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Termine entrato nel linguaggio giuridico durante le trattative
per la pace di Vestfalia (1648), allo scopo di indicare il
passaggio di beni e territori dalla Chiesa a possessori civili, e
adottato in seguito dal diritto canonico per indicare il ritorno
alla vita laica da parte di membri del clero. Nel 19° sec. è
passato a indicare il processo di progressiva autonomizzazione
delle istituzioni politico-sociali e della vita culturale dal
controllo e/o dall’influenza della religione e della Chiesa. In
questa accezione, che fa della s. uno dei tratti salienti della
modernità, il termine ha perso la sua originaria neutralità e si è
caricato di connotazioni valoriali di segno opposto, designando
per alcuni un positivo processo di emancipazione, per altri un
processo degenerativo di desacralizzazione che apre la strada al
nichilismo.
Tra i fautori più convinti della s. come liberazione da ogni forma
di tutela religiosa spiccano le secular societies, sviluppatesi in
Inghilterra nella seconda metà dell’800 e variamente ispirate al
positivismo e al materialismo: esse fecero del secularism un
programma politico e ideologico, spesso improntato
all’anticlericalismo e/o all’ateismo. Nell’ambito del pensiero
sociologico, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento,
si tentò di restituire al termine un significato neutrale e
descrittivo.
1. L’analisi classica: Durkheim, Weber, Troeltsch
É. Durkheim riteneva che il progresso avrebbe portato la religione
tradizionale a un declino irreversibile; ma era altresì convinto
che nessuna società potesse sopravvivere senza quel tessuto
connettivo (valori, credenze e riti capaci di suscitare intensi
legami di solidarietà) proprio di una natura essenzialmente
religiosa. Nelle società progredite e altamente differenziate la
religione non sarebbe quindi scomparsa, ma avrebbe subito una
metamorfosi, consistente nella s. dei suoi contenuti
(sacralizzazione della persona umana, culto dell’individuo).
Per M. Weber, invece, il mondo moderno è caratterizzato da un
radicale ‘disincantamento’ (esito inintenzionale dell’etica
protestante, che ha sciolto ogni legame magico-simbolico tra Dio e
il mondo) e dall’affermazione della razionalità strumentale: di
qui l’autonomizzarsi della politica, dell’economia e della ricerca
intellettuale dalla religione. All’interno della sfera
intellettuale il conflitto tra razionalismo e orientamento
religioso è, secondo Weber, particolarmente acuto: il razionalismo
della scienza empirica, che ha una pretesa di totalità e di
autosufficienza, non riconosce l’esigenza di fondo della religione
– la ricerca di un ‘senso’ nell’accadere intramondano – e la
sospinge nel dominio dell’irrazionale: di conseguenza la
religione, nel mondo moderno, viene a essere confinata
nell’esperienza mistica.
Sulla scia di Weber si colloca il teologo liberale E. Troeltsch,
il quale riprende l’idea del legame tra protestantesimo e mondo
moderno, ma – a differenza di Weber – vede in alcune fondamentali
idee della modernità (la separazione tra Stato e Chiesa, la
tolleranza religiosa e la libertà di culto) una s. dei principi
del cristianesimo evangelico. Anche successivamente, è stato in
ambito protestante che la s. è stata interpretata in senso
positivo, vale a dire come progressiva realizzazione dei principi
cristiani e come tendenza verso un cristianesimo ‘adulto’, libero
dal mito. L’interpretazione della s. come naturale protendersi del
cristianesimo verso il mondo è condivisa anche da F. Gogarten, che
però distingue da essa il secolarismo, inteso come pericolosa
tendenza delle istituzioni terrene a divinizzarsi, sostituendosi
alla dimensione religiosa.
2. Teorie contemporanee
La categoria di s. è tornata a giocare un ruolo centrale nelle
scienze sociali negli anni 1960 e 1970, anche in seguito al
manifestarsi, nel mondo occidentale, di nuovi movimenti religiosi,
che sembravano incrinare la previsione – comune a larga parte
della cultura moderna – di una inesorabile s. delle società
moderne. Secondo B.R. Wilson, la società moderna priva la
religione delle sue funzioni di integrazione morale e la confina
pertanto nella sfera privata, dove peraltro essa assume caratteri
e significati latamente culturali (s. come desacralizzazione).
Per T. Luckmann, invece, la religione – in quanto bisogno
dell’organismo umano di trascendere la dimensione biologica –
rappresenta una costante antropologica insopprimibile; ma nella
società industriale moderna, persa la capacità di imporre un
ordine condiviso all’esperienza sociale e individuale, si è
frammentata in una pluralità di tradizioni e istituzioni
religiose, che agiscono in una sorta di situazione di mercato. Di
qui la trasformazione della religione in una questione di ‘scelta’
o di ‘preferenza’ personale (s. come privatizzazione della
religione).
Per T. Parsons la moderna società industriale non è il frutto del
‘disincantamento del mondo’, ma della istituzionalizzazione dei
valori cristiani, che si sono trasferiti nella sfera morale laica
(s. come trasposizione della religione nella sfera secolare).
Sulla stessa linea si colloca R.N. Bellah, che riprendendo da
Rousseau il concetto di religione civile e facendone la chiave di
volta per intendere i caratteri salienti della cultura americana,
concepisce quest’ultima come un insieme condiviso di valori,
simboli e riti derivati dalla tradizione cristiana, ma trasformati
e adattati a legittimare l’identità nazionale. Sulle religioni
‘secolari’ o ‘politiche’ – ossia, sulle grandi ideologie
contemporanee, considerate come ‘equivalenti funzionali’ della
religione tradizionale – si sono soffermati sia Parsons sia J.P.
Sironneau.
In ambito filosofico, di particolare interesse è la riflessione
sviluppata da K. Löwith, secondo cui le moderne filosofie della
storia traggono «origine dalla fede biblica in un compimento
futuro» e finiscono «con la s. del suo modello escatologico».
Secondo H. Blumenberg, invece, non esiste continuità tra
l’escatologismo della tradizione ebraico-cristiana e l’idea
illuministica di progresso, giacché quest’ultima è ispirata
all’homo faber, creatore di storia e di forme.
Enciclopedia del Novecento (1982)
di Langdon Gilkey
Sommario: 1. Introduzione. 2. Genesi, natura e sviluppo dello
‛spirito secolare'. 3. La crisi: contraddizioni nella cultura
secolare, ricomparsa della religiosità e avvento dell'ideologia.
4. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il tema della ‛secolarizzazione' abbraccia pressoché tutta la
cultura occidentale moderna. Il processo di secolarizzazione,
naturalmente, ha investito anche società diverse da quelle
comunemente qualificate ‛occidentali': per esempio il Giappone, la
Cina, la Turchia, l'Egitto e così via. Noi limiteremo però il
nostro esame alle società occidentali, senza dimenticare d'altra
parte che dovunque la cultura scientifica, tecnica e industriale
dell'Occidente sia penetrata - e ci sono ben poche aree immuni da
tale penetrazione - il processo di secolarizzazione è manifesto.
Pur con qualche specificazione, da tenere nel debito conto,
l'evoluzione dell'Occidente moderno - intendendo con ‛moderno' il
periodo che va dal 1500 al 1900 - si presenta in quasi tutti i
suoi aspetti come l'evoluzione di una società ‛secolare'. Una
descrizione adeguata del fenomeno della secolarizzazione dovrebbe
quindi includere una descrizione dei mutamenti sociali, economici,
politici e tecnologici - il cui risultato è appunto la società
occidentale moderna -, come anche l'intera storia recente della
scienza, dell'arte, della psicologia, della teoria sociale, della
letteratura, della filosofia e della riflessione religiosa, che ha
accompagnato la formazione ditale società. In quest'articolo ci
concentreremo su questa seconda dimensione del processo di
secolarizzazione: sullo sviluppo, sul carattere e sugli effetti -
lo svolgimento - dello ‛spirito secolare', quel fondamentale
atteggiamento o prospettiva nei confronti della vita che ha
promosso la secolarizzazione (di cui è nel contempo il risultato)
delle istituzioni sociali. Il nostro interesse, dunque, va alla
secolarizzazione della ‛cultura' moderna piuttosto che alla
secolarizzazione della ‛civiltà' o ‛società' moderna,
all'atteggiamento generale cui si dà spesso il nome di
‛secolarismo' piuttosto che ai mutamenti istituzionali
responsabili della formazione di una società secolare. Il
processo, che è l'oggetto della nostra analisi, si è manifestato
in alcune aree dell'Occidente - per esempio, nell'Europa
settentrionale e nel Nordamerica - in modo più netto e radicale
che in altre, anche se i suoi effetti sono visibili nei modelli
istituzionali di comportamento e negli atteggiamenti verso la vita
di tutto l'Occidente.
La dinamica fondamentale dei processi sociali non è di per sé
evidente né c'è accordo circa la sua natura. I mutamenti nello
‛spirito' di una società sono forse prodotti (come diceva Marx) da
mutamenti nelle strutture e nei modelli sociali di rapporti e di
comportamento (‛modi e rapporti di produzione')? Ovvero i
mutamenti negli atteggiamenti e nelle idee producono mutamenti
nelle istituzioni, come la maggior parte degli intellettuali
(inclusi i marxisti) crede? Ovvero, infine, c'è un processo
d'‛interazione', nel quale nuovi atteggiamenti rendono possibili
tipi nuovi di rapporti e strutture istituzionali, e nuovi modi di
vita creano a loro volta mutamenti nei sentimenti e nelle idee? Il
nostro assunto è che la terza soluzione prospettata è quella
corretta: i modi di guardare al mondo hanno cioè effetti graduali
sulle istituzioni sociali e quindi sugli sviluppi economici e
politici, i quali, a loro volta, fanno emergere nuovi
atteggiamenti verso la vita. Di conseguenza, noi ci interesseremo
alla secolarizzazione ‛sociale' soltanto in quanto ha inciso sui
modi di guardare al mondo, dando per scontato che gli
‛atteggiamenti secolari', che tenteremo di descrivere, hanno
contribuito a porre le condizioni per la secolarizzazione delle
strutture economiche, politiche e sociali e per i mutamenti che il
ruolo e l'autorità delle istituzioni religiose hanno subito nella
vita moderna.
In ogni modo, ci sono pochi dubbi che l'evoluzione delle società
moderne ha comportato, sin dal Rinascimento, una graduale
‛liberazione' delle istituzioni sociali - economiche, politiche,
giuridiche, morali, accademiche, professionali e persino familiari
- dal controllo delle autorità religiose. Tutti questi aspetti
della società, e le correlative espressioni istituzionali, sono in
un modo o nell'altro divenuti ‛autonomi', hanno cessato di
fondarsi sui principi religiosi, di essere guidati da norme
religiose e di essere governati dall'autorità religiosa; al
contrario, essi appaiono ora diretti, in ultima analisi, da
principi e norme di carattere ‛secolare' o ‛naturale', siano tali
principi o norme fatti risalire alla ragione, alla ‛natura', al
costume, o semplicemente alla convenzione o preferenza. La
religione - e con essa le comunità e le istituzioni religiose - ha
perduto la sua centralità, in quanto non più rilevante per la
guida della vita sociale. Non soltanto la religione è così
divenuta una questione di scelta personale piuttosto che un
bisogno pubblico, ma si è imposta la tendenza a confinarla nella
sfera delle credenze personali, della pratica privata e dei
modelli di comportamento morale individuale. Al pari della
società, anche la religione si è secolarizzata: prodotto di cause
‛storiche', governata da principi e norme ‛razionali' o ‛naturali'
e rivolta a mete mondane, la religione è diventata ‛privata', una
questione di opzione o gusto personale. Dal canto loro, i capi
religiosi hanno cessato di svolgere - in politica, in economia,
nell'istruzione e sul terreno sociale - quel rilevante ruolo
pubblico che una volta era stato senza contestazione loro
riconosciuto.
Non desta quindi sorpresa che, agli occhi di molti commentatori
della prima metà del Novecento, questi sviluppi nella maggior
parte, se non nella totalità, delle società moderne avanzate siano
apparsi presagire la graduale scomparsa della religione, come del
resto mostravano l'indebolimento della sua tempra intellettuale,
morale e spirituale, la perdita della sua presa - nell'ambito
spirituale, psicologico come in quello dell'autorità - su larghi
settori della popolazione, e quindi il suo relegamento a gruppi
insignificanti estranei alla corrente principale della vita
sociale. Dal Settecento alla metà del Novecento un importante
aspetto dello spirito secolare è infatti consistito nel fatto che
molti, se non la maggioranza, dei leaders intellettuali, sia
borghesi sia comunisti, hanno dato per scontato che il prossimo
stadio della moderna evoluzione avrebbe visto la fine virtuale
della religione organizzata come fattore significativo nella
società e l'avvento, sotto una veste o l'altra, di una società
completamente secolare. Il nostro interrogativo è dunque: quali
fattori istituzionali, intellettuali e spirituali nella nascita
dell'Occidente moderno hanno alimentato questo processo di
esautoramento della religione da quella posizione di dominio,
nella sfera pubblica come in quella privata, che aveva occupato
all'incirca sino al Seicento, e quali atteggiamenti hanno reso
così diffusamente plausibile l'idea dell'imminente scomparsa della
religione organizzata?
2. Genesi, natura e sviluppo dello ‛spirito secolare'
Passiamo dunque brevemente in rassegna i mutamenti sociali e
istituzionali che hanno favorito la svolta da un'interpretazione
religiosa (e dal dominio delle autorità, delle norme e delle mete
religiose) a un'interpretazione secolare della vita.
1. L'immensa espansione del mondo conosciuto, quale si ebbe nel
Quattro e Cinquecento attraverso le esplorazioni e i commerci,
suscitò una nuova consapevolezza del pluralismo delle culture nel
mondo. Modi di vita e credenze alternativi fecero la loro
comparsa; di conseguenza, le tradizioni europee, e specialmente le
tradizioni religiose, cessarono a poco a poco di essere
considerate come ‛il' modo di essere uomini: un graduale processo
di relativizzazione si era avviato.
2. Con il lento progresso - nell'Occidente - della tecnologia e
dell'urbanizzazione, l'ambiente della vita umana subiva un
mutamento decisivo. Uomini e donne non erano più direttamente
dipendenti da un ordine naturale eterno, immutabile, ‛dato', al
quale bisognava adattarsi (com'era il caso delle culture rurali,
agricole e marinare). L'ambiente al quale dovevano ora adattarsi
era invece costituito dai sempre mutevoli e relativi assetti
prodotti dall'iniziativa umana. L'uomo aveva lasciato il mondo di
Dio per un mondo umano, aveva cessato di partecipare a un ordine
eterno per divenire il creatore di un ordine relativo e
fluttuante.
3. Con l'accelerarsi dei mutamenti economici, politici e sociali,
mutava la visione del mondo umano: delle istituzioni sociali,
delle tradizioni, dei costumi. Le forme delle istituzioni
costituenti l'ambiente sociale - Chiesa, Stato, classe, famiglia -
non apparivano più immutabilmente ‛date' da un creatore
trascendente e di autorità incontestata; essendo ora esperite come
suscettibili di mutamento, non si presentavano più come
espressioni ‛sacre', permanenti nel tempo, di un ordine divino
eterno. Uomini e donne cominciavano invece ad avvertire che le
istituzioni e le strutture sociali avevano carattere ‛storico';
erano il prodotto di forze geografiche, storiche e sociali, e
costituivano pertanto un ordinamento relativo, temporale, e quindi
secolare, e non già un ordinamento sacro imposto per l'eternità da
Dio a questo mondo.
4. Infine, man mano che, attraverso la ricerca scientifica,
uomini e donne conoscevano sempre meglio il loro mondo, scoprivano
ch'esso non era né popolato di esseri spirituali né progettato da
‛Qualcuno' in funzione di scopi e bisogni umani. Diventava a poco
a poco chiaro, invece, come ogni cosa nella natura, e la stessa
esistenza umana, altro non fosse che il risultato dell'interazione
di cause cieche, alla cui fortuita convergenza si dovevano sia
l'ambiente relativamente benevolo sia le ammirevoli facoltà umane
di vita, d'amore e di pensiero. La materia che segue ciecamente il
suo corso casuale sembrava diventare ‛Dio', se con ‛Dio'
intendiamo il mistero che ci ha prodotti, ci conserva e alla fine
ci reclamerà.
Vediamo quindi come tutti i fattori dominanti della vita moderna
- l'ambiente sociale, la percezione dell'ambiente storico, la
comprensione dell'universo circostante - abbiano contribuito a
produrre un nuovo atteggiamento secolare verso il mondo e l'uomo
stesso.
Come risulta dalle nostre ultime osservazioni, il fattore
intellettuale cruciale nello sviluppo di quest'atteggiamento è
stato forse la nascita, e il successivo dominio, della moderna
scienza empirica e matematizzata. L'influsso della scienza moderna
sui nostri atteggiamenti - la nostra visione di noi stessi, del
nostro mondo, delle nostre possibilità, del nostro ‛destino' -
come anche il suo impatto sulla nostra conoscenza e sul nostro
dominio tecnologico del mondo, sono stati immensi; a essi dovremo
fare continuamente riferimento. Quattro aspetti dell'effetto della
nascita della scienza sui successivi atteggiamenti dell'uomo
occidentale vanno ora, sia pur brevemente, passati in rassegna.
1. La scienza moderna ha mostrato con successo come l'intero
universo esistente attorno a noi, dalla stella più immensa e più
remota alla minima particella, debba essere compreso
‛matematicamente', vale a dire quantitativamente e non
qualitativamente, e quindi come determinato da ‛leggi' e non da
una qualche finalità, intrinseca o imposta. Il mondo è dunque
rapidamente divenuto un sistema chiuso di interazioni
deterministiche e impersonali: un mondo cieco, spoglio di
sentimento e di pensiero, interminabilmente in moto, eppure
armonioso e ordinato in tutto il suo corso. E giacché ciò che
possiamo conoscere è sempre ciò che per noi è ‛reale',
quest'universo necessitato e senz'anima rappresentava (su questo
c'era l'accordo dei filosofi) le ‛qualità primarie', ciò che è
‛realmente reale'. È qui lampante la rottura non soltanto con
l'occultismo, con la magia e l'astrologia, ma anche con il mondo
aristotelico-tomistico, e anzi con ‛ogni' interpretazione teistica
della natura come posta sotto la sovranità divina.
2. Con lo sviluppo della scienza diveniva chiaro anzitutto che la
conoscenza scientifica deriva dall'esperienza ‛sensibile' (alla
cui sfera è limitata) e, in secondo luogo, che le sue conclusioni
possono essere convalidate (o falsificate) solo da una successiva
esperienza sensibile (e condivisibile). Il canone epistemologico
dell'empirismo, secondo il quale soltanto ciò che è conosciuto, e
convalidato, nell'esperienza manipolata e attraverso un
esperimento condivisibile può esser chiamato conoscenza, fu quasi
universalmente accettato. Di nuovo, è lampante la rottura con
pressoché tutte le forme della conoscenza, e quindi dell'autorità,
religiosa tradizionale, si trattasse dell'autorità della Chiesa,
della Scrittura o dell'esperienza religiosa personale.
3. La ricerca scientifica diveniva sempre più consapevole della
sfida lanciata alle ‛verità' tradizionali, fossero quelle della
religione, del costume sociale o della scienza precedente; ed era
inoltre consapevole che persino le sue più importanti formulazioni
erano a loro volta destinate a essere sfidate, criticate e quindi
corrette. La verità che la scienza offriva non era perciò
assoluta, definitiva o immutabile; aveva carattere ‛ipotetico',
era un'asserzione provvisoria: controllata, certo, eppure soggetta
a correzioni e perfezionamenti futuri. Quest'idea della verità
come relativa, come un'approssimazione e non una conquista
definitiva, come un processo che, proprio in quanto incompleto,
conduce a ulteriori verità, compenetrò di sé, anche fuori della
scienza, il più vasto mondo della cultura, venendo in tal modo a
sfidare ogni pretesa, avanzata da autorità religiose, a una verità
assoluta ed eterna.
