Stato
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Enciclopedia delle Scienze Sociali (1998)
di Gianfranco Poggi, Lucio Levi
Stato moderno
di Gianfranco Poggi
Sommario: 1. 'Stato' e 'Stato moderno'. 2. Stato e dominio politico:
a) dominio politico e violenza; b) non universalità del dominio
politico; c) dominio policentrico; d) dominio monocentrico. 3. Prima
fase: consolidamento territoriale: a) aspetti militari; b) aspetti
istituzionali; c) territorialità e pacificazione; d) il principe e i
potenti. 4. Seconda fase: razionalizzazione del dominio: a) aspetti
specifici della razionalità statuale; b) Stato e diritto; c) altri
saperi secolari; d) espropriazione dei mezzi di dominio; e)
burocratizzazione amministrativa; f) gli apparati amministrativi:
autorità e competenza; g) razionalizzazione del dominio e società
civile; h) Stato e modernizzazione socioeconomica; i) nuovi soggetti
politici. 5. Il legato istituzionale delle due prime fasi: a)
aspetti interni del dominio; b) aspetti esterni. 6. Terza fase:
espansione dello Stato: a) aspetti dell'espansione; b) cause
dell'espansione. 7. La crisi contemporanea dello Stato: a) carenza
di Stato; b) eccesso di Stato; c) altri aspetti della crisi. □
Bibliografia.
1. 'Stato' e 'Stato moderno'
La trattazione che segue presuppone una risposta che si presume
corretta, ma non è incontrovertibile, alla domanda se considerare
come equivalenti le espressioni 'Stato' e 'Stato moderno'. La
risposta qui presupposta è positiva: quando si voglia attribuire al
termine 'Stato' un significato per così dire denso, è preferibile
servirsene solo entro l'ambito storico - peraltro assai vasto e
diversificato - dell'era moderna. La formazione dello Stato e le sue
vicende istituzionali costituiscono un aspetto altrettanto centrale
di quell'era, nella sfera politica, quanto lo sono il capitalismo e
l'industrialismo nella sfera economica.Una ragione tra le altre per
trattare 'Stato' e 'Stato moderno' come sinonimi è che solo a
partire dal XIV secolo il termine 'Stato' e quelli equivalenti in
altre lingue europee vengono a designare qualcosa di
riconoscibilmente simile a ciò che si intende attualmente con esso
(v. Maravall, 1972). Solo molto più tardi si comincia a parlare di
Stato per riferirsi a forme premoderne di dominio politico, come ad
esempio lo 'Stato romano' o lo 'Stato feudale'. Valga, in materia,
la critica di N. Matteucci (v., 1984, pp. 93-94): "Lo Stato si
differenzia dalla Res publica romana, il cui governo era costituito
da una molteplicità di magistrature collegiali con compiti
specifici, limitate nel tempo, gratuite e responsabili, con garanzie
per il cittadino offerte dalla provocatio ad populum. [...] Lo Stato
moderno si differenzia pure dal sistema feudale [...] nel quale
abbiamo, da un lato, un complicato intreccio dei diritti di
sovranità dei diversi signori nei vari paesi, per cui manca l'unità
territoriale dello Stato, e, dall'altro, un potere parcellizzato e
diffuso nella società, o meglio, molti centri di potere ordinati
gerarchicamente [...]; questi rapporti di potere erano personali e
privati, basati su un rapporto sinallagmatico".L'estensione indebita
del concetto di Stato a forme di ordinamento politico diversamente
concepite e realizzate è un effetto paradossale proprio della
singolarità storica dello Stato moderno: le sue strutture appaiono
come paradigmatiche, nel senso che più esplicitamente ed
efficacemente di tutte le altre rappresentano e realizzano
l'esperienza politica organizzata.
Ad esempio Engels, nel titolo di un'opera famosa, fa dello Stato,
come della proprietà e della famiglia, una componente istituzionale
di ogni società storica (v. Engels, 1884).In ogni caso, nella
trattazione che segue - e che si conforma all'opinione attualmente
prevalente tra gli studiosi - l'orizzonte storico di riferimento è,
ripetiamolo, l'era moderna. Questo riferimento tuttavia si può
giustificare solo in vista del quadro concettuale entro il quale si
colloca la trattazione, che si rifà precipuamente all'insegnamento
di Max Weber (v., 1922). Questi, come peraltro altri studiosi,
elabora un'intuizione semplicissima, che si può formulare come
segue: lo Stato non è una cosa, per quanto complessa, un ente a sé
stante, ma è una realtà istituzionale. Vale a dire: si dà Stato se e
in quanto gli individui, nell'esercitare determinate attività -
quelle di natura politica, che li coinvolgano come protagonisti o
esecutori di certe decisioni ovvero come puri oggetti o vittime di
esse -, si fanno effettivamente vincolare e orientare da certi
principî, da certe aspettative. Per due ragioni, dunque, lo Stato
(come ogni altra istituzione) è una realtà contingente: in primo
luogo esso dipende dal fatto che in un determinato contesto il
compito di orientare e controllare determinate pratiche sociali
venga assegnato a certi principî e regole; in secondo luogo, dal
fatto che a loro volta le pratiche, per così dire, si lascino
effettivamente controllare dai principî e dalle regole in
questione.Il presente articolo concerne prevalentemente il primo
livello: ossia, presenta schematicamente alcuni sviluppi storici che
nell'Occidente moderno hanno elaborato e imposto principî e regole
relativi alla sfera sociale normalmente intesa come politica. Questi
principî e regole verranno esposti in modo da metterne in risalto la
peculiarità, lasciando in ombra le varianti in cui essi si
manifestano da luogo a luogo - ad esempio la molteplicità dei regimi
politici.
2. Stato e dominio politico
Come già accennato, lo Stato è una particolare forma di un fenomeno
più vasto, il dominio politico. A sua volta, questo si dà quando un
gruppo sociale, valendosi della propria superiore capacità di
esercitare la violenza organizzata, esercita in maniera
relativamente stabile un controllo potenzialmente coercitivo su
altri gruppi, vietando e impedendo pratiche in contrasto coi propri
interessi ed esigendo e dirigendone altre conformi a tali
interessi.L'asimmetria tra chi esercita il dominio e chi è soggetto
a esso ha il suo momento basilare, concettualmente costitutivo, nel
rapporto comando/obbedienza. Quest'ultima può essere variamente
motivata, ma il rapporto tende a farsi più stabile e riesce ad
avviare e impostare attività più durevoli, impegnative e diverse,
quando tra le motivazioni a obbedire venga a inserirsi anche un
senso di obbligazione, di doverosità morale, il riconoscimento da
parte di chi è soggetto al comando che esso non è arbitrario, la
superiorità di chi lo esercita non è usurpata, gli interessi a cui
il comando è orientato non sono esclusivamente quelli di chi comanda
e in contrasto con quelli di coloro a cui viene chiesto di obbedire.
Ma per significative che siano queste componenti motivazionali
dell'obbedienza, resta costitutivo del comando il fatto che alla fin
fine questo trovi la propria sanzione, la garanzia ultima della
propria efficacia, nell'esercizio o nella minaccia della violenza.
a) Dominio politico e violenza
Il nucleo formale del dominio, il rapporto comando/obbedienza, ha
quindi, per così dire, una doppia anima. Da un lato si tratta di un
fatto comunicativo, di un fenomeno squisitamente intersoggettivo,
che presuppone e attiva, all'un estremo come all'altro, un'identica
capacità di codificare e decodificare messaggi linguistici, per
quanto rozzi e sommari, e si presta a complesse elaborazioni
simboliche e discorsive che lo giustificano, lo qualificano, e in un
certo senso lo limitano. Dall'altro, il rapporto comando/obbedienza
trova una propria specificità nell'asimmetria che permette a una
parte di costringere l'altra a piegarsi al proprio volere, in quanto
è in grado di metterne a repentaglio l'incolumità e la
sopravvivenza. Questo 'nocciolo duro' del dominio politico rimane un
suo aspetto fondante anche quando esso subisce una elaborazione
istituzionale prolungata e complessa come quella che, come vedremo,
lo configura come 'Stato'.
La vulnerabilità all'altrui violenza è un attributo universale degli
esseri umani in quanto esseri corporei e quindi senzienti e mortali,
e l'emozione fondamentale che ne risulta - la paura - è altrettanto
universale (v. Popitz, 1986). Per questo motivo, come si è detto, la
sanzione può consistere non tanto nell'esercizio della violenza
quanto nella minaccia di tale esercizio, o addirittura può
consistere nella consapevolezza, da parte di chi potrebbe esserne
vittima, della probabilità che la violenza sia esercitata, anche se
non è espressamente minacciata. In ogni caso la minaccia o
l'esercizio della violenza su altri è un modo universale di
sanzionare il proprio volere e di imporlo o di farlo rispettare ad
altri; la portata di questa forma di controllo sociale può essere
accresciuta da tecniche materiali (armamenti, strumenti di coazione)
e tecniche sociali della violenza (addestramento all'uso individuale
o collettivo delle tecniche materiali) che possono essere acquisite
e gestite da gruppi.
b) Non universalità del dominio politico
Non sempre e dappertutto questa possibilità ha prodotto, entro una
compagine sociale, una stabile e consistente spaccatura tra coloro
che se ne valgono e coloro che ne sono esclusi e subiscono l'altrui
violenza o al più cercano di sottrarsi a essa. È possibile che la
distribuzione delle risorse coercitive abbia, per così dire, un
profilo piatto, cioè che le tecniche della violenza e le relative
risorse siano relativamente poco sviluppate, e quindi si trovino a
disposizione di molteplici gruppi, che le usano gli uni contro gli
altri raramente o in maniera fortemente ritualizzata e limitata, e
occasionalmente le mettono in comune e le gestiscono collettivamente
in vista di scopi condivisi. Secondo un'opinione autorevole (v.
Clastres, 1974), questo vale per numerose società cosiddette
primitive, che di conseguenza non conoscerebbero il dominio politico
(come non conoscerebbero la divisione di classe, che risulta invece
dall'appropriazione di risorse produttive e dalla loro sottrazione
all'accesso e all'uso da parte di certi gruppi). Peraltro, in altre
situazioni - probabilmente tutte quelle a cui non si potrebbe
applicare la qualifica di 'primitive' - le risorse coercitive
tendono a essere relativamente assai sviluppate, e la loro
distribuzione acquista un profilo netto, che distingue chiaramente
coloro che le accumulano e gestiscono, direttamente o
indirettamente, e attribuisce a essi una posizione di sicuro
vantaggio, anche per quanto riguarda la distribuzione di altre
risorse e dei relativi prodotti dell'attività sociale.
c) Dominio policentrico
Non è detto però che la distribuzione delle risorse coercitive sia
piramidale, nel senso di avere un solo vertice, che rappresenta il
massimo della concentrazione delle risorse coercitive e/o nel senso
che chiunque altro le possegga lo fa in nome e per conto di quel
vertice invece che a proprio titolo. È pensabile che la
distribuzione di quelle risorse abbia cessato di essere fortemente
decentrata e sia diventata policentrica. Vale a dire: entro un
determinato ambito societario vari centri - comunque più di uno -
possono disporre autonomamente di cospicui accumuli di quelle
risorse, e questi centri si fronteggiano e competono per accrescere
la propria disponibilità di esse e per controllare ciascuno a
proprio vantaggio le attività di chi invece ne manca. Una situazione
come questa tende a un massimo di volatilità, di frequenza del
ricorso alla minaccia o all'esercizio della violenza stessa, e
quindi di insicurezza delle situazioni di fatto.
d) Dominio monocentrico
Questa immagine di una situazione dove il dominio esiste ma è
policentrico raffigura - in maniera naturalmente sommaria e
schematica - quella condizione storica di alcune parti dell'Europa
tardomedievale che, malgrado le obiezioni di alcuni studiosi, è
utile definire come feudale e considerare come una sorta di 'grado
zero' dello Stato.La costruzione statale, in una situazione di
questo tipo, si approssima a un modello molto diverso, in cui, entro
l'intera compagine sociale, il dominio viene esercitato da un solo
centro, che monopolizza le risorse materiali e istituzionali
relative alla violenza organizzata, e vieta alle altre componenti
sociali di servirsene per proprio conto e per propria iniziativa,
pur mettendola a disposizione dei loro interessi, se e in quanto
ritenuti meritevoli della propria tutela. Quali che siano le altre
asimmetrie di risorse e di capacità d'azione che differenziano la
società, in linea di principio la sola asimmetria espressamente
politica, fondata sulla violenza organizzata e da essa garantita, è
quella - potenzialmente enorme - che fa capo da un lato a un solo
individuo o gruppo titolare del dominio e dall'altro al resto della
società. Solo una variante del modello, e non il modello stesso,
richiede che il 'resto della società' sia un pulviscolo di individui
atomizzati, una superficie piatta su cui si svolgono solo giochi di
scambio che non danno luogo a consistenti e persistenti
ineguaglianze e alla formazione di raggruppamenti durevoli e
significativi. Lo Stato storicamente dato, così come si forma
nell'Europa occidentale, non si conforma a tale variante. Il
monopolio della violenza legittima organizzata - per servirsi della
famosa formulazione weberiana - è (secondo lo stesso Weber) un
aspetto necessario ma non sufficiente della categoria concettuale
'Stato' o 'Stato moderno', che comprende anche altri aspetti. Per
chiarire questa concezione è utile tentare, invece che un 'discorso
sui modelli', una ricostruzione per quanto schematica dello sviluppo
storico dello Stato nel contesto dell'Europa occidentale. In questa
vicenda si possono distinguere tre grandi fasi, che si susseguono
con tempi diversi in situazioni diverse e talora si accavallano.
Ciascuna fase, inoltre, lascia il proprio legato istituzionale alla
successiva.
3. Prima fase: consolidamento territoriale
In questa prima fase alcuni centri di potere politico ampliano
progressivamente la portata geografica del loro effettivo controllo
su un determinato territorio, affermando la propria superiorità su
altri centri che inizialmente contestavano quel controllo, riducendo
o eliminando la loro capacità di intraprendere iniziative
politico-militari autonome, di garantire l'ordine e tutelare il
diritto, di ricavare risorse economiche dalle popolazioni locali.
a) Aspetti militari
In questo processo la risorsa fondamentale messa in gioco da
ciascuno dei centri di potere in conflitto è di carattere militare,
e i momenti salienti del processo sono spesso rappresentati
dall'esito dello scontro armato tra contendenti. In alcune parti del
continente, e particolarmente in Francia, la riduzione delle
fortificazioni erette dai signori locali, tramite assedio da parte
dell'esercito regio, e la loro successiva distruzione segnalano
drammaticamente da un anno all'altro (o con frequenze minori)
l'avanzare di quel processo, e indicano fino a che punto esso
dipenda, alla fin fine, dalla capacità di un centro di dominio di
sopraffare gli altri. Insomma, come si è efficacemente detto, "gli
Stati fanno la guerra - e viceversa" (v. Tilly, 1990).
b) Aspetti istituzionali
Ma il processo in questione, accanto a questo aspetto puramente
fattuale (che ha importanti addentellati economico/finanziari,
poiché c'est l'argent qui fait la guerre), ha anche presupposti,
componenti ed esiti di carattere invece culturale e istituzionale.
Ad esempio, la memoria per quanto remota dell'esperienza imperiale
romana ispira molti tentativi di costruire assetti politici più ampi
e durevoli di quelli sopravvissuti alle grandi migrazioni, allo
sfaldamento dell'Impero carolingio, alla fase acuta della cosiddetta
'anarchia feudale'. Il possesso del titolo di re è una risorsa di
prim'ordine, ad esempio per le dinastie che successivamente
controllano i territori dell'Ile-de-France e se ne servono come base
logistica ed economica per allargare il proprio dominio politico.
Per giustificare la loro pretesa di rafforzare le proprie capacità
militari i signori territoriali si trovano spesso costretti a
impegnarsi a istituire e mantenere 'paci' durevoli su territori
relativamente vasti a vantaggio delle popolazioni che vi sono
insediate, oltre che a tenere a bada la minaccia d'invasione da
parte di popolazioni allogene. I signori territoriali spesso
pattuiscono questi impegni con gruppi o corpi collettivi di cui
fanno parte i meliores terrae, i quali talora si incaricano anche
della tutela degli interessi dei gruppi subalterni, e gli impegni in
questione ricevono forma solenne e talora sacrale. La "lotta intorno
al diritto", per usare l'espressione di Jhering, costituisce una
posta significativa, spesso espressamente tematizzata, dell'intero
processo di consolidamento territoriale (v. Jhering, 1872).
c) Territorialità e pacificazione
Questa prima fase dello sviluppo dello Stato moderno è in buona
misura un processo di accorpamento territoriale forzoso, manu
militari, che salda insieme dal punto di vista politico certe
porzioni dell'Europa ad altre contigue, ricomprendendole entro
confini comuni. A questo processo se ne accompagna uno di
elaborazione istituzionale: pratiche di governo inizialmente di
portata assai ristretta vengono estese in maniera relativamente
uniforme a regioni che, in precedenza, conoscevano una molteplicità
di giurisdizioni, di assetti amministrativi a base strettamente
locale. L'idea stessa di confine come demarcazione precisa, lineare,
tra due spazi contigui ma fortemente differenziati, ciascuno sede di
un ordinamento diverso, è un'idea moderna, che lentamente si afferma
in contrapposizione con l'idea di frontiera o di marca - una zona
vagamente delimitata in cui ha luogo una sorta di transizione da una
giurisdizione all'altra - e presuppone saperi tecnici sofisticati
relativi alla rilevazione, misurazione e rappresentazione del
terreno. Anche se la guerra è il meccanismo principale del processo
di consolidamento territoriale, un suo effetto a lungo termine è di
ridurre l'incidenza del fenomeno più ampio e generico della violenza
armata. In un territorio dove precedentemente diversi centri di
potere 'si facevano la guerra', la vittoria di uno di quei centri ha
posto fine a questa manifestazione della violenza. Poiché le parti
sociali non possono più considerare il ricorso a vie di fatto come
un modo legittimo di tutela dei propri interessi, il territorio
viene pacificato. È difficile determinare se con ciò diminuisca il
quantum di violenza organizzata a cui il corpo sociale rimane
esposto, visto che nel corso dei secoli il progredire delle tecniche
materiali e organizzative relative alla guerra tende ad accrescere
il potenziale di violenza fatto proprio dal centro politico, che dà
prova di sé in conflitti esterni assai distruttivi e mortiferi,
nonché in operazioni di repressione interna molto sanguinose.
