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Enciclopedia delle scienze sociali (2001)
Sommario: 1. Definizione del concetto. 2. Il problema della
conformità nella teoria sociologica. 3. Conformismo e
anticonformismo nella storia. 4. Società di massa e
"dispotismo della consuetudine". 5. Conformità totalitaria.
6. Conformismi postmoderni.
1. Definizione del concetto
Per conformismo s'intende ogni modalità di condotta che, per
effetto di una pressione sociale esercitata dalla
collettività o da gruppi in essa influenti, produce una
condizione di uniformità - nel campo dei costumi, dei valori
culturali, dei principî morali e religiosi, ma anche degli
orientamenti politici - capace di minimizzare gli attriti
dell'interazione sociale. L'individuo conformista tende ad adattarsi
alle norme sociali e a non differenziarsi rispetto agli altri
soggetti del gruppo di riferimento (ceto, classe, gruppo parentale o
professionale o di vicinato, sfera pubblica), arrivando a negare o a
dissimulare le proprie convinzioni e a orientare l'agire alle
aspettative degli altri membri del gruppo. In considerazione della
sua funzione primaria, il conformismo può pertanto essere
qualificato come una strategia di (auto)rassicurazione sociale che
ha il suo imprinting nel processo di socializzazione, attraverso il
quale l'individuo diventa destinatario di una domanda generalizzata
di conformità.Le oscillazioni che si registrano sia a livello
di linguaggio specialistico sia a livello di linguaggio comune
costringono però a porre subito l'accento
sull'ambiguità di collocazione del concetto e sulla
polivalenza dei suoi significati. Con una certa approssimazione si
può distinguere tra un conformismo nei confronti dei costumi
di gruppo, delle convenzioni morali, dell'ethos, e un conformismo
nei confronti dell'autorità e del potere, il primo dei quali
può dirsi spontaneo e il secondo imposto (parallelamente, si
tende a designare come influenza sociale un condizionamento
involontario e come controllo sociale un condizionamento
intenzionale e istituzionalizzato). L'uno si dispone su un continuum
che va dall'estremo della tradizione a quello del mercato, per cui
è possibile distinguere qui, in modo tipico-ideale, tra un
conformismo della riproduzione culturale (dei modelli culturali
dominanti) e un conformismo del consumo. L'altro si dispone su un
continuum che va dal conformismo minimo imposto dal vivere civile in
condizioni di libertà (democrazie liberali) al conformismo
massimo imposto da un potere dispotico o tirannico o totalitario
(come in varia misura si riscontra nei regimi dittatoriali).Nel
lessico sociologico è centrale il concetto di
conformità, che si riscontra in un'accezione più lata,
a indicare la neutralizzazione delle differenze comportamentali a
opera di influenze sociali, e in un'accezione più specifica,
per cui s'intende l'interiorizzazione di norme, modelli di
comportamento e aspettative di un gruppo a opera dei suoi membri. A
proposito di questo significato più tecnico, prevalente in
psicologia sociale, occorre distinguere a seconda che tale
conformità sia puramente esteriore (per cui ricorre l'uso del
termine opportunismo) oppure conseguenza del fatto che le norme del
gruppo sono state effettivamente e durevolmente interiorizzate - e
parimenti a seconda che il non conformarsi sia una conseguenza
dell'indipendenza rispetto alla norma o sia invece espressione di
consapevole e deliberata violazione della norma, nel qual caso si
parla di anticonformismo oppure di devianza (v. Reinhold, 1997, p.
354). Alla violazione della norma può infatti essere
attribuita una valenza positiva, quando è considerata sotto
il profilo dell'innovazione e della creatività dell'agire,
oppure una valenza negativa, allorché l'accento cade sugli
aspetti dissociativi e conflittuali del comportamento deviante. Per
la teoria dell'azione sociale la conformità costituisce la
terza modalità paradigmatica del rapporto tra gruppo e
individuo rispetto alla normalizzazione, che implica influenza
reciproca tra il gruppo e l'individuo (v. Link, 1997), e
all'innovazione, che implica il movimento del gruppo verso la
posizione dell'individuo.
Anche all'interno di lessici meno specialistici, si parla di
conformità quando un individuo modifica il proprio
comportamento semplicemente allo scopo di armonizzarlo alle
aspettative del gruppo. Conformità è pertanto un
concetto più ampio e comprensivo di obbedienza, che designa
l'azione di una persona che si sottomette a un'autorità
istituzionale - mentre il conformista è colui che si
sottomette all'autorità sociale diffusa del gruppo. La
sanzione è nell'un caso la disapprovazione, nell'altro il
ricorso alla coercizione. Già Stanley Milgram (v., 1974), in
un lavoro ormai classico, distingueva tra conformità e
obbedienza in base a quattro criteri: a) la prima presuppone
un'eguaglianza di status (pur nell'asimmetria tra individuo e
gruppo), la seconda invece una struttura gerarchica; b) l'una
è fondamentalmente imitativa, l'altra esecutiva (l'esecuzione
di un comando non è imitazione o ripetizione, ma agire
innovativo); c) l'una consegue a una costrizione implicita, l'altra
a un comando intenzionale; d) l'una si accompagna all'illusione
della libertà, l'altra alla coscienza della sottomissione.
Nella critica della cultura di massa si è spesso associato il
conformismo a questo elemento di falsa coscienza: il conformista
è colui che, pur pensando e agendo in modo eterodiretto,
s'illude di essere libero. Su questo momento hanno fatto leva coloro
che hanno visto nel conformismo una componente essenziale
dell'ideologia. All'interno della teoria sociale di derivazione
marxistica il fenomeno è stato posto in connessione con il
'feticismo della merce', ovvero con la tendenza a considerare le
cose non per ciò che sono ma per ciò che valgono - nel
senso del valore di scambio e non del valore d'uso. Anche agli occhi
di chi non adotta il concetto marxiano di ideologia, il conformismo
si alimenta comunque di stereotipi e luoghi comuni e può
essere ricondotto a una più generale categoria di ideologia
intesa come pensiero condizionato e deformato dall'interesse. Dal
punto di vista cognitivo, esso si presenta infatti in forma di
credenze semplificanti e squalificanti, dunque intessuto di
stereotipi e pregiudizi (v. Allport, 1954).
Il fenomeno della tendenza ad agire in conformità a
prescrizioni sociali e modelli culturali è noto ovviamente a
ogni società. Ma il conformismo in senso specifico presuppone
l'instaurazione di una società di massa, caratterizzata dal
predominio sociodemografico e socioculturale di strati medi e
inferiori metropolitani inseriti in strutture produttive
standardizzate e integrati attraverso il consumo omologante.