4. L'esperienza della scienza, infine, l'esperienza che gli
scienziati venivano facendo della loro propria attività di
ricerca, intensificò grandemente la coscienza della creatività
umana. Come mostreremo brevemente, la scienza non solo fu causa
che il mondo fosse esperito come radicalmente dissacrato e
necessitato; essa stimolò un senso nuovo dell'autonomia e libertà
creativa dell'uomo, della sua capacità di riplasmare questo mondo
necessitato (paradossalmente, mediante la conoscenza delle
strutture che governano la sua ‛necessità'), e di avviare in tal
modo un incessante progresso nella storia umana. La scienza si
presentava come la chiave del controllo umano sul mondo, su tutti
quei ‛destini' (malattia, freddo, fame, povertà, e persino lo
spazio e il tempo) che avevano condizionato la vita umana sin dai
primordi e che uomini e donne potevano finalmente signoreggiare.
La nuova scienza sembrava mostrare non soltanto che la religione
tradizionale non meritava credito, le sue ‛verità' essendo miti
prescientifici, ‛pseudoscienza'; insieme con le sue conseguenze
tecnologiche, essa metteva in luce anche l'‛irrilevanza' della
religione, il carattere vano e illusorio della salvezza da essa
promessa in confronto con la ‛salvezza in questo mondo' e con i
valori ‛veri' promessi dalla nuova conoscenza e dalle nuove
tecniche. Uomini e donne erano ora sui iuris, perfettamente in
grado, se liberati dalle pretese del dogma e dell'autorità
religiosa, di diventare padroni del proprio destino e di creare un
mondo migliore.
Un'illustrazione eloquente di questa situazione può trovarsi per
esempio in Ferkiss (v., 1969, pp. 20-21): ‟Che cosa si verificò -
nella sfera della cultura - di tanto fondamentale da modificare la
natura basilare dell'animale umano? [...] Il semplice fatto di
disporre di un'infinita capacità di trasformare il mondo e se
stesso [...], di un potere assoluto su se stesso e sul suo
ambiente, pone l'uomo in una posizione morale radicalmente nuova".
O in Dobzhansky (v., 1962, p. 347): ‟L'evoluzione non deve più
essere necessariamente un destino imposto dall'esterno; è
legittimo immaginare ch'essa venga controllata dall'uomo, secondo
il suo discernimento e i suoi valori".
Ora, se la nascita della nuova scienza, con le sue immense
promesse di nuove conoscenze e di nuove possibilità di controllo,
forniva in gran parte allo spirito o atteggiamento secolare il suo
contenuto ‛positivo', non c'è dubbio che lo slancio ‛negativo' gli
era fornito dall'‛ambiguità' della religione nel periodo del suo
dominio. Per molti intellettuali nel Rinascimento italiano, e
ancor più nell'illuminismo in Francia, Germania e Inghilterra
(specialmente in Francia), la religione era associata non soltanto
con errori e superstizioni tradizionali e ormai logori, ma ancor
più con immoralità, avidità, fanatismo e, soprattutto, con
l'iniquità del privilegio. Non aveva forse la ‛fede assoluta'
avallato le persecuzioni dell'Inquisizione e fomentato le cruente
guerre religiose del tardo Cinquecento e del primo Seicento? Non
godeva forse la religione organizzata di immense proprietà e
ricchezze? E non usava forse il proprio potere, la propria immensa
influenza per difendere, in nome di Dio, una distribuzione
sommamente iniqua del potere e della proprietà? Se bisognava
sfidare l'ancien régime con i suoi iniqui privilegi feudali,
bisognava sfidare anche la base ‛religiosa' del vecchio ordine nel
cristianesimo (come Marx ebbe a dire un secolo dopo: ‟L'inizio
della critica è la critica della religione"); la speranza di poter
mai attenuare il pregiudizio, la persecuzione e il conflitto
sociale dipendeva dallo sradicamento della fede e dell'obbedienza
cieca all'autorità religiosa.
A molti spiriti responsabili la religione appariva, in questo
primo periodo della cultura moderna, come una fonte di crudeltà e
di immoralità piuttosto che di compassione e di virtù, come
un'istigatrice d'ignoranza, di superstizione e di pregiudizi
piuttosto che come un'ispiratrice di verità, di luce e di
grandezza spirituale. (Per la nostra esperienza del lato
‛demoniaco' della religione, si pensi alla tragedia del culto del
reverendo Jones negli Stati Uniti e alla politica dell'ayatollah
Khomeini e degli altri leaders del ‛fondamentalismo' islamico
nell'Iran). Di conseguenza, per molti l'unica speranza era
l'allontanamento della religione dalla vita pubblica e la
costituzione di una società su una base ‛neutra' (cioè secolare),
comune a tutti gli uomini e donne di buona volontà: soltanto così
le virtù sia pubbliche che private potevano essere liberate per
l'autorealizzazione umana. Era dunque con sollievo e con rinnovata
speranza che molti guardavano alla scomparsa della società
religiosa e all'imminenza di un mondo secolarizzato. Con le sue
pretese a un assenso e obbedienza assoluti, e con l'attaccamento
ai suoi beni, al suo potere e al suo prestigio, la religione si
era fatta sempre più ‛ambigua', causa di male altrettanto che di
bene. Alla religione stessa risaliva pertanto, in larga misura, la
responsabilità della veemenza dell'attacco secolare contro tutte
le rivelazioni soprannaturali, come anche contro ogni autorità e
meta soprannaturale.
È giunto il momento di analizzare in modo più preciso e adeguato
gli elementi dello spirito secolare quale si era sviluppato
nell'Occidente moderno. Anzitutto, è opportuno chiarire che cosa
s'intenda con ‛spirito' di una cultura. Ogni epoca o età ha - ne
siamo oggi consapevoli - il suo atteggiamento fondamentale verso
la vita: verso la realtà, la verità, i valori. Un atteggiamento o
‛spirito' o magari ‛umore' siffatto può essere, per esempio,
ottimamente illustrato a proposito del periodo ellenistico.
Riscontriamo qui una certa visione coerente di ciò che è reale
(eminentemente, lo spirito e ‛non' la materia), di ciò che è vero
e del modo di raggiungere la verità (eminentemente, attraverso i
concetti e il pensiero discorsivo, magari anche scettico), di ciò
che è ‛buono' o rispettabile (eminentemente, le cose dello spirito
e non della carne): è una visione che si esprime nelle filosofie e
teologie dominanti e nelle opere letterarie dell'epoca, e dunque
una visione presupposta da pressoché tutti i membri creativi della
cultura. Non in una filosofia va quindi ravvisato lo sfondo, il
fondamento delle filosofie e delle opere letterarie del periodo;
si tratta piuttosto di un ‛umore' che conferisce a tutte le
creazioni culturali di un'epoca quella particolare forma che
contrassegna appunto la loro appartenenza a quell'epoca.
Tali ‛umori' sono in genere prerazionali, non sono né tematizzati
né concettualizzati: sono i pre-supposti del pensiero, che
divengono oggetto di conoscenza soltanto per lo storico delle
idee. ‛Spirito' o ‛umore' di una cultura è quindi
quell'atteggiamento fondamentale verso la realtà, la verità e i
valori, che caratterizza un'epoca e quindi la sua cultura, quel
sistema di riferimento nei cui termini si esprime ogni aspetto
creativo della vita, incluse la religione e la teologia. Il potere
dello spirito di una cultura su tutte le espressioni creative può
essere, come accennavamo, ottimamente esemplificato dalle teologie
e filosofie religiose dell'ellenismo.
Quasi senza eccezioni sia le filosofie religiose pagane (per
esempio quella di Plotino) sia le eresie cristiane (per esempio,
gnosticismo, arianismo, eutichianesimo) sia l'ortodossia cristiana
(Origene, Agostino ecc.) si mostravano tutte egualmente partecipi
degli elementi fondamentali del pensiero e dello spirito
dell'ellenismo, del quale esemplificavano altresi le
caratteristiche finalità spirituali. La cosa è particolarmente
evidente nel fatto che le diverse eresie cristiane apparivano come
eretiche appunto perché esprimevano lo spirito ellenistico ‛in
modo univoco', sacrificando quindi i temi biblici e perciò non
ellenistici; e, elemento fra tutti significativo, persino i
teologi ortodossi - come Ireneo, Tertulliano, Atanasio, Cirillo di
Alessandria ecc. -, che combattevano queste eresie come ‛pagane',
facevano un uso coerente, per una formulazione comprensibile e
appropriata del cristianesimo, di categorie ellenistiche, e ai
nostri occhi, di persone cioè di un'altra epoca, ognuna ditali
riformulazioni ortodosse trasuda l'atmosfera intellettuale e
spirituale della tarda antichità.
La nostra tesi è che lo spirito secolare ha rappresentato in
misura crescente il Geist della cultura postilluministica moderna;
a esso rivolgeremo ora il nostro esame.
1. La caratteristica piu importante della visione secolare può
essere indicata nel modo migliore con i termini ‛contingente' e
‛contingenza'. Tutto ciò che è, è contingente, semplicemente
‛c'è', e la sua esistenza è priva di ragioni, che appartengano
all'ordine della necessità, della razionalità o a quello dei fini.
Come dice il filosofo della scienza E. Nagel (v., 1956, pp. 7-9):
‟Cose ed eventi hanno ‛cause' ma non ‛ragioni'" e, poiché le cause
hanno a loro volta altre cause, le cose nel loro complesso
‛semplicemente sono': il loro essere o esistenza non ha
spiegazione; ovvero, come dice il filosofo G. Santayana (v., 1930,
p. 94): ‟La materia è il vento invisibile che, soffiando senza
ragione sul regno delle essenze, ne solleva alcune in una nube di
polvere; e questo vortice noi chiamiamo esistenza".
Dando voce per così dire ‛dall'interno' a questo senso moderno
dell'esistenza, Heidegger (v., 1927) dice che noi siamo ‟gettati
nell'esistenza", non siamo altro che mera effettività. Certo, come
la cultura secolare sa bene, la nostra mente è in grado di
individuare gli schemi ricorrenti di cause che legano gli eventi
gli uni agli altri; ma, se ci chiediamo perché ci siano tali cause
- e quindi perché il nostro mondo nella sua totalità esista e
perché ‛noi' esistiamo - la risposta non può indicare se non altre
cause, in un regresso all'infinito nella tenebra: nessuna ragione
o fine possono essere addotti per alcuna causa nè per l'intera
serie delle cause nè per noi stessi. Per ordinata che possa
apparire nelle sue manifestazioni, l'esistenza - per gli uomini e
donne moderni - emerge dunque alla luce dell'esperienza e della
ricerca come se provenisse dalla tenebra; la sua fonte e il suo
fondamento ultimi, il suo ‛perché' sono più che semplicemente
misteriosi e oscuri: una tal fonte o un tal fondamento non
esistono. La nostra finitezza non appare, come nell'epoca
classica, all'interno di un più vasto ordine che la ragione
speculativa poteva esplorare e conoscere o la fede religiosa
rivelare, un ordine che potesse spiegarne, e quindi mitigarne,
l'arbitrarietà. Il dato - tutto ciò che ci circonda -
semplicemente appare; esso può essere descritto così come appare e
si può tracciare una mappa del suo corso successivo, ma questo è
tutto ciò che si può dire. Sia l'esistenza sia il pensiero
cominciano e finiscono con il dato.
L'esistenza è ‛contingente', nel senso ontologico o metafisico
che non ha alcun fondamento, alcuna ragione necessitante o
determinante; è quindi un ‛accidente' in mezzo a un universo di
accidenti, un prodotto di cause non necessarie, e pertanto, dato
che tali cause potevano esser diverse, potrebbe anche non esserci
affatto. E chiaro che, in un siffatto mondo unidimensionale, se il
dato si mostra ‛dominabile', l'esistenza può sembrare razionale e
sufficientemente buona, e tale è effettivamente sembrata a
generazioni di uomini e donne moderni; se invece il ‛dominio' del
dato diventa difficile - in realtà impossibile - l'esistenza può
essere percepita come assurda, e noi possiamo avvertire noi stessi
come affatto estranei al suo corso cieco e crudele (come
testimonia gran parte della letteratura del Novecento).
Il confinamento del pensiero al dato, all'esistenza quale appare
‛emergere dalla tenebra' è, naturalmente, strettamente connesso al
canone dell'empirismo: tutto il pensiero sul reale deve basarsi
sull'esperienza (sul dato nell'esperienza): non c'è infatti
nient'altro su cui possiamo pensare. Due presupposti basilari
della filosofia moderna (specialmente della filosofia linguistica
e analitica) dipendono da questo carattere contingente di ogni
realtà: a) tutte le asserzioni su ciò che ‛è' rappresentano
proposizioni ‛fattuali' e ‛contingenti' (vale a dire non
necessarie, su eventi contingenti tra altri eventi contingenti);
b) tutte queste asserzioni riguardano l'esperienza sensibile, sono
empiricamente verificabili.
Non c'è dunque, evidentemente, alcuna realtà più vasta o più
profonda che possa essere chiamata ‛necessaria', che trascenda in
un modo o nell'altro il flusso delle cause e degli effetti
contingenti, e possa quindi essere raggiunta e conosciuta da mezzi
diversi da quelli della ricerca scientifica, empirica e
condivisibile. Asserzioni ‛metafisiche' sulle ‛strutture
universali e necessarie dell'essere' o asserzioni ‛teologiche' su
un Dio trascendente il flusso degli eventi, sono di conseguenza
impossibili. Sono ammissibili esclusivamente asserzioni sulla
serie degli eventi contingenti attorno a noi. Tutto il resto è
‛soggettivo' o ‛emotivo', è informazione sul nostro foro interno
ma non sull'universo circostante; non c'è altro che la natura che
possa essere oggetto di considerazione scientifica: sul nostro io
capriccioso si possono fare soltanto chiacchiere.
Non desta quindi meraviglia che, in un'epoca secolare, sia la
filosofia sia la teologia si siano mostrate inclini a ritirarsi
nell'analisi del linguaggio e dell'esperienza immediata,
ripudiando le loro precedenti pretese alla conoscenza e
rinunciando quindi a tutti i loro ‛eccessi' o ‛fantasie'
metafisiche. Che l'abbia espressamente voluto o no, la filosofia
ha così interamente abbandonato la conoscenza e la comprensione
del mondo reale alla ricerca scientifica.
Non era affatto una novità dire che il mondo attorno a noi è
contingente e può esser conosciuto soltanto attraverso
l'esperienza controllata del suo corso: l'avevano già affermato
Aristotele e san Tommaso. La novità stava nell'affermare che
‛tutto ciò che esiste' è contingente, e pertanto che tutto ciò che
possiamo conoscere proviene dalla ricerca empirica. In questa
nuova concezione della contingenza, infatti, il fondamento
assoluto e divino - di cui sia Aristotele sia Tommaso
abbisognavano appunto per spiegare i ‛loro' mondi contingenti -
svanisce, reso irrilevante e in realtà impossibile da tutto ciò
che la nuova concezione della contingenza implica. Nel nuovo
contesto secolare la contingenza non rinvia più al di là del
contingente, a una dipendenza essenziale e radicale da una sfera
di necessità o da un Dio; al contrario, essa indica appunto
l'‛assenza' di un tale fondamento o fonte transfiniti, necessari e
divini; indica il restringimento di tutto l'essere al flusso o
processo della natura.
2. Alla completa dissacrazione del mondo naturale, concepito come
una serie di eventi contingenti, sia pure in reciproca
interazione, seguì poco dopo la dissacrazione egualmente radicale
della storia, che si può esprimere nel modo più efficace con la
nozione di ‛relatività'. Come effetto dello sbocciare della
coscienza storica verso la fine dell'illuminismo, si giunse a
comprendere che tutto quanto viene all'essere ed esiste emerge da
un contesto storico ed è di conseguenza ‛inchiodato' al suo
particolare posto nel processo degli eventi, in larga misura
determinato da ciò che viene prima, plasmato da tutto ciò che lo
circonda e infine destinato a essere sostituito da quanto seguirà.
Ne discende che nulla nella storia è ‛a sé', assoluto, permanente;
e nulla può avere sommo valore o somma autorità per tutti i tempi
e luoghi. Tutte le cose che appaiono sono relative le une alle
altre o, per dirla in termini filosofici, hanno ‛relazioni
interne' al loro contesto immediato. Un risultato di questa
interpretazione ‛contestuale' di tutto ciò che esiste è l'accento
posto da tutte le filosofie moderne sul mutamento, sul processo e
sul divenire piuttosto che sulla permanenza, sulla sostanza,
sull'identità e sull'essere, e il fatto che le scienze sociali e
psicologiche operano in massima parte in base all'assunto che ogni
entità individuale deve essere compresa partendo dall'influsso
ambientale. La spiegazione procede ‛naturalisticamente',
disvelando la rete di relazioni all'interno della quale ogni
entità o evento emerge, che si tratti di processi naturali, di
eventi storici o di schemi di comportamento individuale.
Da questo senso della relatività di tutte le cose le une rispetto
alle altre, sono derivate altre due conseguenze importanti. In
primo luogo si fece sempre più chiaro che in nessun punto della
storia osservabile c'è qualcosa di permanente o che rivesta un
significato o autorità ultimi e universali. Le istituzioni, anche
le monarchie e le Chiese, sorgono e cadono e mutano la loro forma;
le filosofie, le idee politiche, le dottrine teologiche (anche i
dogmi) sono espressioni adeguate all'epoca e al luogo, e perdono
il loro rilievo e la loro autorità, se non il loro interesse, per
un'altra epoca e cultura. Potrebbe forse il codice di Hammurabi, o
anche quello di Mosè, essere promulgato oggi a Washington o a
Roma? Come risultato di una siffatta relativizzazione, il sacro
sembra svanire dalle vicende della storia come dai processi della
natura: tutto è storico e nulla è ‛ultimo'; tutte le istituzioni
sono storiche, mutevoli e limitate; ogni autorità è mutevole,
fallibile e parziale; tutte le idee sono relative alla loro epoca.
Un tale relativismo storico ha messo radicalmente in questione
l'autorità religiosa tradizionale. Da un lato, abbiamo, per
esempio, la ben nota definizione cattolico-romana, secondo cui le
dottrine sono vere solo se sono state affermate e insegnate
‟semper, ubique et ab omnibus"; dall'altro, la coscienza storica
moderna assicura che ogni espressione letteraria, filosofica o
teologica, ogni concetto di qualsiasi sorta è relativo alla sua
epoca e al suo linguaggio, alle sue categorie intellettuali, ai
suoi presupposti basilari: e di conseguenza, nessuna specifica
proposizione dottrinale può essere plausibilmente affermata
‟semper, ubique et ab omnibus", essendo inconcepibile che una
qualsiasi proposizione, espressa in tempi differenti e differenti
contesti, conservi il medesimo significato.
In secondo luogo, l'esperienza storica della relatività ha
immensamente intensificato la consapevolezza del mutamento. Sia
l'antichità sia il Medioevo avevano profondamente avvertito il
mutamento. Senonché, il mutamento riguardava allora certi singoli
particolari o esemplari di una data forma, e non già la forma
stessa. Socrate e Marc'Aurelio potevano invecchiare e morire, non
così l'‛uomo'; i re e le regine passavano, ma non la monarchia;
una città o uno Stato sorgeva e cadeva, ma non la forma - o serie
di forme - della città o dello Stato. Con l'avvento della
coscienza storica, si comprese invece che le ‛forme' mutano, anzi,
non solo mutano, ma si estinguono e sono sostituite da altre
forme: la monarchia dalla democrazia; il mercantilismo dal
capitalismo; la cultura agricola dalla cultura urbana, tecnica e
industriale; l'intero complesso della cultura greco-romana da un
insieme interamente nuovo di forme, caratteristico dell'età
moderna.
Ne discende che il pensiero stesso è relativo alla sua epoca;
giacché sia le forme sia gli interessi del pensiero mutano, anche
le forme di esperienza e di pensiero di periodi differenti sono
‛estranee' le une alle altre; nasceva così il moderno problema
ermeneutico dell'interpretazione di testi antichi o remoti. Questo
senso del flusso delle forme, oltre che degli individui, raggiunse
naturalmente il suo apice quando, con Darwin, penetrò negli studi
biologici: ora le specie stesse - una volta pensate come
permanenti al pari della terra stessa (non le aveva Adamo nominate
e Noè salvate?) - appaiono relative al loro contesto in mutamento,
e quindi soggette a comparire, mutare e scomparire a seconda dei
mutamenti del contesto. Tutte le cose che esistono, di
qualsivoglia natura, emergono dal flusso e quindi vi ricadono, per
essere sostituite da qualcosa di nuovo. Per molti era di
conseguenza difficile vedere come le nozioni di una divinità ‛a
sé', permanente, immutabile, o di un evento di rivelazione fornito
di significato assoluto e universale e di autorità incondizionata
potessero sopravvivere a lungo in questa nuova consapevolezza
della relatività di tutte le cose e di tutti gli eventi.
