i monarchi assoluti non furono
costretti a riesaminare le basi militari ed economiche di un
efficiente Stato moderno. Con la comparsa dei despoti illuminati si
mossero i primi passi verso l'emancipazione contadina.
Balcani. - Nei Balcani la vita contadina fu notevolmente
condizionata dalle vicende mutevoli della guerra, dall'alternarsi
delle conquiste e delle ritirate turche, dalle opportunità di
mercato offerte dalla presenza di eserciti permanenti e dal
riassetto delle frontiere militari. La rioccupazione di territori
diede via libera alla colonizzazione, che ebbe l'effetto di ridurre
le tensioni tra signori e servi. D'altra parte, quando
l'aristocrazia ungherese spodestata si concentrò in quelle
zone, durante i secoli XVI e XVII, i contadini slovacchi ne
risentirono molto. Cacciando l'aristocrazia cristiana, l'avanzata
turca arrestò il progredire della nuova servitù. Il
contadino cristiano, sotto la pax ottomanica, benché fosse un
cittadino di seconda classe sottoposto a innumerevoli, meschine
restrizioni (gli era proibito cacciare, andare a cavallo, pescare,
partecipare alle processioni religiose e ad altre cerimonie), godeva
di un affitto più stabile rispetto al contadino occidentale,
quantunque fosse legato alla terra e gravato da una semplice,
ancorché onerosa, tassa fissa da pagare allo Stato (v. Sugar,
1977, pp. 93-110 e 211-224). Durante i secoli XVII e XVIII questo
modus vivendi monotono e burocratico stabilitosi tra vinti e
vincitori si infranse in seguito alla disintegrazione del controllo
centrale sulle province. L'onere fiscale imposto alla popolazione
cristiana assoggettata (reaya) aumentò, in quanto le tasse
occasionali divennero fisse. Apparvero gli esattori e con essi le
grandi proprietà private impegnate nella produzione di
cotone, patate, granturco e bestiame da esportare. La manodopera
scarseggiava perché, a parte le perdite dovute alle guerre,
alle malattie e ai tumulti civili, molti cristiani decisero di
emigrare. Il movimento più consistente fu quello costituito
da circa 200.000 serbi guidati dal patriarca di Peć che nel 1690 si
unirono alle forze asburgiche in ritirata. Altri li seguirono
quattro anni più tardi. Alcuni si rifugiarono sulle montagne
e vissero da banditi, mentre la sicurezza interna si sgretolava.
Coloro che rimasero si raggrupparono intorno ai castelli diventando
totalmente dipendenti dai proprietari terrieri; essi conservarono,
tuttavia, una notevole capacità di autogoverno, che
forgiò i leaders del movimento contadino nazionale. Questo
movimento raggiunse la fase del conflitto aperto nel 1804.
L'insurrezione serba non fu una delle classiche sollevazioni
contadine, come quelle che si susseguirono in Bosnia, rimasta sotto
la sovranità turca, nel 1834, nel 1842 e nel 1848; fu una
sollevazione nazionale di contadini, che occuparono, prendendone
possesso, le proprietà confiscate agli stranieri espulsi. Le
piccole e medie proprietà costituivano il 95% di tutte le
tenute. Dopo non molto tempo, comunque, fece la sua comparsa
l'indebitamento, piaga caratteristica di una società
contadina moderna che veniva lentamente incorporata in un'economia
in via di industrializzazione. Il nuovo Stato dovette intervenire
con la legge del 1836, che proteggeva i debitori nei confronti dei
creditori prescrivendo la dimensione minima e inalienabile della
proprietà di famiglia, prescrizione che non fu, peraltro, di
facile applicazione.
Con il ritiro dei Turchi e il ritorno in pianura delle popolazioni
slave, la popolazione rurale aumentò rapidamente, ma le tasse
per sostenere i nuovi Stati erano elevate, il disboscamento si
intensificò, le tecniche agricole rimasero arretrate e si
affacciò lo spettro della sovrappopolazione e della
sottoccupazione. Tutte le classiche caratteristiche del
'sottosviluppo' emersero dopo le guerre di indipendenza, ponendo in
tal modo le basi della situazione economica e politica del secolo
successivo.
Russia. - Il periodo di Kiev della storia russa fu, come in
Occidente, un periodo di espansione economica, di crescita urbana,
di miglioramento delle tecniche agricole e di espansione del
commercio locale e interregionale. I proprietari di estese riserve
signorili - terreni agricoli sottratti alle comunità
contadine - approfittarono di queste opportunità e
intrapresero l'assoggettamento dei contadini. In tempi
caratterizzati da disordini politici e catastrofi militari, in tempi
di crisi o di espansione economica, in un territorio dove esisteva
sempre la possibilità di fuggire dal proprio padrone e
raggiungere nuove terre, i proprietari terrieri cercarono di
limitare la libertà di movimento dei contadini. In questo
furono appoggiati dalla monarchia, che eliminò l'alta
aristocrazia e si guadagnò l'appoggio dei membri della
piccola nobiltà, concedendo loro numerose terre e il permesso
di esercitare un controllo ancora maggiore sui rispettivi
sottoposti, finché, con le leggi del 1649, i contadini furono
ridotti allo status di bene materiale. Secondo queste leggi, il
contadino non aveva alcun diritto di lasciare le terre del signore e
poteva essere trasferito da una tenuta all'altra come fosse un
oggetto di proprietà. Il contadino, cui era negato il pieno
possesso di proprietà personali, fu lasciato del tutto privo
di mezzi legali che lo proteggessero dalla volontà del suo
signore.
Sotto Caterina la Grande la servitù divenne più
oppressiva che mai e fu introdotta in regioni dove precedentemente
era sconosciuta. In Russia la monarchia e la nobiltà
collaborarono all'assoggettamento dei contadini, finché lo
stesso zar decise di intervenire in loro favore: Alessandro II,
soprattutto per raisons d'État, temendo che il paese fosse
sull'orlo di un collasso politico dopo la sconfitta subita nella
guerra di Crimea, promosse, nel 1861, l'emancipazione contadina.
3. Il processo di emancipazione
Nell'Europa occidentale l'emancipazione dei contadini prese le mosse
dalla Rivoluzione francese, al cui successo avevano contribuito
anche i contadini: i numerosi attacchi alle corti e ai castelli che
ebbero luogo durante la grande peur accelerarono in effetti la fine
dell'ancien régime. Entro il luglio del 1793 tutti gli
obblighi feudali erano stati aboliti senza indennità. In
quanto rivoluzione borghese, la Rivoluzione francese rafforzò
la posizione delle varie classi di proprietari terrieri, contadini o
borghesi che fossero. Nel Dipartimento del Nord furono tolte al
clero le sue proprietà, che nel 1789 coprivano il 20%
dell'intera zona. Entro il 1802 le terre appartenenti
all'aristocrazia scesero dal 22 al 12% del totale; quelle
appartenenti alla borghesia passarono dal 16 al 28%; quelle
appartenenti ai contadini dal 3 al 42%.
In Francia la fine del feudalesimo promosse l'integrazione dei
contadini nella vita economica, sociale e infine politica della
nazione: fu un lungo processo di sviluppo, contrassegnato da eventi
quali l'introduzione della leva per tutti i cittadini, la
costruzione di ferrovie, l'inizio delle migrazioni dalle campagne
verso le città industriali in espansione, la costituzione di
un sistema scolastico nazionale e la diffusione dell'alfabetismo.
