Sindacato

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Associazione di lavoratori o di datori di lavoro costituita per la tutela di interessi professionali collettivi. Nel linguaggio economico e finanziario, coalizione di imprese.

Il sindacalismo è la dottrina e prassi politico-economica, di varia matrice ideologica e culturale, finalizzata all’organizzazione dei lavoratori in sindacato.

1. Il sindacalismo

Nato in seno al movimento operaio e affermatosi progressivamente in tutti i paesi sviluppati a partire dalla prima fase della loro industrializzazione moderna, il sindacalismo si è variamente configurato, nelle diverse aree geografiche, sulla base delle differenti situazioni politico-economiche, ma anche in relazione ai rapporti con i partiti politici operai.

La prima espressione teorica si definì, tra il 1850 e la fine del 19° sec., nelle trasformazioni del tradeunionismo inglese. La teoria del sindacalismo tradeunionistico postulava una concezione dicotomica della struttura sociale ed economica e fu organicamente esposta negli scritti di S. e B. Webb, venendo a costituire il maggior punto di riferimento per tutte le altre riflessioni sul s. che si diffusero in Francia e poi in Germania. L’attività sindacale era ridotta a mezzo per trasferire e far maturare tra i lavoratori una coscienza politica che trovava nel partito e negli intellettuali il naturale e superiore bacino di formazione e di elaborazione. Sul piano teorico, le concezioni comuniste del s. che si diffusero successivamente si possono considerare una variante della concezione del rapporto partito-s. tipica della teoria della socialdemocrazia tedesca.

Radicalmente diverso, il sistema del sindacalismo rivoluzionario formulato in Francia soprattutto da G. Sorel, che ebbe larga diffusione in altri paesi e un originale radicamento negli USA, vedeva il s. come unico agente del superamento del sistema di produzione capitalistico e dell’organizzazione del potere nelle forme dello Stato liberale. Ancora all’interno della concezione della separazione degli interessi tra lavoratori e classe borghese si collocò la dottrina del sindacalismo riformista, che però era contraria alla rottura del sistema capitalistico, ritenuto modificabile con una pressione graduale dei lavoratori. Su presupposti ideologici completamente diversi si collocò, invece, il sindacalismo corporativista, sia cattolico sia fascista, che muoveva dal principio della possibilità e della necessità di realizzare la collaborazione tra le classi (➔ corporativismo). Con la diffusione del capitalismo fordista (➔ Ford, Henry) e con l’affermazione in Occidente, dopo il 1945, dei principi politico-costituzionali dello Stato democratico, la riflessione sul rapporto tra imprenditoria e lavoratori è ricaduta prevalentemente nell’ambito delle cosiddette relazioni industriali.

2. S. e relazioni industriali

Un sistema di relazioni industriali basato su un’espressione relativamente libera delle forze sindacali e su un ampio intervento dello Stato in campo economico e sociale cominciò a svilupparsi a partire dagli anni 1920. Esso comportava, fra l’altro, il riconoscimento reciproco, da parte dei lavoratori e degli imprenditori, delle rispettive rappresentanze, la definitiva stabilizzazione della procedura contrattuale, l’assunzione da parte dell’autorità pubblica di funzioni di arbitrato nei conflitti di lavoro e di indirizzo nell’evoluzione dei rapporti tra dinamica contrattuale, strategia imprenditoriale e politica economica e occupazionale. Questo sistema, intimamente connesso con il fenomeno del fordismo, si fondava sull’accresciuto potere d’acquisto dei salari e sul conseguente incremento della domanda: si delineava così un comune interesse dei lavoratori e degli imprenditori allo sviluppo della produzione e, pur rimanendo materia di conflitto la definizione delle condizioni salariali, normative e occupazionali, si configurava la possibilità di uno scambio tra incrementi di produttività e aumenti retributivi. Questo modello di relazioni industriali, la cui diffusione si accompagnò all’integrazione del movimento operaio nei sistemi politici occidentali e all’introduzione del welfare state, è stato rimesso in discussione, a partire dagli anni 1970, con l’emergere della crisi fiscale dello Stato e dei limiti ecologici dello sviluppo, in concomitanza con un netto rallentamento della crescita economica internazionale. Si è aperta così una nuova fase, genericamente definita postfordista, che ha contribuito a ridefinire in modo sostanziale spazi e ruoli del movimento dei lavoratori e del sindacato. In particolare, i processi di decentramento produttivo, di mondializzazione dell’economia, di aumento della flessibilità nell’organizzazione del lavoro, connessi anche con l’avvento dell’informatica, hanno ridotto la concentrazione operaia nelle grandi industrie e favorito la diffusione di condizioni lavorative precarie, mentre si è verificata una notevole crescita della disoccupazione tecnologica. In un tale contesto, che ha esercitato effetti negativi sul potere contrattuale dei lavoratori, a una diminuzione dell’intervento pubblico nell’economia si è accompagnata una tendenza al ridimensionamento del ruolo del s. e della funzione mediatrice dello Stato.

3. Il movimento sindacale in Italia

Le origini. - L’associazione organizzata dei lavoratori volta alla tutela degli interessi economici (di gruppo, di categoria, di classe) costituì anche in Italia il nucleo originario del moderno sindacato. Nel corso del 19° sec., dopo la dissoluzione delle vecchie corporazioni di arti e mestieri, i lavoratori si vennero associando all’interno di un vasto movimento solidaristico il cui centro era costituito dalle Società di mutuo soccorso. A partire dagli anni 1880, la crisi sociale nelle campagne e lo sviluppo dell’industrializzazione favorirono l’avvento di una diversa forma di organizzazione dei lavoratori: le leghe di miglioramento e di resistenza. Tali organismi si ispiravano ai principi dai quali avrebbero tratto origine le stesse strutture sindacali: l’esclusivismo di classe, in quanto le leghe tutelavano solo i lavoratori manuali ed erano costituite e dirette solo da essi; la resistenza sul piano economico, poiché avevano il compito di difendere i lavoratori dalle azioni unilaterali dei padroni circa il salario, l’orario e le condizioni di lavoro; il ricorso ordinario allo sciopero sia come strumento di difesa sia come mezzo di pressione e di sostegno per le proprie azioni. Ordinate sulla base di uno statuto, in genere per mestieri, le leghe si affermarono nelle città e nelle campagne, dove assunsero una fisionomia fortemente politicizzata, come nel caso dei Fasci siciliani e del movimento bracciantile in Puglia e nella pianura Padana. A fianco delle leghe, che nonostante la presenza al loro interno di varie posizioni politiche si mantenevano sostanzialmente autonome dai partiti, venne costituendosi, in quegli anni, un’altra importante forma di organizzazione e di rappresentanza dei lavoratori: la federazione di mestiere. Fin dal 1872, nei settori a più elevato contenuto professionale quali quelli dei tipografi, dei ferrovieri e degli edili, si era affermata l’organizzazione di tipo federale, che raggruppava tutti i lavoratori di una stessa categoria. Scopo primario delle federazioni era quello di rendere omogenea la condizione di lavoro attraverso la stipula di convenzioni o contratti collettivi, la cui validità era estesa a tutti i lavoratori del mestiere, superando le primitive forme di accordo individuale e informale con il padrone. Negli anni 1890 si affermarono nuove strutture sindacali, le Camere del lavoro. Da una iniziale impostazione di pura assistenza nell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, esse vennero via via trasformandosi in organismi di rappresentanza politica e sindacale di tutto il movimento dei lavoratori su un determinato territorio. Agli inizi del Novecento le Camere del lavoro e le federazioni di mestiere si coordinarono al fine di superare i contrasti che spesso nascevano circa la direzione degli scioperi, dando vita al Segretariato centrale della resistenza (1902-06). Nel 1906 la nascita della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) completò l’edificio organizzativo e istituzionale del s. italiano.

Il s. confederale e quello fascista. - Protagonista della lotta politica, crocevia di tutte le correnti ideologiche del movimento operaio, il s. confederale accettò l’ideologia socialista e stabilizzò i rapporti con i partiti sulla base del principio, tipico della Seconda Internazionale, dell’autonomia intesa come divisione dei rispettivi compiti. La CGdL contribuì a generalizzare il sistema della contrattazione collettiva del lavoro, elaborò la prima forma di sindacalismo industriale come superamento di quello di mestiere e rappresentò sul piano generale il lavoro nelle relazioni con le associazioni padronali. Negli anni 1910 il s. confederale subì una duplice scissione: nel 1912 si formò l’Unione Sindacale Italiana (USI) di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, mentre nel 1919 le forze sindacali di ispirazione cattolica diedero vita a un organismo di livello confederale, la Confederazione Italiana Lavoro (CIL). Una genesi del tutto propria ebbe nel 1922 la Confederazione dei sindacati fascisti, nata dall’iniziativa di quei settori che non si ritenevano adeguatamente rappresentati dal sindacalismo classista operaio e bracciantile. Nel volgere di pochi anni il s. fascista riuscì a imporsi come s. di Stato, sfruttando soprattutto la distruzione violenta del leghismo e delle strutture sindacali confederali da parte dello squadrismo, nonché la disponibilità della Confindustria e degli ambienti economici a liberarsi, dopo la tensione degli anni 1919-20, dei consigli di fabbrica e del s. libero. Nel 1927 i dirigenti riformisti confederali furono indotti a proclamare l’autoscioglimento della CGdL e da quel momento il s. italiano si ridusse al solo s. fascista, unico, obbligatorio, con poteri pubblici, facoltà contrattuali, senza diritto di sciopero né di rappresentanza operaia, con dirigenti nominati dall’alto. Nel 1928 lo ‘sbloccamento’ del s. diede vita a sei diverse confederazioni per grandi comparti, all’interno dei quali operavano poi le singole federazioni di categoria, mentre sul piano territoriale agivano le unioni provinciali.Il dopoguerraCaduto il fascismo, la costituzione della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) diede vita, tra il 1944 e il 1948, a un’inedita esperienza di s. unitario, al cui interno confluirono cattolici, comunisti, socialisti, anarchici e indipendenti. Sul piano organizzativo la CGIL si appoggiò sul tessuto delle ricostituite Camere del lavoro, mentre le federazioni riconquistarono un ruolo centrale solo a partire dalla metà degli anni 1950. Dopo la scissione nel 1948, alla CGIL, divenuta espressione delle sole componenti comunista e socialista, si aggiunsero l’Unione Italiana del Lavoro (UIL), costituita dalle correnti repubblicana e socialdemocratica (1949), e la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL), d’ispirazione cattolica (1950). Nel 1950 nacque la Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori (CISNAL, di cui è erede l’UGL, Unione Generale del Lavoro, fondata nel 1996), legata al Movimento sociale italiano, e nel 1957 la Confederazione Italiana Sindacati Autonomi Lavoratori (CISAL), punto di riferimento per tutta l’area del sindacalismo autonomo. Per quasi due decenni il s., pur contribuendo all’inserimento delle masse nella vita nazionale e al consolidamento delle istituzioni democratiche, rimase politicamente debole e diviso, mentre le relazioni industriali vedevano una sostanziale contrapposizione tra le associazioni padronali e la CGIL in particolare, spesso isolata dalla pratica seguita da CISL e UIL degli accordi separati. La forte ripresa della conflittualità operaia verificatasi dalla fine degli anni 1960, in particolare nelle grandi industrie meccaniche, generò un profondo rinnovamento del s. in senso classista e unitario: a una significativa conquista legislativa, lo Statuto dei lavoratori del 1970, si accompagnò l’affermazione dei consigli di fabbrica, inseriti nelle strutture sindacali e dotati di poteri rappresentativi e contrattuali. Contemporaneamente fu avviato un processo unitario che culminò nella costituzione della Federazione CGIL-CISL-UIL (1972). I rinnovi contrattuali del 1973 e l’accordo del 1975 per l’unificazione del punto di contingenza segnarono la maggiore espansione delle conquiste economiche dei lavoratori, mentre il s. diveniva un importante interlocutore nella definizione della politica economica del governo. Negli anni successivi, l’avvio di profondi mutamenti nel sistema produttivo, le conseguenze della crisi economica internazionale e gli sviluppi della situazione politica interna indussero le confederazioni all’adozione di una linea più moderata in campo salariale e rivendicativo, sancita in particolare dalla conferenza sindacale dell’EUR (1978). Contemporaneamente, di fronte alle tensioni suscitate dai gravi episodi di terrorismo verificatisi a partire dal 1969, si accentuava l’impegno del s. in difesa delle istituzioni. Dagli anni 1970Il disegno di stabilizzare il sistema politico e quello delle relazioni industriali con un s. forte, autorevole e rappresentativo si arenò sul finire degli anni 1970, quando riemersero nella federazione unitaria prospettive divergenti. Queste si accentuarono nei primi anni 1980 in relazione alle crescenti pressioni volte a ridimensionare il meccanismo della scala mobile. In particolare, il diverso atteggiamento assunto dalla CGIL, da un lato, e da CISL e UIL, dall’altro, nei confronti del taglio di alcuni punti di contingenza, deciso dal governo Craxi nel 1984, portò alla rottura della Federazione unitaria. Negli anni successivi il s. entrò in una fase critica caratterizzata da incertezze di linea, ricorrenti dissensi tra le confederazioni e al loro interno, e un calo di consensi fra i lavoratori. Si diffondeva intanto, soprattutto in alcuni settori del pubblico impiego, dei servizi e dei trasporti, un sindacalismo autonomo di base (COBAS) con un forte spirito rivendicativo e conflittuale. Tali fenomeni sono proseguiti negli anni 1990, mentre i problemi posti dai processi di ristrutturazione del sistema produttivo e di mondializzazione dell’economia (compresi quelli connessi con il programma di integrazione europea), dall’inasprirsi della concorrenza internazionale, dalla crescita del debito pubblico e dalla crisi fiscale dello Stato hanno indotto il s. a un’ulteriore revisione della propria strategia. Oltre ad accentuare la politica di moderazione salariale (concordando, fra l’altro, nel 1992 l’abolizione totale della scala mobile), CGIL, CISL e UIL si sono mostrate disponibili ad accettare una limitazione dei tradizionali strumenti di regolazione pubblica del mercato del lavoro, una maggiore flessibilità del lavoro nelle aziende, una regolamentazione del diritto di sciopero nei pubblici servizi, una trasformazione in senso privatistico del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, una diminuzione della copertura pensionistica pubblica e lo sviluppo di forme integrative private; contemporaneamente sono stati rafforzati i vincoli imposti alla contrattazione aziendale e di categoria dalle trattative ‘triangolari’, a livello confederale, tra sindacati, associazioni padronali e governo. Questa politica sindacale ha suscitato proteste e dissensi anche all’interno delle confederazioni. Gli anni 2000 hanno visto l’inasprimento di tali polemiche fra le tre confederazioni sindacali, anche a causa della firma di accordi separati.

4. S. di comodo

Si dicono s. di comodo (o s. gialli nel linguaggio comune) associazioni sindacali costituite e sostenute dai datori di lavoro e dalle loro associazioni. L’esistenza di tali organizzazioni è vietata dalla legge in quanto comprime la libertà sindacale e ne limita gli spazi per un’attività e un’organizzazione effettivamente genuina. I modi in cui i datori di lavoro sostengono i s. di comodo sono molteplici e difficilmente tipizzabili. L’esperienza offre una serie di esempi, che vanno dal finanziamento vero e proprio al più semplice, e meno grave, favoreggiamento, che comporta maggiori problemi per l’individuazione da parte del giudice. Ciò che comunque deve essere individuato, e che il nostro ordinamento ritiene strumento antigiuridico, è il rapporto di asservimento del s. di comodo al datore di lavoro. In caso di violazione di tale divieto da parte del datore, il giudice eventualmente adito dovrà inibire il comportamento, interdicendo l’azione di sostegno, ma non potrà disporre lo scioglimento dell’organizzazione costituita.

5. S. di imprese

S. commerciali Intese miranti a incettare un prodotto o una materia prima per speculare sul rialzo del prezzo (dette anche rings). S. industriali (o, più propriamente, di produzione) Intese tendenti a sospendere per un certo periodo la concorrenza tra imprese dello stesso ramo (più note sotto il nome di cartelli o consorzi) e accordi che sboccano in forme più accentuate di concentrazione industriale in senso orizzontale o verticale (tra imprese cioè similari o tra imprese collegate da complementarità o strumentalità), dando vita in modo permanente a complessi economici (gruppi o trust) volti a rafforzare l’efficienza produttiva e a ridurre i costi di produzione.

Nella pratica finanziaria, s. azionari, accordo fra gruppi di azionisti, di maggioranza o di minoranza, di una società per azioni, che si obbligano reciprocamente ad assumere un atteggiamento uniforme nelle assemblee sociali. La liceità dei s. azionari, che una volta era posta in dubbio, è ora pienamente riconosciuta, anche se tuttora manca una specifica disciplina legislativa e se si riconosce la necessità di particolari limitazioni, soprattutto temporali. Gli scopi dei s. azionari sono raggiunti o mediante l’impegno reciproco dei partecipanti al s. di votare in assemblea secondo le decisioni prese, oppure conferendo la procura a un mandatario comune; una particolare specie di s. azionari è il s. di blocco, con il quale i partecipanti si obbligano a non vendere le proprie azioni oppure a venderle soltanto a un altro partecipante al sindacato. S. di difesa Associazione in partecipazione tra banche o imprese finanziarie che si propone di agevolare, animando il mercato, le contrattazioni di un certo numero di titoli che per il loro frazionamento in più mani hanno un mercato debole, oppure di ostacolare manovre di accaparramento degli stessi da parte di speculatori.

 Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)

di Gino Giugni
 
Sommario: 1. Introduzione. 2. Le origini. 3. I modelli di sindacalismo. 4. I modelli organizzativi. 5. I modelli di azione. 6. Le dottrine. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Sindacato e sindacalismo sono essenzialmente un prodotto della storia. Nessuna definizione basata sulla conoscenza a priori potrebbe spiegare le ragioni per cui un'aggregazione coalizzante di interessi economici ha potuto acquistare un'identità specifica e differenziale e acquisire un senso linguistico riconosciuto e riconoscibile. L'autotutela di soggetti attivi nei ruoli socioeconomici, in effetti, è fenomeno non ignoto neppure nell'antichità. E, come è ben risaputo, le organizzazioni dei produttori conobbero una fase altamente evoluta nel basso Medioevo, fino a costituire una delle strutture portanti nelle attività industriali e commerciali. Esse tuttavia non assunsero mai la designazione di 'sindacati', anche se dal punto di vista linguistico portarono il segno di esperienze affini. Questo può dirsi per le Trade Unions delle origini (v. Commons e altri, 1918), associazioni di artigiani via via evolutesi in unioni di mestiere, per i syndicats (termine che in origine indicava l'assistenza in giudizio, e successivamente si estende al gruppo di interessi organizzati: v. Reynaud, 1975), per le Gewerkschaften, per i gremios come in America Latina vengono spesso indicati i sindacati. Pur nella varietà dei termini - che in fondo, in misura superiore, si riflette anche nell'uso di una parola analoga come 'sciopero' e di quelle equivalenti, ancor più segnate da origini autoctone - l'omogeneità dei designati non è altro che il riflesso di un fenomeno che, anche se con sfasature temporali, si afferma e si consolida quasi dovunque dalla seconda metà del XIX secolo.