3. Il terzo aspetto della prospettiva secolare, strettamente
connesso a quello della relatività, è il senso della
transitorietà, della caducità, della ‛temporalità' di tutte le
cose. Tutto viene all'essere nel tempo, emergendo dal suo
contesto; vi rimane per ‛il suo tempo', nella misura concessagli
da tale contesto. Poi, quando il suo tempo è finito, si estingue e
una nuova costellazione, adatta al nuovo tempo, nasce. Tutto ciò
che esiste è dunque caratterizzato dalla temporalità, nulla dalla
permanenza; nulla ‛è mai realmente'. Il tempo è in ogni cosa;
l'essere è in verità il divenire, e il flusso è sovrano.
Non c'è stata forse nell'età moderna alcuna importante corrente
filosofica che non abbia posto l'accento sul processo, sul
mutamento, sulla temporalità e sul divenire come propria categoria
ontologica centrale: da Hegel, Schelling, Schopenhauer, Nietzsche,
Bergson, Alexander a Dewey, Whitehead, Heidegger; e ci sono stati
pochi teologi (probabilmente per le stesse ragioni culturali) che
non abbiano sottolineato il carattere ‛dinamico' del Dio biblico
contro gli attributi ‛statici' del Dio greco.
Un importante risultato di quest'accentuazione del processo
temporale o del flusso degli eventi, visti come caratteristiche
basilari di ciò che esiste, della realtà, è stato un mutamento
radicale nella percezione o comprensione dell'‛ordine' e del
‛significato'. Se tutto è flusso, se anche le forme delle cose
appaiono e scompaiono, che specie di ordine è possibile
nell'esistenza? E, corrispondentemente, che specie di significato
è possibile nella vita, se nella vita nulla c'è di permanente,
d'immutabile, di sacro, cui partecipare? Sembrerebbe che la
risposta potesse suonare: ‟L'ordine e il significato (valore)
reali possono essere trovati soltanto ‛al di là' del flusso", se
non vi si fosse opposta un'altra e ancor più basilare
caratteristica del secolarismo moderno: il rifiuto radicale di una
sfera, o divinità soprannaturale, eterna e immutabile. In che
modo, allora, lo spirito secolare poteva trovare ‛il' significato
in un processo per sua natura essenziale mutevole e transitorio?
La risposta dell'età moderna - poiché essa aveva una risposta -
fu che l'ordine e il significato appartenevano al ‛modello' del
cambiamento nel tempo, alla forma o ordine del flusso stesso. Con
tutto il suo senso della contingenza e della relatività, e con
tutta la sua ostilità verso finalità divine o soprannaturali, la
cultura moderna non ha mai concepito i processi di mutamento come
apertamente arbitrari, senza scopo, assurdi, come affatto privi di
direzione. Essa ha visto piuttosto i mutamenti delle epoche nella
storia e, più tardi, i mutamenti delle specie nella natura come
espressioni di un glorioso ‛modello', un modello chiaro e
inequivocabile di evoluzione progressiva, di ‛ascesa'.
Tutto compare e scompare e nulla permane; ma ciò che compare è
immancabilmente superiore a ciò che è scomparso; ne discende che
il movimento nel tempo verso il nuovo è esso stesso il luogo
dell'ordine e del significato. La successione di forme - ognuna
delle quali è sempre superiore alla precedente - è stata, in luogo
della permanenza di un ristretto insieme di forme sacre eterne, il
moderno principio ‛storico' del significato, principio
esemplificato dapprima nella teoria del progresso storico, così
caratteristica del Settecento e del primo Ottocento, quindi nella
‛legge dell'evoluzione', determinante tutti gli aspetti della
realtà naturale e sociale, tipica del tardo Ottocento e del primo
Novecento, e infine nel materialismo dialettico, diffuso ovunque
si sia imposto il pensiero marxista. In tutti questi indirizzi,
una consapevolezza profonda della radicalità del mutamento non
implicava affatto l'idea di una successione storica priva di
significato o ‛assurda', e quindi un contesto ultimo della vita
umana che fosse in ultima analisi estraneo ai valori umani. Al
contrario, la successione temporale delle forme crea un valore
‛sempre maggiore', giacché conduce a forme di vita più compiute,
meglio adattate, più giuste. Il processo temporale e la ‛salvezza'
- il superamento delle cause delle più profonde angosce umane -
sono quindi categorie intrecciate o interdipendenti, anziché, come
in molte altre culture, concetti separati e contrastanti.
4. Il quarto aspetto sembra essere in contrasto con gli altri
tre, che mettono l'accento sul carattere arbitrario, ‛ciecamente
naturale', relativo e transitorio dell'intera realtà; e
particolarmente sembra in conflitto con quella profonda ‛fede'
dell'età moderna - derivante dalla sempre più dominante tradizione
scientifica - che tutto ciò che esiste è governato da leggi
universali, da cause fisiche, da un ordine di ‛relazioni
invarianti' obiettive e necessitanti, che la ricerca scientifica,
con pazienza e acume, può gradualmente disvelare. Questo quarto
aspetto consiste invece nell'insistenza sull'autonomia, sul quasi
infinito potere creativo dello spirito umano, un potere
realizzantesi nell'attività stessa dello spirito, che governa,
guida e pone se stesso. L'autonomia, quale si è sviluppata nella
cultura moderna, è l'inalienabile diritto di nascita e la facoltà
che uomini e donne hanno di conoscere la loro propria verità, di
decidere della propria esistenza, di creare il proprio significato
e di stabilire i propri valori e, cosa tra tutte fondamentale, di
costituire il proprio io come io.
Elaborato a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, questo tema
dell'autonomia ricevette una formulazione classica e compiuta
nella definizione kantiana dell'illuminismo (Beantwortung der
Frage: Was ist Aufklärung?, 1784): ‟Sapere aude! Abbi il coraggio
di servirti della t u a p r o p r i a intelligenza! È questo il
motto dell'illuminismo" (tr. it.: Risposta alla domanda: che cos'è
l'illuminismo?, in Scritti politici, Torino 1978, p. 141). Kant
esortava la sua epoca a liberarsi dalla tutela altrui,
specialmente delle cosiddette autorità, e a dimostrare la verità
per la soddisfazione della ‟propria intelligenza". L'autonomia fu
riaffermata con energia ancora maggiore dal romanticismo, con la
sua insistenza sul fatto che ogni persona è unica e che, al fine
di alimentare tale unicità - per diventare un io, come diceva
Kierkegaard -, ognuno deve esperire ‛da sé' quanto è degno
d'essere esperito: l'amore e la passione, il momento estetico,
quello morale, quello religioso. Nel Novecento l'esistenzialismo,
la psicoterapia e l'ideologia democratica hanno ulteriormente
sviluppato questi temi: una persona (uomo o donna), se vuol essere
una persona, deve autocostituirsi sulla base delle proprie
decisioni.
Di conseguenza, un io che non possa affermare se stesso mediante
se stesso e per se stesso difficilmente può esser considerato un
io; e l'ordinamento e il governo di una comunità sono
legittimamente costituiti solo se sono scelti dal popolo e se il
governo è il risultato di una libera discussione, di partiti
formatisi liberamente e di libere elezioni.
I valori dell'odierna vita secolare dell'Occidente ruotano in
massima parte attorno ai valori connessi con l'autonomia: libera
scelta della professione, realizzazione delle proprie attitudini e
facoltà, assenza di restrizioni nell'allacciare legami familiari o
d'amicizia, scelta dello stile di vita e del modo d'uso dei propri
beni, libero scambio di idee e speranze e così via. E nelle sue
tipiche fantasie di una migliore esistenza nel futuro, la cultura
secolare moderna sogna ancora un'accresciuta libertà: nuove
possibilità di dominare le resistenze dell'ambiente naturale,
nuove conquiste dello spazio e del tempo, nuovi modi di
autoespressione sia nel lavoro sia nel tempo libero, nuova libertà
dalla povertà, dal lavoro faticoso, dalle restrizioni di classe e
di razza; ‛liberazione' al fine di diventare liberamente se
stessi. Se lo spirito moderno ha sostenuto fermamente una
credenza, è quella che uomini e donne debbano, riguardo a certi
aspetti essenziali, vivere la propria vita in modo autonomo (se la
vita dev'essere creativa e umana); e nel suo ottimismo ha creduto
che uomini e donne avrebbero sempre più esercitato in futuro la
loro libertà sulle forze cieche del destino - della natura, della
malattia, degli anacronismi storici - per diventare quindi,
infine, ‛padroni del loro destino'.
Le nostre attuali ideologie - il capitalismo e il comunismo -
divergono circa il modo di realizzare l'autonomia nella storia
umana, non circa la possibilità o desiderabilità della sua
realizzazione. Nel suo nucleo la cultura secolare, per quanto
possa essere stata dominata dalla scienza fisica, e quindi dalle
indagini sulla natura, non ha avuto affatto, dunque, un
atteggiamento antiumanistico. I valori esaltati da questa cultura
sono infatti incentrati sull'educazione, sul sostegno e
l'incoraggiamento della persona umana. E chiave per lo sviluppo
della ‛persona', conditio sine qua non di ogni autorealizzazione
umana è l'autonomia, l'autocostituzione e autodirezione di tutte
le facoltà umane: pensiero, volontà, amore. Infine, nelle speranze
politiche e sociali che davano impulso alla cultura, si
manifestava in larga misura la fiducia che l'esercizio della
libertà umana avrebbe esteso il controllo sui ciechi e accidentali
processi della natura e sulle strutture prive di intenzionalità -
e quindi di finalità - della storia, che sarebbe alla fine stata
‛redenta'.
Di fatto, e la cosa è abbastanza sorprendente, strettissima era
la relazione tra l'ascesa della scienza al dominio e la
convinzione dell'autonomia come carattere essenziale dello spirito
umano. Ciò non è dovuto soltanto al fatto che la scienza dipende
da un'atmosfera (che a sua volta incoraggia) di libera critica,
discussione e sperimentazione; assai più, è stata
l'‛autoconsapevolezza' della stessa comunità scientifica a
produrre l'acuta coscienza moderna del potere creativo, e persino
della trascendenza, dello spirito umano. Il senso moderno della
libertà e dell'iniziativa dell'io, del suo potere su tutte le
forze condizionanti dall'esterno, e quindi della sua autonomia, è
derivato dalla comunità scientifica. Non erano, queste,
‛conclusioni' della ricerca scientifica; piuttosto, era la stessa
ripetuta esperienza della ricerca che manifestava aspetti per
l'innanzi ignoti della trascendenza e creatività umana.
Nell'esperienza del ‛dubbio critico' nei confronti dell'autorità
delle idee tradizionali; nell'esaltazione per la comparsa -
nell'immaginazione creativa - di ‛nuove ipotesi'; nell'esperienza
di ‛manipolazione' delle condizioni iniziali e dell'ambiente
stesso; nel trascendimento del tempo sperimentato nella
‛predizione' e nella susseguente ‛convalidazione' delle nuove
ipotesi, e soprattutto nell'esperienza di ‛trasformare' il mondo
dato attraverso l'applicazione di nuove conoscenze (come diceva
Bacone: ‟la conoscenza è controllo e il controllo è potere"), la
comunità scientifica esperiva in modi nuovi l'autonomia e la
trascendenza dell'io umano. La cultura moderna si è così trovata
in possesso di una fiducia nella realtà e nel potere della libertà
creativa dell'uomo: libertà - sconosciuta in tale misura in
passato - del pensiero, della volontà, del desiderio, quale
l'affermava in modo implicito la prima Critica kantiana e poi in
modo esplicito l'idealismo successivo: lo spirito ‛forma' il suo
mondo, anzi in realtà ‛crea' il mondo.
Lo stesso discorso può farsi per gli altri tre elementi dello
spirito secolare: il senso della contingenza, della relatività e
transitorietà ‛faceva spazio', per così dire, in modi affatto
nuovi all'esercizio della libertà umana. Soltanto in un mondo
contingente, relativo e temporale sono realmente possibili ‛nuove'
combinazioni di cose, la comparsa di novità per l'innanzi ignote.
Ormai, ogni parte dell'ambiente è sostituibile e quindi l'intero
ambiente, sia naturale sia sociale, è potenzialmente ‛malleabile'.
Se sono fatte di elementi separabili, e quindi mobili, le montagne
possono essere spianate; se le istituzioni sono storiche, derivate
da certi fattori e plasmate da altri, possono essere ‛ri-formate'
e persino sostituite. La libertà umana giunse a sentirsi come
trascendente rispetto alla natura e alla storia, e ciò non era più
tanto il risultato della tradizionale fede religiosa in un Dio
libero, sovrano su tutte le cose, ma piuttosto, al contrario,
della dissacrazione radicale della natura e della storia, e
dell'affermarsi del potere umano di conoscere e di riplasmare sia
l'una che l'altra.
Insomma, l'immagine che può trarsi dalla nostra descrizione dello
spirito secolare è quella che mostra l'esistenza umana come
inserita in un contesto contingente, relativo e temporale in cui
non appare - né sul piano di una struttura razionale eterna nè su
quello di una sovrana volontà divina - alcun ordine, alcuna
coerenza o significato ultimi; un contesto quindi nel quale uomini
e donne sono costretti, o messi in grado di creare, con le loro
facoltà, qualsivoglia significato della vita su questa terra. Ciò
che possiamo conoscere - e di cui possiamo parlare in modo sensato
- è soltanto il mutevole mondo, sociale e naturale, che ci
circonda, e magari il mondo interiore della nostra psiche; ciò che
noi possiamo fare è confinato ai mondi della progettazione, della
politica, dell'economia e della cultura; ciò su cui si esercita la
nostra valutazione sono le nostre relazioni con la natura, i
prodotti della nostra operosità, le opere d'arte che noi creiamo o
di cui godiamo, le riforme che possiamo attuare nella vita storica
e, infine, le relazioni che possiamo intrattenere con gli altri.
Quale che possa mai essere, il luogo della realtà della
conoscenza e del valore sta comunque nell'immediato, nell'hic et
nunc, in ‛questo' mondo, che noi possiamo percepire e manipolare.
E ogni linguaggio che sia intelligibile e dotato di significato in
un mondo siffatto è un linguaggio ‛unidimensionale', che si
riferisce unicamente alle connessioni delle cause naturali,
storiche e psicologiche che ci circondano e di cui siamo
l'effetto, e non a una qualche dimensione della realtà che si
situi al di là del regno della contingenza, della relatività e
della transitorietà. In tale regno i ‛simboli', che si riferivano
una volta a un mistero trascendente l'intelletto ordinario, sono
ridotti a ‛segni', che rinviano non a una trascendenza al di là di
se stessi, ma unicamente ad altri eventi o entità contingenti in
una sequenza unidimensionale.
Una mentalità siffatta non conosce un altro mondo sacro al di là
di ‛questo', che è l'unico - nè ne avverte il bisogno - ed è
concorde nell'affermare che un discorso riferentesi - sia nei
termini del pensiero filosofico sia nei termini della fede
religiosa - a un mondo diverso è irreale e privo di significato.
Nella sua veste più cruda lo spirito secolare è esplicitamente
materialistico, edonistico e rivolto al successo e al potere
mondano; nel suo aspetto migliore, ha sviluppato un sano amore per
le gioie della vita e, nella sua progrediente dimensione
umanitaria, un compassionevole interesse per l'altrui benessere,
associato a un'appassionata devozione per la giustizia su questa
terra, nel tentativo di portare concretamente la prosperità
nell'intero mondo storico, di assicurare un incremento di libertà,
di rafforzare l'individualità e la dignità e di diffondere fra
tutti, uomini e donne, i beni prodotti dalla tecnologia e
dall'industria.
La cultura secolare esordì mostrando uno straordinario ottimismo
circa se stessa e il suo futuro, come indica il suo ‛mito' guida,
l'idea di progresso. I vecchi valori, credenze e istituzioni si
trovavano ora relativizzati e assoggettati a critica; uomini e
donne, liberi da logore tradizioni, potetevano realizzare le loro
immense capacità potenziali. Inoltre, la natura, la storia e
l'uomo stesso apparivano modificabili da un agire guidato
dall'intelligenza e dall'istruzione. Uomini e donne sapevano ora
svelare i fattori dinamici che plasmano gli eventi naturali,
sociali e persino psicologici, e sapevano quindi anche come
riplasmarli in forme più adeguate. La società si era fatta
gradualmente più aperta a nuove idee, nuovi valori, nuove
tecniche. Ora che l'‛autonomia' - lo spirito creativo - aveva
scoperto i suoi poteri e le sue mete più care, che cosa poteva
impedire il conseguimento dei nostri propositi, la realizzazione
del ‛bene' che tutti con tanta evidenza desideravamo?
Estremamente diffuse nel tardo Ottocento e nel primo Novecento,
queste convinzioni davano a una cultura secolare che credeva nella
creatività - priva di ambiguità - dell'intelligenza istruita e
delle intenzioni morali una fiducia immensa: il mutamento era la
legge della vita, e i suoi risultati erano sempre più positivi. La
scienza e la tecnologia avrebbero dato all'umana volontà una
conoscenza e un potere sempre maggiori; se, quindi, l'istruzione e
con essa lo spirito liberale potevano raggiungere una diffusione
universale, che cosa sulla terra poteva impedire la fondazione
dell'Utopia in un prossimo futuro?
Il Novecento ha tuttavia mostrato come fossero precari
l'ottimismo, o anche la semplice fiducia, della cultura secolare.
L'intelligenza istruita ha prodotto i condizionatori d'aria come
le armi atomiche; la tecnologia sembra incline a spogliare la
terra altrettanto che a inventare congegni utili; e l'intelligenza
sociale sembra complicare anziché risolvere, o semplicemente
spiegare, i nostri più profondi problemi sociali e politici. La
Germania, il paese più ‛avanzato' d'Europa, quello in cui più alto
era il livello dell'istruzione, della scienza e dell'arte, si è
trasformato quasi da un giorno all'altro in un demoniaco flagello
della civiltà. Come conseguenza, la vecchia fiducia
nell'intelligenza scientifica e tecnologica della civiltà e nella
buona volontà dell'uomo moderno si è radicalmente dissolta.
Perdendo la sua fiducia nell'autonomia, lo spirito secolare tende
a passare dall'ottimismo a un'autentica disperazione. La
contingenza, la relatività e la transitorietà di tutte le cose
rivelano ora l'altra faccia: l'indifferenza per il valore; la
dissennata eliminazione delle forme creative e persino della forma
umana; la possibilità di una disarmonia, di un non adattamento e
di un'estinzione radicali; l'inclinazione verso l'‛assurdo'.
Diventa possibile considerare l'intero flusso temporale, e quindi
la stessa storia umana, come un accidente privo di significato,
come un momentaneo, evanescente lampo di luce in un universo per
il resto buio e freddo. Se uomini e donne sono realmente sui iuris
in un mondo siffatto, e se, a quanto sembra, non sanno dominarsi
quanto occorre per non distruggersi l'un l'altro, allora quale
speranza può mai esserci? Una cultura secolare che perda la sua
fede nella saggezza dell'intelligenza scientifica e nelle
intenzioni morali perderà presto la fede in se stessa. La
filosofia, la letteratura, il teatro e l'arte del Novecento
rispecchiano pienamente questa nuova faccia del mondo secolare; e,
in mezzo alla sorpresa della maggior parte di noi, si sono fatti
improvvisamente manifesti la rilevanza e il valore di una fiducia
religiosa in un potere al di là dei nostri poteri, in una bontà
che superi la nostra ambiguità.
Abbiamo descritto lo spirito secolare in quella che potremmo
chiamare la sua forma ‛avanzata' o ‛estrema', fiorita
nell'Ottocento e nel primo Novecento. Ovviamente, un siffatto
senso di separazione radicale di un universo cieco dalle
aspirazioni, dai desideri, dalle intuizioni, dai canoni e norme
dell'umana esistenza non è giunto sulla scena del mondo
occidentale in questa forma radicale; si è piuttosto sviluppato
gradualmente a partire dal Seicento sino all'attuale forma
estrema. Poiché il processo di tale sviluppo è praticamente
coestensivo con la storia della cultura occidentale a partire dal
Rinascimento, ci concentreremo soltanto su due temi interrelati:
la graduale scomparsa del senso di un ordine o finalità ultimi e
sacri nell'esistenza, e la riduzione della ragione a strumento
puramente tecnico.