Rimane vero, con tutto ciò, che la costruzione degli Stati europei è
accompagnata da un discorso multiforme, talora di notevole portata
intellettuale, che ripropone assiduamente e urgentemente i temi
dell'ordine, della sicurezza, della pace, della protezione dal
rischio della violenza, e in cui la contemplazione di questi bona
troppo spesso compromessi dall'esperienza comune ingenera
un'aspirazione all'unità. Talora (come nella canzone All'Italia di
Petrarca) quest'aspirazione diventa un appello ai potenti perché
sospendano i loro contrasti e si accordino, ma altre volte se ne
deduce la necessità di un Defensor pacis, di un centro di potere
che, entro un ambito territoriale ampio, imponga a tutti
l'obbedienza al proprio comando. Naturalmente, questa è una
prerogativa attraente, il cui possesso diviene a sua volta oggetto
di contesa, e una volta acquisito deve spesso essere difeso; essa si
presta inoltre ad essere esercitata in maniera oppressiva e
irresponsabile. In ciascuno di questi momenti dell'esperienza
politica - l'acquisizione del potere, il suo mantenimento, il suo
esercizio - il fenomeno della violenza organizzata tende a
ripresentarsi, intensificando proprio quella paura e quella
insicurezza a cui dovrebbe far fronte.
d) Il principe e i potenti
Il protagonista tipico della fase appena illustrata è il principe:
il capo di una dinastia aristocratica, che si vale delle risorse
fornitegli dai propri possedimenti fondiari per finanziare imprese
militari intese non soltanto ad ampliare quei possedimenti, ma anche
ad acquisire risorse e facoltà di natura pubblica, che lo
diversificano da altri signori fondiari - rispetto ai quali si pone
appunto come princeps - e gli attribuiscono poteri giurisdizionali e
fiscali su territori più vasti. Ma nella condotta di quelle imprese
e, se queste hanno successo, nella successiva gestione di quei
territori, si alternano, si confondono, talora si contraddicono
logiche diverse, relative rispettivamente agli interessi del casato
aristocratico e a quelli del territorio. Naturalmente il principe
non è solo nel progettare e condurre le sue imprese, ma vi partecipa
a vario titolo personale di natura diversa. Entro questo personale
l'elemento saliente è quello aristocratico: è, sostanzialmente, un
'sistema di potenti' che costruisce gli Stati. Tipicamente i
personaggi che coadiuvano il principe lo fanno in base alla comune
appartenenza di ceto; la loro collaborazione è in buona misura
negoziata, e non si fonda su un rapporto di subordinazione e di
servizio; le risorse militari e d'altro genere che i potenti
impegnano nelle imprese del principe rimangono sotto il loro
controllo, e la loro partecipazione a quelle imprese mira ad
aggiungere facoltà e risorse di natura pubblica a quelle che
appartengono loro a titolo privato. Il principe distribuisce a
questi personaggi cariche e ricompense in base al loro lignaggio o a
obbligazioni in cui è incorso nei loro confronti, non in base alla
loro accertata competenza, e queste cariche e ricompense diventano
talora parte del loro patrimonio ereditario. Col succedersi delle
generazioni ciò rende sempre meno facile, per il principe e i suoi
discendenti, controllare e dirigere l'esercizio di quelle cariche e
commisurare le ricompense alle effettive prestazioni dei potenti. In
sostanza, nella fase del loro consolidamento territoriale gli Stati
sono tuttora insiemi di pratiche di governo relativamente poco
standardizzate, discontinue, disarticolate, in cui logiche e risorse
di carattere strettamente personale - che spesso si manifestano
precipuamente nel contesto della guerra - svolgono tuttora un ruolo
decisivo, come indica l'accento che Machiavelli pone sui talenti
personali, l'energia, la volontà di affermazione del principe.
4. Seconda fase: razionalizzazione del dominio
Questa fase pertiene non alla portata geografica del dominio, ma
alla natura delle pratiche tramite le quali esso è esercitato e
degli assetti che presiedono all'accumulazione e all'impiego del
potere politico.
a) Aspetti specifici della razionalità statuale
Generalmente si può parlare di 'razionalizzazione' di determinate
attività sociali se e in quanto queste vengono condotte in maniera
sempre più riflessa e consapevole attraverso comportamenti di
scelta, cioè selezionando tra varie modalità alternative di condotta
quella che ha più probabilità di conseguire il fine che ci si
prefigge, col minor dispendio di risorse e per quanto possibile
senza produrre effetti non desiderati. Per poterlo applicare al
dominio statuale questo modo di intendere la razionalizzazione deve
essere modificato, perché si addice specialmente a circostanze in
cui soggetti individuali determinano la propria condotta nel breve
termine, in vista di fini relativamente univoci, e con riferimento a
mezzi di cui immediatamente dispongono. Nel caso dello Stato, la
possibilità di concepirlo come un soggetto unitario dipende dal
processo di razionalizzazione, e comunque esso opera concretamente
tramite molteplici e mutevoli individui e gruppi, il cui agire
rispecchia spesso concezioni diverse, o addirittura contrastanti,
dei suoi fini e dei suoi mezzi. Inoltre - come risulta, secondo
alcune interpretazioni, dall'etimo stesso del termine - lo 'Stato'
tipicamente orienta le sue attività nel lungo periodo, si concepisce
come un ente destinato a trascendere l'esistenza fisica di molte
generazioni, per non dire di singoli individui ("le roi est mort,
vive le roi"). Per queste e altre ragioni la razionalizzazione del
dominio politico si configura in maniera peculiare rispetto al
concetto generico di razionalizzazione. Tali peculiarità cominciano
col modo di concepire il fine dell'agire statale, cioè una
condizione futura da ottimizzare o massimizzare, il riferimento alla
quale possa servire da criterio per scegliere tra linee alternative
d'azione ovvero valutare retrospettivamente la validità di decisioni
passate.
È possibile assegnare fini relativamente concreti a determinate
parti componenti dello Stato, e orientare a questi fini scelte e
valutazioni, ma lo Stato nel suo insieme non si lascia assegnare un
concreto fine o insieme di fini. Tuttavia esso abbisogna di un
criterio per quanto astratto di scelta e di valutazione, e
abbastanza presto, nella storia dello Stato e della riflessione su
di esso, questo criterio è stato caratterizzato con un'espressione
famosa e controversa, in cui (si noti bene) è esplicito il
riferimento alla razionalità, e quindi alla razionalizzazione -
ratio Status, ragione di Stato (v. Meinecke, 1924).La ragion di
Stato. - Le interpretazioni di questa espressione sono, come è noto,
molteplici e contrastanti, ma è possibile caratterizzarne il
significato in maniera formale. Innanzitutto lo Stato deve orientare
le proprie attività a interessi di natura secolare; questi interessi
sono, per così dire, interni allo Stato stesso, e hanno a che
vedere, sostanzialmente, con il mantenimento della sua esistenza;
tale compito, apparentemente orientato alla conservazione delle
condizioni date, è in effetti di natura dinamica, in quanto per
continuare a esistere lo Stato deve essere in grado di fare i conti
con continue sfide, la cui portata e provenienza non sono
prevedibili che nel breve termine; perciò è essenziale che lo Stato
accumuli potenza, cioè si mantenga in condizione di minacciare, se
necessario in uno scontro armato, l'esistenza di altri Stati.
La programmazione dei comportamenti di scelta. - Come si è già
detto, la concezione generica, proposta sopra, di razionalità (e
quindi, indirettamente, di razionalizzazione) dell'agire - la
deliberata selezione, tra i mezzi disponibili all'attore, di quelli
obiettivamente più appropriati al fine che egli persegue in
determinate circostanze - deve essere re-interpretata per renderla
applicabile all'esercizio del dominio politico. Qui, la
razionalità/razionalizzazione deve per così dire spostarsi 'a monte'
dei comportamenti di scelta dei singoli attori in circostanze
determinate, e realizzarsi nella standardizzazione di quei
comportamenti, nella messa a punto di modalità e criteri decisionali
che valgano per una molteplicità di temi e di circostanze
dell'agire, e per una molteplicità di attori. È razionale, in questo
senso, che gli individui nel cui agire si concretizza l'azione
politica siano scelti, preparati, motivati, controllati in un certo
modo; che le risorse di cui si valgono siano accumulate e gestite in
un certo modo; che valutino le circostanze alla stregua di certi
criteri, comunichino gli uni con gli altri secondo certi codici
simbolici. Se i modi giusti di fare tutte queste cose sono
correttamente individuati e coerentemente realizzati, ci si può
razionalmente attendere che 'a valle' i comportamenti concreti,
l'elaborazione e l'esecuzione delle singole decisioni siano a loro
volta razionali, anche se (anzi, proprio se) sono routinizzati al
punto da richiedere un minimo di espressa deliberazione. In altre
parole, la razionalizzazione del dominio politico si configura in
buona parte attraverso la programmazione esplicita delle attività
concrete dei singoli attori politici. Questo comporta la costruzione
di strutture organizzative apposite entro le quali quegli attori si
collocano, l'esplicita elaborazione di direttive di massima che essi
devono apprendere e al cui contenuto devono conformare i loro
comportamenti, l'apprestamento di risorse materiali e conoscitive
alle quali possono rapidamente attingere. Queste operazioni, se
debitamente condotte, permettono allo Stato di realizzare due
esigenze non facilmente conciliabili: da una parte le condotte dei
suoi agenti devono essere relativamente uniformi, standardizzate,
prevedibili; dall'altra esse devono essere relativamente mutevoli e
il loro contenuto concreto relativamente contingente e disponibile.
Le esigenze vengono conciliate tramite vari accorgimenti, tra cui la
preferenza per direttive formulate in termini generali, e che quindi
per definizione si prestano ad essere eseguite in maniera
relativamente diversa e mutevole. Questo accorgimento è
particolarmente significativo, perché si possono dare vari livelli
di generalità, come suggeriscono da un lato l'immagine di una
'piramide' degli uffici, ciascuno dei quali dà particolare
attuazione alle direttive dell'ufficio superiore, ma al contempo
impone vincoli all'attività particolarizzante di uffici inferiori,
dall'altro la nozione di una gerarchia delle fonti del diritto. Il
reiterato ricorso a quell'accorgimento, dunque, permette di creare
insiemi vasti e ramificati, ma nonostante questo relativamente
unitari, coerentemente strutturati, di istanze, competenze e
attività.
Un altro accorgimento, che talora coincide col precedente, è la
preferenza per direttive di natura procedurale, che cioè
standardizzano il modo in cui gli agenti dello Stato prendono (ed
eseguono) delle decisioni piuttosto che il loro contenuto specifico.
(Si noti di passaggio che le esigenze da conciliare attraverso
questi e altri accorgimenti - l'agire dello Stato deve essere da un
lato altamente prevedibile, dall'altro altamente contingente -
corrispondono a caratteristiche e requisiti della società e della
cultura moderne. Anche il denaro, nel sistema capitalistico, deve
essere saldamente nelle mani dell'imprenditore, e conservare il
proprio valore, per poter subire un continuo processo di
valorizzazione tramite innumerevoli atti di scambio. Anche chi
pratica le arti deve da un lato dimostrare di padroneggiare le
tecniche e i principî di un determinato medium, dall'altro sfidarne
i limiti tramite l'innovazione espressiva. Più in generale, è anche
per far fronte ai nuovi bisogni e utilizzare le nuove risorse di una
società sempre più complessa e mutevole, che lo Stato deve essere in
grado da un lato di garantire la sicurezza degli individui,
dall'altro di intervenire autorevolmente nella condotta degli affari
sociali. Inoltre, come si è accennato, il suo modo di organizzarsi,
tramite la sistematica specificazione di competenze, può esser visto
come l'applicazione alla sfera politica della divisione del lavoro,
che sta massicciamente affermandosi anche nella sfera della
produzione e in quella della scienza).
b) Stato e diritto
Un altro modo di caratterizzare il processo di razionalizzazione che
lo Stato territoriale intraprende nel corso della propria espansione
o a coronamento di questa, mette in risalto il collegamento tra le
sue attività (o comunque alcune di queste) e nuovi o meno nuovi
saperi secolari. Il fenomeno più vistoso, e più esplicitamente
teorizzato, è costituito dal rapporto che viene a stabilirsi tra
Stato e sapere giuridico. Si è detto che, mentre sono universali due
funzioni sociali del diritto - la distribuzione tra individui e tra
gruppi del controllo proprietario sui beni materiali e la
repressione dei comportamenti antisociali -, è esclusiva
dell'Occidente una sua terza funzione, quella di istituire le
istanze che possiedono il potere politico e hanno facoltà di
orientarne la gestione (v. Tarello, 1988). Questa particolarità, già
presente nella Grecia classica e in maniera maggiormente elaborata
nella Roma repubblicana e imperiale, si afferma sempre più
consapevolmente nelle repubbliche tardo-medievali e successivamente
in alcuni Stati dell'Europa continentale. Abbiamo già suggerito che
la 'lotta intorno al diritto' costituisce un significativo aspetto
normativo della fase del consolidamento territoriale; in quella
successiva il riferimento al diritto, la reinterpretazione di
antichi istituti e principî giuridici e la messa a punto di nuovi,
vengono a svolgere una funzione particolarmente importante nella
pratica statale, sia nei suoi aspetti interni che per quanto
concerne i rapporti tra gli Stati.
L'innovazione normativa (non sempre riconosciuta come tale) serve,
in particolare, per organizzare gli insiemi di personale, di risorse
materiali e di facoltà in cui viene articolandosi lo Stato;
l'interpretazione delle norme si presenta come un modo fondamentale
di orientarne e controllarne l'operazione; i rapporti tra lo Stato e
gli individui (prima in quanto sudditi, poi in quanto cittadini)
vengono concepiti come rapporti giuridici, come insiemi variamente
configurati di aspettative reciproche coattivamente sanzionate.
Talora il modello principale a cui si ispira la struttura degli
organi statali, quali che ne siano le competenze, è costituito dal
collegio giudicante; il rapporto tra legge e sentenza appare come
l'esempio più cospicuo di quel rapporto tra direttiva generale e
applicazione particolare che, come si è visto, serve a rendere
l'azione statuale sia prevedibile che contingente. Nel Settecento
una costituzione, cioè un documento giuridico, è considerato come lo
strumento per eccellenza per istituire, organizzare, legittimare lo
Stato stesso e per regolarne l'azione (v. Matteucci, 1976); ma già
in precedenza s'era visto nel contratto - anch'esso un fenomeno
giuridico - lo strumento chiave del passaggio degli esseri umani
dallo stato di natura a quello civile e/o politico.
Tanta è la presa che il diritto - come modalità e criterio
dell'interazione sociale, ma anche come forma di sapere e di
discorso culto, intellettualmente avanzato e culturalmente
prestigioso - ha esercitato sull'immaginazione sociale e politica
dell'Occidente; e questo si manifesta anche nel ruolo che il diritto
ha svolto come strumento della razionalizzazione dell'azione
statuale, specialmente nei paesi latini (ma in Italia, Spagna, e
Portogallo più che in Francia) e in quelli di lingua tedesca, dove
tuttora le modalità di reclutamento e formazione del personale
amministrativo e (in misura minore) della classe politica
privilegiano il sapere giuridico. Specie nel Settecento e
nell'Ottocento, il discorso sul diritto - e sui diritti - diventa
una componente fondamentale del discorso sulla politica e sullo
Stato; la teorizzazione di quest'ultimo, in particolare, coincide in
buona parte con la formazione e lo sviluppo del diritto pubblico
come disciplina giuridica autonoma, e in vari paesi la riflessione
sociologica e la scienza politica tardano ad appropriarsene.
c) Altri saperi secolari
Oltre che valersi di un sapere secolare ma spiccatamente normativo
come quello giuridico, lo Stato ha anche, per così dire, manifestato
curiosità per molti aspetti del proprio territorio, della
popolazione insediata su di esso, e delle relative attività
produttive - una curiosità interessata, s'intende, visto che quegli
aspetti incidono sulla capacità militare dello Stato stesso e sulle
sue risorse fiscali.
Basti ricordare l'etimo della parola 'statistica', o la pratica dei
censimenti, o le ricorrenti inchieste promosse dai governi su questo
o quel fenomeno sociale, dall'alfabetizzazione al pauperismo. Il
richiamo ai saperi secolari come elementi orientanti dell'azione
statuale ha un importante addentellato. Se e in quanto si richiede
che chi occupa posizioni politico-amministrative sia in possesso di
un sapere accademico - non di carattere tradizionale e sapienziale,
ma veicolato da un discorso intellettualmente rigoroso - che si
presta a essere espressamente insegnato, appreso e fatto oggetto
d'esami, viene meno la presunzione che il lignaggio, l'appartenenza
a ceti dotati d'alto rango sociale, qualifichi automaticamente gli
individui anche per quelle posizioni. Tali posizioni offrono invece
agli appartenenti ai ceti medi occasioni di affermazione sociale -
purché, s'intende, si muniscano di appropriati titoli di studio,
superino esami, ecc. Anche per quanto riguarda le posizioni di élite
propriamente politiche - i corpi legislativi, i consigli che
direttamente assistono il sovrano, le cariche ministeriali - a lungo
andare i meccanismi liberali e poi democratici della rappresentanza,
e soprattutto la formazione dei partiti organizzati, hanno messo
fuori gioco i discendenti delle antiche casate aristocratiche.
d) Espropriazione dei mezzi di dominio
La razionalizzazione del dominio si effettua anche in un ulteriore
modo, cioè concentrando nello Stato stesso e nelle sue varie
articolazioni organizzative i poteri di disporre delle risorse
materiali e istituzionali relative all'esercizio delle funzioni
politiche e amministrative. Non è più né necessario né sufficiente
che chi esercita tali funzioni sia in grado di provvedere 'del
proprio' alle relative spese, valendosi del suo patrimonio,
impegnando e talora rischiando le sue risorse, e quindi
legittimamente cercando in primo luogo di custodirle e di
accrescerle. È il sistema di uffici a cui quelle funzioni sono
progressivamente demandate a possedere le relative risorse, non gli
individui che di volta a volta occupano quegli uffici e che sono
tenuti a un redde rationem periodico in merito alla gestione di
quelle risorse.