È il dato storico, pertanto, che attribuisce a questa varia terminologia un significato omogeneo. Ma il dato storico di riferimento altro non è a sua volta che l'esperienza del lavoro operaio e, solo più tardi, quella degli impiegati o 'colletti bianchi', fino a comprendere tutta l'area del lavoro dipendente o subordinato. Diversamente, l'aggregazione sociale degli imprenditori - e a fianco a essa, ma in molti casi prima di essa, quella del lavoro autonomo, self-employed e privo di collaboratori subordinati - segue linee di sviluppo diverse, che talora trovano il referente nel termine 'sindacale', mentre altre volte si identificano in modi diversi e volutamente inconfondibili (associazioni di imprenditori, patronats e così via).

Nel linguaggio del diritto del lavoro, anche internazionale, si afferma una designazione simmetrica, per la quale è sindacato la stessa controparte, e cioè l'organizzazione dei datori di lavoro: si veda, in proposito, oltre ai numerosi documenti internazionali, lo stesso art. 39 della Costituzione italiana.

Dal punto di osservazione prescelto emerge inoltre come il lavoro operaio, man mano che assume valore di massa, distinguendosi dal lavoro domestico, artigianale e di campagna, si identifichi soprattutto con quello risultante dalla concentrazione dei mezzi di produzione e del lavoro nella manifattura, e dalla conseguente formazione di una solidarietà di interessi percepiti come comuni. Il tutto, naturalmente, ha sullo sfondo il dato di origine, che è costituito dalla rivoluzione industriale. Ai margini di questo nucleo duro si formano a loro volta nuclei di solidarietà collettiva, portatori eventuali di analoghe capacità di antagonismo: sotto tale luce il sindacalismo del lavoro autonomo, ma soprattutto quello contadino, può assumere tratti imponenti.
L'antagonismo degli interessi appare così come l'humus che fertilizza l'esperienza del sindacato. A esso, per un uso linguistico ormai consolidato in vari ambienti di ricerca, si è convenuto di attribuire la designazione di 'conflitto industriale' (v. Dahrendorf, 1959), anche se e dove il conflitto sia stato preceduto da manifestazioni di analoga natura in altri settori, come in quello, più antico, dell'agricoltura, o sia seguito e fiorito in aree di sviluppo sindacale più recente, come quelle terziarie. L'antagonismo degli interessi organizzati rientra in vari capitoli delle scienze sociali: da quello dell'economia, dove il conflitto si polarizza sui rapporti di proprietà (Karl Marx), a quello della sociologia sotto la specie del conflitto di autorità (v. Dahrendorf, 1959), a quello del diritto, che ha visto la rigogliosa fioritura del diritto del lavoro (v. soprattutto Kahn-Freund, 1977).

2. Le origini

Prodotto dell'industrialismo, il fenomeno sindacale appare nello scenario storico in tempi diversi, pur se abbastanza ravvicinati. Le origini, non quelle remote o anticipatorie, bensì quelle segnate da indizi di significativa rilevanza, vengono normalmente individuate nei primi decenni del XIX secolo in Inghilterra, dove erano nettamente più avanzati lo sviluppo dell'industria organizzata in forma manifatturiera e quello, coevo, della classe operaia. Una delle conseguenze più visibili è data dallo stesso processo legislativo: già nel 1824 il Parlamento effettuò un primo, moderato intervento di liberalizzazione rispetto al preesistente apparato repressivo, con il Combination of workmen act (v. Wedderburn, 1986³). Seguirono nei vari paesi, anche se a ritmo più lento, altri interventi legislativi di graduale liberalizzazione. Agli inizi l'unionismo appare in genere fortemente intrecciato con forme di solidarismo mutualistico (v. Webb e Webb, 1897). In Italia l'unionismo decollò in un forte intreccio con il movimento cooperativo soprattutto di origine agricola: la fase di esplosione organizzativa che ebbe luogo nei due decenni antecedenti la grande guerra si svolse all'insegna del motto: Resistenza (cioè lotta rivendicativa), mutualità, cooperazione (v. Zangheri, 1997). Dal canto suo il movimento sindacale inglese, di cui è giocoforza far ulteriore menzione in ragione del primato detenuto per lungo tempo, tendeva già a consolidarsi nella seconda metà del XIX secolo, e a formare un fitto reticolo di contrattazione collettiva (v. Webb e Webb, 1897) che diventerà anzi una delle strutture portanti della democrazia britannica (v. Laski, 1950), anche se fortemente indebolita, a distanza di vari decenni, dall'avvento del lungo regime conservatore.

È all'inizio del XX secolo infine che, in contiguità di tempo con altri paesi tra i quali l'Italia, nasce il Trade Unions Congress, e cioè la confederazione generale, un modello che, pur nella varietà di sistemi, avrà una diffusione generale.Il decollo industriale è anche alla base della formazione del movimento sindacale nordamericano, sebbene appaia più tardivo (ne fa tuttavia menzione già Tocqueville) e si sviluppi tra enormi difficoltà ambientali: l'ostilità delle classi proprietarie, piccole e grandi, l'opposizione del ceto politico, la cultura della frontiera e la turbinosa mobilità sociale, la resistenza del sistema giuridico e del ceto giudiziario (v. Commons e altri, 1918). È solo con il New Deal e con la legislazione da esso introdotta (v. Barenberg, 1993), nonché con il decennio a esso successivo, che il sindacalismo americano acquisterà un ruolo anche politico di primissimo piano, che peraltro solo due decenni dopo avrebbe ceduto il passo a un clamoroso declino tuttora in atto.

Nei paesi eurocontinentali le vicende del sindacato appariranno alterne. La linea di sviluppo in atto in Italia, ma soprattutto in Germania sotto la spinta della socialdemocrazia, verrà spezzata dall'avvento delle dittature; ma nel periodo successivo in ambedue i paesi si avrà una lunga fase di prosperità, protrattasi fino a oggi. Il sindacalismo in Francia presenterà invece una ininterrotta continuità, sebbene a basso livello di potenza organizzativa e di influenza politica.
È nelle democrazie scandinave invece che si registra, a partire dagli anni della 'grande depressione', una dirompente crescita che si intreccerà in modo pressoché continuativo con una lunga stabilità politica e con una rapida formazione del Welfare State, avvenuta sotto la guida socialdemocratica. Tra i paesi ad alta industrializzazione appare notevole, dopo la seconda guerra mondiale e sotto l'influenza del New Deal, lo sviluppo del sindacato in Giappone, pur nel quadro di un orientamento culturale di tipo collaborativo nei confronti dell'impresa, e in ispecie di quella di grandi dimensioni. Un caso del tutto peculiare, fuori dal contesto dei paesi ad alta industrializzazione, è costituito dall'Argentina, dove, in circostanze politiche affatto particolari, si afferma un forte movimento sindacale, con caratteristiche 'protette' in sede politica e legislativa, ma comunque con un solido radicamento sociale.

3. I modelli di sindacalismo

Adottando ora una prospettiva strutturale sincronica, il sindacato ci appare costruito su tre modelli, di cui il secondo è il più ricorrente.

1. Il modello di antagonismo al sistema, il più frequente alle origini, oggi costretto in un'area molto ridotta in Europa, è ancora ricorrente nei paesi in via di sviluppo. L'orientamento teso ad accettare il sistema dell'economia capitalistica è già presente fin dalle origini nell'ambito americano e, nei comportamenti, in quello britannico, e in genere nei paesi ad alta industrializzazione, anche se associato con spinte ideali verso alternative di sistema. Lo stesso antagonismo ideale d'altronde si stempera via via in una prassi compositiva dominata dalla contrattazione, e, di pari passo, in un riformismo politico che conduce all'accettazione anche formale dell'economia di mercato. Un caso tipico, fino alla caduta del Muro di Berlino, fu quello della componente comunista del sindacalismo italiano, gradatamente ma pienamente inseritasi nella prassi compromissoria contrattuale, fino a immedesimarsi nei valori e nella dottrina relativi pur restando fedele, nei principî, all'obiettivo finale della 'fuoruscita dal capitalismo' (v. Proposta..., 1977).
Tale sdoppiamento dei fini, quelli immediati e quelli a lungo termine, emerge via via, ancorché in modo meno netto, nei movimenti sindacali che, come quello francese o quello spagnolo, appaiono più in sintonia con le vicende del comunismo internazionale. Ma se, più in generale, lo sdoppiamento dei fini si presenta allo stadio iniziale della storia dei movimenti sindacali di impronta socialdemocratica o confessionale, nella seconda metà del XX secolo l'area degli obiettivi finali appare sempre più ridotta a un ideale, oggetto di omaggio verbale e di funzioni rituali.Alla fine del secolo apparirebbe sufficiente uno sguardo agli Atti della Confederazione Internazionale dei Sindacati dei Lavoratori - un'associazione molto composita, e anche molto poco influente sui comportamenti nazionali - per rendersi conto del fatto che il crollo del comunismo ha sgomberato l'intero campo. Le sole eccezioni sono costituite dai pochi movimenti sindacali integrati nei regimi comunisti sopravvissuti. Al contrario, l'antagonismo si mantiene elevato, anche se ridotto allo stadio clandestino o quasi, dove il sistema economico è connivente con regimi politici autoritari: ed è quanto è avvenuto, specie negli anni settanta e ottanta, nelle dittature militari sudamericane, e avviene oggi nei rigogliosi regimi repressivi asiatici.

2. Nettamente prevalente è il modello conflittuale. Esso si esprime nella forma del conflitto di autorità (v. Dahrendorf, 1959), che può anche contenere, come parte rispetto alla totalità del fenomeno e della sua rappresentazione, la contestazione del sistema, anche se più verbale che reale. Il conflitto di autorità è profondamente radicato nell'esperienza relazionale della vita di lavoro. Esso può coinvolgere tutti i livelli: partendo dal basso, nelle sedi dove si svolgono anche le più elementari forme di vita di relazione da cui possono nascere forme capillari di resistenza, spontanea ovvero organizzata, fino ai vari livelli dell'organizzazione produttiva e, in estensione orizzontale, nelle comunità territoriali, fino alla sede statuale. Sotto tale aspetto potrà, in contraddizione solo apparente, porsi all'origine di forme di cogestione o concertazione, ciascuna al suo proprio livello, fondate peraltro sulla potenzialità, anche se non sull'attualità o effettività del conflitto.

3. Un terzo modello, ma forse e in prevalente misura, allo stato ipotetico, è quello partecipativo. Esso ha radici consolidate, ma quasi integralmente di origine ideologica, derivate da influenze confessionali. Inoltre, può presentare coincidenze o sovrapposizioni con le ideologie della collaborazione di classe e con l'esperienza fattane nell'ambito degli Stati corporativi, dove tuttavia la realtà conflittuale esisteva allo stato latente o negli interstizi delle strutture formali, pur costruite sul principio collaborativo. Il sindacalismo partecipativo è invece un fenomeno tardo-industriale. La tipologia dell'organizzazione del lavoro, superato o ridotto a ristretto ambito il modello tayloristico (v. Piore e Sabel, 1984), suggerisce politiche mirate all'integrazione collaborativa, che attenua l'antagonismo conflittuale facendo emergere invece aree di contatto sociale (lavoro di gruppo, dissoluzione della gerarchia, perseguimento della 'qualità totale': v. Barenberg, 1994) e/o di convergenza di interessi (salario collegato alla produttività o redditività, superamento del salario, partecipazione agli utili o al capitale: v. Weitzman, 1984).

4. I modelli organizzativi

L'identità del sindacato può essere rilevata in vario modo. Il modo più diretto è quello derivato dalla scelta del modello organizzativo, ma non perché esso risponda a un criterio più elementare: al contrario, nell'esperienza del sindacato, il modo di organizzarsi appare determinato da una serie complessa di fattori che si basano su scelte ideologiche, di dottrina, di struttura economica e giuridica. In esso, in altre parole, si riflette la realtà vivente del sindacato.

La scelta di questo punto di vista fornisce un'ampia gamma di alternative: il sindacato di mestiere (craft unionism); il sindacato industriale; il sindacato professionale o, secondo una terminologia più rispondente, occupational; il sindacato generale; il sindacato aziendale. Si tratta di termini a volte ripresi dall'inglese e non sempre riconducibili con esattezza all'uso italiano.Il sindacalismo di mestiere trae origine dall'esperienza dei paesi a più avanzato e antico sviluppo industriale, ed è proprio infatti dell'Inghilterra e degli Stati Uniti. Ne sono esempi, tra i più antichi, i sindacati che organizzarono i vari mestieri dell'industria tipografica, e che furono tra gli antesignani anche perché, a differenza di molti altri, avevano la piena padronanza dell'alfabeto e pertanto dei vari strumenti di comunicazione e di propaganda. Tra i carpenters (falegnami) americani o i vari mestieri della stampa in Inghilterra o i cappellai o i tipografi italiani si inseriva perciò una gamma amplissima e articolata di organizzazioni, che costituì il nucleo forte della prima fase del sindacalismo, tuttora operante specie in aree di più radicata tradizione, come nel Regno Unito.
Il sindacalismo di mestiere fa leva sulla solidarietà di interessi quale si forma, in modo quasi naturale, nel posto di lavoro e nella collocazione sul mercato del lavoro stesso. Esso infatti, secondo una tesi sviluppata già nei primi decenni di riflessione teorica (v. Perlman, 1928), è costruito in termini di difesa della propria posizione nel mercato e ha come destinatario la manodopera in possesso di cognizioni e di pratica del mestiere. Tipico del sindacato di mestiere è il forte senso di appartenenza, che si esprime attraverso simboli, tradizioni e folklore in parte di antica origine - il compagnonnage - e in denominazioni come le 'fratellanze' o le 'logge': la stessa massoneria presenta, alle origini, radici di appartenenza professionale. Da questo punto di vista la solidarietà sindacale, espressa in questi contenuti e con queste forme, appartiene più alla natura della Gemeinschaft, o della comunità, che non a quella della Gesellschaft, vale a dire dell'associazione per il semplice perseguimento, anche transitorio, di uno scopo comune.

L'aspetto caratterizzante del sindacato di mestiere consiste perciò nella sua percezione di essere una comunità partecipativa incentrata sulla autodifesa del posto di lavoro: quella che il più autorevole interprete di questa realtà definì come job consciousness (v. Perlman, 1928). È facile da intendere come, fin dalle sue origini, la job consciousness conducesse all'adozione di pratiche restrittive, in parte derivate dalle antiche pratiche di acquisizione di un mestiere attraverso lunghi periodi di apprendistato non retribuito.
Il sindacalismo industriale risponde a un criterio storicamente più avanzato nel tempo. Esso riflette su larga scala l'avvento di una forma di organizzazione del lavoro ispirata al metodo tayloristico e legata alla produzione di massa. E, soprattutto, il sindacalismo industriale è quello che, aprendo la porta a tutti gli strati della manodopera, allarga le sue file al lavoro non specializzato e crea un mercato del lavoro unificato: ed è questa infatti la discriminante innovativa, che segna anche una profonda trasformazione dell'esperienza sindacale. La produzione di massa, in altre parole, genera un sindacalismo di massa. Ma anche questa affermazione non va intesa in senso assoluto, perché potrebbe condurre a una sopravvalutazione del dato strutturale. Lo sviluppo del sindacalismo industriale, infatti, venne anche influenzato dalla diffusione di forme di solidarismo, in larga parte generate dalle appartenenze politiche, prime tra tutte naturalmente quelle di impronta socialista.

E infatti molte organizzazioni industriali come quelle dei metallurgici o dei meccanici assumono presto identità che vanno ben oltre i confini dei singoli mestieri: possono essere ricordate la IG Metall in Germania o la FIOM in Italia, o i vari esempi di amalgamation tra crafts diversi in Gran Bretagna, che danno vita a un sindacalismo a impronta classista o tendenzialmente tale.L'affermazione di questi centri di solidarietà avviene in molti casi senza profonde lacerazioni, quasi come un processo naturale di espansione. Dove invece il conflitto assume caratteri tali da provocare una profonda divaricazione è negli Stati Uniti degli anni trenta. È in questo paese infatti che il contrasto tra il più tradizionale modello del sindacato di mestiere e quello, in larga parte innovativo, del sindacato industriale conduce a una vera e propria scissione tra la vecchia American Federation of Labor, che intende rimanere negli argini dei mestieri, e il Congress of Industrial Organizations, scissione avvenuta nel 1935 e ricomposta venti anni dopo nella Confederazione unitaria che porta appunto il nome delle due sigle (AFLCIO) e che opera ormai in un contesto misto, dove vede anzi la prevalenza del modello più moderno.Il sindacato professionale o, con terminologia di uso più recente, quello occupazionale, è in ultima analisi un contenitore analogo a quello del craft: solo che in luogo dell'operaio di mestiere organizza ceti professionali.

A questa categoria appartengono perciò i sindacati degli impiegati, solo molto raramente integrati con quelli operai, come eccezionalmente avviene in Italia, più frequentemente associati su base orizzontale (così in Svezia o in Austria, oppure in Italia prima e durante il fascismo) o infine organizzati in simmetria con l'organizzazione operaia, ma separatamente da essa. Analoga caratteristica è quella delle sempre più diffuse unioni di categorie di medio o alto livello professionale: dalle varie professioni presenti nel settore terziario, tra le quali la potente Federazione francese dell'insegnamento, fino alle organizzazioni 'orizzontali' che attraversano tutte le aree produttive, ma limitatamente a una o più specialità. Meritano menzione, naturalmente, i sindacati dei 'quadri' o quelli degli impiegati superiori o dei dirigenti, o le varie organizzazioni professionali operanti nel settore pubblico, o infine i sindacati delle categorie emergenti (piloti) o con radici tradizionali (ferrovieri di macchina). Trattasi di un campo in piena espansione che cresce in concomitanza con l'espansione del terziario, anche se a ritmi notevolmente diseguali. Va comunque tenuto presente che è questa l'area dove lo sviluppo organizzativo e il proselitismo in molti casi riescono a compensare le diminuzioni numeriche proprie dell'area più tradizionale.

Il sindacato generale è in realtà un sindacato intercategoriale, che porta peraltro il segno di un'origine da o una preferenza per una o più categorie specifiche. Si tratta di un fenomeno tipico dei paesi anglosassoni: rientrano in esso i Teamsters americani, organizzazione tra le più forti, che partiva dall'area degli addetti ai trasporti su strada, ma si estese largamente nei settori terziari e acquistò una cattiva fama per effetto di collusioni con la malavita, ormai peraltro del tutto recise. In Gran Bretagna la Transport and General Workers' Union era e permane aperta a un'ampia gamma di attività. E, sia pure con radici molto diverse, si può affermare che appartengono al modello del sindacato generale anche quelli, tipici dei paesi latini, delle Camere o delle Bourses del lavoro. E infine, sempre ragionando in termini di simmetria geometrica e sia pure con una certa forzatura, appartengono all'area del sindacalismo generale le confederazioni generali, conosciute pressoché dovunque, anche se con funzioni variabili: da quelle di puro coordinamento, come negli Stati Uniti e in misura maggiore nel Regno Unito, fino alle confederazioni dei paesi latini, fortemente centralizzate ma a loro volta coesistenti in una relazione di concorrenza politica o anche confessionale (Olanda). Il pluralismo sindacale, pur essendo foriero di profonde influenze sui contenuti e sull'azione dei sindacati, dal punto di vista della struttura organizzativa si risolve in gran parte in una riproduzione di modelli omogenei tra loro.