Quando, circa tre secoli or sono, lo spirito secolare fece la sua
prima comparsa con la critica illuministica di una rivelazione
metarazionale e di un essere trascendente la portata del pensiero
umano, sopravviveva tuttavia in Cartesio, Leibniz e Spinoza (cfr.
specialmente Cartesio, Discorso sul metodo e Meditazioni; Leibniz,
Monadologia e Teodicea; Spinoza, Etica, soprattutto la prima
parte), nei deisti, e persino nei philosophes francesi, il senso
di un ordine razionale ultimo nella natura, corrispondente ai modi
del nostro pensiero e in grado di dare forma e coerenza alla vita
umana. Il ruolo della natura in quanto esemplificante un ordine
razionale e morale, e visto quindi come il fondamento delle
speranze e dei propositi umani, può trovarsi eccellentemente
illustrato, per esempio, in questo squarcio un po' stravagante del
barone d'Holbach (Système de la nature, 1770, VII): ‟O Natura,
sovrana di tutte le creature! e voi, sue venerabili figlie, Virtù,
Ragione e Verità! Rimanete per sempre le nostre riverite
protettrici! A te spettano le lodi del genere umano [...]
mostraci, o Natura, ciò che gli uomini debbono fare [...] bandisci
l'errore dalle nostre menti, la malvagità dai nostri cuori, la
confusione dai nostri passi; fa' che la conoscenza estenda il suo
salutifero regno, che la bontà dimori nelle nostre anime e la
serenità nei nostri petti".
Una tale credenza in un ordine obiettivo e razionale fu scossa
dal più radicale atteggiamento dell'empirismo inglese, culminante
in Hume, e dal Kant ‛critico' (cfr. soprattutto l'Essay concerning
human understanding e i Dialogues concerning natural religion di
Hume e la prima Critica kantiana). Divenne chiaro che
l'argomentazione razionale non poteva né fondare né esplorare
questa sfera di coerenza ultima, sebbene altri aspetti dello
spirito (gli affetti, la fede o la coscienza morale) potessero
oltrepassare la sfera dell'esperienza sensibile, cui la ragione
era confinata. Nelle filosofie romantiche, basate su questi altri
aspetti dell'esperienza, l'attacco a una divinità trascendente
continuava. Con Hegel, Schelling e Schleiermacher il divino
scendeva dal suo cielo immutabile, autosufficiente e separato per
intrecciarsi al sistema delle realtà finite nel tempo e nello
spazio. Un ‛assoluto' rimaneva tuttavia, ma era sempre concepito
come la totalità o l'unità dei particolari dell'esperienza, e
quindi come immanente nell'immediato e non separabile da esso.
Con l'ulteriore sviluppo, nella seconda metà dell'Ottocento, di
forme di pensiero evoluzionistiche, anche quest'assoluto immanente
si dissolve. Tutto ormai s'immerge nel processo, tutto muta e si
evolve; noi siamo in un mondo in fluttuazione incessante, dove le
forme stesse sono fluide e il processo soltanto è reale. Eppure,
la visione ottocentesca del divenire totale non rappresenta
affatto la fine della strada ‛secolare'. All'interno del flusso
una struttura durevole di coerenza e di significato permane,
abbastanza dominante da guidare i processi di mutamento verso un
incremento di valore e magari verso una divinità. Questo principio
di coerenza e di significato è per lo più concepito, come abbiamo
notato, come l'universale legge del progresso o dell'evoluzione, o
anche come l'evolventesi Divinità del processo, che in ciascuna
epoca integra in un'armonia crescente le realtà finite,
contingenti e transitorie dell'esperienza ordinaria (v. Alexander,
1939 e 1950; v. Whitehead, 1929, libro 5).
Quando però dal pensiero ottocentesco passiamo a quello più
tipicamente novecentesco, anche questo senso di una teleologia
immanente, di un vincolante principio di coerenza pur nel mutare
dell'ambiente, scompare. Le filosofie (empirismo, naturalismo
moderno, filosofia linguistica e analitica, esistenzialismo e
fenomenologia) - per differenti che possano essere sotto tutti gli
altri aspetti - concordano nel dipingere una disarmonia tra
esistenza umana e ambiente, ovvero semplicemente rifiutano di
discutere la relazione tra l'una e l'altro. Nel naturalismo
l'universo circostante è mera ‛natura', fertile e infinitamente
molteplice ma cieca e priva di finalità, ‛natura' che possiamo
rappresentarci unicamente in chiave scientifica. Di conseguenza
mentre la natura - in modo evidente sebbene non intenzionale -
sostiene l'esistenza e la sopravvivenza della sua prole umana, la
ricerca del significato, il bisogno di ordine e di amore che
caratterizzano uomini e donne non trovano nè rispecchiamento nè
controparte nel mondo circostante. Non esiste quindi un
‛significato ultimo' del sistema delle cose; dobbiamo contentarci
dei nostri ‛piccoli significati' nell'esistenza concreta, del
molteplice mondo di entità finite nel quale ci troviamo e che la
nostra intelligenza critica può guidare verso le nostre proprie
finalità (v. Dewey, 1920, specialmente capp. 1, 4, 5 e 7; v.
Krikorian, 1946, specialmente capp. 1 , 2, 12 e 15).
Pressappoco la stessa visione di fondo sottostà alla maggior
parte dell'odierna filosofia linguistica, sia nella sua forma
neopositivistica sia in quella analitica, sebbene l'accento batta
qui appunto sul linguaggio e non sull'ontologia. Questa
separazione tra interiorità e pensiero dell'uomo e universo
circostante raggiunge il suo apice nell'esistenzialismo. K. Löwith
ha espresso con grande efficacia questo senso di alienazione
dall'universo, così caratteristico dello spirito moderno e in
primo luogo dell'esistenzialismo: ‟È sullo sfondo di una natura
qual è concepita dalla scienza naturale moderna che
l'esistenzialismo stesso e venuto all'esistenza: la sua esperienza
basilare non è infatti la storicità ma la contingenza
dell'esistenza umana entro la totalità del mondo naturale [...].
C'è un intimo rapporto tra l'esperienza nuda, ‛effettiva',
assurda, gettata nel mondo e l'anonimità del mondo stesso in cui
ci accade di esistere [...]. E, certo, come ci si potrebbe sentire
a casa in un universo concepito come il risultato casuale di
probabilità statistiche e di cui si dice sia venuto all'esistenza
attraverso un'esplosione? Un tale universo non può ispirare
fiducia e simpatia, nè può dare orientamento e significato
all'esistenza umana in esso" (v. Löwith, 1966, pp. 24, 25, 28).
L'ambiente oggettivo è non soltanto cieco, meccanico e
inesorabile; esso è ‛assurdo', ed è tale perché affatto antitetico
a tutti gli aspetti, caratteri e compiti importanti dell'essere
umano. A. Camus ha espresso con estrema potenza questo senso
esistenzialista di radicale irrazionalità e assurdità (per gli
uomini) del mondo e il conseguente estremo senso di alienazione:
‟In questo universo indecifrabile e illimitato, il destino
dell'uomo assume ormai un senso proprio. Un popolo di irrazionali
si è levato e lo circonda fino al suo ultimo termine. Nella sua
chiaroveggenza rinata e adesso ordinata, il senso dell'assurdo si
fa luce e si precisa [...]. Il mondo, in sé, non è ragionevole; è
tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di
questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui
richiamo risuona nel più profondo dell'uomo" (v. Camus, 1944; tr.
it., p. 23); ‟L'assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano
e il silenzio irragionevole del mondo" (ibid., p. 28).
L'esistenzialista, quindi, tronca deliberatamente il legame tra sé
e l'ambiente oggettivo; egli è solo non soltanto di fronte a Dio
ma anche di fronte all'intero universo. Un ordine oggettivo in cui
la vita umana fosse inserita, per una concezione siffatta (sulla
quale Kierkegaard e Nietzsche concorderebbero) annienterebbe la
libertà e distruggerebbe la possibilità di diventare, per
decisione e volontà propria, quell'essere autentico che ognuno di
noi potenzialmente è (v. esistenzialismo).
Come può già vedersi, una parallela ‛riduzione' colpisce la
portata e la ricchezza della ragione. Inizialmente, alla ragione -
come abbiamo brevemente illustrato - era attribuita non solo la
capacità di esplorare, con la speculazione, l'intero ambito
dell'universo (anche di dimostrare Dio e quindi di ‛pensare' i
pensieri di Dio dopo di lui); essa era anche in grado di
raggiungere una visione coerente dei fini dell'attività
costruttiva e delle norme che governano l'esistenza creativa
dell'uomo (cfr. specialmente l'Etica di Spinoza). Anche i
fisiocrati francesi consideravano la natura come razionale: v'era
cioè in essa una coerenza fondamentale che s'accordava con le
leggi della mente umana; più ancora, per loro, la natura e la
ragione erano insieme la fonte e la base delle norme sia politiche
sia morali: si pensi per esempio al diritto naturale, così
importante per la teoria rivoluzionaria. Con il Novecento, la
ragione diventa invece esclusivamente logica e analitica, come
nella filosofia contemporanea, o descrittiva e predittiva, come
nella scienza. Nell'un caso come nell'altro, la ragione non può
essere prescrittiva o normativa, salvo che riguardo alle
proposizioni.
Di conseguenza, la nostra affermazione dell'esistenza di finalità
particolari e - appunto su tale base - i nostri giudizi normativi
esprimono unicamente i nostri desideri interiori, le nostre
‛preferenze', e hanno quindi un'efficacia unicamente emotiva. La
ragione viene allora considerata capace, attraverso la ricerca
scientifica, di fare affermazioni contingenti su ciò che
obiettivamente ci circonda, di analizzare i concetti astratti e le
loro interrelazioni, e di creare, organizzare e criticare sistemi
e processi strumentali, meccanici o umani. Riconoscendo tali
capacità alla ragione, si dissociano nel contempo da essa gli
aspetti intuitivi, immaginativi, morali, politici, estetici e
religiosi dello spirito creativo, che diventano di conseguenza
‛irrazionali', oltrepassando la sfera del pensiero discorsivo o
addirittura quella del linguaggio. In una prima fase, notavamo una
costante alienazione dell'umano dall'universo e la conseguente
accresciuta importanza dell'autonomia, dei decisivi poteri
creativi, razionali e morali, dello spirito.
Ora - come risultato, ironia della sorte, dello stesso processo -
gli effetti sono radicalmente opposti: la ‛riduzione' e lo
‛smembramento' dei poteri creativi dello spirito; una scissione
della ragione dalla sfera morale, estetica, emotiva, religiosa, e
anche dall'immaginazione speculativa. Di fatto la conoscenza
dell'umano può ormai essere solo ‛oggettiva', una conoscenza di
uomini e donne che escluda a priori ogni autoconsapevolezza del
soggetto, e pertanto una conoscenza di uomini e donne come meri
oggetti privi di interiorità o soggettività. Se la conoscenza
definisce ciò che per noi è ‛reale', l'esistenza dello ‛spirito' -
per gli uomini e donne moderni - è ab initio assai dubbia, e ciò
in una cultura che ha posto la sua creatività e le sue speranze
nell'‛umanesimo', cioè unicamente nella realtà, nel potere e nelle
capacità dello spirito umano, nell'intelligenza disinteressata,
nell'impegno costante al raggiungimento dell'eccellenza umana!
L'atteggiamento generale della cultura secolare verso la
religione è ormai chiaro. Per molti intellettuali, le credenze
tradizionali della religione diventavano inattendibili,
irrazionali e persino prive di significato, comunque affatto
incongrue rispetto al ‛mondo reale' fatto conoscere dalla scienza;
esse erano quindi spiegabili soltanto come ‛proiezioni',
analizzabili in termini sociologici, economici e psicologici.
Inoltre, per l'ottimistica fiducia secolare nel progresso la
religione diventava inutile, anzi nociva, in quanto distoglieva
l'attenzione dal benessere degli altri esseri umani in direzione
del soprannaturale, obbligava all'osservanza di norme
anacronistiche impedendo così la soluzione pratica e tecnica dei
nostri problemi più profondi.
Nel nome dell'umanismo, come anche in quello della scienza, la
modernità per più d'un secolo ha considerato la religione come un
aspetto inutile e superfluo del nostro passato, comprensibile in
epoche di ignoranza, di debolezza, ma inescusabile in un'epoca
come la nostra, dominata dalla scienza, dalla tecnologia e dalla
democrazia (o dal socialismo). Così si esprimeva per esempio L.
Feuerbach, uno dei portavoce più eloquenti del secolarismo
ottocentesco (Vorlesungen über das Wesen der Religion, 1851, III):
‟Lo scopo delle mie lezioni, come dei miei libri, è di trasformare
i teologi in antropologi, gli amanti di Dio in amanti dell'uomo, i
candidati all'al di là in studiosi di questo mondo, i lacchè
religiosi e politici di monarchi e signori celesti e terreni in
cittadini di questa terra, liberi e fiduciosi in se stessi. Il mio
scopo è quindi lungi dall'essere negativo; e io nego solo per
affermare [...]. Certo, dalla mia dottrina segue che non c'è Dio,
non c'è un essere astratto, disincarnato, distinto dalla natura e
dall'uomo e arbitro a suo piacimento del destino del mondo e
dell'umanità; ma questa negazione è semplicemente la conseguenza
di un'intuizione dell'essenza di Dio, dell'aver compreso che Dio
non denota altro se non, da un lato, l'essenza della natura e,
dall'altro, l'essenza dell'uomo". Incidentalmente, vorrei
azzardare l'ipotesi che l'avversione, così energicamente espressa
da Feuerbach, per ogni religione rivelata, e quindi assoluta, per
norme e autorità religiose incontestate è la ragione più profonda
per la quale il nuovo Iran scuta si oppone con tanta violenza
all'Occidente. Al pari di tante altre culture tradizionali non
occidentali in questo secolo (come quelle della Cina, del Giappone
e dell'India), l'Iran sta sperimentando una reazione violenta
contro gli invadenti e corrosivi ‛acidi della modernità', che
accompagnano la diffusione della cultura secolare occidentale.
Ciò che sinora non è apparso in modo evidente è l'effetto
devastante che lo sviluppo della cultura secolare ha avuto
sull'umanismo stesso e, per riferirci in particolare alla sfera
accademica, sulle discipline umanistiche. Come è ormai evidente,
per una cultura secolare sviluppata lo studio e la riflessione
sull'arte, sulla letteratura, sulla storia, sull'etica e sulla
metafisica, sulle religioni di altre culture, difficilmente
possono essere considerati ‛conoscenza' del mondo reale (l'unico
rilevante) sia naturale sia sociale, appunto perché non hanno
carattere di ricerca scientifica né sul mondo naturale nè su
quello sociale.
Certo, questi studi possono ben informarci sulle bizzarrie e la
molteplicità della fantasia, dei sogni, delle preferenze emotive
dell'uomo, ma, come ha detto un filosofo della scienza, Hempel,
‟essi non hanno valore teorico", non sono ‟conoscenza" e non
rivestono quindi che una secondaria importanza (v. Hempel, 1959).
Inoltre tali studi, come le arti stesse, hanno scarso valore
‛pratico' e sono quindi privi di una vera importanza nei confronti
di questioni socialmente importanti, come quelle riguardanti la
progettazione di macchine, la medicina, l'economia,
l'organizzazione della produzione e della distribuzione, la
finanza e la politica. Le discipline umanistiche non sono quindi
altro che aspetti della sfera ‛privata', materia di gusto; hanno
importanza - al pari delle arti - per coloro cui piacciono, ma
dubbio è il loro significato per quell'addestramento scientifico,
tecnico e professionale cui l'uomo moderno e socialmente utile
dovrebbe dedicarsi.
Ciò di cui abbisogniamo, nell'odierno mondo tecnico e
industriale, sono gli ‛esperti', non ‛persone intere';
l'istruzione che, nella prospettiva umanistica, doveva produrre
l'eccellenza umana, è stata uno strumento per l'abbandono di una
cultura aristocratica, orientata sul tempo libero. Per questa
ragione - e perché l'interesse di governi e imprese è rivolto in
modo esclusivo alla scienza, alla progettazione, all'economia,
alla sociologia e alla psicologia non si può certo parlare di un
semplice trapasso, nella cultura secolare, da un'istruzione
‛religiosa' o ‛classica' a un'istruzione moderna ‛liberale'. In
realtà, è accaduto piuttosto, nel campo dell'istruzione superiore,
che l'indirizzo umanistico sia stato rapidamente sostituito da un
indinzzo tecnico e professionale, come può mostrare qualsiasi
ricerca - per il periodo, diciamo, dal 1910 al 1980 - sugli
stanziamenti, rispettivamente, per l'istruzione scientifica e per
quella umanistica. Potremmo dire, in estrema sintesi, che, man
mano che lo sviluppo di una moderna, tecnologica, cultura
consumistica di massa minacciava, nella nostra società avanzata,
di svuotare le persone umane e di dissolvere i loro legami
comunitari, sul piano accademico si verificava una correlativa
riduzione dello studio delle discipline umanistiche a favore di
una formazione scientifica, tecnologica e professionale, a favore
cioè di un addestramento ad abilità scientifiche e tecniche per
un'utile partecipazione alle istituzioni della società.
È giunto il momento di riassumere la nostra descrizione dello
spirito secolare, cioè del più diffuso atteggiamento delle classi
medie e superiori, quelle classi di accademici, di professionisti,
di uomini d'affari e di tecnici che guidano le società avanzate
dell'Occidente. Vogliamo anzitutto notare l'immensa ‛creatività'
di questa cultura, alla quale si deve molto, se non la massima
parte, di quanto nel mondo moderno - anche alle persone
‛religiose' appare fornito di valore. Gli ideali di tolleranza e
obiettività in campo politico, morale e religioso - ideali
fondamentali per una società democratica o libera - sono stati i
suoi doni più evidenti; la critica del sapere e delle autorità
tradizionali - fondamentale per la realizzazione individuale - è
stato un altro. Anche l'apprezzamento per le nuove idee e la
fiducia nel futuro - di fatto, l'apertura al futuro per il
miglioramento su ogni fronte - si devono a questa cultura. Infine,
ed è la cosa più importante, l'interesse umanitario per la riforma
e il miglioramento della vita sociale, politica ed economica,
delle relazioni nella famiglia e tra i sessi - insomma l'intera
concezione della ‛riplasmazione' del mondo sociale al fine di
renderlo più abitabile per gli uomini - deriva non soltanto dalla
concentrazione su questo mondo, ma anche, e in modo peculiare,
dall'accentuazione ‛secolare'.
Se non si fossero considerate le istituzioni come relative,
transitorie, e dunque trasformabili, l'impegno e la fiduciosa
speranza di riplasmarle non avrebbero potuto mai imporsi. La
spinta all'amore e al servizio - di origine ebraico-cristiana -
avrebbe preso, come già in passato, la via del servizio e della
vocazione religiosi, del ritiro in comunità separate, della
filantropia o del Dienst nella propria professione entro la
società. Solo quando si comprese la plasmabilità del mondo
sociale, il Dienst poté essere concepito come un impegno
riformista o rivoluzionario, dedicato alla trasformazione delle
istituzioni. La maggior forza positiva della moderna società
secolare - la sua ricerca della giustizia e del benessere qui
sulla terra - appare quindi come il risultato diretto della
cultura scientifica e secolare che siamo andati descrivendo, come
anche del retroterra ebraico e cristiano di tale cultura. Non è un
caso che le rivoluzioni americana, francese e russa siano seguite
a un'epoca di critica scientifica delle idee tradizionali, di
manipolazione scientifica dei dati dell'esperienza, d'innovazioni
nelle ipotesi scientifiche e di riplasmazione tecnologica
dell'ambiente. Qualunque critica possano avanzare contro lo
‛scientismo' della cultura secolare, la religione e il pensiero
umanistico dovrebbero serbare la consapevolezza degli influssi
positivi della scienza e adoperarsi per preservare i suoi
‛valori', così importanti per la vita creativa.
