Classi e stratificazioni sociali
di Frank Parkin
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1992)
Sommario: 1. Introduzione. 2. Il modello marxista delle classi. 3.
Autorità e subordinazione. 4. La teoria funzionalistica della
stratificazione. 5. Lavoro manuale e lavoro non manuale. 6. Le
classi nella società socialista. 7. Masse ed élites.
8. Condizione etnica e stratificazione di classe. 9. Conclusioni. □
Bibliografia.
1. Introduzione
Le teorie delle classi e della stratificazione sociale hanno sempre
occupato un posto di primaria importanza nella storia delle scienze
sociali e della sociologia in particolare. In effetti, si potrebbe
sostenere che la teoria della stratificazione costituisca la base
teorica della disciplina, la pietra angolare sulla quale poggia
tutto il resto. Ciò non sorprende, dal momento che le scienze
sociali sono nate nelle società europee in un'epoca di acuto
conflitto di classe. Non è troppo azzardato ritenere che gli
sconvolgimenti politici e sociali prodotti dalle divisioni di classe
del capitalismo del XIX secolo abbiano contribuito potentemente alla
nascita delle scienze sociali. Almeno in parte, la sociologia e
l'economia si affermarono come discipline importanti per il bisogno
di spiegare, e a volte di giustificare, le disuguaglianze e le
ristrutturazioni delle classi prodotte dalla rapida transizione da
un modo di produzione agrario a uno industriale.
L'analisi della formazione delle classi rappresentò fin
dall'inizio il punto centrale della teoria della stratificazione,
che non prese in considerazione praticamente nessun'altra forma di
disuguaglianza strutturale. Le divisioni sociali di tipo etnico,
razziale, sessuale, ecc. venivano ignorate oppure subordinate alle
esigenze della teoria delle classi. L'esclusivo interesse per la
natura e le forme delle classi sociali, caratteristico dei primi
teorici della stratificazione, non ha favorito lo sviluppo della
moderna teoria sociale, che si trova di fronte a una realtà
diversa ma è comunque fortemente influenzata dai concetti e
dagli assunti dei fondatori della disciplina.
La stretta adesione alle idee dei teorici classici è tanto
più rilevante se si pensa che gli autori che hanno avuto
maggiore influenza si potrebbero contare sulle dita di una mano.
L'attuale teoria delle classi o della stratificazione deriva quasi
interamente dagli scritti di Marx ed Engels, di Max Weber e della
scuola di Mosca e Pareto. Questo non significa, naturalmente, che
molti altri tra i primi teorici non abbiano fornito osservazioni e
intuizioni valide sulla struttura e sulle forme della
disuguaglianza. Le opere di Saint-Simon, Tocqueville, Durkheim e
Sombart, per non nominare che alcuni autori, offrono molteplici
spunti sulle forze del capitalismo allora emergenti, sulla
distribuzione del prestigio sociale, sui cambiamenti di condizione
prodotti da nuove fonti di disuguaglianza, nonché sulle varie
proposte per rimarginare le ferite causate da una competizione
economica senza freni. Nondimeno, quale che possa esserne la
ragione, nessuno di questi contributi ha dato luogo a una tradizione
teorica o a un insieme di concetti che siano entrati a far parte
della corrente principale della teoria della stratificazione. Anche
gli scritti di Mosca e Pareto, pur occupandosi direttamente del
problema della riproduzione e del dominio di classe, non hanno in
realtà esercitato molta influenza sul dibattito contemporaneo
in materia, sebbene riferimenti occasionali alle loro opere siano
presenti in quel ramo specialistico degli studi politici noto come
'teoria delle élites'. Infatti, è il patrimonio di
idee trasmesso da Marx e da Weber che costituisce la base della gran
massa degli studi empirici e teorici sulla stratificazione.Una
ragione plausibile per la quale una parte tanto ampia della
sociologia classica non ha lasciato un'impronta più duratura
nella teoria della stratificazione è che i primi autori erano
fortemente interessati al drammatico passaggio da una società
agricola e rurale a una società industriale e urbana.
Nonostante le differenze terminologiche, la distinzione introdotta
da Durkheim tra solidarietà meccanica e organica, quella di
Tönnies fra Gemeinschaft e Gesellschaft, o di Maine tra status
e contratto, e così via, si riferiscono tutte a questo grande
spartiacque nella riorganizzazione economica e morale delle
società europee. La contrapposizione tra il sistema
industriale e quello preindustriale fu ritenuta così
importante da indurre a non prestare adeguata attenzione alla vasta
fenomenologia delle classi e ad altre formazioni sociali comprese in
ciascuno dei due tipi generali. La classificazione delle
società mediante il ricorso a uno dei sinonimi del termine
'preindustriale' ha comportato l'aggregazione indiscriminata di una
vasta gamma di sistemi sociali del tutto diversi fra loro, come il
tribale, lo schiavistico, il sistema di casta, quello feudale,
assolutista e dispotico. Qualcosa di simile è avvenuto in
tempi recenti per la nozione di 'società industriale' che
è stata impiegata come concetto onnicomprensivo per sistemi
così diversi come il capitalismo del welfare, la democrazia
sociale, il fascismo, il socialismo di Stato e la dittatura
militare. Nel caso della società preindustriale, non accadeva
tanto che le diverse forme di stratificazione venissero considerate
sufficientemente simili da autorizzare la loro inclusione in una
singola categoria concettuale; piuttosto, era la stessa impostazione
concettuale a impedire di riconoscere le variazioni storiche e
culturali come validi oggetti di indagine.
Né Marx né Weber caddero in questo errore. Il loro
grande interesse per la storia comparata non era accompagnato
dall'esigenza comune di cogliere la complessità e la
varietà del mondo sociale attraverso il ricorso alla semplice
dicotomia industriale/preindustriale. Paradossalmente, forse, fu il
loro rispetto, peraltro poco sociologico, nei riguardi delle
testimonianze storiche a metterli in guardia contro i limiti di tale
schematizzazione semplicistica. Comunque sia, la loro
sensibilità nei confronti della varietà delle
formazioni sociali precedenti alla nascita del capitalismo permise
alle loro analisi delle classi e della stratificazione di avere
un'influenza assai maggiore e più duratura di quelle di ogni
altro autore classico. In effetti, questa influenza è forse
più forte ora che in ogni epoca passata della storia della
disciplina.
Ciò dipende in parte dal fatto che solo tardivamente gli
studiosi americani di scienze sociali hanno riconosciuto
l'importanza dell'opera di Marx e hanno preso in esame la tradizione
marxista con la stessa serietà con cui essa è sempre
stata considerata in Europa. Fino a poco tempo fa, gli studiosi
americani o hanno ignorato completamente Marx o l'hanno considerato
come un autore di scarsa importanza. Questo giudizio negativo si
è protratto a lungo nel dopoguerra, favorito senza dubbio
dall'atteggiamento di aperto anticomunismo diffuso nella
società americana dell'epoca. Soltanto con l'attenuarsi del
clima della guerra fredda e con la nascita del movimento studentesco
radicale verso la fine degli anni sessanta il marxismo ha raggiunto
una certa rispettabilità intellettuale agli occhi dei
sociologi americani. A partire da allora, negli Stati Uniti, la
teoria della stratificazione è risultata più
congruente con quella europea di quanto fosse mai accaduto in
precedenza.
Un'ulteriore ragione che ha favorito l'avvicinamento tra
l'orientamento americano e quello europeo è da ricondurre al
declino di alcune correnti statunitensi dell'analisi delle classi
che non trovavano riscontro nella sociologia europea. Il carattere
particolare dell'orientamento americano viene chiaramente alla luce
nel dibattito sviluppatosi nell'immediato dopoguerra intorno alla
questione della 'reale' esistenza delle classi. Il problema sul
quale si incentrava la discussione era se le classi dovessero essere
intese come effettive entità sociali al pari della famiglia o
della Chiesa, o se invece dovessero essere considerate alla stregua
di mere invenzioni dell'immaginazione statistica. Coloro che
sostenevano quest'ultimo punto di vista erano colpiti dal fatto che
la distribuzione delle remunerazioni nella società americana
si disponeva lungo un continuum praticamente ininterrotto dall'alto
verso il basso, così che qualunque decisione di introdurre
delle linee di separazione tra una classe e l'altra appariva come
una procedura arbitraria e inutile. Arbitraria perché, in
mancanza di fratture oggettive nella gerarchia delle remunerazioni,
diveniva possibile tracciare un'artificiale linea di separazione
pressoché ovunque; inutile perché le classi
individuate in questo modo non avrebbero trovato corrispondenza in
alcun effettivo raggruppamento sociale contraddistinto da un
sentimento di identità comune. Come ha osservato Oliver
Cromwell Cox, uno dei primi a sostenere questo punto di vista, "lo
studioso che si addentra in questo campo alla ricerca di una classe
sociale cerca qualcosa che non esiste; la troverà soltanto
nella sua mente come una finzione intellettuale" (v. Cox, 1970, p.
306).
La difesa teorica dell'America come società senza classi ha
trovato ulteriore sostegno nell'impiego del cosiddetto modello
'multidimensionale' della stratificazione. Secondo questo modello i
criteri in base ai quali gli individui possono essere collocati in
una gerarchia sociale sarebbero troppo numerosi e diversi per dar
luogo a una coerente struttura di classe: si sosteneva che classi o
strati chiaramente delineati si riscontravano soltanto in quelle
società nelle quali i criteri di ordinamento sono
rigorosamente definiti - come nel caso dei sistemi feudali, dove il
diritto di portare armi o la proprietà terriera erano tra i
pochi principî che determinavano lo status e il privilegio
sociale. Nelle moderne società industriali, di contro, lo
status sociale complessivo dell'individuo era determinato da una
complessa gamma di criteri diversi, quali ad esempio il livello di
istruzione, l'occupazione, il reddito, l'etnia di appartenenza,
l'affiliazione religiosa, ecc. Il fatto che questi criteri fossero
relativamente indipendenti l'uno dall'altro implicava che gli
individui che avevano raggiunto una posizione elevata in un certo
ambito potevano occuparne una inferiore in un altro, di modo che nel
complesso non veniva a configurarsi una precisa struttura di
disuguaglianza. In luogo di un modello di società
stratificata emergeva l'immagine di un ordine sociale non
strutturato, altamente frammentato, composto di aggregati di
individui senza nulla in comune, se non il fatto di occupare una
posizione consimile nella gerarchia sociale.
Le origini concettuali di questo modello multidimensionale venivano
ricondotte di solito all'opera di Weber, e più precisamente a
quelle versioni riduttive delle idee weberiane che vengono
presentate come una confutazione di quelle di Marx. Il modello
multidimensionale veniva difatti presentato come un correttivo,
più spesso come un'alternativa, alla presunta concezione
materialistica della classe attribuita a Marx. La strategia
adoperata consisteva nell'enfatizzare il ruolo dei fattori di status
che operano in modo indipendente dalla classe e ne attenuano gli
effetti politici e sociali. Poiché si poteva agevolmente
dimostrare che il livello di reddito di un individuo non
corrispondeva necessariamente alla sua posizione di status, ne
conseguiva chiaramente che la definizione materialistica della
classe, e per estensione la teoria marxista in generale, era di
scarsa utilità per comprendere la realtà americana. Da
parte di innumerevoli autori si ribadì l'esistenza di ampie
difformità tra classe e status (di solito intesi
semplicisticamente come livelli di reddito e di prestigio), e di
conseguenza il fatto che il concetto di struttura di classe era
erroneo dal punto di vista teorico e sospetto da quello ideologico.