L'ultimo tra i modelli organizzativi qui presi in considerazione è quello del sindacato aziendale. Esso ha un posto nella storia dei movimenti sindacali più come rappresentativo di una fase di sviluppo che non come un sistema attestato. Il sindacato aziendale infatti fa la sua apparizione nelle prime fasi della storia dei vari sindacati, ma la tendenza che si afferma molto presto è verso l'accorpamento in unità operanti che passano i confini aziendali. Il consolidamento del modello può avvenire in due direzioni alternative. La prima è quella di una sfida antagonista al sindacato extra-aziendale, sia esso di mestiere sia industriale. È il caso delle company unions, o sindacati 'gialli', conniventi con la direzione - in una distinzione che può essere in effetti molto permeabile -, che ebbero uno sviluppo particolare negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale, tanto da indurre il legislatore, durante il New Deal, a introdurre un divieto legale. Esso vige tuttora ed è consolidato da un'esplicita condanna da parte delle normative internazionali sul lavoro. Diverso è il caso della struttura sindacale aziendale esclusiva, che può presentare radici forti come in Giappone o essere comunque indotta dalle politiche adottate da grandi imprese, segnatamente da quelle a dimensioni sovranazionali, specie se operanti in siti isolati: è quanto è avvenuto in molti paesi dell'America Latina, tra i quali il Brasile. Costituisce poi un ulteriore dato di complicazione l'accavallarsi di questa struttura rappresentativa con quella, di portata di gran lunga più generale, delle rappresentanze elettive (v. sotto).

L'esistenza di un canale di rappresentanza diverso, anche se non necessariamente alternativo al sindacato, appare così frequente da essere ritenuta un dato normale (v. Rogers e Streeck, 1995). Così è nella maggior parte dei paesi eurocontinentali, mentre il single channel domina nelle aree anglosassoni, e in particolare nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Il canale della rappresentanza diretta si forma in genere attraverso elezioni aperte a tutti e regolate per legge (Germania) oppure per via contrattuale (Italia). Talvolta la rappresentanza ha caratteri misti, elettorale e di designazione sindacale (Italia). Le ragioni di questo dualismo non sono riducibili a una sola. Nella fase iniziale dell'esperienza sindacale, la rappresentanza diretta nacque per una esigenza di normale sviluppo. Ma, a determinare la formazione della doppia rappresentanza concorse il pluralismo sindacale, con la conseguente utilità di ritrovare nel luogo di lavoro un'aggregazione in grado di gestire la funzione quotidiana della rappresentanza dei lavoratori. E certamente fu lo stesso pluralismo a porre in essere un deficit di rappresentanza da parte del sindacato, che venne compensato dalla rappresentanza elettiva.

Nel complesso, comunque, si può affermare che, nei vari paesi, risulta abbastanza stabilizzato un equilibrio tra i due canali, fondato principalmente sulla devoluzione della funzione contrattuale ai sindacati e di quella di gestione alla rappresentanza diretta. L'equilibrio è risultato meglio tarato dove, come in Germania, la tradizione dei Betriebsräte, fortemente radicata fin dai tempi di Weimar, a partire dal periodo postnazista ha tratto beneficio dalla condizione di unità sindacale, per cui la distinzione tra i due canali è risultata di fatto come una divisione di compiti di natura prevalentemente funzionale. La rappresentanza diretta è conosciuta, nell'esperienza italiana, come consiglio di fabbrica e, oggi, come rappresentanza sindacale unitaria (RSU), che peraltro svolge funzioni in larga parte coincidenti con quelle del sindacato in senso proprio, anche se non ne ripete la struttura e le competenze.

5. I modelli di azione

I modelli di azione del sindacato sono strettamente coniugabili con i modelli di organizzazione prima esaminati, ma assumono naturalmente identità proprie. Tali identità sono riconducibili a:
a) i mezzi di azione diretta;
b) la contrattazione;
c) l'azione politica e di gruppo di pressione;
d) la concertazione o scambio politico.

A. L'azione diretta è stata fin dalle origini una delle espressioni più originali dell'esperienza sindacale, tanto che venne posta la domanda se fosse nato prima il sindacato o l'azione diretta, e in particolare lo sciopero (v. Kahn-Freund, 1954). In effetti, lo sciopero e, con esso, le altre forme di resistenza collettiva furono e restano tuttora gli strumenti per eccellenza della formazione di identità collettive. Nel loro consolidarsi essi diedero e tuttora danno luogo alla formazione di organizzazioni di resistenza, quali possono manifestarsi episodicamente o in contesti di solidarismi allo stato nascente, fino a dar vita alla formazione di stabili strutture organizzative; nelle forme più clamorose, la formazione di organizzazioni di resistenza può addirittura segnare un trapasso di regime: il caso più famoso fu, nel 1980, la nascita del sindacato Solidarność.

La libertà di sciopero d'altronde, oggetto dovunque di legislazioni repressive, si affermò all'incrocio tra i due secoli come una forma espansiva dell'idea stessa di libertà, quasi un'affermazione di dovuta coerenza con i principî del liberalismo politico. Non fu peraltro una conquista facile: l'affermazione del principio si trovò a contrastare severamente con gli interessi delle classi dominanti, per cui questa forma di libertà incontrò forti opposizioni, anche in contraddizione con gli stessi principî ispiratori del costituzionalismo liberale. Infatti, la libertà di sciopero venne pienamente riconosciuta in Germania solo dopo la 'grande guerra', e incontrò dure resistenze negli Stati Uniti fino agli anni del New Deal. A sua volta, il divieto dell'azione diretta fu il primo a comparire quasi immediatamente all'affermarsi delle dittature di impianto fascista o comunista.L'impiego dell'azione diretta come mezzo di pressione è effetto della percezione di uno squilibrio sociale, e d'altronde la stessa tipologia dell'azione diretta può non esaurirsi nello sciopero, anche se questo è il mezzo più frequente e caratterizzante. L'azione sindacale, che talvolta scavalca lo stesso sindacato, si articola variamente: dalle varie forme di sciopero, alcune delle quali di incerta legittimazione anche a fronte del riconoscimento giuridico del relativo diritto, fino al boicottaggio delle merci e all'occupazione del luogo di lavoro, mentre d'altro canto la parte antagonista dispone di un mezzo che può essere di attacco o di difesa, la serrata, non ammessa però da tutti gli ordinamenti. In ogni caso, anche in quest'ultimo, l'azione è collettiva: persino nel caso della serrata del singolo imprenditore, essa è collettiva dal lato della controparte.
B. Strumento ancor più tipico dell'esperienza sindacale è comunque il contratto collettivo. Sia pure con estensione e profondità variabili, l'impiego di tale strumento presenta un carattere pressoché universale; e anzi, anche nei regimi esclusi dall'area delle libertà sindacali compare quasi sempre un riconoscimento del contratto collettivo, se non altro come strumento di decentramento della normazione statale. Il contratto collettivo, che può essere regolato in modo più o meno intenso dalla legge - tra le rare eccezioni, il Regno Unito e, in parte, l'Italia (v. Giugni, 1986) -, viene stipulato normalmente tra sindacati e imprenditori, singoli o associati, e presenta una tipologia molto varia, fortemente condizionata dalle esperienze nazionali, risultando rarissimo l'impiego di tale strumento sul piano sovranazionale (Trattato di Maastricht, 1992). L'ampiezza e la penetrazione capillare del fenomeno sono ormai tali che esso può essere qualificato come una delle strutture portanti delle costituzioni materiali, mentre il suo porsi in modi reiterati e a cadenze prevedibili rende plausibile la costruzione a 'sistema' (v. Dunlop, 1958).

I contratti si distinguono anzitutto per le materie trattate, per le aree di riferimento, per i livelli e per gli effetti. Riguardo alle materie, va ricordato che il fenomeno contrattuale ha le sue radici, fin dagli inizi, nel salario, strettamente collegato a sua volta con l'orario e la durata del lavoro: lo stesso nome del contratto collettivo si afferma dopo designazioni (concordato di tariffa, Tarifvertrag, wage agreement) riferite soprattutto al salario. In seguito i contratti assumono gradatamente contenuti sempre più complessi, fino a configurarsi come veri e propri codici di categoria. A essi si aggiungono clausole dirette a regolare le relazioni tra le parti (clausole di pace, procedure per la contrattazione, strutture collaborative di vario tipo), il cui sviluppo, accentuatosi negli ultimi tempi, ha contribuito a configurare la contrattazione come un'organizzazione dei rapporti sociali di natura particolarmente complessa.

Le aree di riferimento o di copertura, indicate anche come 'unità contrattuali', riflettono, a loro volta, in larga misura il modello organizzativo del sindacato (v. cap. 4). Al sindacato di mestiere o occupazionale corrisponde il contratto di mestiere, anche se frequente è la combinazione di più unità che trattano congiuntamente. Il sindacato industriale genera naturalmente il contratto di unità industriale, che peraltro può coesistere con unità di mestiere o occupazionali minori: così avviene, per esempio, nelle ferrovie italiane. I livelli di contrattazione, a loro volta, vengono identificati in relazione territoriale oppure, ed è un aspetto di particolare importanza nella struttura del sistema, in relazione alla natura dell'unità organizzativa (impresa o azienda) o a divisioni di essa.

La distribuzione delle competenze in ragione dei livelli è uno degli aspetti più caratterizzanti per i vari sistemi nazionali: contrattazione nazionale, territoriale, aziendale, di reparto possono escludersi fra loro, o combinarsi e integrarsi reciprocamente. Quest'ultimo è il modello prevalente in Europa, pur con tonalità molto diverse, mentre negli Stati Uniti ha sempre prevalso il modello aziendale.Quanto infine agli effetti del contratto collettivo, essi si collocano nell'intricato quadro della disciplina legale. La linea di tendenza che risulterebbe prevalere, secondo quest'ultima, sarebbe quella dell'efficacia aperta alle sole imprese e ai lavoratori aderenti alle organizzazioni stipulanti, ma è non meno frequente la generalizzazione degli effetti con adeguati meccanismi giuridici (quali la recezione in legge o equivalente). Nella logica propria delle relazioni sindacali, infatti, la rete di solidarietà naturale che si stringe intorno ai lavoratori induce tendenzialmente a un'applicazione generale.

C. L'azione politica e di gruppo di pressione. Fin dalle origini il movimento sindacale si è trovato coinvolto, in via diretta o in via indiretta, nell'agone politico. La lotta per l'esistenza e il riconoscimento legale e quella per il suffragio universale condussero a forme di convergenza o di affiancamento, anche quando non erano il prodotto di una predeterminata e permanente scelta politica. La famosa sentenza sul caso Taff Vale del 1901 spinse le Trade Unions a darsi una rappresentanza nel Parlamento, dalla quale, poco più tardi, sarebbe nato il Labour Party.

Nell'insieme, i modelli di comportamento del sindacato in rapporto all'azione politica si assestarono su quattro schemi, per quanto attiene, naturalmente, ai soli paesi con regimi di libertà sindacale.

1. Il modello del business unionism o, come viene con ampia approssimazione definito, tradeunionista. Esso - e l'esempio più importante viene dagli Stati Uniti - esclude totalmente il rapporto organico con i partiti politici, adottando il criterio di alleanze elettorali mobili, anche se orientate, sebbene con fasi alterne, a favore del partito democratico. Il principio è: reward your friends, punish your enemies.

2. Il modello laburista, formatosi in modo empirico, come si è detto, in Gran Bretagna, ma diffuso, anche se con notevoli varianti, nei paesi del Commonwealth. Tuttavia, specie nel paese di origine, il modello si compattò fino a una integrazione organica del sindacato nel partito, che solo negli ultimi anni ha cominciato a rendersi più elastica.

3. Sensibilmente diverso, invece, appare il modello di rapporti tra sindacato e partiti 'di classe', in origine di forte integrazione ma poi attenuato, fino a che, nel 1907, il Partito socialdemocratico tedesco, allora un vero e proprio partito guida, proclamò l'eguaglianza dei diritti tra partito, operante sul piano politico, e sindacato, soggetto proprio della cosiddetta azione economica. La dottrina leninista della 'cinghia di trasmissione' introdusse una forte alterazione di tale divisione di compiti, ma venne gradatamente abbandonata anche dai maggiori partiti comunisti operanti nell'Occidente, e in particolare da quello italiano. Il pluralismo sindacale, dove si affermò, a sua volta rifiutò il rapporto di stabile alleanza tra partito socialista e sindacato, ma nello stesso tempo indusse alla formazione di collateralismi con altri partiti, e in particolare con quelli di ispirazione cristiana.

4. Una semplice menzione è sufficiente per il sindacalismo rivoluzionario, che ebbe una grande influenza soprattutto nei paesi mediterranei, ma che appare ormai pressoché scomparso. In sede dottrinale, il sindacalismo rivoluzionario trasse ispirazione soprattutto dall'opera di Georges Sorel (v., 1906) e da una nutrita dottrina, fiorita soprattutto all'inizio del XX secolo, ma notevole fu la sua influenza nelle lotte operaie e nel mondo agricolo. Esso tendeva naturalmente a privilegiare il conflitto e, quantomeno nelle sue forme più coerenti, a impedire o ostacolare la composizione dello stesso, ritenendo l'azione del sindacato medesimo come una preparazione rivoluzionaria, che lo stesso Sorel teorizzò nell'idea, a sfondo utopistico, dello sciopero generale.L'azione come gruppo di pressione si svolge soprattutto nei confronti degli organi pubblici, locali o nazionali, e oggi, in misura considerevole, nei confronti delle organizzazioni internazionali, ma specialmente di quelle comunitarie. L'intervento del sindacato come lobby riveste una particolare importanza in quanto sostituisce il ruolo che altrove è proprio dei partiti fiancheggiatori.
D. La concertazione o scambio politico verrà descritta in seguito (v. cap. 6). Essa ha trovato un'applicazione sistematica in paesi minori, come l'Austria e, in modo meno sistematico, in Spagna e in Italia. È evidente che la strategia della concertazione pone il sindacato al più alto livello di partecipazione alle decisioni politiche e, proprio per ciò, presenta un volto bivalente, potendo anche apparire come una chiamata di corresponsabilità a cui non sempre il sindacato, o parte di esso, o i suoi nuclei più militanti sono o sono stati disponibili.

6. Le dottrine

L'esame delle dottrine sul sindacalismo deve essere condotto non attraverso un confronto tra ideologie, bensì impiegando la dottrina come strumento di interpretazione della realtà. Da questo punto di vista è possibile sviluppare una sobria classificazione, fondata appunto sulle dottrine che di volta in volta sono state o sono impiegate ad assolvere questo compito.

I 'classici'. La prima interpretazione scientifica del sindacalismo è stata quella elaborata in chiave di dottrina economica da Sidney e Beatrice Webb. Il sindacalismo, nel quadro teorico delineato da tali autori, viene costruito sull'accertata necessità di contenere la pressione del mercato del lavoro (the higgling of the market) sull'anello più debole della catena competitiva.

La concorrenza nel mercato del lavoro si presenta frammentata, atomizzata e costretta in un circuito che tende inevitabilmente al ribasso. Il fattore di equilibrio è la risultante dell'intervento di tre linee di azione costituite da:
a) la restrizione degli accessi (the restriction of number), che è la forma più antica di resistenza, propria delle organizzazioni di mestiere, dove la restrizione viene praticata soprattutto attraverso tecniche ferree di regolazione dell'apprendistato;
b) la regola comune (the common rule), per cui il mercato è aperto a tutti, ma tutti devono sottoporsi a pari condizioni di lavoro e retributive: in sostanza, è il metodo che si affermerà soprattutto attraverso la contrattazione collettiva e che conserva a tutt'oggi la sua vitalità;
c) l'intervento legislativo (the legal enactment), che impone a tutti la regola comune, tenuto conto anche del fatto che nel Regno Unito i contratti di lavoro non avevano e in parte non hanno tuttora efficacia giuridica.

In conclusione, va dato atto che la dottrina dei coniugi Webb (v., 1897), costruita sulle solide basi di una ricerca storica ed empirica sulle pratiche dell'unionismo, ha creato le fondamenta per la conoscenza dell'organizzazione e dell'azione sindacale e in particolare della prassi della contrattazione collettiva.
La 'scuola del Wisconsin'. Alimentata dalle forti personalità di John R. Commons (v. Commons e altri, 1918) e di Selig Perlman (v., 1928), operò anch'essa nei primi decenni del secolo. Il campo di osservazione e di invenzione teorica apparve radicato soprattutto nell'esperienza nordamericana, fortemente atipica rispetto a quelle europee. La dottrina di questa scuola interpretò in modo esatto le ragioni del sindacalismo di mestiere, già quando individuò l'origine dell'unionismo non nell'industrialismo incipiente, bensì nella costrizione di un mercato del lavoro sottoposto alla pressione del capitalismo mercantile e preindustriale. La solidarietà appariva pertanto fin dagli inizi imperniata non sulla classe o su obiettivi di trasformazione sociale, bensì sulla 'coscienza della scarsità' e sulla conseguente resistenza collettiva ispirata dalla job consciousness (v. cap. 4).

Il sindacato americano, correntemente definito come business unionism, o 'sindacalismo del pane e burro', si plasma secondo questo modello, che mantiene la sua continuità anche a fronte della rivoluzione determinata dall'ascesa del sindacalismo industriale. Le sue radici presentano caratteri di autoctonia, seppure intrecciati in varia misura con l'influenza esercitata dagli intellettuali e con le aspirazioni rivoluzionarie o riformiste da questi immesse nel mondo del lavoro anche attraverso l'immigrazione; esso è stato peraltro capace di una decisiva resistenza a fronte dei reiterati tentativi di convogliare l'esperienza sindacale sul piano della più ampia solidarietà di impronta laburista o socialista. Come negli autori prima menzionati, e negli Stati Uniti in misura anche maggiore, il baricentro dell'azione sindacale si pone prevalentemente nella contrattazione collettiva, tenuto anche conto dell'ostilità, storicamente comprovata, del sistema politico americano per un riformismo sociale attuato per via legislativa.

Gli autori di ispirazione marxista. Le loro opere appartengono al contesto dei classici, anche se meno netta, rispetto agli autori prima menzionati, è la linea di demarcazione tra letteratura scientifica e letteratura militante. Tre grandi filoni fanno capo anzitutto, naturalmente, all'opera di Marx ed Engels, dove l'azione sindacale è peraltro percepita come propedeutica a quella politica, nei suoi aspetti di palingenesi rivoluzionaria. Non va comunque trascurato il grande apporto alle scienze sociali, costituito dall'analisi delle condizioni della classe operaia in Inghilterra (v. Marx, 1867-1894), analisi che fu in un certo senso preparatoria all'incipiente resistenza sindacale. Gli sviluppi della dottrina marxista vengono dunque registrati in tre aree: la prima, propria dell'anarcosindacalismo, generò, come sopra ricordato (v. cap. 5), un movimento di grande impatto nei primi decenni del secolo e venne fortemente influenzata da scrittori di grande rilievo (v. Sorel, 1906; v. Leone, 1910²; v. Labriola, 1926), non sempre risultati estranei, per incroci paradossali, a influenze delle dottrine fasciste; la seconda, attraverso l'impianto leninista, condusse alla condanna ex cathedra del sindacalismo rivendicativo (v. Lenin, 1902); la terza, di cui fu protagonista il socialismo della Seconda Internazionale, si rispecchiò nel modo più efficace nell'opera, anch'essa militante ma rimasta minoritaria, di Eduard Bernstein (v., 1899), mentre invece il parallelo riformismo della scuola fabiana, di cui erano stati parte attiva gli stessi Webb, esercitò una immediata e profonda influenza.