La cultura secolare è sorta, ed è poi vissuta, in consapevole
antitesi alle culture fondate sulla religione e sul mito, quelle
cioè fondate su tradizioni non controllate, su autorità non
contestate, su asserzioni inverificabili circa la realtà e sulla
fede assoluta nei propri presupposti basilari. Anche per i loro
critici secolari, i ‛miti religiosi' risultavano ancora abbastanza
comprensibili nelle fasi arcaiche, quando gli uomini ignoravano
ancora il funzionamento della conoscenza, quando cioè la loro
conoscenza era scarsa e spesso irrilevante, e quindi debole il
loro potere di controllare e riplasmare la natura e la società. In
una tale fase arcaica (e ‛fase arcaica' e una tipica etichetta
usata per le culture non occidentali) i beni erano precari e
accidentali, frutto della fortuna o del caso; di conseguenza, la
vita umana era impregnata di profonda paura e angoscia. Non c'è da
meravigliarsi che, per sentirsi sicuri in un ambiente estraneo e
spesso ostile, questi uomini spaventati abbiano popolato il loro
mondo di dei, l'abbiano strutturato (in una fase successiva) sulla
base di un ordine razionale assoluto, l'abbiano fornito di norme
ultime e abbiano infine governato in conseguenza la loro vita
incerta e rischiosa (v. religione). Ma ora che sappiamo come
conoscere ‛veramente' il nostro mondo, e possiamo scacciare le
nostre paure attraverso il nostro nuovo potere di controllarlo, i
miti risultano inutili e il linguaggio simbolico che li
caratterizza perde rilievo e significato. Ne deriva che sia la
metafisica sia la teologia diventano anacronismi - al pari delle
‛pseudodiscipline' sorelle, l'alchimia e l'astrologia - tipici di
un'età d'ignoranza e di superstizione.
La moderna cultura secolare considerava dunque se stessa come un
ulteriore e più avanzato stadio dello sviluppo storico
dell'umanità, come una fase di progresso distinta non soltanto
dalle società primitive e arcaiche del remoto passato, ma anche
dalle società prescientifiche dell'Occidente feudale e
rinascimentale. Questo quadro di una storia progrediente, che si
sviluppa attraverso la graduale accumulazione di conoscenze e di
tecniche per raggiungere le sue forme paradigmatiche con l'avvento
della scienza moderna, forniva alla cultura secolare gli elementi
sostanziali della sua autocomprensione e della sua collocazione
nell'universo delle cose. Si credeva che, dopo secoli di erronee
interpretazioni religiose e metafisiche in termini di
trascendenza, immutabilità, eternità, ora la realtà si desse a
conoscere quale effettivamente era: temporale, mutevole, fitta di
interrelazioni; e che il significato dell'esistenza, e quindi
della vita umana - una volta trovato erroneamente nella ricerca
della trascendenza divina - potesse ora essere realizzato
‛secolarmente' qui sulla terra, attraverso lo sviluppo tecnologico
e industriale e le riforme politiche e sociali.
Com'è evidente, la cultura secolare si considerava scientifica,
improntata a un tenace e pragmatico realismo, libera da fedi
religiose non controllate e da speranze sentimentali. L'ironia
della sorte è che la profonda, pressoché inconscia fede di questa
cultura empirista nell'avanzamento della civiltà, nella scienza
come forma paradigmatica del conoscere in tutte le aree
dell'esperienza, nelle illimitate possibilità dello sviluppo
tecnologico e nei benefici effetti di un'intelligenza sempre più
istruita e addestrata: questa fede, sebbene generata da una
cultura scientifica, gettava le basi di un nuovo ‛mito', questa
volta moderno, il ‛mito del progresso'. E questo mito, come i miti
precedenti, dava alla vita dell'Occidente moderno la sua ‛sostanza
spirituale', dava forma alla sua identità o ‛autocomprensione',
plasmava la sua istruzione e le sue professioni, guidava le sue
decisioni fondamentali e sosteneva infine la sua fiducia nella
storia e quindi le sue speranze (v. progresso).
3. La crisi: contraddizioni nella cultura secolare, ricomparsa
della religiosità e avvento dell'ideologia
Se l'immagine della cultura secolare da noi delineata fosse stata
sottoposta a un uomo o donna ‛moderni' dell'inizio del nostro
secolo, sarebbe stata probabilmente accolta con un'approvazione
entusiastica, e considerata come un quadro empiricamente fondato,
veridico e affatto realistico della società occidentale
contemporanea e delle sue legittime speranze. A chi invece lo
guardi oggi, questo medesimo autoritratto della nostra cultura
secolare appare irrimediabilmente ingenuo, evidentemente impreciso
in vari punti e, soprattutto, idealistico, ultraottimistico e
quindi ingannevolmente lusinghiero per quanto riguarda le
strutture e forze fondamentali della vita moderna. Questa visione
di noi stessi ci sembra oggi il frutto anacronistico di un
obsoleto mito ‛religioso' ottocentesco e, come la maggior parte di
tali miti, ci sembra offuscare anziché illuminare la realtà.
Questa rotazione di 180° dell'asse culturale è stata rapida: un
disincantamento diffuso riguardo alla realtà e alle prospettive
della nostra cultura ebbe inizio in Europa con la prima guerra
mondiale, si estese agli Stati Uniti dopo la seconda guerra
mondiale e si è intensificato senza sosta negli ultimi tre
decenni.
Naturalmente, anche assai prima del 1914 uomini come
Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, Marx, Baudelaire e Freud
avevano avvertito l'imminente disintegrazione della cultura
europea, sebbene Marx e Freud (quest'ultimo almeno
occasionalmente) avessero accarezzato la speranza di un ‛salto'
progressivo fuori della disintegrazione; e non è privo di
significato che queste voci ammonitrici, passate quasi inavvertite
in mezzo al frastuono progressista dell'Ottocento, abbiano
acquisito il posto centrale nell'autocomprensione del nostro
secolo.
Ironia della sorte, accade oggi che la cultura secolare, ancora
dominante sebbene vacillante, si trovi forse in maggiori
difficoltà e più minacciata nel suo futuro di quanto non siano le
tradizioni religiose, che una volta aveva con tanta condiscendenza
considerato ormai allo stremo. Nell'ultima parte di quest'articolo
il nostro compito sarà dunque quello di passare in rassegna le
contraddizioni e i dilemmi che, emersi all'interno della cultura
secolare, hanno condotto a un mutamento radicale nella valutazione
delle sue presenti condizioni, e quindi delle sue possibilità
future, e hanno offerto il destro a critiche severe dei suoi
presupposti fondamentali. Così facendo, potremo forse mostrare
che, come un'interpretazione e una critica ‛secolari' della
religione e della cultura ‛religiosa' si dimostrarono insieme vere
e utili, aprendo la strada a una riforma della religione e a una
sua maggiore autonomia, allo stesso modo un interpretazione
‛religiosa' o ‛teologica' della scienza e della cultura
scientifica può oggi gettar luce su alcuni dei loro profondi
dilemmi e sulla loro possibile soluzione.
Giacché la scienza empirica e matematizzata è stata la principale
forza creativa che ha plasmato la società occidentale moderna, non
può sorprendere che molti dei dilemmi e contraddizioni che
emergono oggi nella società abbiano le loro radici nella scienza,
come del resto era stato il caso della religione nella società
premoderna. La prima contraddizione concerne il ruolo e lo status
dell'autonomia umana. Come abbiamo notato, l'esperienza cosciente
della ricerca scientifica fu la fonte più importante
dell'acutissima coscienza moderna dell'autonomia e trascendenza
della mente e del volere umani; e la fiducia nell'‛intelligenza
istruita', fiducia generata dall'esperienza della scienza al suo
sboccio, fu basilare per la fiducia di questa cultura in se stessa
e nel suo futuro. Senonché, la ricerca scientifica,
paradossalmente, si è dimostrata incapace di scoprire una
qualsiasi traccia di una tale intelligenza e libertà autonome.
Tutto ciò che le ricerche ‛scientifiche' sugli esseri umani sembra
siano state capaci di scoprire è l'esistenza oggettiva di esseri
bipedi privi di interiorità e capacità di autodirezione, che
reagiscono in modi immutabili a dati stimoli: entità condizionate
unicamente da forze esterne e governate quindi da leggi universali
(come ha detto una volta Tillich, ‟spazi vuoti attraverso i quali
passano forze aliene").
Come ha detto un neurologo, e proprio dopo aver illustrato
entusiasticamente ciò che potremmo fare (se ‟noi volessimo e se
avessimo maggiori fondi") con tutte le nuove scoperte della
neurologia, nei nostri esperimenti non troviamo traccia di ciò che
filosofi e teologi hanno chiamato ‛libertà'". Ironia della sorte,
la creatività spirituale, prerequisito della scienza e
ripetutamente esperita nella concretezza della ricerca -, non è
‛conosciuta', e non può esserlo, dalla ricerca scientifica.
Giacché quel che pensiamo di poter conoscere determina per noi in
qualche modo quel che consideriamo come ‛reale', non c'è da
meravigliarsi che la ‛qualità di persona', l'‛autonomia' e la
‛libertà' le caratteristiche basilari dell'essere umano abbiano
uno status intellettuale precario in una cultura scientifica; così
come ‛essere' un uomo è diventato esistenzialmente precario in una
cultura industriale, tecnologica, urbana. Questa contraddizione
mostra quindi che quel che ‛conosciamo' (in questo caso,
attraverso la consapevolezza di noi stessi) è più vasto di ciò che
conosciamo attraverso la ricerca obiettiva e che, se il metodo
scientifico è considerato come l'unico accesso conoscitivo al
reale, allora solo ‛oggetti' popoleranno il mondo reale (e in
definitiva il ‛nostro' mondo reale) e i ‛soggetti' della ricerca
scientifica andranno di conseguenza incontro a un fraintendimento
radicale.
Una contraddizione ancora più grave si è rivelata riguardo alla
natura, all'oggetto fondamentale della ricerca scientifica.
Essenziale per lo sviluppo della scienza, come abbiamo notato
sopra, è stata l'‛oggettivazione' di tutto quanto la scienza
imprendesse a studiare. Nel caso della natura, ciò ha significato
non solo la soppressione di ogni finalità divina ma anche
l'eliminazione delle caratteristiche qualitative degli oggetti
naturali, della loro unità e facoltà interne, della loro
peculiarità e profondità, e della necessaria integrità dei sistemi
naturali in quanto ‛cose per se stesse' oltre che per noi. La
natura è stata così trasformata in un sistema interconnesso di
oggetti quantitativi, omogenei, calcolabili e manipolabili, le cui
funzioni e possibilità sono comprese unicamente dal punto di vista
della loro congruenza con i nostri fini e bisogni. A proposito del
rapporto tra meccanicizzazione della natura e uso della natura per
scopi umani, così si esprime per esempio J. Dewey (v., 1920):
‟L'esclusione di fini e forme dall'universo è sembrato a molti un
impoverimento ideale e spirituale. Considerata come un insieme di
interazioni meccaniche, la natura sembra perdere significato e
finalità [...] ma solo quando i fini furono banditi dalla natura
gli scopi divennero, nelle menti umane, importanti come fattori
capaci di riplasmare l'esistenza. Un mondo naturale che non abbia
la sua ragion d'essere nella realizzazione di un insieme fisso di
fini è relativamente malleabile e plastico; può essere usato per
questo o quello scopo. Che la natura possa essere conosciuta
mediante l'applicazione di formule meccaniche, è la prima
condizione per volgerla alle necessità umane". E poiché la natura
è ‛conosciuta' solo attraverso la manipolazione che di essa
facciamo, essa diviene ‛reale' per noi solo per la nostra
manipolazione.
Ora, come la crisi ecologica ci ha svelato, questo atteggiamento
secolare verso la natura si è rapidamente dimostrato fatale. Le
capacità tecnologiche dell'uomo sono cresciute a dismisura, e sono
ora in grado di dominare la natura quasi a piacimento; gli scopi
umani si sono rivelati in larga misura scopi di sfruttamento, di
abuso - piuttosto che di uso - delle risorse naturali, e i bisogni
umani si sono dimostrati, alla lettera, illimitati, capaci ormai
di consumare in breve tempo tutte le risorse esistenti. Il
risultato è stato un consumo in progressiva espansione, lo
sfruttamento e l'inquinamento dell'ambiente, che minaccia risorse
insostituibili (l'acqua e l'aria di cui viviamo) e i vulnerabili
sistemi da cui dipendono la facoltà riproduttiva e l'integrità
della natura. Avuto dalla tecnologia il potere necessario, abbiamo
fatto della natura un semplice ‛oggetto' non soltanto della
ricerca ma dello sfruttamento, una ‛funzione' degli scopi umani,
che si sono rivelati scopi di rapina piuttosto che di uso
avveduto: ne abbiamo fatto, in breve, una vittima della nostra
insaziabile voracità. Poiché, d'altra parte, noi stessi dipendiamo
dai sistemi naturali che minacciamo, è apparsa una singolare serie
di paradossi.
Lungi dal trasformare beni incerti in valori durevoli, come
prometteva Dewey (v., 1920), l'applicazione dell'intelligenza
scientifica ha minacciato molte risorse naturali d'importanza
cruciale e ha spesso trasformato il giardino della natura in un
deserto umano. Anziché rendere la vita più sicura, l'inarrestabile
accumulazione di capacità tecnologiche sembra, in definitiva,
metterla in pericolo. In luogo di costituire il paradigma della
sopravvivenza, l'homo faber, ora armato della tecnologia, sembra
stia predisponendo (come i dinosauri) la propria estinzione. I
talenti più creativi della cultura moderna - le nostre capacità
scientifiche e tecnologiche - sembrano costituire oggi il
principale pericolo e quindi, bizzarramente, le nostre maggiori
passività. E, infine, la vittoria sul fato e sul caso, promessa un
tempo dall'intelligenza istruita e dalla capacità tecnica, sembra
comportare la nostra sottomissione a un nuovo fato da noi stessi
creato, il fato rappresentato da un incontrollabile progresso
tecnologico, sfociante in nuovi e sempre più minacciosi poteri
umani.
Per quanto ironico possa sembrare, tutti questi paradossi
mostrano che la moderna cultura secolare, nella sua esaltazione
dell'intelligenza in quanto indagatrice obiettiva, ha trascurato
la profonda ‛ambiguità' del soggetto umano, anche di un soggetto
caratterizzato da un'intelligenza istruita e da una volontà
idealizzata. Nell'entusiasmo per la conquista della natura e il
superamento delle difficoltà oggettive, esterne, gli uomini e
donne moderni hanno dimenticato la dura difficoltà di essere
pienamente umani, di divenire persone reali, e la soggezione
profonda del volere umano all'interesse personale,
all'egocentrismo, alla propria sopravvivenza e al proprio
benessere. Questi problemi ‛interiori' sono stati pressoché
ignorati, considerati come rilevanti unicamente per una cultura
arcaica, che fosse priva sia di metodi di ricerca sia di tecniche
di controllo. Senonché, la semplice realtà ci dice che
l'accrescimento delle conoscenze, sfociato in nuovi poteri
tecnologici, ha permesso di rendere più efficaci le minacce sia
dell'uomo contro l'uomo sia dell'uomo contro la natura: il
risultato è che i problemi ‛interni' del ‛soggetto' sono divenuti
più cruciali che mai.
La cultura secolare cominciò la sua carriera affermando che
troppo tempo gli uomini avevano dissipato nell'introspezione,
nello sviluppo interiore, nell'educazione morale e nella
meditazione mistica, e troppo poco ne avevano speso nella
soluzione dei problemi concreti ‛qui e ora'; e, coerentemente, la
cultura secolare proseguì il suo cammino concentrandosi sullo
sviluppo scientifico, tecnologico e industriale, e manifestando un
disinteresse sempre più accentuato per le discipline umanistiche e
per la religione. Si potrebbe dire che, durante la carriera della
cultura moderna, sia stato condotto un esperimento su grande scala
per controllare l'ipotesi secolare e che da tale ‛controllo'
l'ipotesi sia uscita interamente falsificata.
I detentori dei nuovi immensi poteri si sono rivelati non
intelligenze ‛obiettive' con preoccupazioni fraterne, ma
egoistici, e quindi pericolosissimi, predatori; nuovi dilemmi
sociali, politici e ideologici hanno investito quelli che non sono
affatto problemi meramente tecnici e invocano una riflessione
ponderata e un'azione responsabile. È insomma evidente che il
bisogno primo della cultura contemporanea è l'educazione
umanistica di uomini responsabili, assai più che l'addestramento
tecnico di ‛esperti competenti'. Un teologo potrebbe aggiungere
che, in questo processo, anche la tesi ‛umanistica' è stata del
pari controllata e falsificata. In altre parole, il decorso della
cultura secolare ha anche mostrato che la fede nell'intelligenza e
nel volere umani come valori ultimi, e quindi l'esclusiva
concentrazione su di essi, tendono in definitiva, nonostante tutta
la bontà delle intenzioni, a disintegrarsi in un ‛antiumanismo',
vale a dire in un'interpretazione angustamente oggettiva
dell'intelligenza e in una visione impoverita delle facoltà umane,
ristrette alla competenza tecnica. È questa una comprensione
angusta dell'umano, che esclude sia l'intuizione sia l'impegno
morale, e ancor più le virtù dell'umiltà e della fiducia nella
grazia, capace di portare i peccati dei singoli come la tragedia
della storia.
Il fenomeno forse più cospicuo - e diffusamente avvertito, anche
se non fatto oggetto di riflessione consapevole - è stato
l'abbandono della sostanza spirituale o religiosa della cultura -
la sua fiducia nel progresso - e quindi del suo corroborante
ottimismo circa il proprio futuro. Per la massima parte degli
uomini e donne moderni, la cultura secolare ha rappresentato la
comparsa nella storia della vera ‛meta' della storia stessa (o
almeno del suo preannuncio), del tipo di civiltà che aveva avuto i
suoi albori già in Mesopotamia e in Egitto: la civiltà
scientifica, tecnologica, industriale, democratica, ‛libera' e (su
questo c'era disaccordo) capitalistica o socialista.
Così, mentre considerava se stessa come di gran lunga superiore
alle epoche precedenti nella realizzazione dei veri valori, la
cultura secolare assumeva che tali valori, che ‛essa' aveva
realizzato, sarebbero stati bensì incrementati in futuro, ma non
ripudiati e sostituiti. Sviluppare e perpetuare se stessa
equivaleva dunque a contribuire all'edificazione di un futuro
migliore per tutti gli uomini e donne a venire. La natura poteva
essere stata dissacrata e oggettivata, il cielo sfidato, preso
d'assalto e reso deserto; ma la ‛storia', per la moderna cultura
secolare, forniva un ambiente in cui gli uomini e donne
dell'Occidente si sentivano con agio e sicurezza a casa loro: la
loro cultura e i loro valori sarebbero progrediti nel tempo sino
alla realizzazione dell'identità ultima tra essere e dover essere.
Sono proprio questa ‛fede' profonda e questo ‛mito del progresso'
che gli sviluppi, le contraddizioni e i dilemmi della moderna
cultura secolare hanno man mano dissolto. Come già era accaduto
alle pretese della Chiesa medievale e alla sua fede, ‛controfatti'
hanno preso a emergere a ritmo crescente, con il risultato di
demolire l'antica fiducia nell'intelligenza scientifica, nel
progresso tecnico, nell'organizzazione razionale e psicologica:
cioè nell'accumulazione delle conoscenze e delle competenze.
Ci si consenta a questo punto un esempio. Per i leaders del primo
illuminismo la ‛medicina scientifica' era stata il paradigma di
quelle nuove scienze che avrebbero scacciato la sofferenza, dando
luogo a un'era di accresciuto benessere per gli uomini (v. Gay,
1969, cap. I, sez. 2). Ora, non si dice, credo, nulla di nuovo
affermando che non esiste oggi professione o disciplina più
aspramente criticata della scienza medica, e ciò per svariatissime
ragioni: l'ignoranza di molti medici in materia di assistenza
sanitaria e specialmente di alimentazione, la loro arroganza
professionale, soprattutto il livello dei loro guadagni, per
tacere del loro rifiuto corporativo di un assetto più democratico
(e quindi meno lucrativo) dell'assistenza sanitaria. Se l'ascesa e
la glorificazione della scienza medica furono il principale segno
del predominio della scienza nell'illuminismo, l'attuale nadir del
prestigio medico segnala del pari l'indebolimento della presa
della scienza applicata sull'opinione pubblica.