La Rivoluzione francese e l'esercito napoleonico contribuirono in
modo determinante a diffondere in tutta Europa l'impulso a favore
dell'emancipazione. Le sconfitte inflittele dalle armate imperiali
indussero la Prussia a varare il decreto del 1807: "A partire dal
giorno della festa di san Martino del 1810 in tutti i nostri domini
cesserà ogni forma residua di servitù e da allora in
poi nei nostri territori non vi saranno che uomini liberi". Ma il
processo di emancipazione si protrasse ancora a lungo, condizionato
da altri fattori, probabilmente più importanti. La
conservazione e il rafforzamento del potere e dell'autorità
del sovrano ebbero - secondo J. Blum - un'importanza notevole nel
determinare la fine dell'ancien régime: "Gli sforzi del
potere centrale per migliorare la condizione ed elevare lo status
dei contadini avevano avuto un'importanza cruciale nella lotta per
la supremazia tra la monarchia assoluta e la nobiltà. Con le
riforme che infine liberarono i contadini dalla servitù,
accordando loro l'uguaglianza civile rispetto agli altri strati
della società, l'assolutismo monarchico trionfò per
l'ultima volta sulla nobiltà, conseguì il suo ultimo
grande risultato" (v. Blum, 1978, p. 373).
Maria Teresa e suo figlio Giuseppe II tentarono entrambi di ottenere
un miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, ma, come
nel caso dei monarchi prussiani, con risultati deludenti.
L'imperatrice si rendeva conto che il benessere della classe
contadina, che costituiva la fonte primaria delle tasse e dei
reclutamenti militari, era di somma importanza per lo Stato.
Emanò, quindi, decreti che stabilivano il limite massimo
degli obblighi dei contadini verso i loro signori (v. Macartney,
1969). Le riforme di Giuseppe II si spinsero in qualche modo ancora
più in là, sebbene, come sostiene Macartney, non oltre
l'istituzione di una condizione di moderato assoggettamento
ereditario. Le sue riforme suscitarono violente opposizioni; fu per
questo che l'emancipazione non fu concessa in Austria fino al 1848 e
in Ungheria fino al 1853.
In Prussia occorsero 43 anni per completare la legislazione inerente
all'emancipazione. Oltre al decreto del 1807, furono approvati due
altri importanti decreti nel 1811 e nel 1850. La lungaggine di
questa vicenda legislativa fu dovuta non solo alle resistenze della
nobiltà, ma anche alla complessità delle questioni sul
tappeto: non si trattava solo di legiferare circa una società
contadina non omogenea (la maggior parte delle riforme non prevedeva
la concessione di terre ai senza terra), né si trattava
semplicemente di eliminare delle servitù e di decidere le
forme di indennità, ma si trattava anche di ristabilire i
diritti della comunità di villaggio in modo da rendere
possibile un'agricoltura razionale. I proprietari terrieri prussiani
guadagnarono forse un milione di ettari di terra in seguito al
processo di emancipazione, poiché le famiglie che lavoravano
piccoli appezzamenti, e quindi non erano impegnate a tempo pieno,
andarono a ingrossare le file del proletariato delle nuove
città industriali. Comunque l'intensificazione su larga scala
della coltivazione, che accompagnò l'emancipazione, permise a
un numero maggiore di persone di vivere dei proventi della terra (v.
Lütge, 1963, pp. 169-259, e 1966³, pp. 433-455).
Dubbi sull'efficienza economica dell'ordine feudale nel suo
complesso erano stati espressi da cameralisti come J. H. von Justi,
da sostenitori dei fisiocrati come il margravio Carlo Federico di
Baden e, soprattutto, dai molti convertiti alle teorie di Adam Smith
(v. Gagliardo, 1969, pp. 35-41 e 123-135). Nella commissione che si
occupò dell'emancipazione in Prussia si affermarono due
partiti. Il primo aveva come grande obiettivo l'istituzione della
più assoluta libertà di scambio, sia riguardo alle
terre sia riguardo alla manodopera, e i suoi fautori non erano
turbati dalla prospettiva che grandi imprese a forte
intensità di capitale, ampliate a danno delle terre dei
contadini, diventassero il mezzo di sfruttamento prevalente. I
membri della fazione opposta temevano il caos sociale che sarebbe
seguito a un'applicazione incondizionata del laissez faire. Essi
volevano mantenere intatte le basi sociali e la forza militare della
monarchia prussiana, e si assunsero il ruolo di difensori delle
tenute contadine. Nelle regioni tedesche della Gutsherrschaft,
durante il XIX secolo, le proprietà contadine riuscirono a
competere con quelle degli Junker. Dopo l'emancipazione le terre
erano in prevalenza di proprietà dei contadini nelle regioni
più densamente colonizzate della Gutsherrschaft.
In Russia, anche dopo aver ottenuto l'emancipazione, i contadini si
videro negati molti diritti civili. Non venne loro concesso il
diritto al possesso della terra: questa restava di proprietà
comune e il contadino, in quanto appartenente a una famiglia e alla
comunità (appartenenza cui non poteva rinunciare), riceveva
un lotto di terra e con esso l'obbligo di pagare le tasse.
Perché nessuno sfuggisse alla ripartizione di questo gravame,
il mir limitava la libertà di movimento individuale. Furono
varate leggi a vantaggio dei proprietari terrieri, mentre le terre
coltivate dai contadini spesso erano di dimensioni insufficienti a
dar lavoro a tempo pieno a una famiglia. L'emancipazione
lasciò il mondo contadino russo impreparato a una forma
modernizzata e progredita di azienda familiare (cfr. Gerschenkron,
in Postan, 1966-1978, vol. VI, pp. 706-800). Dovevano passare
più di quattro decenni prima che le riforme di Pëtr A.
Stolypin promuovessero, tra il 1906 e il 1911, un'integrazione
più completa dei contadini nella vita economica e civile di
una nazione in via di industrializzazione.
All'emancipazione si accompagnò una notevole inversione di
tendenza nel giudizio della società sui contadini, giudizio
che aveva raggiunto livelli bassissimi nei secoli XVI e XVII,
durante i quali i contadini erano stati considerati, e spesso
trattati, come una via di mezzo fra le bestie e l'uomo. Attraverso
l'emancipazione e i suoi effetti collaterali i contadini furono
integrati nell'ideologia dello Stato nazionale moderno, nel cui
ambito costituirono spesso un baluardo del conservatorismo. In
quanto custodi della lingua e dei costumi nazionali, specialmente
nei territori dell'Europa orientale, i contadini si accattivarono le
simpatie dei nazionalisti e dei romantici, benché, in
pratica, il loro ingresso nella vita politica sia stato tardivo e
limitato. Per i populisti i contadini rappresentavano la chiave per
accedere a un futuro che non sarebbe stato né capitalista
né socialista.