Come ha scritto Bernard Barber, "un principio fondamentale è
che la stratificazione ha un carattere multidimensionale". Coloro
che mettono in discussione questo assunto lo fanno perché,
"per motivi ideologici, pretendono di ricondurre la 'classe' a una
nozione univoca, semplice e onnicomprensiva" (v. Barber, 1968, p.
292).Il ricorso all'autorità di Weber era giustificato dal
fatto che il suo modello della stratificazione cercava di separare
una serie di variabili distinte che erano invece fuse insieme nel
concetto di classe di Marx. L'aggiunta di alcune variabili ulteriori
si poteva pertanto legittimare come una procedura in perfetta
sintonia con il ragionamento di Weber. Che si trattasse o no del
prestigio accademico conferito dal rapporto con l'opera weberiana, i
sociologi americani accolsero con grande favore questo modo di
vedere la stratificazione e lo fecero virtualmente proprio.Secondo
Milton Gordon "l'accettazione dell'approccio multidimensionale, la
sua elaborazione e il suo ulteriore approfondimento, hanno proceduto
lentamente ma con velocità gradualmente crescente" nel
periodo del dopoguerra. "In effetti, l'intero periodo in questione
[1925-1955] può essere visto come un momento in cui i teorici
delle classi sociali si impegnarono gradualmente ma con crescente
precisione nel tentativo di operare distinzioni analitiche tra i
numerosi fattori o le variabili che possono essere comprese nella
categoria di stratificazione sociale". Gordon sostiene inoltre che
"lo stesso approccio multidimensionale può essere visto come
parte di un procedimento analitico che è fondamentale in
qualunque attività di ricerca e conoscenza scientifica:
quello della specificazione delle variabili inerenti a un
determinato campo d'indagine" (v. Gordon, 1963, pp. 15-16).
Il richiamo al presunto carattere 'scientifico' dell'approccio
multidimensionale poneva in secondo piano il fatto che la sua
affinità con l'approccio weberiano era alquanto remota. Il
Weber a cui si fa riferimento in questi contributi americani
è a malapena riconoscibile come l'autore di Economia e
società. È un Weber cui si attribuisce il ruolo di
alfiere del movimento contro il materialismo, o il determinismo
economico, o la teoria monocausale delle classi, o altre nozioni
consimili con le quali all'epoca si identificava il marxismo.
È un Weber, questo, interamente 'demarxificato' e pertanto
utilizzato come campione ideologico della società senza
classi del capitalismo americano. Invano si cercherà in
questi studi una traccia dei tipici interessi weberiani per la
burocrazia di Stato, per la proprietà, il conflitto di classe
o il mutamento rivoluzionario. Né vi è in essi la
benché minima consapevolezza dell'inequivocabile tesi
weberiana secondo la quale le 'dimensioni' della stratificazione non
debbono essere intese come un insieme di attributi individuali, ma
piuttosto come "fenomeni della distribuzione del potere all'interno
di una comunità" (v. Weber, 1922). Invece la realtà
raffigurata in molti di questi studi empirici è quella di una
società in cui la proprietà è svanita, le
classi sono scomparse, lo Stato dissolto.Questo travisamento
dell'opera weberiana non trova riscontro nelle teorie europee della
stratificazione, forse perché gli studiosi europei non hanno
mai avuto dubbi sull'esistenza formale di un sistema di classi.
Quando si è fatto ricorso a qualcosa di simile a un modello
multidimensionale, come nell'analisi delle società dell'Est
europeo condotta da Wlodmierz Wesolowski, si è rimasti assai
più fedeli allo spirito dell'opera weberiana. Wesolowski
ritiene che la transizione dal capitalismo al socialismo di Stato
abbia portato alla 'de-composizione' del sistema di stratificazione.
Nella Polonia prebellica, ad esempio, vi era un elevato grado di
congruenza tra il livello materiale e quello di status delle classi.
Quanti percepivano redditi elevati godevano quasi sempre di uno
status elevato, mentre i gruppi a reddito inferiore si collocavano
nelle più basse posizioni di status. Con il passaggio al
socialismo, tuttavia, si verifica una decomposizione, per cui la
situazione materiale non corrisponde più allo status.
Numerosi gruppi di operai specializzati, ad esempio, ottengono
salari equivalenti e perfino superiori a quelli dei colletti
bianchi, sebbene questi ultimi godano di un maggior prestigio
sociale. Wesolowski sottolinea come la de-composizione del sistema
di stratificazione possa dar luogo a forti attriti sociali. Gruppi
professionalmente qualificati manifestano il loro risentimento per
il fatto di avere un livello di remunerazione non superiore, e
talvolta inferiore, a quello di numerose categorie di lavoratori
manuali. Allo stesso modo, questi ultimi esprimono scontento per la
discrepanza esistente tra i loro elevati guadagni e lo scarso
prestigio sociale di cui godono (v. Wesolowski, 1979).Tensioni
analoghe si verificarono in Cecoslovacchia negli anni sessanta. La
'primavera di Praga' rappresentò, tra l'altro, un attacco al
sistema egualitario da parte dei colletti bianchi, come pure un
tentativo di introdurre riforme economiche conformi al modello
dell'economia di mercato; riforme che avrebbero garantito loro
maggiori benefici materiali, assai più adeguati al loro
status sociale (v. Parkin, 1971). Il modello multidimensionale
può, dunque, rappresentare un utile strumento per evidenziare
il rapporto esistente tra gli aspetti materiali e quelli di status
delle classi e per l'esame delle sue possibili implicazioni
politiche.
Come abbiamo già osservato, gli studiosi europei hanno quasi
unanimemente ammesso l'esistenza di una struttura di classe. E
tuttavia vi è profondo disaccordo circa la natura di questa
struttura e l'apparato concettuale che meglio permette di
analizzarla. Stanislaw Ossowski ha notato che i modelli della
stratificazione impiegati sia dai sociologi che dai profani possono
essere raggruppati in tre grandi categorie: dicotomici, graduali e
funzionali.
I modelli dicotomici fanno riferimento a un rapporto tra due classi
principali, che assume di solito un carattere conflittuale. In
questo modello non v'è spazio per una terza classe, se non
durante le fasi di transizione. In alcune versioni di questo modello
il conflitto tra le due classi è visto come irriducibile e
come fonte di profonda instabilità politica. In altre
versioni il conflitto è visto come una caratteristica
permanente del sistema, ma a tal punto entrato a far parte della
consuetudine da non rappresentare una reale minaccia politica.
Il modello di tipo graduale presenta la stratificazione come un
ordinamento composto di almeno tre, ma talvolta più, classi o
strati. Sebbene il conflitto possa nascere a vari livelli del
sistema, esso non è tale da creare un clima politico di
ostilità permanente. In questo modello gli interessi di
status sono più rilevanti di quelli di classe.Il modello
funzionalista rappresenta la società come un insieme armonico
di parti ineguali, ciascuna delle quali concorre con il proprio
contributo al benessere generale. Padroni e servi hanno entrambi un
ruolo importante, ciascuno di essi con i propri doveri e
responsabilità. E poiché tanto gli strati elevati che
quelli inferiori svolgono i compiti loro assegnati al meglio delle
loro possibilità, il risultato globale è il consenso
generale e la reciprocità degli interessi (v. Ossowski,
1957).
Ossowski ritiene che il più diffuso di questi tre modelli,
tanto nella percezione comune della disuguaglianza che nelle sue
rappresentazioni sociologiche, sia quello dicotomico. Questa
dicotomia può essere espressa in una pluralità di
forme: come un conflitto tra governanti e governati, tra ricchi e
poveri, tra padroni e operai, tra abbienti e non abbienti, e
così via. Sebbene il modello dicotomico si sia dimostrato
particolarmente attraente per i sociologi, esso è stato
nondimeno utilizzato in modi assai diversi. Inoltre - cosa ancor
più importante - non esiste un consenso generalizzato sui
criteri che debbono essere impiegati per definire la linea di
demarcazione tra le due classi principali. Per i seguaci di Marx la
contraddizione tra capitale e lavoro costituisce la causa ultima
della divisione in classi all'interno della società borghese;
per altri la principale divisione passa per una diversa coppia di
opposti: tra lavoro manuale e lavoro non manuale, tra
autorità e subordinazione, oppure tra élites e masse.
Ciascuno dei modelli rappresentati da questi termini raffigura il
sistema di classe in modo dicotomico e conflittuale, che non
è dissimile dallo schema di Marx; e tuttavia ciascuno di essi
cerca in modi diversi di offrire un'alternativa alla distinzione tra
capitale e lavoro. Esaminiamoli uno per uno.
2. Il modello marxista delle classi
Per Marx il 'difetto strutturale' della società capitalistica
sta nelle contraddittorie esigenze del capitale e del lavoro. Coloro
che possiedono i mezzi di produzione e coloro che vendono la loro
forza lavoro sono portatori di interessi inconciliabili che
provocheranno da ultimo il crollo del sistema. Marx considera il
capitalismo come un sistema sociale caratterizzato da un
fondamentale difetto di struttura, che non è riducibile agli
atteggiamenti e ai comportamenti degli attori sociali. I capitalisti
cercano di sfruttare i lavoratori non perché sono malvagi o
avidi, ma perché il sistema di cui fanno parte impone loro di
agire in questo modo. I capitalisti che agissero diversamente
andrebbero rapidamente in rovina. Allo stesso modo, i lavoratori
cercano di intraprendere un'azione collettiva a difesa dei loro
interessi, perché la logica della loro situazione li obbliga
a seguire questa strada. Sono dunque gli imperativi intrinseci al
capitalismo in quanto sistema produttivo che danno origine a classi
antagonistiche. I valori e le motivazioni personali hanno poco a che
fare con ciò. Anche se si sostituisse un dato insieme di
capitalisti e di operai con uno completamente diverso, questi si
comporterebbero esattamente nello stesso modo.Marx, tuttavia, non
sempre considera le classi sociali come semplici agenti la cui
condotta è determinata da forze che sfuggono al loro
controllo. Spesso egli passa a un diverso livello di analisi, nel
quale si dà pieno rilievo ai fattori psicologici e sociali
nella formazione delle classi. Ciò è particolarmente
evidente nella sua disamina delle condizioni nelle quali una classe
'in sé' diviene una classe 'per sé'. Vale a dire,
delle condizioni nelle quali il proletariato prende coscienza del
suo destino collettivo come classe sociale ed è preso da un
fervore rivoluzionario.