Gli economisti. La riflessione sull'esperienza sindacale si approfondisce naturalmente nei decenni successivi, e riceve un'impronta duratura dalle dottrine contemporanee. Tra queste ultime, una posizione di rilievo acquista una ricerca avviata, da autori di prevalente formazione economica, presso alcune prestigiose sedi universitarie americane. L'opera conclusiva, scritta da quattro autori (v. Kerr e altri, 1960), si presenta come una summa conoscitiva costruita su un ambizioso obiettivo di sintesi orientato in senso universalistico e in parte almeno metastorico. Il fenomeno sindacale è inquadrato nell'ambito di una teoria generale delle relazioni industriali, il cui oggetto viene isolato e identificato nella rete delle regole (web of rules) che convogliano l'azione dei tre attori, management, sindacato, governo. Esse operano in un quadro di relazioni capaci di autosviluppo, pur essendo assoggettate alle costrizioni individuate dagli autori nella tecnologia, nel contesto economico e di mercato, nella distribuzione del potere. Il fattore differenziale viene comunque identificato nella presenza, combinata o alternativa, di cinque diverse élites dominanti: feudale, coloniale, fascista, democratica occidentale, comunista. In questo quadro concettuale le relazioni industriali - e in esse, naturalmente, il sindacato - rivelano una innata tendenza a uniformarsi. Segno di questa tendenza è la teoria del declino dello sciopero (v. Ross e Hartmann, 1960), che tuttavia negli anni sessanta avrebbe finito per ricevere una smentita clamorosa. La teoria dei quattro autori fu coeva di un'opera, pubblicata da uno di essi (v. Dunlop, 1958), che ottenne un notevole successo soprattutto come referente di un modello di ricerca largamente impiegato.La scuola di Oxford. La ricerca più feconda, dopo la fase iniziale di impronta americana, si trasferisce nella 'scuola di Oxford' con forti influenze dalla e nella London school of economics, già culla del fabianismo.

La scuola di Oxford (v. Clegg e altri, 1980) può essere considerata come la sede più influente dell'orientamento ispirato al pluralismo istituzionale e a quello che fu definito laissez faire collettivo, ed esprime in larga misura il clima dei decenni postbellici, caratterizzati dalla piena occupazione e, ma soprattutto nel suo principale referente geografico, da una accentuata conflittualità prevalentemente di tipo unionista. Procedendo oltre i limiti teorici degli Webb, che avevano indicato la legislazione come sbocco finale dell'azione del sindacato, gli autori ora in esame, sulla scorta dell'esperienza britannica, propongono la contrattazione come modello tipico, destinato peraltro a esercitare una profonda influenza ben oltre i confini geografici di tale esperienza.

Una forte influenza ebbe anche - e un forte impulso ricevette - negli anni sessanta l'elaborazione del rapporto della Royal Commission che prese il nome da lord Donovan, che costituì una base anche teorica in cui trovarono assestamento i dati concreti dell'esperienza sindacale di tale paese.Il sindacato appare principalmente come agente del mercato del lavoro, che opera attraverso lo strumento della contrattazione, controllando in forma tendenzialmente monopolistica l'offerta di lavoro. In questo le parti sociali assumono una funzione di 'legislatore' privato, ma alla base della loro azione si pone il conflitto industriale, da cui, a guisa di output, scaturisce la posizione delle regole (v. Clegg, 1979).

I sociologi. Pur non approfondendo in modo specifico il tema del sindacato e dell'azione sindacale, l'opera di Dahrendorf (v., 1959, tr. it., pp. 430 ss.; v. Bendix e Lipset, 1968) ha esercitato una profonda influenza, nel momento in cui ha individuato la radice del conflitto industriale nel rapporto di autorità in luogo di quello di classe. Questa infatti prescinde dalla fonte di investitura dell'autorità stessa, si tratti della proprietà privata, dello Stato, ovvero del management o di altra fonte. Il punto essenziale è il conflitto di interessi, che, nella veste di conflitto industriale, costituisce a sua volta il principale fattore genetico del sindacato, la cui azione tende poi ad articolarsi in varie forme; tra i meccanismi di democrazia industriale l'autore osserva con particolare interesse quelli della cogestione in Germania. La teoria di Dahrendorf ha dato come esito principale la separazione del conflitto industriale dall'idea del conflitto di classe, e ha localizzato il primo in un ambito specifico e proprio, generando quindi ciò che è stato definito come 'isolamento istituzionale del conflitto'.

Le dottrine pluralistiche e conflittualistiche furono sottoposte a una dura prova quando, sul finire degli anni sessanta, riemersero sia la dottrina marxista, sia l'antagonismo di classe anche nell'ambito sindacale. Queste tendenze furono interpretate da Pizzorno, che, sulla base di una rigorosa ricerca sull'autunno caldo italiano (v. Pizzorno e altri, 1978), giunse a conclusioni teoriche di rilievo. La reviviscenza conflittuale, dopo la profezia risultata sbagliata del progressivo declino del conflitto, derivava secondo Pizzorno dalla formazione, specialmente in Italia, in condizioni di piena occupazione e con notevole ritardo storico, di un nuovo strato di manodopera a bassa qualificazione, che fornì una forte spinta verso la politicizzazione dell'azione sindacale. È in tale contesto che si affermarono le nuove identità collettive, di cui l'analisi di Pizzorno ha offerto una importante analisi. E con le nuove identità collettive si affermano orientamenti egualitaristici e domande di controllo sull'organizzazione del lavoro. In questo il sindacato appare impegnato in un rapporto con la base, che si prospetta come una riserva di militanza per il sindacato stesso.

Pur a fronte di condizioni ormai sensibilmente modificate, le conclusioni di Pizzorno hanno fornito ulteriori e feconde chiavi interpretative per il fenomeno sindacale. In particolare, esse sono state sviluppate da Crouch (v. Crouch e Pizzorno, 1977), il quale elabora la teoria dei 'cicli di militanza' che supera largamente i limiti dell'osservazione condotta sugli anni della contestazione ed estende il reperimento delle nuove identità collettive ben oltre le aree del lavoro industriale, per investire il pubblico impiego e parti del terziario, anche nelle componenti in genere identificate come 'corporative'.

Lo scambio politico. Una più recente dottrina, anch'essa fondata sull'osservazione empirica, inquadra l'esperienza sindacale nell'ambito del modello neocorporativo o dello 'scambio politico' (v. Schmitter, 1992; v. Tarantelli, 1986). Questa dottrina trae alimento dalle esperienze di politica dei redditi compiute negli anni settanta sotto la pressione della crisi petrolifera e del conseguente esaurimento della fase di crescita che aveva dominato gli anni postbellici. In essa sindacati, imprenditori e governo definiscono obiettivi comuni che formano materia dello scambio, e principalmente stabilità dei salari e dei redditi da lavoro in contropartita con occupazione e politiche sociali. La strategia neocorporativa conduce a una forte valorizzazione del sindacato e della sua funzione rappresentativa. Il sindacato diviene agente o soggetto politico, pur con un comportamento contrassegnato in genere da una forte autonomia rispetto ai soggetti politici, governo, parlamento e partiti. Ma tale scelta pone naturalmente gravi problemi di rapporto con la base e con la militanza. In questo senso, più che una dottrina del dover essere o comunque una teorizzazione di stabili linee di tendenza, il neocorporativismo, che assume aspetti vari nei diversi paesi, presenta anche, salvo alcune eccezioni localizzate soprattutto in paesi di dimensioni minori e con una forte coesione sociale, un notevole grado di instabilità. Esso presenta un'immagine del sindacato come organizzazione che, avendo come presupposto una solida democrazia parlamentare, la integra con forme più o meno accentuate di partnership sociale, sebbene molto raramente calate nella forma istituzionale.

Il sindacato partecipativo. Le più recenti tendenze dell'esperienza sindacale, che tuttora possiamo considerare in formazione e certamente non consolidate da una dottrina compatta, emergono soprattutto dai grandi mutamenti in corso nell'organizzazione del lavoro e del mercato e sono indotte dal superamento delle forme di produzione di massa e di organizzazione parcellizzata, che erano state determinanti nella evoluzione del sindacalismo a partire dal periodo fra le due guerre. La specializzazione flessibile, la lean production, il lavoro di gruppo, tutto prelude a forme di partecipazione che già sul terreno dell'organizzazione del lavoro possono avere forte incidenza sui comportamenti dei lavoratori e, in via mediata, sulle loro organizzazioni. Il nuovo modo di produzione può porre in essere, come in effetti avviene, una sfida ai comportamenti tradizionali del sindacato, e può addirittura minarne le basi, oppure indurlo a cercare vie nuove capaci di interpretare le nuove domande. È un'area tutta problematica, sovente inquinata da improvvisazioni meramente verbali. La stessa terminologia 'partecipativa' risulta nell'insieme poco espressiva, perché il tema, in realtà, appartiene già al XXI secolo, e non è in questa sede, non dedicata ai futuribili, che può essere adeguatamente preso in considerazione.E, procedendo oltre, la crescente utilizzazione di forme salariali a partecipazione ha anch'essa una bivalenza, apparendo pienamente integrabile nella prassi della contrattazione collettiva, oppure orientabile allo scopo di liberare la direzione dalla pressione antagonista del sindacato.


Sindacalismo

Enciclopedia del Novecento (1982)

di Giovanni Tarello

Sommario: 1. Gli usi del vocabolo ‛sindacalismo'. 2. Per un censimento e una classificazione dei sindacalismi. 3. Primi decenni del secolo. a) Il populismo russo come sindacalismo di ceto. b) Il sindacalismo cattolico e quello dei nazionalisti come sindacalismo corporativo. c) Il sindacalismo di mestiere. d) Il sindacalismo riformista di classe. e) Il sindacalismo rivoluzionario di classe. 4. Tra le due guerre. a) Tendenza generale. b) Il sindacato organo del partito. c) Il sindacato organo dello Stato. d) Il sindacalismo contrattualistico. 5. Il secondo dopoguerra. a) Il sindacalismo statunitense. b) Il sindacalismo dei paesi del Nord Europa. c) Il sindacalismo dei paesi latini, con particolare riguardo al sindacalismo italiano. □ Bibliografia.

1. Gli usi del vocabolo ‛sindacalismo'

Il vocabolo ‛sindacalismo', come i vocaboli che gli corrispondono nelle altre lingue romanze (in particolare il francese syndicalisme), designa da un lato il movimento effettivo dell'associazionismo sindacale e tutta una varietà di fenomeni reali costituiti dai sindacati - nella loro variegata articolazione storica e ambientale - e dalla loro attività e azione; designa inoltre, dall'altro lato, gli atteggiamenti ideologici, le dottrine e le teorie proprie dell'associazionismo sindacale.

In questa seconda accezione esso designa in modo generico ogni dottrina relativa ai fini, ai destini, alle possibilità dei sindacati, ai modi in cui si debbono organizzare, ai modi ordinari e straordinari in cui i fini debbono essere perseguiti.

Peraltro ‛sindacato' designa anche, in modo altrettanto generico, ogni (effettiva o concepibile) organizzazione di gruppi economici, individuati secondo le più diverse categorie concettuali analitiche e ideologiche, come ad esempio il mestiere, il ceto, la corporazione, la categoria, il settore, la classe.
Dalle precedenti osservazioni segue che il riferimento del vocabolo ‛sindacalismo' è reso indeterminato dal fatto che gli stessi fenomeni e gli stessi fini e programmi appaiono talvolta inclusi e talvolta esclusi, a seconda della prospettiva ideologica di chi usa il vocabolo. Non solo, infatti, è condizionante l'ideologia dell'utente del vocabolo quando questo è usato per designare dottrine, ma l'ideologia è anche condizionante allorquando il vocabolo è impiegato per designare associazioni reali, giacché il soggetto o portatore di fini o programmi viene individuato mediante concettualizzazioni ideologiche, quali sono in misura minore quelle di ‛mestiere' e di ‛settore' e in misura massima quelle di ‛ceto', di ‛corporazione' e in special modo di ‛classe'.
Non sorprende perciò che le tecnicizzazioni lessicali, i restringimenti e le precisazioni del significato del vocabolo ‛sindacalismo' siano avvenute e avvengano solo entro comunità ideologiche; che i significati cosiddetti ristretti o propri del vocabolo siano sempre fortemente connotati e gergali; che l'aggiunta o la sottrazione di aggettivi (ad esempio, dire ‛sindacalismo' o ‛sindacalismo rivoluzionario', dire ‛sindacalismo' o ‛sindacalismo di mestiere', e così via) serva piuttosto a precisare la prospettiva di chi parla che il fenomeno oggetto di discorso; che perciò gli usi di ‛sindacalismo', da solo o con precisazioni aggettivali, quale nome proprio di movimenti o fenomeni specifici e storicamente determinati, siano sempre usi malfidati e aperti a ragionevoli contestazioni.

Segue inoltre, dalle precedenti considerazioni, che anche la semplice descrizione di eventi e atteggiamenti effettuali non può prescindere da continui riferimenti al quadro concettuale ideologico tanto dei protagonisti immediati degli eventi descritti quanto dei vari gruppi di osservatori contestuali o successivi.
Fatte queste premesse, da un lato troppe e dall'altro lato probabilmente troppo poche, noi faremo un primo censimento, il più largo possibile, dei fenomeni e delle dottrine dell'associazionismo di gruppi economici all'inizio di questo secolo.
Successivamente tracceremo una mappa delle linee di tendenza e di sviluppo.

2. Per un censimento e una classificazione dei sindacalismi

Per procedere a un censimento dei movimenti sociali e degli atteggiamenti ideologici riconducibili al sindacalismo nell'accezione più generica del vocabolo, è opportuno stabilire preliminarmente qualche criterio di classificazione. Infatti se possediamo classificazioni entro cui collocare movimenti reali e atteggiamenti ideologici, diviene più agevole, una volta collocati nelle varie classi i fenomeni che si manifestano nel tempo e nello spazio, individuare linee di tendenza del fenomeno complessivo nel tempo o linee di tendenza in aree geografiche determinate. A tale scopo sembra conveniente adottare criteri di classificazione diversi, con riguardo ai diversi aspetti che i fenomeni sindacali (anche nei profili ideologici) assumono nel contesto sociopolitico, eventualmente in relazione ad altri fenomeni o strutture sociali (come il diritto).

Un primo criterio di classificazione è quello che riguarda la base che un sindacalismo aggrega (movimento reale) o si prefigge di aggregare (atteggiamento ideologico). Da questo punto di vista noi possiamo distinguere: a) il sindacalismo di ceto; b) il sindacalismo di mestiere; c) il sindacalismo di corporazione; d) il sindacalismo di settore; e) il sindacalismo di classe. Questa classificazione, che fa riferimento a concetti ideologico-dottrinari utili a individuare la base di aggregazione, è agevole riguardo agli atteggiamenti ideologici ma è talvolta disagevole riguardo ai movimenti reali.

Un secondo criterio di classificazione riguarda i fini che un sindacalismo si propone. Come è evidente, anche questo secondo criterio di classificazione è agevolmente impiegabile in relazione agli atteggiamenti ideologici - in particolare dichiarati in dottrine - e impiegabile molto meno agevolmente in relazione ai movimenti reali. Da questo punto di vista possiamo distinguere: a) il sindacalismo rivoluzionario; b) il sindacalismo riformista. Come è ovvio, si intende per ‛rivoluzionario' quel sindacalismo che mira a mutare radicalmente la società e i rapporti sociali, e per ‛riformista' quel sindacalismo che mira a mutare aspetti della società e a introdurre riforme; come è evidente, il rivoluzionarismo e il riformismo possono essere compatibili o incompatibili a livello ideologico, a seconda delle dottrine, e anche, a livello di movimenti e strategie reali, a seconda della situazione; altrettanto evidente è che può darsi un movimento sostanzialmente rivoluzionario il quale esprima un'ideologia riformista, nonché (caso più frequente) viceversa.

Dal punto di vista dell'organizzazione che il movimento si dà o che l'ideologia prospetta - terzo criterio di classificazione - possiamo riferirci all'aggregazione di gruppi minuscoli in organizzazioni minuscole e impenetrabili; alla aggregazione di gruppi minuscoli in reti di accordi che coprono tendenzialmente tutto il movimento sindacale nell'ipotesi di una solidarietà di interessi; infine all'aggregazione secondo accordi atti a superare, in un ipotizzato interesse comune, interessi di parte eventualmente conflittuali. Da questo terzo punto di vista possiamo distinguere tra: a) il sindacalismo atomistico; b) il sindacalismo federativo, che a sua volta può distinguersi in federativo orizzontale e federativo verticale; c) il sindacalismo corporativo. Come è evidente, l'organizzazione è funzionale ai fini che il sindacalismo si propone e ai mezzi che esso presceglie; ma si danno fenomeni di vischiosità delle organizzazioni, tanto che queste talvolta restano in vita anche col mutare dei fini e dei mezzi dando luogo a disfunzionalità.

Quarto possibile criterio di classificazione è quello che fa riferimento all'esistenza e alla natura dei rapporti che intercorrono (movimenti reali) o si vuole intercorrano (atteggiamenti ideologici) tra un sindacalismo e altre forze - di natura diversa - che operano nello stesso contesto politico aggregando in tutto o in parte la stessa base soggettiva: come, principalmente, i partiti. Da questo punto di vista distinguiamo: a) il sindacalismo autarchico, che non ha né vuole avere collegamento veruno con i partiti; b) il sindacalismo che genera partiti e se ne avvale; c) il sindacalismo di partito, che è e vuole essere dipartimento sindacale di un partito o la ‛cinghia di trasmissione' di un partito. Come è evidente, in questa materia la divaricazione tra realtà e ideologia può essere massima, così come possono darsi situazioni di incompatibilità ideologica tra un partito e un sindacato di fatto uniti da rapporti di interdipendenza.

Quinto possibile criterio di classificazione è quello che fa riferimento ai rapporti tra sindacalismo e organizzazione giuridica dello Stato. Da questo punto di vista le situazioni tipiche (reali o proposte) sono quattro, e corrispondentemente possiamo distinguere tra: a) sindacalismo illegalitario, che ammette o privilegia l'azione sindacale che, dal punto di vista del diritto, è illegale; b) sindacalismo legalitario, che non ammette l'azione sindacale illegale; c) sindacalismo sostenuto, che accetta o pretende un positivo sostegno dell'azione sindacale e dell'organizzazione sindacale da parte della legge; d) sindacalismo istituzionale, che è o aspira a essere un organo dello Stato con funzioni delegate di normazione, giurisdizione e amministrazione.