Naturalmente anche qui il conformismo varia con il variare
dell'istanza sociale che esercita (maggiore o minore) influenza o
controllo sull'individuo: la famiglia, il gruppo di vicinato, la
banda giovanile, il gruppo professionale, la comunità
cittadina, il pubblico di consumatori; e varia nelle modalità
e nel grado di accettazione delle idee e opinioni prevalenti (v.
Lipp, 1975). Per designare fenomeni di interiorizzazione delle norme
sociali e di apprendimento delle aspettative di ruolo in contesti
storici anteriori alla genesi della moderna società di massa
si tende invece ad adottare categorie differenti e a parlare di
ritualismo o di tradizionalismo o (prevalentemente in ambito
religioso) di ortodossia.
Ciò non esclude tuttavia che con conformismo si possano
intendere e vengano di fatto intesi fenomeni tra loro eterogenei e
in quanto tali spesso distinti dalle scienze sociali, come appunto
ritualismo, tradizionalismo, stereotipizzazione, omologazione,
convenzionalismo. Quest'ultimo termine, in particolare, è
sovente usato come sinonimo di conformismo. Ma, a dire il vero,
anche in questo caso è possibile tracciare una distinzione,
osservando che chi assume una condotta convenzionale "si regola
soprattutto guardando al passato" mentre il conformista è
"prevalentemente condizionato dal presente, attento
all'attualità, alla moda, a ciò che prevale qui e ora"
(v. Mucchi Faina, 1998, pp. 11-12). Tradizionalismo e
convenzionalismo inclinano alla conservazione e quindi alla
staticità, mentre il conformismo può sposarsi con il
cambiamento e le fluttuazioni (per esempio del gusto, della moda,
dell'opinione). Come ideologie politiche, d'altro canto,
tradizionalismo e conservatorismo si nutrono di coscienza storica,
mentre il conformismo è appiattito sul presente e prigioniero
di simboli di astorica universalità. Per stereotipizzazione
s'intende la codificazione di ruoli nel contesto del potere
tradizionale. L'omologazione, invece, è il conformismo
peculiare della civiltà della tecnica.Nel complesso,
pertanto, occorre rilevare come sia piuttosto difficile delimitare
con precisione l'ambito degli studi sul fenomeno, dal momento che,
accanto a un nucleo costituito dalle indagini di psicologia sociale
sulle forme di relazione tra personalità e società,
essi arrivano a lambire una pluralità di altri settori di
ricerca, dagli studi sociologici sulla devianza, alla storiografia
delle mentalità collettive, alle indagini politologiche sulle
subculture.
2. Il problema della conformità nella teoria sociologica
Se il conformismo è stato di rado, probabilmente per il suo
carattere amorfo, tematizzato dalla sociologia, la conformità
è invece un concetto centrale della teoria sociale. Essa
appare strettamente connessa ad alcune delle categorie strategiche
della sociologia, quali adattamento, controllo sociale, convenzione,
socializzazione, integrazione, identificazione, riconoscimento
sociale. Ogni processo di socializzazione, inducendo l'individuo ad
apprendere ruoli mediante l'interiorizzazione di norme, è un
produttore di conformità; l'integrazione nel gruppo avviene
attraverso adattamento, imitazione e identificazione; il controllo
sociale consta di processi e meccanismi che si oppongono alle
tendenze devianti; la conformità è inoltre un
comportamento che viene premiato con il riconoscimento sociale (v.
Brandt e Köhler, 1972).
Non è comunque difficile individuare nei classici della
sociologia un interesse specifico per il fenomeno. Gustave Le Bon e
i teorici della psicologia delle folle, da un lato, Gustave Tarde,
dall'altro, sono stati i primi a sottolineare il ruolo strategico
dell'imitazione e dell'emulazione nelle dinamiche sociali e in
particolare nei grandi aggregati umani. Il conformismo collettivo
che consegue al 'contagio emozionale' della folla è, accanto
al conservatorismo, uno degli elementi psicologici della
società di massa su cui più fortemente Le Bon richiama
l'attenzione. Anche William Graham Sumner, studiando i costumi di
gruppo, analizza il "conservatorismo delle masse" che "ha origine
dall'inerzia" (v. Sumner, 1906; tr. it., p. 53). Assumendo
l'imitazione a legge fondamentale della società Tarde mostra,
dal canto suo, di essere consapevole dell'importanza di quelle forme
di pressione sociale indiretta in base alle quali l'individuo,
osservando il comportamento degli altri, ne desume la norma e la
necessità di conformarsi. L'illusione di cui è vittima
l"uomo sociale' è paragonata da Tarde a quella del
sonnambulo, in quanto egli si lascia guidare da idee che crede
spontanee e che invece gli sono instillate dal gruppo (v. Tarde,
1911, p. 83). Vilfredo Pareto, che dalle acquisizioni della
sociologia di Tarde è condizionato, pur nello sforzo di
depurarla dalle sue incrostazioni metafisiche, colloca nella classe
IV dei residui, "residui in relazione colla società", il
"bisogno di uniformità", e definisce l'imitazione
un"'uniformità ottenuta operando su se stessi",
distinguendola dall"'uniformità imposta agli altri", che si
accompagna a un "sentimento di ostilità alle trasgressioni"
(v. Pareto, 1916, parr. 1117 e 1126). Laddove analizza il "consumo
vistoso" e i "canoni finanziari del gusto", Thorstein Veblen, per
parte sua, pone alla base il "desiderio di conformarsi all'usanza
stabilita" (v. Veblen, 1899; tr. it., p. 91) e indaga, anticipando
di decenni il programma di ricerca di Pierre Bourdieu (v., 1979), il
variare dei codici del gusto fra le classi sociali.
Un salto di qualità per la determinazione concettuale del
fenomeno si compie in Max Weber. Dopo aver chiarito che la "mera
'imitazione' dell'agire altrui non può essere definita di per
sé 'agire sociale"', in quanto è priva di orientamento
dotato di senso in vista dell'agire altrui, si riconosce che di
fatto i confini sono spesso fluidi - giacché "non sempre
è possibile determinare in maniera univoca l'orientamento in
vista di un atteggiamento altrui e il senso del proprio agire" -,
finendo per ammettere che tanto il condizionamento di massa quanto
l'imitazione "costituiscono casi-limite dell'agire sociale" (v.
Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 21). Questa fluidità di
confini e il carattere relativamente amorfo dell'agire imitativo
sono all'origine delle difficoltà che la sociologia ha
incontrato nell'analizzare il fenomeno. Pur senza adottare il
concetto nello strumentario della sua sociologia (per altro
piuttosto allergica agli 'ismi'), Weber è andato comunque
oltre queste considerazioni metodologiche, indicando la dimensione
entro la quale collocare il fenomeno: nel suo lessico il concetto
più vicino è quello di convenzione. Se per "costume"
si deve infatti intendere "una regola non garantita dall'esterno",
alla quale l'individuo agente si conforma di fatto, senza
consapevolezza della sua normatività, e se per "diritto" si
deve intendere un ordinamento la cui validità è
"garantita dall'esterno" in modo coercitivo, la "convenzione"
costituisce una dimensione intermedia, nella quale la
validità di un ordinamento normativo è garantita
sì dall'esterno ma in maniera non istituzionalizzata e
rigidamente regolata, "mediante la possibilità di andare
incontro, in caso di deviazione, ad una disapprovazione generale, e
praticamente sensibile, entro un dato ambito di uomini" (ibid.; tr.
it., vol. I, p. 31).
Il passaggio dalle società conformistiche a quelle non
conformistiche, parallelo alla transizione da forme di
regolamentazione cerimoniale della vita sociale a forme di
regolamentazione politica, costituisce uno dei temi di fondo della
sociologia d'impianto evoluzionistico di Herbert Spencer (v.,
1877-1896). Pochi anni più tardi, E. A. Ross (v., 1901)
avrebbe specificato questa tendenza evolutiva nella forma del
passaggio dal controllo esterno al controllo interiorizzato,
inaugurando così uno dei filoni più fortunati della
sociologia americana. Sarebbe così diventata una tesi
corrente in sociologia e in antropologia l'affermazione che la
pressione verso la conformità è molto elevata in
società poco differenziate, mentre tende a decrescere nelle
società differenziate. Anche Émile Durkheim si muove
all'interno di queste coordinate e pone la questione
dell'uniformità sociale al centro della sua sociologia. Ai
fini del mantenimento della coesione sociale nelle società
primitive è indispensabile che gli individui siano simili
l'un l'altro; nelle società avanzate la solidarietà
"organica" è garantita invece dalla divisione del lavoro e
dalla specializzazione dei compiti. "L'uniformità delle
coscienze" è per lui, insieme alla divisione del lavoro
sociale, la fonte della vita sociale e della moralità: e se
c'è "una regola di condotta il cui carattere morale sia
incontestabile, è quella che ci ordina di realizzare in noi i
tratti del tipo collettivo" (v. Durkheim, 1902; tr. it., p. 387). Ma
il sentimento sociale "che deriva dall'uniformità è
forte soltanto se l'individuo non lo è", quello invece che
deriva dalla divisione del lavoro e dalla cooperazione "si sviluppa
a misura che si rafforza la personalità individuale" (ibid.;
tr. it., p. 233). In questa tensione immanente a ogni società
fondata sulla specializzazione delle funzioni e sul principio della
solidarietà organica è insito il pericolo della
perdita di effettività delle regole e quindi dell'anomia.Il
teorico eminente della conformità e della devianza è
però Talcott Parsons. Egli definisce conformità e
deviazione (che è il discostarsi dalla conformità ai
criteri normativi di una cultura) come "concetti che si riferiscono
a problemi di integrazione e di cattiva integrazione dei sistemi e
dei sotto-sistemi sociali" (v. Parsons, 1951; tr. it., p. 260),
conferendo loro, in questo modo, lo status di concetti generali
della sociologia e non di una sua branca specifica. Parsons assume
che di norma gli attori di un sistema sociale si comportino in modo
conforme alle aspettative degli altri; devianza è per lui
qualsiasi variazione del comportamento rispetto agli standard
sociali. In rapporto più o meno diretto con il grande sforzo
sistematico di Parsons, la sociologia americana ha proposto una
pluralità di approcci al fenomeno. Affrontando il problema
delle modalità di adattamento individuale Robert K. Merton ha
distinto tra conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia e
ribellione, riconoscendo alla prima priorità nella misura in
cui a garantire stabilità e continuità sociale
è la conformità alle mete culturali e ai mezzi
istituzionalizzati per perseguirle (v. Merton, 1957; tr. it., pp.
198 ss.). Hans Gerth e Charles Wright Mills (v., 1953) hanno
elaborato una tipologia centrata sulle variabili della
conformità interna ed esterna alle norme, in cui si
distinguono rigoristi, conformisti (opportunisti), ipocriti e
ribelli. David Riesman (v., 1950), muovendosi lungo lo stesso solco
di indagini sui rapporti tra sistema sociale e struttura della
personalità, ha proposto una distinzione tra epoche a seconda
che vi prevalga l'individuo diretto dalla tradizione, l'individuo
autodiretto - nella sostanza l'uomo moderno puritano - e l'individuo
eterodiretto. Occorre però riconoscere che nessuna di queste
tipologie è riuscita nell'intento di apprestare una
descrizione convincente del comportamento conformistico e ancor meno
in quello di fornire una spiegazione del suo diffondersi. In
particolare, il tentativo di Riesman di accostarsi al fenomeno
operando con una duplice classificazione, che combina 'tipi storici'
(diretto dalla tradizione, autodiretto ed eterodiretto) e 'tipi
universali' (adattato, anomico e autonomo), pur incontrando larghi
consensi fra coloro che erano alla ricerca di un'immagine
semplificante delle dinamiche della società di massa, si
è rivelato carente e a ragione è stato sottoposto a
critica severa soprattutto da parte di sociologi europei (v. ad
esempio, sul "paradosso dell'eterodirezione", Dahrendorf, 1972, p.
203).
Nelle ricerche empiriche sulla conformità e sul conformismo
condotte nel dopoguerra, le diagnosi epocali e le classificazioni
metastoriche vengono però progressivamente rimpiazzate da
più modeste ipotesi sulla dinamica di gruppo e sottoposte a
verifica (o a falsificazione) sperimentale. A inaugurarle sono gli
studi di Solomon Asch (v., 1957) sui fattori che inducono gli
individui a cedere sul piano percettivo e cognitivo alle pressioni
di un gruppo. Questi studi, che vertono sulla percezione visiva,
approdano alla conclusione che, all'interno di un gruppo, un'alta
percentuale di individui (fino al 75%) è indotta a commettere
errori conformandosi alle percezioni della maggioranza, quando
questa si presenti compatta e unanime. A partire da qui lo spettro
delle ricerche si è rapidamente allargato, orientandosi, con
autori come M. Sherif, G. W. Allport, E. P. Hollander, R.