Marx riteneva, a ragione, che la massiccia concentrazione operaia
all'interno delle fabbriche capitalistiche costituisse un elemento
importante per lo sviluppo della coscienza di classe. I contadini,
di contro, non potevano pervenire a un'identità di classe e a
una coscienza politica, nonostante il comune sfruttamento a cui
erano sottoposti, in quanto erano dispersi e isolati l'uno
dall'altro. Essi erano, dice Marx con un'espressione famosa, come
"un sacco di patate": singole unità che non avrebbero mai
potuto fondersi in un'unica entità. Marx dunque riconosceva
pienamente che lo sfruttamento di per sé non era sufficiente
a creare una classe nel pieno senso di una collettività
sociale caratterizzata da una prospettiva comune e da uno scopo
politico condiviso. Tuttavia occorre riconoscere che egli non
dubitò mai seriamente che il capitalismo avrebbe
spontaneamente dato vita ai presupposti sociali e psicologici
indispensabili alla trasformazione del proletariato urbano in
un'attiva forza rivoluzionaria. Era in questo senso che egli
definiva i capitalisti come becchini di se stessi.
La teoria marxiana della coscienza e dell'azione rappresenta un
tentativo molto convincente di spiegare la struttura del conflitto
di classe nell'Europa del XIX secolo. Essa consente di spiegare
adeguatamente questo conflitto endemico e spesso violento come
risultato dell'intrinseco antagonismo tra la classe capitalistica e
il proletariato. Ma sebbene la teoria costituisca uno strumento
efficace per comprendere il processo di radicalizzazione del
proletariato di fabbrica, il suo assunto fondamentale, secondo il
quale il conflitto tra le due grandi classi della storia condurrebbe
inevitabilmente a una resa dei conti e infine al trionfo della
classe operaia, si rivela erroneo. La teoria di Marx costituisce, in
effetti, una brillante previsione del sorgere di quella che Lenin in
termini denigratori chiamava la "coscienza sindacale"; ossia di
quell'organizzazione collettiva dei lavoratori intesa a ottenere una
quota maggiore dei frutti del capitalismo, piuttosto che a produrre
la distruzione del sistema. La teoria non permette di spiegare
perché lo sviluppo della coscienza di classe debba, per
così dire, 'congelarsi' a livello di una milizia di tipo
sindacale e non piuttosto sfociare in un esito rivoluzionario.
Non sorprende che questo apparente fallimento del proletariato
nell'assumere il ruolo storico che Marx gli aveva assegnato abbia
dato luogo a un'ampia riflessione teorica da parte dei suoi seguaci.
Lenin fu tra i primi ad apportare delle modifiche alla teoria,
sostenendo che il proletariato non sarebbe mai stato in grado di
realizzare, senza aiuti esterni, la trasformazione cruciale della
coscienza sindacale in una piena coscienza di classe. Il tipo di
aiuto che egli aveva in mente era quello fornito da un partito
d'avanguardia composto di rivoluzionari di professione - organismo,
questo, completamente assente dallo schema marxiano. Abbandonato a
se stesso, il proletariato non avrebbe mai potuto acquisire una
reale coscienza politica del proprio destino, poiché era
troppo profondamente influenzato da idee borghesi. Solo il partito
d'avanguardia era in grado di sottrarsi all'ideologia borghese e di
generare un'ideologia rivoluzionaria di cui in seguito avrebbe
potuto appropriarsi la classe operaia. Per Lenin, una classe 'in
sé' non poteva trasformarsi spontaneamente in una classe 'per
sé'. Egli, naturalmente, non si spingeva fino all'eresia di
sostenere che Marx aveva torto a pensarla diversamente; ma
evidentemente è questo il significato implicito della sua
teoria e, ciò che più importa, della sua pratica
politica.
Contributi più recenti alla teoria marxista delle classi si
sono soffermati sul tema della coscienza e dell'ideologia nel
tentativo di spiegare il persistente fallimento del proletariato
occidentale nel sovvertire il sistema capitalistico. Gli scritti di
Louis Althusser e dei suoi allievi hanno esercitato una notevole
influenza a questo riguardo. La spiegazione avanzata da Althusser
riguardo al carattere non rivoluzionario della classe operaia
è costituita in effetti dall'interpretazione di alcune idee
sostenute molto prima da Lukács e da Gramsci. Sia l'uno che
l'altro, ciascuno a suo modo, ritenevano che lo strumento principale
attraverso il quale lo Stato capitalistico esercitava il controllo
sul proletariato era passato dalla coercizione alla manipolazione
ideologica. La borghesia controllava le menti dei lavoratori tramite
il sottile ricorso all'indottrinamento e alla propaganda, in modo
tale che difficilmente essa aveva necessità di ricorrere a
più oppressivi strumenti di controllo. Inoltre Gramsci
sosteneva che, oltre a esercitare una 'egemonia' ideologica, lo
Stato borghese forniva al tempo stesso al proletariato diritti e
vantaggi apprezzabili, quali libertà civili e garanzie
giuridiche che attenuavano gli effetti più duri del
capitalismo e conferivano al sistema una certa dose di
legittimità anche agli occhi degli sfruttati. Questi fattori
contribuivano a celare i mali del modo di produzione capitalistico e
impedivano ai lavoratori di prendere coscienza dell'alternativa
socialista.Il lavoro di Althusser si sviluppa lungo queste linee.
Secondo il filosofo francese il capitalismo moderno resta
politicamente stabile perché, malgrado le sue contraddizioni
e le sue crisi, la lotta di classe si è spostata dal piano
materiale a quello normativo. Il capitalismo cerca di preservare se
stesso creando un complesso di istituzioni intese a mistificare il
proletariato. Si tratta dei cosiddetti 'apparati ideologici di
Stato', ovvero di istituzioni sociali come le scuole e le
università, i mass media, la famiglia, la Chiesa, i partiti
borghesi o socialdemocratici e i sindacati. Ciascuno di questi
apparati contribuisce a suo modo all'egemonia ideologica della
borghesia prevenendo la formazione di una coscienza di classe tra
gli operai (v. Althusser, 1969).
I seguaci di Althusser hanno anche tentato di emendare la teoria
marxista delle classi attraverso una profonda revisione del concetto
di 'proletariato'. Più precisamente, essi hanno proposto di
ridefinire la linea di confine tra la borghesia e il proletariato in
modo da distinguere più chiaramente l'essenza politica di
quest'ultimo. Questa ridefinizione si impone, essi sostengono,
perché la vecchia distinzione tra lavoro e capitale non
è sufficiente come modello delle divisioni di classe
all'interno del capitalismo monopolistico. Una delle ragioni
principali di questo fatto è l'eccezionale espansione in
epoca recente dei colletti bianchi e dei gruppi professionali. Tale
sviluppo ha reso altamente problematica la nozione di 'classe
operaia'. La grande maggioranza dei colletti bianchi vende la
propria forza lavoro e in questo senso appartiene al proletariato.
Eppure è evidente che la massa degli impiegati non si
identifica col proletariato né agisce politicamente
all'unisono con la classe operaia tradizionale. Stando così
le cose, si rende indispensabile una definizione più
raffinata della classe operaia odierna. In altri termini, i marxisti
hanno bisogno di trovare una soluzione a ciò che Nicos
Poulantzas ha definito il "problema del confine" (v. Poulantzas,
1974).
La soluzione che Poulantzas propone è quella di ripristinare
la negletta distinzione marxiana tra lavoro produttivo e lavoro
improduttivo quale criterio dell'appartenenza di classe. Per lavoro
produttivo si intende un'attività che produce plusvalore;
lavoro improduttivo, invece, è l'attività che non
dà luogo a plusvalore. Così, un tassista occupato
presso un'impresa privata svolge un lavoro produttivo perché
genera plusvalore per i suoi datori di lavoro e viene sfruttato nel
processo produttivo. Un tassista che lavora in proprio, invece,
svolge un lavoro improduttivo dal momento che non produce alcun
surplus e non è sfruttato. La sua prestazione non è
diversa tecnicamente da quella fornita da un domestico; entrambe
comportano un onere contro un reddito e come tali non recano alcun
contributo all'accumulazione del capitale. Su un piano alquanto
più elevato la categoria del lavoro improduttivo comprende
non solo coloro che erogano servizi contro reddito, ma anche coloro
che sono occupati nel settore statale e i cui redditi sono pagati
con le imposte. Il prelievo fiscale è estratto dai salari dei
lavoratori produttivi o dal plusvalore sotto forma di tasse sui
profitti, così che in effetti il lavoro degli impiegati dello
Stato, come quello dei domestici, costituisce una prestazione di
servizi contro reddito.
Occorre chiarire subito che molti marxisti occidentali
respingerebbero questo tentativo di ripristinare la distinzione tra
lavoro produttivo e improduttivo come elemento determinante delle
divisioni di classe. Dopotutto, vi è scarsa evidenza empirica
che questa distinzione puramente formale abbia un qualche valore
esplicativo; in nessuna società capitalistica si è
prodotto un conflitto di interessi tra membri della classe
lavoratrice differenziata in questo modo, ed è assai
probabile che gli stessi lavoratori sarebbero sorpresi
nell'apprendere l'esistenza di un tale antagonismo. Inoltre, la
definizione della classe lavoratrice sulla base dei rigidi criteri
proposti da Poulantzas ha come conseguenza quella di ridurre questa
classe a una quota affatto minoritaria della popolazione. Come lo
studioso marxista americano Erik Wright ha mestamente osservato,
l'applicazione rigorosa di questi criteri al proletariato americano
lo ridurrebbe a una entità insignificante. "È
difficile immaginare - egli scrive - che un vitale movimento
socialista possa svilupparsi in un paese a capitalismo avanzato nel
quale meno di una persona su cinque è un operaio" (v. Wright,
1976, p. 23). C'è qualcosa di ironico nel fatto che una
teoria, avanzata tra l'altro per confutare il punto di vista
borghese secondo il quale la classe operaia è storicamente
condannata, debba essa stessa concludersi con delle affermazioni che
portano a un risultato del tutto analogo.
3. Autorità e subordinazione
L'elemento centrale nel modello marxista classico delle classi
è il possesso della proprietà sotto forma di capitale;
è attraverso la proprietà che di fatto la borghesia
domina e controlla il proletariato. Un critico influente di questa
concezione è il sociologo tedesco Ralf Dahrendorf, il quale
ha proposto un modello alternativo in cui è l'autorità
piuttosto che la proprietà il fattore determinante delle
divisioni di classe. Secondo Dahrendorf l'errore fondamentale di
Marx è stato quello di confondere la parte con il tutto,
ossia di non vedere che la proprietà capitalistica non
è che una specifica forma di autorità;
l'autorità stessa costituisce la forma generale del dominio
di classe e la principale origine del conflitto di classe. In altre
parole, la distinzione sociale fondamentale non è tra coloro
che posseggono i mezzi di produzione e coloro che vendono la loro
forza lavoro, bensì tra quanti comandano e quanti
obbediscono. Il possesso dell'autorità conferisce comuni
interessi di classe a coloro che detengono il potere, allo stesso
modo in cui la mancanza di autorità conferisce comuni
interessi di classe a coloro che occupano posizioni subordinate (v.
Dahrendorf, 1957).