4. La transizione demografica
Dal 1300 fino al 1750 circa la popolazione dell'Europa occidentale
aveva oscillato approssimativamente tra i 25 e i 40 milioni di
abitanti, facendo registrare andamenti analoghi nei vari paesi.Verso
la fine del XVIII secolo incominciò a manifestarsi un aumento
della popolazione: l'inizio del processo oggi noto come 'transizione
demografica', che portò le popolazioni di tutti gli Stati
europei al di là dei più alti livelli raggiunti nei
secoli precedenti. Associato all'industrializzazione e alla
modernizzazione dell'Europa, che ebbero luogo qualche tempo dopo,
l'incremento demografico creò il problema di sfamare un
maggior numero di persone, con una maggiore varietà di
prodotti e in corrispondenza del più alto tenore di vita mai
conosciuto. Il problema fu fronteggiato, da una parte, promuovendo
l'ammodernamento dell'economia agricola, nei suoi aspetti tecnici,
organizzativi, finanziari, ecc. - un processo che, a seconda che sia
stato compiuto tempestivamente o con ritardo, influenzò
moltissimo le condizioni di vita delle popolazioni agricole delle
diverse nazioni - dall'altra, importando prodotti agricoli dal Nuovo
Mondo, con il risultato di esporre i contadini emancipati alle
conseguenze della fluttuazione dei prezzi agricoli in tutto il
mondo. La politica agraria divenne quindi un problema importante e
permanente nella vita politica di ogni nazione, e lo è
tuttora.
L'aumento della pressione demografica portò al diffondersi di
forme intensive di coltivazione, sviluppate su scala familiare nelle
Fiandre durante i secoli XV e XVI, e quindi adattate a
un'agricoltura su più vasta scala in Inghilterra nei secoli
XVII e XVIII. Caratteristiche fondamentali del sistema erano la
particolare cura riservata alla coltivazione e l'abbondante
concimazione del terreno, associata allo stallaggio del bestiame e
all'impiego del bottino. Una maggiore concentrazione di bestiame fu
possibile grazie alla riduzione o all'eliminazione del maggese,
seguita all'introduzione delle radici commestibili e del foraggio
artificiale. Gli investimenti supplementari risultarono
remunerativi, vista l'intensa produzione, per i mercati urbani, non
solo di prodotti orticoli e zootecnici, ma anche di colture
industriali, la cui lavorazione, a sua volta, creò posti di
lavoro (v. Lefebvre, 1924).
Le conseguenze sociali ed economiche dell'aumento della popolazione
e della diversificazione agricola furono diverse. La provincia
olandese di Overijssel ci fornisce alcuni dati significativi. Tra il
1602 e il periodo napoleonico la popolazione agraria aumentò
del 62%, le aree arabili del 35%. Tuttavia il numero delle aziende
familiari aumentò solo del 24%, mentre crebbe notevolmente il
numero delle aziende troppo piccole per consentire l'impiego a tempo
pieno di un'unità familiare: fra il 1602 e il 1795
aumentarono dall'1 al 18% del totale (v. Slicher van Bath, 1960). Da
queste cifre emergono le caratteristiche fondamentali della
struttura agraria che caratterizzò la maggior parte
dell'Europa alla fine del XIX secolo e nel XX, e che diede origine
ai principali problemi sociali delle zone agricole. Si
moltiplicarono le aziende familiari, che divennero oggetto di
particolari attenzioni da parte dei politici conservatori, accanto a
un gruppo di aziende marginali, spesso con specifiche
caratteristiche regionali, e a una schiera di braccianti, che
diedero vita alla prima migrazione verso i centri industriali
insieme agli individui più facoltosi delle zone agrarie.
Questi ultimi spesso usavano la proprietà di famiglia come
base di lancio per le loro carriere cittadine. Un'ulteriore
pressione economica si venne a creare nelle campagne con la
penetrazione di beni industriali a buon mercato, che ebbe l'effetto
di distruggere i mezzi di sussistenza di molti artigiani rurali. In
due aree, e precisamente in Svizzera e nel Baden Württemberg,
questo processo di 'disindustrializzazione' dell'economia rurale fu
attivamente ostacolato e infine invertito con il diffondersi di
attività industriali nelle zone agricole: così
nacquero alcune delle aree più intraprendenti ed
economicamente più prospere dell'Europa contemporanea. Altre
aree, quali la Danimarca e l'Olanda, ammodernarono le loro strutture
agricole in modo da trarre profitto dall'espansione del commercio
internazionale, dovuta alla crescita delle metropoli. Ma rimasero
delle zone che avevano poco in comune sia con le aree in cui
l'agricoltura era basata sull'azienda familiare, sia con le aree
delle grandi aziende capitalistiche, per esempio intorno a Parigi e
a est dell'Elba (nella Germania di Bismarck). Nella Spagna e
nell'Italia meridionali, in Polonia, in Ungheria e in Romania i
latifondi, lavorati da braccianti occasionali, continuarono a
esistere accanto a una moltitudine di piccole proprietà
impoverite. Queste zone finirono per subire in pieno l'impatto della
transizione demografica anche per l'assenza di cambiamenti di
rilievo nelle tecniche agricole o nei comportamenti sociali. Esse
divennero le regioni arretrate dell'Europa, in cui la povertà
agricola diventò endemica e le emigrazioni - soprattutto
verso le Americhe - rappresentarono l'unica soluzione possibile per
milioni di persone. Queste strutture agrarie non riformate
influenzarono negativamente l'evoluzione politica e sociale dei
nuovi Stati nazionali ben oltre gli inizi del XX secolo.
5. Il XX secolo
a) L'Europa occidentale
Le nazioni occidentali avevano registrato una diminuzione del numero
dei residenti nelle campagne a partire dagli ultimi decenni del XIX
secolo, ma il processo si accelerò enormemente dopo il 1945,
allorché il fenomeno dell'urbanesimo raggiunse il suo massimo
storico.
Lo squilibrio venutosi a creare fra popolazione urbana e popolazione
rurale impose all'attenzione delle classi politiche dei vari paesi
europei il problema di ristrutturare l'economia contadina, ossia il
problema di inserire la classe contadina in un'economia industriale
avanzata.
La fisionomia di una classe contadina moderna era stata discussa a
lungo e la sua formazione era stata prevista da molto tempo, ma una
soluzione definitiva della questione si è raggiunta solo dopo
la seconda guerra mondiale.
L'obiettivo principale era la ristrutturazione dell'azienda agricola
a conduzione familiare, fulcro dell'economia e della società
contadina, in quanto unità produttiva e unità sociale.
I più energici difensori dell'azienda agricola a conduzione
familiare riconobbero che la sua sopravvivenza e la sua
modernizzazione dipendevano, fra l'altro, dalla meccanizzazione,
volta ad accrescerne la produttività. Questo processo avrebbe
però inevitabilmente comportato la diminuzione del numero di
queste aziende. Nel 1950 uno dei primi studiosi a prevedere tali
fenomeni, René Colson, sosteneva che dovessero scomparire
almeno un milione di aziende perché le rimanenti potessero
essere meccanizzate e potessero fornire alle famiglie che vi
lavoravano un livello di vita accettabile. La tesi di Colson era
condivisa da René Dumont (v., 1956), mentre alcuni dirigenti
di aziende agricole nutrivano dubbi sul fatto che questa fosse una
ricetta valida per conservare l'azienda a struttura familiare. In
effetti gli interventi riconosciuti necessari e quindi attuati si
rivelarono più complessi di una semplice meccanizzazione, e
conseguente decimazione, di aziende agricole.