Crutchfield e molti altri, verso lo studio della conformità
come modalità di comportamento finalizzata allo sviluppo e
alla stabilizzazione della personalità, verso l'analisi della
genesi di stereotipi e pregiudizi entro contesti sociali specifici e
verso lo studio del rapporto tra gruppo e leader. In quest'ambito
particolare si è cercato di conferire evidenza empirica alla
tesi che, in condizioni di integrazione sociale, hanno maggiori
probabilità di diventare leaders coloro che meglio sanno
rispondere alle aspettative conformistiche del gruppo (v. Homans,
1951); e si è argomentato, a parziale correzione di tale
tesi, che un comportamento conformistico consolidato conferisce al
leader la libertà di prendere anche iniziative non
conformistiche (v. Hollander, 1964).
In queste ricerche si è cercato in particolare di fornire
risposta a due domande: quando si dia conformismo e perché le
persone si conformino. Quanto alla prima questione, tre sono state,
fondamentalmente, le variabili sottoposte a indagine: 1) le
caratteristiche dell'individuo esposto alle pressioni del gruppo (in
particolare il sesso, l'età e la nazionalità); 2) le
caratteristiche del gruppo che è sorgente della pressione (la
dimensione, l'unanimità o il pluralismo delle posizioni, la
loro eventuale polarizzazione); 3) la relazione tra l'individuo e il
gruppo (il livello d'interdipendenza in riferimento alle sanzioni
positive - ricompense che possono essere comuni o individuali -,
grado d'intensità dell'attrazione e dell'accettazione, status
dell'individuo ecc.). Le ricerche hanno poi regolarmente messo in
luce come le risposte di tipo conformistico dell'individuo alle
pressioni del gruppo si modifichino significativamente nel corso del
tempo e dipendano dalla conformazione dello spazio sociale
(più o meno aperto o pluralistico).
Quanto alle ragioni del conformarsi, anche qui sono state prese in
considerazione una pluralità di variabili e si sono
sviluppate teorie divergenti e concorrenti. Alcuni lavori hanno
messo in particolare evidenza la componente d'influenza
informazionale, quando cioè l'individuo desidera ottenere una
percezione esatta della realtà ed è insicuro delle sue
conoscenze e della sua capacità di orientarsi, altri quella
d'influenza normativa, vale a dire la ricerca del riconoscimento
sociale e il desiderio di ottenere ricompense ed evitare punizioni,
altri ancora hanno posto l'accento sulla negoziazione tra
l'individuo e il gruppo, di cui la conformità sarebbe l'esito
che meglio riduce il conflitto minimizzando la devianza (v. Levine e
Pavelchak, 1989, pp. 40 ss.). Alla base del conformismo, la teoria
psicosociale è comunque abbastanza unanime nel riconoscere
strategie volte a dare risposta a tre particolari bisogni (v. Mucchi
Faina, 1998, pp. 94-95): il "bisogno di approvazione sociale", il
"bisogno di proteggere e potenziare il Sé", preservandolo da
conflitti e neutralizzando meccanismi moltiplicatori di ansia, e
quello che Parsons ha chiamato il "bisogno di un senso di
adeguatezza", vale a dire il "bisogno di sentirsi capace di vivere
all'altezza dei criteri normativi del sistema di aspettative" (v.
Parsons, 1951; tr. it., p. 271).
3. Conformismo e anticonformismo nella storia
Come molti termini del lessico sociale e politico moderno, anche
'conformismo' è un concetto teologico secolarizzato. La sua
origine va infatti rintracciata in ambito religioso (v. Lipp, 1975,
pp. 19-23). La storia del termine può essere fatta risalire
ai dibattiti interni alla Chiesa anglicana all'indomani della
promulgazione degli Acts of uniformity (1549-1662), che sanciscono
l'alleanza e la reciproca dipendenza tra potere politico e
ierocrazia: nata anch'essa sfidando la sovranità papale, la
Chiesa anglicana non è però figlia della pressione
riformatrice della comunità dei credenti o di una rivolta dal
basso, bensì di un 'atto di supremazia'. Proprio a questa sua
genesi è riconducibile la tensione tra established church e
dissent che caratterizzerà la storia confessionale e politica
inglese a partire dal XVI secolo. Il conformismo politico della
Chiesa anglicana rappresenta infatti al tempo stesso una risorsa e
un vincolo per le pratiche di controllo sociale, costringendo
l'episcopato da un lato a una politica opportunistica di compromessi
con il potere e dall'altro a dosate aperture nei confronti delle
sette puritane e dei dissenzienti. L'entità della pressione
conformistica esercitata, d'intesa con il potere politico, da questa
istituzione ecclesiale è ben documentata dal Common book of
prayer e dal suo impiego come strumento di regolazione della
condotta sociale (v. Maltby, 1998).
Proprio in ambito religioso l'età moderna si connota per una
straordinaria inventività sul piano dei meccanismi di
controllo sociale e delle strategie di dissimulazione della
devianza. Un'esemplificazione di questa nuova sensibilità
sociale è offerta dalla vicenda del nicodemismo, vale a dire
di quell'atteggiamento di simulazione o dissimulazione che
nell'Europa riformata portò a celare la fede per timore della
persecuzione. In un'opera apparsa a Basilea nel 1549 e destinata ad
avere straordinaria fortuna nel continente lacerato dalle guerre
civili confessionali, il Proscaerus di Eutychius Myon (pseudonimo di
Wolfgang Musculus), accanto alla figura del nicodemita, colui che
continua a partecipare alle cerimonie cattoliche pur essendo
convertito alla nuova fede, viene presentata quella
dell'opportunista, di colui cioè che, dopo aver apertamente
aderito alla Riforma, è poi tornato per convenienza, sia pure
senza convinzione, alla confessione cattolica. Ma nell'opera, che si
svolge in forma di dialogo, sembra già essere tematizzata
anche la dialettica di questi atteggiamenti: dal nicodemismo e
dall'opportunismo è destinata a scaturire una posizione
ulteriore, quella che degrada la religione a superstizione e
pretesto di conformismo sociale (v. Ginzburg, 1970, p. 185). In
questo contesto il conformismo sociale appare dunque, più
specificamente, come prodotto della secolarizzazione di forme di
opportunismo e nicodemismo religioso.
Nella variegata geografia confessionale dell'Europa post-riformata
la più potente agenzia di conformismo religioso resta a ogni
buon conto la Chiesa cattolica, in particolare attraverso
l'Inquisizione e il suo evolvere "da tribunale dell'eresia a
tribunale della moralità pubblica" (v. Prosperi, 1996, p.
465). Le tecniche di controllo delle coscienze attraverso la
confessione, le pratiche volte alla costruzione della
personalità, la subordinazione del foro penitenziale al foro
esterno, l'istituzionalizzazione del controllo sociale mediante la
censura e la sua interiorizzazione mediante l'autocensura
configurano nel loro insieme il grande laboratorio della
conformità, all'interno del quale l'accento viene
progressivamente spostandosi "dal campo delle relazioni sociali
oggettive a quello della disciplina interiore dell'individuo" (v.