Il modello di Dahrendorf si ispira all'analisi weberiana della
burocrazia che mette in evidenza il potere inerente all'esercizio di
una carica indipendentemente dal possesso della proprietà.
Poiché i burocrati possono sviluppare autonomamente degli
interessi di classe, e poiché la burocrazia costituisce un
aspetto inevitabile di ogni società complessa, la divisione
in classi è destinata a sorgere comunque, quale che sia la
natura del sistema politico. La proprietà privata potrebbe
essere abolita con un semplice tratto di penna da parte del
legislatore, ma l'autorità non potrebbe mai essere eliminata
per decreto. Qualunque ipotesi di una società senza classi
pertanto non è che un pio desiderio.Una delle conseguenze che
derivano dal considerare l'autorità come fattore determinante
della divisione di classe è quella di dissolvere la nozione
stessa di classe sociale in quanto fenomeno la cui ampiezza coincide
con quella della società. Una classe subordinata, secondo
Dahrendorf, esiste all'interno di qualunque organizzazione
burocratica, sia essa una impresa industriale, un sindacato, una
prigione, un ospedale, una università, o altro. In ciascun
caso esiste una linea di demarcazione o un confine tra coloro che
comandano e coloro che obbediscono. Ciò implica l'esistenza
di una pluralità di classi subordinate, istituzionalmente
isolate l'una dall'altra, piuttosto che di una singola classe dotata
di una identità e di una coscienza comuni. L'immagine che ne
deriva è più simile al ritratto che Marx dà
della classe contadina come "un sacco di patate" che non a quella di
una collettività sociale. Nello schema di Marx coloro che
sono privi di proprietà costituiscono una classe nel pieno
senso sociale del termine perché l'apparato politico e
giuridico dello Stato li opprime, in qualunque ambito della
società essi si trovino. Nello schema di Dahrendorf, invece,
i subordinati costituiscono una classe solo in un senso parziale e
limitato, perché i suoi membri sono in grado di affrancarsi
dal loro stato di subordinazione nel momento stesso in cui
abbandonano il luogo fisico nel quale vigono le regole
dell'autorità e dell'obbedienza. Un operaio, per esempio,
cessa di essere un membro della classe subordinata non appena esce
dai cancelli della fabbrica; da quel momento egli è libero di
assumere altri ruoli, compresi quelli investiti di autorità.
La subordinazione costituisce pertanto una condizione temporanea, il
che non vale evidentemente per il proletariato di Marx. Secondo Marx
il proletariato non ha alcuna possibilità di sfuggire alla
propria condizione di sfruttamento poiché la proprietà
capitalistica e i rapporti di mercato invadono ogni angolo della
società, non soltanto la fabbrica. La classe è
perciò universalmente diffusa come forma di vita collettiva,
mentre per Dahrendorf essa si manifesta come una serie di
sottogruppi frammentati, troppo diversi tra loro per dar luogo a una
comune situazione di classe.
Dahrendorf non è il solo dei grandi teorici a ridimensionare
il ruolo della proprietà privata nel sistema di
stratificazione del moderno capitalismo. L'influente sociologo
americano Talcott Parsons assume una posizione anche più
estrema. Non vi è alcuna possibilità di equivoco
riguardo alla sua affermazione che "nel recente dibattito sulla
classe, condotto al di fuori dei canoni marxiani, il riferimento
specifico alla proprietà dei mezzi di produzione è
virtualmente scomparso" (v. Parsons, 1970, p. 22). L'evidente favore
con cui Parsons considera questo stato di cose deriva dalla sua
convinzione che il declino del concetto sia dovuto alla dissoluzione
stessa della proprietà in quanto fattore significativo del
mantenimento della diseguaglianza di classe. Egli ritiene che
ciò sia avvenuto in parte a seguito della separazione tra
proprietà e controllo all'interno della grande impresa
moderna, in parte perché "il reddito familiare deriva sempre
più dall'attività di lavoro piuttosto che dalla
proprietà, fenomeno che, in termini di status, investe non
solo gli strati inferiori dei lavoratori salariati ma anche i
vertici della scala occupazionale". Dato che "non è
più possibile parlare di una classe 'capitalistica'
proprietaria sostituitasi alla primitiva classe 'feudale' di
possidenti", Parsons ritiene che si debba "separare il concetto di
classe sociale dal suo rapporto storico sia con la parentela che con
la proprietà in quanto tale" (p. 23).
La principale ragione invocata per giustificare l'esclusione della
proprietà dall'analisi delle classi è che nella
società capitalistica moderna quasi tutti sono in una certa
misura proprietari. Il termine 'proprietà', secondo Parsons,
come per molti altri sociologi, non è che un sinonimo di
'possesso'. Vale a dire un'entità trasferibile da un attore
all'altro, un'entità che può passare di mano
attraverso un processo di scambio. Ora, se la proprietà
è semplicemente un determinato tipo di possesso, ne segue che
ognuno nella società è in qualche misura proprietario.
In questa prospettiva, non può esservi una netta divisione
tra proprietari e non proprietari, ma solo differenze di grado tra
chi possiede molto e chi possiede poco. Il possesso di un pozzo
petrolifero o di una flotta navale conferisce ai loro proprietari
diritti e obblighi in tutto simili a quelli che derivano dal
possesso di uno spazzolino da denti o di un paio di scarpe. Le leggi
sulla proprietà non possono pertanto essere interpretate come
leggi di classe, dal momento che giuridicamente tutte le forme di
possesso sono uguali.Il desiderio manifesto di eliminare la
proprietà dalla moderna teoria delle classi sembra una
conseguenza pressoché naturale della concezione
funzionalistica della società. Teorici del funzionalismo come
Parsons ritengono che il capitalismo moderno sia caratterizzato dal
declino dei criteri di tipo ascrittivo e dalla nascita di criteri
meritocratici per mezzo dei quali gli individui vengono premiati in
virtù dei loro sforzi e dei risultati acquisiti. In questo
schema la persistenza dei diritti di proprietà rappresenta
una seria anomalia, in quanto l'ereditarietà del patrimonio
familiare non implica quelle qualità e quegli sforzi che sono
ritenuti i soli mezzi legittimi per conquistare una posizione. Da
una prospettiva di tipo funzionalistico la proprietà continua
a sopravvivere come una sorta di 'ritardo culturale', un bizzarro
residuo di un'età ormai tramontata.
4. La teoria funzionalistica della stratificazione
La concezione di Parsons presenta una notevole affinità con
la cosiddetta teoria funzionalistica della stratificazione,
elaborata da Kingsley Davis e Wilbur Moore. Secondo questa teoria la
stratificazione sociale è una necessità universale.
Tutti i sistemi sociali hanno determinate esigenze funzionali, che
debbono essere soddisfatte perché essi risultino efficienti e
produttivi. Tutte le posizioni cruciali debbono essere occupate
dagli individui più capaci e dotati, cosicché è
indispensabile introdurre determinati meccanismi sociali al fine di
garantire che le persone più brillanti siano attratte dai
ruoli più importanti. La stratificazione sociale è
esattamente il meccanismo che realizza questo scopo. Una
diseguaglianza strutturale si produce a causa della necessità
di offrire i compensi più elevati a coloro che occupano le
posizioni più importanti in termini funzionali. Incentivi
materiali e sociali diventano essenziali per poter fornire una
motivazione sufficiente a individui di talento, nonché per
dare ad essi una ricompensa per la lunga preparazione a cui devono
assoggettarsi e per le pesanti responsabilità che si chiede
loro di assumere. Senza questi incentivi differenziali non
necessariamente le persone migliori si farebbero avanti per occupare
le posizioni più importanti. In un sistema in cui ci fosse
una perfetta eguaglianza, le posizioni di vertice potrebbero
agevolmente essere ricoperte dalle persone meno capaci, a detrimento
dell'intera società.
La questione che si pone è come decidere quali siano le
posizioni di maggior importanza funzionale e, dunque, meritevoli dei
compensi più elevati. Davis e Moore suggeriscono, a tale
proposito, due criteri: a) l'unicità funzionale; b)
l'indispensabilità, ovvero la misura in cui altre posizioni
all'interno della divisione del lavoro dipendono dalla posizione
considerata. Così, un pilota d'aereo è unico dal punto
di vista funzionale, nel senso che egli soltanto possiede la
capacità di pilotare l'aeroplano. Lo steward di bordo non
potrebbe svolgere questo compito, ma il pilota potrebbe agevolmente
compiere le mansioni dello steward. Un esempio di
indispensabilità è quello del comandante militare. Un
numero assai maggiore di persone dipende dalle decisioni di un
generale dell'esercito di quante non dipendano dalle decisioni di un
caporale; allo stesso modo, più persone dipendono dalle
decisioni di un caporale che non da quelle di un soldato semplice.
Questi tre gradi militari si pongono dunque in ordine decrescente di
importanza funzionale, e i corrispondenti livelli di compenso
saranno regolati in conformità. Davis e Moore sostengono che
le differenze nei livelli di importanza funzionale conducono
inevitabilmente alla stratificazione sociale e che, inoltre, la
stratificazione costituisce un sistema razionale per utilizzare le
capacità umane nel modo più efficace.
La teoria funzionalistica è stata oggetto di numerose e
pesanti critiche. Melvin Tumin ha sostenuto che l'importanza
funzionale relativa delle diverse posizioni non può essere
stabilita tanto facilmente quanto ritengono Davis e Moore. Per
esempio, è a dir poco dubbio se il pilota d'aereo possa
operare efficacemente senza il supporto del personale di terra e dei
tecnici che, secondo Davis e Moore, sono meno importanti dal punto
di vista funzionale. Allo stesso modo potremmo chiederci se il
generale dell'esercito possa agire efficacemente senza i propri
caporali e soldati semplici. Nella società moderna le diverse
posizioni all'interno della divisione del lavoro sono strettamente
interdipendenti, cosicché ciascuna di esse può essere
del tutto efficace soltanto con la cooperazione delle altre.
Chiedersi quale posizione sia funzionalmente più importante
di altre equivale a chiedersi quale delle gambe di un tavolo sia
più importante per tenerlo in piedi.
Inoltre, la teoria funzionalistica trascura l'influenza del mercato
sul livello di remunerazione delle occupazioni, a prescindere dalla
loro importanza sociale o funzionale. Attori del cinema, cantanti
pop, divi del calcio e celebrità televisive ricevono compensi
spettacolari ma sarebbe un'ingenuità presumere che il loro
contributo alla società sia più importante di quello
fornito da lavoratori modestamente remunerati come minatori, vigili
del fuoco, insegnanti e infermieri. Il mercato si rivela piuttosto
indifferente all'importanza funzionale delle occupazioni.