Che sia a causa delle terrificanti armi in nostro possesso o
dell'inquinamento o della diminuzione delle risorse naturali -
persino l'ozono sta diminuendo -, il futuro si presenta oggi ricco
più di minacce che di promesse: si presenta di fatto, e ciò sia
detto su basi meramente secolari, con colori schiettamente
apocalittici. La conoscenza e il potere promessi dalla cultura
secolare sono bensì arrivati, ma, in luogo della ‛salvezza', hanno
prodotto una situazione di pericolo universale; in luogo della
serenità, l'angoscia; in luogo della pace, modi più cruenti di
conflitto. Si spiega così come l'atteggiamento di molti giovani
d'oggi verso il futuro, e quindi verso le loro stesse possibilità
future, sia in netto contrasto con le certezze della generazione
dell'autore (anni venti e trenta), per tacere di quelle delle
precedenti generazioni nel Sette e Ottocento. Gran parte della
gioventù contemporanea avverte, non senza qualche giustificazione,
la possibilità che non ci sia affatto un futuro, che una
devastante guerra può scoppiare - con tutta probabilità nel corso
della loro vita - distruggendo ogni traccia della storia
conosciuta; e che, anche in assenza di una tal guerra, una crisi
ecologica incombe minacciosa sull'orizzonte. Ora, tali aspettative
si basano non su profezie religiose - sebbene in qualche gruppo
possano assumere questa forma - ma su tendenze strettamente
secolari. Una tale visione apocalittica secolare è, penso,
qualcosa di nuovo nella storia; e ritengo che i suoi effetti (nel
bene e nel male) sugli umori come sulla linea di condotta della
cultura secolare saranno immensi.
Potremmo dire, con un'espressione di A. J. Toynbee (v.,
1934-1954, vol. I, p. 53, vol. IV, pp. 2-5), che la nostra cultura
secolare sta sperimentando un time of troubles, un periodo in cui
le sue strutture sociali e istituzioni centrali, nonché i suoi
presupposti teorici e pratici, sembrano creare difficoltà anziché
risolverle, e quindi un periodo in cui i problemi si aggravano
diventando intrattabili e in cui, di conseguenza, le certezze
fondamentali (i ‛miti') favoriscono la disintegrazione anziché il
rafforzamento e la crescita. Non era questa la situazione nel
Seicento, nel Settecento e nell'Ottocento; era invece questa
nell'età ellenistica, al tramonto della civiltà greco-romana, e
anche alla fine dell'età medievale; e tale sembra, quasi
certamente, la nostra situazione presente. In periodi del genere
si assiste a una diffusa ricomparsa del sentimento religioso,
spesso in forme estranee alle tradizioni religiose costituite.
La ricomparsa della religiosità non ha nulla di sorprendente,
salvo che per la mentalità secolare; in periodi come questi,
sconvolti da problemi insolubili, le istituzioni e i ruoli
vacillano, le norme e le certezze abituali si dissolvono, la
sicurezza personale e sociale è minacciata. Gli individui sentono
nella loro vita questa ‛instabilità delle fondamenta', anche se
non ne sono consapevoli sul piano della riflessione. Per
innumerevoli persone il pur familiare mondo circostante, dal quale
dipendono, appare come un incubo che si va svolgendo davanti ai
loro occhi. Tali periodi di generale angoscia e incertezza fanno
sorgere quegli interrogativi circa la sicurezza, il ‛senso' e il
futuro, che caratterizzano il sentimento religioso, e sollecitano
quella ricostituzione o ristrutturazione di un mondo lacerato e
precario, che è l'opera di ogni autentica religione: sollecitano
cioè la rivelazione o manifestazione di un nuovo e più profondo
rapporto con una realtà ultima e permanente, una nuova verità
sulla realtà e sulla vita, un nuovo modo di essere uomini, un
nuovo tipo di comunità e un nuovo insieme di speranze per il
futuro. L'ultima cosa di cui la cultura secolare avrebbe
immaginato di essere essa stessa la causa è la comparsa, e il
bisogno, di nuove e diffuse forme del sentimento religioso. Essa
ravvisava in se stessa un fattore di riduzione dell'angoscia e di
aumento della sicurezza; e si concepiva in contrapposizione
frontale al sentimento religioso anziché, come già in altre epoche
di declino, come ispiratrice di una sua rinascita.
Il nostro tempo ha visto, nella cultura progredita
dell'Occidente, la ricomparsa del sentimento religioso in molte
forme inattese, una ricomparsa che per le comunità religiose, le
autorità religiose e i teologi è stata quasi altrettanto sgradita
della critica secolare della religione! Si pensi per esempio alla
crescita sbalorditiva di forme conservatrici, ‛fondamentaliste',
di protestantesimo negli Stati Uniti, o dei gruppi ‛carismatici'
nelle comunità cattoliche: né le une né gli altri erano nei voti
delle rispettive Chiese, che non hanno loro fornito alcun
incoraggiamento. Parallelamente, si è avuta, almeno a partire
dall'ultimo decennio, la comparsa, e vigorosa espansione, di forme
religiose provenienti dall'Islam, dall'India e dal Giappone
(sufismo, yoga e zen) nelle classi medie colte del Nordamerica e
dell'Europa. Per la sua diffusione tra la popolazione, per la
profondità dei suoi effetti sulla vita della gente e per la sua
persistenza questo ‛movimento missionario', che penetra nella -
anziché provenire dalla - nostra cultura, è senza confronti
nell'Occidente, da quando, in età ellenistica, le comunità romane
scandalizzate assisterono alla diffusione dei ‛culti' provenienti
dal Vicino Oriente e dall'India. Infine, non v'è dubbio che
l'interesse per l'‛occulto' in tutte le sue svariate forme -
astrologia, chiromanzia, tarocchi, comunicazione medianica,
demonologia e così via - e rinato e conosce anzi oggi una
diffusione maggiore che in qualsiasi altra epoca dall'inizio
dell'illuminismo.
A quanto sembra, una cultura industriale e tecnologica crea
bisogni individuali che non possono essere placati né dalla
prosperità né dalle figure professionali ufficiali né tanto meno
dalla conoscenza scientifica. Tali bisogni sono di varia natura:
riguardano l'identità personale, il senso della realtà e unità
della persona, l'appartenenza comunitaria, la vocazione e il
significato ultimo della propria vita, la certezza delle credenze,
l'incontro con la ‛realtà', anche con la realtà divina, e così
via. In ogni caso, si sente che si tratta di bisogni terribiimente
importanti, e di bisogni che la cultura secolare suscita anziché
soddisfare. Se interroghiamo i membri di questi nuovi gruppi
religiosi sulla ‛credibilità' della fede religiosa in un'epoca
scientifica o sul ‛significato del linguaggio religioso' o sulla
‛realtà del divino', essi considereranno tali domande sciocche e
antiquate, frutto di un punto di vista astrattamente
intellettualistico (‛accademico'), che smarrisce l'esperienza
reale e quindi la vita autentica; e cercheranno - proprio come il
rappresentante del secolarismo nei confronti delle persone
religiose di trarci fuori da tali illusioni secolari (nient'altro
che ‛maya') verso una più profonda comprensione di ciò che è reale
e vero.
Correlativamente alla comparsa, nella vita personale, di nuovi
movimenti religiosi, c'è stata la comparsa, nella vita pubblica,
dell'ideologia. Non è un caso che sia il termine ‛ideologia' sia
la realtà da esso designata emergano dopo le rivoluzioni americana
e francese, uno dei cui effetti era stato quello di rimuovere la
religione dal centro della vita pubblica e quindi appunto di
secolarizzare quest'ultima (v. specialmente Gouldner, 1976,
soprattutto capp. 1 e 2; v. anche Lenk, 1970). Con ‛ideologia'
intendo qui un sistema globale di idee, concetti o simboli che dà
espressione unitaria e coerente a una visione o interpretazione
dell'intera realtà, che ordina la realtà cosi da esprimerne il
senso la vittoria del bene sul male nell'esistenza; e che, se
adottata, unifica una comunità, dando alla sua vita, alle sue
istituzioni e ai suoi ruoli sociali forma, direzione e finalità. A
un'ideologia, infine, si partecipa - e si deve partecipare - con
assenso intellettuale, impegno personale e responsabile
obbedienza. Un'ideologia è una Weltanschauung con un ruolo o
funzione sociale; essa interpreta la totalità dell'esperienza per
una comunità: dà a essa la sua identità, le sue finalità, le sue
speranze, e quindi la sua forza e slancio unificanti. Come nel
caso di una religione tradizionale, la forza di un'ideologia, e
pertanto l'universale adesione a essa, sono assolutamente
necessarie per la vita di una comunità. Ne discende che sia
l'‛eresia' sia l'‛apostasia' - come in molte comunità religiose -
sono considerate pericolose per la comunità e severamente vietate;
se compaiono, sono punite con la persecuzione e il bando.
Nell'Occidente secolare, il fascismo e il nazismo hanno
funzionato in questo modo sino alla loro rovina; anche il marxismo
funziona in questo modo, non però dove vive tra singoli
intellettuali come una personale, sebbene militante, ‛filosofia
politica', ma dove ha conseguito il dominio sociale come struttura
simbolica che tiene insieme l'intera comunità. E in tutti i paesi
occidentali, ma forse specialmente negli Stati Uniti, c'è
attualmente una latente, implicita prospettiva
nazionalista-capitalista, il cui contenuto è costituito in gran
parte dalle concezioni secolari sopra descritte: una prospettiva
pronta a trasformarsi in ogni momento in un'ideologia esplicita di
tipo semifascista.
La moderna società tecnologica e industriale, mancando del centro
spirituale fornito dalle religioni tradizionali, ha dunque
prodotto ideologie secolari, che funzionano pressappoco come le
religioni, di cui hanno tutte le caratteristiche ben note: la
pretesa alla ‛definitività', la promessa di soluzione del
conflitto tra bene e male, l'offerta del ‛senso', la richiesta
dell'assenso, impegno e obbedienza, la paura dell'eresia e della
devianza, la comparsa di dogmi e di autorità assolute. Le
ideologie non sono religiose nel senso usuale della parola, e
certamente non hanno necessariamente a che fare con il divino; che
però posseggano molte delle caratteristiche significative delle
religioni, è cosa che non può essere messa in dubbio. Esse sono
quindi segno della ricomparsa della religiosità al centro della
vita pubblica secolare, un evento che nessuno studioso ‛secolare'
(salvo forse A. Comte) avrebbe immaginato possibile.
Come sono comparsi ‛culti' per riempire il vuoto nella vita
personale creato da una società industriale urbana, così sono
comparse le ideologie per riempire il vuoto lasciato nella vita
pubblica dall'arretramento delle religioni tradizionali. Ogni
cultura abbisogna - per prosperare o anche soltanto per
sopravvivere - di saldi e radicati fondamenti spirituali: un senso
profondo di ciò che è reale, di ciò che è vero, di ciò che ha
valore. Nel caso della cultura moderna, questi fondamenti
spirituali sono stati rappresentati dall'idea secolare del
‛progresso' quale l'abbiamo descritta: l'idea di una realtà
temporale e mutevole, che la scienza può comprendere e conoscere,
e di un processo il cui significato progressivo si disvela, nel
corso del tempo, con la realizzazione di una società autentica e
quindi di uomini autentici. Quest'idea ha ricevuto svariate forme
specifiche nelle due ideologie dominanti della nostra epoca:
l'ideologia liberale, democratica e capitalistica del ‛progresso'
e l'ideologia marxista. Entrambe hanno fornito, e tuttora
forniscono alla cultura secolare, i suoi fondamenti ‛religiosi':
un fatto che non era nelle aspettative di questa cultura (che
infatti non si è dimostrata disposta ad ammetterlo), ma che è
tuttavia facilmente riscontrabile nella realtà effettiva, se non
nella teoria, della società secolare (v. Ideologia).
Una caratteristica delle ideologie notata sia da Napoleone sia da
Marx è che si tratta di sistemi di idee o concetti ‛faziosi', che,
sotto la pretesa a una validità e rilevanza universali (cioè sotto
la pretesa alla ‛scientificità') mascherano un'avidità di potere,
di sicurezza e di dominio: da parte di una classe, di una nazione
o, in questo caso, di una cultura nel suo insieme (v. Gouldner,
1976; v. Lenk, 1970). In questo senso - al pari del capitalismo e
del comunismo, entrambi sua prole - la cultura secolare è stata
essa stessa ideologica, e le sue ‛verità' sono state più ‛faziose'
che ‛obiettive'. Come abbiamo notato, la concezione secolare ha
raffigurato la natura come oggettiva, intrinsecamente non
qualitativa; mancante di interna profondità, di integrità e quindi
di valore, e pertanto come un oggetto adatto per gli scopi umani.
Una tale concezione è in realtà una maschera ideologica,
un'interpretazione giustificativa dello sfruttamento.
Il carattere ‛ideologico' della scienza empirica moderna in
quanto ‟razionalizzazione del dominio umano sulla natura", e in
ultima analisi del dominio dell'uomo sull'uomo è stato analizzato,
tra gli altri, da H. Marcuse (v., 1964, specialmente capp. 6 e 7).
A sua volta, una cultura scientifica studia le sue proprie
istituzioni sociali ‛empiricamente', badando esclusivamente alla
loro realtà attuale, alle strutture, modelli di comportamento,
norme e mete quali appaiono qui e ora. Se si tratta di una società
capitalistica, la sua sociologia ‛scientifica' e la sua teoria
politica ed economica rifletteranno quindi unicamente - con ciò
tacitamente accettandole - le istituzioni capitalistiche. Di
conseguenza, non esiste la possibilità di avanzare una critica di
fondo della struttura istituzionale e normativa globale della
società; e lo stesso vale, naturalmente, per la scienza sociale
‛socialista'. La scienza sociale empirica sembra funzionare in
entrambi i casi come un'ideologia giustificatrice dello status
quo; il carattere ‛ideologico' della scienza sociale empirica è
stato sottolineato da molti critici interessati alla ‛riforma'
delle istituzioni altrettanto che alla loro ‛descrizione', come
per esempio E. Bloch (v., 1954-1959), J. Habermas (v., 1963) e la
Scuola di Francoforte (v. Jay, 1973).
Infine, posta dinanzi ad altre culture, specialmente ad altre
culture ‛religiose' (Islam, India, Cina, Giappone), la cultura
secolare le prende in esame ‛oggettivamente', vale a dire come
culture che ‛proiettano' nelle loro religioni i propri bisogni
economici, sociali e psicologici. Guarda dunque a esse con
condiscendenza, come culture premoderne, prescientifiche, ignare
della vera natura della realtà esterna, concentrate su questioni
religiose ‛irreali' e su soluzioni vane, culture insomma
‛primitive', destinate a essere soppiantate dall'evidente
superiorità della nostra cultura secolare. Questa condiscendenza
di fondo, e virtuale intolleranza, è considerata come
‛scientifica' e dunque come ‛oggettiva'; è da notare come non ci
sia gran differenza tra questo atteggiamento e l'esplicito
atteggiamento ideologico di molti dei primi missionari cristiani,
che consideravano le altre fedi come ‛idolatrie' e quindi, in
quanto ‛pagane', inutili per la vera salvezza, meritevoli soltanto
di essere sostituite dall'unica vera fede.
Nei suoi atteggiamenti verso le altre culture, la cultura
secolare si è dimostrata tutto fuorché obiettiva e tollerante;
anche nei casi più ‛liberali' è stata profondamente ideologica
nella pretesa alla propria definitività, nella sua mancanza di
rispetto per altre forme di vita culturale e religiosa e nella sua
indisponibilità a dare ascolto a voci differenti. W. Cantwell
Smith, lo storico dell'Islam e illustre filosofo della religione,
ha sottolineato il carattere ideologico del rapporto tra moderna
cultura secolare e altre culture, fondate su basi religiose
tradizionali. A suo avviso, l'insistenza della cultura secolare
sul valore dell'oggettività e sull'autorità e validità assolute
dell'approccio scientifico anche alla sfera religiosa, insistenza
associata all'interpretazione dominante delle religioni come
essenzialmente ‛sistemi di credenze' privi di garanzie empiriche,
è servita come base per un agevole predominio occidentale su
queste culture. Questa interpretazione, infatti, spogliando le
prospettive religiose non occidentali della ‛trascendenza' e
quindi del ‛senso di realtà e validità', preparava la via alla
supremazia della nuova visione secolare del mondo (v. Cantwell
Smith, 1979).
Un altro grave problema di una cultura che si proclami
ufficialmente secolare, che limiti cioè la discussione e critica
razionale alle questioni scientifiche e tecniche, è che fenomeni
religiosi inevitabili, come forme di fondamentalismo e ‛culti'
personali, fioriscono, per così dire, nell'ombra, sottraendosi
alla critica razionale, e quindi anche morale e religiosa. Come
l'evoluzione della nostra società secolare mostra, la religiosità
non scompare, bensì prospera ‛fuori' degli angusti confini
intellettuali che caratterizzano le accademie ufficiali della
cultura secolare. E alla fine la religione ritorna al centro come
ideologia predominante (come, verso la metà del secolo, in Italia,
Germania e Giappone, nell'Unione Sovietica attuale e chissà, in
futuro, negli Stati Uniti); essa governa e dirige allora, per i
propri fini, il potere tecnico e industriale della cultura.
Cercare di eliminare la dimensione religiosa della vita non può
voler dire sradicarla; significa soltanto incoraggiarla a
diventare demoniaca, a ricomparire in forme autodistruttive.
4. Conclusione
La nostra analisi, se valida, sembra contenere una ‛morale' circa
l'ascesa e il declino della cultura secolare dell'Occidente. Ci
sono pochi dubbi che le forze sociali e intellettuali che hanno
creato, sorretto e diffuso questa cultura - la scienza, la
tecnologia e l'industrialismo - si stiano scontrando con
contraddizioni di fondo, logoranti se non autodistruttive. Che la
cultura occidentale nel suo insieme abbia negli ultimi decenni
sofferto una grave perdita di potere e d'influsso, è un'altra cosa
di cui difficilmente si può dubitare (si pensi soltanto al
profondo mutamento intervenuto nell'equilibrio politico mondiale
dopo la seconda guerra mondiale). È difficile infine avanzare
ragionevoli dubbi sul fatto che sia l'Oriente sia l'Occidente
stanno perdendo la loro maschera ideologica.
Cade qui opportuno un cenno sul curioso destino dei due ideali
sociali fratelli della cultura secolare. Entrambi sembrano aver
tralignato dal loro intento originario, ed essersi di conseguenza
svuotati di contenuto, dovunque abbiano raggiunto il dominio
sociale (ancora una volta, ricordando in ciò le religioni
costituite). Gli ideali delle libertà o dei diritti individuali,
di libere elezioni, di iniziativa individuale - ideali che nel
Sette e Ottocento avevano stimolato le forze rivoluzionarie in
Francia, in America e poi dappertutto nel mondo - funzionano oggi
in America (del Sud e del Nord) e in Sudafrica come un'ideologia
del privilegio economico, e si sentono come slogan nei circoli
sportivi e nei luoghi di villeggiatura, quando non siano usati
dalle giunte militari. Corrispondentemente le idee marxiste,
dovunque siano dominanti, sembrano funzionare da giustificazione
ideologica del dominio del Partito o dell'Unione Sovietica (si
pensi alle lotte degli operai polacchi). Si direbbe che soltanto
nelle prigioni, in cui si rinchiudono gli oppositori, queste
ideologie si mantengano vitali e genuine: tra i marxisti
rivoluzionari nell'America Centrale e nel Sudamerica, e tra i
dissidenti liberali e democratici nell'Europa orientale e in
Russia.
Se un mutamento culturale, anche radicale, può esser visto nel
suo farsi, l'effettivo declino e disintegrazione di una cultura
possono essere affermati con certezza soltanto ‛dopo' il loro
verificarsi. Possibilità di rinnovamento esistono sempre, ad onta
delle difficoltà e ad onta della necessità di profonde
autocritiche e revisioni. Non sarebbe quindi saggio - né è mio
desiderio farlo - affermare perentoriamente, o predire, che la
fine della cultura occidentale postilluministica, ‛moderna',
incombe su di noi. Ciò che si può dire è che il carattere
‛secolare' di questa cultura ha ormai raggiunto un'impasse. La sua
fede assoluta nella ricerca scientifica e nell'intelligenza
scientifica in quanto fonti esclusive dei paradigmi definitivi
della conoscenza e della ragione; la sua convinzione che
l'accumulazione di beni, e quindi un crescente tenore di vita
attraverso l'espansione industriale, debba essere la meta di ogni
politica; e, infine, la sua certezza che i principali problemi
della comunità possano essere risolti semplicemente mediante
riforme politiche, sono tutti elementi che si rivelano ormai
bisognosi, in modo grave e urgente, di una riconsiderazione.