Bossy, 1975; tr. it., p. 59). È in seno alla Chiesa
cattolica, in particolare con l'ordine gesuitico, che il conformismo
assurge alla sua forma moderna, trovando elaborazione in
quell'ideologia del 'desiderio di compiacere il mondo' stigmatizzata
da Pascal in tutta la sua opera. La Chiesa, come istituzione che
impone una disciplina rigorosa di obbedienza e uniformità,
costituisce del resto il modello per l'azione uniformatrice dello
Stato, grande macchina produttrice di conformismo attraverso la
centralizzazione amministrativa. A questa prestazione dello Stato
moderno le scienze sociali a partire da Max Weber avrebbero
però preferito dare il nome di disciplinamento, intendendo
con questo termine l'ammaestramento a un'obbedienza automatizzata
mediante l"'esercizio" e la "coscienziosità", volto a
produrre un'uniformità razionalizzata di condotta in una
molteplicità di uomini (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, pp.
462-463). Ma anche Antonio Gramsci, interrogandosi nei Quaderni del
carcere sulla "quistione dell"uomo collettivo' o del 'conformismo
sociale"', interpreta in senso non troppo dissimile il "compito
educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare
nuovi e più alti tipi di civiltà, di adeguare la
'civiltà' e la moralità delle più vaste masse
popolari alle necessità del continuo sviluppo dell'apparato
economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei
nuovi tipi d'umanità" (v. Gramsci, 1975, pp. 1565-1566).
La grande disputa tra conformismo e anticonformismo è
notoriamente alla radice del liberalismo moderno. Il non conformismo
delle sette dei dissenzienti, esso stesso produttore di nuove forme
di conformismo, dà l'avvio a quei processi che, in maniera
tutt'altro che lineare e tutt'altro che indolore, portano alla
formazione dell'individuo moderno. Con l'individualismo e la sua
rivalutazione dell'eccentrico, dell'originalità, della
creatività dell'agire si pongono altresì le basi per
quella trasformazione della sensibilità che porterà a
fare del conformismo un fenomeno malfamato e un bersaglio polemico
della critica sociale. Al punto d'incontro tra queste tradizioni, il
non conformismo delle sette e il liberalismo degli individui che si
emancipano da vincoli sociali troppo condizionanti, si colloca
Herbert Spencer, che al "non conformismo" ha dedicato un capitolo
della sesta parte dei suoi Principles of sociology. Spencer è
rilevante non solo perché, con la sua opera, il termine entra
nel lessico sociologico conservando memoria del suo significato
religioso originario, ma anche e soprattutto per altre ragioni: in
primo luogo perché in lui è ormai ben chiara la
consapevolezza che il non conformismo produce a sua volta
conformismo, come ben mostra la vicenda delle sette (v. Spencer,
1877-1896, vol. II, p. 575: "le storie di questi vari corpi
nonconformisti [...] ci mostrano la formazione, nel loro seno, di un
nuovo governo coercitivo, simile a quello contro cui s'erano
ribellati"); in secondo luogo per la tesi che "lo sviluppo del non
conformismo è un risultato indiretto dell'industrialismo
crescente" (ibid., p. 578).
Ma la società borghese del commercio, della manifattura e
dell'industria costituisce essa stessa un laboratorio di produzione
di conformità nella condotta sociale, nelle opinioni e nei
modi di sentire. A denunciare i caratteri di questo nuovo
conformismo, peculiare di una società fondata sul denaro e
che ha ormai smarrito le originarie motivazioni religiose del
capitalismo razionale, si diffonde nella pubblicistica
dell'Ottocento un nuovo termine - anch'esso di derivazione
scritturale: filisteismo. Dalla pubblicistica il termine non
tarderà però a fare il suo ingresso nelle scienze
sociali per designare una mentalità che nei suoi giudizi
adotta il parametro dell'utilità immediata e del valore
materiale (v. Arendt, 1968; tr. it., p. 261). Il filisteismo
è qui associato alla prevalenza degli interessi economici e
al desiderio di sicurezza, ma anche alla paura dell'innovazione,
dell'apertura e dell'eguaglianza. Nel filisteismo il complesso degli
atteggiamenti che costituiscono il carattere è tale da
"escludere praticamente lo sviluppo di qualsiasi nuovo atteggiamento
in certe condizioni di vita, poiché le capacità
riflessive dell'individuo hanno ormai acquistato una tale
fissità che egli è ormai accessibile a una sola specie
di influenze - cioè quelle che costituiscono la parte
più costante del suo ambiente sociale" (v. Thomas e
Znaniecki, 1927; tr. it., pp. 546-547).
4. Società di massa e "dispotismo della consuetudine"
Nel lessico corrente per conformismo s'intende quell'atteggiamento
che è effetto della pressione collettivizzante sull'individuo
e che appare quindi antitetico all'individualismo. Questa
contrapposizione, in effetti, si afferma nel lessico sociopolitico
dell'Ottocento per segnare un criterio di demarcazione rispetto a
incipienti patologie di una società liberale che si sta
democratizzando. A partire da Tocqueville, il primo teorico della
democrazia moderna, si fa strada l'orientamento a tematizzare
criticamente la tendenza della società a imporre norme di
condotta. Allo studioso francese appare evidente il nesso tra
l'avanzare dell'eguaglianza come livellamento delle posizioni
sociali e il prevalere di orientamenti conformistici. È lo
sviluppo sociale più che quello politico a creare le
condizioni per il progressivo indebolimento dell'individuo,
lasciandolo in balia di credenze e opinioni di dubbie ascendenze ma
di grande impatto: "l'opinione generale pesa immensamente sullo
spirito di ogni individuo, lo abbraccia, lo dirige e l'opprime" (v.