Mentre Davis e Moore giudicano la stratificazione sociale come un
aspetto positivo della società, dal momento che contribuisce
a massimizzare le risorse umane, alcuni critici ritengono che essa
sia in effetti disfunzionale. Le divisioni di classe, in
particolare, danno luogo a forme di differenziazione sociale e
culturale che spesso impediscono l'impiego ottimale delle
capacità. Bambini dotati degli strati sociali inferiori
spesso non possono realizzare le proprie potenzialità a causa
dei limiti della sottocultura della classe a cui appartengono. Oltre
a ciò, coloro che occupano le posizioni di vertice tentano
solitamente di erigere delle barriere sociali in modo da prevenire
possibili invasioni dal basso. Da questo punto di vista, la
stratificazione sociale conduce allo spreco di capacità e
risorse umane e non a un loro uso più efficiente.Wesolowski
ha rilevato inoltre che gli incentivi materiali e di status (e
quindi le disuguaglianze) non sono gli unici stimoli capaci di
attrarre gli individui verso le posizioni chiave. Il potere o
l'autorità che di norma sono connessi a queste posizioni
vengono generalmente considerati di per se stessi come un compenso.
In altri termini, l'esercizio del potere comporta una soddisfazione
personale sufficiente per motivare gli uomini ad aspirare alle
posizioni più elevate, e questa motivazione persisterebbe
anche in assenza di incentivi materiali.
La teoria di Davis e Moore, infine, non è in grado di dar
conto dell'importanza della proprietà privata nella
società moderna. Se la ricchezza materiale è vista
esclusivamente come una ricompensa necessaria allo svolgimento dei
compiti più essenziali, allora qual è la funzione
sociale della ricchezza ereditata? I figli e le figlie dei
più ricchi possono godere delle ricompense più
generose senza svolgere alcun compito socialmente utile. Essi non
hanno bisogno di dimostrare alcun particolare talento, se non quello
di scegliersi oculatamente i genitori. In questa prospettiva sembra
che la teoria funzionalistica della stratificazione rappresenti una
comoda ideologia per la classe proprietaria.
5. Lavoro manuale e lavoro non manuale
Data l'immagine che i funzionalisti hanno della società come
un insieme caratterizzato da armonia sociale e integrazione morale,
è più che comprensibile che la proprietà sia
esclusa dalle loro analisi della stratificazione. Questa omissione,
tuttavia, è meno giustificabile nel caso di quelle teorie che
non adottano una visione consensualistica della stratificazione
sociale. La più diffusa di queste teorie nella sociologia
occidentale contemporanea è quella che pone il confine tra le
classi nella distinzione tra occupazioni manuali e non manuali.
Nessun'altra definizione delle classi ha dimostrato di essere
altrettanto adattabile agli studi e alle indagini di sociologia
empirica; l'analisi di aspetti della vita sociale quali il
comportamento elettorale, la struttura della famiglia, i modelli di
consumo, i risultati scolastici, l'affiliazione religiosa, e simili,
utilizza in effetti correntemente la distinzione tra lavoro manuale
e lavoro non manuale per evidenziare le differenze di classe.
L'origine di questa teoria deve essere cercata in quei problemi in
cui si sono imbattuti i sociologi all'inizio del secolo, allorquando
si sono trovati di fronte alla nascita dei nuovi gruppi dei colletti
bianchi. Questi gruppi si estendevano a spese delle tradizionali
categorie operaie, il che suscitò numerose discussioni e un
grande interesse da parte degli intellettuali socialisti,
naturalmente preoccupati di stabilire la coscienza di classe e
l'orientamento politico dei nuovi strati intermedi. Il dibattito su
questo tema ebbe inizio tra le file del Partito Socialdemocratico
Tedesco e si associava all'aspra controversia sul 'revisionismo'.
Successivamente esso fu ripreso da due studiosi tedeschi, Hans
Speier ed Emil Lederer, impegnati nell'analisi sociologica dei ceti
impiegatizi (Angestellten). In entrambi i casi l'intento era il
medesimo: quello di stabilire in che misura, nel quadro del processo
di trasformazione dalla condizione di 'colletti blu' a quella di
'colletti bianchi', la classe lavoratrice muti anche le proprie
pratiche politiche e sociali. Il perdurante interesse per questo
tema, che negli anni venti e trenta si inseriva nel dibattito
più generale sulla Verbürgerlichung, è
documentato dal fatto che esso riemerse negli anni sessanta nelle
vesti del dibattito sull'embourgeoisement. Mentre nel primo caso il
problema era quello della possibile inclusione dei colletti bianchi
nella classe operaia, nel secondo veniva analizzato il tema
dell'assorbimento dei colletti blu nella classe media. In entrambi i
casi si assumeva che la natura stessa delle occupazioni, le loro
caratteristiche lavorative, le loro remunerazioni sia materiali che
non pecuniarie, ecc., costituissero elementi cruciali nella
strutturazione degli atteggiamenti e dei comportamenti di classe. La
semplice mancanza della proprietà non era sufficiente a
determinare la classe sociale; le differenze all'interno della
divisione del lavoro, in particolar modo quelle tra occupazioni
manuali e non manuali, erano molto più decisive.
Weber aveva notato in precedenza come l'onnicomprensivo concetto
marxiano di 'lavoro salariato' fosse troppo ampio e generico per
cogliere le complesse articolazioni del concetto di classe. Egli
riteneva che le diverse categorie nell'ambito della divisione del
lavoro avessero situazioni di mercato affatto diverse, a seconda del
variare dei livelli di specializzazione, di qualificazione e di
potere contrattuale in generale. Il modello delle classi basato
sulla distinzione tra lavoro manuale e lavoro non manuale
rappresenta in effetti una formalizzazione dell'analisi weberiana,
benché si debba osservare che Weber non impiegò questa
distinzione in modo sistematico. È probabile che egli si
rendesse conto che questo modello comportava un uso improprio delle
sue idee, dal momento che esso contrasta con alcuni dei suoi
concetti fondamentali relativi alla stratificazione.
Può sembrare sorprendente che i sociologi non abbiano mai
sottoposto questo modello delle classi a un severo esame critico,
nonostante i suoi ovvi limiti. Uno di questi limiti è che
esso non è in grado di evidenziare la natura conflittuale dei
rapporti di classe, anche se molti dei sociologi che lo utilizzano
in genere non concepiscono i rapporti di classe in termini non
conflittuali. È certamente vero che nell'ambito
dell'industria la divisione tra lavoro manuale e non manuale
corrisponde approssimativamente alla linea di demarcazione tra le
classi, in particolare in quelle situazioni in cui anche i livelli
più bassi dei colletti bianchi si identificano più con
la dirigenza che con i lavoratori manuali. Tuttavia esiste un'ampia
gamma in continua espansione di impieghi nella burocrazia dello
Stato e nelle amministrazioni locali, nonché all'interno
delle diverse professioni del terziario, che non stanno affatto in
opposizione alla forza lavoro manuale. Generalmente nella tipica
burocrazia statale non esiste alcuna forza lavoro manuale. Se i
lavoratori non manuali nel settore pubblico allargato non si trovano
in opposizione diretta con i lavoratori manuali sul posto di lavoro,
si potrebbe forse sostenere che il conflitto si sposta a livello
nazionale. Ma, di nuovo, non è molto convincente sostenere
che vi sia un'opposizione fondamentale tra, diciamo, minatori,
ferrovieri e portuali, da un lato, e infermieri, insegnanti e
assistenti sociali dall'altro. Senza dubbio esiste scarsa evidenza
empirica del fatto che queste due ampie categorie si siano
organizzate su linee tra loro antagonistiche. Semmai, è vero
il contrario; le associazioni sindacali dei colletti bianchi hanno
mostrato una crescente tendenza a mettere da parte il loro
tradizionale senso di superiorità di status sui sindacati
operai e ad allearsi con questi in modo da avere un maggior potere
contrattuale. Quando sia i lavoratori manuali che quelli non manuali
sono formalmente rappresentati nell'ala industriale del movimento
sindacale, come avviene in molti paesi, sarebbe perlomeno una
incongruenza teorica considerarli schierati su fronti opposti nella
divisione di classe.
La ragione per la quale i raggruppamenti di colletti bianchi di
livello medio e inferiore vengono considerati parte integrante della
classe media è che, entro la sfera dell'industria privata,
essi si sono generalmente schierati con i gruppi superiori
dell'organizzazione, piuttosto che con quelli inferiori. Nel settore
pubblico o statale, d'altra parte, non solo spesso non esiste alcuna
categoria subordinata di lavoratori manuali sulla quale esercitare
il comando, ma l'identificazione con i quadri superiori è
assai meno agevole quando la gerarchia dell'autorità si
estende verso l'alto perdendosi nell'amorfo organismo statale.
Inoltre gli impiegati del settore pubblico non hanno di regola
alcuna opportunità di trasferire le loro capacità
tecniche e i loro servizi a un altro datore di lavoro come accade
per i colletti bianchi impiegati nel settore privato. Tutti i
miglioramenti retributivi e di condizioni di lavoro debbono essere
negoziati con un imprenditore monopolistico, che tra l'altro deve
attenersi a un bilancio strettamente controllato. Tutto ciò
contribuisce a produrre una situazione di conflitto latente o
potenziale tra i lavoratori non manuali e lo Stato in veste di
datore di lavoro: una situazione non dissimile da quella che di
frequente esiste tra dirigenti e lavoratori manuali nell'industria
privata. Quando i servizi pubblici e assistenziali cadono sotto la
scure dei tagli di spesa governativi, le risposte collettive dei
lavoratori non manuali colpiti da questi provvedimenti costituiscono
l'esatta replica di scioperi, dimostrazioni di protesta e altre
espressioni consimili che un tempo si pensava fossero prerogativa
esclusiva dei lavoratori manuali. Il modello delle classi fondato
sulla contrapposizione tra lavoro manuale e non manuale deve ancora
adattarsi a questi cambiamenti.
Un'ulteriore caratteristica di questo modello è che l'analisi
si incentra sulle diseguaglianze di classe che derivano
esclusivamente dalla divisione del lavoro. Non vi è posto in
esso per la proprietà privata e per le sue conseguenze. Nato
come un tentativo di articolare l'onnicomprensivo concetto di
'lavoro salariato', evidenziando le diversità della struttura
occupazionale, il modello fondato sull'opposizione lavoro
manuale/lavoro non manuale è riuscito a eliminare il concetto
gemello di 'capitale' dal vocabolario delle classi. Il potere e i
privilegi che derivano dalla proprietà di ricchezza e
capitale sono analiticamente distinti da quelli che provengono dalla
divisione del lavoro. Una teoria delle classi che prenda in
considerazione solo quest'ultima è indubbiamente squilibrata.
In quanto si ammetta che il possesso della proprietà genera
interessi di classe, il presupposto implicito è che questi
interessi siano grosso modo in linea con quelli della classe dei
lavoratori non manuali, o almeno dei suoi livelli più
elevati. Da un punto di vista empirico è possibile che le
cose vadano spesso in questo modo, ma è alquanto difficile
spiegare teoricamente questa convergenza di interessi nel quadro
logico di un modello fondato esclusivamente sulla divisione del
lavoro. Il fatto che quanti posseggono ricchezze ereditate o un
capitale possano fare causa comune con quanti godono di redditi
elevati, che traggono soltanto dalla vendita delle proprie
prestazioni lavorative, costituisce un aspetto interessante e
problematico del capitalismo, che merita di essere spiegato. Un
problema del genere non può nemmeno essere formulato in un
modello di classe nel quale il concetto di proprietà è
assente. I sostenitori del modello fondato sulla distinzione tra
lavoro manuale e non manuale possono anche proclamarsi eredi
intellettuali di Weber, ma sembrano aver dimenticato che
quest'ultimo aderiva alla posizione di Marx quando sosteneva
tassativamente che " 'proprietà' e 'assenza di
proprietà' sono le categorie fondamentali di tutte le
situazioni di classe" (v. Weber, 1922).