Certamente, la scienza, la tecnologia, la produzione industriale e
le riforme politiche sono, in sé e per sé, elementi immensamente
creativi, frutti positivi (al pari della religione) della
creatività umana sia intellettuale sia pratica; ma, come mostra la
storia della cultura, la loro assolutizzazione li rende (proprio
come nel caso della religione) sempre più ambigui e distruttivi:
se diventano - come sono diventati - una ‛religione', cominciano a
dispiegare un effetto disgregativo e finiscono con l'annientare
tutto ciò che avevano creato.
È possibile - come una saggia, anche se liberale, tradizione
religiosa ha per lungo tempo sostenuto - che l'ambiguità di questi
aspetti creativi della cultura moderna potrà diminuire se sarà
possibile raggiungere una più profonda autocomprensione e un più
saldo fondamento spirituale. Una più ampia interpretazione del
‛conoscere', tale da includere l'immaginativo, l'intuitivo,
l'artistico, il normativo e il religioso, è necessaria se la
ragione scientifica e tecnica non vuole autodistruggersi; un nuovo
rapporto spirituale con la natura deve fiorire, se vogliamo vivere
creativamente in essa in quanto portatori di una cultura
tecnologica e industriale; è infine necessaria una nuova
comprensione dell'ostinata soggezione dell'io dell'uomo (anche
dell'io intellettuale moderno) ai suoi interessi egoistici, come
anche una nuova fiducia in una finalità e in un potere - nella
storia - che non dipendano da noi.
È stato a lungo sostenuto, dalle tradizioni religiose che sono
venute a patti con l'ambiente secolare, che gli aspetti creativi
della secolarizzazione non esigono, né implicano affatto un
rifiuto della religione. Al contrario, essi esigono una qualche
base religiosa (o ‛teonoma'; v. Tillich, 1951, pp. 83-94; e 1948,
capp. III, IV e XIV), senza la quale, lasciati cioè alla loro base
meramente umana, vanno incontro all'autodistruzione. A sua volta
la religione, per liberarsi dalle sue proprie potenzialità
demoniache ed essere creatrice di valore, ha bisogno dell'elemento
secolare, cioè della continua critica da parte della ragione
scientifica, morale e artistica. Questa prospettiva, che l'autore
condivide, sembra essere stata ‛verificata' non tanto da nuove
argomentazioni teologiche e filosofiche quanto dagli stessi
sviluppi storici della nostra cultura secolare. Ciò di cui
abbisogniamo, quindi, è una ‛reintegrazione' di queste dimensioni
religiose, recentemente rinvigoritesi, nella vita scientifica,
tecnologica, politica, sociale e artistica, in modo tale che gli
elementi secolari acquistino una profondità religiosa e si
avvalgano della critica morale e religiosa, e le dimensioni
religiose, dal canto loro, ricevano l'incessante apporto della
critica e della cooperazione della creatività secolare.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Loredana Sciolla
Sommario: 1. Definizione. 2. Origini del concetto. 3. Teorie della
secolarizzazione: a) secolarizzazione come desacralizzazione; b)
secolarizzazione come 'privatizzazione' della religione; c)
secolarizzazione come trasposizione della religione alla sfera
secolare. 4. Tendenze recenti: verso un'analisi multidimensionale.
□ Bibliografia. Definizione
Il termine 'secolarizzazione' nella sua accezione più generale
riassume due aspetti diversi del processo di perdita di rilevanza
della religione nella vita sociale. Il primo aspetto consiste
nella differenziazione e autonomizzazione di ambiti della vita
sociale, ossia nel trasferimento di potere, attività e funzioni da
istituzioni religiose - che operano in un quadro di riferimento
sovrannaturale - a istituzioni orientate razionalmente ad
assolvere in maniera specializzata un particolare compito, come
avviene nella separazione Stato-Chiesa e nell'emancipazione
dell'istruzione dall'autorità ecclesiastica. A questo aspetto
sociostrutturale viene associato un secondo aspetto che si
riferisce più specificamente al piano culturale e riguarda il
cambiamento di vasta portata che si è determinato con
l'indebolimento dei contenuti religiosi nelle arti, in filosofia,
in letteratura e con il graduale affermarsi della scienza come
prospettiva autonoma.
Storicamente la secolarizzazione culturale si è presentata in
forme diverse. Nel contesto dell'Europa occidentale la cultura
umanistica del Rinascimento esaltò la potenza creatrice dell'uomo
sulla natura, che cessò di essere vista come mero riflesso del
progetto divino, e rivalutò le attività terrene, lo studio della
medicina e dell'etica, in luogo delle speculazioni metafisiche,
anticipando in parte la cultura laica settecentesca. Il
rinnovamento della vita religiosa avvenuto nel XVI secolo ad opera
della Riforma protestante, che contrappose il ritorno diretto al
Vangelo e il valore della coscienza individuale all'autorità della
gerarchia ecclesiastica, l'esercizio dei doveri civili al ritiro
entro le mura del chiostro, favorì la razionalizzazione etica e
l'affermarsi della distinzione tra la natura spirituale della
Chiesa e il potere temporale dello Stato. Il distacco della
cultura dal dominio delle istituzioni e dei simboli religiosi
trovò pieno compimento nel pensiero illuminista che, a partire
dalla fine del XVIII secolo, diffuse tra il pubblico colto europeo
il rifiuto dell'accettazione acritica della tradizione e la
convinzione che nessun campo della vita umana e sociale, comprese
la religione e la politica, dovesse sottrarsi all'indagine
razionale. Da questo progetto di razionalizzazione critica, che
necessariamente si scontrava con l'ambizione che ha ogni
religione, in quanto sistema di significati, di dare
un'interpretazione globale della società e del mondo, trae origine
la possibilità stessa di una scienza del sociale. L'importanza
fondamentale attribuita dal pensiero illuminista alla scienza
divenne, nell'indirizzo filosofico positivista del XIX secolo,
vera e propria esaltazione di essa come unica forma possibile di
conoscenza e unica guida dell'azione. Il positivismo, insieme al
materialismo di matrice socialista, accompagnò l'affermazione
della società industriale e costituì la base della cultura laica
dell'Ottocento, dando vita, nella seconda metà del secolo, a
società di libero pensiero denominate in Inghilterra 'secular
societies' in cui secularism, ossia l'indipendenza dei diritti del
cittadino da ogni forma di tutela religiosa, divenne la parola
d'ordine di un programma politico e ideologico che spesso assunse
un'impronta anticlericale o dichiaratamente atea.
Nell'uso scientifico, e nell'accezione generale indicata sopra, il
termine si afferma solo tra la fine dell'Ottocento e i primi del
Novecento con la sociologia classica (v. cap. 2). La sua storia è
però più antica e, secondo la ricostruzione di Hermann Lübbe (v.,
1965), se ne possono individuare diversi significati legati a
diversi momenti storici dell'Occidente cristiano moderno. Derivato
dal latino saeculum, il termine fu impiegato per la prima volta
durante le trattative per la pace di Vestfalia, nel 1648, per
designare il trasferimento di beni e territori dalla Chiesa a
possessori civili. Successivamente fu introdotto nel diritto
canonico per indicare la facoltà concessa dalla Chiesa a un
sacerdote di riprendere la vita nel mondo, restando sciolto dagli
obblighi dei voti. In entrambe queste accezioni il termine
rivestiva un significato giuridico ed era usato in maniera
avalutativa. In seguito il trasferimento di beni e competenze fu
inteso come un vero e proprio atto di usurpazione. Alla condanna,
da parte della Chiesa, della secolarizzazione come "liquidazione
illegittima di un potere religioso" si è però affiancata, nel XIX
secolo, l'approvazione di coloro, in particolare circoli
positivisti e laicisti, che all'opposto l'hanno salutata come
"liquidazione di un potere religioso illegittimo" (v. Lübbe, 1965;
tr. it., p. 34).
In questa evoluzione storica il termine ha finito dunque per
assumere connotazioni fortemente ideologiche e valutative,
designando - secondo i punti di vista - ora un processo
degenerativo di 'decristianizzazione' del mondo moderno, ora un
processo positivo di affrancamento della cultura da ogni forma di
tutela religiosa. Anche dopo il suo recupero, in un'accezione più
estensiva e in chiave descrittiva, da parte della sociologia
classica a cavallo del secolo, esso ha continuato a generare,
all'interno e all'esterno delle scienze sociali, un dibattito
ricorrente dai toni spesso polemici. La stessa rivalutazione della
secolarizzazione da parte della teologia, soprattutto protestante,
che a partire dalla seconda guerra mondiale ha auspicato l'avvento
della "città secolare" (v. Cox, 1965) come apertura a un
cristianesimo 'adulto', affrancato dal mito e quindi restituito
all'autenticità del suo messaggio, ha contribuito ad alimentare
fraintendimenti e prese di posizione polemiche. Non stupisce,
quindi, se periodicamente sono state avanzate critiche radicali
all'uso del concetto, che giungono perfino a proporne la
cancellazione dal vocabolario delle scienze sociali (v. Martin,
1969; v. Glasner, 1977).
Anche se posizioni tanto radicali appaiono poco convincenti e sono
state ampiamente smentite dall'ininterrotta tradizione di studi
teorici ed empirici che, dalla fase classica a oggi, il concetto
di secolarizzazione è stato in grado di orientare, occorre
tuttavia riconoscere che, nella sua formulazione generale, esso
presenta alcuni aspetti problematici che sono principalmente di
due tipi, tra loro strettamente collegati. Il primo riguarda le
condizioni spazio-temporali della sua applicabilità: il concetto
di secolarizzazione indica un processo di cambiamento sociale e,
quindi, pone il problema dell'individuazione del momento iniziale
di tale cambiamento e del modello secondo cui si ipotizza esso sia
avvenuto. Come è stato osservato (v. Martin, 1969; v. Glasner,
1977; v. Dobbelaere, 1981), spesso le analisi del processo di
secolarizzazione si basano sul presupposto implicito che siano
esistite una società integralmente religiosa e un'età dell'oro
della religione da cui avrebbe avuto inizio un costante e lineare
declino, siano esse identificate nell'alto Medioevo cristiano
dell'Occidente o in una più generica società primitiva. Questo
assioma è stato messo in discussione da studi storici e
antropologici. Mentre gli storici (v., ad esempio, Delumeau, 1975;
v. Werblowsky, 1976; v. Chadwick, 1979) hanno mostrato che
l'immagine di un Medioevo religioso risponde più a
un'idealizzazione del passato cristiano che all'effettiva realtà
storica, gli antropologi (v. Douglas, 1970) hanno sostenuto che
l'opposizione 'religioso/secolare' non si identifica con quella
'primitivo/moderno', in quanto le società primitive sarebbero
assai meno omogenee sul piano religioso di quanto si sia in genere
disposti ad ammettere e sarebbe, inoltre, provata l'esistenza di
culture tribali prive di un'esplicita dimensione religiosa. Al
problema rappresentato dall'individuazione dell'origine e della
linearità del processo di secolarizzazione corrisponde un secondo
problema che riguarda il modo in cui deve essere inteso lo stesso
declino della religione: se esso presenti anche un lato
soggettivo, se implichi cioè la perdita di ogni senso religioso
tra gli individui delle società moderne. A questo problema sono
state date risposte diverse, dipendenti principalmente dalla
definizione di religione che, in maniera esplicita o implicita,
viene adottata (v. cap. 3). Origini del concetto
La tematica della secolarizzazione si afferma nella sociologia
classica tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento,
introdotta - con esiti diversi - dai principali rappresentanti di
due differenti tradizioni di pensiero: Émile Durkheim e Max Weber.
Appartenenti a versanti opposti sul piano teorico-metodologico,
essi sono accomunati dall'interesse del tutto nuovo manifestato
dalla nascente disciplina sociologica per la religione e per il
suo rapporto con il processo di modernizzazione della società.
Durkheim, positivista per formazione intellettuale e per
convincimento personale, condivideva con il suo maestro Auguste
Comte sia la tesi che l'evoluzione storica implichi
necessariamente un declino dell'influenza della religione sulla
vita sociale e nella coscienza collettiva, sia l'idea che la
religione svolga la funzione fondamentale di tessuto connettivo
della società. In La divisione del lavoro sociale, anche se non
usa il termine 'secolarizzazione', Durkheim descrive
dettagliatamente il processo sociostrutturale di marginalizzazione
della religione e di differenziazione istituzionale che
caratterizza il passaggio dalla società tradizionale alla società
moderna: "Se dunque esiste una verità che la storia ha resa
indubbia, questa è proprio l'estensione sempre minore della
porzione di vita sociale che la religione ricopre. In origine essa
si estendeva a tutto; tutto ciò che era sociale era religioso: i
due termini erano sinonimi. In seguito, a poco a poco, le funzioni
politiche, economiche, scientifiche si sono rese indipendenti
dalla funzione religiosa, costituendosi a parte e assumendo un
carattere temporale sempre più accentuato. Dio - per così dire -
che in principio era presente a tutte le relazioni umane, si
ritira progressivamente da esse; abbandona il mondo agli uomini e
alle loro controversie" (v. Durkheim, 1893; tr. it., pp.
180-181).C'è, al fondo di questa analisi, la premessa, condivisa
da gran parte della teoria sociologica classica, che la divisione
del lavoro, l'industrializzazione, l'urbanesimo, la
moltiplicazione delle vie di comunicazione - in una parola la
modernizzazione della società - comportino l'erosione delle forme
di solidarietà del passato, basate su legami comunitari
caratterizzati da forti sentimenti collettivi e che questi ultimi
siano essenzialmente di tipo religioso. Solo pochi anni prima
della pubblicazione di La divisione del lavoro sociale, nella sua
opera più celebre Ferdinand Tönnies, partendo da posizioni
teoriche e intellettuali profondamente diverse da quelle che
motivavano la ricerca di Durkheim, aveva posto la premessa analoga
che l'evoluzione storica proceda da "un'età della comunità",
"definita dalla volontà sociale come concordia, costume e
religione", a un'"età della società", "definita dalla volontà
sociale come convenzione, politica, opinione pubblica" (v.
Tönnies, 1887; tr. it., p. 295). Anche da Tönnies la religione
viene associata a una particolare forma di relazione sociale,
caratterizzata da intensi e ristretti vincoli di appartenenza.
Anche per Tönnies lo sgretolamento di quella solidarietà che
"tiene insieme gli uomini come membri di un tutto" coincide con il
venir meno della religione, vero e proprio 'collante' del gruppo
sociale. Alla comunità religiosa si sostituisce, dunque, la
società secolarizzata, dominata da relazioni sociali di tipo
impersonale, contrattuale, atomizzato.
Per Durkheim la dissoluzione dell'antica forma di solidarietà -
definita "meccanica" -, che, come si è detto, riduce lo spazio
sociale della religione, non elimina tuttavia l'importanza della
funzione che essa assolve per la vita associata. La
secolarizzazione, nell'ottica durkheimiana e di quel copioso
filone di studi che a questa farà in seguito riferimento (v. §
3c), non significa la scomparsa della religione dal mondo moderno
ma la sua metamorfosi. A venir meno, in altri termini, è solo ciò
che comunemente si intende per religione, ossia una religione
basata sull'idea di divinità o di sovrannaturale e
sull'organizzazione religiosa della tradizione cristiana. Durkheim
- con un'impostazione destinata a suscitare innumerevoli
controversie, ma molto influente per la sua capacità di includere
nell'analisi sociologica una pluralità di fenomeni non
direttamente riconducibili alla tradizione religiosa occidentale -
considera 'religione' tutti i valori, credenze e riti capaci di
suscitare intensi sentimenti comuni e di generare, di conseguenza,
quel rispetto morale e quella coesione sociale necessari perché
una società possa sussistere in quanto tale. In questa prospettiva
diventa possibile nello stesso tempo analizzare aspetti come la
perdita del potere temporale della Chiesa, l'impotenza delle
istituzioni religiose a esercitare il controllo sui comportamenti
morali degli individui, la delegittimazione religiosa
dell'autorità politica, ecc., e identificare i nuovi riti,
credenze e istituzioni che nelle nostre moderne società
industriali continuano a svolgere le medesime funzioni di
integrazione sociale svolte in passato dalle religioni storiche.
Fin dalle sue prime opere Durkheim indica, non senza qualche
ambiguità, in quale direzione cercare le metamorfosi della
religione nelle società altamente differenziate. Si tratta -
usando un'espressione paradossale divenuta nella letteratura
attuale assai comune - di trasposizioni della sacralità a fenomeni
tipicamente secolari. L'alternativa funzionale alla religione
tradizionale viene trovata nel nuovo "culto dell'individuo" (v.
Durkheim, 1893; tr. it., p. 183) e nella sacralità della "persona
umana" che, pur non esprimendo alcuna ortodossia, "ha qualcosa
della trascendente maestà che le Chiese di ogni tempo conferiscono
ai loro dei; essa è concepita come investita di una proprietà
misteriosa che isola le cose sante, le sottrae ai contatti volgari
e le ritira dalla circolazione comune" (v. Durkheim, 1898; tr.
it., p. 284).
Per comprendere il contributo di Weber alla tematica della
secolarizzazione, più che ai singoli contesti in cui impiega il
termine Säkularisation, occorre fare riferimento alla sua analisi
del processo di razionalizzazione, che egli definisce, in rapporto
allo sviluppo socioculturale dell'Occidente, come "disincantamento
del mondo" (Entzauberung der Welt). Disincantamento significa
l'affermarsi di un'immagine del mondo per cui "non occorre più
ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi gli spiriti,
come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze. A ciò
sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici" (v. Weber, 1919; tr.
it., p. 20). Negli scritti di Sociologia della religione sotto il
segno del disincantamento Weber colloca due livelli distinti del
processo di razionalizzazione, uno esterno e uno interno alla
sfera religiosa. Solo il primo è peculiare al mondo occidentale
moderno e consiste fondamentalmente nell'autonomizzazione dalla
sfera religiosa delle altre sfere della vita, che ricorda, in un
senso molto generale, il processo di differenziazione descritto da
Durkheim. Non solo la sfera economica e la sfera politica tendono
a emanciparsi dalla religione e ad acquistare una loro "autonoma
legalità", ma anche le sfere estetica, erotica e intellettuale. Il
modello impiegato da Weber, diversamente da quello durkheimiano,
si basa però sul conflitto: le diverse sfere sono in un rapporto
di tensione, reciproca e con la religione, tensione che diventa
sempre più acuta con l'avanzare del processo di razionalizzazione.
Il contrasto più profondo si realizza nella sfera intellettuale
dove il razionalismo scientifico si scontra con l'orientamento
religioso volto a "cercare un 'senso' dell'accadere intramondano".
Così il razionalismo della scienza empirica, che ha una pretesa di
totalità e di autosufficienza, sospinge la religione nell'ambito
dell'irrazionale. La religione, quindi, non scompare interamente
dal mondo moderno, razionalizzato e disincantato, ma, spogliata di
ogni capacità di subordinare a sé i vari ambiti della vita
sociale, risulta confinata all'"incomunicabilità inafferrabile
dell'esperienza mistica" (v. Weber, 1920; tr. it., p. 553).
Il presupposto storico di questo aspetto del disincantamento del
mondo è individuato da Weber nel rapporto di 'affinità elettiva'
tra protestantesimo ascetico e spirito del capitalismo. In L'etica
protestante e lo spirito del capitalismo, pubblicata per la prima
volta in due saggi nel 1904 e 1905, la premessa della moderna
razionalità formale, di cui è espressione l'orientamento economico
capitalistico, è rappresentata dall'ascesi intramondana
caratteristica dell'etica protestante e, in particolare, del
calvinismo. L'immagine calvinista del rapporto uomo-Dio delinea
una situazione in cui l'uomo, eliminata la mediazione della grazia
sacramentale della Chiesa, rimane solo di fronte a Dio e, a
differenza di quanto avviene nel cattolicesimo, si impegna ad
agire nel mondo ad maiorem Dei gloriam, a trasformarlo in modo da
renderlo conforme ai precetti divini, cercando la 'conferma' della
salvezza nella vita professionale laica. L'orientamento religioso
calvinista, tuttavia, ha sortito sul piano storico un effetto
autodistruttivo: quanto più il mondo veniva razionalizzato in nome
di Dio, tanto più avanzava pretese di un riconoscimento autonomo,
indipendente da ogni riferimento religioso. La religione ha così
favorito lo sviluppo di un fattore - il moderno atteggiamento
razionale - che contribuirà alla sua dissoluzione.In L'etica
protestante e lo spirito del capitalismo Weber mette in luce anche
un secondo livello al quale cogliere il processo di
disincantamento, interno alla stessa sfera religiosa. Il
protestantesimo ascetico, che - come si è visto - favorisce il
sorgere dello spirito capitalistico, viene considerato come la
conclusione di "quel grande processo storico-religioso di
disincantamento del mondo che ebbe inizio con la profezia ebraica
antica e che, in unione con il pensiero scientifico greco, rigettò
come superstizione ed empietà tutti i mezzi magici di ricerca
della salvezza" (v. Weber, 1920; tr. it., p. 91). Se in
quest'opera Weber riconosce l'apporto determinante del giudaismo
antico al disincantamento del mondo e intende quest'ultimo nel
senso limitato di eliminazione delle tecniche magiche di salvezza,
nel capitolo di Economia e società dedicato al "sorgere delle
religioni" conferisce alla 'demagificazione' una più marcata e più
generale dimensione evolutiva.