Tocqueville, 1835-1840; tr. it., p. 675). Per Tocqueville
l'individualismo è un sentimento che induce il singolo a
"isolarsi dalla massa dei suoi simili", rinchiudendosi nella sfera
privata e abbandonando "la grande società a se stessa": in
questo modo, spinto dall'eccessiva preoccupazione per il benessere
del Sé, esso finisce paradossalmente per lasciarlo in balia
delle pressioni conformistiche dell"'opinione generale". D'altro
canto, l'instabilità comportamentale dell'individuo
democratico induce a riconoscere l'improbabilità che si
instaurino convenzioni rigide. Tocqueville non ritiene che lo sbocco
del processo di democratizzazione debba essere costituito da un
soffocante conformismo, almeno finché le democrazie sapranno
resistere alla tentazione di cedere al dispotismo di un "potere
immenso e tutelare". "Gli uomini che vivono nelle democrazie sono
troppo mobili perché un certo numero di loro giunga a
stabilire un codice del saper vivere e possa far sì che esso
sia osservato. Ognuno agisce, quindi, press'a poco a modo suo e
regna sempre una certa incoerenza nelle maniere, perché
queste si conformano ai sentimenti e alle idee individuali di
ciascuno più che a un modello ideale offerto in precedenza
all'imitazione di tutti" (ibid.; tr. it., pp. 635-636).Se
Tocqueville ha il merito di aver richiamato per primo l'attenzione
sulla contaminazione di individualismo e conformismo che
caratterizza costumi e mentalità della società
democratica, John Stuart Mill è l'autore che a metà
del secolo scorso scende in campo per difendere l'individualismo
liberale dalla marea montante di un conformismo trasversale rispetto
alle ideologie. In On liberty egli individua la minaccia di un nuovo
dispotismo nella "tendenza della società a imporre come norme
di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e
usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo - e a prevenire, se
possibile, la formazione - di qualsiasi individualité
discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo
modello" (v. Mill, 1859; tr. it., p. 27). A preoccupare il filosofo
inglese è l'intolleranza della società contemporanea
nei confronti di ogni manifestazione di individualità, la
crescente uniformità del paesaggio sociale, il "dispotismo
della consuetudine" che ostacola il progresso attraverso
l'inibizione delle differenze. Il conformismo costituisce per lui il
più insidioso nemico della mentalità liberale. "Queste
tendenze attuali fanno sì che il pubblico sia più
disposto di quanto non lo fosse in generale nel passato a
prescrivere norme generali di condotta e a sforzarsi di far
conformare tutti al criterio comunemente accettato" (ibid.; tr. it.,
p. 100).
A partire da queste acquisizioni della teoria sociale e politica
comincia così ad assumere contorni più precisi, in una
vasta pubblicistica del secondo Ottocento, l'idea che la
mentalità conformistica costituisca un fenomeno concomitante
del processo di modernizzazione. Il conformismo è per un
verso il collettivismo della società di mercato e per l'altro
il tradizionalismo della società democratica. Il conformismo
è pertanto un orientamento della condotta che attraversa con
funzioni di stabilizzazione tutte le ideologie che la
modernità produce, anche se può superficialmente
mostrare elementi di maggiore affinità con il
conservatorismo, in virtù del comune atteggiamento
tradizionalistico. Ma, a ben vedere, il conformismo costituisce
piuttosto un surrogato del tradizionalismo entro condizioni sociali
diventate inospitali per le tradizioni e dove il processo di
secolarizzazione ha indebolito le capacità di controllo
sociale delle istituzioni ecclesiastiche. Esso viene a svolgere, in
società sottoposte a tendenze centrifughe, spinte
dissociative, rischio permanente di anomia, una funzione di
compensazione, generando quanto meno l'illusione dell'integrazione
sociale e l'apparenza di una coesione a prova di dissenso.
5. Conformità totalitaria
All'indomani della prima guerra mondiale si moltiplicano nella
cultura occidentale diagnosi più o meno pessimistiche sulla
società industriale come civiltà che seleziona un
nuovo tipo umano caratterizzato da edonismo amorale, perdita
dell'esperienza e crescente suggestionabilità. In esse anche
il tema del conformismo acquista, sia pure in una pluralità
di accezioni, maggiore evidenza. Ortega y Gasset (v., 1929), che ne
La rebeliòn de las masas si propone fra le altre cose di
tracciare il "diagramma psicologico dell'uomo-massa", riconosce
nella libera espansione dei desideri vitali e nella "radicale
ingratitudine verso quanto ha reso possibile la facilità
della sua esistenza" i tratti della personalità conformistica
nelle condizioni sociali della massificazione. All'interno della
cultura americana, Lewis Mumford (v., 1934) individua, con la sua
pionieristica analisi della civiltà tecnologica, nella
standardizzazione della produzione e del prodotto e nell'aumento
dell'interdipendenza collettiva i fattori che più
contribuiscono all'omologazione delle forme di vita e di
espressione. Pressoché negli stessi anni Gramsci, riflettendo
sulla genesi sociale dell"'uomo-collettivo" e riconoscendo che
l'attuale standardizzazione del modo di pensare e di operare ha la
sua base economica nella "taylorizzazione" o razionalizzazione del
processo produttivo, rileva essere la "tendenza al conformismo nel
mondo contemporaneo più estesa e più profonda che nel
passato" (v. Gramsci, 1975, p. 862). Ma, nel suo caso, alla nozione
di un conformismo "imposto" dall'alto e autoritario sul modello
della Chiesa cattolica e dello Stato moderno, si contrappone
un'accezione positiva di un conformismo "proposto" e cresciuto dal
basso, il cui conseguimento è il risultato dialettico dello
"sviluppo di individualità e personalità critica"
(ibid., pp. 1110-1111). La convinzione comune alla più parte
di queste eterogenee diagnosi è che nell'alveo della
civiltà tecnologica sia nato un uomo nuovo, plasmato dalle
esperienze delle trincee e dalla disciplina di fabbrica. Dove esse
divergono è nella fiducia di poter governare questa
rivoluzione antropologica e nella direzione da imprimere a
quest'azione di governo.
Con l'età dei totalitarismi il tema della conformità
imposta e forzosamente amministrata acquista una rilevanza prima
sconosciuta. Le grandi ricerche sul conformismo e sull'autoritarismo
di quegli anni segnano una svolta nella storia del problema, al
centro della quale si colloca sicuramente l'attività della
Scuola di Francoforte. Con le Studien über Autorität und
Familie (v. Horkheimer e altri, 1936), ricerche condotte in diversi
paesi europei sulla percezione dell'autorità nella famiglia,
nella scuola e nel sistema economico, si inaugura un filone di
indagini che condizionerà profondamente anche le successive
ricerche empiriche sul conformismo. The authoritarian personality
(v. Adorno e altri, 1950), d'altro canto, è una ricerca
sull'individuo "potenzialmente fascista" e su un tipo di struttura
della personalità particolarmente suscettibile alla
propaganda antidemocratica (tale individuo è definito infatti
"consumatore di propaganda"). Per quanto gli autori usino
l'espressione conventionalism anziché conformism, non vi
è dubbio che la relazione tra questo e l'autoritarismo
è il tema di fondo della ricerca. Nel caso del soggetto
"convenzionale" manca il consolidamento del Super-Io, per cui
l'individuo è sottoposto all'influenza di istanze esteriori:
il suo motivo predominante è la paura di essere diverso; nel
caso del soggetto "autoritario", invece, un Super-Io esorbitante si
trova incessantemente a combattere con forti e ambivalenti pulsioni
dell'Es: il motivo predominante è qui la paura di essere
debole.