L'accordo tra Weber e Marx su questo punto non deve, tuttavia, far
dimenticare le profonde divergenze tra le loro posizioni. Se Weber
riconosceva l'importanza cruciale dei rapporti di classe e di
proprietà, riteneva però che altri fattori non fossero
meno importanti. Egli concepiva la stratificazione come sintesi di
tre distinti elementi: le classi, i gruppi di status e i partiti,
ciascuno dei quali dava luogo a una specifica forma di
diseguaglianza. Le classi si formano, secondo Weber, a seguito di
due congiunte condizioni sociali: il possesso della proprietà
e la vendita di prestazioni lavorative nel mercato. Quando il
sistema distributivo poggiava su fattori distinti dalla
proprietà privata e dalle forze del mercato, le classi
sociali non potevano costituirsi. Schiavi e servi, ad esempio, non
formavano delle classi sociali perché il loro sfruttamento
derivava dal ricorso alla coercizione fisica e non dal contratto di
lavoro salariale. Essi costituivano piuttosto dei gruppi di status
(Stände).
Quando la classe sociale è definita come un prodotto del
mercato, nasce il problema di stabilire dove termina una classe e
dove comincia l'altra. Ovviamente, vi è un ampio ventaglio di
situazioni di mercato che risultano dalla divisione del lavoro.
Coloro i quali vendono le proprie prestazioni lavorative possono
trovarsi in condizioni di vantaggio o svantaggio in molteplici modi.
Alcuni gruppi potranno esigere retribuzioni adeguate alle loro
specializzazioni esclusive o qualificazioni; altri potranno disporre
di un potere contrattuale in ragione della posizione strategica che
occupano all'interno del processo produttivo. Il mercato è un
luogo in cui tutte le categorie professionali si trovano
indirettamente in competizione fra loro; ognuno cerca di ottenere la
fetta più grande di una torta limitata; una porzione maggiore
per alcuni implica necessariamente una porzione minore per altri. Il
modello o l'immagine evocati da questo meccanismo sono quelli di una
società frammentata in una serie innumerevole di divisioni e
, e non quelli di una società divisa tra una classe dominante
e una classe subordinata.
Weber sostiene che le classi sono composte da vari gruppi le cui
opportunità di mercato e possibilità di vita sono in
gran parte simili. Ma egli non propone nessun criterio definito per
stabilire il confine tra le classi, né per determinare il
numero delle classi rivali. L'immagine risultante è piuttosto
quella dell'hobbesiano omnium bellum contra omnes, dal momento che
ciascun gruppo combatte la propria battaglia nell'anarchia del
mercato. Sebbene Weber faccia frequenti riferimenti alle categorie
marxiane delle classi - l'aristocrazia, i contadini, la borghesia,
il proletariato - egli non propone alcuna definizione formale
relativamente alla loro composizione.I gruppi di status
(Stände), il secondo dei tre aspetti della stratificazione, si
differenziano dalle classi per il fatto di derivare la loro
importanza dal prestigio sociale e non dal possesso materiale. Weber
fu tra i primi a sottolineare che i compensi simbolici o di status
non sempre vanno di pari passo col potere economico. Vi possono
sempre essere delle discrepanze, come nel caso degli aristocratici
decaduti o dei bramini che vivono in povertà; allo stesso
modo, le famiglie arricchite da poco sono spesso oggetto di
disprezzo da parte di quelle di più antico lignaggio. Ma
anche quando ricchezza e prestigio sociale si equivalgono, il
rapporto causale tra loro non ha necessariamente la medesima
direzione. Talvolta il prestigio sociale deriva dal possesso della
ricchezza, talaltra costituisce piuttosto un trampolino per
accedervi. Disparità tra posizioni di classe e posizioni di
status hanno più probabilità di sorgere nella
società capitalistica, in quanto i rapporti di mercato
risultano regolati da considerazioni affatto impersonali. Il
mercato, come afferma Weber, "nulla sa dell'onore". L'ordine basato
sullo status, d'altro canto, ha un senso esattamente opposto. La
stratificazione in base allo status è determinata da fattori
quali il prestigio e gli stili di vita e non dalla mera acquisizione
economica e dal nudo potere economico (v. Weber, 1922).
Weber tende a vedere i gruppi di status come corpi alquanto
combattivi. Sebbene essi siano fondati su basi diverse da quelle
delle classi sociali, sono ugualmente capaci di mobilitarsi per il
perseguimento di fini materiali. Dove i gruppi di status formano
anche delle comunità morali, caratterizzate da un forte senso
della propria identità, essi possono avere una percezione
più chiara dei loro interessi comuni rispetto ai membri di
una classe sociale. Ciò può contribuire a fare di
questi gruppi una formidabile forza nella lotta per la ripartizione
delle risorse; una forza che molto spesso serve a contrastare o ad
annientare l'azione delle classi sociali. È difficile che una
classe sociale divisa al suo interno in base alle differenze di
status possa agire come un'entità collettiva unitaria.Il
terzo elemento della stratificazione è il partito. Weber
adopera questo termine per indicare pressoché qualunque tipo
di organizzazione politica capace di condizionare in modo
indipendente la distribuzione delle risorse. In linea di principio
il sistema di stratificazione può essere organizzato in
diversi modi a seconda degli ideali politici del partito che detiene
il potere. Gli Stati dominati dai partiti di sinistra tentano, in
genere, di imporre un sistema di distribuzione diverso da quello che
vige negli Stati dominati dai partiti di destra. In altri termini,
il sistema di stratificazione può entro certi limiti essere
manipolato dall'intervento politico. Classi e gruppi di status
possono all'occorrenza influenzare un partito collaborando alla
formulazione dei programmi politici, ma possono a loro volta esserne
influenzati quando il partito in questione assume il potere statale.
Il partito rappresenta, pertanto, l'aspetto della stratificazione
che più strettamente si identifica con l'autorità di
cui è investito lo Stato.
La tesi fondamentale di Weber è che la stratificazione
sociale non è riducibile semplicemente a fattori economici e
materiali, per quanto questi siano importanti. Le divisioni di
classe sono sempre attenuate dai gruppi di status e dalle
istituzioni politiche, che operano spesso in senso contrario a
queste divisioni. L'effetto esercitato dai gruppi di status e dai
partiti consiste nel temperare il clima politico di un mero
conflitto di classe, o deviandolo entro canali che nulla hanno a che
vedere con la classe o trasformandolo in un processo regolamentato e
di routine. È soprattutto per questa ragione che Weber
giudicava con manifesto scetticismo la fiduciosa previsione di Marx,
secondo la quale le due grandi classi del capitalismo sarebbero
andate sempre più divaricandosi, fino a costituire 'due campi
armati' che avrebbero condotto alla guerra civile e al sovvertimento
rivoluzionario del sistema. Malgrado il permanere delle
diseguaglianze di classe, il capitalismo ha dimostrato di possedere
una ben maggiore elasticità, e ciò, in larga misura,
per le ragioni delineate da Weber.
6. Le classi nella società socialista
Da quanto precede si può concludere che le teorie della
stratificazione sociale sono sorte come un tentativo di spiegare il
sistema di diseguaglianze prodotto dalla società
capitalistica. La nascita delle società socialiste ha creato
non poche difficoltà a queste teorie e ha ispirato nuove
prospettive intese a cogliere le realtà specifiche del
socialismo di Stato. La teoria marxista delle classi, in
particolare, ha incontrato gravi difficoltà nel tentativo di
spiegare il sistema di potere e diseguaglianza sorto all'interno di
società che si fondavano dichiaratamente sui principî
marxisti. Quasi tutti i teorici marxisti erano disposti ad ammettere
che l'Unione Sovietica, la Cina, i paesi dell'Est europeo, Cuba, il
Vietnam, la Corea del Nord, e altri, erano società
stratificate; ma non tutti ammettevano necessariamente che la
stratificazione assumesse in quei paesi caratteristiche di classe.
La teoria marxista classica sosteneva che le classi sono destinate a
sparire con l'abolizione della proprietà privata, veleno
mortale annidato nel cuore del capitalismo. Le società
socialiste, avendo consegnato la proprietà dei mezzi di
produzione nelle mani della collettività, diventavano
perciò stesso, per definizione, società senza classi.
Determinati tipi di diseguaglianza erano ugualmente presenti sotto
il nuovo regime, ma la divisione in classi non esisteva
perché mancava lo sfruttamento.
La premessa di fondo di questa tesi era che le diseguaglianze
prodotte dalla proprietà privata dessero luogo a
insoddisfazioni e malcontenti ben più gravi di quelli che
sorgono quando è presente la proprietà collettiva. I
conflitti tra capitale e lavoro nella società borghese non
possono essere risolti nel quadro del sistema. Nelle società
socialiste, invece, le diseguaglianze tra diversi gruppi sociali,
quali operai, contadini e intelligencija, non erano ritenute tali da
dar luogo a classi e conflitti di classe, bensì a ciò
che Stalin definiva "strati non antagonistici". Stalin manifestava
in effetti disprezzo nei confronti dell'idea che il socialismo fosse
un sistema egualitario. Egli sosteneva che l'eguaglianza non era che
una nozione piccolo-borghese, e negli anni trenta intraprese una
violenta campagna ideologica contro l'uravnilovka o 'livellamento'.
Se in Unione Sovietica, sotto Lenin, la struttura dei redditi aveva
mostrato un considerevole grado di egualitarismo, all'epoca di
Stalin essa divenne assai più differenziata. I dirigenti di
fabbrica venivano remunerati molto meglio dei loro lavoratori
manuali, sia in termini salariali che di premi di
produttività. Anche all'intelligencija fu riservato un
trattamento privilegiato, secondo una tendenza che si è
mantenuta anche successivamente. Colletti bianchi e tecnocrati hanno
goduto di compensi di gran lunga superiori a quelli dei colletti blu
e dei contadini. A prescindere dai vantaggi garantiti da redditi
più elevati e da alloggi migliori, l'intelligencija godeva in
misura sproporzionata di molti altri benefici derivanti
dall'appartenenza al Partito Comunista. Di nome partito della classe
operaia, il Partito Comunista in URSS e nei paesi dell'Est europeo
era dominato dall'intelligencija; operai e contadini rappresentavano
una minoranza in rapido declino (v. Parkin, 1971).