A partire dalla metà degli anni sessanta il destino dei
contadini europei è stato tracciato nell'ambito della
politica agricola della CEE. L'art. 39 del Trattato di Roma, firmato
nel 1957, esponeva gli obiettivi di questa politica, e cioè:
incremento della produzione agricola; stabilizzazione dei mercati;
garanzia di rifornimenti regolari e di prezzi ragionevoli al
consumo; aumento dei guadagni degli addetti all'agricoltura. I
programmi di sostegno dei prezzi della Politica Agricola Comune,
oltre a favorire gli agricoltori più grandi e più
ricchi della Comunità, hanno determinato la produzione di
ingenti surplus agricoli che, quando sono stati venduti sottocosto
sul mercato mondiale, hanno aggravato le difficoltà
economiche dei paesi del Terzo Mondo. D'altronde le politiche
strutturali della Comunità, che suscitarono proteste
allorché furono annunciate per la prima volta nel 1968 come
Piano Mansholt, non hanno fatto altro che facilitare ciò che
era inevitabile. Il Piano si prefiggeva l'obiettivo dell'abbandono
dell'attività agricola da parte di 5 milioni di persone nel
corso degli anni settanta (a quell'epoca non ci si era resi conto
che molti avevano già lasciato la campagna nel decennio
precedente). Esso puntava alla creazione di grandi aziende familiari
moderne, capaci di impiegare l'equivalente di due unità
lavorative a tempo pieno e di assicurare redditi paragonabili a
quelli ottenibili nelle imprese urbane. Per ampliare le tenute fino
alle dimensioni previste si incentivò il ritiro
dall'attività degli agricoltori anziani e di quelli
marginali.
Tra il 1966 e il 1983 il numero degli addetti all'agricoltura nella
originaria Comunità dei Sei è diminuito del 49%. La
dimensione media dell'azienda è salita da 10,1 a 12,1 ettari,
con un incremento di quasi il 20%. Purtuttavia 30 milioni di ettari
di terra coltivabile, pari al 35% dell'area totale, sono rimasti a
far parte di aziende di meno di 20 ettari, cioè al di sotto
del minimo considerato vitale dall'originario Piano Mansholt.Il
grosso della forza lavoro attiva nel settore agricolo è
tuttora costituito dalla forza lavoro familiare, benché la
percentuale dei figli sia diminuita.Nel 1954, in Francia, dei 5
milioni di attivi in agricoltura il 21% era costituito da manodopera
salariata; i membri della famiglia rappresentavano il 42% e i capi
d'azienda il 37%. Nel 1975 il numero degli attivi era sceso a 2
milioni; la percentuale dei lavoratori salariati era sempre del 20%,
quella dei collaboratori appartenenti alla famiglia era scesa al 25%
e quella dei capi era salita al 55%. Complessivamente l'80% della
forza lavoro attiva era formata da capi famiglia e da membri delle
rispettive famiglie.
Nella Germania Federale, verso la metà degli anni ottanta,
l'88% della forza lavoro attiva era forza lavoro familiare, il 57%
della quale prestava la propria opera in poderi di meno di 20
ettari, ma quel che più conta è che anche il 57% della
manodopera salariata lavorava in imprese di meno di 20 ettari. Le
piccole proprietà, pur essendo molte meno di una volta,
rappresentano ancora una porzione notevole del totale delle aziende,
così come occupano una parte notevole delle terre coltivate:
il 49% delle aziende è costituito da tenute che vanno da 1 a
10 ettari e rappresentano il 12% delle aree coltivate. Le
proprietà comprese fra 10 e 20 ettari costituiscono il 22%
del totale e coprono il 19% delle aree coltivate, mentre quelle di
oltre 50 ettari costituiscono il 5,5% del totale e coprono il 25%
delle aree coltivate. In breve la piccola unità familiare
è ancora una tipica caratteristica dell'agricoltura europea.
Questi puri dati numerici nascondono il fatto che l'attuale
società contadina è formata da categorie
socioeconomiche molto diverse fra loro, emerse dalle classi
contadine del passato. Lasciando da parte le grandi aziende
capitalistiche, si possono distinguere oggi cinque tipi di aziende
familiari.
1. Al livello più alto si situano le aziende familiari
più grandi, più moderne e a uso più intensivo
di capitale, guidate da un capo esperto di contabilità,
capace di servirsi di computer, molto preparato professionalmente.
Il capo d'azienda moderno di solito non assume una forza lavoro
salariata permanente: aiutato in maggiore o minor misura dalla
moglie, svolge egli stesso la maggior parte del lavoro, avvalendosi
di macchinari ed, eventualmente, dei servizi offerti da
organizzazioni di mutua assistenza di cui sia membro; il bestiame
riveste un ruolo importante nell'economia di queste aziende. Il
titolare di questo tipo di azienda vive meglio dei suoi antenati,
perché ha notevolmente accresciuto le dimensioni dell'impresa
(fondata dai suoi genitori o da quelli di sua moglie), anche
indebitandosi, e ha intensificato la coltivazione; inoltre egli gode
delle agevolazioni e delle sovvenzioni previste dalla Politica
Agricola Comunitaria: i Guarantee funds of the Community (FEOGA),
provvedendo a un massiccio sostegno dei prezzi, gli garantiscono
redditi elevati.
2. Al livello immediatamente inferiore rispetto alla moderna azienda
familiare a tempo pieno si colloca l'azienda familiare marginale, il
cui capo dovrebbe realizzare gli stessi standard commerciali
raggiunti dal suo più fortunato 'collega', ma non vi riesce
perché la sua azienda è troppo piccola, le sue
capacità organizzative sono un po' carenti, la sua
preparazione professionale non è abbastanza elevata, la sua
scelta dei prodotti non è in linea con le tendenze del
mercato e l'ubicazione della sua tenuta non è fra le
migliori; anche la sua età può costituire un fattore
negativo. La soglia della marginalità tende a salire col
passar del tempo, estromettendo migliaia di addetti dal settore
agricolo o relegandoli fra i lavoratori a tempo parziale.
3. L'azienda a tempo parziale, una volta così caratteristica
dell'agricoltura tedesca e svizzera, è diventata una
realtà diffusa in tutta la Comunità e anche
nell'Europa orientale. Il capo famiglia vi lavora durante i fine
settimana, per integrare i redditi derivantigli dalla sua
attività principale nel settore industriale, mentre sua
moglie bada alla terra e agli animali quotidianamente. In alcuni
casi il capo famiglia è diventato imprenditore e ha fondato
una fabbrica propria. Questa penetrazione dell'industria nella
campagna ha prodotto alcune delle più solide economie rurali
del mondo, con elevati livelli di vita, un buon sistema scolastico,
un buon contesto culturale e ampie possibilità di successo
per le persone capaci, in un ambiente che resta rurale e largamente
intatto.