Lo Stato fiscale. - L'acquisizione stessa delle risorse che lo Stato
impegna nelle proprie operazioni si è svincolata progressivamente
dal suo rapporto sia con il patrimonio dinastico del principe sia
con l'ordinamento cetuale, ed è venuta a dipendere sempre meno da
forme temporanee e relativamente casuali di approvvigionamento, come
i proventi di avventure belliche, le corvées, o i prestiti ottenuti
da banchieri e finanzieri. Dopo una fase intermedia, in cui svolgono
un ruolo importante la vendita di cariche e l'appalto delle imposte
da una parte, e dall'altra la gestione monopolistica da parte dello
Stato di funzioni produttive e distributive particolarmente
redditizie, il problema dell'approvvigionamento
economico-finanziario dello Stato trova sempre più una soluzione
'estrattiva' nel senso stretto del termine: lo Stato, cioè, esegue
prelievi monetari forzosi più o meno frequenti, più o meno pesanti,
ma regolari e (relativamente) prevedibili sugli stocks di risorse in
mano a soggetti privati o sui flussi di risorse cui danno luogo i
loro traffici. Questa soluzione si impone per due principali
ragioni. Innanzitutto altre fonti e modalità di finanziamento non
bastano più a coprire durevolmente bisogni sempre crescenti: i costi
militari si sono ingigantiti, lo Stato si sta impegnando in altre
attività e, come si è visto, non può o non intende più affidarle ai
ceti tradizionali, ma preferisce affidarle a individui qualificati
precipuamente dal loro sapere, e il costo dei loro servizi
dev'essere sostenuto da fondi pubblici. In secondo luogo, un
approvvigionamento che si basa sempre più sui proventi monetari di
imposte e tasse (occasionalmente complementati, in via provvisoria,
dal ricorso al debito pubblico) è l'unico compatibile con le
esigenze di calcolabilità delle risorse economiche private e di
redditività del loro impiego rese necessarie dalla
commercializzazione, e successivamente dall'industrializzazione,
delle economie nazionali.
e) Burocratizzazione amministrativa
Questi e altri aspetti della razionalizzazione del dominio politico
intrapresa (con tempi, modalità e successo diversi) dagli Stati
europei, si assommano in un fondamentale mutamento, che può essere
sintetizzato come segue: prima della razionalizzazione l'esecuzione
concreta della maggior parte delle attività statali spettava a
individui e a corpi che avevano diritto a svolgere quelle attività;
con la razionalizzazione essa diventa responsabilità di individui e
corpi che hanno il dovere di svolgerle. In altre parole, il
meccanismo istituzionale per così dire molecolare dello Stato ha
cessato di essere il privilegio ed è diventato l'ufficio. Come si è
già detto, tipicamente chi occupa uffici non si appropria (più) le
relative risorse e le facoltà per svolgere le attività assegnate
all'ufficio medesimo, non si vale a titolo personale degli eventuali
proventi di quelle attività; nel decidere se, quando e come
svolgerle, non consulta i propri personali interessi, ma i saperi
che ha acquisito, e in vista dei quali è stato investito
dell'ufficio, nonché le istruzioni dei superiori e le informazioni
disponibili sulle circostanze di fatto che è suo compito regolare, o
sulle quali deve intervenire.
Il comportamento dei funzionari. - Ci si può chiedere se in
particolare questa pretesa - di filtrare le considerazioni che
presiedono alla condotta dei funzionari, escludendo sistematicamente
proprio quelle relative all'interesse personale - non sia piuttosto
difficile da realizzare, e se (ammesso che si realizzi) non rischi
di causare un deficit di motivazione nelle persone in questione,
rendendo meno probabile che s'impegnino energicamente e assiduamente
nell'esecuzione dei loro doveri. Una prima risposta è ovvia.
Anche se a lungo si è esitato a qualificare come contrattuale il
rapporto tra lo Stato e il funzionario, il fatto che questi venga
retribuito per le sue attività costituisce un legame sinallagmatico:
il funzionario, in altre parole, lavora per lo stipendio o per
mantenere 'il posto'. Rimane il problema di motivarlo a un livello
di impegno superiore a quello così ottenibile. E qui la risposta è
duplice. Da un lato, proprio chi occupa uffici statali non soltanto
possiede e applica il sapere che i compiti dell'ufficio richiedono,
ma è anche seriamente dedito all'interesse pubblico, si lascia
guidare da 'scienza e coscienza', non soltanto dalla prima.
Dall'altro lato, la struttura piramidale dei sistemi di uffici a cui
dà luogo, come si è visto, la razionalizzazione del dominio,
comporta non soltanto una divisione del lavoro e una gradazione di
competenze e di responsabilità, ma anche - in corrispondenza con
questa - una gerarchia di facoltà di comando e di controllo, di
riconoscimento sociale, e infine di trattamento economico: in linea
di principio il singolo titolare di un ufficio può aspirare a farsi
strada entro questa struttura. In altre parole, un ben ordinato
insieme di uffici configura anche un sistema di carriera - e proprio
le sue aspirazioni di carriera dovrebbero motivare il funzionario,
nell'espletare i suoi compiti di ufficio, a non perseguire il
proprio immediato interesse personale.
f) Gli apparati amministrativi: autorità e competenza
Nel corso di un secolo e mezzo, in un processo che culmina nella
Francia rivoluzionaria e napoleonica, e in seguito viene imposto o
si afferma altrimenti in altri paesi europei, la razionalizzazione
del dominio progetta lo Stato come un sistema espressamente ordinato
di organi e di uffici, un insieme di ruoli la cui continuità
istituzionale trascende gli individui che li occupano e la maniera
inevitabilmente varia e discontinua in cui essi operano. Il sistema
può investire compiti assai diversi e mutevoli, ma - all'interno di
scelte politiche di massima che possono rifarsi a logiche diverse,
prima di tutte quella di potenza - è sempre orientato e controllato
dalla conoscenza delle direttive generali provenienti dall'alto del
sistema e delle circostanze di fatto. La struttura del sistema è
dettata da due principî: innanzitutto, essa rappresenta una
divisione del lavoro, cioè le articolazioni organizzative rispondono
al criterio di assegnare compiti diversi a chi ha acquisito e
dimostrato competenze diverse. (Si noti che l'espressione
'competenza' designa sia un complesso di conoscenze e di capacità di
merito acquisite da un individuo, sia un ambito di problemi e
compiti di cui spetta a lui, o all'organo di cui fa parte,
occuparsi). In secondo luogo, a questa strutturazione diciamo
orizzontale del sistema si sovrappone una strutturazione verticale:
organi, uffici, funzionari, si distinguono anche in base a chi
comanda chi. Questo secondo principio rispecchia un'esigenza di
coordinamento interna alla logica della divisione del lavoro, ma
sostanzialmente si rifà alla vocazione autoritaria dello Stato nel
suo insieme, come forma di dominio politico. Nel linguaggio un po'
arcaico del diritto amministrativo, ci deve essere, alla fin fine,
un 'signore del servizio', che istituisce il sistema e assegna a
ciascuna parte di questo non soltanto dei compiti da svolgere, ma
anche delle facoltà di comando, in definitiva garantite dalla
coazione. Dopo tutto (o prima di tutto?) il sistema forzosamente
estrae moltissime delle risorse che spende nel proprio funzionamento
dagli stocks e dai flussi di risorse prodotte e scambiate da
individui privati che, lasciati a se stessi, si guarderebbero bene
dal destinare parte dei beni e delle energie posti sotto il loro
controllo a fini diversi da quelli a loro propri.
g) Razionalizzazione del dominio e società civile
Eppure la razionalizzazione del dominio ha anche, per così dire,
effetti benigni per quanto riguarda il resto della società e gli
stessi individui privati. Così come si è configurata storicamente,
nell'Europa occidentale tra il Seicento e l'Ottocento, la
razionalizzazione ha affermato la complementarità dello Stato alla
società civile, intesa come l'ambito in cui gli individui (prima -
si è detto - come sudditi, poi come cittadini) legittimamente
perseguono i propri interessi e intessono rapporti che lo Stato
garantisce giuridicamente ma di cui lascia loro l'iniziativa e il
contenuto. È ben vero che lo Stato ha progressivamente riservato a
se stesso la gestione di tutti gli affari politici, confiscando le
capacità giurisdizionali, militari, fiscali, ecc. di individui e
corpi privilegiati, e monopolizzando l'esercizio della violenza
legittima. Ma si dovrebbe dire di tutti gli affari politici e
soltanto di essi. Lo Stato cioè lascia alla società civile altri
affari, compresi alcuni potenzialmente di grande rilevanza generale,
che impegnano seriamente le energie e le cure degli individui, e li
differenziano profondamente gli uni dagli altri. Due aspetti di
questo processo sono di particolare importanza. Innanzitutto,
attraverso una vicenda complessa e combattuta, lo Stato occidentale
si spoglia progressivamente di attributi e competenze di carattere
religioso - esce, si direbbe, dal business della salvezza delle
anime - ma per lo più lo fa senza impedire o vietare agli individui
di coltivare ed esprimere la propria religiosità, anche in forma
collettiva e organizzata. In secondo luogo, per riprendere una
formulazione della prima modernità, il sovrano riserva a sé
l'imperium, ma lascia ai privati il dominium, cioè il diritto di
proprietà. Inizialmente di questo ritrarsi del sovrano dall'ambito
proprietario beneficiano precipuamente i signori terrieri, ma
successivamente il dominium si diffonde e, in mano a soggetti molto
più numerosi e diversamente orientati, si mette in moto: insieme col
contratto, la proprietà privata diventa l'istituto fondamentale, la
struttura portante del mercato, che a sua volta si configura come
aspetto e momento centrale della società civile (Marx vede
nell'economia politica borghese l'anatomia stessa della società
civile).
h) Stato e modernizzazione socioeconomica
Non è solo astenendosi dall'interferire nell'economia di mercato che
lo Stato ne facilita e promuove lo sviluppo: la razionalizzazione
del dominio crea un ambiente politico e amministrativo positivamente
confacente a un'economia avviata alla modernizzazione, con le sue
esigenze di sicurezza, di prevedibilità delle conseguenze delle
scelte economiche, di mobilità dei fattori di produzione, di
controllo e repressione delle forme antiche e nuove di disagio e di
protesta sociali, occasionate dal cambiamento economico. La
prevalenza stessa della tassazione come modo di approvvigionamento
degli enti politici, come si è detto, si conforma a quelle esigenze.
Molte delle attività intraprese dallo Stato, a cominciare da quelle
relative agli armamenti e all'equipaggiamento di eserciti e flotte,
o dall'appoggio decisivo che queste risorse militari forniscono alla
colonizzazione di territori extraeuropei, danno un apporto
essenziale a nuove forme di impresa e all'accumulazione del capitale
privato.
i) Nuovi soggetti politici
In questo e in altri modi lo Stato non soltanto permette, ma
contribuisce a promuovere un processo profondo e relativamente
accelerato di ristratificazione sociale, che culmina, nella prima
metà dell'Ottocento, nella formazione di una élite che detiene una
nuova forma di potere sociale, il possesso di capitali. Si potrebbe
dire che nel secolo precedente, lo Stato si era progressivamente
aperto al 'Terzo stato', al punto di fare di questo, a lungo andare,
non soltanto un beneficiario delle proprie attività, ma la base
sociale della propria esistenza, e di conferirgli una soggettività
politica nuova, attiva e costituente. (È emblematica da questo punto
di vista la decisione del 17 giugno 1789: i rappresentanti del Terzo
stato francese si dissociano dal contesto istituzionale degli Stati
generali, e si proclamano Assemblea Nazionale). Nelle sue varie
forme, l'avvento del liberalismo politico conferisce un nuovo e più
importante significato, all'interno dello Stato, alle istituzioni
rappresentative; ciò comporta, tra l'altro, che anche posizioni a
cui spetta la formazione delle politiche, e quindi delle direttive
esplicite dell'azione statale e non solo la loro esecuzione, vengono
occupate da personale su cui queste responsabilità ricadono in base
non a una spettanza di ceto o al favore del sovrano, ma a
un'investitura esplicita, sempre temporanea (e quindi contingente),
tramite l'elezione a un organo legislativo, o la fiducia che questo
concede a un governo di nuova composizione. Al vertice di Stati non
repubblicani la posizione stessa del monarca ereditario viene
costituzionalizzata, cioè configurata sempre più come un ufficio,
con compiti relativamente ristretti per quanto delicati ed elevati.
5. Il legato istituzionale delle due prime fasi
a) Aspetti interni del dominio
Può essere utile a questo punto presentare un quadro concettuale
dello Stato così come si configurava nell'Europa occidentale prima
della grande guerra. (Alcuni aspetti di quella configurazione,
peraltro, erano presenti anche in altre parti d'Europa, nonché nel
continente americano e in Giappone). Si tratta di un sistema di
dominio politico che generalmente ha le seguenti caratteristiche,
alcune delle quali risultano già dalla precedente trattazione.
Territorialità. - Il dominio è esercitato da ciascuno Stato con
riferimento a una porzione precisamente delimitata del globo. Si
noti però che la delimitazione stessa è talora oggetto di contesa
tra Stati, e che per alcuni di questi si può distinguere il
territorio immediato, metropolitano, dello Stato, da uno o più
territori su cui il dominio è esercitato a titolo di possesso
coloniale.
Unitarietà. - L'esercizio del dominio pertiene a un complesso di
organi che si articola in molteplici uffici, ma la cui unitarietà si
rivela, tra l'altro, nell'esistenza di un organo di vertice che,
quali che ne siano le competenze, rappresenta lo Stato nel suo
insieme. Al di sotto di questo, le varie funzioni di governo (nel
senso lato, che comprende la legislazione e la giurisdizione) fanno
capo a insiemi di organi che, per quanto complessi, a loro volta
sono attivati e/o controllati da un singolo organo (ad esempio, nel
caso della giurisdizione, da una corte d'ultima istanza). Questa
unitarietà è compatibile con varie forme di autonomia locale e con
la più avanzata articolazione organizzativa dei domini rappresentata
dagli Stati federali.
Nazionalità. - La popolazione su cui si esercita il dominio è vista
a sua volta come unitaria, in quanto pur nella sua diversità è
attraversata da certe comunanze, variamente (e per lo più vagamente)
definite: di lingua, di religione, di origine etnica, di cultura, di
esperienza storica, di destino, di appartenenza al territorio, di
fedeltà a una dinastia, di solidarietà. Importanti eccezioni sono
rappresentate dalle popolazioni di Stati espressamente
multinazionali, come l'Impero russo e quello austro-ungarico.
Legittimità democratica. - Il riferimento alla democrazia come
principio fondante dell'esistenza stessa degli Stati è per lo più
esplicito solo a partire dalla prima guerra mondiale, ma è implicito
nell'idea stessa di nazionalità, quanto meno in quelle versioni che
vedono nella nazione non solo l'oggetto del dominio politico, ma
anche la base costituente di esso e la sede ultima della sovranità,
e/o propongono l'interesse nazionale come obiettivo costante (anche
se generico e remoto) dell'azione statale, e in particolare della
politica estera. In ogni caso lo Stato si legittima, vale a dire
giustifica la sua richiesta di obbedienza ai propri comandi, in base
all'assunto che l'investitura di chi esercita il comando proviene,
tramite complesse mediazioni istituzionali (e ideologiche), da
coloro stessi a cui si chiede l'obbedienza.
Stato di diritto. - Il dominio si manifesta precipuamente attraverso
la formazione, l'esecuzione e l'applicazione di leggi, intese come
comandi generali e astratti. La validità di questi comandi si fonda
sull'osservanza di procedure fissate da atti o consuetudini
costituzionali e sul rispetto di alcuni principî sostanziali, che
garantiscono certe aspettative degli individui anche nei confronti
dell'azione statale o la impegnano a favorire determinati interessi
individuali. Gli organi incaricati di svolgere le varie funzioni
statali sono istituiti da leggi, che ne regolano le operazioni,
facendone dipendere l'efficacia dall'osservanza di quelle regole. La
corretta esecuzione delle leggi, quando incidano su legittimi
interessi individuali, può essere verificata da organi giudiziari,
siano questi ordinari o speciali. Leggi o consuetudini
costituzionali talora individuano e circoscrivono una sfera di
affari esplicitamente 'politici' - precipuamente la tutela
dell'ordine pubblico e della sicurezza dello Stato - nell'affrontare
i quali determinati organi statali possono, in condizioni di
emergenza e fino a quando l'emergenza continui, soprassedere a norme
che generalmente ne limitano l'azione.
Società civile. - Lo Stato così costituito è complementare a un
ambito sociale vasto e differenziato, in cui gli individui
perseguono autonomamente interessi privati, precipuamente ma non
esclusivamente di natura economica, impegnando risorse loro proprie
e intrecciando gli uni con gli altri rapporti di natura
contrattuale. Il diritto di proprietà e la disciplina legislativa
del contratto sono gli strumenti essenziali tramite i quali lo Stato
garantisce queste attività private, che avviano una forte dinamica
sociale e normalmente danno adito a una divisione del lavoro entro
la popolazione e alla formazione di imprese e di classi. Ma
l'autonomia privata è anche lo strumento di altre attività
individuali che lo Stato garantisce, ma in cui non si ingerisce
direttamente, come quelle relative alla religione, alla cultura,
alla beneficenza, alla cura dell'intimità familiare e dell'amicizia,
al tempo libero. Le differenziazioni sociali a cui danno luogo le
varie dinamiche della società civile, e i relativi conflitti, sono
normalmente temperati non solo dalla comune soggezione degli
individui al dominio politico esercitato dallo Stato, ma anche dalla
loro appartenenza alla comunità politica della nazione. In altre
parole, gli individui si configurano anche come cittadini.
Sfera pubblica. - I principî costituzionali liberaldemocratici
permettono alla cittadinanza di esprimersi attivamente attraverso la
pubblica discussione degli affari politici e della condotta degli
organi statali, ma soprattutto attraverso la rappresentanza
politica. La composizione degli organi legislativi (a cui spetta -
in varia misura e attraverso meccanismi diversi - anche
l'investitura del potere esecutivo e l'elaborazione di direttive
politiche di massima) varia nel tempo, e dipende dal successo che
incontrano di volta in volta, in occasione di consultazioni
elettorali, gruppi dirigenti che competono gli uni con gli altri per
il suffragio della cittadinanza. Il principio della legittimità
democratica ha quindi una sua convalida periodica nel processo
elettorale, che peraltro sistematicamente divide la cittadinanza,
producendo entro l'elettorato 'allineamenti' contrastanti che si
riflettono nella formazione di maggioranze e opposizioni all'interno
degli organi rappresentativi. Soltanto la composizione
dell'esecutivo non riflette la divisione di opinioni e preferenze
politiche entro l'elettorato: l'esecutivo riceve il suo mandato
dalla maggioranza, e la sua attività può essere discussa
dall'opposizione. In ogni caso, la matrice delle politiche è la
politica, intesa come confronto tra concezioni legittimamente
contrastanti dell'interesse pubblico, che concorrono per assicurarsi
il pubblico consenso. L'istituzionalizzazione di questa concorrenza
rende la politica degli Stati assai dinamica.