L'appartenenza al Partito Comunista nella società socialista
comportava vantaggi che non trovavano corrispondenza nella
società capitalistica. La tessera del partito poteva
consentire a un singolo di tirare le fila di una comunità
locale, di ottenere un alloggio migliore, di acquistare gli scarsi
beni di importazione, di compiere viaggi all'estero, e soprattutto
di accrescere le proprie prospettive di carriera. Senza la tessera
del partito, nessuno poteva aspirare a ottenere i posti meglio
remunerati e di maggiore responsabilità; poiché
competenze e qualificazioni dovevano associarsi
all'affidabilità politica, le posizioni chiave erano
assegnate solo ai membri della cosiddetta nomenklatura. I privilegi
dei colletti bianchi si estendevano finanche alla possibilità
di trasmettere i vantaggi sociali ai loro discendenti.
L'ereditarietà della proprietà, così come
esiste in Occidente, era virtualmente assente nella società
socialista, ma i privilegiati potevano garantire il futuro dei loro
figli mediante un accorto uso del sistema educativo. Numerosi studi
empirici hanno dimostrato che i figli di famiglie di professionisti
e tecnocrati raggiungevano livelli di rendimento superiori a quelli
dei figli di famiglie operaie e contadine, sia nella scuola che
all'università. È provato che il modello di selezione
di classe nell'accesso ai livelli di istruzione più elevati
non era molto diverso da quello esistente nell'Occidente
capitalistico. Forse l'intelligencija dei paesi socialisti non
disponeva di capitale materiale da trasmettere ai propri
discendenti, ma era sufficientemente dotata di ciò che
Bourdieu ha chiamato 'capitale culturale' per assicurare la propria
riproduzione sociale attraverso la discendenza.
All'altro estremo della scala sociale, gli studi sulla
mobilità condotti in Unione Sovietica e nei paesi dell'Europa
dell'Est hanno mostrato che coloro che provenivano da famiglie
operaie avevano maggiori probabilità di divenire essi stessi
operai. In Ungheria, ad esempio, oltre il 70% dei maschi figli e
nipoti di contadini o operai erano diventati a loro volta contadini
o operai. I sociologi sovietici hanno rilevato dati analoghi circa
la 'riproduzione di classe' in URSS. L'elevato livello di
assenteismo e la scarsa produttività che caratterizzavano i
lavoratori di molte società socialiste stavano a indicare che
il senso di 'alienazione' non era affatto inconsueto in questi
paesi, nonostante l'assenza della proprietà privata. In
effetti, per alcuni aspetti i lavoratori erano più alienati
nella società socialista che non in Occidente; la nascita di
movimenti di opposizione su scala nazionale in Polonia e in
Ungheria, per non considerare che gli esempi più evidenti,
era la prova di una disaffezione di massa che si pensava fosse una
prerogativa esclusiva del proletariato in regime capitalistico.
L'ampiezza della diseguaglianza nella società socialista, e
in particolare gli svantaggi di cui soffrivano gli operai in
rapporto all'intelligencija e alla burocrazia del partito, indusse
alcuni teorici marxisti a equiparare questo sistema a un sistema di
stratificazione in classi non molto diverso dal capitalismo.
L'intellettuale iugoslavo Milovan Djilas, marxista e leader
rivoluzionario, fu uno dei primi a riconoscere la natura classista
dell'Unione Sovietica e, per estensione, degli altri Stati
socialisti basati su quel modello (v. Djilas, 1957). Egli riteneva
che il concetto di proprietà non dovesse essere inteso solo
alla stregua di un mero titolo giuridico. Coloro che detenevano il
controllo dei mezzi di produzione e dell'allocazione delle risorse
dovevano essere considerati de facto come 'possessori' di
proprietà. In ultima analisi, sosteneva Djilas, ciò
che più conta non è chi ha il possesso della
proprietà giuridica di fabbriche e uffici, bensì chi
possiede il diritto di assumere e licenziare i lavoratori,
nonché chi ha il diritto di decidere la distribuzione del
prodotto. Nella società socialista, secondo Djilas, era sorta
una "nuova classe" formata da coloro che controllavano l'accesso
alle risorse dello Stato e che pertanto sfruttavano il resto della
comunità. Da questo punto di vista, la "nuova classe" delle
società socialiste aveva un ruolo analogo a quello della
borghesia in un sistema capitalistico. Non diversa fu la posizione
assunta dallo studioso marxista francese Charles Bettelheim, il
quale riteneva che le società di tipo sovietico non potessero
essere considerate realmente socialiste dal momento che non erano
state capaci di realizzare la transizione dal modo di produzione
capitalistico a quello socialista. Questa tesi era pienamente
compatibile con la concezione marxista ortodossa delle classi
poiché non si basava solo sulla diseguaglianza sociale. Essa
si incentrava sull'organizzazione della produzione anziché
sulla distribuzione, e dunque chiamava in causa il processo politico
attraverso il quale aveva luogo lo sfruttamento. Non si trattava
solo del fatto che in un sistema socialista la classe dominante si
appropriava di una quota sproporzionata di beni e di risorse, ma
piuttosto del fatto che essa e soltanto essa decideva come il
surplus dovesse essere ripartito. In una società
effettivamente senza classi sarebbero stati gli stessi produttori a
determinare l'organizzazione della produzione e la distribuzione del
surplus. Nella società socialista, invece, il proletariato
non era meno sfruttato che nel capitalismo.
I teorici marxisti delle classi hanno incontrato qualche
difficoltà anche nel definire la posizione della burocrazia
di Stato nel socialismo. Trockij, forse il critico dello stalinismo
che ha avuto maggior risonanza, sosteneva che, malgrado tutti i suoi
difetti, l'Unione Sovietica restava pur sempre uno Stato proletario
privo di classi fintantoché il capitale privato non fosse
stato reintrodotto. Le deformazioni erano provocate unicamente dal
partito e dalla burocrazia statale, che monopolizzavano il potere e
soffocavano ogni iniziativa proveniente dal basso. Su un punto,
tuttavia, Trockij restava fermo: sul fatto che la burocrazia non
dovesse essere vista come una classe dominante, perché, a
differenza della borghesia, essa non possiede i mezzi di produzione.
Per Trockij, a quel che sembra, per quanti abusi politici potessero
verificarsi, per quanto violenta potesse essere la repressione dei
lavoratori o ampio il divario tra i loro redditi e quelli dei
leaders del partito, la società restava nondimeno uno Stato
dei lavoratori fintanto che esisteva il possesso collettivo dei
mezzi di produzione (v. Trockij, 1937).
Il problema della burocrazia nella società socialista
continuò da allora a tormentare il marxismo. La teoria non
poteva ammettere che la burocrazia potesse diventare una classe
dominante senza scardinare i suoi dogmi fondamentali. Se si
riconosceva apertamente che gli interessi di classe possono
cristallizzarsi attorno a un gruppo burocratico in modo affatto
indipendente dalla proprietà delle risorse produttive,
l'analisi marxista sarebbe stata pressoché indistinguibile da
quella weberiana. Weber non avrebbe avuto alcuna difficoltà a
descrivere la burocrazia dello Stato socialista come una classe
dominante, dal momento che era ben consapevole delle
potenzialità oppressive di tutte le forme di autorità
burocratica. Egli aveva anzi predetto che il socialismo sarebbe
divenuto un sistema più oppressivo del capitalismo proprio
perché la burocrazia socialista avrebbe usurpato
l'autorità di cui si supponeva dovesse essere investita la
classe operaia. Il dilemma, per i marxisti occidentali, era che se
si ammetteva la stratificazione in classi della società
socialista allora l'elaborata teoria intesa a dimostrare il
carattere specificamente oppressivo del capitalismo risultava
sconvolta. Se, invece, si accettava la versione ufficiale del
marxismo sovietico, secondo la quale la società socialista
contemporanea era priva di classi, ciò non costituiva di
certo una buona propaganda per il socialismo, tenuto conto di quanto
si sapeva sull'arretratezza economica e sulla rigidità
politica di questo sistema. Perché allora la classe operaia
occidentale avrebbe dovuto intraprendere il difficile e rischioso
compito di sovvertire il capitalismo solo per realizzare un sistema
nient'affatto migliore, anzi, probabilmente, peggiore dello stesso
capitalismo?
7. Masse ed élites
L'immagine del socialismo come società senza classi non fu
delineata soltanto dagli apologeti di questo sistema, ma anche dai
suoi più accaniti detrattori. Per questi ultimi l'assenza
delle classi non era tanto un sogno quanto un incubo. Intellettuali
come Raymond Aron e Hannah Arendt descrissero le società di
tipo sovietico come una sorta di totalitarismo, una forma di
stratificazione nella quale un'élite politica fortemente
coesa si contrapponeva a una massa disorganizzata. L'onnipotenza e
l'onnipresenza dell'apparato di partito erano talmente schiaccianti
da annullare tutti i gruppi sociali indipendenti che si situavano
tra la famiglia e lo Stato. A causa del diffuso timore per la
polizia segreta e per altri organi dello Stato, era difficile che
potessero sorgere nella popolazione sentimenti e atteggiamenti
tipici della classe. Le differenze di origine sociale, di reddito,
di istruzione, ecc., diventavano insignificanti di fronte a
più immediate preoccupazioni. Tutti erano uguali sotto il
terrore rosso. Oltretutto, si sosteneva, la stratificazione di
classe nella società socialista non era impedita dai soli
effetti atomizzanti della coercizione; il partito tentava anche
attivamente di prevenire la formazione di classi, dal momento che le
classi sociali, al pari di altri gruppi spontanei, avrebbero
minacciato il suo monopolio del potere. Come scrisse Robert
Feldmesser, "il partito doveva far sì, nel lungo periodo, che
ogni persona si sentisse individualmente e continuamente messa alla
prova, che status e compensi rimanessero contingenti ed effimeri. La
minaccia più grave per il partito era che potesse
svilupparsi, entro un gruppo o una classe, un sentimento di
identificazione o di solidarietà". In particolare, il partito
avrebbe tentato di prevenire la nascita di una 'classe manageriale',
dal momento che questa avrebbe potuto divenire una potente forza
autonoma affrancata dalle direttive dell'apparato di partito (v.
Feldmesser, 1961, p. 581).
Tutto ciò avrebbe dato origine a una società non
stratificata in classi secondo il modello convenzionale; la
divisione fondamentale era invece quella tra l'élite del
partito e una massa amorfa e indifferenziata. Si trattava di un tipo
di stratificazione in cui all'individuo erano negati quei supporti
psicologici e sociali propri di un gruppo indipendente. Le persone
erano alla deriva sociale, senza radici e demoralizzate, il che le
rendeva tanto più adatte a essere manipolate
dall'élite politica.
Da questo punto di vista la stratificazione di classe appariva un
sistema sociale positivo e umano. Le classi si affermano soltanto
dove lo Stato e la società civile sono ben distinti,
consentendo così alle leggi naturali del mercato di creare
divisioni economiche e sociali altrettanto naturali. Là dove
lo Stato assorbe la società civile, esso impone un sistema
artificioso di allocazione delle risorse determinato più da
criteri ideologici che dalla mano invisibile e impersonale del
mercato. Vale a dire che l'ordine della stratificazione è una
creazione politica intenzionale, che riflette gli atteggiamenti e
gli orientamenti politici di volta in volta diversi
dell'élite del partito. Classi sociali vere e proprie possono
nascere soltanto, per così dire, dal basso; non possono
essere imposte dall'alto come parte di un qualche grandioso progetto
ideologico. Vere classi possono sorgere soltanto in una situazione
di libertà. L'assenza delle classi è un chiaro indice
di assenza di libertà.