3. Primi decenni del secolo

a) Il populismo russo come sindacalismo di ceto

Uno solo dei vecchi sindacalismi di ceto è ancora attivo all'inizio del XX secolo. Si tratta del populismo russo (in russo narodničestvo; gli aderenti narodniki), la cui base di aggregazione dal punto di vista dell'ideologia - non peraltro della realtà effettiva - era costituita dal ceto contadino, ceto che era dai populisti considerato il punto di partenza e di arrivo di una palingenesi sociale preconizzata, di carattere tanto politico quanto religioso, e naturalmente rivoluzionaria. Alle spalle del populismo vi era una lunga e aggrovigliata storia ideologica segnata, alle origini, da personalità disparate quali A. I. Herzen, N. G. Černyševskij, M. Bakunin, P. L. Lavrov, N. V. Čajkovskij, e una ancor più aggrovigliata storia di azione rivoluzionaria. Tra i punti salienti di tale storia, si può ricordare la fondazione della società segreta Terra e Volontà (in russo Zemlja i Volja) nel 1876; la formazione di una serie di movimenti politici - naturalmente clandestini - che attorno al 1880 vennero ad aggregarsi attorno a un partito populista, terrorista e rivoluzionario, denominato Volontà del Popolo (in russo Narodnaja Volja), ed escludendo gli elementi antiterroristi che confluirono in un movimento riformista, chiamato Sezione Nera (in russo Čërnyj peredel), guidato da G. V. Plechanov e destinato a trasformarsi nel Partito Socialdemocratico (1898); la pubblicazione di una rivista culturale, ‟La ricchezza russa" (‟Russkoe bogatstvo"), relativamente moderata nell'apparenza ma in realtà punta emergente del movimento terrorista rivoluzionario clandestino (apparsa nel 1876 continuerà sino al 1918). Il nocciolo di questo retaggio storico, al di là delle molte varietà, era un programma semplicistico: l'abbattimento violento dell'ordinamento della proprietà e dello Stato, e la ridistribuzione delle terre ai contadini non a titolo di proprietà individuale bensì a titolo di godimento in forma comunitaria da parte di ciascuna comunità rurale (obščina). Si trattava di un programma spiccatamente utopistico e irrealistico, il cui orizzonte restava essenzialmente agrario nonostante le prime manifestazioni di una industrializzazione che produceva operai: come polemicamente e faziosamente non aveva mancato di far rilevare Lenin fin dal 1894 con lo scritto Che cosa sono gli ‛amici del popolo' e come lottano contro i socialdemocratici. Tuttavia, nella situazione russa antecedente la guerra, un simile programma basato su rivendicazioni di ceto, come la riappropriazione della terra da parte dei contadini, oltre alla forza di una tradizione letteraria e culturale nazionale aveva quella di una relativa capacità di rispecchiare, in negativo, la situazione esistente. È perciò comprensibile come questo programma sia rimasto, sostanzialmente, quello del Partito Socialista Rivoluzionario russo, fondato nel 1901, il cui credo si riassumeva effettivamente (e non solo nelle caricature polemiche degli avversari socialdemocratici) nello slogan ‟Rivoluzione agraria e terrorismo", e come, invece, fuori dalla Russia e dai paesi slavi, le influenze - che pure non mancarono - fossero destinate a essere scarse.

La storia del Partito Socialista Rivoluzionario evidenziò - se ve ne fosse stato bisogno - l'incompatibilità di un sindacalismo di ceto, rivoluzionario, illegalitario, tanto con movimenti socialdemocratici quanto, e ancor più, con la formazione di uno Stato sovietico. La decisione dei bolscevichi al potere di concedere le terre ai contadini trovò in un primo breve momento appoggio e fattiva collaborazione nell'ala sinistra del Partito Socialista Rivoluzionario guidato da M. Spiridonova; ma dopo la pace di Brest-Litovsk, la costruzione di uno Stato totalitario respinse i socialisti rivoluzionari in una opposizione che essi non potevano concepire e praticare se non con i propri mezzi tradizionali, e cioè la violenza terroristica e l'appello alla rivoluzione contadina contro lo Stato burocratico e totalitario in formazione. Con l'ovvia conseguenza che i bolscevichi trassero dalla contingente confluenza dell'opposizione rivoluzionaria e della reazione bianca una conferma e una riprova della vecchia tesi leninista sull'identità di libertarismo anarchico contadino e reazione aristocratica: tesi certo operativa in fatto di terrorismo psicologico, ma ridicola in termini di realtà storica e di analisi ideologica.

b) Il sindacalismo cattolico e quello dei nazionalisti come sindacalismo corporativo

Attivo nei primi due decenni del secolo è un sindacalismo di ispirazione cattolica che individua la base associativa nelle corporazioni, cioè in unioni organiche di tutti coloro, lavoratori e datori di lavoro, che operano in una unità produttiva o in un settore produttivo; unioni che ‛naturalmente' producono norme di composizione degli interessi eventualmente conflittuali e che, nell'ideologia più diffusa, dovrebbero essere dotate dal diritto o dovrebbero dal diritto essere riconosciute titolari ‛naturali' di poteri regolamentari e giurisdizionali.

Le più antiche espressioni, non ancora molto articolate, del corporativismo cattolico, si possono rintracciare a partire dal 1870. In Germania idee corporativistiche specificamente cattoliche furono espresse e messe in circolazione dal vescovo W. E. von Ketteler, il quale riteneva che le idealità cristiane potessero far superare gli egoismi individualistici. In Francia, soprattutto in funzione antipositivistica e con notevoli sfumature conservatrici o reazionarie, idee corporativistiche erano state fatte circolare dal conte A. de Mun e dal marchese R. La Tour du Pin: il primo aveva anche tentato di organizzare dei sindacati misti, cioè sindacati che raggruppavano, per ciascuna professione, lavoratori e datori di lavoro. Le idee che presiedettero ai tentativi del de Mun furono piuttosto semplici, risolvendosi nel propagandare l'adempimento con spirito cristiano dei doveri propri sia dei lavoratori che dei datori di lavoro, e l'impostazione ‛secondo spirito di giustizia' dei loro rapporti. Data la situazione politica francese, questi movimenti assunsero atteggiamenti di sospetto nei confronti dello Stato e si tennero in disparte nelle polemiche allora in corso sulla ‛legislazione sociale', né mostrarono propensione per richieste di legislazione di sostegno o, tanto meno, di istituzionalizzazione. In parte diversi i precedenti in Italia, ove il Congresso dei cattolici italiani (Lucca 1887) aveva mostrato da un lato l'emergere di concezioni articolatamente corporativistiche e dall'altro lato il prevalere dell'opinione che i tempi non fossero maturi ancora per proporre audaci (così parevano) esperimenti; ma subito dopo l'enciclica Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII indicava ai cattolici, come strumenti per una società cristiana, oltre ai sindacati (sodalitia) confessionali, proprio delle corporazioni miste atte a procurare che ‟ordo alter accedat ad alterum". Sulla base di siffatto autorevole incoraggiamento, al nuovo Congresso dei cattolici italiani (Genova 1892) si fece gran parlare - quantunque in modo molto vago - delle corporazioni medievali e si manifestò grande favore per quelle che furono chiamate ‟rappresentanze di interessi", contrapponendole alla ‟rappresentanza democratica" (designata come ‟rappresentanza del numero volubile e artefatta") nella prospettiva di una ‟società organica". In tal modo si venne a fissare una prospettiva sostanzialmente istituzionalistica nel corporativismo dei cattolici italiani.

All'inizio del secolo, nel 1903, si ebbe il punto più alto dell'elaborazione dottrinaria: il manifesto di Giuseppe Toniolo e il Congresso dei cattolici italiani che recepì il manifesto stesso. Toniolo si proponeva di conciliare il sindacalismo cattolico organizzato su base non corporativa, e cioè attraverso sindacati di soli lavoratori (i cosiddetti ‛sindacati bianchi'), con la concezione corporativistica oramai prevalente tra gli intellettuali cattolici e incoraggiata dalle encicliche: sulla linea di questo tentativo di conciliazione, egli proponeva sindacati paralleli non corporativi alla base e organizzazione corporativa al vertice. Si prospettavano perciò sindacati paralleli di lavoratori e di datori di lavoro, che avrebbero poi trovato collegamento in ‛commissioni miste', le quali unendosi a loro volta avrebbero dato luogo a ‛corporazioni' diverse secondo i settori professionali e produttivi, ma tutte collegate tra loro al vertice. Tali corporazioni collegate avrebbero avuto compiti giurisdizionali di soluzione dei conflitti tra lavoratori e datori di lavoro, ricorrendo al principio cristiano della ‛giusta mercede'. Questi atteggiamenti ideologici del Toniolo e del Congresso dei cattolici italiani erano destinati a diventare patrimonio comune del sindacalismo cattolico europeo. L'ispirazione nettamente anticlassista e il favore per giurisdizioni di tipo arbitrale saranno il contrassegno del sindacalismo dei cattolici, anche se nella pratica le corporazioni cattoliche non si sarebbero realizzate. Nel 1911 si costituì un vero e proprio sindacato dei lavoratori cattolici, la Unione economico-sociale dei lavoratori italiani, che fu il primo nucleo di quella che nel 1918 diverrà la CIL.

Diverso esito ebbe un altro filone di sindacalismo corporativo, quello dei nazionalisti italiani - in parte ispirato da quello cattolico - destinato a fornire schemi concettuali al corporativismo autoritario e istituzionalizzato del regime fascista. Anche il corporativismo dei nazionalisti ebbe origine in una netta contrapposizione ideologica alla concezione classista della società. Nel 1909 il Gruppo nazionalistico di Torino si dava uno statuto nel quale si poteva leggere che ‟la lotta di classe deve essere contenuta entro i limiti della solidarietà nazionale". Alle spalle di questa formulazione, oltre agli atteggiamenti del corporativismo cattolico, stava una lunga tradizione di pensiero giuridico italiano, impropriamente designato come ‛socialismo giuridico' e più propriamente di indirizzo corporativistico, il cui messaggio può vedersi nella seguente formulazione di Enrico Cimbali: ‟L'alto ufficio di moderatore e pacificatore fra le classi sociali contendenti compete, per sua natura, allo Stato, agente e organo supremo dell'unità nazionale". Di ispirazione corporativistica e autoritaria è l'ideologia del Movimento nazionalista italiano (costituitosi a Firenze nel 1910), il cui esponente più importante è Enrico Corradini, e del Gruppo tricolore (organizzato a Torino da Mario Viana) che si qualificò ‛sindacalismo borghese': un insieme di movimenti che confluiscono nel programma del Partito Nazionalista Italiano col congresso di Milano del 1914, in cui prevale l'impostazione di Alfredo Rocco. E nel 1914 che Rocco elabora la sua dottrina corporativa, in cui il supporto dell'organo moderatore e arbitro dei conflitti sociali è individuato nel principio di ‛interesse nazionale' che coincide senza residui con l'interesse della produzione espresso dai capi della produzione stessa. Rocco prospetta ‟corporazioni miste" che producano regole e norme atte a disciplinare non già ‟un'assurda eguaglianza" bensì le differenze; corporazioni che siano organi dello Stato, e a questo assicurino il controllo della produzione configurando ‟gli intraprenditori e i capitalisti come organi dell'interesse nazionale". Rocco auspica che il nazionalismo ‟crei il movimento corporativista come la forma più pura e più perfetta del sindacalismo nazionale".
Con le formulazioni nazionaliste il sindacalismo corporativo si atteggia, prima della guerra, in senso nettamente istituzionale e prefigura il sindacato-organo dello Stato che sarà tipico, tra le due guerre, dell'organizzazione fascista.

c) Il sindacalismo di mestiere

Il sindacalismo di mestiere è stato, cronologicamente, il primo modo di manifestarsi dell'associazionismo industriale con caratteri difensivi, ed è rimasto tipico dell'esperienza dei paesi anglosassoni anche in questo secolo. Alle spalle del sindacalismo di mestiere sta tutta la lunga tradizione di esperimenti, variamente compiuti da gruppi di lavoratori volti ad associarsi per contrastare nei modi più vari gli effetti del libero mercato del lavoro. Nel continente europeo la lontana origine di movimenti sindacalistici di questo tipo va ricercata ad esempio nei movimenti per le Società di mutuo soccorso e nel formarsi di Leghe di resistenza. Come è evidente, nel sindacalismo di mestiere, almeno in una prima fase, si organizzano solo gli strati superiori degli operai, che godono di situazioni privilegiate o comunque forti sul mercato del lavoro, in relazione al possesso di una professionalità tecnica elevata. In questa prospettiva, appare scarsamente sorprendente che le espressioni ideologiche dell'associazionismo di mestiere - di solito non articolatissime - siano manifestazioni di difesa di tipo ‛proprietario' del ruolo e della professionalità, della ‛proprietà del mestiere'; e che, d'altra parte, attorno al mestiere si formi una forte coscienza di gruppo, una forte solidarietà e spirito di unione.

Nel continente europeo, peraltro, ogni articolata espressione ideologica di sindacalismo cessa di fare riferimento al ‛mestiere' ben prima dell'inizio di questo secolo. Non così in Inghilterra e negli Stati Uniti d'America, ove le espressioni ideologiche dell'associazionismo operaio anche nei tempi più recenti portano, in misura maggiore o minore, qualche carattere originario del sindacalismo di mestiere.

In Inghilterra la forma del sindacalismo di mestiere è originariamente la Trade Union, letteralmente ‛unione di commercio', cioè unione di lavoratori con fini di rafforzamento della propria posizione nel mercato. Le Unions mostrarono, sino dalla metà dell'Ottocento, una serie di caratteri tipici: attività di solidarietà e agitazione nelle singole unità produttive in periferia; tendenza ad associarsi tra di loro al centro, per funzionare come gruppo di pressione politico in favore di riforme; assoluto disinteresse per le espressioni ideologiche complesse e per ogni non sporadico collegamento con il movimento operaio internazionale. L'elemento su cui è bene richiamare l'attenzione è il secondo; a partire dal 1845 le varie Unions si raggrupparono in associazioni nazionali (1845 mestieri riuniti, 1851 meccanici, e così via), che ebbero dirigenti residenti a Londra, i quali si collegarono tra loro in una Giunta delle Unions. Questa Giunta nel 1867 convocò una Conferenza delle unioni miste che chiese il riconoscimento giuridico delle Unions. Si manifestò così, e si cristallizzò, la scelta legalitaria, riformista, non aliena dal chiedere una legislazione di sostegno, che avrebbe caratterizzato il sindacalismo inglese. Anche sul piano politico le Unions manifestarono presto il loro partecipazionismo, appoggiando l'entrata di loro diretti rappresentanti operai nella Camera bassa (furono due nel 1874, ben dieci nel 1886). Alla fine degli anni ottanta si manifestò un allargamento dell'unionismo ai lavoratori non specializzati, i quali diedero vita a molte Unions che divennero presto simili alle precedenti Unions di mestieri specializzati, con le quali si associarono.

Con un tale passato, le Trade Unions si affacciano al XX secolo come un movimento sindacale organizzato in senso verticale con le associazioni nazionali e in senso orizzontale, ai vertici, con le associazioni interunionistiche; privilegia la contrattazione economica, avvalendosi dell'arma dello sciopero, presso le unità produttive o i luoghi geografici di produzione, di solito circoscritto al mestiere, e privilegia al centro l'azione politica in senso liberale e democratico; tende a essere legalitario specialmente al vertice, ed è disposto ad accettare - e in qualche caso a pretendere - una legislazione di sostegno; si esprime come riformismo e tende a considerare apolitica la Union (lo slogan è: ‟No politics within the Union") mentre le associazioni delle Unions possono esercitare pressioni politiche sul Parlamento.

È sulla base di quest'ultimo principio d'azione che, all'inizio del secolo, le Unions esprimono un partito, il Partito Laburista, che intendono come braccio politico dei sindacati e perciò dipendente da questi. Il 27 febbraio 1900 le Unions si alleano con tre formazioni politiche di sinistra, e precisamente la Federazione Socialdemocratica (fondata da Hyndman), la Fabian Society (fondata nel 1884), e il Partito Indipendente del Lavoro (fondato da J. K. Hardie nel 1893), per costituire un blocco elettorale che venne chiamato Labour representation committee; nelle successive elezioni del 1906, questo blocco elettorale ottenne un ragguardevole successo e, nello stesso anno, il comitato elettorale si trasformò in partito, assumendo il nome di Labour Party. Per statuto, gli organi direttivi del partito includevano rappresentanti delle Unions, talchè il rapporto organico sindacato-partito e la dipendenza del partito dal sindacato (più precisamente dalle associazioni orizzontali di vertice) risultarono codificati: implicitamente risultò codificata anche la scelta legalitaria, riformista, o favorevole alla legislazione di sostegno delle espressioni centrali di un sindacalismo che, alla base e in periferia, restava in gran parte sindacato di mestiere, apolitico, e con finalità di difesa e di rivendicazione economica di gruppi circoscritti dal mestiere o - nel caso degli unskilled workers - dalla singola unità produttiva o sede di lavoro (per esempio, docks di Londra, facchini di Liverpool).

d) Il sindacalismo riformista di classe

Il sindacalismo riformista di classe costituisce, nei primi decenni del secolo, il filone principale del sindacalismo europeo. Esso costituisce la risultante di due tradizioni che si intrecciano fittamente nella seconda metà del secolo precedente: da un lato la tradizione, prevalentemente ideologico-dottrinaria, del socialismo marxista, con la teorizzazione della divisione della società in classi e l'individuazione della classe proletaria come soggetto politico generale; dall'altro lato la tradizione, prevalentemente pratica, dell'associazionismo sindacale operaio con fini di resistenza economica e di contrattazione, su scala sempre più ampia, delle paghe. Si tratta perciò di un sindacalismo per il quale la base di aggregazione è la classe e il fine dell'azione sindacale è la rivendicazione economica; un sindacalismo che intrattiene fitti rapporti con formazioni politiche socialistiche, in particolare con quelle di indirizzo riformistico; che tende a darsi organizzazioni federative, sia orizzontali che verticali; che tende ad accettare, e talvolta a pretendere, una legislazione di sostegno.

Storicamente, il sindacalismo riformista di classe si identifica con il sindacalismo socialdemocratico dei paesi dell'Europa continentale, e in particolare con gli atteggiamenti nei confronti della natura e dei fini del sindacato elaborati dalla Seconda Internazionale. Nel Congresso costitutivo della Seconda Internazionale (Parigi, 14 luglio 1889) si fissò da un lato un collegamento tra sindacati e partiti socialistici e un collegamento internazionale orizzontale tra i partiti e i sindacati aderenti; dall'altro lato si fissarono i punti programmatici basilari, che caratterizzarono l'intero movimento in senso legalitario e riformista. Si decise di sostenere in tutti i paesi un programma di legislazione sociale a difesa del lavoro, e in particolare per la giornata lavorativa di otto ore. Il programma del sindacalismo socialista democratico venne poi precisandosi (non senza aspri dibattiti) lungo il corso della Seconda Internazionale, specialmente nei Congressi (del 1891 a Bruxelles, che espulse gli anarchici; del 1893 a Zurigo; del 1896 a Londra; del 1900 a Parigi; del 1904 ad Amsterdam; del 1907 a Stuttgart; del 1910 a Copenhagen; del 1912 a Basilea): ripudio dello sciopero generale e in genere delle armi sindacali miranti a determinare crisi economica; conquista del potere da parte del proletariato con strumenti di democrazia parlamentare e perciò attraverso la conquista della maggioranza; preparazione di quadri tecnici e amministrativi da parte dei sindacati; antimilitarismo e antibellicismo (a partire dal Congresso di Stuttgart). Ma, soprattutto, divenne caratteristica del sindacalismo riformista di classe la propensione a vedere nella contrattazione collettiva - contrapposta a quella individuale - del salario e dell'orario lo strumento principale dell'elevazione della situazione operaia e perciò l'arma principale del sindacalismo. Da quest'ultimo punto programmatico derivò, per tutto il movimento, un atteggiamento di estrema attenzione per l'organizzazione giuridica dei vari paesi, dato che i modi e le forme - e le possibilità operative - della contrattazione collettiva sono essenzialmente determinate dal diritto; e derivò anche un'accentuazione del programma federativo, con tensioni tra verticalismo e orizzontalismo anche in rapporto alla situazione giuridica dei vari paesi.