Segregazione istituzionale della violenza organizzata. - Anche se la
violenza organizzata rimane centrale nella versione statuale
dell'esperienza politica, questa tende a renderla relativamente
marginale e occasionale e a rappresentarne l'importanza soprattutto
tramite operazioni simboliche. I ruoli che hanno espressamente a che
vedere con la violenza vengono affidati a specialisti che
normalmente li esercitano soltanto in base a decisioni prese dalle
dirigenze politiche e (nel caso della polizia) giudiziarie.
b) Aspetti esterni
Questo breve quadro concettuale considera lo Stato esclusivamente
come un modo di ordinare e gestire i rapporti politici propri di una
popolazione e interni a un territorio. Ma proprio questa
delimitazione suggerisce implicitamente un'ulteriore caratteristica
essenziale dell'universo politico moderno: esso è un sistema di
Stati. Ciascuno Stato esiste, per così dire, in presenza di altri,
che presuppone come uguali per natura a se stesso. È anche per
questa ragione che sembra opportuno non definire l'Impero cinese, e
altre grandi compagini imperiali premoderne, come 'Stati'. In linea
di massima è connaturato all'idea stessa di 'impero' che ciascuno di
questi si progetti e si proietti (in alcuni casi, malgrado la sua
coesistenza di fatto con altri imperi) come il solo ordinamento
politico legittimo e valido, in un determinato momento, per l'intera
oikoumene, e che non riconosca altri ordinamenti a sé eguali e
coordinati, ma al più ordinamenti di inferiore portata e natura,
variamente subordinati.
Ma la presenza accanto a ciascuno Stato di altri, per quanto
connaturata a esso in quanto Stato, costituisce anche una sfida e
una minaccia potenziale, perché i rapporti reciproci tra gli Stati
non si fondano sulla comune subordinazione al sistema. Questo non
preesiste ai singoli Stati, non li istituisce, non ne regola e
sanziona le attività, per così dire, dall'alto, in maniera
comprensiva e imperiosa; presuppone invece la sovranità dei singoli
Stati, cioè la loro capacità e disposizione a perseguire ciascuno i
propri interessi autonomamente, in base alle proprie risorse,
asserendoli se necessario, al confronto con l'altrui potenza,
attraverso la superiorità fattuale della propria. Il diritto
internazionale sostanzialmente rileva e afferma questa condizione -
la cosiddetta 'anarchia internazionale' - e non si lascia intendere,
a sua volta, come analogo al sistema giuridico proprio di ciascuno
Stato, cioè come una serie di norme imposte e sanzionate da
un'istanza superiore, che impedisce ai singoli di tutelare essi
stessi i propri interessi con la propria forza. L'universo politico
moderno, in quanto fondato sugli Stati, presenta quindi una
fondamentale discontinuità tra i rapporti interni appunto agli
Stati, e quelli che hanno luogo tra gli Stati stessi. I primi, come
si è detto, mirano a un massimo di prevedibilità e sistematicità
dell'azione pubblica, di rassicurazione dei privati costretti a
rinunziare all'esercizio della violenza e compensati per questo
tramite la pacificazione e l'ordine pubblico. I secondi comportano
ampi margini di contingenza e imprevedibilità, e lasciano ai
protagonisti il privilegio e la responsabilità di premunirsi
ciascuno contro la prepotenza degli altri. Ma oltre che essere
intrinsecamente diversi, questi due aspetti dell'universo politico
moderno sono anche asimmetrici, perché il quantum di ordine
caratteristico del primo può essere sempre sovvertito dall'irruzione
del disordine tipico del secondo. In altre parole - a meno che si
riesca a convertire la convivenza degli Stati in un metaordinamento
di tipo esso stesso statale, o quanto meno in un sistema di
sicurezza collettiva - la guerra è un rischio a cui sono esposti
permanentemente gli Stati per quanto bene ordinati. A questa
considerazione si ispirano correnti di pensiero politico che
asseriscono il cosiddetto 'primato della politica estera' e
l'insopprimibile centralità del fenomeno della guerra, e che talora
ne deducono l'intrinseca fragilità di ordinamenti interni di
carattere liberaldemocratico, che confondono la parte 'normale'
dell'esperienza politica con la sua interezza, vedendo nella tutela
e nello sviluppo del sistema economico e degli interessi privati il
suo compito principale (v. Schmitt, 1932).
6. Terza fase: espansione dello Stato
La terza fase nella vicenda dello Stato, che ha inizio nella seconda
metà dell'Ottocento e dura per tutto il secolo successivo, è
caratterizzata da una massiccia espansione e diversificazione dei
suoi compiti che si manifesta anche in una imponente crescita, e
crescente complessità, della sua organizzazione.
a) Aspetti dell'espansione
Da un punto di vista concettuale, l'espansione dello Stato
presuppone che esso si sia consolidato dal punto di vista
territoriale, e che per questo la sua attività politica possa
rivolgersi, oltre che a interessi di potenza relativi alla
salvaguardia di quel territorio (o all'acquisto di possessi
coloniali) e all'elaborazione istituzionale caratterizzata qui sopra
come razionalizzazione del dominio, all'individuazione di nuovi
temi, di nuovi obiettivi dell'azione statale. Questo processo ha
vari aspetti, che si possono sintetizzare come segue. Innanzitutto
lo Stato si rapporta a molte attività sociali non più soltanto o
prevalentemente disciplinandole istituzionalmente tramite la
legislazione e la giurisdizione, o altrimenti affidandole a soggetti
privati, individuali o collettivi, che le conducono autonomamente,
interagendo gli uni con gli altri nella ricerca dei propri
interessi. Sempre più, invece, lo Stato si riserva di intervenire su
quei campi di attività, correggendo le direzioni in cui le
indirizzano le interazioni tra soggetti privati, o addirittura si
riserva di gestire a proprio titolo le attività in questione,
affiancandosi ai soggetti privati, sostituendoli, o programmando,
finanziando e variamente orientando le loro iniziative. Inoltre lo
Stato si fa direttamente carico di nuove attività, ampliando
drasticamente - a lungo andare - il novero di quelle di cui si era
sempre investito come parte della propria esclusiva missione
istituzionale.Queste tendenze producono una modificazione profonda e
forse irreversibile (sia questo ragione di rammarico o di
compiacimento) nei rapporti tra Stato e società così come essi si
erano configurati nella fase precedente. Le manifestazioni più
vistose sono il moltiplicarsi delle articolazioni organizzative
dello Stato (comprese quelle a livello locale), la loro
diversificazione, l'accrescimento nel numero dei dipendenti statali
(o dipendenti pubblici d'altro genere), l'accresciuta incidenza
della spesa pubblica e del prelievo fiscale.
b) Cause dell'espansione
Quale dinamica sospinge questo processo? Le risposte più
significative si possono dividere in due grandi gruppi, a seconda
che privilegino, per così dire, l'uno o l'altro versante del
dualismo 'Stato'/'società'.
Sul versante Stato. - Entro il primo gruppo si possono ulteriormente
distinguere due risposte. La prima mette in risalto il ruolo svolto
non tanto dallo Stato in quanto tale, come complesso di istituzioni
che accumulano e gestiscono il potere politico, quanto dalla
politica. Come si è accennato sopra, a un certo punto lo Stato
territorialmente consolidato e razionalizzato si è posto in un
rapporto storicamente nuovo con la popolazione, rapporto che ne ha
inizialmente coinvolto solo gli strati superiori, e specialmente i
gruppi alfabetizzati, proprietari, inurbati. La popolazione ha
cominciato a essere vista (dai ceti intellettuali, o da élites
politiche alla ricerca di nuova legittimazione) come un soggetto
unitario - concepito talora come popolo, talora come nazione - di
cui lo Stato, anche quando ha un passato autoritario e dinastico,
costituisce lo strumento politico, investito di una missione di
potenza nei rapporti internazionali, ma anche della gestione dello
sviluppo interno della società.
L'affermarsi di istituzioni statali liberali e poi democratiche ha
conferito qualche credibilità a questa concezione, ma al contempo
l'ha resa contestabile. L'istituzione della rappresentanza, in
particolare, divide la parte della popolazione in possesso
dell'elettorato attivo e passivo dal resto della popolazione:
inoltre divide anche la prima parte in due tronconi contrapposti,
una maggioranza e delle minoranze. Insomma, alla politica non si
prende parte se non prendendo partito (anche se per parecchio tempo
quest'ultima espressione non si riferisce al partito politico
organizzato tipico dell'ultimo secolo). Assai presto, entro i regimi
liberali, l'allargamento del suffragio diventa un tema ricorrente e
centrale della politica interna, progressivamente democratizzando
quei regimi. Secondo la tesi di T.H. Marshall, ciò a sua volta
induce l'espansione secolare del contenuto della cittadinanza; i
partiti che fanno propri gli interessi degli strati subalterni, per
correggere gli svantaggi cui la loro condizione di classe li espone
sul mercato, quando diventano maggioranza legittimano le pretese dei
cittadini a bona sempre più numerosi e diversi che, attraverso vari
meccanismi, lo Stato mette a loro disposizione (v. Marshall, 1963).
È (anche) per affrontare questa missione egualizzante - che, a
partire da un certo punto, diventa una dimensione significativa
della 'costruzione della nazione' come base costituente dello Stato
stesso e sede ultima della sovranità - che lo Stato, come si è
visto, cresce e si differenzia dal punto di vista organizzativo, si
impegna nella gestione di attività sociali sempre più disparate,
'estrae' dal sistema economico e gestisce secondo criteri politici
una porzione crescente del prodotto nazionale, e così via. In altre
parole, la democratizzazione del processo politico induce la
formazione dello Stato assistenziale, che è a sua volta un aspetto
centrale dell'espansione dello Stato.
Ma questa ha anche altre determinanti, e si manifesta, per quanto in
misura relativamente ridotta rispetto alle forme che assume nel
tardo Ottocento e nel Novecento, anche entro Stati dove la
'politica' intesa come confronto concorrenziale tra partiti e tra
concezioni contrastanti dei compiti dello Stato non è (ancora)
presente. Ad esempio, alcuni Stati germanici settecenteschi in cui
non esisteva una sfera pubblica entro cui potessero confrontarsi
partiti e concezioni, e dove la popolazione era composta
essenzialmente da sudditi, avviarono, sussumendole sotto il concetto
di Polizei, alcune forme avanzate di intervento nella vita sociale e
di gestione degli affari economici. In ogni caso le manifestazioni
più massicce di espansione dello Stato hanno avuto poco a che vedere
con lo Stato assistenziale e la dinamica dei regimi
liberaldemocratici. Un quantum di espansione così avanzato da far
venire meno quasi del tutto la linea di demarcazione tra Stato e
società (il che significa, dal punto di vista concettuale, il venir
meno di entrambi) si registra, nel XX secolo, con i totalitarismi
nazista e staliniano, che sopprimono la politica intesa come
confronto pubblico, a esito contingente, tra dirigenze potenziali in
competizione e tra modi diversi di impostare l'azione statale. In
essi apparati amministrativi e giudiziari apparentemente simili a
quelli degli Stati liberaldemocratici sono strettamente subordinati
a una struttura di potere - il partito - che riserva a se stessa (ed
entro se stessa a una dirigenza inamovibile, che si rinnova solo per
cooptazione, e che culmina in un singolo capo onnipotente) ogni
iniziativa politica, e la orienta secondo un progetto di natura
metapolitica, sottratto a ogni critica e a ogni alternativa, che
richiede più o meno espressamente la realizzazione, in capo a quella
struttura, di una sorta di dominio universale. La ricerca di questo
obiettivo comporta necessariamente un ricorso particolarmente
frequente e brutale a mezzi coercitivi, sia nei rapporti interni a
un determinato sistema totalitario che nei rapporti con altri
sistemi.
La seconda risposta concorda con la prima nell'attribuire
precipuamente allo Stato, invece che alla società, l'iniziativa
della sua espansione, ma ne accentua determinanti diverse dal
processo politico. In primo luogo la persistente tematica della
guerra, che nel corso del Novecento ha più volte, ma soprattutto in
occasione dei due conflitti mondiali, accelerato il processo di
coinvolgimento dello Stato nella gestione degli affari sociali in
generale, la crescita del prelievo fiscale, e così via. In seguito
anche la 'guerra fredda' ha probabilmente favorito l'accentuato
sviluppo dello Stato assistenziale, nonché forme di partnership tra
governi e grandi forze produttive nella promozione dello sviluppo
tecnologico/industriale (v. Maraffi, 1981).
In secondo luogo, tutti i grandi assetti burocratici tendono a
riprodurre se stessi, a differenziarsi internamente, ad ampliare i
propri organici, ad assorbire risorse crescenti, ad accrescere i
propri margini di discrezionalità. Questa tendenza è comune alle
burocrazie private e a quelle pubbliche, ma in queste ultime si
sottrae più facilmente (quanto meno a breve/medio termine) alla
disciplina imposta dal mercato, alla considerazione di impieghi
alternativi delle risorse, alla verifica dell'efficienza, al
controllo esercitato da chi le istituisce, alla responsabilità di
chi le gestisce. Inoltre, l'apparato amministrativo pubblico si è
ampliato perché ha offerto delle 'nicchie' e delle posizioni di
rendita a nuove professioni a cui il mercato nega ricompense e
riconoscimenti pari a quelli che si attende chi le pratica. In ogni
caso, mentre, come si è visto, secondo i principî liberaldemocratici
la matrice delle politiche è la politica, intesa come confronto tra
dirigenze e tra impostazioni dell'azione statale che concorrono per
assicurarsi il pubblico consenso, in realtà le politiche sono in
misura crescente il risultato di aggiustamenti tra gli interessi
propri di enti amministrativi sempre più numerosi, massicci, e in
buona parte autonomi rispetto alla stessa dirigenza politica.
Sul versante società. - Quanto alle interpretazioni dell'espansione
dello Stato che danno risalto agli impulsi provenienti dalla
società, se ne possono daccapo distinguere due, anche se forse la
distinzione ha più a che vedere con diversi livelli di analisi che
con processi causali effettivamente indipendenti. Secondo la prima
interpretazione, l'espansione è essenzialmente una risposta
strutturale al bisogno sempre più acuto di coordinamento, di
gestione delle interdipendenze, di allestimento consapevole delle
risorse, che è proprio di società sempre più complesse come quelle
industriali e postindustriali. Le spese crescenti dello Stato nel
settore dell'istruzione e della ricerca, ad esempio, si dovrebbero
precipuamente al fatto che le economie avanzate hanno un crescente
bisogno di conoscenze e di qualifiche professionali, ma per vari
motivi i relativi investimenti non possono essere ragionevolmente
affrontati dalle forze economiche private. La seconda
interpretazione disaggrega questa presunta domanda di gestione
pubblica degli affari societari, e considera l'espansione statale
come una risposta alle richieste diverse e spesso contrastanti
portate avanti, spesso attraverso forme subdole di pressione e
d'influenza, da molteplici ed esigenti forze sociali, d'accordo solo
nel cercare di accollare allo Stato l'apprestamento e la gestione
delle risorse necessarie per far fronte a quelle esigenze. Proprio
per via della molteplicità, urgenza, diversità e contraddittorietà
di queste richieste, il loro soddisfacimento (per quanto parziale e
temporaneo) non può non indurre l'espansione dello Stato.
7. La crisi contemporanea dello Stato
Con le considerazioni appena svolte ci siamo affacciati sulla
tematica, assai discussa verso la fine del Novecento, della 'crisi
dello Stato'. In effetti essa accompagna, per così dire, l'intero
secolo - uno scritto del costituzionalista S. Romano dedicato alla
crisi dello Stato è precedente alla prima guerra mondiale (v.
Romano, 1969). Decenni più tardi, la discussione - mai del tutto
sopita, in Italia e altrove - è stata ravvivata dalla fine di un
periodo abbastanza prolungato (i cosiddetti 'trent'anni gloriosi'
successivi alla seconda guerra mondiale) in cui sembrava che un
nuovo equilibrio si fosse stabilito, nei paesi occidentali, tra lo
Stato come complesso di istituzioni investite del potere politico e
le unità sociali (precipuamente le corporations industriali e altri
tipi d'impresa, e - in misura assai minore - i sindacati) che
esercitano il potere economico (v. Shonfield, 1965).Si noti che
questo stesso periodo ha visto anche un apparente trionfo dello
Stato; dopo la seconda guerra mondiale, in seguito alla
decolonizzazione dell'Asia e dell'Africa, l'esercizio del dominio su
praticamente tutte le zone abitabili del globo e sulle acque
territoriali adiacenti è diventato compito di una pluralità di enti
politici che si chiamano - in questa o quella lingua - 'Stati',
possiedono o affermano di avere gli attributi formali di uno Stato,
in quanto tali fanno parte o aspirano a far parte
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, e in linea di principio si
rapportano gli uni agli altri secondo certe regole di condotta
originariamente elaborate da e per gli Stati europei. Ma proprio
questo apparente trionfo è considerato da alcuni come una ragione o
un aspetto della crisi dello Stato in quanto modalità altamente
istituzionalizzata della costituzione e gestione del dominio
pubblico.
a) Carenza di Stato
Per schematizzare la discussione, si possono ricondurre molte
manifestazioni della crisi dello Stato a due 'sindromi' fondamentali
e contrapposte: da una parte la carenza di Stato, dall'altra
l'eccesso di Stato. Per comprendere la prima, basta ricordare che,
come detto sopra, si dà Stato se e in quanto gli individui, nella
sfera politica, si fanno effettivamente vincolare e orientare da
certi principî, certe aspettative. Per cominciare a esistere,
dunque, lo Stato deve sovrapporre i modi a sé propri di costituire,
organizzare, esercitare il dominio politico, a modi diversi
preesistenti; deve quindi superare l'inerzia di quei modi e
soppiantare pratiche altrimenti vincolate e orientate. Inoltre, per
continuare a esistere, deve superare una sorta di entropia che
affligge tutti i complessi istituzionali, e imporre insistentemente
le proprie regole nei confronti di altre che cercano di affermarsi o
di riaffermarsi. Ciò non richiede che le regole statuali debbano
valere sempre e dappertutto, ma richiede che normalmente la
conformità con esse venga riconosciuta e ricompensata (o quanto meno
non esponga a punizioni chi le segue), che pratiche non conformi
vengano per lo più rilevate e sanzionate, che regole contrarie non
si affermino pubblicamente, frequentemente e in ampia misura, come
più valide ed efficaci. Ma soddisfare questo requisito non è
semplice. In primo luogo, le pratiche politiche e amministrative
specificamente statuali possono stentare a istituzionalizzarsi
perché mancano di credibilità morale.
Ad esempio, il divieto ai funzionari di promuovere i propri
interessi privati nei loro atti d'ufficio e di favorire cittadini a
cui siano legati da appartenenze particolari può contraddire costumi
fortemente radicati nella cultura locale, appartenenze e dipendenze
strutturate da gerarchie sociali consolidate, o sentiti rapporti di
reciprocità interindividuale. In secondo luogo, l'effettiva
istituzionalizzazione di pratiche espressamente statuali può essere
impedita non (più) dal peso residuale delle culture tradizionali, ma
da certi aspetti della dinamica specifica delle società
contemporanee - ad esempio, dall'accentuata anomia, da un
indebolimento dell'appartenenza e del senso di obbligazione nella
determinazione dell'identità individuale e delle strategie che
l'affermano. Il neocomunitarismo, una corrente di pensiero sociale
emersa negli Stati Uniti negli anni ottanta, ha messo
particolarmente in risalto l'indebolimento delle strutture politiche
risultante da questi fenomeni (v. Selznick, 1992). Inoltre, il ritmo
col quale nelle società contemporanee aumenta la complessità e
cambiano le tecniche materiali e organizzative, i bisogni, i
contenuti culturali, è così accelerato da mettere continuamente in
mora lo Stato, vanificando la sua pretesa di 'normare', coordinare,
controllare tutto coi suoi specifici strumenti di sorveglianza e di
intervento - e di fare ciò da un singolo centro, in maniera il più
possibile uniforme e prevedibile.