4. L'azienda del quarto tipo può essere facilmente confusa
con quella a tempo parziale, in quanto è di piccole
dimensioni e il suo capo può anche svolgere
un'attività lavorativa al di fuori del settore agricolo, per
esempio in campo turistico. La vera natura di questo tipo di azienda
è rivelata dall'età (avanzata) dell'agricoltore e di
sua moglie, dall'assenza di giovani e dal fatto che vi si pratica
ancora la policoltura, una forma di coltivazione decisamente non
moderna. Si tratta, sostanzialmente, di 'aziende di pensionati', che
costituiscono una fonte di, sia pur limitata, sicurezza psicologica
ed economica per persone che hanno trascorso tutta la vita
nell'agricoltura e che non possono o non vogliono trasferirsi in
città. Spesso l'attività dell'azienda cessa con la
morte del titolare, perché gli eventuali eredi non intendono
proseguirla, anche se si rifiutano di vendere la proprietà
(questo atteggiamento ostacola notevolmente il processo di
razionalizzazione dell'agricoltura). Nell'ambito della
Comunità gli agricoltori di più di 65 anni sono il
21%; essi controllano il 21% di tutte le aziende e il 13% dell'area
coltivabile totale. Sinora il programma volto a incoraggiare la
cessazione dell'attività agricola da parte degli anziani e a
ridistribuire le loro terre fra imprenditori più giovani e
dinamici ha dato scarsi risultati.
5. Nascosto fra le statistiche convenzionali, che si limitano a
rilevare le dimensioni delle aziende, c'è un ultimo gruppo di
aziende, che, per quanto poco estese, tuttavia impiegano ingenti
capitali e danno lavoro a tempo pieno a tutta la famiglia
nonché a lavoratori esterni. Si tratta di aziende agricole
specializzate che traggono vantaggio dalla propria posizione
particolarmente favorevole e dal fatto di produrre per un mercato
volto a soddisfare i gusti più dispendiosi dei
consumatori.Quest'ultima tipologia esaurisce il panorama delle
aziende che compongono la 'comunità' contadina europea
occidentale.
b) L'Europa meridionale
Ciò che ha veramente contraddistinto i contadini dell'Europa
meridionale rispetto agli altri contadini europei è stata la
presenza, nel cuore stesso della loro comunità, di un
proletariato numeroso e permanente; questa peculiarità va
aggiunta agli altri tratti distintivi tradizionali: colture e
tecniche agrarie tipiche, particolarità del suolo e del
clima, impiego sistematico dell'irrigazione. Questi elementi, uniti
ad altri fattori - uno sconcertante apparato di affitti e
subaffitti, una perpetua carenza di capitali, una disperata ricerca
di terre da parte di una popolazione in aumento - hanno creato un
legame tra strutture agrarie e interessi di classe, che ha
influenzato tutto il processo di integrazione nazionale, essendo
stato sfruttato, in particolare, per destabilizzare le nascenti
democrazie parlamentari e per favorire l'affermarsi di regimi
fascisti. Questo legame non poté certo essere spezzato quando
la contrazione del commercio internazionale costrinse ad adottare
politiche autarchiche; esso è stato finalmente incrinato
quando prima l'Italia e poi la Spagna e il Portogallo sono state
coinvolte nella divisione internazionale del lavoro, nel dopoguerra,
e quando è iniziato il massiccio esodo dalle campagne.
In Spagna la riforma agraria ha seguito tre direttrici distinte, ma
raramente efficaci: la bonifica (e qualche volta la colonizzazione),
che si sperava avrebbe migliorato la produttività senza
alterare la distribuzione delle proprietà; il miglioramento
dei sistemi di affitto iniqui nei distretti caratterizzati da poderi
piccolissimi, come la Galizia; l'adozione di una nuova legislazione
del lavoro nelle zone dei latifondi, dove scioperi periodici,
sollevazioni e l'occupazione temporanea delle terre avevano
suscitato nei grandi proprietari terrieri il timore crescente di una
rivoluzione contadina. Verso la metà degli anni trenta la
disoccupazione nel settore agricolo raggiunse il livello di mezzo
milione di unità. I politici della Seconda Repubblica
risposero con una legislazione che interferiva con il funzionamento
del mercato del lavoro agricolo e introduceva nuove incongruenze e
nuovi abusi. Nel 1932 fu approvato un disegno di legge di riforma
agraria, frutto di compromessi fra interessi contrastanti. La sua
applicazione fu in un primo tempo ostacolata da un governo di destra
e poi realizzata sotto il governo del Fronte Popolare. Sempre
più in fermento, i contadini costituirono un proprio esercito
forte di 60.000 uomini e occuparono oltre 3.000 proprietà
nella provincia di Badajoz tre mesi prima della sollevazione
militare. Avvenimenti del genere rafforzarono l'appoggio dato ai
franchisti dalle classi dei proprietari terrieri.In Italia le grandi
masse di lavoratori senza terra erano confinate principalmente,
anche se non esclusivamente, nelle regioni meridionali. Durante la
prima guerra mondiale i politici avevano promesso ai contadini un
miglioramento delle loro condizioni, a malapena avviato
nell'immediato dopoguerra, ma sotto Mussolini il potere fu ripreso
dalle classi dei proprietari terrieri. I programmi di bonifica,
benché largamente pubblicizzati, interessarono un numero
relativamente basso di famiglie. Le politiche autarchiche, per
esempio la battaglia del grano, dominavano il panorama degli
interventi nel settore agrario. Cartelli favoriti dal regime
controllavano il prezzo degli inputs necessari alla modernizzazione
dell'agricoltura, prefigurando situazioni destinate a divenire
comuni nei paesi del Terzo Mondo dopo la guerra. Come in Spagna
anche in Italia, nelle zone dei latifondi, i contadini erano in
fermento; ma due fattori impedirono che si giungesse a una
ribellione su vasta scala: da una parte l'enorme varietà di
condizioni agrarie nella penisola, con i contrasti fra Nord e Sud e
quelli all'interno delle due ripartizioni geografiche, dall'altra
l'acquisizione di terre da parte delle piccole imprese familiari.
Per vedere la luce il programma italiano di riforma agraria dovette
attendere la formazione di un governo democratico cristiano nel
secondo dopoguerra e l'inizio di un'epoca di liberalizzazione del
commercio e dell'economia. Il suo impatto fu diverso a seconda delle
zone geografiche, dei settori sociali e, secondo alcuni, anche dei
settori elettorali. Quali che fossero i risultati cui mirava e
quelli che effettivamente raggiunse, la riforma italiana
risultò battuta in partenza in quanto era anacronistica:
quando venne completata i presupposti sui quali si fondava non
avevano ormai alcuna importanza; l'espansione industriale del Nord,
la massiccia emigrazione dal Sud, la domanda di manodopera sui
mercati comunitari avevano alterato radicalmente la situazione.I
contadini mediterranei si trovarono ad affrontare circostanze del
tutto nuove: dovevano soddisfare le richieste di un mercato comune
di merci agricole. Per essere competitivi si doveva superare
decisamente il regime di semisussistenza. All'interno della stessa
società rurale non tutti i gruppi dimostrarono la stessa
capacità di far fronte ai cambiamenti; alcune regioni si
trovavano in posizione più favorevole delle altre. I vecchi
problemi agrari non sono mai stati risolti; sono semplicemente
caduti in prescrizione o sono stati riclassificati come problemi
regionali. Sono stati sostituiti da problemi diversi e più
urgenti. Le zone di montagna si sono spopolate, quelle di collina
hanno perso intere famiglie di agricoltori, guadagnando, in cambio,
turisti e ricchi cittadini in cerca di residenze estive. Le pianure
sono diventate il centro della modernizzazione. In poco più
di due decenni si è registrato un tasso di mutamento senza
precedenti. Anche quando sono misurati con gli indici più
grossolani, i cambiamenti risultano enormi. Nel 1970 l'output lordo
per ettaro e il capitale investito per ettaro, calcolati a prezzi
costanti, avevano superato nell'Italia meridionale i valori
raggiunti nel 1950 nell'Italia nordoccidentale, allora come oggi
l'area italiana più produttiva dal punto di vista agricolo.