Nel caso italiano, all'inizio del secolo la tendenza federativa ebbe come esito la composizione e conciliazione delle tensioni tra orizzontalismo e verticalismo. L'orizzontalismo era caratteristico delle Camere del lavoro, che erano venute a organizzarsi a partire dal 1891, dapprima sul modello delle Borse del lavoro francesi e poco dopo differenziandosene attraverso l'accentuazione non solo della funzione di collocamento (tipica delle Borse francesi) ma anche di quelle rivendicative con connotati classisti. Il primo Congresso federativo delle Camere del lavoro si tenne a Parma nel 1893, dominato dalle figure di O. Gnocchi Viani e A. Cabrini, e decise di addivenire alla Federazione italiana delle Camere del lavoro, la quale si diede uno statuto col quarto congresso (Reggio Emilia, ottobre 1901). Le Camere del lavoro territoriali e a prevalenza contadina (gran parte delle leghe contadine aderivano alle Camere del lavoro) furono sin dall'inizio molto influenzate da esponenti del sindacalismo rivoluzionario. Il verticalismo era rappresentato dalle federazioni e sindacati di mestiere o, come si incominciava a dire, ‛di categoria', tra cui primeggiava per importanza la federazione dei metallurgici di chiara tendenza riformista. Per iniziativa di questa federazione fu preparato un Congresso per il coordinamento di tutto il movimento sindacale di classe (esclusi cioè i sindacati bianchi), che si tenne a Milano, nell'ottobre 1906, con la partecipazione di 58 Camere del lavoro e 14 federazioni (metallurgici, tessili, gasisti, muratori, litografi, panettieri, infermieri, calzolai, ceramisti, stovigliai, lavoratori dello Stato, lavoratori del legno, bottigliai, chimici e ferrovieri): al congresso fu fondata la Confederazione Generale del Lavoro, di cui fu segretario generale R. Rigola (sino al 1918, quando fu eletto L. D'Aragona). Gli scopi statutari della CGL furono del tutto aderenti all'indirizzo riformistico internazionale, e cioè promuovere e coordinare ogni iniziativa legislativa a favore dei lavoratori, sostenere il movimento di difesa economica dei lavoratori in stretta relazione con le federazioni e anche con le associazioni di società mutualistiche e cooperative, mantenere collegamenti a questo fine con tutti i partiti che svolgessero azione a favore della classe lavoratrice, escludendo rapporti organici privilegiati con un singolo partito, indirizzare tutti gli strumenti al miglioramento economico, morale e intellettuale dei lavoratori, sviluppare i vincoli di solidarietà di classe sul piano sia nazionale che internazionale. La CGL realizzò un effettivo coordinamento tra orizzontalismo e verticalismo, in cui prevalse l'elemento riformistico, legalitario, economistico e tendenzialmente apolitico che era proprio delle federazioni verticali; gli elementi rivoluzionari, peraltro, restarono nell'ambito dell'organizzazione, tanto che sino al 1918 gli esponenti del sindacalismo rivoluzionario, forti specialmente nelle Camere del lavoro, non si scissero organizzativamente.

e) Il sindacalismo rivoluzionario di classe

Un importante atteggiamento ideologico, che all'inizio del secolo ispirò larghi settori del movimento sindacale in Francia e in Italia, è il cosiddetto ‛sindacalismo rivoluzionario'. Alcuni aspetti dell'atteggiamento sindacalista rivoluzionario tendono a manifestarsi, entro i movimenti politici e sindacali europei continentali, in tutti i momenti di grave crisi delle istituzioni.
In quanto movimento sindacale effettivo, il sindacalismo rivoluzionario ebbe il periodo di massimo sviluppo in Francia tra il 1905 e il 1908, e fissò il suo programma nel Congresso sindacale di Amiens nel 1906; tale programma (conosciuto come Carta di Amiens) contiene i punti qualificanti del movimento: 1) il sindacato è della classe operaia e di tutta la classe operaia (dovere di ogni lavoratore di appartenere al sindacato); 2) il sindacato non ha rapporti con altre organizzazioni politiche ed è rispetto a esse indifferente (il lavoratore sindacalizzato è libero di ogni azione politica fuori dal sindacato ed è tenuto a sua volta a non introdurre nel sindacato le opinioni che egli professa fuori); 3) il sindacato tende a diventare organo della produzione e prefigura una società sindacale (‟il Sindacato, che oggi è organizzazione di resistenza sarà, nel futuro, l'organo della produzione e riproduzione, momento dell'organizzazione sociale"); 4) strumento essenziale dell'azione sindacale è lo sciopero generale.

In quanto ideologia, il sindacalismo rivoluzionario viene ricondotto, generalmente, al pensiero politico di Georges Sorel. Punto di partenza di Sorel è una concezione classista della società (di chiara origine marxista) rigorosamente binaria: le classi sono solo due, quella dei proletari e quella dei capitalisti. Da questa premessa scaturisce la conseguenza che non vi sono mai interessi né valori comuni alle due classi; l'azione degli organi della classe proletaria non può avere fini parziali o circoscritti, e non può trovare ‛alleati', ma deve essere totale e rivoluzionaria, mirando a sostituire il potere proletario al potere capitalistico. Perciò il sindacato, che è la società organica dei lavoratori, non può (se non vuole tradire la sua natura) avere fini di resistenza, economici, rivendicativi, ma deve avere fini politici generali. Il sindacato è una società totale, la società totale dei lavoratori, con la sua cultura e i suoi valori, le sue forme economiche e organizzative, che sono prodotto autonomo e spontaneo dei lavoratori. La rivoluzione (e l'azione sindacale, dato che sono la stessa cosa) è possibile attraverso il blocco del meccanismo generale di riproduzione capitalistica che si attua con lo sciopero generale: lo sciopero generale dà il via allo spontaneismo eroico del popolo, all'insurrezione popolare e, alla fine, all'espropriazione degli espropriatori.

Indipendentemente dalla fortuna effettiva del movimento, e dalla grande ma effimera influenza dell'ideologia soreliana in Francia e, soprattutto, in Italia nei primi due decenni del secolo, è necessario osservare come il sindacalismo rivoluzionario abbia messo in circolazione un modello di sindacalismo che è perdurante nella cultura europea continentale e che, in forme diverse, risorge continuamente: il modello secondo cui solo il sindacato rappresenta il lavoratore come salariato, solo esso esprime (autonomamente e spontaneamente) i valori e l'organizzazione del mondo del lavoro. Il sindacato è società totale che si contrappone allo Stato, non ha alleati, non ha rapporti con partiti, ecc.

Come abbiamo visto, in Italia elementi di un'ideologia sindacal-rivoluzionaria, molto vistosi nelle Camere del lavoro, restano sino a tutto il periodo bellico, e precisamente sino al 1918, entro l'organizzazione della CGL. Alcuni esponenti del sindacalismo rivoluzionario si sarebbero poi inoltrati per strade corporativistiche, come A. De Ambris nell'esperienza fiumana di D'Annunzio, e come F. Corridoni, E. Rossoni e M. Bianchi nel corporativismo fascista.

4. Tra le due guerre

a) Tendenza generale

Tra le due guerre si manifesta, in ordine al sindacalismo, una tendenza generale: la tendenza al depotenziamento politico del sindacato e all'imbrigliamento delle potenzialità eversive che il sindacalismo mostra rispetto ad altri soggetti politici. Questa tendenza generale mostra facce diverse sia nella teoria che nella pratica sindacale, in relazione ai contesti ideologici in cui la teoria viene elaborata e alle situazioni politiche in cui il sindacato si trova: ma la univocità di fondo, al di sotto delle varianze imposte dai condizionamenti del contesto, è impressionante.
Se si assume come criterio di classificazione l'ideologia, le varianti sono: a) la concezione del sindacato come organo del partito; b) la concezione del sindacato come organo dello Stato; c) la concezione del sindacato come strumento di contrattazione esclusivamente economica e sprovvisto di fini politici generali.

b) Il sindacato organo del partito

La tendenza generale al depotenziamento politico del sindacato, che prevale tra le due guerre, ha una delle più elaborate espressioni ideologiche (che diviene prassi dei sindacati che l'adottano) nella concezione leninista, e in generale comunista, delle funzioni del sindacato e dei rapporti tra il sindacato e il partito. Caratteristica del leninismo è la connotazione negativa di ogni spontaneismo nel conflitto di classe e di ogni aggregazione, nell'ambito del movimento dei lavoratori, che non sia saldamente inserita nel movimento comunista, cioè sotto la guida e il controllo dell'unico soggetto politico della classe, che è il partito. In base a questa ideologia, dal punto di vista dei lavoratori (così come è individuato nell'ideologia) tutto ciò che accade non solo ‛contro', non solo ‛fuori da', ma semplicemente ‛senza' il partito, è non solo ‛errore' ma addirittura ‛tradimento' della classe operaia. In questo modo tutta la fenomenologia sindacale viene spartita in due settori: il primo settore, che corrisponde a tutto il sindacalismo non comunista e non guidato o trainato dal sindacalismo comunista, è visto come strumento del sistema capitalistico; il secondo settore, che corrisponde al sindacato comunista o guidato da comunisti, è visto come strumento al servizio della strategia del partito, e perciò come non dotato di autonomia e fini propri, bensì malleabile esecutore e veicolo (cinghia di trasmissione) di qualunque parola d'ordine, anche contingente e temporanea, del partito.

Tale concezione del sindacalismo, evidentemente, comporta la più grande diversificazione nella pratica, a seconda delle situazioni in cui il partito si trova a operare. Nell'Unione Sovietica l'organizzazione sindacale diviene tutt'uno, di fatto, con l'organizzazione del lavoro e, dietro la facciata, il sindacato, ormai compiutamente istituzionalizzato, diviene vero e proprio organo dello Stato sovietico. Processo destinato a ripetersi, dopo la seconda guerra mondiale, in tutte le democrazie popolari. Nei paesi dell'Europa continentale non investiti dalla rivoluzione, la concezione leninista del sindacato diede luogo, ispirandole, a pratiche diverse in corrispondenza delle situazioni politiche. In un primo momento, nell'ambito dei movimenti comunisti si manifestarono tendenze al consiliarismo, cioè a strutture di democrazia di base più o meno plastiche rispetto alle sedi e ai modi della produzione: consiliarismo accettato in base alla prospettiva leninista solo in quanto, e sino a quando, strumento della politica del partito, ma ripudiato nella sua essenza autonomistica e spontaneistica. In Italia i comunisti restarono nella CGL, come minoranza e in opposizione alla dirigenza di L. D'Aragona, dall'ottobre 1918 allo scioglimento avvenuto in pieno regime fascista il 4 gennaio 1927, e ricostituirono una CGL clandestina, nel febbraio 1927, assieme ai socialisti. Tale sindacato clandestino operò peraltro poco come organismo del partito, e il suo carattere unitario fu il risvolto sindacale di una delle prime espressioni di una strategia dell'unitarismo propria del partito. Più tardi la strategia del partito si espresse nella parola d'ordine ‟entrare nei sindacati fascisti", di nuovo espressione di una linea nuova del Partito Comunista in Italia.

Anche al livello dell'associazionismo internazionale il sindacalismo comunista risentì delle differenziazioni che le diverse situazioni politiche imponevano alla strategia del Partito Comunista. Cosicché il legame associativo internazionale che fu deciso nel Secondo congresso della Terza Internazionale (luglio-agosto 1920) e che diede luogo alla cosiddetta Internazionale Sindacale Rossa (o Profintern), restò molto evanescente: la politica dell'Internazionale Sindacale Rossa era attestata sulla linea di far rimanere i quadri sindacali comunisti entro le organizzazioni sindacali esistenti nei vari paesi, creando in tali organizzazioni dei nuclei comunisti, che lavorassero in stretto contatto con i partiti comunisti (anche clandestini) al fine politico generale di sostenere il movimento di classe internazionale e perciò - concretamente - di aiutare il rafforzamento dell'Unione Sovietica. In tal modo il Comitato d'azione sindacale internazionale restava una mera facciata, mentre le strategie dei partiti comunisti, plastiche rispetto alle varie situazioni nazionali, dettavano il comportamento dei nuclei sindacali comunisti.
I fini sindacali di difesa economica dei lavoratori, in tal modo, diventano strumentali e ancillari, rispetto ai fini politici generali, nazionali e internazionali, dei partiti comunisti.

c) Il sindacato organo dello Stato

La tendenza a depotenziare il sindacato in senso politico, riassorbendolo nel quadro di altri soggetti politici, trova l'esito più compiuto nel corporativismo di Stato, che è proprio del regime fascista in Italia. Le origini del processo che porta al corporativismo di Stato vanno viste nell'ideologia sindacalista corporativista dei nazionalisti, e in particolare di A. Rocco. Dopo la guerra questi fece approvare dal Congresso nazionalista di Roma un documento molto interessante, nel quale si prospettava l'integrazione delle classi attraverso strumenti giuridici: si trattava cioè di delineare la struttura giuridica di un corporativismo autoritario. Il sindacato, non più di classe, doveva diventare ‟attraverso una robusta disciplina di tutte le classi produttrici, organizzazione integrale della produzione nazionale che ne racchiude in sé tutti gli elementi: gli organizzatori, i tecnici, i lavoratori manuali, uniti insieme dal legame indissolubile dell'interesse comune"; in tal modo, anche ‟gli insopprimibili organismi di classe, sottratti allo sfruttamento politico dei demagoghi professionali, trovano un'automatica composizione e disciplina, per assicurare la quale deve intervenire energicamente lo Stato". Tale composizione automatica, con l'ausilio di un intervento statale energico, avvenendo in forme giuridiche, avrebbe assicurato anche la soppressione della democrazia bollata di atomismo; infatti Rocco voleva ‟l'organizzazione legale delle classi produttrici e la loro partecipazione, come tali, alla vita dello Stato, eliminando il sistema democratico dell'atomismo suffragistico". Un importante documento corporativista del periodo è costituito dalla cosiddetta Carta del Carnaro, cioè dalla parte sociale degli Statuti della Reggenza del Carnaro di Gabriele D'Annunzio che è prevalentemente opera del sindacalista anarchico Alceste De Ambris, poi esule antifascista, e che può ricondursi al corporativismo politico e giuridico pluralistico. Dopo questo episodio, la storia delle dottrine e delle istituzioni corporativiste in Italia coincide con la storia delle dottrine e del regime fascista.

Il corporativismo fascista, come dottrina, consiste in gran parte nella giustapposizione del sindacalismo di Edmondo Rossoni e del nazionalismo autoritario di Alfredo Rocco. Le istituzioni corporative che progressivamente il regime fascista ha realizzato sono state condizionate non solo dalla matrice dottrinaria menzionata, ma anche, in larga misura, da ragioni politiche contingenti e occasionali.

Durante il 1921 si erano creati sindacati (misti) fascisti, in modo piuttosto vario. Nell'ottobre Rossoni aveva indetto un convegno a Ferrara per costituire un'organizzazione comune. Lo statuto del PNF del 27-12-1921 additava la corporazione come strumento della solidarietà nazionale per lo sviluppo della produzione. Nel Congresso di Bologna del gennaio 1922 si deliberò di ‟costituire in Corporazioni nazionali facenti capo a un organismo centrale dominante, l'Unione federale italiana delle Corporazioni, tutti quei sindacati il cui programma e la cui attività si informano sostanzialmente al programma e agli statuti del PNF". Si costituì così la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali (che erano la corporazione nazionale del lavoro industriale, la corporazione nazionale del lavoro agricolo, la corporazione nazionale delle classi medie e intellettuali e la corporazione nazionale della gente di mare) e Rossoni ne divenne segretario. Idea fondamentale di Rossoni era quella di un sindacato strumentalmente misto, ideologicamente qualificato come fascista e politicamente unico. La qualificazione ideologica, in sé piuttosto imprecisa almeno nel 1922, si riassumeva nella caratteristica politica dell'unicità. Unicità voleva dire anzitutto che non doveva essere permesso altro sindacato oltre a quello fascista, e che il sindacato fascista si proponeva non già di assorbire, bensì di distruggere (non giuridicamente, ma di fatto) ogni altro sindacato. Nella riunione convocata da Mussolini al Grand Hotel di Roma il 15 dicembre 1922, i convenuti presero atto dell'annuncio di Rossoni secondo cui le corporazioni sindacali avrebbero assunto la qualificazione di ‛corporazioni fasciste' per evitare ogni tentativo di addivenire a un'unificazione sindacale entro un quadro istituzionale giuridico. Identiche preoccupazioni muovevano Rossoni durante i lavori della cosiddetta Commissione dei Diciotto (nominata dal presidente del Consiglio il 31-1-1923 per studiare i ‟rapporti fondamentali tra lo Stato e le forze che esso deve contenere e garantire", al fine di preparare un progetto di riforma costituzionale); egli non voleva il riconoscimento giuridico dei sindacati per timore della pluralità sindacale entro gli organi di diritto pubblico.

Tuttavia l'evolvere della situazione politica doveva modificare in breve questo atteggiamento di Rossoni e del sindacato fascista. Infatti l'alleanza tra fascismo e industriali portava come conseguenza la permanenza dell'associazione degli industriali e la riduzione nei fatti del sindacalismo fascista a organizzazione poliziesca dei soli lavoratori. Con i due accordi tra Rossoni e gli industriali, quello di Palazzo Chigi del 20 dicembre 1923 e quello di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, le due parti contraenti, e cioè la Confederazione delle corporazioni fasciste e la Confederazione generale dell'industria italiana, si spartirono il monopolio sindacale riconoscendosi reciprocamente rappresentanti esclusivi dei lavoratori e dei datori di lavoro dell'industria. Il progredire del corporativismo giuridico doveva passare attraverso l'estinzione di fatto dei sindacati dei lavoratori non fascisti e la fascistizzazione della Confindustria. Ciò che avvenne nei mesi seguenti costituì il presupposto per il regime giuridico instaurato nel 1926. Nel 1926 apparvero, contemporaneamente, una disciplina giuridico-istituzionale e un documento ideologico, entrambi corporativisti ed entrambi fascisti, ma piuttosto diversi tra loro. Parte della confusione che ha regnato, e forse era all'inizio voluta da Mussolini, circa la natura del corporativismo fascista, deriva da questa diversità.

Si tratta da una parte di un complesso di leggi che andarono subito in vigore (legge 3-4-1926, n. 563; R.D. 1-7-1926, n. 1130; R.D. 2-7-1926, n. 1131; circolare Rocco 26-4-1926 ai procuratori generali delle Corti d'appello), e dall'altra parte della cosiddetta Carta del lavoro, che era destinata ad acquistare vigenza come legge dell'ordinamento dello Stato solo con la legge 30-1-1941. Le leggi del 1926 prevedevano il riconoscimento giuridico (come persone giuridiche) di associazioni sindacali o dei lavoratori o dei datori di lavoro o dei liberi esercenti un'arte o una professione su base geografica (dal comune all'intera nazione), su presupposti tali da includere solo sindacati fascisti; i sindacati legalmente riconosciuti avevano facoltà di imporre un contributo annuo ai membri della rispettiva categoria anche non iscritti; avevano presidenti o segretari, approvati con regio decreto su proposta del ministro competente di concerto col ministro dell'Interno, e sempre revocabili; potevano concludere contratti collettivi con le controparti sindacali, e ai contratti era attribuita efficacia erga omnes. Le associazioni sindacali non riconosciute potevano - secondo la legge - continuare a esistere come associazioni di mero fatto (mentre, nei fatti, la violenza fascista impediva loro ovviamente di continuare a esistere). Le controversie relative ai rapporti collettivi di lavoro, sia giuridiche (su contratti esistenti) sia economiche, erano devolute a una magistratura speciale, cioè le Corti d'appello funzionanti come ‛magistratura del lavoro', e per i conflitti individuali questa magistratura funzionava da giudice d'appello. Si elevarono lo sciopero e la serrata a reato, che comportava per i capi e i promotori pene anche detentive.