Alla fine del Novecento la 'carenza di Stato', cioè l'insufficiente
statualizzazione del dominio politico, si rivela non soltanto in
paesi in cui lo Stato è recente e 'importato' (v. Badie, 1992), ma
anche in paesi europei e occidentali, dove sembrano compromessi
alcuni dei successi che lo Stato aveva da lungo tempo registrato. Ad
esempio, nei paesi dell'Europa orientale, gli eventi successivi al
1989 mettono in forse gli assetti territoriali prodotti dalla
seconda guerra mondiale, mentre in altre parti del mondo i
pluralismi etnici - paradossalmente, proprio nel tentativo di
costruire Stati omogenei dal punto di vista etnico - producono una
frammentazione territoriale accentuata, invertendo la tendenza alla
diminuzione del numero delle unità politiche territoriali tramite
l'accorpamento geografico.
Inoltre, gli Stati territoriali e nazionali si vedono sottrarre
competenze e risorse sia da nuovi enti politici sovranazionali che
da enti politico-amministrativi infranazionali. Anche in Stati
territorialmente solidi il monopolio statale della violenza
legittima organizzata perde di significato, laddove i governi e le
'forze dell'ordine' di fatto non riescono (o addirittura rinunziano,
magari copertamente) a interdire a individui e gruppi privati il
ricorso non saltuario ma organizzato alla violenza armata, a gestire
e custodire l'ordine pubblico sul territorio, a garantire
l'incolumità fisica dei cittadini. La lentezza con cui i sistemi
giudiziari si pronunziano su controversie civili equivale spesso a
un diniego di giustizia, e l'amministrazione della giustizia penale
si fa sempre più caotica e arbitraria. I costosi e complessi
apparati amministrativi pubblici si dimostrano incapaci di rilevare
le mutevoli e diverse esigenze di molteplici gruppi sociali, di
intervenire nel processo sociale in maniera illuminata ed efficace
(v. Caplow, 1994).
b) Eccesso di Stato
Malgrado queste molteplici e vistose manifestazioni di una carenza
di Stato, secondo altre critiche di Stato, per così dire, ce n'è
troppo, ed esso è diventato eccessivamente mastodontico e invadente.
Le due critiche, per quanto contrastanti, si compongono spesso
nell'argomento che proprio l''eccesso di Stato' causa la sua carenza
per quanto concerne i suoi compiti istituzionali primari,
coinvolgendolo in compiti sempre nuovi e diversi, che sarebbe meglio
lasciare al mercato o ad altri aspetti e momenti della società
civile. In talune versioni - ad esempio quella fatta propria dalla
cosiddetta Commissione Trilaterale negli anni settanta - questa
critica si accompagna all'argomento secondo cui le sollecitazioni
provenienti da una sfera della 'politica' affollata e tumultuosa
fanno carico allo Stato del soddisfacimento di molteplici richieste,
smodate e contraddittorie; in questo modo la richiesta di un ritorno
dello Stato ai suoi compiti primari che lo sottragga al
'sovraccarico' (overload) si accompagna a una più sommessa, perché
più controversa, critica all'eccessiva democratizzazione dei
processi di formazione delle politiche pubbliche (v. Crozier, 1975).
In tal modo la tesi della 'fine della politica' si aggiunge, verso
la fine del secolo, a quella della 'crisi dello Stato'.
Eppure da alcuni decenni - quanto meno secondo altri critici (v.
Habermas, 1973) - l'espansione dello Stato aveva luogo in un
ambiente sociale sempre più depoliticizzato, in cui le richieste
sociali più imperiose ed esigenti provenivano da interessi
settoriali organizzati invece che dalla cittadinanza in quanto tale,
e la loro conversione in decisioni aveva luogo prevalentemente fuori
della sfera pubblica. Ciò si doveva, a sua volta, al divario sempre
maggiore tra le poche ed esili strutture ufficiali di input a
disposizione dei cittadini in quanto tali (il processo elettorale,
la rappresentanza) e le strutture di output, moltiplicate e
rafforzate da (e in vista de) l'espansione dello Stato. Questo
divario porta all'intervento massiccio nel processo decisionale di
organizzazioni che rappresentano interessi privati, e che si valgono
del loro potere soprattutto economico per influenzare quel processo,
gestito dagli enti amministrativi in maniera sempre più autonoma
rispetto alla stessa rappresentanza politica e alla dirigenza
governativa che l'esprime. In misura minore, quasi a correzione di
tale intervento, quel divario occasionalmente induce imprenditori
politici a formare movimenti sociali per lo più di breve durata e di
portata minore, che si appellano direttamente a interessi vivamente
sentiti da certi settori della cittadinanza ma trascurati dalle
strutture decisionali ufficiali.
c) Altri aspetti della crisi
Altri aspetti della crisi dello Stato fanno pensare a una
contraddizione tra alcuni legati istituzionali di quella che abbiamo
chiamato la fase della razionalizzazione del dominio e la successiva
tendenza all'espansione dello Stato. La razionalizzazione era tutta
intesa a costruire e garantire l'unità dello Stato, strutturandolo
(si è visto) come un insieme piramidale di organi e uffici, le cui
attività (quanto meno nei paesi del continente europeo) dovevano
ispirarsi principalmente al sapere giuridico, che a sua volta aveva
come referente il diritto come sistema unitario. La moltiplicazione
e specializzazione di organi e uffici che l'espansione dello Stato
comporta (e che a sua volta induce quell'espansione) ne fa un
insieme sempre più diversificato, disarticolato e frammentato, che
gli organi politici non riescono a controllare in maniera uniforme e
unitaria, e che a sua volta non può costituire per la società civile
la fonte di un controllo sociale coerente e unitario, ma tende a
isolarsi da essa, a ricevere molti dei suoi impulsi da interessi e
da contrasti interni. L'ordinamento giuridico stesso rivela una
tendenza alla proliferazione e alla frammentazione, dovute in molti
casi a un eccesso di legislazione o comunque di produzione
giuridica, spesso in risposta a esigenze contraddittorie e
transeunti. Inoltre la logica che tradizionalmente presiedeva
all'esecuzione amministrativa delle norme (non molto diversa, come
si è accennato, da quella della loro applicazione giudiziaria) si
rivela tanto più inadeguata quanto più si fanno contingenti e
mutevoli le opportunità e le necessità dell'ambiente in cui si
chiede alle unità amministrative di gestire complesse attività
sociali, di generare risorse invece che 'estrarre' e amministrare
quelle esistenti (v. Forsthoff, 1964).
La concezione del processo di formazione del bilancio statale fatta
propria da molte costituzioni vigenti, ad esempio, è divenuta sempre
meno compatibile con le esigenze dell'ambiente economico-finanziario
in cui lo Stato opera, e le relative pratiche; secondo un autore
francese, "questo scarto tra le regole sintattiche proprie della
procedura legale e le regole sintattiche proprie della descrizione
delle attività concrete ingenera quei 'vincoli contraddittori' di
cui parlano volentieri gli stessi protagonisti di quella procedura".
Ne risulta che si è costretti a scegliere "tra fare cose efficaci e
non legali e fare cose legali e non efficaci" (v. Théret, 1995).In
base a questa osservazione e altre simili, secondo alcuni autori la
natura stessa del diritto come complesso di aspettative normative,
le quali cioè in presenza di stati di fatto che le contraddicono non
si modificano ma si riasseriscono tramite la sanzione - lex vetat
fieri, sed si factum sit non rescindit, poenam infert ei qui fecit
-, gli impedisce di svolgere nella società contemporanea una
funzione centrale, che spetta invece a complessi di aspettative
conoscitive e in particolare scientifiche. E in effetti le
amministrazioni pubbliche ricorrono sempre più a saperi scientifici
di carattere non giuridico: i saperi relativi all'economia e al
management, all'accertamento e alla manipolazione dell'opinione
pubblica, alla tutela dell'ambiente naturale, alla formazione delle
politiche pubbliche, alla gestione delle risorse umane e così via.
Questo ricorso, dove ha avuto luogo seriamente, ha avuto importanti
esiti positivi. Ma presenta anche aspetti problematici, per due
ragioni. In primo luogo, lo statuto scientifico dei saperi in
questione è talora alquanto dubbio: i loro principî metodologici e
sostantivi sono oggetto di serie dispute, subiscono a volte
inquietanti 'cambiamenti di moda', e sono talora fortemente sospetti
di servire da copertura ideologica a interessi settoriali. In
secondo luogo, anche a prescindere da questo, il rapporto tra i vari
saperi importati nella sfera politico-amministrativa per affiancare
o sostituire il sapere giuridico è controverso e instabile: i
relativi linguaggi non sono traducibili l'uno nell'altro, le
priorità che i vari saperi suggeriscono nella scelta tra strategie
amministrative alternative sono spesso incompatibili, e non esiste
un 'sapere sui saperi' che li componga in un sistema con lo stesso
grado di unitarietà e di omogeneità che a suo tempo possedeva il
sistema giuridico (v. Self, 1976). In sostanza, rimane inattendibile
quel progetto tecnocratico che in varie forme, da circa due secoli
(v. Schluchter, 1972), riserva agli 'esperti' la gestione della cosa
pubblica, e affida a processi di natura propriamente politica, come
la rappresentanza e il confronto d'opinione, il compito, al più, di
legittimare decisioni altrimenti raggiunte. In certi casi proprio il
richiamo all'autorità della scienza legittima scelte prodotte
principalmente dai rapporti di potere tra interessi settoriali in
contrasto, sia interni che esterni all'apparato statale.
Crisi della territorialità. - Come si è visto, lo Stato si è
affermato storicamente tramite la costruzione di ambiti spaziali
relativamente ampi, nettamente delimitati, esternamente difendibili,
internamente pacificati e sottoposti a un'unica giurisdizione,
amministrati in maniera più o meno uniforme; la sua identità
iniziale è stata culturalmente definita con riferimento al
territorio; anche quella successivamente fornita dal riferimento
alla nazione (il monarca francese a un certo punto cessa di
chiamarsi roi de France e si chiama roi des Français) generalmente
ha mantenuto un forte rapporto col territorio. Questo rapporto viene
problematizzato da alcuni fenomeni contemporanei, come la mobilità
geografica delle popolazioni (improvvisamente acceleratasi negli
ultimi decenni), l'accresciuta importanza di processi di
comunicazione che superano i confini tra gli Stati e di insiemi di
pratiche - come quelle relative al commercio e alla scienza - che
hanno una vocazione cosmopolita, l'emergere delle tematiche
ecologiche. Queste, in particolare, indicano che non è il territorio
che, per così dire, conta meno - i problemi relativi all'esaurimento
delle risorse naturali, all'inquinamento, o alla congestione urbana
hanno un intrinseco riferimento territoriale - ma è in forse la
commensurabilità tra il territorio statale e la correlativa pretesa
di gestirlo in maniera unitaria da una parte, e dall'altra gli spazi
in cui i fenomeni in questione si manifestano. Spesso, ad esempio,
processi che si svolgono fuori del territorio di uno Stato
determinano, entro quel territorio, l'inquinamento e il
depauperamento delle sue risorse. Inoltre, gli sviluppi della
tecnica militare, e specialmente l'avvento della guerra aerea (e più
che mai dei missili intercontinentali dotati di testate
termonucleari), hanno messo in forse il concetto stesso di
territorio inteso come spazio difendibile. Un effetto simile si può
forse rilevare nel terrorismo internazionale.Crisi della sovranità.
- Un altro aspetto centrale della figura istituzionale dello Stato -
la sua sovranità - è egualmente messo in forse da vari sviluppi
contemporanei. Questa tematica ha due versanti: uno concerne il
rapporto tra lo Stato e le forze sociali di vario genere che operano
sul territorio, l'altro il rapporto tra Stati.
Per quanto concerne il primo versante, è assai controverso se lo
Stato contemporaneo abbia mantenuto la sua capacità di porsi come
unica sede istituzionale del dominio pubblico, che in quanto tale
sovrasta e disciplina le parti sociali. Per quanto concerne il
secondo, invece, non è controverso che alcuni Stati-nazione abbiano
progressivamente rinunziato a certi aspetti della loro sovranità,
demandandone l'esercizio a un nuovo ente politico non-statuale, a
base non nazionale. Di conseguenza numerosi e importanti rapporti
tra uno Stato e un altro sono gestiti da loro non più direttamente,
faccia a faccia, ma mediante la comune appartenenza al nuovo ente
politico e con la mediazione, e se necessario, la sanzione di
esso.L'Unione Europea è l'esempio più cospicuo di questo fenomeno e
di alcune contraddizioni che ne risultano. Formatasi in buona misura
per sopperire alla incapacità delle strutture statali nazionali di
allestire un ambiente giuridico-politico adatto allo sviluppo di un
grande mercato, in seguito le ha inevitabilmente indebolite, negando
agli Stati membri competenze sempre più ampie. Inoltre, le sedi
decisionali dell'Unione sono diventate l'obiettivo di una intensa
politica di pressione da parte di singole regioni e territori
infrastatuali, che aggira ed esautora gli organi centrali degli
Stati di cui fanno parte. La formazione dell'Unione Europea
corrisponde anche a un'altra intenzione politica: la rinunzia alla
guerra come strumento finale per la risoluzione di conflitti tra gli
Stati membri. Questa rinunzia - in contrasto col principio di
sovranità - non ha peraltro condotto alla formazione di una capacità
militare e di una politica della sicurezza proprie dell'Unione in
quanto tale, che anche per questa ragione non si configura come uno
Stato, nemmeno federale.
La sfida della globalizzazione. - Le tematiche della crisi della
territorialità e della crisi della sovranità dello Stato si fondono,
infine, in una ulteriore sfida allo Stato contemporaneo, dovuta alla
cosiddetta 'globalizzazione'. Come si è visto, da tempo molte
politiche statali avevano cercato di compensare la posizione di
svantaggio in cui il mercato poneva ampi strati della cittadinanza
tramite l'estensione e l'intensificazione dei diritti socioeconomici
di cittadinanza. Negli ultimi decenni del secolo si oppongono a
questa tendenza, in maniera aperta ed efficace, imprese in possesso
di capitali imponenti, e che controllano in ampia misura i processi
principali di produzione industriale, di formazione e allocazione
delle risorse finanziarie, di innovazione scientifico-tecnologica, e
di creazione e diffusione delle informazioni e dei contenuti
culturali, processi che si fanno sempre più mobili dal punto di
vista geografico. Perfino la produzione industriale, che il
cosiddetto modello fordista di organizzazione aziendale tendeva a
radicare nel territorio - esponendo le aziende all'azione di
vigilanza, di controllo e di prelievo fiscale dello Stato, nonché
all'azione rivendicativa dei sindacati, che rappresentavano una
manodopera incardinata nell'azienda in maniera relativamente stabile
-, si fa sempre più mobile, e ciò avviene su una scala geografica
che abbraccia potenzialmente non soltanto località diverse entro la
stessa regione o nazione, ma varie nazioni o addirittura vari
continenti.
Questo vale ancor più per altri processi economici - come quelli
relativi alla formazione delle imprese, al finanziamento delle
attività industriali, alle decisioni sugli investimenti - che
costituiscono un aspetto sempre più importante del sistema economico
nel suo insieme, e impiegano tecnologie sempre più avanzate di
comunicazione, di creazione e di spostamento dei valori economici,
che le grandi imprese gestiscono autonomamente. In tal modo esse
possono operare su scala mondiale, in maniera sempre più rapida e
mobile, e sottrarsi a forme politiche di verifica e di controllo.
Molte grandi imprese impegnate in queste e altre attività economiche
e finanziarie 'di punta' si sono rese sostanzialmente
extraterritoriali; anche le controversie tra di esse vengono
generalmente risolte da arbitrati di carattere formalmente privato,
non disciplinati, nella forma e nella sostanza, dalla legislazione
di alcuno Stato. Quindi nell'economia contemporanea grandi flussi di
ricchezze si formano, si spostano e si dileguano entro spazi invero
'globali', con effetti rapidi e talora pesanti sui livelli
d'occupazione dei vari Stati, sulle loro entrate fiscali, sulla loro
capacità di programmare e gestire le proprie attività, di generare
consenso politico (v. Galgano e altri, 1993). Questo permette alle
grandi imprese internazionali di negoziare quegli effetti con gli
Stati stessi da una posizione di vantaggio (direttamente o tramite
grandi centri decisionali come le banche centrali o gli enti
finanziari internazionali), chiedendo che le politiche di quegli
Stati favoriscano le loro esigenze e rispettino le loro preferenze.
Naturalmente gli Stati non sono del tutto privi di risorse da
investire in quelle negoziazioni; dopo tutto, le attività produttive
continuano ad avere bisogno di una base territoriale, per quanto
esigua e mobile, e dal punto di vista quantitativo predominano
tuttora le attività condotte da unità economiche che operano entro
questo o quel territorio nazionale. Inoltre, sotto vari rispetti i
processi produttivi richiedono tuttora l'attivo supporto degli
Stati, che possono in qualche misura condizionarlo al riconoscimento
delle proprie esigenze; ciò vale soprattutto per paesi in via di
forte sviluppo, come quelli asiatici, dove gli Stati continuano a
svolgere un ruolo economico particolarmente attivo, e a orientarlo a
obiettivi di carattere espressamente politico. Nel complesso però
c'è un serio sfasamento tra gli spazi operativi degli Stati, tuttora
delimitati dai rispettivi territori, e quelli in cui si svolgono,
come si è detto, processi economici fondamentali, i cui protagonisti
sono imprese interessate a diminuire l'incidenza delle attività
statali sulle proprie, o a indirizzarle al perseguimento dei propri
interessi. È vero che gli Stati possono costituire enti politici che
operano su spazi più vasti, come l'Unione Europea. Ma le iniziative
di quest'ultima rivelano l'influenza di dottrine che considerano
futili o dannosi i tentativi di gestire e regolare politicamente i
processi economici, e di circostanze che accentuano la minaccia
concorrenziale, vera o presunta, rappresentata da economie più
dinamiche in altre parti del mondo.Alla fine del XX secolo lo Stato
si trova dunque esposto a numerosi fenomeni che minacciano di
esautorarlo, disarticolarlo, privarlo di risorse, e gli impongono di
invertire o quanto meno arrestare la tendenza secolare alla crescita
organizzativa e all'ampliamento dei suoi compiti.