Con l'opera più importante dell'esilio americano, Dialektik
der Aufklärung, Horkheimer e Adorno (v., 1947) hanno sottoposto
a rielaborazione filosofica alcune acquisizioni delle precedenti
ricerche sociologiche della scuola, tematizzando le aspettative di
conformità proprie del "mondo dell'organizzazione". Per una
civiltà che ha il suo nucleo originario nella negazione della
soggettività e nella concezione della libertà come
coazione, l'esito del conformismo di massa appare scontato: il
totalitarismo, nella misura in cui realizza la fusione di
organizzazione e produzione in una totalità oppressiva in cui
non esiste più alternativa al conformismo, costituisce
soltanto la tappa estrema di un processo di asservimento dell'uomo
alle logiche del dominio. Il principio di prestazione, la
repressione e la sublimazione delle pulsioni diventano i vettori
della normalizzazione degli individui e della produzione di
conformità agli imperativi sistemici. Come meglio chiariranno
gli studiosi del totalitarismo cresciuti ai margini della Scuola di
Francoforte, e in misura eminente Hannah Arendt, la
conformità totalitaria è inoltre il prodotto di
tecniche manipolatorie di sperimentata efficacia anche se di
più capillare impiego: distorsione dell'informazione,
controllo dei meccanismi psicologici inconsci, manipolazione delle
coscienze. Ma Dialektik der Aufklärung tematizza in primo luogo
il 'dispotismo mite', come lo avrebbe definito Tocqueville,
dell'industria culturale, mediante la quale "l'illuminismo diventa
mistificazione di massa". L'intrattenimento che essa offre nel tempo
libero non è che prolungamento del tempo di lavoro, la vita
sociale si svolge canalizzata entro istituzioni che trasmettono
l'illusione della sicurezza, la mobilitazione politica avviene sotto
la regia di drammaturghi che hanno il terrore del vuoto. L'assenza
di libertà è in ogni caso sperimentata in condizioni
di narcosi sociale, in una situazione ovattata, in cui non è
più possibile avvertire, nella condotta resa conforme, la
pressione che su di essa è stata esercitata. In questa
situazione domina la pseudo-individualità e il conformista
altri non è che l'uomo rassegnato, che ha rinunciato a
qualsiasi speranza di autorealizzazione e si è convinto che
può conseguire il successo solo attraverso l'imitazione (v.
Horkheimer, 1947; tr. it., p. 123).
Le tesi sull'industria culturale formulate da Horkheimer e Adorno, e
radicalizzate da Herbert Marcuse, trovano collocazione entro una
diagnosi epocale, in base alla quale i mezzi di comunicazione di
massa, l'industria del divertimento e dell'informazione, l'universo
delle merci plasmato dalla moda non solo generano atteggiamenti
conformistici, ma finiscono per oltrapassare l'orizzonte stesso del
conformismo in direzione della 'mimesi'. Nelle condizioni della
civiltà industriale avanzata, infatti, diventa problematico
assumere che l'individuo interiorizzi secondo modalità
spontaneamente adattative i controlli sociali esterni: il termine
introiezione richiama alla mente un processo in base al quale l'Ego
"trasferisce l''esterno' nell''interno'", il che appare tuttavia
irrealistico laddove sia venuta meno la separazione di una coscienza
e di un inconscio individuali dalle istanze autoritative della
società. "Oggi questo spazio privato è stato invaso e
sminuzzato dalla realtà tecnologica. La produzione e la
distribuzione di massa reclamano l'individuo intero, e la psicologia
industriale ha smesso da tempo di essere confinata alla fabbrica. I
molteplici processi d'introiezione sembrano essersi fossilizzati in
reazioni quasi meccaniche" (v. Marcuse, 1964; tr. it., p. 30).
Analogamente, anche se evitando il ricorso alla teoria
psicoanalitica, argomenta Günther Anders, per il quale persino
il concetto di conformismo appare ormai antiquato a fronte di una
situazione sociale nella quale il soggetto è stato
neutralizzato dalla tecnica e l'agire soppiantato da una passiva
reattività. Non si danno più individui conformisti, ma
soltanto individui conformati, che si illudono di essere ancora
individui in quanto la totale automazione, rendendo ormai superflui
anche comandi e divieti, alimenta l"'illusione della libertà"
(v. Anders, 1980, p. 195). Non troppo diverse, d'altro canto,
appaiono le diagnosi elaborate sul versante conservatore o fra i
teorici democratici di una società che non conosce più
conflitto. David Riesman si fa interprete del disagio di una
società atomizzata in cui gli individui hanno perso la
capacità non solo di modellare i loro destini, ma anche di
dare senso alla loro esistenza strutturandola e ordinandola entro
contenitori di senso: l'individuo eterodiretto è colui che
"non pone limiti precisi fra produzione e consumo; fra l'adattamento
al gruppo e la dedizione ai propri interessi; fra lavoro e svago"
(v. Riesman, 1950; tr. it., pp. 192-193). Anche Hans Freyer (v.,
1955) mette in luce come il bisogno di uniformità vada
interpretato come reazione alla crescente solitudine dell'uomo nella
società di massa. Richard Sennett (v., 1974) sottopone invece
a indagine il conformismo 'intimista' dell'età del narcisismo
sociale. Sul piano politico, queste diagnosi finiscono per
convergere con quelle che proclamano la fine dell'ideologia (Daniel
Bell), la fine dell'utopia (Judith Shklar) o la fine
dell'opposizione politica (Otto Kirchheimer), postulando di fatto
una specularità tra conformismo e apatia politica.Nella
seconda metà del secolo queste analisi sfociano poi nella
messa sotto accusa dei mass media come strumenti di diffusione del
conformismo in un pubblico ignaro di subire passivamente la
pressione della cultura di massa. Essi costituiscono i vettori del
conformismo da villaggio globale. Impoverimento dell'esperienza,
appiattimento delle credenze, non economizzazione ma inaridimento
delle energie cognitive appaiono anche qui le conseguenze a largo
raggio della diffusione di questi strumenti dell'industria
culturale. Viene formulato il teorema della 'spirale del silenzio',
secondo cui i mass media rispecchierebbero ed enfatizzerebbero
opinioni e sentimenti prevalenti contribuendo però a
soffocare le voci minoritarie e dissidenti (v. Noelle-Neumann,
1996). Omologando quanto è stato assimilato e secondando il
gusto esistente senza promuovere un rinnovamento della
sensibilità, i mass media esercitano una funzione
conservatrice - anche se di una conservazione appiattita sul
presente e incapace di coscienza storica (v. Eco, 1977, p. 36).