Le corporazioni (non dotate di personalità giuridica in quanto organi dello Stato) dovevano, con decreto del ministro per le Corporazioni, stabilire organi di collegamento tra i sindacati. Presso il Ministero delle Corporazioni doveva essere costituito il Consiglio nazionale delle corporazioni. I dirigenti delle associazioni e delle corporazioni non sarebbero stati eletti, ma nominati dalle associazioni di grado superiore. Tutta questa bardatura giuridica funzionava nei fatti solo nel senso di abolire la libertà e pluralità sindacale e le libertà sindacali e di sciopero, e nel senso di consentire l'efficacia erga omnes di contratti collettivi elaborati tra associazioni sindacali contrapposte, di cui quella padronale era in grado di imporre le proprie condizioni.
La Carta del lavoro è invece un documento ideologico in cui si proclama che ‟la Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica che si realizza integralmente nello Stato fascista" (art. 1); eleva il lavoro a dovere sociale (art. 2); consacra l'organizzazione giuridica corporativa (artt. 3-6); qualifica l'iniziativa economica privata come strumento dell'interesse nazionale e la rende responsabile di fronte allo Stato, funzionalizzando la proprietà e l'impresa (art. 7). Questo documento ideologico per alcuni anni restò un semplice proclama, anche ufficialmente.

L'organizzazione giuridica corporativa fu attuata compiutamente con la legge 5-2-1934, n. 163, che istituì le corporazioni in numero di ventidue e costituì il Consiglio nazionale delle corporazioni con potere normativo in materie non disciplinate da leggi o regolamenti. Successivamente le istituzioni corporative divennero elementi non solo amministrativi, ma anche costituzionali dello Stato. Con la legge 19-1-1939, n. 129, infatti, la Camera fu costituita dai componenti del Consiglio nazionale delle corporazioni, dai componenti del Gran Consiglio del fascismo e del Consiglio nazionale del PNF. La già citata legge 30-1-1941 attribuì alla Carta del lavoro carattere di espressione dei ‟principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato" in modo che costituissero il ‟criterio direttivo per l'interpretazione e l'applicazione della legge".

In effetti il Codice civile del 1942 si ispira, nel Libro del lavoro e nella sua architettura, alle espressioni corporativistiche della Carta del lavoro. In particolare, oltre al vero e proprio diritto corporativo, vanno ascritte all'ispirazione corporativista le discipline della proprietà e dei rapporti commerciali. Infatti la disciplina della proprietà scompare per lasciare il posto, nella stessa formulazione verbale, alla disciplina dei poteri del proprietario; mentre alla disciplina dell'atto di commercio viene sostituita la disciplina dell'imprenditore. In entrambi i casi si tratta di uno spostamento della disciplina dal momento oggettivo al momento soggettivo che, se sotto il profilo verbale si rifà a modi espressivi precedenti la codificazione napoleonica, sotto il profilo politico indica il diritto civile come disciplina dei rapporti tra soggetti inquadrati in corporazioni. La persistente vigenza del codice fascista, una volta travolto l'ordinamento corporativo, costringe i giuristi a sforzi di ginnastica mentale per dimostrare che la proprietà del codice del 1942 è simile a quella del vecchio codice, e che la disciplina dell'impresa non risponde alla logica della politica economica del fascismo.

Forme di reggimento corporativistico accentrato si ebbero, nel periodo del trionfo effimero dei regimi fascisti in senso proprio, in diversi paesi europei.

Sotto un certo aspetto, dottrine corporativiste circolarono nel movimento nazista e qualche istituzione corporativa ebbe un ruolo nella struttura del Terzo Reich: occorre tuttavia molta cautela nel parlare a questo proposito di corporativismo senza altre qualificazioni, perché si tratta di dottrine e di istituzioni piuttosto lontane da quelle fasciste italiane (v. nazionalsocialismo). Si tratta, in ogni caso, di dottrine e istituzioni circoscritte all'organizzazione del lavoro industriale, sulla linea della concezione organica dell'impresa che era tradizionale nella cultura tedesca anche dell'Ottocento: ma, per quanto concerne il concetto di ‛corpo', nella dottrina nazista l'unico vero ‛corpo' politico e giuridico era costituito dalla nazione tedesca e dal suo capo (Volk e Führer). L'organizzazione nazista del lavoro iniziò nel 1933 con una lega politica tra preesistenti associazioni di lavoratori e di datori di lavoro, chiamata Fronte del lavoro. Nel 1934 si ebbe una importante legge sulla organizzazione del lavoro nazionale, ispirata al principio secondo cui i rapporti tra i lavoratori di ciascuna impresa (Gefolgschaft) e il capo (Führer) dell'impresa stessa sono improntati alla ‛fedeltà'; tale fedeltà era garantita dalla presenza in ciascuna impresa di un ‛fiduciario per il lavoro' (Treuhänder der Arbeit) di nomina politica. Con la ‛cooperazione' di quest'ultimo organo venivano stipulati contratti di lavoro aziendali. Nel campo della produzione agricola fu istituita, sempre nel 1934, una corporazione nazionale mista comprendente tutti i fattori della produzione, e denominata Reichsnährstand.
In Portogallo, dopo l'ascesa al potere di Salazar, nel 1934, fu introdotto uno Statuto del lavoro nazionale che sotto veste di istituire associazioni di categoria si limitava a proibire lo sciopero e la serrata. Solo in senso molto lato si può parlare in questo caso di istituzioni politiche e giuridiche corporative mentre è palese che a un'ideologia genericamente corporativista autoritaria si è ispirato anche il regime di Salazar.
In Spagna venne elaborata una ideologia corporativista da Gil Robles, poi confluita con altri elementi a costituire l'ideologia del regime di Franco. Sotto il profilo giuridico-istituzionale, sono ispirate a principi corporativisti la Carta del 1938, detta Fuero del trabajo, e la nuova Costituzione spagnola.
Un'ideologia corporativista di stampo fascista fu elaborata da Manoilescu e presiedette al regime fascista instaurato dallo stesso Manoilescu in Romania.

d) Il sindacalismo contrattualistico

La tendenza a considerare il sindacato sprovvisto di fini politici generali, e a circoscriverne il funzionamento e i fini entro precise coordinate istituzionali, si manifesta anche nei paesi anglosassoni, quantunque in modi molto diversi da quelli del continente europeo. Da un lato, nei paesi anglosassoni, le teorizzazioni e le dottrine del sindacalismo sono andate nel senso di privilegiare finalità economiche; dall'altro lato, la struttura che si sono dati i sindacati in quei paesi è del tutto funzionale a operazioni di contrattazione economica.

Sul versante ideologico vediamo come i maggiori teorici del tradeunionismo inglese (la cui influenza fu massima tra le due guerre), i coniugi Sydney e Beatrice Webb, concepiscono il sindacato come strumento di difesa economica degli operai nell'ambito del mercato, e assumono che l'azione sindacale sia delimitata da una duplice compatibilità, quella con la produttività dell'impresa e quella con lo sviluppo economico generale: concezione evidentemente atta a delegittimare l'assunzione, da parte del sindacato, di fini politici generali in conflitto con quelli di altri - e più rilevanti - soggetti politici che dominano congiuntamente l'assetto del paese. Negli Stati Uniti, dopo il New Deal, vediamo formarsi quell'ideologia pancontrattualistica che troverà compiuta espressione teorica - nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale - negli scritti di S. Perlman, che costituiscono l'ideologia del cosiddetto business unionism.

In questa concezione, l'associazione sindacale nasce da una mentalità sindacale operaia la cui caratteristica principale è la consapevolezza della scarsità delle occasioni economiche (cioè, per gli operai, i posti di lavoro); il fine del sindacato è quello di monopolizzare la forza lavoro, a tutti i livelli (di azienda, di località, di settore), per negoziare i massimi vantaggi ottenibili e distribuire poi tali vantaggi - essenzialmente posti di lavoro e condizioni economiche del lavoro - tra i propri associati.

Una simile concezione delegittima il sindacato come portatore di interessi politici generali: la sola attività politica in senso stretto che un sindacato così concepito può svolgere, senza contraddire la propria ragion d'essere, è l'attività di gruppo di pressione anche nelle sedi di decisione politica; come, ad esempio, premere per commesse pubbliche a imprese fornitrici, in funzione dell'ottenimento di più posti di lavoro o di migliori paghe nel settore così favorito, ecc. In questa concezione, l'elaborazione di programmi politici generali, anche in materia economica, è addirittura repugnante alla natura del sindacato: cosicché la delegittimazione del sindacato come soggetto politico è elemento intrinseco dell'ideologia sindacale americana.

5. Il secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra non è agevole, e probabilmente è impossibile, trovare una linea di tendenza generale sia nelle proiezioni ideologiche che nelle pratiche effettive del sindacalismo. Anzitutto la divisione del mondo industrializzato in due blocchi, caratterizzati da organizzazioni politiche radicalmente diverse, ha determinato una profonda divaricazione tra le rispettive realtà sindacali. Nell'Unione Sovietica permane la riduzione del sindacato a vero e proprio organo del regime, dello Stato e del partito, e il modello sovietico è stato replicato in tutte le democrazie popolari dell'Europa Orientale senza apprezzabili novità, se si eccettua il fenomeno, ancora in nuce e sui cui sviluppi non è ancora possibile fare ragionevoli previsioni, del sindacato autonomo e spontaneo polacco, chiamato Solidarność, il quale si colloca in evidente contrasto con il modello organizzativo impostato sulla concezione leninista del rapporto tra sindacato e partito. Nei paesi dell'Occidente europeo si sono avute esperienze molto diverse, anche in relazione alle molto differenziate situazioni politiche; sotto taluni profili, come in particolare quello della pluralità e concorrenzialità dei sindacati o dell'unità monopolistica dell'organizzazione sindacale, potrebbero individuarsi, per periodi determinati, linee di tendenza per gruppi di paesi, come da un lato i paesi latini e dall'altro le socialdemocrazie nordiche e la Germania Federale; o, al livello delle proiezioni ideologiche, potrebbero individuarsi linee di tendenza all'accettazione o al rifiuto di collaborazione di tipo cogestionario sulla dimensione di impresa, per gruppi di paesi. La pluralità di punti di vista partendo dai quali le esperienze reali e le proiezioni ideologiche del sindacalismo lasciano individuare aree distinte, nell'Occidente industrializzato, suggerisce di concentrare l'attenzione su tre linee di tendenza corrispondenti al sindacalismo di tre gruppi di paesi. E precisamente: il sindacalismo statunitense, il sindacalismo dei paesi del Nord Europa, il sindacalismo dei paesi latini.

a) Il sindacalismo statunitense

Il sindacalismo statunitense, la cui più articolata proiezione ideologica è, come si è ricordato, quella di S. Perlman, si caratterizza dal punto di vista strutturale soprattutto per l'alto grado di decentramento della sua azione, o - da altro punto di vista - per il radicato atomismo del sindacato. Quantunque associati su base federativa, i nuclei portanti del sindacato sono unità di fabbrica e, molto spesso, di fabbrica e di mestiere. La necessità di qualche struttura federativa, e il supporto delle grandi federazioni (AFLCIO), non sono tanto costituiti dall'opportunità di condurre politiche di vasto raggio o di organizzare l'amministrazione di fondi sindacali (anche se queste opportunità giocano un ruolo), bensì, principalmente, dal fatto che un gran numero di imprese operano in settori industriali diversi talché la contrattazione di impresa è inizialmente nella competenza disgiunta di sindacati diversi: ciò comporta la necessità di una qualche struttura federativa che consenta un'azione contrattuale unitaria per tutta l'impresa; di qui un limite all'atomismo che peraltro rimane la struttura portante di base.

Dal punto di vista dell'azione sindacale, il sindacato americano privilegia il contratto collettivo e in particolare il contratto di impresa. Il contratto è considerato il regolamento, a titolo esclusivo, di tutto l'insieme delle condizioni di lavoro, comprese quelle relative alle ferie, alle pensioni, alle assicurazioni contro le malattie, ecc., cioè anche quegli aspetti che nella tradizione organizzativa dell'Europa continentale sono stati oggetto di amplissima legislazione. In tal modo il sindacato americano ha di fatto assunto un atteggiamento di rifiuto non solo di ogni istituzionalizzazione, ma anche di ogni legislazione in materia di lavoro e addirittura di ogni legislazione sociale, per non parlare di una legislazione di sostegno dell'azione sindacale. A sua volta, questo atteggiamento del sindacato è stato determinante nell'evoluzione del sistema giuridico statunitense, che è caratterizzato da una quasi totale inesistenza di legislazione sul lavoro e da una efficientissima strumentazione della rapida esecutività di ogni azione legale fondata sul contratto.

Alla struttura marcatamente atomistica e al privilegiamento del contratto di impresa vanno collegati gli altri aspetti peculiari del sindacalismo americano. Il primo di questi aspetti è che il sindacato americano rappresenta e assume di rappresentare solo gli interessi dei propri associati, cioè non si pone come portatore di un interesse extrassociativo, come l'interesse dei lavoratori non sindacalizzati o l'interesse di tutti i lavoratori o l'interesse di una collettività comunque individuata o tantomeno un interesse di classe. Il secondo, direttamente dipendente dal primo, è l'inesistenza di una linea di politica generale del sindacato, il quale partecipa a tutti i livelli alla formazione di decisioni politiche, ma solo in qualità di gruppo di pressione non diverso dagli altri gruppi di pressione: di volta in volta il sindacato, come nucleo o come federazione, eserciterà pressioni per un programma autostradale, o per una pianificazione urbana, o per sovvenzioni alle industrie acrospaziali, e così via, per consentire migliori possibilità di contrattazione ai propri associati, perché essi partecipino ai benefici di un'impresa o delle imprese di un settore, ma sempre entro la prospettiva della contrattazione di più paghe, più posti, migliori condizioni, e mai in funzione di un programma politico generale. In questo quadro, il sindacalismo americano è autarchico, cioè non ha collegamenti organici con partiti politici, con i quali può però stabilire ragnatele di rapporti clientelari in quanto gruppo di pressione; non è, propriamente parlando, un sindacato ‛riformista' e non è nemmeno, in senso politico, un sindacato ‛partecipazionista'. Anche se gli effetti dell'azione sindacale sono talvolta di tipo corporativista, il sindacalismo americano non può nemmeno dirsi ‛corporativista' in alcuno dei significati abituali del vocabolo.

b) Il sindacalismo dei paesi del Nord Europa

Alcuni tratti comuni sono identificabili nelle organizzazioni sindacali e nelle ideologie (implicite e in molti casi anche esplicite) sui fini sindacali dei paesi del Nord Europa: cioè Austria, Repubblica Federale Tedesca, Olanda, Belgio, Danimarca, Svezia e Norvegia. I tratti comuni dei sindacalismi caratteristici di questi paesi vanno, in parte, riferiti alla tradizione storica, che è quella del sindacalismo socialdemocratico: ovunque i legami con i partiti socialdemocratici, quantunque di solito non istituzionalizzati, sono profondi; ovunque il sindacato si dà strutture federative tanto orizzontali quanto verticali; ovunque il sindacato è legalitario e riformista; ovunque il sindacato pretende e promuove - peraltro in modi diversi nei diversi paesi - legislazioni di sostegno; ovunque il movimento sindacale esprime nel suo seno tendenze verso l'istituzionalizzazione giuridica; ovunque si manifesta la tendenza del sindacato a partecipare a decisioni economiche sia nazionali che di impresa in una prospettiva sostanzialmente collaborativa, relegando il momento conflittuale nelle procedure di elaborazione delle decisioni; ovunque gli esiti dell'azione sindacale protratta per decenni hanno dato luogo a quelle strutture politiche che, in questi ultimi anni, molti studiosi designano compendiosamente (anche se con qualche equivoco) come neocorporativismo.

È del tutto evidente che l'insieme di questi tratti comuni del sindacalismo nordeuropeo, quantunque geneticamente riconducibile alla tradizione del sindacalismo socialdemocratico, richiede - come condizione di possibilità - un sindacato di fatto monopolista e non una situazione di pluralità sindacale e di concorrenza tra sindacati o tra federazioni o confederazioni di sindacati; questa condizione di possibilità si è verificata nelle democrazie del Nord Europa, a differenza di quanto è avvenuto nei grandi paesi latini, Francia e Italia, nel secondo dopoguerra, e questa è probabilmente la seconda ragione (dopo quella del collegamento del più grande sindacato dei paesi latini con un partito comunista anziché con un partito socialdemocratico) della diversa evoluzione dell'esperienza sindacale nei due gruppi di paesi.

In linea generale si può dire che la tendenza del sindacalismo nordeuropeo, tanto nei fatti quanto nelle proiezioni ideologiche, sia riconducibile al modello seguente: 1) si accetta come fine sindacale lo stabilimento di un alto grado di cooperazione del sistema sindacale con altri soggetti politici, in particolare sistema-Stato e sistema-imprese, nell'elaborazione delle politiche economiche nazionali e nel sostegno della produzione; 2) si promuove, a tutti i livelli, un alto grado di istituzionalizzazione dei rapporti tra l'organizzazione sindacale e lo Stato, mediante la creazione di organismi pubblici stabili con la partecipazione di rappresentanti sindacali; 3) si stabilisce una dialettica tra organizzazione sindacale e un partito politico, di solito quello socialdemocratico, per cui il sindacato rafforza quel partito il quale, a sua volta, promuove riforme legislative e amministrative atte a potenziare e a moltiplicare gli organi pubblici a rappresentanza sindacale, anche con l'effetto di limitare - di fatto - i poteri del legislativo e del governo nonché del sistema dei partiti. In tal modo si esprime una linea di tendenza che è, in prospettiva, compiutamente corporativistica.

L'elemento su cui, nell'ambito del sindacalismo nordeuropeo, sembra potersi tracciare una distinzione riguarda il rapporto di integrazione decisionale del sindacato a livello di singola impresa. Ad esempio il sindacalismo belga e quello olandese, che sono tra i più ispirati da atteggiamenti partecipativi e di ‛collaborazione economica', tendono verso forme neocorporativistiche solo a livello di decisioni politiche macroeconomiche, in forma di consigli paritetici, ma non hanno, né forse vogliono, esperienze di cogestione a livello di impresa. Del tutto diverso è, a questo proposito, l'atteggiamento del sindacalismo tedesco che, essendosi trovato per ragioni storico-politiche, subito dopo la guerra, di fronte a istituti cogestionari in un settore industriale rilevante, li ha sostanzialmente fatti propri - sia pure non senza che si sviluppassero tensioni - e ha incluso il potenziamento e la diffusione della cogestione nel proprio quadro di riferimento ideologico. La genesi dell'esperienza di cogestione germanica va rintracciata in decisioni dell'autorità di occupazione inglese, nella cui zona era la Ruhr, relative alla gestione delle imprese carbosiderurgiche le cui dirigenze avevano sostenuto il regime nazista: l'autorità inglese chiamò una rappresentanza operaia a partecipare alle decisioni di impresa. Su questa base fu elaborata una proposta di legge sulla co-decisione (Mitbestimmung) che fu promulgata nel 1951 e che sanciva la presenza di una rappresentanza dei lavoratori paritetica nei consigli d'amministrazione delle società che esercitano imprese carbosiderurgiche (con l'aggiunta di un membro esterno nominato di comune accordo da capitale e lavoro); sanciva anche la presenza nella direzione aziendale, accanto al direttore o ai direttori, di un ‛direttore del lavoro' (Arbeitsdirektor) designato dal personale. Dopo la legge del 1951, con leggi successive, la cogestione fu estesa ad altri settori industriali. Non v'è dubbio che l'accettazione, da parte del sindacato, dell'esperienza cogestionaria abbia rinforzato a sua volta le tendenze ‛partecipative' già presenti nel sindacalismo germanico: così come la stessa organizzazione giuridica, e la cultura dei giuristi germanici, che tendono a privilegiare come valore la ‛pace sociale' e a deprivilegiare come fatto patologico il ‛conflitto', hanno senza dubbio assecondato e agevolato il prevalere nel sindacalismo germanico di uno spirito di collaborazione non solo a livello di decisioni macroeconomiche e di assunzione di responsabilità nell'elaborazione della politica economica nazionale, ma anche a livello di impresa.

c) Il sindacalismo dei paesi latini, con particolare riguardo al sindacalismo italiano

A differenza di quanto accade nei paesi del Nord Europa, nei paesi latini che nel secondo dopoguerra hanno regimi democratici, la Francia e l'Italia, esiste una pluralità di organizzazioni sindacali. In Francia il sindacalismo dei lavoratori confluisce, sostanzialmente, in due confederazioni orizzontali che sono rispettivamente la Confédération Générale du Travail (CGT), di ispirazione comunista e associata alla Federazione Sindacale Mondiale, e la Section Française de l'Internationale Ouvrière (SFIO). In Italia l'unità sindacale, che si era avuta durante la lotta al fascismo, ebbe breve durata: su questa vicenda vanno ricordati alcuni punti essenziali.