Ernst Troeltsch, teologo liberale contemporaneo di Weber a cui era
legato da intensi scambi intellettuali, contribuisce in maniera
decisiva all'analisi storico-sociologica del rapporto esistente
tra cultura moderna e protestantesimo. Il rapporto con l'opera
weberiana emerge in Il protestantesimo nella formazione del mondo
moderno, dove Troeltsch (v., 1906) mostra come il primo abbia
favorito la formazione del secondo. La categoria di
secolarizzazione si presta a mettere in luce questo rapporto di
dipendenza. Diversamente da Weber, però, Troeltsch sottolinea come
la cultura moderna, con le sue idee di separazione tra Stato e
Chiesa, di tolleranza di organizzazioni ecclesiastiche diverse e
di libertà di professare il proprio credo religioso, sia una sorta
di figlia secolarizzata del protestantesimo. È, in altri termini,
sul rapporto di dipendenza e di continuità tra il cristianesimo -
ritenuto come il compimento di una totale interiorizzazione della
vita religiosa - e la moderna cultura razionalizzata che Troeltsch
sembra insistere, laddove invece per Weber il rapporto è assai più
complesso. Tra la razionalità dell'ascesi puritana e il
razionalismo utilitarista Weber non stabilisce un nesso causale,
perché molteplici sono stati i fattori che hanno condotto alla
società capitalistica moderna. Se si può dire che l'epoca moderna
sia, almeno in parte, il prodotto del protestantesimo, per Weber
non ne è comunque l'erede spirituale.
Come si può notare da queste brevi osservazioni, fin dall'origine
il concetto di secolarizzazione assume un significato comune ai
due grandi 'rami' della tradizione sociologica, quando mette a
fuoco il processo storico, a livello macrosociale, di
autonomizzazione delle diverse sfere della vita sociale
dall'influenza della religione. Da questo punto in poi, tuttavia,
le strade si biforcano. Weber, con l'analisi del processo di
disincantamento, si concentra sull'affinità tra religiosità
ascetica e razionalismo formale moderno, tendendo a prospettare
una situazione in cui all'indebolimento sociale della religione e
all'impossibilità della scienza di offrire sintesi se non di tipo
parziale, non subentra alcun nuovo tentativo di dare un senso
unitario al mondo. Durkheim, più interessato a cogliere i nuovi
fondamenti collettivi della solidarietà sociale nelle società
moderne, delinea un diverso scenario, in cui il restringimento
dello spazio sociale della religione genera, sì, la fine della
religione tradizionale, ma anche la trasposizione del suo nucleo
sacrale che, sotto nuove spoglie, continua ad assolvere la propria
funzione integratrice. Teorie della secolarizzazione
Dopo la fase classica della sociologia, solo intorno agli anni
trenta la categoria di secolarizzazione torna ad avere una certa
rilevanza nel lavoro dei sociologi americani Robert E. Park e
Howard Becker. In particolare quest'ultimo, rifacendosi
esplicitamente alla sociologia europea, riprende la dicotomia
tönnesiana comunità-società (v. Becker, 1932 e 1957) e interpreta
il passaggio dalla prima alla seconda come un processo universale
di secolarizzazione secondo una linea di sviluppo che va da un
massimo di chiusura e di resistenza al cambiamento dei valori
tradizionali a un massimo di apertura e di inclinazione a
ricercare nuovi valori.
Perché la categoria diventi centrale nelle scienze sociali
contemporanee bisogna però attendere gli anni sessanta e settanta,
in cui essa diventa oggetto di controversie teoriche e stimolo per
verifiche empiriche. Al suo recupero ha certo contribuito
l'emergere, negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale, di
'nuovi' movimenti religiosi che, con il loro carattere
prevalentemente giovanile, esotico e sincretistico, se da un lato
sembravano confermare il venir meno dell'attrattiva delle Chiese
tradizionali, dall'altro si prestavano a essere interpretati come
una risposta alle sfide della secolarizzazione. Gli approcci
teorici che si affermano in questi anni si riallacciano
esplicitamente all'interpretazione durkheimiana o a quella
weberiana e possono essere classificati, con qualche
semplificazione, in base al modo in cui viene concepita -
esplicitamente o implicitamente - la religione. Attenendoci a
un'accezione lata di 'teoria' come schema interpretativo della
realtà, si possono distinguere tre teorie della secolarizzazione o
tre varianti della tesi generale della secolarizzazione.
Secolarizzazione come desacralizzazione
Questo schema interpretativo prende le mosse da una definizione
sostantiva di religione come un insieme di pratiche, credenze e
affermazioni relative al 'soprannaturale'. La religione risulta
inestricabilmente legata a una concezione non razionale del mondo,
dominato da forze magico-sacrali. Anche se tale definizione si
applica a una varietà molto ampia di fenomeni, dai sistemi
teologici formali a elementi di religiosità popolare, l'ambito
resta circoscritto, almeno implicitamente, a una o più religioni
storiche. Ponendosi nel solco tracciato da Weber con il concetto
di disincantamento del mondo e combinando questo concetto con la
dicotomia comunità-società, di matrice tönnesiana, il sociologo
inglese Bryan R. Wilson sostiene che il processo di
secolarizzazione si manifesta nella coscienza sociale come perdita
di centralità dei riferimenti al soprannaturale. L'analisi del
declino dell'orientamento magico-sacrale e della sua sostituzione
con un orientamento razionale, fondato empiricamente, segue da
vicino l'interpretazione weberiana. Viene, rispetto a Weber,
maggiormente enfatizzato e semplificato il rapporto tra scomparsa
del sacro e dissoluzione dei rapporti sociali di tipo comunitario
espresso con il termine 'societarizzazione' (societalization: v.
Wilson, 1982; tr. it., p. 183). Mentre Weber considera la rottura
dei legami parentali come la condizione sia dell'indebolimento
della magia sia del sorgere dell'etica universalistica della
fratellanza tipica della religione di redenzione, per Wilson il
venir meno della comunità, in quanto gruppo locale stabile
caratterizzato da rapporti personali e familiari molto stretti,
comporta il declino delle rappresentazioni e dei simbolismi
religiosi la cui funzione è quella di celebrare e legittimare la
vita locale. La 'societarizzazione', risultato della crescita
dell'industria e del commercio su larga scala, dello sviluppo di
anonimi agglomerati urbani, dell'aumento dell'interdipendenza e
dell'impersonalità nelle relazioni tra gli individui e
dell'ampliamento delle cerchie sociali di riferimento, priva la
religione delle sue funzioni di integrazione morale e coincide,
pertanto, con la secolarizzazione.Il modello teorico, che intende
avere una validità generale, postula un processo di mutamento
storico lineare e irreversibile (v. Wilson, 1985, p. 17). Nella
storia religiosa dell'Occidente le riforme e i 'revivals' che si
sono periodicamente verificati, in ragione della loro tendenza
antisacerdotale e antisacramentale o, come succede nei nuovi
movimenti di origine americana, per il loro spiccato carattere
edonistico e individualistico, non sarebbero indicatori di più o
meno temporanee forme di 'risacralizzazione', ma al contrario
rappresenterebbero nuove modalità di adattamento alla realtà
secolarizzata. Per quanto riguarda il piano individuale il modello
teorico prevede la contrazione della religione nella sfera
privata. Questa contrazione è da intendersi, però, a differenza di
quanto fa l'approccio teorico che descriveremo nel prossimo
paragrafo, principalmente come assunzione di caratteri e
significati extrareligiosi, convenzionali o latamente culturali.
Formulata per la prima volta in uno dei più importanti contributi
alla sociologia della religione, che ha influenzato anche le
discipline storiche, soprattutto in Inghilterra (v. Wilson, 1966),
questa teoria della secolarizzazione è stata sottoposta a numerose
critiche. La principale obiezione, avanzata ancora recentemente in
campo storico (v. Brown, 1992, p. 38), riguarda la rigidità
dell'opposizione comunità-società e l'assunto del carattere
lineare del processo di secolarizzazione, in quanto passaggio
dall'una all'altra forma di organizzazione sociale.
Secolarizzazione come 'privatizzazione' della religioneTra gli
studi più noti e influenti sulla secolarizzazione vi sono quelli
condotti fin dai primi anni sessanta da Peter L. Berger e da
Thomas Luckmann. L'approccio teorico, sensibilmente diverso nei
due autori, ha un'esplicita matrice fenomenologica. In La sacra
volta Berger opera un ritorno deciso a Weber, di cui riprende
l'idea del ruolo propulsivo svolto dal protestantesimo nella
costruzione del mondo moderno, rintracciando, in maniera assai più
esplicita e netta di quanto non risultasse nell'opera weberiana,
le radici della secolarizzazione nell'Antico Testamento.
Quest'ultimo, introducendo una concezione radicalmente
trascendente di Dio, avrebbe dato inizio al disincantamento e alla
razionalizzazione etica, che poi avrebbero conosciuto una fase di
regresso con il cattolicesimo, attraverso il ristabilimento delle
mediazioni tra l'uomo e Dio.
L'apporto più innovativo di questo approccio sta nell'analisi
della "secolarizzazione soggettiva", ossia del modo in cui il
processo sociostrutturale di secolarizzazione si manifesta a
livello della coscienza (v. Berger, 1967; tr. it., p. 140). A
questo livello la secolarizzazione indica che la religione,
perduta la propria 'plausibilità' sociale, ossia la capacità di
imporre un ordine significativo alla realtà, si è ritirata nella
sfera privata. Al fondo di questo schema interpretativo vi è una
definizione essenzialista della religione che, allontanandosi da
Weber per ricollegarsi all'analisi fenomenologica di Rudolf Otto e
di Mircea Eliade, ne identifica la natura nell'esperienza del
'sacro', inteso come "potenza misteriosa e reverenziale" che
trascende il soggetto. Luckmann fornisce una definizione di
religione ancora più ampia di quella di Berger, rintracciandone il
nucleo essenziale nella "trascendenza della natura biologica da
parte dell'organismo umano" (v. Luckmann, 1963; tr. it., p. 62),
che rappresenta una costante antropologica ineliminabile.
La religione, che in passato si manifestava come 'cosmo sacro',
condiviso e capace di imporre un ordine all'esperienza sociale e
individuale, nella società industriale moderna si frammenta
generando un fenomeno di "pluralismo religioso" (v. Berger e
Luckmann, 1966), inteso come una vera e propria 'situazione di
mercato' in cui le istituzioni religiose diventano agenzie
commerciali in concorrenza reciproca e le tradizioni religiose
beni di consumo. La religione privatizzata e ormai ristretta a
specifiche enclaves della vita sociale rivela che, sul piano
soggettivo, essa si è individualizzata ossia è diventata una mera
questione di 'scelta' o di 'preferenza' personale. Mentre Berger
propende a ritenere che anche i contenuti religiosi tendano a
smitizzarsi e a psicologizzarsi per venire incontro alle richieste
dei 'consumatori', per Luckmann sullo scenario pluralistico della
società moderna si starebbe affermando una "religione invisibile",
diversa dalla tradizionale "religione di chiesa", una religione
non istituzionalizzata, dai confini incerti, instabile e
fluttuante nei contenuti, ruotanti comunque intorno
all'attribuzione di uno status sacro all'individuo.
La tesi della secolarizzazione come riduzione della religione a
fenomeno privato è stata all'origine di numerose ricerche di
sociologia della religione, ma è stata anche criticata sia per
l'eccessiva indeterminatezza della religione de-istituzionalizzata
sia per l'uso troppo rigido della dicotomia pubblico/privato che
trascurerebbe le tensioni tra le istituzioni di entrambi i
settori, in particolare tra la politica e la religione,
sovrastimando, inoltre, l'inattaccabilità della cosiddetta sfera
privata dal processo di secolarizzazione (v. Dobbelaere, 1981, p.
83).
Secolarizzazione come trasposizione della religione alla sfera
secolareA Talcott Parsons e a Robert N. Bellah si deve
l'elaborazione della tesi che nelle società industriali avanzate
il processo di differenziazione della Chiesa dalla società
secolare non ha diminuito la rilevanza della religione, essendo
andato di pari passo con l'istituzionalizzazione dei valori
cristiani. Questi due autori, insieme ai numerosi sociologi che
hanno seguito la loro strada, si riallacciano all'approccio
durkheimiano che presuppone, come si è visto, una definizione
funzionale della religione come forza integrativa e cemento della
società. Parsons fornisce un'interpretazione del rapporto tra
religione, valori e struttura sociale nel corso dello sviluppo
che, nell'Occidente moderno, è sfociato nell'industrialismo, in
parte alternativa alla tesi weberiana del disincantamento del
mondo. Il sociologo americano ricostruisce le diverse fasi che
hanno caratterizzato il rapporto tra il cristianesimo e la società
moderna - dal cristianesimo medievale alla Riforma e all'attuale
fase di "pluralismo denominazionale" giunta a maturazione nel XIX
e nel XX secolo - all'insegna della continuità di fondo dei valori
religiosi. Si tratta di un processo di progressiva
differenziazione, sia all'interno della sfera religiosa che tra
questa e la sfera secolare, in cui si afferma e si
istituzionalizza "la responsabilità religiosa dell'individuo
attraverso la rinuncia all'autorità tutoria da parte di una
'chiesa-genitore"' (v. Parsons, 1967; tr. it., p. 195). La
secolarizzazione, dunque, non elimina i valori religiosi né la
loro funzione integrativa rispetto alla società, ma li trasferisce
e li diffonde nella sfera morale laica. Il giudizio sul rapporto
tra religione e società moderna subisce addirittura un
rovesciamento rispetto ai due approcci precedenti, nel senso che
quest'ultima risulta "più conforme ai valori del cristianesimo di
quanto lo siano state le società che l'hanno preceduta" (ibid., p.
202).
Con il concetto di "religione civile", ripreso da Rousseau, Bellah
(v., 1967) intende descrivere i caratteri salienti della cultura
americana che, in accordo con la tesi parsonsiana
dell'istituzionalizzazione dei valori cristiani nella società
moderna, viene concepita come un insieme condiviso e dato per
scontato di valori, simboli, riti collettivi derivati dalla
tradizione cristiana, ma trasformati e adattati a legittimare
l'identità nazionale. Con concetti analoghi, come quelli di
"religione secolare" (v. Parsons, 1974) o di "religione politica"
(v. Sironneau, 1982), si intende fare riferimento ad altri
"equivalenti funzionali" della religione tradizionale, in
particolare alle grandi ideologie politiche contemporanee come il
marxismo e il nazionalsocialismo.
Anche questo approccio teorico, che ha avuto largo seguito in
sociologia, non è stato esente da critiche. Non solo è stato
criticato l'uso del concetto di "equivalenti funzionali" della
religione, per cui ogni fenomeno (o istituzione) che assolve alla
funzione di integrare la società risulta per definizione
'religioso', ma più specificamente è stata messa in luce la
tendenza a sottostimare gli aspetti contraddittori e conflittuali
dei sistemi di valori delle moderne società industriali (v. Fenn,
1970). Tendenze recenti: verso un'analisi multidimensionale
Le critiche, numerose e spesso radicali, rivolte alle differenti
teorie della secolarizzazione non hanno condotto all'abbandono del
concetto da parte delle scienze sociali, come da alcuni auspicato;
piuttosto sono state all'origine di un ripensamento critico che è
sfociato, a partire dagli anni ottanta, in un nuovo indirizzo di
studi orientato a una maggiore operatività empirica. Al fine di
ottenere una maggiore chiarezza concettuale e di evitare i
ragionamenti circolari che hanno spesso resa confusa e sterile la
discussione sulla secolarizzazione, si è ritenuto prioritario
precisare i livelli di analisi e le dimensioni teoriche del
concetto. Riprendendo orientamenti espressi in passato (v. Glock,
1959; v. Shiner, 1967), studi recenti ne hanno sottolineato il
carattere multidimensionale (v. Dobbelaere, 1981; v. Sciolla,
1988; v. Wallis e Bruce, 1992).
Karel Dobbelaere (v., 1981) ha identificato tre dimensioni
fondamentali. La prima, che si colloca a livello macrosociologico,
riguarda il processo di differenziazione strutturale e funzionale
delle istituzioni, e viene chiamata anche 'laicizzazione'. La
seconda concerne il cambiamento degli stessi universi religiosi,
ossia la loro tendenza a mondanizzarsi nella prospettiva di
analisi aperta da Weber e da Berger. La terza dimensione fa
riferimento al livello microsociologico, in quanto riguarda i
comportamenti - la pratica e l'appartenenza religiose - e le
credenze degli individui. La distinzione tra le differenti
dimensioni consente di ipotizzare che esse possano variare in
misura diversa e anche in direzione diversa l'una dall'altra.
Diventa, in questo quadro, intelligibile il caso americano, su cui
si sono scontrati numerosi studiosi dei processi di
secolarizzazione: è la società occidentale con il maggior grado di
differenziazione istituzionale e di pluralismo, e quindi la più
secolarizzata sulla prima dimensione, ma con il livello più alto -
e in continua crescita dall'ultimo decennio del XIX secolo fino
agli anni cinquanta del XX - di appartenenza alle diverse
denominazioni religiose (v. Brown, 1992, p. 46), e quindi la meno
secolarizzata sulla terza dimensione.
Una concezione multidimensionale evita, inoltre, l'assunto,
oggetto di molte critiche da parte di sociologi e storici,
dell'irreversibilità e della linearità evolutiva del processo di
secolarizzazione. Le diverse dimensioni, intese non come le molte
facce di un processo unitario, ma come dimensioni distinte,
ciascuna dotata di una propria storia e di una propria logica
interna, possono presentare profili storici diversi, con andamenti
ciclici, caratterizzati da fasi di desecolarizzazione e di
risecolarizzazione (v. Ricolfi, 1988). Fa parte integrante di
questo nuovo indirizzo di studi una maggiore attenzione a definire
i limiti di validità del concetto, generalmente circoscritto
all'ambito delle società cristiane (v. Martin, 1978, p. 2), a
stabilire la 'base' storica su cui valutare il processo di
secolarizzazione (almeno per quanto riguarda il livello
macrosociale), indicata nell'epoca del papato di Innocenzo III (v.
Dobbelaere, 1981, p. 35), a considerare la sua variabilità secondo
i diversi tipi di contesto socioculturale (v. Martin, 1978; v.
Dobbelaere, 1981; v. Wallis e Bruce, 1992). La ricostruzione e
l'analisi comparata delle serie storiche di dati sull'appartenenza
e sulla pratica religiosa nel XIX e nel XX secolo, in alcune tra
le principali società europee e negli Stati Uniti, consentono non
solo di cogliere le grandi differenze tra i diversi paesi, ma di
mostrare i rapporti complessi e non deterministici che si sono
instaurati tra industrializzazione e urbanizzazione da un lato e
religione dall'altro. Opponendosi a una versione meccanicistica
del processo di secolarizzazione, alcune recenti ricerche
sociologiche e storiche (v. Martin, 1978; v. Brown, 1992; v.
McLeod, 1981 e 1992) mostrano che esso, durante i tre secoli
passati, nell'Europa occidentale e in America, si è realizzato in
maniera molto più marcata in alcuni paesi rispetto ad altri, ha
avuto un andamento alterno, non lineare e spesso in rapporto
inverso con le grandi ondate di migrazione verso le città, ed è
stato in certa misura modificato da fattori contrastanti, come
l'emergere, soprattutto nei paesi protestanti, di forme settarie e
movimenti evangelici favoriti proprio dalla debolezza delle Chiese
istituzionali.