Come si è più volte accennato, questa tendenza si doveva in parte al
fatto che in linea di principio, quanto meno nello Stato
liberaldemocratico, la matrice delle politiche è la politica, intesa
come pubblico confronto di opinioni entro la cittadinanza. Ma quel
principio aveva da tempo perso credibilità, e questo contribuiva a
rendere lo Stato sempre più controverso, ad appannare la sua
'immagine'. Ciò significa che lo Stato contemporaneo è costretto a
fare i conti coi suoi detrattori senza potersi plausibilmente
appellare alla politica come attività pubblica, critica, consapevole
dei cittadini, che troppo a lungo lo Stato stesso ha considerato
precipuamente come contribuenti e/o come beneficiari, a titolo
privato, delle proprie attività. La persistente anche se velata
disattivazione politica della cittadinanza - ad opera a dire il vero
non soltanto dello Stato, ma anche dei media e dei partiti politici
- si ritorce contro lo Stato stesso. Il potere economico, avendo
denunciato l'accordo che aveva pattuito col potere politico in
Occidente nei quattro decenni successivi alla seconda guerra
mondiale, è più che mai intenzionato a perseguire la sua vocazione
cosmopolita e a cercare di imporre su scala mondiale la propria
superiorità sul potere politico.
Stato federale
di Lucio Levi
Sommario: 1. Federazione e confederazione. Le forme del processo
federativo. 2. Definizione di Stato federale. 3. Caratteristiche
istituzionali dello Stato federale: a) la questione della sovranità;
b) federalismo fiscale; c) dal federalismo duale a quello
cooperativo; d) una nuova forma di Stato e una nuova forma di
organizzazione internazionale; e) il bicameralismo e la struttura
dell'esecutivo; f) la magistratura e il potere di revisione
costituzionale delle leggi; g) l'autonomia della banca centrale e
l'autogoverno locale. 4. La novità della federazione europea: un
patto federale tra Stati nazionali. □ Bibliografia.
1. Federazione e confederazione. Le forme del processo federativo
In passato, e in un passato remoto che risale all'antichità, le
città-Stato del Medio Oriente e della Grecia, successivamente nel
Medioevo i principati del Sacro Romano Impero, i cantoni della
Svizzera e i Comuni italiani, infine nell'età moderna la Repubblica
del Regno di Polonia e le Province Unite dei Paesi Bassi avevano
formato unioni politiche o leghe, alle quali spesso era stato dato
il nome di federazioni o di confederazioni. I due termini erano
considerati equivalenti. Hanno cominciato a distinguersi a seguito
della formazione degli Stati Uniti d'America, che diede vita a un
governo indipendente al di sopra degli Stati, e questo ha assunto il
nome di governo federale, mentre le leghe di Stati (nelle quali il
governo dell'Unione era subordinato agli Stati) hanno assunto il
nome di confederazioni.
Tuttavia, quando nel 1787 fu approvata la Costituzione degli Stati
Uniti, e successivamente nel dibattito per la sua ratifica, la nuova
forma di Stato non era ancora designata con una parola specifica.
Nella Costituzione è definita con una formula vaga: "più perfetta
Unione". Anche il Federalist, il libro che raccoglie gli articoli,
pubblicati da Hamilton, Jay e Madison sui giornali di New York per
sostenere la ratifica della Costituzione degli Stati Uniti, e che
contiene un'analisi delle organizzazioni internazionali fondata
sulla distinzione tra federazione e confederazione (v. Federalismo),
non è esente da confusione e da ambiguità terminologica. Anzi, le
parole federazione e confederazione sono usate in modo promiscuo.Non
furono quindi i padri fondatori a coniare il termine che definiva la
nuova forma di Stato. Essa non fu il risultato di un piano
preordinato, ma del compromesso tra gruppi politici che volevano
qualcosa di diverso dalla federazione.
Di conseguenza, dopo che la Costituzione era entrata in vigore,
l'esigenza di un uso univoco del linguaggio impose la consuetudine
di designare con la parola federazione il nuovo Stato. Da allora in
poi divenne possibile riconoscere che la Costituzione aveva dato
origine a uno Stato, la cui novità consisteva nel fatto che non
eliminava l'indipendenza degli Stati membri. La federazione è
infatti, secondo la definizione che ne dà Hamilton, "un'associazione
di due o più Stati in un unico Stato" (v. Hamilton e altri,
1787-1788; tr. it., p. 188). Questa forma di Stato assunse il nome
di federazione anche per l'influenza esercitata dal Federalist, che
costituiva il primo commento della Costituzione, mentre si consolidò
l'uso di designare con il nome di Confederazione la vecchia forma di
organizzazione, la lega permanente tra gli Stati.D'altra parte, è da
ricordare che l'indipendenza non fu proclamata separatamente dalle
tredici colonie, ma dalla loro associazione, il Congresso
continentale, a nome degli Stati Uniti d'America. Il Congresso fu
poi istituzionalizzato dagli Articles of Confederation, che
regolavano l'organizzazione dei tredici Stati indipendenti, i quali
continuavano a chiamarsi Stati Uniti d'America. Lo stesso nome fu
mantenuto dalla Costituzione approvata a Filadelfia nel 1787.
Analogamente l'organizzazione dei cantoni svizzeri, denominata
'Confederazione', mantenne lo stesso nome anche dopo l'adozione
della Costituzione federale nel 1848.
Ciò mostra come le nuove istituzioni abbiano continuato a essere
chiamate con il nome delle vecchie. In altri termini, i nomi Stati
Uniti d'America e Confederazione elvetica sono stati utilizzati per
designare due diverse forme di organizzazione politica, che si sono
succedute nel corso del tempo sullo stesso territorio. La
propensione a usare vecchie parole e vecchi schemi concettuali per
designare nuovi fenomeni è la prova della difficoltà che incontra la
mente umana nel percepire il nuovo al suo primo apparire nella
storia.Talvolta a questa tendenza naturale, che è espressione del
lento procedere della conoscenza, si associa un calcolo politico di
carattere conservatore, che tende a occultare, attraverso la
manipolazione del linguaggio, i cambiamenti avvenuti nelle forme di
organizzazione politica, allo scopo di renderli più accettabili.I
processi federativi, cioè i processi che portano alla costituzione
di Stati federali, possono assumere tre diverse forme.
La prima è l'unificazione federale di un insieme di Stati
indipendenti. I primi Stati federali della storia, gli Stati Uniti
d'America e la Confederazione elvetica, si sono formati in questo
modo, cioè attraverso la trasformazione di un'unione confederale di
Stati sovrani in Stato federale.In secondo luogo, uno Stato federale
può costituirsi attraverso la ridistribuzione del potere e la
formazione di comunità autonome nell'ambito di uno Stato unitario.
La Costituzione belga del 1994 ha questo carattere.
Esiste una terza forma del processo federativo: l'acquisizione della
forma federale nel momento della costituzione dello Stato. Così sono
nate le istituzioni federali in Canada, in Australia e in India. Si
tratta, com'è noto, di Stati che si sono costituiti nel corso di un
processo di liberazione dal dominio coloniale britannico - un
processo incruento, a differenza di quello che portò
all'indipendenza degli Stati Uniti. Va sottolineato il carattere
singolare dell'evoluzione istituzionale di questi Stati. Le
Costituzioni del Canada e dell'Australia sono infatti incorporate in
leggi del Parlamento di Westminster, il che ha consentito di
perpetuare vincoli istituzionali con il Regno Unito, fino al momento
in cui queste Costituzioni sono state 'rimpatriate' (quella canadese
nel 1982 e quella australiana nel 1986). Il che significa che il
riordino delle due Costituzioni ha fatto cadere la maggior parte dei
limiti ancora esistenti al pieno esercizio della sovranità di questi
paesi. Nel caso dell'India, invece, il Parlamento britannico,
trasferendo nel 1947 i poteri della Corona e del Parlamento
britannici all'assemblea costituente, mise termine, con un netto
atto di rottura, al proprio predominio.
2. Definizione di Stato federale
Possiamo ora definire il carattere essenziale delle istituzioni
federali. Quando Hamilton affrontò il problema, ne sottolineò due
aspetti. In primo luogo, come abbiamo visto sopra, definì lo Stato
federale come "un'associazione di due o più Stati in un unico
Stato". In questo modo, egli identificò la novità delle istituzioni
federali nel carattere statuale sia dell'Unione sia dei suoi membri.
I due ordini di poteri dovevano essere quindi considerati uguali e
indipendenti ciascuno nella propria sfera.In secondo luogo, Hamilton
sottolineò il fatto che, con la Costituzione, il governo dell'Unione
aveva acquisito un potere diretto sui cittadini. Mentre nella
confederazione "la legislazione era diretta agli Stati o ai
Governi", lo Stato federale consentiva di "estendere l'autorità
dell'Unione ai singoli cittadini" (v. Hamilton e altri, 1787-1788;
tr. it., pp. 224-225). E questo era un potere che lo Stato federale
condivideva con gli Stati, perché anche questi ultimi continuavano a
esercitare il loro potere direttamente nei confronti degli
individui. Il carattere complesso dello Stato federale consiste
quindi nel fatto che esso è una comunità politica composta nello
stesso tempo da Stati e da individui.
Certo, l'acquisizione da parte del governo federale di un potere
diretto sui cittadini e, viceversa, la partecipazione diretta dei
cittadini all'elezione delle autorità federali erano stati i
cambiamenti più importanti che avevano segnato la formazione della
federazione. Tuttavia, questo requisito delle istituzioni federali
non permette di distinguere una federazione da uno Stato unitario
con autonomie regionali, in quanto anche le regioni di uno Stato
unitario decentrato hanno un potere diretto sugli individui. Però le
regioni di uno Stato unitario hanno un'autorità delegata, e di
conseguenza il governo centrale può accrescere, ma anche diminuire e
persino abolire i poteri delle regioni.
In realtà, la relazione che in uno Stato federale si instaura tra
governo federale e Stati federati non ha carattere gerarchico, ma è
una divisione di poteri "tra autorità coordinate e indipendenti",
come ha sottolineato Albert Dicey (v., 1915⁸, p. 151). In accordo
con questa concezione delle istituzioni federali, Kenneth Wheare
(v., 1946; tr. it., p. 50) ha definito il principio federale come
"quel sistema di divisione dei poteri che permette al governo
centrale e a quelli regionali di essere, ciascuno in una data sfera,
coordinati e indipendenti". In altri termini, in uno Stato federale
ogni governo è indipendente; nessun governo concentra tutti i poteri
nelle sue mani. Sia il governo federale sia i governi regionali
hanno poteri limitati, e ciascun governo è coordinato con gli altri.
Lo schema di distribuzione del potere nello Stato federale ha dunque
un duplice scopo: mantenere stabilmente l'unione tra gli Stati e
assicurare a ciascuno Stato la propria indipendenza.
In uno Stato unitario invece le regioni sono subordinate al governo
centrale e in una confederazione l'organizzazione comune è
subordinata agli Stati membri.Il limite della definizione di Wheare
consiste nel fatto che non dice nulla circa la natura del regime
politico dello Stato federale e degli Stati federati. Anche in un
impero si può formare un equilibrio di potere basato
sull'indipendenza sia del governo centrale sia delle entità
territoriali minori, ma si tratta pur sempre di una situazione di
fatto, non garantita né da limiti costituzionali né dalla
rappresentanza popolare. In realtà, non è pensabile che il delicato
equilibrio tra unione e indipendenza di un insieme di governi possa
funzionare e durare nel tempo senza procedure costituzionali di
formazione degli organi dell'unione e delle decisioni politiche e
senza partecipazione e controllo popolare. Ne consegue che sia gli
organi del governo federale sia quelli degli Stati si devono formare
secondo procedure democratiche e devono avere, ciascuno nella
propria sfera, un potere diretto sugli individui.
Se si considera questo ulteriore requisito, la definizione di Wheare
può essere riformulata nel modo seguente: il principio federale è
quel sistema di divisione del potere tra un insieme di governi
democratici che permette al governo centrale e a quelli regionali di
essere, ciascuno in una data sfera, coordinati e indipendenti.Questa
definizione dello Stato federale ha conseguenze rilevanti per quanto
riguarda la periodizzazione del federalismo. In particolare, essa
permette di considerare gli Stati Uniti d'America come l'archetipo
della forma federale e di escludere da questa categoria qualsiasi
altra precedente forma di organizzazione politica internazionale,
imperiale o di altra natura, come per esempio le leghe tra le tribù
di Israele all'epoca dei giudici o le leghe tra le città-Stato della
Grecia antica e tra i Comuni dell'Italia medievale. In questi casi e
in tutti gli altri analoghi che sono stati ipotizzati non è quindi
corretto l'uso della qualifica federale, perché le istituzioni non
hanno una struttura democratica.Naturalmente, questa definizione
delinea un modello, e i modelli si discostano sempre dalla realtà.
Di conseguenza, come suggerisce Wheare, una determinata formazione
politica concreta potrà definirsi Stato federale quando il principio
federale vi sarà applicato in misura prevalente. Quando ciò non
avviene, perché il principio federale, pur dando un'impronta
all'organizzazione complessiva delle istituzioni, subisce eccezioni
rilevanti, sarà appropriato parlare di governo e di costituzione
quasi-federale. È questo il caso dell'India, dove il Parlamento
federale ha il potere di ammettere o costituire nuovi Stati,
cambiare i confini e il nome degli Stati membri con legge ordinaria
e anche senza il consenso degli Stati federati.
3. Caratteristiche istituzionali dello Stato federale
a) La questione della sovranità
Una delle questioni più controverse connesse con la natura
dell'innovazione istituzionale che distingue le costituzioni
federali riguarda la sede della sovranità, e in particolare il
problema relativo alla divisibilità o meno della sovranità.Per
esempio, nel Federalist si sostiene la tesi che la sovranità sia
divisibile e che la costituzione federale degli Stati Uniti abbia
effettivamente realizzato la divisione della sovranità tra governo
federale e Stati membri. Altri autori, in conformità con il concetto
secondo cui il potere supremo dello Stato non deve avere rivali
entro la sua sfera di azione, affermano che la sovranità è
indivisibile o, in altri termini, che non possono coesistere più
poteri sovrani nell'ambito dello stesso Stato. Tuttavia, sulla base
del postulato, largamente condiviso, della indivisibilità della
sovranità, gli studiosi sono giunti a conclusioni opposte. Secondo
alcuni autori, per esempio Calhoun, la sovranità appartiene agli
Stati. Infatti, secondo questo autore, lo Stato federale è una
creazione degli Stati membri, i quali non rinunciano perciò alla
sovranità. Secondo altri autori, come Lucatello, la sovranità
appartiene invece al potere centrale, che la concentra nelle proprie
mani, sottraendola agli Stati membri.
Questa così profonda diversità di opinioni dipende dal fatto che,
nell'analisi delle istituzioni federali, di solito si distinguono
due soli elementi: il governo federale e i governi statali. In
realtà, come suggerisce Hans Kelsen, lo Stato federale è composto da
tre elementi: il governo federale, i governi statali e il loro
insieme, vale a dire lo Stato federale. Allora risulta chiaro che il
requisito della sovranità deve essere attribuito allo Stato
federale.Si giunge alla stessa conclusione partendo dal postulato
dell'unità e dell'indivisibilità della sovranità popolare e
considerando che in uno Stato federale il popolo ha un carattere
pluralistico, che si esprime in una duplice cittadinanza, quella
statale e quella federale. Dunque, in uno Stato federale, l'unità
della sovranità del popolo non viene meno. Essa si esprime
attraverso due centri di potere: i governi statali e il governo
federale.Come aveva affermato James Wilson nel corso della
Convenzione che si era riunita nello Stato della Pennsylvania per
ratificare la Costituzione degli Stati Uniti, "il supremo potere"
risiede "nel popolo come fonte del governo [...]. Esso può
distribuirne una parte [...] ai governi degli Stati" e "un'altra al
governo degli Stati Uniti" (J.B. McMaster e F. Stone, Pennsylvania
and the Federal Constitution. 1787-1788, 1888, pp. 316 e 302).
Questa conclusione relativa alla titolarità della sovranità è
confermata dall'esame della procedura di emendamento della
costituzione. Infatti il potere di revisione costituzionale non è
attribuito a uno specifico organo costituzionale. Se fosse stata
adottata questa soluzione, l'equilibrio federale sarebbe stato
esposto al pericolo di rottura a vantaggio di uno dei due livelli di
governo che costituiscono lo Stato federale.L'equilibrio
costituzionale di uno Stato federale richiede che il potere di
emendamento non dipenda da un'iniziativa unilaterale né del governo
federale né dei governi degli Stati, ma sia esercitato in
cooperazione dalle due autorità e la decisione sia eventualmente
confermata dal popolo tramite referendum, come avviene in Svizzera e
in Australia. Ciò significa che il potere costituente in uno Stato
federale appartiene nella sua indivisibile unità al popolo, il quale
lo esercita attraverso una decisione alla quale partecipano i poteri
legislativi federale e statali e talvolta direttamente attraverso
referendum. La procedura di emendamento prevista dalla Costituzione
tedesca è più semplice: essa richiede che si formi una maggioranza
dei due terzi dei membri dei due rami del Parlamento. Il popolo
federale vi partecipa attraverso il Bundestag, mentre i Länder vi
partecipano attraverso il Bundesrat.
È da segnalare che la procedura di revisione costituzionale in uno
Stato federale differisce da quella dello Stato unitario, nel quale
il potere di cambiare la costituzione appartiene alle autorità del
governo centrale, e da quella della confederazione, dove invece il
patto confederale può essere mutato solo con un accordo unanime
degli Stati membri.
b) Federalismo fiscale
L'indipendenza politica dei due livelli di governo di uno Stato
federale si fonda sull'attribuzione a ciascuno dell'autonomia
impositiva. Hamilton, a questo proposito, definisce un principio
generale: "Il denaro è considerato, ed a ragione, il principio
vitale di ogni corpo politico, quello che ne sostiene la vita e i
movimenti e che gli consente di adempiere alle proprie più
essenziali funzioni". Pertanto il potere sufficiente ad
assicurarsene "una quantità regolare e adeguata, per quanto lo
permettano le risorse del paese, deve essere ritenuto elemento
indispensabile di ogni costituzione". In altri termini,
l'indipendenza politica di ogni centro di potere presuppone
l'indipendenza finanziaria. Di conseguenza, un sistema federale non
può funzionare senza che si doti ogni centro di potere delle risorse
finanziarie necessarie a perseguire i propri obiettivi politici. Le
imposte e quindi le entrate "sono altrettanto indispensabili ai fini
delle amministrazioni locali quanto lo sono nei riguardi
dell'Unione" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., pp. 314 e
322).