L'unità sindacale viene stabilita, sulla base di un'esigenza scaturita dalla comune lotta antifascista, con il cosiddetto Patto di Roma tra gli esponenti dei tre principali movimenti sindacali - e cioè il sindacalismo comunista (firmatario G. Di Vittorio), il sindacalismo socialista (firmatario E. Canevari) e il sindacalismo democratico-cristiano (firmatario A. Grandi) -, patto che si pretende firmato il 3 giugno 1944 (cioè ancora sotto l'occupazione tedesca), ma in realtà firmato qualche giorno dopo, il 9 giugno. Con tale patto si diede vita alla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) che adottò un programma molto generico proprio perché fosse unitario, proclamò la massima libertà di espressione al suo interno, l'assoluta indipendenza da ogni partito, la disponibilità a prendere tuttavia posizione su tutti i problemi politici che interessano la generalità dei lavoratori e, con accordo politico interno tra le componenti, si avviò verso una prassi di decisioni prese su basi paritetiche.

Peraltro il carattere unitario della CGIL era profondamente insidiato da una serie di realtà oggettive tanto interne alla confederazione quanto esterne. Anzitutto, dal punto di vista dell'ideologia sindacale dei quadri, le tre componenti divergevano irrimediabilmente: a) le componenti comunista e socialista pensavano in termini di sindacalismo di classe, mentre la componente democratico-cristiana e specificamente cattolica rifiutava una concezione classista della società e perciò un sindacato ‛di classe'; le componenti comunista e socialista tendevano, allora, a vedere come fine solo immediato del sindacato la rivendicazione e la difesa economica dei lavoratori, e come fine ultimo la costruzione di una società diversa, e molti quadri comunisti e socialisti non escludevano, in prospettiva, lo strumento rivoluzionario, mentre la componente democratico-cristiana aveva alle spalle una storia di concezioni corporativistiche del sindacato e, parlando in prospettiva di ‛partecipazione agli utili' e di ‛trasformazione del proletario in proprietario', rifiutava in sostanza la finalizzazione a radicali mutamenti della società; b) la componente comunista accettava solo in funzione tattica la separazione del sindacato dal partito, nel senso che il partito voleva che il sindacato fosse unitario e la separazione costituiva il mezzo per ottenere un sindacato unitario, ma al fine di portare tutto il sindacato unitario sulle posizioni politiche del partito assecondandone le azioni anche contingenti, mentre la componente socialista non aveva nel suo bagaglio ideologico la stretta dipendenza del sindacato dal partito, e la componente democratico-cristiana aveva già - e la storia successiva lo mostra con chiarezza - la tendenza a esaltare (contro le pretese del partito democristiano e anche in taluni momenti contro i suggerimenti ecclesiali) l'autonomia del sindacato. In secondo luogo, lo stato di inferiorità numerica della componente democratico-cristiana nei settori industriali costituiva un'oggettiva causa di malessere. In terzo luogo, il vizio di origine dell'unità sindacale, di essere la proiezione sindacale di un momento di collaborazione politica dei partiti nella Resistenza, pesava sull'unità sindacale stessa rendendola sensibile alle sollecitazioni provenienti dall'esterno, cioè da un contesto politico in cui la collaborazione era destinata a venir presto meno.

L'unità sindacale venne meno quando, dopo lunghe polemiche, il 15 luglio 1948, gli undici membri democratico-cristiani del comitato direttivo della CGIL si riunirono nella sede romana delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (ACLI) e diedero vita a una nuova confederazione chiamata Libera Confederazione Generale del Lavoro (LCGIL). Il 4 giugno 1949 i lavoratori socialisti democratici (cioè aderenti al PSLI, nato con la scissione socialista) e repubblicani diedero vita a un'altra confederazione, la Federazione Italiana del Lavoro (FIL). Le due nuove confederazioni si fusero il 1° maggio 1950, dando vita alla Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL), ma gran parte della base della FIL contestò i dirigenti, specialmente per le resistenze di molti lavoratori repubblicani e socialdemocratici a riconoscersi in una organizzazione a prevalenza cattolica, e ancor prima della fusione costituì, unendosi a un nuovo gruppo di espulsi dalla CGIL, una terza confederazione, l'Unione Italiana del Lavoro (UIL).

In tal modo, a partire dall'inizio del decennio cinquanta, l'esperienza italiana è caratterizzata dalla presenza di tre confederazioni, cioè di tre associazioni orizzontali a cui si rapportano le rispettive federazioni verticali di settore, la CGIL, la CISL e la UIL, che, concorrenziali tra di loro, danno vita a un genere particolare di pluralismo sindacale, su cui torneremo tra poco. A queste tre confederazioni si aggiunge, con scarsa consistenza numerica e senza importanza politico-sindacale anche perché costantemente emarginata dalle altre confederazioni, dalle associazioni padronali e dal potere politico, la CISNAL, che si collega al corporativismo fascista. Si sono inoltre avute, in tempi diversi, associazioni di tipo confederale tra sindacati autonomi di settore, o di particolari posizioni nel settore, che sono fiorite soprattutto nel pubblico impiego.

Tuttavia si può dire che la storia del sindacalismo italiano in questo secondo dopoguerra si risolve sostanzialmente, senza residui, nella storia delle tre confederazioni menzionate per prime, sicché occorre considerare attentamente la loro struttura.

Le tre principali confederazioni sono strutturate come organizzazioni orizzontali di vertice rispetto alle unioni sindacali provinciali (le unioni provinciali che fanno capo alla CGIL conservano il nome tradizionale di Camera del lavoro); inoltre, sono anche strutturate come vertice di un'articolazione verticale che parte dai sindacati provinciali ‛di categoria', passa per le federazioni ‛di categoria' e termina, appunto, nella confederazione.

In altre parole, la confederazione è il vero punto di contatto dell'organizzazione orizzontale e di quella verticale, e tutta la strutturazione con cui il sindacato italiano si presenta alle soglie del decennio 1950-1960 è atta ad agevolare un modo di concepire il sindacato per cui l'elemento trainante, l'elemento che elabora la politica sindacale, è il vertice confederale: cioè atta a prefigurare un sindacalismo orizzontale nazionale. Inoltre va considerato il fatto che la divisione delle confederazioni sindacali dei lavoratori si era verificata essenzialmente sulla base delle ideologie politiche e partitiche dei dirigenti sindacali e degli stessi lavoratori affiliati, tanto che le confederazioni non solo aderivano a diverse associazioni internazionali (la CGIL alla Federazione Sindacale Mondiale, la CISL alla CISL internazionale), ma i rapporti con i partiti erano strettissimi (comunisti e socialisti - questi ultimi integralmente, all'epoca del fronte popolare e sino alla riunificazione socialista - nella CGIL, i democratico-cristiani nella CISL, quasi tutti i socialdemocratici e tutti i repubblicani nella UIL): anche sotto questo rispetto, dunque, era sollecitata una concezione dell'attività sindacale come guidata dai vertici e in funzione della politica generale nazionale. A tutto ciò si aggiunga che, per tutto il primo decennio considerato, il tasso di sindacalizzazione specialmente fuori dell'industria metalmeccanica del triangolo industriale era eccezionalmente basso, i quadri sindacali periferici molto sovente scarsi, poco sperimentati e soprattutto presi di peso dai partiti e messi a fare i sindacalisti, tanto che anche alle periferie della struttura orizzontale e alla base di quella verticale l'elaborazione di linee di attività sindacale, oltreché scoraggiata, era contrastata dalla pigrizia della ‛disciplina di partito'.

A un analogo risultato porta la considerazione di quali erano, nel decennio 1950-1960, gli sbocchi dell'attività sindacale. Nel periodo della crisi post-bellica e della ricostruzione, le sole effettive possibilità contrattuali erano offerte dalla contrattazione nazionale dei minimi di categoria. Ciò dipendeva in parte dalla strutturazione che si era dato l'associazionismo sindacale del padronato: esso era organizzato, tradizionalmente, in confederazioni orizzontali di vertice per grandi settori economici (Confindustria, Confagricoltura, Confcommercio) le quali confederazioni, attraverso sezioni distinte, trattavano contratti nazionali (metalmeccanico, tessile, ecc.).

Da tutto questo insieme di fattori deriva che il sindacalismo italiano nel dopoguerra sviluppò una concezione caratterizzata da estrema politicizzazione e stretto collegamento con i partiti, da assoluto verticismo orizzontale, da una visione dell'attività contrattuale come limitata alla contrattazione nazionale dei minimi in situazione di oggettiva debolezza, da inesistente - anche se non colpevole - presenza sui posti di lavoro e scarso contatto con il mondo del lavoro. La mobilitazione di massa, inoltre, da parte della più grande confederazione, la CGIL, venne sovente sollecitata e attuata per questioni del tutto irrelate alla difesa sindacale dei lavoratori (contro l'entrata nella NATO, per protesta contro la visita di Eisenhower, ecc.). A causa delle pesanti discriminazioni, il solo punto veramente riconducibile a una strategia sindacale fu, per la CGIL, la lotta contro la discriminazione del lavoratore, e specialmente del sindacalista, nel lavoro e dal lavoro.

A questa situazione di fatto e a questa ideologia implicita nell'azione sindacale si manifestò una reazione, prima a livello delle elaborazioni ideologiche e successivamente a livello della prassi, da parte delle dirigenze della CISL, nel periodo intercorrente tra la fine degli anni cinquanta e l'autunno caldo del 1969. Si tratta di una nuova elaborazione ideologica, basata su alcune ragioni attinenti al contesto sociopolitico. Anzitutto, le dirigenze cisline divengono sempre più insofferenti delle pretese che il partito democratico-cristiano e i governi democratico-cristiani avanzano, di guidare l'azione sindacale della CISL piegandola a ragioni di politica governativa contingente e impedendo così un'efficace concorrenza, a livello puramente sindacale, nei confronti del sindacato socialcomunista.

Su tale insofferenza si innesta tutta un'elaborazione dottrinale relativa alla necessaria ‛autonomia' del sindacato dal partito e all'incompatibilità tra cariche di partito e cariche di sindacato, che viene a caratterizzare nettamente la CISL come sindacato apartitico ed elaboratore di strategie sindacali irrelate alle contingenze partitiche. In secondo luogo, le dirigenze cisline abbandonano ogni richiamo alle ideologie corporativistiche tradizionali del sindacalismo cattolico e accentuano le caratteristiche del sindacato secondo precise finalità di difesa e di progresso dei lavoratori essenzialmente sotto il profilo economico. In terzo luogo, di fronte a uno sviluppo economico notevole ma concentrato in alcune regioni del paese e in alcuni settori dell'industria, le dirigenze cisline percepiscono che da un lato, nelle zone favorite, i lavoratori possono ottenere attraverso l'azione sindacale di più, e dall'altro lato la generalizzazione dei vantaggi dei lavoratori favoriti a tutto il territorio nazionale e a tutti i settori avrebbe determinato una crisi economica ovvero innescato un processo di desindacalizzazione. Per uscire da simile dilemma e offrire un'alternativa programmatica, rispetto a quella del sindacato socialcomunista, le dirigenze cisline elaborarono la strategia, e poi inaugurarono la prassi, del contratto collettivo di impresa; in ciò furono agevolate da un parallelo manifestarsi di propensione al contratto collettivo di impresa da parte del sindacato dei datori di lavoro Intersind, che era venuto a inquadrare le imprese a partecipazione statale del gruppo IRI (a prescindere dal settore di produzione) dopo il distacco delle partecipazioni statali dalla Confindustria.

Con il contratto collettivo di impresa si realizzò l'articolazione della contrattazione collettiva, basata su due livelli, e cioè il contratto nazionale di categoria e il contratto di impresa, con un sistema di rinvii dall'uno all'altro e con un principio di avvicinamento del sindacato alla singola impresa: articolazione della contrattazione alla quale furono inevitabilmente trascinate anche le altre confederazioni. In quarto luogo, le dirigenze cisline manifestarono diffidenza e rifiuto rispetto allo strumento legislativo, e in particolare di fronte a ogni legislazione di sostegno, come corollario della divaricazione tra azione sindacale autonoma articolata e contrattualista da un lato e azione partitica dall'altro lato. Come è evidente, simile concezione e simile prassi erano solidali con un adattamento alla situazione italiana del modello contrattualistico americano secondo le teorizzazioni di Periman lette attraverso gli occhiali del professor G. Giugni, che fu il teorico e l'ispiratore di questa elaborazione strategica della CISL anche attraverso la scuola quadri di questa confederazione in Firenze. Il successo di questa linea comportò, per il sindacalismo italiano, oltre all'articolazione della contrattazione, anche un'accentuazione del verticalismo e dell'importanza delle federazioni rispetto alle confederazioni.

Questo nuovo modello di sindacalismo sarebbe stato destinato a realizzare da un lato una depoliticizzazione del sindacato rispetto alla politica economica nazionale oggetto di deliberazione parlamentare e dall'altro lato un'assunzione di responsabilità economica, un atteggiamento di partecipazione e di collaborazione in vista di vantaggi contrattati per i lavoratori a livello di impresa. Tuttavia questa linea di sviluppo era destinata a essere interrotta sul nascere dalla profonda modificazione del mondo del lavoro avvenuta dopo il 1969. Un altro elemento ostativo della linea di sviluppo del modello cislino era costituito dalla tendenza all'unità sindacale che, per ovvie ragioni di aggregazione rivendicativa, era venuta manifestandosi nelle tre confederazioni, con un processo di intese progressive, a partire dal 1966: tendenza unitaria che era destinata a rafforzarsi in seguito alle vicende dell'autunno caldo.

A partire dalla fine del 1966 si manifestano tra i lavoratori dell'industria, prima sporadicamente poi con frequenza sino a divenire generalizzati nel 1969, comportamenti di lotta sindacale particolarmente duri e talora - come nel caso del sabotaggio e del danneggiamento - palesemente illeciti, non solo al di fuori ma contro la volontà delle centrali sindacali; su questi comportamenti si innestano, in rapporto di interrelazione a doppio senso, elaborazioni dottrinarie e predicazioni di movimenti intellettuali di estrema sinistra che teorizzano l'‛autonomia dei comportamenti della classe operaia' rispetto non solo allo Stato, ma anche ai sindacati confederali, che vengono concepiti e additati come strumenti della repressione di classe. Attorno al 1969 si generano spontaneamente, all'interno delle singole unità produttive, nuove entità sindacali come i delegati di linea, di squadra e di reparto, e i comitati unitari di base: si tratta di una proliferazione di forme di auto-organizzazione di base che non si inquadra nelle organizzazioni sindacali esistenti. Le confederazioni e le federazioni tentano di assumere il controllo di queste nuove entità sindacali spontanee attraverso diversi strumenti, di cui il principale è un'ulteriore articolazione della contrattazione collettiva, attuata imponendo alla controparte nei contratti il riconoscimento delle nuove unità di base e il rinvio a esse per ulteriori livelli di microcontrattazione; e il sussidiario è la spinta alla omogeneizzazione di queste unità sindacali di base in una istituzione generalizzata che è il consiglio di fabbrica.

Ma la necessità di penetrare nella fabbrica induce il sindacalismo confederale ad accettare la legislazione di sostegno del sindacato che i successivi ministri del Lavoro Brodolini e Donat Cattin venivano affannosamente preparando (con la consulenza di Gino Giugni): si trattava dello Statuto dei lavoratori, legge 20 maggio 1970, n. 300, che tra l'altro prefigurava un'ulteriore entità sindacale e cioè la ‛rappresentanza sindacale aziendale' (delle confederazioni o di associazioni non confederali firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali).

Tutta questa serie di fenomeni, anche dopo spenta la carica anarco-sindacalista e rivoluzionaria del 1969-1970, hanno determinato conseguenze di notevole portata nel sindacalismo italiano. In particolare un nuovo incremento del verticalismo e l'articolazione sino a livello di fabbrica; inoltre la riassunzione, da parte delle confederazioni e del vertice unitario delle tre confederazioni, di fini di politica economica generale (casa, trasporti, scuola, sanità, Mezzogiorno), anche per rispondere in termini di politica economica generale alle dirompenti pressioni della base sindacale. Dal punto di vista della sociologia delle organizzazioni va inoltre rilevato come, a partire dal 1970 e con il riassorbimento dei movimenti di base nelle confederazioni, progressivamente il personale sindacale delle federazioni, a livello di quadri intermedi, è venuto a essere formato in larga parte da personale di origine anarco-sindacalista (quantunque riciclato), tale da portare nel sindacato una mentalità diffusa favorevole a un esasperato conflittualismo.

L'assunzione di fini di politica economica nazionale, da parte del sindacalismo confederale, si è tradotta in forme e formule di tipo vertenziale e conflittuale. In questo senso non può dirsi che il sindacalismo italiano manifesti una tendenza verso modelli neocorporativistici simili a quelli del sindacalismo nordeuropeo: apparentemente, a partire dal 1970, i sindacati confederali individuano nel governo non un interlocutore ma una ‛controparte' verso cui avanzare rivendicazioni trasferendo la propria forza contrattuale nel sistema politico ed esercitando, rispetto ad altri soggetti politici, funzioni di supplenza ovunque possibile. In senso diverso potrebbe essere valutata la sempre più massiccia partecipazione del sindacato a organi amministrativi: la partecipazione maggioritaria alla gestione dell'INPS, i rappresentanti sindacali nei consigli d'amministrazione di aziende statali (Poste e Telecomunicazioni, Ferrovie) e di enti dell'amministrazione periferica. Si tratta, almeno nelle forme, di una rete di canali di partecipazione del sindacato al controllo e alla gestione della spesa pubblica, che esso cerca di potenziare e di ampliare, tanto da dare l'impressione che si sia in presenza di una vera e propria strategia di partecipazione collaborativa almeno per quanto riguarda il settore pubblico dell'economia: peraltro la strategia non è esplicitata e l'attività delle rappresentanze sindacali negli organi di gestione sembra limitata da una visuale ristretta alla considerazione degli interessi del personale degli enti.

Il fiorire di sindacati autonomi, oramai non solo nel pubblico impiego, che sono evidentemente portatori di interessi settoriali e corporativi e non sono inclini a strategie di tipo neocorporativistico, conforta l'impressione che il sindacalismo dei paesi latini, e quello italiano in modo particolare, non si muova, attualmente, verso schemi e modelli affini a quelli propri del sindacalismo nordeuropeo.