L'Italia insulare si stava avvicinando agli stessi livelli. Tra il
1951 e il 1970 l'Italia nordoccidentale, da parte sua, aveva
incrementato il suo output lordo per ettaro del 70%, triplicato
l'input di capitale e ridotto l'input di manodopera per ettaro del
59%. Ma nessun indice quantitativo rende altrettanto bene l'idea dei
mutamenti avvenuti quanto queste parole di P. Sylos Labini:
"Sessant'anni fa [...] per Gramsci la 'questione contadina' era la
questione centrale per il Mezzogiorno. [Oggi] la questione contadina
è stata in gran parte risolta, non tanto a causa delle
trasformazioni agrarie e del miglioramento delle condizioni
economiche e sociali di chi vive in agricoltura, quanto con la
scomparsa di buona parte dei contadini" (L'evoluzione economica del
Mezzogiorno negli ultimi trent'anni, in "Studi SVIMEZ", 1985,
XXXVIII, 1, pp. 5-25).
c) L'Europa orientale
Dopo la prima guerra mondiale i leaders politici degli Stati
dell'Europa orientale dovettero affrontare il duplice compito di
realizzare l'integrazione economica nazionale e di tener testa a una
rivoluzione sociale di origine agraria. I reduci di guerra e i
membri delle classi impoverite dalla guerra avevano dato vita a un
movimento di espropriazione delle grandi proprietà terriere,
alcune delle quali appartenevano a cittadini stranieri. I dirigenti
politici si posero alla guida di questo movimento dandogli come
obiettivo una serie di ampie riforme agrarie, allo scopo di evitare
una rivoluzione politica.
Oltre 10 milioni di ettari di terre coltivabili, l'equivalente di
tutta l'area coltivabile dell'Inghilterra e del Galles, vennero
ridistribuiti nel periodo fra le due guerre, nell'intento di fondare
la base sociale dei nuovi Stati democratici. I partiti contadini
diventarono rapidamente importanti nella vita politica e alcuni dei
loro dirigenti divennero figure di spicco a livello nazionale e
persino internazionale. Tuttavia questi partiti erano destinati a
impegnarsi in manovre parlamentari anziché nella creazione di
un solido movimento rurale capace di concepire e di realizzare un
programma di sviluppo nazionale; di conseguenza i loro dirigenti
finirono col trovarsi coinvolti in conflitti regionali, religiosi e
nazionalistici, conflitti che vanificarono i loro sforzi e portarono
alla trasformazione dei sistemi parlamentari in regimi dispotici.
Spossessati delle loro terre, i precedenti proprietari terrieri
sciamarono verso le capitali, andando a rafforzare la base sociale
dei movimenti militaristi e fascisti, che misero in prigione o
mandarono in esilio molti dirigenti dei partiti contadini. Le
pesanti tasse pagate dai contadini, su cui finì per
concentrarsi la pressione fiscale, servivano per finanziare grandi
apparati burocratici e militari. Lo Stato, divenuto un importante
operatore economico, favorì la borghesia nazionale
proteggendone gli investimenti finanziati con capitale
internazionale. Le capitali delle nuove nazioni si disinteressarono
sempre più dei problemi dei contadini, e questo atteggiamento
rafforzò il risentimento viscerale che i contadini nutrivano
nei confronti dei capitalisti, della finanza internazionale, delle
città e delle loro classi marginali. In particolare queste
ultime risultavano composte da figli di contadini, immigrati nelle
città, che ritornavano nelle circoscrizioni rurali come
piccoli funzionari oppressivi, gendarmi e soldati.
La speranza suscitata dai programmi populisti, che si potesse
giungere a una soluzione dei problemi dei contadini evitando gli
aspetti peggiori del capitalismo e del socialismo, andò
delusa, in quanto basata sul presupposto erroneo che il villaggio
come unità sociale e il mondo contadino nel suo complesso
fossero economicamente e socialmente omogenei. Al contrario, come ha
sostenuto J. Tomasevich (v., 1955, p. 258), la differenziazione
economica e sociale all'interno del villaggio e fra i contadini era
profonda e, soprattutto, tendeva ad accentuarsi di anno in anno.
Tomasevich ha effettuato un'analisi socioeconomica dettagliata del
mondo contadino iugoslavo nel periodo compreso fra le due guerre
mondiali (nelle stesse condizioni dei contadini iugoslavi versavano
quelli di quasi tutti i paesi dell'Europa orientale, eccettuata
l'Ungheria). Attraverso la sua analisi Tomasevich ha individuato due
gruppi principali di famiglie contadine. Al primo gruppo
appartenevano le famiglie proprietarie di aziende abbastanza grandi
(per quei tempi) da offrire lavoro a tutti i membri della famiglia
nonché i generi necessari al loro sostentamento (consumati
direttamente o scambiati con altri prodotti). Queste famiglie
costituivano il 30% di tutte le famiglie contadine e controllavano
il 49% delle terre, suddivise in proprietà che andavano dai 5
ai 20 ettari. Al secondo gruppo appartenevano le famiglie i cui
poderi non erano abbastanza grandi da garantire il lavoro a tempo
pieno o di che vivere a tutti i loro membri. Questo gruppo possedeva
il 64% delle aziende agricole e il 28% dell'area coltivabile. In
condizioni ancora più disperate versava il 10% della
popolazione contadina, costituita dai senza terra (ibid., pp.
392-397). Poiché il 23% della terra restava suddiviso in
tenute di oltre 20 ettari, si giunse a pensare che la miseria dei
senza terra e dei piccoli e piccolissimi proprietari potesse essere
alleviata tramite un'ulteriore ridistribuzione delle terre. Questa
prospettiva suscitò lo spettro di una struttura agraria
dominata da proprietà marginali e perciò inadatta a
costituire la base di un'economia consona alle potenzialità
delle tecnologie agricole moderne. Si andava facendo strada la
consapevolezza del fatto che, oltre un certo punto, le riforme
agrarie, di per sé, erano inutili. Come scrisse un economista
polacco, "il problema generale della sovrappopolazione rurale
può essere risolto definitivamente soltanto con
un'industrializzazione molto rapida della Polonia" (v. Jalowiecki,
1938).
Quando i comunisti presero il controllo dell'Europa orientale, nel
1948, la soluzione consistente in una rapida industrializzazione fu
adottata in pieno.In Russia la rapida industrializzazione sovietica
aveva portato alla decimazione della classe dei kulaki (i contadini
benestanti), mentre quasi tutti i contadini erano stati ridotti al
rango di lavoratori agricoli cui era concessa soltanto una quota
residuale del reddito del collettivo. La situazione non
migliorò fino all'epoca di Brežnev, quando ai membri del
collettivo fu garantito un sia pur minimo salario. La produzione
familiare su piccola scala, tuttavia, non scomparve mai dalla
campagna russa. La concessione di piccoli appezzamenti privati ai
contadini dei kolchoz, nonché del diritto di pascolare gli
armenti sulle terre del collettivo, stimolò la produzione di
prodotti caseari, frutta e ortaggi da parte del settore privato.