Il federalismo fiscale presuppone che ogni livello di governo
provveda con proprie entrate a coprire le spese derivanti
dall'adempimento delle proprie funzioni. Il principio secondo cui la
spesa di ogni ente pubblico deve essere finanziata da risorse
proprie rappresenta un incentivo a una condotta responsabile
nell'uso del denaro pubblico e a un impiego più efficiente delle
risorse e costituisce, in definitiva, lo stimolo più efficace a
contenere la spesa pubblica.
Una delle conseguenze più negative del centralismo è la mancanza di
responsabilità degli enti territoriali minori nella gestione della
spesa pubblica. La scarsità di risorse proprie degli enti locali ha
finito con il consolidare il principio distorto secondo cui
competerebbe al governo centrale coprire il disavanzo dei bilanci
dei livelli di governo periferici.Tuttavia, la ripartizione delle
entrate tributarie basata sulla distribuzione del gettito delle
imposte tra i due livelli di governo dello Stato federale comporta
notevoli disparità derivanti dalla diversa capacità fiscale delle
regioni. Per assicurare l'uniformità delle condizioni di vita, negli
Stati federali contemporanei, e segnatamente nella Repubblica
Federale di Germania, sono stati istituiti meccanismi perequativi
tendenti a determinare trasferimenti di risorse dalle regioni forti
a quelle deboli.
c) Dal federalismo duale a quello cooperativo
Le prime forme di Stato federale sono state pensate sulla base del
modello dello Stato minimo, uno Stato nel quale i pubblici poteri
intervenivano il meno possibile nei processi economico-sociali e
scarse erano le relazioni tra gli Stati e tra questi ultimi e il
governo federale. La divisione delle competenze era organizzata in
modo da assegnare al governo federale la responsabilità delle
relazioni internazionali e del mantenimento dell'unità del mercato e
agli Stati federati le competenze residue, mentre le competenze
concorrenti (che il governo federale condivide con i governi degli
Stati) erano sostanzialmente limitate all'ordine pubblico e al
fisco. Tutto ciò non corrisponde più al funzionamento degli Stati
federali contemporanei.
L'affermazione del modo di produzione industriale si è tradotta in
un crescente intervento dello Stato nei processi economico-sociali.
Tuttavia l'estensione delle competenze dello Stato non si risolve
necessariamente in un incremento delle sole competenze del governo
centrale. Negli Stati federali questo processo interessa anche i
governi degli Stati. Per evitare che queste accresciute capacità di
intervento dei pubblici poteri generassero conflitti, che avrebbero
potuto essere distruttivi per i delicati equilibri costituzionali
degli Stati federali, si è imposta dovunque una crescente
cooperazione tra governo federale e governi statali.
In sostanza, un numero crescente di obiettivi politici richiede un
intervento coordinato dei due livelli di governo e un impegno comune
nella loro realizzazione. Proprio nei settori nei quali si è
sviluppato di più l'intervento pubblico, come la politica economica
e sociale, gli Stati membri hanno conservato una relativa autonomia,
partecipando alla realizzazione di programmi comuni con il governo
federale. Questa evoluzione politica e istituzionale ha segnato il
passaggio da un modello di federalismo duale a un modello di
federalismo cooperativo. Questa concezione implica che mentre
originariamente la distribuzione delle competenze tra Stati e
governo federale era organizzata secondo il criterio prevalente
delle competenze esclusive, con il federalismo cooperativo avviene
il tendenziale superamento delle competenze esclusive e tutte le
competenze tendono a diventare concorrenti, anche la politica
estera. Per esempio le Costituzioni svizzera, tedesca e belga
prevedono che, nelle materie di loro competenza, le comunità
federate possano stipulare accordi internazionali.
La natura della federazione, in quanto formazione politica che
organizza un insieme di Stati sotto un governo comune, esige che
l'accordo che definisce la distribuzione del potere tra governo
centrale e governi regionali abbia un'autorità assoluta. Si deve
cioè applicare il principio della supremazia della costituzione. Per
raggiungere questo obiettivo la costituzione deve essere scritta, in
modo da evitare il più possibile il rischio di equivoci circa la sua
interpretazione. Inoltre deve essere rigida, deve avere cioè
un'autorità superiore a quella delle leggi ordinarie. Il principio
della supremazia della costituzione presuppone infatti l'esistenza
di una gerarchia di norme, cioè la superiorità della norma
costituzionale su quella ordinaria, e una procedura speciale per
emendare la costituzione, basata su maggioranze qualificate. Di
conseguenza, le assemblee legislative sono subordinate alla
costituzione.
d) Una nuova forma di Stato e una nuova forma di organizzazione
internazionale
Con l'invenzione delle istituzioni federali lo Stato cambia natura.
Queste istituzioni consentono infatti di superare la forma
tradizionale dello Stato, quella unitaria, che unifica tutti i
poteri in un solo centro. Le innovazioni più significative
riguardano la divisione dei poteri tra governo federale e Stati
federati e l'organizzazione della democrazia su due livelli di
governo.In primo luogo ciò che distingue lo Stato federale da quello
unitario è la doppia divisione del potere tra governi degli Stati e
governo federale, ciascuno dei quali a sua volta è diviso in diversi
rami: legislativo, esecutivo e giudiziario. Essa assicura, secondo
Madison, una "doppia garanzia di libertà per il popolo. I vari
governi, infatti, si controlleranno l'un l'altro e al medesimo tempo
si autocontrolleranno" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., pp.
459-460). La famosa massima di Lord Acton, secondo cui "il potere
corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente", mette in luce
il pericolo della degenerazione in dispotismo da cui nessun potere è
immune, indipendentemente dall'ideologia o dalle buone intenzioni
che lo ispirano. Nemmeno una federazione (né tantomeno la
Federazione mondiale) può dirsi quindi esente dal rischio di abusi e
di arbitri. L'unica garanzia efficace è rappresentata dalla
divisione del potere, che permette di correggere la tendenza
naturale alla concentrazione del potere, contrapponendo al potere un
potere equivalente che lo limiti e lo controbilanci. In questo modo,
"il potere ferma il potere", come aveva scritto con una felice
formulazione Montesquieu.Ora, la doppia divisione del potere che
caratterizza lo Stato federale costituisce la più forte limitazione
del governo che sia stata sperimentata nella storia delle
istituzioni politiche, il più solido baluardo che sia stato elevato
contro gli abusi e gli arbitri del potere, la garanzia più efficace
che sia stata ideata per proteggere la libertà politica.
In secondo luogo, lo Stato federale costituisce un'innovazione nella
rappresentanza democratica, che si esprime sia a livello statale,
sia a livello federale. Il Federalist contiene una tipologia che
considera lo Stato federale come la terza tappa dell'evoluzione
delle forme di governo democratico, la prima essendo la democrazia
assembleare delle città-Stato e la seconda la democrazia
rappresentativa degli Stati nazionali. Scrive Madison in proposito
che "il confine naturale" della prima forma di democrazia "è dato da
una distanza dal punto centrale, che possa permettere anche ai
cittadini che risiedono più lontano di riunirsi tante volte, quante
ne sono necessarie per lo svolgimento delle loro funzioni pubbliche,
ed essa potrà comprendere solo il numero di cittadini che possono
materialmente riunirsi per tali funzioni; così il limite naturale"
della seconda forma di democrazia "sarà dato da quella distanza dal
centro che consenta ai rappresentanti di riunirsi, ogniqualvolta ciò
sia necessario per l'amministrazione della cosa pubblica" (v.
Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., p. 216).
Le istituzioni federali consentono alla democrazia rappresentativa
di esprimersi su due livelli (ma potenzialmente su più livelli) di
governo. In sostanza, il sistema federale contiene la formula per
applicare il principio dell'autogoverno a una pluralità di governi
che coesistono all'interno di una cornice costituzionale democratica
che li comprende tutti. Questa tipologia delle forme di governo
democratico (assembleare, rappresentativa e federale) è elaborata
sulla base della relazione esistente tra queste tre innovazioni
istituzionali e la dimensione dello Stato democratico.Con la
democrazia assembleare la dimensione dello Stato democratico non
poteva essere più ampia di una città, cioè del numero di persone che
potevano riunirsi in una piazza. La democrazia rappresentativa ha
consentito di estendere il governo democratico su scala nazionale.
La democrazia federale, che ha consentito di unificare territori
grandi come intere regioni del mondo (Stati Uniti, India, Russia),
può estendersi ancora fino a comprendere tutto il mondo, realizzando
così il sogno kantiano della pace perpetua. Sarà sufficiente
aggiungere a quello regionale un nuovo livello di governo: quello
mondiale, già prefigurato dall'ONU.
Lo Stato federale non è soltanto una nuova forma di Stato; è anche
una nuova forma di organizzazione internazionale. Esso segna
l'inizio dell'era democratica nella storia delle organizzazioni
internazionali. Con l'invenzione delle istituzioni federali
cominciano a formarsi unioni di Stati i cui organi costituzionali
hanno natura democratica, non diplomatica. Le relazioni tra gli
Stati cessano di essere dominate dalla violenza e assumono carattere
costituzionale. I conflitti tra gli Stati trovano una composizione
pacifica sulla base di una legge e di fronte a un tribunale.Mentre
gli organi di governo delle organizzazioni internazionali e anche
delle unioni di Stati sono formati dai rappresentanti dei governi e
le loro decisioni si applicano solo ai governi, con le istituzioni
federali essi sono eletti direttamente dal popolo e le decisioni
dell'unione si applicano direttamente ai cittadini. Ciò significa
che le istituzioni federali consentono di sottoporre le relazioni
internazionali, che sono il terreno dello scontro diplomatico e
militare tra gli Stati, a un governo democratico sovranazionale. Le
istituzioni federali sono dunque il veicolo della democrazia
internazionale, cioè dell'estensione della democrazia al di là dei
confini tra gli Stati, dove la guerra è ancora il mezzo cui, in
ultima istanza, gli Stati ricorrono per risolvere i loro conflitti.
e) Il bicameralismo e la struttura dell'esecutivo
La più grave difficoltà pratica nel costituire un sistema
legislativo bicamerale in una società democratica (nella quale è
necessario scartare la soluzione tradizionale di un senato di
estrazione aristocratica) consiste nell'identificare il criterio in
base al quale determinare la composizione della camera alta, che
condivide il potere legislativo con l'assemblea fondata sulla
rappresentanza diretta del popolo. La soluzione adottata negli Stati
Uniti fu quella di attribuire al Senato la funzione di rappresentare
in modo paritetico gli Stati (due senatori per Stato). La stessa
soluzione è stata adottata in Svizzera, in Australia e in Russia,
mentre Canada, Germania, India e Belgio hanno scelto il principio
della rappresentanza ponderata.Si tratta di un'innovazione
istituzionale di grande rilievo. Grazie ad essa si giunse a
considerare gli Stati membri come espressione di "interessi
costituiti", che pretendevano di essere difesi attraverso la
rappresentanza negli organi centrali dello Stato e la partecipazione
al processo di formazione della legislazione federale.
Il principio della rappresentanza degli Stati nel senato è
espressione dell'idea che la semplice rappresentanza proporzionale
del popolo nel parlamento non è sufficiente a conferire legittimità
alle leggi; che, di conseguenza, questa forma di rappresentanza deve
essere combinata con quella degli Stati, in modo che le parti meno
densamente popolate e meno sviluppate della federazione abbiano una
rappresentanza superiore a quella proporzionale. Il fatto che le
leggi debbano ottenere non solo il consenso della maggioranza dei
rappresentanti del popolo della federazione, ma anche quello della
maggioranza degli Stati federati, conferisce al processo legislativo
quel carattere di equilibrio e di ponderazione necessario a
temperare le emozioni temporanee che spesso influenzano le decisioni
della camera eletta a suffragio universale. Ma, a differenza delle
camere alte di estrazione aristocratica, i membri del senato
federale non sono selezionati nell'ambito di una classe, ma degli
Stati, cioè di istituzioni democratiche.
Nella maggior parte degli Stati federali, con l'eccezione della
Germania, le due camere hanno poteri tendenzialmente paritari nel
campo legislativo. Però il controllo sull'esecutivo, cioè il potere
di dare e di togliere la fiducia al governo, spetta solo alla camera
bassa. Gli Stati Uniti e la Russia rappresentano i soli esempi in
cui la camera alta ha più poteri della camera bassa. Infatti i
trattati internazionali e la nomina dei più alti funzionari
dell'amministrazione federale diventano esecutivi solo se approvati
dal Senato degli Stati Uniti. Il Consiglio della Federazione russa
ha poteri analoghi, che si estendono anche a materie che comprendono
la modifica dei confini interni, la dichiarazione di guerra e dello
stato di emergenza e l'impiego delle forze armate fuori dai confini
della Russia. Tuttavia esso ha poteri più deboli della Duma (la
Camera dei deputati) nel processo legislativo, avendo quest'ultima
il potere di respingere emendamenti proposti dal Consiglio con una
maggioranza di due terzi.
L'emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che decise nel
1913 l'elezione diretta del Senato, trasformò quest'ultimo in
un'espressione della volontà del popolo dell'intera federazione,
cioè in un organo che rappresentava interessi unitari e, in
definitiva, in un'inutile duplicazione della Camera dei
rappresentanti. Questo emendamento non è che un aspetto del
progressivo accentramento del potere che ha interessato tutti gli
organi costituzionali. Rimase aperto però il problema di trovare una
formula che consentisse di fondare il Senato su un tipo di
rappresentanza diversa da quella diretta del popolo.Ci sono sempre
state camere alte composte da membri non eletti direttamente dal
popolo e ne esistono ancora oggi, dalla Camera dei lord britannica,
al Senato francese a quello canadese, che è formato da membri
nominati a vita dal capo dello Stato, il governatore generale. Ma la
Germania è il solo regime democratico che abbia un senato - il
Bundesrat - composto dai rappresentanti dei governi dei Länder.
È questo il modo più efficace di combinare nel potere legislativo la
rappresentanza diretta con quella indiretta e di far partecipare i
governi degli Stati membri alla definizione degli orientamenti
politici della federazione. La rappresentanza dei governi piuttosto
che degli individui è così inconsueta che è considerata
incompatibile con la nozione convenzionale di democrazia quale si è
cristallizzata nelle istituzioni dello Stato unitario. Abitualmente
essa è respinta in nome del principio della rappresentanza diretta
dei cittadini nelle assemblee legislative. Persino uno studioso
delle istituzioni federali autorevole come Wheare (v., 1946; tr.
it., p. 59) considera il fatto che il Senato degli Stati Uniti,
nella sua forma originaria, fosse composto da rappresentanti scelti
dalle assemblee legislative degli Stati "un'eccezione al principio
federale", perché in questo modo "una parte del governo centrale
degli Stati Uniti veniva a dipendere, in una certa qual misura, da
una parte dei governi regionali".
In realtà, l'innovazione rappresentata dalla democrazia federale
consiste nell'aver introdotto nella vita politica una nuova
dimensione della democrazia: quella internazionale. Essa consente di
realizzare il controllo popolare della politica internazionale, ma
sulla base di nuove istituzioni secondo cui le decisioni
democratiche devono ricevere, come abbiamo visto, il consenso sia
della maggioranza del popolo (camera dei popoli) sia degli Stati
(camera degli Stati). La rappresentanza uguale (o ponderata) degli
Stati è un vestigio del fatto che, originariamente, essi erano enti
sovrani, e riproduce in seno alle istituzioni federali il principio
dell'uguaglianza degli Stati che vige nel diritto internazionale.In
definitiva, l'indipendenza degli Stati in seno alle istituzioni
federali si esprime in modo più incisivo attraverso i governi che
non tramite senatori eletti direttamente dal popolo. Inoltre, la
presenza dei governi degli Stati nelle istituzioni federali
rappresenta una solida garanzia contro la tendenza
all'accentramento, che costituisce uno degli aspetti più
caratteristici dell'involuzione delle federazioni contemporanee.
È da sottolineare, tuttavia, che se la camera degli Stati fosse
composta da membri degli organi legislativi degli Stati, come era
previsto dalla Costituzione degli Stati Uniti prima del 1913, vi
sarebbero rappresentate anche le forze dell'opposizione e non solo
quelle di governo.Quanto alla struttura del governo, la formula
presidenziale degli Stati Uniti, adottata nel 1993 anche in Russia,
costituisce più un'eccezione che la regola. La maggior parte degli
Stati federali (Canada, Australia, India, Germania e Belgio) ha
infatti un regime di tipo parlamentare con un governo responsabile
nei confronti di un solo ramo del parlamento, la camera bassa, che è
eletta direttamente dal popolo, secondo il modello del sistema di
gabinetto britannico, e un capo dello Stato con il compito di
colmare i vuoti di potere che si creano in caso di crisi di governo
e di elezioni.
Un caso a parte è rappresentato dalla Svizzera, la cui Costituzione,
analogamente a quella degli Stati Uniti, contiene la scelta di un
governo indipendente dal parlamento, con la conseguenza che il
parlamento non può determinare le dimissioni del governo e
quest'ultimo non può sciogliere il primo. Tuttavia il regime
consiliare svizzero si distingue per il fatto che le due camere
eleggono in seduta comune l'esecutivo, ma questo rimane in carica
per l'intera legislatura senza che possa ricevere la sfiducia dal
parlamento. È una scelta istituzionale che attribuisce al parlamento
un ruolo politico marginale, perché gli impedisce di esercitare
un'influenza sull'azione del governo. D'altra parte un governo che
non è espressione diretta del voto del popolo (come invece avviene
nel regime presidenziale) e che non è costretto a confrontarsi
continuamente con gli orientamenti politici del parlamento (come
invece avviene nel regime parlamentare), tende ad assumere un ruolo
amministrativo piuttosto che politico. Si tratta in definitiva di
una scelta adatta a un piccolo Stato come la Svizzera, ma non a una
grande federazione, come sarebbe per esempio quella europea,
destinata a essere investita di grandi responsabilità politiche
interne e internazionali.
È da ricordare che negli Stati federali sono stati sperimentati due
diversi sistemi amministrativi. Quello adottato dagli Stati Uniti
consiste nel riconoscere autonomia amministrativa a ogni livello di
governo; come il governo federale nomina propri funzionari negli
Stati per dare esecuzione alle leggi federali, così i governi
regionali hanno alle loro dipendenze un proprio apparato
amministrativo.Invece nel sistema adottato in Germania
l'applicazione di gran parte della legislazione federale è delegata
alle amministrazioni regionali, mentre le autorità federali solo in
casi eccezionali, come nell'amministrazione finanziaria, hanno un
potere di supervisione circa la conformità dei provvedimenti di
applicazione alla legislazione federale. Solo in settori limitati
(per esempio, servizi esteri, esercito, polizia di frontiera,
traffico aereo e ferroviario, telecomunicazioni) il governo federale
dispone di una propria amministrazione.
Questo sistema offre il vantaggio di utilizzare perlopiù un solo
apparato amministrativo - quello regionale - anche da parte delle
autorità federali, il che consente di evitare costose duplicazioni.