6. Conformismi postmoderni
Sul piano degli studi, rispetto al dibattito sulla società di
massa e sulle sue tendenze totalitarie, manifeste o latenti, i
decenni recenti hanno registrato piuttosto lo spostamento del
baricentro delle indagini verso l'ambito storiografico, sotto
l'impulso delle ricerche di Michel Foucault sui meccanismi
disciplinari e sulle forme di controllo sociale delle società
moderne. In questo modo, tuttavia, la ricerca storico-sociologica
tornava ad allontanarsi dalla fenomenologia psicosociale del
conformismo per esplorare, in senso più generale, le
multiformi regioni del controllo sociale. Più che alla
tematizzazione del conformismo, infatti, le ricerche di Foucault
erano state indirizzate, soprattutto con le opere degli anni
sessanta, a partire dall'Histoire de la folie à l'âge
classique, allo studio delle tecnologie di dominio impiegate
dall'autorità pubblica per esercitare un controllo della
mente; più tardi, a partire da La volonté de savoir e
dal progetto sulla storia della sessualità, all'indagine
delle tecnologie dell'autocontrollo. Nell'un caso come nell'altro,
l'oggetto della riflessione non era tanto il processo passivo di
adattamento conformistico quanto l'esercizio del potere sociale
mediato da pratiche, oppure la partecipazione dell'individuo al
processo di controllo disciplinare attraverso l'automonitoraggio e
la sorveglianza della propria condotta.
Anche nell'ambito della psicologia sociale, del resto, si può
osservare come le ricerche sul conformismo abbiano registrato negli
ultimi decenni una minore vitalità, orientandosi in maniera
crescente l'interesse verso lo studio della psicologia delle
minoranze attive e innovatrici (v. Moscovici, 1979). La sfida alle
opinioni dominanti, l'anticonformismo e la cultura delle differenze
sono diventate temi prediletti delle correnti sociologiche che
civettano con il 'postmoderno'. Sarebbe tuttavia errato inferire da
questi orientamenti che il fenomeno stia perdendo rilevanza
all'interno delle società contemporanee. La rassegna fin qui
compiuta non autorizza tali conclusioni; essa mostra soltanto quanto
sia problematico ricondurre il conformismo a una definizione
unitaria. Significativo è semmai rilevare come dai movimenti
sociali e politici che, a partire dagli anni sessanta, hanno
animato, nel segno dell'anticonformismo, la scena della
controcultura, della contestazione e della protesta siano scaturite
nuove manifestazioni di conformismo che hanno contribuito a segnare
il profilo della 'società postmoderna'.
Ancora più problematica risulta la determinazione del
concetto se si rivolge lo sguardo alla società attuale, alla
luce delle sue trasformazioni più recenti nell'ambito delle
forme di vita e delle tecniche di comunicazione e condizionamento
della personalità. L'unico denominatore comune che sembra
potersi ancora individuare fra i comportamenti eterodiretti della
società contemporanea è l'orientamento al consumo: e
in questo quadro ha senso soprattutto parlare di conformismo
consumistico (v. König, 2000). Rispetto alle teorie ormai
classiche dell'omologazione di massa, cui ci si è prima
richiamati, il senso di questa trasformazione sociale sul piano
della teoria della personalità e dell'interazione tra
individuo e gruppo è stato colto da Christopher Lasch (v.,
1979) in un libro famoso sul narcisismo nella società
contemporanea. In una società dominata dalla cultura
narcisistica dei suoi membri anche il conformismo tende a mutare,
accentuando ulteriormente caratteri di passiva e acritica
ricettività. L'individuo narcisista, cresciuto all'interno di
un ambiente familiare in cui l'autorità è debole e
insicura, sviluppa a sua volta un'insicurezza che lo porta a
dipendere dall'approvazione altrui e da appagamenti immediati, di
tipo consumistico. In tali condizioni a prevalere non è la
conformità imposta da un'industria culturale totalitaria ma
il conformismo annoiato di un individuo che vive la propria
solitudine nella promiscuità (v. Bellebaum, 1990). Subentra
così un nuovo tipo sociale, quello del conformista 'mordi e
fuggi', di cui Zelig, il protagonista del noto film di Woody Allen,
è un'incarnazione esemplare (v. Mucchi Faina, 1998, p. 62).
Da più parti, del resto, viene rilevato che almeno sul piano
morale la tradizionale pressione conformistica di una società
che imponeva modelli dominanti appare attenuata. Nella
società dell"irresponsabilità organizzata' viene meno
proprio l'istanza superiore del custode delle norme sociali. Il
conformista della società borghese classica era tale
perché si sentiva osservato da un'istanza morale. Dove questa
si polverizza, dove perde di riconoscibilità nei confronti
delle più potenti agenzie del conformismo consumistico,
diminuisce anche il senso del controllo sociale. La società
moderna, sempre più aperta, diventa incapace di produrre
standard condivisi di comportamento conformistico; ma, al suo
interno, alberga comunità sempre più chiuse, arroccate
nell'autodifesa e nel mantenimento della propria identità:
proprio queste comunità chiuse divengono il fertile vivaio di
nuovi conformismi. Il ritorno alla comunità, che caratterizza
in modo trasversale la dinamica culturale delle odierne formazioni
sociali, dà espressione all'esigenza della ricostituzione di
quel Super-Io sociale che è stato sommerso dalle pulsioni di
un Es consumistico.
Nel bisogno di identificazione comunitaria si può ravvisare
il nuovo conformismo a cavallo dei due secoli (ibid., p. 120). La
società postmoderna viene abitualmente definita in base al
pluralismo degli stili di vita, delle differenze, del controllo
sociale degerarchizzato. Ma tale pluralismo, lungi dal risultare
incompatibile con l'affermazione di una personalità
conformistica, ne è la condizione, giacché proprio la
rivendicazione della differenza esige dal gruppo che l'avanza
omogeneità e coesione e dal singolo membro rinuncia a ogni
comportamento e opinione dissenzienti. Gli studi di sociologia della
devianza ne offrono convincente esemplificazione, mostrando come la
criminalità non sia solo devianza ma anche conformità:
le bande giovanili che orientano il loro agire di gruppo alla
trasgressione non costituiscono una somma anomica di individui
isolati, ma una comunità caratterizzata da un'insolita
intensità di interazione e da uno spiccato conformismo. "Ogni
differenza comporta l'individuazione di qualche criterio in base al
quale tale differenza viene stabilita; ogni differenza è
subordinata quindi all'esistenza di una norma, sia essa formale o
informale, momentanea o duratura. E, nel momento in cui una norma fa
la sua comparsa, appare anche la normalità e, con essa, la
possibilità del conformismo" (ibid., p. 8). A questa
regolarità dell'agire sociale non si sottrae nemmeno un
comportamento che più di altri è esposto alla continua
metamorfosi dell'identità.