Questo modello misto, in cui la collettivizzazione su larga scala
non escludeva la presenza di un settore privato specializzato nella
produzione di particolari prodotti, è stato adottato da quasi
tutti i paesi a guida comunista. Ma in due democrazie popolari, la
Iugoslavia e, soprattutto, la Polonia, una consistente classe
contadina è sopravvissuta all'industrializzazione
dell'economia e alla socializzazione dei mezzi di produzione.
L'esperienza polacca è forse la più interessante.
La Polonia che uscì dal disastro della seconda guerra
mondiale era un paese quasi interamente cattolico e largamente
contadino, due caratteristiche che portarono Gomułka a respingere
una collettivizzazione su vasta scala come presupposto per
realizzare il socialismo nel paese. La collettivizzazione fu
però introdotta dagli stalinisti dopo il 1948, per poi essere
abbandonata nel 1956, quando Gomułka tornò al potere.
Un'indagine condotta nei territori riconquistati tra i contadini che
avevano ripreso a praticare l'agricoltura privata ha rivelato le
ragioni essenziali del loro rifiuto della collettivizzazione: la
cattiva organizzazione dell'azienda, la trascuratezza nel lavoro, i
conflitti tra membri della stessa famiglia dovuti al fatto che
spesso i ruoli in ambito lavorativo non coincidevano con quelli in
ambito familiare, le dimensioni troppo ampie delle aziende in
rapporto alla manodopera disponibile. Ma soprattutto i contadini
polacchi ritenevano che l'impresa privata garantisse un grado
più elevato di sicurezza personale e che il miglioramento
delle condizioni individuali fosse possibile solo nell'ambito di un
sistema di aziende private.
Pur ritornati all'attività privata, i contadini polacchi
subirono un inarrestabile processo di modernizzazione, molto simile
a quello che si stava verificando nell'Europa occidentale. Una
massiccia ondata migratoria di contadini diretti verso le nuove
città industriali in cerca di lavoro determinò
un'alterazione della struttura demografica della popolazione rurale,
che finì per risultare composta in prevalenza da vecchi,
bambini e donne, tranne in quelle regioni dove divenne possibile il
lavoro agricolo a tempo parziale e dove, quindi, si formò una
vasta classe di lavoratori-contadini, malvisti dal regime. Nelle
campagne il tenore di vita si elevò, ma mai abbastanza da
annullare le differenze tra popolazione urbana e popolazione rurale.
In realtà il regime ignorava le esigenze produttive e sociali
dei contadini, il cui malcontento, sfociando nel mancato
rifornimento di carne alle città, determinò tumulti
che culminarono nella rivolta del Baltico del 1970. Gierek
cercò di correggere i difetti della politica economica del
partito nei confronti del settore agricolo privato, sopprimendo le
quote statali sui prezzi fissi e promettendo di migliorare i
rifornimenti di derrate agricole. Egli si rendeva anche conto che la
popolazione rurale era svantaggiata, rispetto a quella urbana, sotto
il profilo dell'assistenza sanitaria, dell'assistenza agli anziani,
dell'assistenza all'infanzia, delle strutture scolastiche, ma la sua
amministrazione non riuscì mai a superare la ripugnanza del
comunismo e l'ambiguità della politica comunista nei
confronti dell'attività agricola privata (in fondo tale
politica prevedeva l'eliminazione di ogni attività privata).
Nel 1980 scoppiarono nuovi tumulti e l'anno dopo fece la sua
comparsa il movimento Solidarietà rurale, i cui dirigenti
chiesero una serie di garanzie a tutela della proprietà
privata e della sua ereditabilità. Inoltre essi chiesero la
restituzione dei terreni confiscati dallo Stato, la soppressione
delle restrizioni sulla compravendita dei terreni agricoli privati,
un maggiore e migliore rifornimento di carburante, macchinari,
materiali da costruzione e inputs agricoli, la concessione di
crediti da parte dello Stato, una maggiore partecipazione a tutti i
livelli di governo - locale, regionale e centrale - e il diritto di
mantenere un sistema di autogoverno. Infine essi posero la questione
del riconoscimento del loro status storico. L'agricoltura -
sostenevano - è un'occupazione antica, indissolubilmente
legata alla storia e alla sopravvivenza della nazione e dello Stato:
si trattava di una concezione del mondo contadino che era stata
espressa spesso in molte società occidentali prima e dopo la
guerra (v. Ash, 1983, pp. 110-134).
6. Il Terzo Mondo
Contrariamente all'Europa, dove ormai la classe contadina si
è enormemente ridotta sia in termini percentuali sia in
termini assoluti, nel Terzo Mondo i contadini costituiscono ancora
la principale categoria sociale e il loro numero è destinato
a crescere ulteriormente nel corso del prossimo secolo. Naturalmente
i contadini del Terzo Mondo non costituiscono una classe omogenea,
indifferenziata, e tuttavia condividono un insieme di
caratteristiche - destinate anche a ripercuotersi sul loro futuro -
che li distinguono dai contadini del passato.
Diversamente dai contadini europei, quelli del Terzo Mondo devono
adattarsi a un tasso di incremento demografico senza precedenti
nella storia dell'umanità, particolarmente accentuato nelle
campagne. Per fortuna la diffusione della medicina moderna è
stata accompagnata dalla diffusione di tecniche di coltivazione
moderne, sicché, se si esclude il caso dell'Africa, la
produzione alimentare ha tenuto il passo della crescita demografica.
Le tecniche di recupero e di sfruttamento intensivo dei terreni
hanno determinato un aumento della produzione complessiva e della
produzione per unità di area. Tuttavia la vittoria nella
battaglia della produzione è stata spesso ottenuta a prezzo
di una crescente sperequazione sociale, determinata,
fondamentalmente, dalla caduta della produttività marginale
del lavoro. In tutta l'Asia il valore del lavoro è diminuito
rispetto al valore dei generi alimentari.In un primo momento gli
unici a trarre vantaggio dalla rivoluzione verde sono stati gli
agricoltori più abbienti; col passare del tempo, però,
le innovazioni tecnologiche si sono rivelate un fattore neutrale
rispetto alla ricchezza. Ma anche quando persino i contadini
più poveri hanno adottato le nuove tecniche, il rapido
incremento della popolazione ha portato al proliferare di aziende
irrimediabilmente troppo piccole e al moltiplicarsi dei lavoratori
senza terra. Si è calcolato che in Indonesia la popolazione
impiegata nel settore primario sia diminuita dal 74 al 56% fra il
1961 e il 1980; tuttavia un quarto dei 20 milioni di famiglie
contadine era senza terra e il 70% di quelle che avevano accesso a
un qualche appezzamento coltivava meno di 1 ettaro di terreno; il
45% coltivava meno di mezzo ettaro.
L'accentuarsi delle sperequazioni sociali nelle campagne è
dipeso anche dai programmi di sviluppo tesi a favorire il progresso
delle città, adottati dalle classi dirigenti di queste
'nazioni contadine' con l'intento di modernizzare la società.
Per promuovere l'industrializzazione si è imposta una
sostituzione delle importazioni che contrastava con gli interessi
economici dei contadini, mentre favoriva, spesso, i proprietari
terrieri e le cerchie clientelari dei vari esponenti politici. Solo
pochi paesi, da considerarsi casi eccezionali, hanno attuato
programmi di riforma agraria radicali e coronati da successo,
riuscendo a realizzare un'equa distribuzione delle terre dei
latifondisti fra i contadini, accompagnata da un'accettabile
distribuzione del reddito. Questi paesi, in particolare la Corea del
Sud, governata da militari di origine contadina, e Taiwan, hanno
adottato programmi di industrializzazione basati sulle esportazioni.