Tuttavia, poiché i governi regionali svolgono di fatto la funzione
di agenti del governo federale, bisogna evitare due rischi opposti:
che le amministrazioni regionali intralcino l'applicazione delle
decisioni federali e che la supervisione federale si trasformi in
una limitazione dell'autonomia degli Stati federati. I meccanismi
del federalismo cooperativo consentono di risolvere eventuali
conflitti tra i due livelli di governo.
Infine, mentre la storia degli Stati Uniti è stata caratterizzata da
una crescente concentrazione di poteri e di risorse nelle mani del
governo federale e di funzioni nella capitale, in Germania si è
sperimentato con successo un principio opposto: quello della
capitale reticolare.Due dati sono sufficienti a percepire le
dimensioni del processo di accentramento del potere a Washington.
Nel 1790 il governo federale era costituito da tre soli dipartimenti
(esteri, difesa e tesoro) e aveva alle sue dipendenze 350 impiegati.
Oggi i dipartimenti sono 14 e gli impiegati sono circa tre milioni.
La capitale reticolare consente invece di ridistribuire le funzioni
del governo federale tra città diverse dalla capitale e di
contrastare e di correggere la tendenza a esaltare il ruolo del
governo nazionale attraverso la concentrazione di una grande
quantità di risorse e di funzioni nella capitale. In Germania, la
Corte costituzionale ha sede a Karlsruhe e la Banca centrale a
Francoforte. Inoltre il trasferimento della capitale a Berlino non
comporterà lo spostamento di tutti i ministeri. Alcuni rimarranno a
Bonn.
f) La magistratura e il potere di revisione costituzionale delle
leggi
Mentre a partire dalle rivoluzioni inglesi del Seicento in Europa si
è affermata una concezione della democrazia basata sul principio
della supremazia del parlamento, compendiata dalla famosa massima di
De Lolme: "Il Parlamento può fare tutto eccetto che mutare un uomo
in donna e una donna in uomo", il costituzionalismo americano rimane
fedele all'antico principio secondo cui ogni autorità deve essere
limitata. Però lo attua con una nuova istituzione: il potere di
revisione costituzionale delle leggi, attribuito alla magistratura,
che consente di far valere il principio della supremazia della
costituzione.
Questo potere non può essere definito antidemocratico, e neppure
sono fondate le preoccupazioni di una prevalenza del giudiziario nel
sistema politico federale. Hamilton afferma che i tribunali furono
designati per "essere un organo intermedio tra il popolo e il corpo
legislativo, al fine, tra l'altro, di mantenere quest'ultimo nei
limiti imposti al suo potere. L'interpretazione delle leggi è
compito preciso e specifico delle Corti [...] Qualora dovesse
verificarsi discordanza insanabile tra la legge costituzionale e
quella ordinaria, si dovrà, naturalmente, dar preferenza a quella
verso cui siamo legati da obblighi maggiori; in altre parole, alla
legge ordinaria si dovrà preferire la costituzione, ai voleri dei
delegati del popolo quelli del popolo stesso. Né, d'altronde, una
conclusione siffatta implica comunque una superiorità del potere
giudiziario rispetto a quello legislativo.
Essa presuppone soltanto che i poteri del popolo siano superiori ad
ambedue; e che laddove la volontà del legislativo, manifestatasi
nelle leggi, dovesse contrastare con quella del popolo, espressa
nella costituzione, i giudici dovranno essere ossequienti a
quest'ultima piuttosto che alla prima. Essi dovranno basare le
proprie decisioni sulle leggi fondamentali e non su quelle che non
sono fondamentali" (v. Hamilton e altri, 1787-1788; tr. it., p.
625).
È noto che la Costituzione non disponeva nulla in modo esplicito
circa il potere dei tribunali di annullare le leggi
incostituzionali. Tuttavia questo potere era implicito nel carattere
rigido della Costituzione, la quale stabiliva una gerarchia di norme
e prescriveva che le leggi ordinarie dovessero essere conformi a
quelle costituzionali. Nel 1803 la sentenza Marbury vs. Madison
della Corte suprema confermerà questa interpretazione della
Costituzione. Ciò significa che la magistratura ha la "competenza
delle competenze", ha cioè il potere di definire, in caso di
conflitto, il confine tra i due ordini di poteri indipendenti che
coesistono in uno Stato federale.
I tribunali degli altri Stati federali si discostano dal modello
degli Stati Uniti, ma le costituzioni federali dei paesi
anglosassoni si avvicinano di più a quel modello. Nella tradizione
di questi paesi i tribunali hanno un ruolo molto più rilevante
nell'evoluzione del diritto di quanto non avvenga nel continente
europeo. Il diritto prodotto dalle assemblee legislative si affianca
a quello dichiarato dai tribunali, la common law, che si impone
sulla base dell'autorità del 'precedente'. Invece negli Stati
federali costituitisi in Europa (Svizzera, Germania e Belgio), dove
prevale il diritto elaborato dalle assemblee legislative ed esiste
una vasta sfera di competenze concorrenti, le autorità federali e
quelle regionali preferiscono aprire un negoziato per giungere a una
soluzione preventiva delle controversie, utilizzando i meccanismi
del federalismo cooperativo. Di conseguenza, i tribunali
costituzionali non hanno sviluppato quel rilevante ruolo politico
che distingue la Corte suprema, l'organo di vertice del sistema
giudiziario degli Stati Uniti.
g) L'autonomia della banca centrale e l'autogoverno locale
Nella maggior parte degli Stati federali l'organizzazione della
banca centrale non si distingue da quella degli Stati unitari. Fanno
eccezione gli Stati Uniti e la Germania.Le banche centrali, create
per consolidare la sovranità interna dello Stato, rappresentarono
uno strumento dei governi per alimentare la capacità di spesa di
questi ultimi e per controbilanciare il potere delle banche private.
L'esperienza negativa dell'inflazione ha promosso l'affermazione del
principio dell'autonomia della banca centrale, la quale ha assunto
il compito istituzionale di salvaguardare il valore della moneta
contro le tentazioni dei governi di finanziare la spesa pubblica con
l'emissione di moneta. La stabilità monetaria (e quindi la lotta
all'inflazione, intesa come l'imposta più iniqua) si è affermato
dunque come un obiettivo prioritario nell'azione delle banche
centrali.
Il significato dell'autonomia istituzionale della banca centrale è
quello di porre degli argini alla assoluta discrezionalità dei
governi nelle decisioni di politica monetaria. Il compito
istituzionale della banca centrale si basa sull'osservanza di
parametri oggettivi, e quindi si traduce nell'esigenza di affidare a
un organo neutrale la funzione di difendere nel corso del tempo il
valore della moneta. Questa funzione dell'istituto di emissione deve
dunque essere separata da quella di indirizzo economico spettante al
governo e al parlamento, in modo che il funzionamento del mercato
non sia alterato da modifiche nel valore di acquisto della
moneta.Questo meccanismo è analogo a quello che attribuisce alle
corti costituzionali il potere di annullare le leggi e gli atti
amministrativi non conformi alla costituzione. Esso pone un limite
alla assoluta discrezionalità nelle decisioni delle assemblee
legislative e degli organi esecutivi. Come la corte costituzionale
svolge una funzione di garanzia del cittadino, elevando un argine
alla discrezionalità degli organi dello Stato che hanno il compito
di prendere decisioni politiche e amministrative, così la banca
centrale svolge un analogo ruolo rispetto alle alterazioni al
funzionamento del mercato derivanti dalle modifiche del valore della
moneta.
Non è un caso che i paesi che hanno meglio salvaguardato l'autonomia
delle banche centrali siano quelli con una struttura costituzionale
di tipo federale, perché caratterizzata dall'interazione di una
pluralità di poteri "indipendenti e coordinati". Infatti negli Stati
Uniti e in Germania la composizione del Consiglio della banca
centrale è caratterizzata da una forte presenza dei rappresentanti
delle banche regionali. Inoltre i membri del Consiglio sono nominati
dal presidente della federazione per un lungo periodo di tempo (14
anni negli Stati Uniti, 8 anni in Germania), il che ne assicura
l'indipendenza di giudizio. Infine la banca è indipendente dal
governo e in Germania anche dal parlamento.
Dal momento che il potere non è riunito in un solo centro, nello
Stato federale esistono le condizioni più favorevoli per
l'autogoverno locale. È da rilevare però che tutte le costituzioni
federali definiscono solo due livelli di governo indipendenti:
quello federale e quello regionale. Il sistema delle autonomie delle
comunità territoriali più piccole è quindi materia affidata alla
competenza degli Stati membri. In altri termini, i comuni e gli
altri enti territoriali minori sono considerati come parti
integranti degli Stati federati. Il governo locale ha quindi
un'autonomia delegata e poteri subordinati rispetto agli Stati
federati. Si può quindi affermare che la distribuzione del potere su
due soli livelli di governo, se argina il fenomeno del centralismo
sul piano della federazione, non lo elimina, ma lo sposta sul piano
regionale. Tuttavia, mentre negli Stati unitari il funzionamento del
governo locale è disciplinato da un'unica legislazione e secondo un
modello uniforme, negli Stati federali esso dipende dalla
legislazione dei vari Stati e quindi si differenzia sul territorio,
adattandosi alle esigenze locali.
L'autogoverno locale costituisce nello stesso tempo una condizione
essenziale della libertà e della democrazia. Innanzi tutto esso
implica che si affidi ai poteri locali la gestione degli affari che
riguardano più da vicino la vita ordinaria del cittadino. Esso
rappresenta l'antidoto più efficace nei confronti dell'accentramento
del potere nelle mani del governo centrale. È, secondo Tocqueville,
"la scuola della libertà". "Nel comune risiede la forza dei popoli
liberi", egli scrisse. "Le istituzioni comunali sono per la libertà
quello che le scuole elementari sono per la scienza; esse la mettono
alla portata del popolo, gliene fanno gustare l'uso pacifico e
l'abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali, una nazione può
darsi un governo libero, ma non possiede lo spirito della libertà".
D'altra parte, il principio della sovranità popolare ha la sua prima
ed essenziale espressione nella partecipazione del popolo al
controllo del governo locale: "Eliminate la forza e l'indipendenza
del comune, non vi troverete che amministrati e non dei cittadini"
(v. Tocqueville, 1835-1840, ed. 1961, vol. I, pp. 59 e 66).
4. La novità della federazione europea: un patto federale tra Stati
nazionali
L'Unione europea non è ancora uno Stato: è una costruzione
incompiuta. Considerata staticamente, è un'unione di Stati nella
quale prevale ancora il principio confederale. In altri termini, i
governi nazionali conservano ancora un ruolo dominante. Se la si
considera invece nella sua dinamica evolutiva, essa si presenta come
un laboratorio nel quale stanno emergendo, attraverso un processo di
approssimazioni successive, i lineamenti di una forma statuale di
tipo nuovo, di cui gli Stati federali esistenti costituiscono solo
un vago antecedente. La novità dell'esperimento federativo europeo
consiste nella ricerca di una risposta istituzionale alla crisi
dello Stato sovrano, che dipende dal fatto che
l'internazionalizzazione del processo produttivo ha fatto perdere
agli Stati le leve del controllo dell'economia, della sicurezza e di
un numero crescente di problemi che hanno assunto dimensioni
internazionali. Invece tutte le unioni federali precedenti avevano
l'obiettivo di creare un nuovo Stato sovrano di grandi dimensioni
e/o di carattere multinazionale (Stati Uniti, Svizzera, ecc.) oppure
di ridistribuire il potere all'interno di uno Stato sovrano
preesistente (Germania, Belgio, ecc.).
La trasformazione della Svizzera da Confederazione in Stato federale
(1848) fu un processo di unificazione politica che ha una forte
analogia con le unificazioni italiana e tedesca e motivazioni
simili: adeguare la dimensione dello Stato a quella del mercato e
alle condizioni dell'indipendenza politica in un'Europa che si stava
organizzando in Stati nazionali. Analogamente la formazione del
primo Stato federale (gli Stati Uniti) può essere considerata, come
ha suggerito il politologo americano Martin S. Lipset, il primo
episodio del movimento di liberazione nazionale dei popoli
assoggettati alla dominazione coloniale. Lo stesso carattere hanno
gli altri Stati federali, formatisi a seguito della separazione
dall'Impero britannico (Canada, Australia e India).
Nemmeno la riorganizzazione in senso federale di Stati unitari, come
è avvenuto nel 1994 in Belgio, ha rappresentato una risposta alla
crisi dello Stato sovrano, derivante dalla contraddizione tra le sue
limitate dimensioni e l'internazionalizzazione del processo
produttivo. Tale riorganizzazione ha avuto semplicemente il
carattere di una redistribuzione di poteri nell'ambito di uno Stato
privo di una reale autonomia internazionale.In sostanza, tutti
questi processi federativi si sono svolti nell'orizzonte della
stessa epoca storica: quella nella quale lo Stato nazionale era la
forma di organizzazione politica dominante e non esistevano
alternative all'organizzazione del mondo in Stati sovrani
indipendenti.
Le prime forme di governo federativo appartengono dunque alla stessa
fase della storia nella quale si sono formati gli Stati nazionali.
In definitiva, tutti gli Stati federali finora esistiti non hanno
messo in discussione il principio della divisione del mondo in Stati
sovrani, ma l'hanno accettata come un fatto ineluttabile; la forma
di unità politica che essi hanno garantito non si differenzia
sostanzialmente da quella degli Stati unitari decentrati. Il fatto è
che nelle federazioni finora esistite le comunità federate non hanno
avuto la natura di Stati. Infatti hanno il nome di cantoni,
province, regioni o paesi e anche nei casi in cui sono chiamate
Stati (Stati Uniti, Australia e India) si tratta di una finzione cui
non corrisponde la sostanza di comunità sovrane che abbiano avuto in
precedenza un ruolo realmente indipendente nel sistema degli Stati.
I problemi teorici e pratici che si sono dovuti affrontare nel corso
del processo di unificazione europea hanno fatto emergere l'esigenza
di progettare nuove formule istituzionali adeguate al compito senza
precedenti di unificare Stati nazionali consolidati. Mentre la
struttura delle prime forme di organizzazione federativa si avvicina
a quella di Stati unitari decentrati, la novità del federalismo
europeo sta nel fatto che si tratta di federare Stati nazionali,
l'espressione più compiuta dell'idea stessa di Stato sovrano.
L'organizzazione prima dell'Europa, poi del mondo in Stati sovrani
non solo ha dato vita alla più forte concentrazione del potere, ma
ha anche determinato la più profonda divisione tra gruppi umani che
la storia dell'umanità abbia conosciuto.In considerazione di queste
notevoli differenze tra vecchie e nuove forme di organizzazione
federale, appare legittimo designarle con nomi differenti. Alle
comunità federali del passato si adatta la definizione di Stati
federali, espressione che sottolinea l'affinità esistente tra queste
formazioni politiche e quella predominante dello Stato sovrano.
Invece alle istituzioni che rappresenteranno lo sbocco del processo
federativo dell'Europa si adatta maggiormente la definizione di
federazione di Stati, la quale sottolinea la nuova forma di
statualità che si instaurerà con la Federazione europea, un'unione
di Stati dotata di un potere proprio, nella quale le comunità
federate sono Stati nazionali.
La formula "federazione di Stati nazionali", usata da Jacques
Delors, ne identifica efficacemente la novità. Essa consente di
collocare questa innovazione nella storia dell'evoluzione delle
forme di Stato: dopo la città-Stato, intesa come l'istituzione che
ha permesso di pacificare le tribù, e lo Stato nazione, che ha
garantito la pace tra le città, la federazione costituisce la forma
di organizzazione politica che consente di pacificare le nazioni e
di unificare intere regioni del mondo e in prospettiva tutto il
pianeta.Il conflitto tra istanze nazionali e istanze europee che si
incarnano rispettivamente nel Consiglio e nel Parlamento europeo può
raggiungere un punto di equilibrio nel compromesso federale. Ma
ancora una volta è da sottolineare che il patto federale che si
delinea tra gli Stati membri dell'Unione Europea non ha precedenti
nella storia proprio perché i contraenti del patto sono nazioni
storicamente consolidate che pretendono di mantenere una forte
autonomia in seno alle istituzioni federali. Ed è prevedibile che
questa tendenza sarà rafforzata da un altro fattore. Mentre le
federazioni del passato hanno subito un processo di
centralizzazione, dovuto alla forte pressione politico-militare che
subivano ai loro confini, la Federazione europea nascerà in un mondo
nel quale l'interdipendenza globale e il declino della politica di
potenza hanno sviluppato poderose tendenze alla cooperazione e alla
organizzazione internazionale, che essa stessa contribuirà a
consolidare.
La Federazione europea, in quanto negazione dello Stato sovrano,
tenderà a rimanere una formazione aperta e incompiuta. Essa sarà
lacerata da due spinte contraddittorie. Da una parte, svilupperà la
tendenza a definirsi in senso puramente negativo, come superamento
dello Stato nazionale e quindi a rimanere un'organizzazione politica
aperta, senza confini definiti e capace di promuovere l'unificazione
di altre regioni del mondo (riforma dell'ONU) e incompiuta,
sprovvista cioè di tutti i caratteri istituzionali degli Stati
sovrani finora esistiti. D'altra parte, sarà attiva la tendenza
opposta, quella alla chiusura, cioè alla formazione di un'identità
collettiva analoga a quella nazionale, ma che avrà comunque un
carattere precario, considerata la difficoltà di far radicare
un'identità nazionale in una società multinazionale e in un'epoca
post-nazionale.Il Parlamento europeo, in quanto espressione e agente
del processo di trasformazione democratica dell'Unione Europea,
tende ad affermare un principio di legittimità che non ha precedenti
nella storia: la democrazia internazionale. Si tratta di un
esperimento che, pur avvenendo in Europa, non si può considerare
concluso quando si sarà realizzato in questo continente. Esso
interessa tutto il mondo e si compirà solo a livello mondiale con la
riforma democratica dell'ONU.
D'altra parte, gli Stati rappresentano la vecchia legittimità
nazionale che non può e non deve essere soppressa, perché essi
costituiscono uno dei livelli di governo democratico che deve essere
mantenuto con una propria autonomia in seno alle istituzioni
federali.In modo più netto che nei casi precedenti, nella
federazione europea coesisteranno dunque due principî di
legittimità: quello nazionale e quello sovranazionale. In altri
termini, la legittimità delle istituzioni federali avrà un duplice
fondamento: nazionale e sovranazionale. La sovranità popolare,
esprimendosi attraverso i due rami del potere legislativo, la Camera
degli Stati (il Consiglio dei ministri) e la Camera dei popoli (il
Parlamento europeo), conferirà legittimità a entrambi i livelli di
governo e le leggi dovranno essere approvate da una doppia
maggioranza, sia quella degli Stati sia quella della popolazione.