8. Condizione etnica e stratificazione di classe
Fino a non molto tempo fa, qualunque discussione sul tema della
stratificazione sociale poteva agevolmente prescindere dal problema
etnico senza per questo risultare incompleta, anche se sarebbe stato
opportuno prendere in considerazione taluni aspetti delle divisioni
razziali. Non sarebbe stato possibile, invece, fare lo stesso
discorso per quanto concerne diseguaglianze e divisioni fondate su
differenze non appartenenti alla sfera delle caratteristiche
fisiche. Per gli studiosi europei di scienze sociali, in
particolare, l'omogeneità etnica e razziale ha costituito il
presupposto dell'analisi dei rapporti di classe. Gli autori classici
della teoria sociale condividevano in larga parte l'idea che le
identità ascrittive, come la razza, la lingua, la religione e
la cultura, fossero destinate a scomparire per l'influenza
omologante della moderna società industriale. Sussisteva la
diffusa convinzione che il graduale assorbimento nella
società civile di gruppi precedentemente esclusi avrebbe
indebolito le rigide fedeltà 'tribali' tradizionali, tipiche
dei sistemi agrari.La riluttanza a prendere in seria considerazione
le differenze etniche e culturali potrebbe trovare, almeno in parte,
giustificazioni di ordine teorico. Una delle caratteristiche tipiche
della differenziazione e del conflitto etnico è costituita
dall'assoluta varietà di forme che essi assumono nelle
diverse realtà sociali. In alcune società si tratta
del conflitto razziale tra bianchi e neri; in altre si ha una
contrapposizione tra cattolici e protestanti, o tra musulmani e
cristiani; in altre ancora tra gruppi linguistici distinti e
così via.
Queste divisioni emergono in situazioni specifiche di determinate
società, ed esistono, se esistono, ben pochi antecedenti
storici comuni in grado di spiegarle tutte. Ciò è
dovuto forse al fatto che la condizione etnica, a differenza della
condizione di classe, non può essere considerata come una
caratteristica intrinseca e generale della società
capitalistica. In effetti si tratta di un aspetto affatto
contingente, nel senso che è perfettamente possibile
costruire un modello tipico di capitalismo che escluda del tutto i
fattori etnici. Poiché la condizione etnica non è
stata considerata un elemento distintivo del sistema sociale - ossia
una sua caratteristica universale e necessaria - l'esigenza di
incorporare i fatti relativi alla razza, alla religione, alla lingua
e alla cultura nella teoria della classe non è stata mai
realmente presa in considerazione. Come ha osservato David Lockwood,
la strategia comunemente seguita è stata quella di trattare
l'esistenza delle divisioni etniche come un fattore che 'complica'
l'analisi delle classi. In altri termini, la condizione etnica
è stata vista come un fatto sociale in grado di disturbare o
di modificare il modello tipico delle classi, ma non le è
stato attribuito lo stesso rilievo teorico accordato alla classe,
né è stata considerata come un fenomeno sui generis
(v. Lockwood, 1970).
Così, uno dei retaggi più negativi degli autori
classici è stato quello di non aver preparato la moderna
teoria della stratificazione ad affrontare l'attuale rinascita dei
conflitti e delle identità etniche. Pressoché tutte le
società industriali avanzate hanno avuto occasione di
sperimentare qualche forma di revival etnico e di conflitto tra
comunità; quelle che non hanno conosciuto questi fenomeni
assumono sempre più la caratteristica di casi devianti. Il
conflitto etnico rappresenta oggi un aspetto normale della
società moderna, non meno del conflitto di classe.
Gli studi sulla stratificazione etnica hanno dovuto affrontare due
problemi tra loro collegati. In primo luogo quello di rendere conto
della contemporanea presenza, all'interno di società del
tutto diverse, di conflitti affatto indipendenti, specie in quelle
società in cui tali antagonismi erano rimasti per lungo tempo
latenti. In secondo luogo quello di spiegare la connessione, se
connessione vi è, tra il conflitto etnico e il modello
più familiare del conflitto di classe. Un articolato
approccio a questo problema è stato proposto da Nathan Glazer
e Daniel Moynihan. Essi considerano la condizione etnica non come un
fattore che richiede di essere spiegato all'interno di un più
ampio contesto di classe, ma piuttosto come un elemento che ha
soppiantato la classe come principale forma di diseguaglianza e
conflitto. Glazer e Moynihan sostengono che, in passato, "il rilievo
attribuito ai rapporti di proprietà ha oscurato i rapporti
etnici"; ora sarebbe invece "la proprietà ad assumere un
ruolo subordinato, mentre l'elemento etnico pare essere diventato
una delle cause fondamentali della stratificazione" (v. Glazer e
Moynihan, 1975, pp. 16-17). Una delle ragioni principali portate a
sostegno di questa tesi è che la natura dell'azione
collettiva intrapresa dai gruppi etnici ha subito un profondo
cambiamento in questi ultimi anni. Originariamente questi gruppi
erano impegnati in azioni di retroguardia per la conservazione
culturale tramite la gestione di proprie scuole, la pubblicazione di
propri giornali, l'istituzione di club a essi riservati, ecc. Ora,
invece, essi hanno adottato uno stile più combattivo
incentrato su attività dirette espressamente a modificare la
ripartizione delle remunerazioni a favore dei loro membri. Non si
tratta semplicemente del fatto che questi gruppi etnici hanno
assunto funzioni e strategie politiche in tutto simili a quelle
delle classi sociali organizzate; essi sono in un certo senso
divenuti più efficaci delle classi nella mobilitazione delle
loro forze per il perseguimento di fini collettivi. Secondo Daniel
Bell, uno dei principali sostenitori di questa tesi, la nuova classe
operaia del moderno capitalismo ha perso molta della sua
capacità di agire come entità collettiva. Si è
allontanata dalla storia, dall'ideologia e dai simboli del vecchio
movimento operaio, lasciando a esso soltanto gli scopi più
limitati della rivendicazione economica. Nel vuoto morale che si
è prodotto si sono affacciati i gruppi etnici, i quali, a
differenza del proletariato, possono fornire ai loro membri un senso
di identità, uno scopo; e dunque rispondono a quel bisogno di
dignità collettiva che ispira l'azione politica tra i
diseredati (v. Bell, 1975). Il presupposto plausibile di questo
ragionamento è che, in periodi di intenso conflitto di
classe, non resta molto altro 'spazio sociale' per l'emergere di
tipi diversi di conflitto. Di contro, quando il conflitto di classe
è in fase calante, l'occasione è propizia
perché altre forze sociali si facciano avanti, e tra queste i
gruppi etnici. Questo implica, ovviamente, che il conflitto etnico
potrebbe nuovamente regredire se l'antagonismo di classe dovesse
farsi più acuto.
Questo approccio al problema verrebbe decisamente rifiutato da
teorici della stratificazione che si muovessero nel solco della
tradizione marxista. Essi non ammetterebbero che le divisioni di
classe siano state soppiantate dalle divisioni etniche, né
che i gruppi etnici possiedano maggiori capacità di azione
collettiva del proletariato. I marxisti tendono ancora a vedere il
conflitto etnico come un esempio di astuzia borghese tesa a seminare
confusione e scompiglio nella classe operaia. Le divisioni etniche,
linguistiche e confessionali all'interno del proletariato vengono
considerate come espressioni di 'falsa coscienza', come una
condizione temporanea che indebolisce l'impegno nella lotta di
classe, ma che è destinata a essere superata con l'acuirsi
della crisi del capitalismo (v. Parkin, 1979).
La tesi secondo la quale il conflitto etnico costituisce un aspetto
specifico della società capitalistica è stata messa in
seria difficoltà dall'esplosione di conflitti tra
comunità diverse negli Stati socialisti. I gravi conflitti
verificatisi tra gruppi etnici rivali in URSS, Iugoslavia e Bulgaria
stanno a indicare che la società borghese non detiene affatto
il monopolio dei conflitti tra comunità. È
significativo, inoltre, che negli Stati socialisti i movimenti di
opposizione di tipo etnico abbiano mostrato una capacità di
mobilitazione maggiore dei gruppi d'opposizione basati sulle classi.
Ciò sembrerebbe confermare la tesi di Glazer e Moynihan e di
Bell circa la superiore potenzialità politica dei movimenti
etnici rispetto al movimento operaio. Pressoché tutti i
movimenti etnici presenti negli Stati socialisti hanno avuto una
marcata impronta nazionalistica. Le loro rivendicazioni non erano
volte a ottenere unicamente una quota maggiore delle risorse
sociali, quanto piuttosto una maggiore autonomia politica o
addirittura l'assoluta indipendenza dallo Stato vigente. Una delle
possibili conclusioni che possiamo trarre da questi eventi è
che la politica perseguita dai gruppi etnici si spiega meglio
facendo riferimento al concetto di nazionalismo che non alla teoria
della stratificazione sociale. In ogni caso, là dove è
presente una forte componente territoriale, le interpretazioni della
questione etnica, avanzate di norma in termini di diseguaglianza
sociale e materiale, difficilmente riescono a cogliere il
particolare carattere dell'azione collettiva attraverso la quale un
gruppo sociale tenta di conquistarsi lo status di gruppo separato e
indipendente.
9. Conclusioni
La principale conclusione che può trarsi dalle riflessioni
che precedono è che la stratificazione sociale non può
essere discussa e analizzata in modo completamente avalutativo. Il
problema di decidere se una determinata società sia o non sia
una società di classe e, in caso affermativo, di che tipo di
stratificazione in classi si tratti, non può essere risolto
appellandosi ai 'fatti'. I medesimi fatti sociali si prestano a
interpretazioni diverse, a seconda del modello di stratificazione
adottato. Un modello di tipo funzionalistico disporrà i fatti
sociali relativi alla diseguaglianza in modo diverso da un modello
weberiano o marxista. Anche entro le ampie coordinate della teoria
weberiana e marxiana si riscontrano significative varianti
interpretative. I weberiani non sono affatto concordi tra loro circa
la natura di classe della società capitalistica; in modo
analogo i marxisti hanno espresso disaccordo circa l'esistenza delle
classi nella società socialista contemporanea. Le classi, a
quel che sembra, appaiono o scompaiono con il semplice movimento di
una bacchetta magica concettuale. Ora le vedi, e poco dopo
scompaiono. Ciò non deve necessariamente destare
scoraggiamento. Se non è possibile raggiungere
l'obiettività, lo studioso della stratificazione sociale
è nondimeno sollecitato a usare buon senso e capacità
di giudizio nel valutare i meriti delle teorie rivali. Controversie
e rivalità sono destinate a permanere in un ambito
così delicato dal punto di vista morale e politico come
l'analisi delle classi. Ciò costituisce il segno
dell'importanza del tema e la ragione del suo perenne fascino.