Ciò non solo ha prodotto una ricchezza che consente di
sostenere il settore agricolo, ma ha anche ridotto il numero degli
agricoltori a livelli paragonabili a quelli dell'Europa occidentale
negli anni cinquanta.Altri paesi asiatici non sono progrediti
altrettanto. In India la stessa struttura agraria costituiva un
ostacolo politico alla riforma. La numerosa e politicamente
influente classe dei piccoli proprietari terrieri, che cedevano in
affitto la terra ed erano i principali datori di lavoro del
villaggio, controllava i voti dai quali dipendeva il Partito del
Congresso. Perciò "il [Partito del] Congresso sosteneva sia
la spinta a realizzare la riforma agraria sia l'opposizione a essa,
come una testa socialista con un corpo conservatore" (v. Warriner,
1969, p. 139). Oggi l'India rurale presenta grandi contrasti tra lo
sviluppo del Panjab, dove anche i molto poveri vivono un po' meglio,
e la media e la bassa pianura del Gange, dove, in termini reali, i
salari dei lavoratori agricoli giornalieri hanno subito un ristagno
o sono crollati. Nelle condizioni semifeudali del Bihar i grandi
proprietari terrieri, che hanno rafforzato la propria posizione,
sfruttano mezzadri e braccianti in un clima di violenza crescente
(v. Étienne, 1985).
Nelle Filippine il progresso della riforma agraria è stato
intermittente e insufficiente a porre termine alla rivolta
contadina, mentre la comparsa dell'agribusiness ha condotto a un
deterioramento dei livelli di vita di alcune classi rurali. I
più recenti ritrovati della rivoluzione verde, per esempio la
semina diretta e gli erbicidi chimici, comportano, secondo alcuni
esperti, un minor impiego di manodopera rispetto alle tecnologie
iniziali.Secondo Y. Hayami, l'Asia rischia di avviarsi verso una
stagnazione ricardiana, con un decremento delle entrate dei
lavoratori fino a livelli minimi di sussistenza, mentre tutto il
surplus economico verrà raccolto dai proprietari terrieri
aumentando gli affitti dei terreni. Un futuro un po' più
roseo dipenderà, sempre secondo Hayami, dalla capacità
della comunità di villaggio di creare nuove istituzioni in
grado di effettuare un'efficace allocazione delle risorse, tenuto
conto della crescente scarsità di terra rispetto all'offerta
di manodopera (v. Hayami, 1981, pp. 11-63). La comunità di
villaggio asiatica deve contribuire alla formazione di una classe
contadina moderna, svolgendo un ruolo più importante di
quello svolto dalla comunità di villaggio europea in uno
stadio di sviluppo analogo. In Asia esiste una tradizione secondo
cui anche i senza terra hanno un certo diritto di sfruttarla e di
goderne i frutti. La possibilità che nelle campagne dell'Asia
si mantenga una certa pace dipenderà dal modo in cui la
comunità riuscirà a tener testa alle pressioni
esercitate dai sempre più numerosi contadini senza terra,
attraverso la creazione di apposite istituzioni. Fra lo Stato e i
contadini asiatici si sono stabilite quelle interdipendenze che ne
caratterizzano il rapporto anche in Europa. Tuttavia, diversamente
dal suo omologo europeo degli anni cinquanta, lo Stato asiatico, con
l'accentuarsi delle sperequazioni economiche e sociali, deve, nello
stesso tempo, fronteggiare il massiccio flusso migratorio dei
contadini verso le industrie delle città e occuparsi
dell'incremento demografico nelle campagne. Perciò la
dipendenza dello Stato dalla comunità di villaggio,
incaricata di attuare la riforma, sarà sempre maggiore.
Gli esperimenti di riforma agraria socialisti hanno dato risultati
eterogenei.I comunisti cinesi hanno dimostrato che era possibile
dare a una rivoluzione una base nelle campagne, purché
l'avanzata degli eserciti rivoluzionari fosse accompagnata da
programmi di distribuzione delle terre. In un primo momento i Cinesi
hanno fatto grandi progressi con i loro piani e molte delle loro
conquiste nella sfera sociale si sono rivelate durature, ma la
collettivizzazione si fondava sull'esortazione anziché su
incentivi materiali, per cui, alla fine, il Partito è stato
costretto a reinstaurare un sistema agrario di ispirazione
individualistica, basato sull'iniziativa dell'impresa privata
familiare. Lo Stato è rimasto responsabile
dell'approvvigionamento di inputs non tradizionali, necessari alla
produzione di raccolti più grandi. Nel 1983 i fertilizzanti
chimici rappresentavano la metà di tutti i fertilizzanti
impiegati e in cinque anni il loro quantitativo è
raddoppiato. L'area irrigata è raddoppiata tra il 1952 e il
1978, la percentuale di terra lavorata con moderni mezzi meccanici
è oggi pari al 25%. La motorizzazione dell'agricoltura ha
proceduto rapidamente dall'inizio degli anni settanta. Sono comparse
le prime sperequazioni sociali fra la popolazione rurale.Il XIX
secolo è stato il periodo della liberazione nazionale in
America Latina, ma al processo di fondazione dello Stato nazionale
non ha corrisposto un processo di integrazione della nazione. Nelle
aree rurali il potere politico è sempre rimasto associato
alla proprietà terriera. In Messico, dopo un'ennesima
alienazione di terre indie da parte delle nuove classi dirigenti, si
è cercato di attuare l'integrazione nazionale mediante un
movimento agrario che restituiva la terra ai coltivatori, ma la
speranza riposta dai riformatori nell'organizzazione comunitaria
indigena dell'ejido non è mai stata pienamente realizzata.
Altrove il potere dei latifondisti non è stato minimamente
intaccato dalla riforma agraria fino al dopoguerra. I latifondi,
coltivati estensivamente da una classe di lavoratori dipendenti, con
le stesse tecniche arcaiche che impiegavano per coltivare i propri
minuscoli poderi, costituivano la base di un'economia rurale
largamente non monetizzata, che presentava le caratteristiche di una
società semifeudale in decomposizione, isolata, sotto tutti
gli aspetti, dalle élites dell'economia industriale
emergente.
Queste élites "fanno del dualismo sociale e del mantenimento
degli anacronismi del latifondo uno degli strumenti della loro
politica di sviluppo economico e sociale" (v. Lambert, 1963, p.
109). I programmi di industrializzazione sono stati basati sulla
sostituzione dell'import, un sistema che favorisce lo sviluppo ma
non crea posti di lavoro. Imprese agricole ad alta intensità
di capitale, destinate a produrre per l'export, hanno offerto
possibilità di lavoro extra a migliaia di contadini
sottoccupati. I conflitti all'interno delle varie élites -
sfociati nell'espropriazione di alcuni grandi proprietari terrieri -
e le occupazioni spontanee delle tenute da parte delle classi
lavoratrici dipendenti hanno portato a una ridistribuzione delle
terre. Ma la campagna resta ancora carente di infrastrutture e
segnata da disparità sociali sempre più accentuate,
basate in gran parte sulle differenti possibilità di accesso
al lavoro e alla terra.